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Hedge fund, derivati e ribassi ingiustificati

I ladroni di Wall Street pagheranno

Il mondo alla fine del fondo

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+++  Crisi e venti di guerra affondano le Borse  +++  Aumenta la volatilità sui mercati finanziari, rimbalzano le borse USA  +++

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  Hedge fund, derivati e ribassi ingiustificati

07 Ottobre 2002   09:54   Rimini (ITA)

 

Paese Indice % ultima settimana

% a un anno

     

 

New York S&P500 -3,2%

-25,15%

Londra Liffe -2,4%

-23,97%

Francoforte Dax -7,0%

-40,31%

Parigi Cac40 -5,3%

-34,08%

Milano Mib30 -4,2%

-23,01%



Questi i numeri dell'ennesima settimana finanziaria svoltasi all'insegna dell'estrema volatilità.
La situazione che si è venuta delineando mese dopo mese è molto simile a quella creatasi nel periodo
di fine 1999 - inizio 2000, mesi in cui la bolla speculativa al rialzo raggiunse il suo picco più alto.
Allora si saliva senza razionalità e la miopia regnava sovrana, ad essere coinvolti erano piccoli e grandi investitori indistintamente.
Oggi la situazione si ripete, ma al contrario. Si crea giornalmente ed improvvisamente "panic selling" senza che nessuno si sappia spiegare le ragioni.

Lunedì gli "esperti" del settore, o chi ha ancora il coraggio di ritenersi tale, affermavano che le cause principali del crollo erano rappresentate dal pericolo guerra Iraq, dall'incertezza economica e dagli immancabili profit warning.
Il giorno dopo, però, il rimbalzo era giustificato esattamente con gli stessi argomenti capovolti. Mercoledì lo S&P 500 da -3% è passato positivo per poi ripiombare nel baratro. Tutto nell'arco di due ore.

Come questi, di esempi simili se ne potrebbero fare moltissimi. La verità è che i mercati sono diventati totalmente inaffidabili per i comuni investitori ed altamente redditizi per gli esperti speculatori.
Il perché di tutto questo?
Se lo sapessimo potremmo consideraci marziani, ma forse una componente che si dovrebbe prendere maggiormente in considerazione e che, invece, raramente viene citata nelle analisi è quella degli "strumenti derivati".
Questi ultimi, infatti, permettono di effettuare operazioni nel brevissimo, puntando indifferentemente al rialzo o al ribasso dei mercati. Sono delle vere e proprie scommesse utilizzate dai piccoli investitori più esperti, ma, principalmente, dai professionisti più esperti e dagli stessi gestori di Hedge fund.
La loro presenza sul mercato è diventata sempre più pressante mese dopo mese. La tecnologia ha permesso la diffusione su larga scala di questi strumenti finanziari, prima utilizzati dai grandi investitori quasi esclusivamente come copertura su operazioni rialziste.
Oggi, invece, rappresentano gli strumenti più adatti per operare nel breve e cavalcare l'onda borsistica, rialzista o ribassista che sia.

Ci meraviglia Greenspan quando afferma che proprio i derivati hanno aiutato a stabilizzare l'andamento economico.
Probabilmente anche lui sottovaluta il fenomeno che genera eccessi e che sta avendo ripercussioni anche a livello macroeconomico.
Dopo la corporate governance, ci auguriamo che
la Sec si renderà al più presto conto che bisogna regolamentare e vigilare con maggiore attenzione anche sulle manovre speculative.
Queste ultime, infatti, imperversano sul mercato grazie agli strumenti messi a disposizione proprio dal mondo finanziario legalizzato.  

                                                                          Studio C.F.A.

 

  I ladroni di Wall Street pagheranno

03 Ottobre 2002   14:43   Milano (ITA)

Eliot Spitzer, procuratore generale dello Stato di New York, in cui ha sede legale Citigroup, una delle maggiori banche del mondo, ha svelato un intreccio che sembra fraudolento fra la banca di investimento Salomon Smith Barney, posseduta da Citigroup, e i capi di grandi imprese high-tech, come Bernie Ebbers di WorldCom.

Nella fase iniziale dell’offerta pubblica, la banca “girava” azioni di tali compagnie ai loro capi. In cambio otteneva la gestione di tali operazioni e forniva una consulenza che ne dimostrava la convenienza.

In aggiunta, la sezione analisi e ricerche di Salomon attribuiva un voto in classifica, cioè un rating, molto elevato alle compagnie che emettevano le azioni. Così fioccavano gli acquisti da parte dei fondi e del pubblico degli azionisti.

A Wall Street le quotazioni salivano e i capi d’impresa che le avevano avute in via preliminare (il cosiddetto spinning), le rivendevano lucrando cospicue differenze.

Ma poi le azioni di WorldCom e di altre società in cui era stato praticato lo spinning a favore dei capi, sono andate a picco e centinaia di migliaia di azionisti arrabbiati, in base alle leggi antifrode, hanno fatto causa a Citigroup.

Eliot Spitzer non è certo di vincere in tribunale la propria causa, ma ha sventolato le prove raccolte sotto il naso di Harvey Pitt, presidente della Sec, la Consob degli Usa, che da anni indaga vanamente sullo spinning.

Pitt ha promesso che interverrà nell’ambito dei suoi poteri ed è probabile che Citigroup riconosca le sue responsabilità patrimoniali, per miliardi di dollari, nei confronti degli azionisti danneggiati.

La notizia tuttavia non ha fatto scendere le azioni. La sua reputazione era già danneggiata dai rumors sulla inchiesta di Spitzer. Anzi. E’ probabile che, riconoscendo le proprie colpe, Citigroup recuperi addirittura credibilità.

Il capitalismo americano si autocorregge sulla base dell’iniziativa degli azionisti e di pubblici ministeri che, con la loro azione, restaurano in modo pragmatico l’interesse di chi ha investito i propri soldi. Interesse che le banche e i capitani di industria, in alcuni casi importanti, hanno “scientemente” violato.

© Il Foglio per Wall Street Italia, Inc.

fonte Wall Street Italia.com

 

domenica  6  ottobre  2002   mercoledì  16  ottobre  2002   mercoledì  30  ottobre  2002
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  Il mondo alla fine del fondo

05 Ottobre 2002   15:57   Milano (di Roberta Carlini e Stefania Chinzari)

"Ciò che è buono per Wall Street è buono per il mondo". Questo sembra essere il motto del Fondo monetario Internazionale, che aggiorna il più famoso detto di Charles E. Wilson a proposito degli interessi della General Motors e quelli degli Stati Uniti.

Allora, gli interessi di una multinazionale dell'auto al posto di quelli del popolo americano (Wilson era stato presidente della Gm prima di essere Segretario alla Difesa Usa); oggi, l'imposizione degli interessi della comunità finanziaria nelle istituzioni di governo dell'economia mondiale, anche in quella Banca Mondiale nel cui ingresso campeggia la scritta «Il nostro sogno è un mondo senza povertà».

La denuncia non viene dai radicali di The Nation né da un marxista europeo, ma da Joseph E. Stiglitz, economista americano post-keynesiano, già consigliere di Bill Clinton alla Casa Bianca, vicepresidente e chief economist della Banca Mondiale dal `97 al 2000, premio Nobel per l'economia nel 2001.

Autore del libro-scandalo dell'anno, «Globalization and its discontents», appena uscito in Italia con il titolo «La globalizzazione e i suoi oppositori» (Einaudi, € 19): tutto quel che non va nella globalizzazione e tutti i fallimenti delle istituzioni del «Washington consensus» (Fondo monetario, Banca Mondiale e Tesoro americano).

Fallimenti visti molto, molto da vicino, da quel professore clintoniano colpito ed emozionato come uno scolaretto al suo primo ingresso nell'atrio marmoreo e luccicante della Banca Mondiale e da quella scritta delle origini, tanto diversa dal motto di Wilson.

DOMANDA: Il suo giudizio è molto netto: le istituzioni di Bretton Woods, e in particolare il Fmi, hanno cambiato missione. Dovevano stabilizzare i mercati e rimediare ai loro fallimenti, sono diventate strumenti di quello che lei chiama il «fondamentalismo di mercato». Lei è stato in una di queste istituzioni - la Banca Mondiale - per tre anni. Quando è scattata l'ora X? C'è stato un episodio scatenante della sua critica all'operato del Fmi?

RISPOSTA: Sì, è stata la vicenda dell'Etiopia. Un paese con i fondamentali economici a posto: niente inflazione, crescita al 5%, un governo impegnato nell'aiutare i poveri, niente deficit di bilancio, insomma un paese che faceva tutto quel che doveva: eppure il Fondo sospese il programma.

Lì è stato molto chiaro che si aveva a che fare con qualcos'altro, non con la preoccupazione per le condizioni reali di quel paese. Le motivazioni economiche della sospensione dell'assistenza erano davvero pessime. In quel caso fui totalmente sostenuto dalla Banca Mondiale, e abbiamo lavorato duramente per spostare le posizioni del Fmi.

Guardi, a volte le cose si presentano più grigie, più sfumate: il paese non è perfetto, il giudizio è più incerto; ma nel caso dell'Etiopia non c'era niente di grigio, era tutto chiaro. Allora, stava accadendo qualcos'altro: o era sbagliata l'economia, o la politica.

DOMANDA: Non solo errori, lei dice. E nel libro denuncia la prevalenza degli interessi dei creditori e della comunità finanziaria occidentale.

RISPOSTA: C'è un mix di diverse questioni. Ci sono stati sicuramente errori economici molto gravi. E' successo in Indonesia, dove hanno fatto chiudere 16 banche: quello è stato di sicuro un errore, non è stata ideologia ma stupidità pura.

E' stato un errore tecnico il fatto che hanno sottostimato l'estensione della crisi nel sud est asiatico. Ma l'insistenza nel non ricorrere alle procedure del fallimento e nello scegliere invece il salvataggio, proprio nel caso asiatico, nasconde anche un forte interesse. Quando si è trattato di decidere sulla strategia migliore, non hanno messo l'accento su cosa sarebbe stato meglio per la Thailandia, la Corea, l'Indonesia, ma hanno pensato di più a cosa sarebbe stato meglio per salvaguardare le probabilità che i creditori venissero ripagati.

DOMANDA: A proposito dello scontro tra interessi finanziari e interesse delle popolazioni locali: Lula, il candidato anti-Fmi, potrebbe vincere le elezioni in Brasile. Cosa gli augura e cosa gli consiglia?

RISPOSTA: Spero che la comunità internazionale rispetti la scelta della gente fatta con elezioni democratiche e collabori con il Brasile, sostenga le politiche che lui farà, le quali rifletteranno il modo di vedere di una gran parte dell'elettorato brasiliano.

Quel che è interessante del Brasile è che sulla maggior parte della politica economica c'è accordo tra i candidati e i consiglieri economici; hanno una democrazia viva e una forte discussione sulla politica economica. Le sfide del Brasile sono molto forti: ci sono stati progressi significativi negli ultimi anni, ma non hanno ridotto la povertà e l'ineguaglianza.

DOMANDA: E' la prima volta che una critica profonda alle politiche del Fmi viene da un insider, da «dentro il recinto». Come è stato accolto dall'establishment e dal mondo accademico?

RISPOSTA: Dalla Banca Mondiale c'è stato un vasto sostegno, perché molti economisti lì dentro condividevano la mia stessa frustrazione nei rapporti con il Fmi. Anche nella comunità accademica ho avuto un ampio supporto, ad esempio da gente come John Williamson, che è uno degli inventori della formula del «consenso di Washington». Persino membri della comunità finanziaria - che metto sotto accusa nel libro - hanno apprezzato quanto ho scritto.

DOMANDA: Questo è abbastanza sorprendente.

RISPOSTA: Beh, si tratta comunque di persone che hanno una testa pensante. Gente come George Soros può aver tirato fuori un sacco di soldi dal sistema, ma comunque riconosce i fallimenti del sistema.

Quanto alle critiche: qualche accademico mi ha accusato di aver semplificato troppo, cosa normale quando si vuole raggiungere una cerchia di lettori vasta. E io penso che è meglio semplificare una teoria complicata che dà una migliore descrizione del mondo che semplificare una cattiva descrizione del mondo quale quella fornita dalle teorie del «consenso di Washington».

Molte delle questioni che ho sollevato, come quella della liberalizzazione del mercato dei capitali, le avevo già scritte 5 o 6 anni fa. Oggi molti economisti si dicono d'accordo con me, ad esempio circa il ruolo delle istituzioni nel controllare i flussi finanziari.

DOMANDA: Questo fa pensare che le cose possano cambiare...

RISPOSTA: Si e no. Un esempio è la discussione recente sul fallimento. Nella crisi dell'est asiatico io avevo sostenuto un maggior ricorso alle procedure di fallimento, con il Fmi fortemente contrario. Ora invece ne parlano molto apertamente, il che è positivo.

D'altro lato ancora non capiscono che non puoi avere un procedimento fallimentare nel quale un creditore centrale - il Fmi - è anche il giudice del fallimento. Non hanno ancora affrontato gli aspetti democratici fondamentali della questione. E poi ci sono gli aspetti politici, con gli Stati Uniti che spesso bloccano con il loro veto possibili soluzioni positive.

DOMANDA: Lei chiede «una globalizzazione dal volto umano». L'augurio è che la formula abbia più successo di quella del «socialismo dal volto umano». Ma può dirci in sintesi in cosa consiste «il volto umano»?

RISPOSTA: La globalizzazione può avere molti aspetti positivi: la globalizzazione della democrazia, dei diritti umani; della società civile, della conoscenza. In paesi come quelli dell'Asia orientale stanno volgendo la globalizzazione a loro vantaggio: hanno una crescita orientata all'export ma non la liberalizzazione dei mercati dei capitali; mantenendo una loro impronta, un loro controllo, sono riusciti non solo a crescere ma anche a ridurre la povertà, rafforzando - anzi creando - democrazie.

In molti posti la globalizzazione rappresenta uno stimolo alla diversità culturale. Ma purtroppo in tantissimi posti non è andata così. E non solo per colpa del Fmi. Certo io parlo soprattutto del Fmi, delle vicende nelle quali sono stato coinvolto, ma anche del Wto, credo che il suo funzionamento sia la questione all'ordine del giorno oggi.

Parlando più in generale: la globalizzazione richiede che la gente lavori insieme. Richiede azione collettiva globale. Dunque è totalmente incompatibile con l'attuale unilateralismo americano. A livello internazionale la democrazia non vuole dire votare per un presidente del mondo, ma avere un'attitudine di base democratica.

E l'elemento essenziale per farlo è dare la voce: quando si prendono delle decisioni che hanno conseguenze sulla vita della gente, occorre che le loro opinioni in qualche modo vengano ascoltate. Il voto è un modo per farlo, ma non è il solo. Il problema è che l'amministrazione Bush ha un approccio alla globalizzazione fondamentalmente non democratico, unilaterale.

DOMANDA: E' possibile che, dopo l'11 settembre e la crisi del capitalismo americano, nell'amministrazione e nella finanza Usa si veda la guerra permanente come via d'uscita alla crisi?

RISPOSTA: No, non penso. Il terrorismo è un problema, dobbiamo fare tutto quello che possiamo per tenerlo a freno, ma occorre andare alle radici del problema, ossia provare a fare qualcosa contro la povertà, la disperazione, tutto ciò che nutre il terrorismo.

No, non credo che ci sia un grande sostegno alla guerra come via d'uscita dalla crisi. Credo che ci sia una crescente preoccupazione sul fatto che nella lotta al terrorismo mondiale stiamo compromettendo i nostri diritti civili, ci stiamo dirigendo verso un governo sempre più segreto, così minando i fondamenti della nostra democrazia.

DOMANDA: Come giudica la crisi di fiducia aperta dal caso Enron? E' vero che è «l'11 settembre» dei mercati?

RISPOSTA: Il caso Enron mostra la debolezza fondamentale del fondamentalismo di mercato. Mostra che il mercato in sé ha problemi di ogni tipo, che riguardano tutti. Mostra che i mercati non sono autoregolati, hanno bisogno dei governi.

E se questo succede in un'economia con le istituzioni più avanzate, lunga esperienza, un livello medio di trasparenza, buone informazioni, problemi ancora maggiori possono sorgere in situazioni più svantaggiate.

Non è l'11 settembre, se non nel fatto che è una sveglia. Non che sia la prima: si sapeva che la deregulation non funzionava, ma il Fmi l'ha applicata comunque a tutto il mondo. E' difficile imparare qualcosa dalle esperienze, soprattutto quando prevalgono ideologie e interessi particolari.

DOMANDA: In conclusione, il suo libro è ottimista o pessimista?

RISPOSTA: E' un libro fondamentalmente ottimista. Io sono uno che crede nel potere della democrazia, della discussione, della trasparenza. Uno dei motivi della situazione in cui siamo è che il Fmi e la globalizzazione non sono stati sottoposti a nessun tipo di verifica democratica. Tutto è stato trattato come un problema tecnico, per esperti. Adesso è cresciuto l'interesse pubblico e anche la contestazione e la pressione per un cambiamento.

                        

fonte Wall Street Italia.com