indice articoli
martedì 1 ottobre 2002 | sabato 5 ottobre 2002 | venerdì 11 ottobre 2002 | ||
....... | ....... | |||
clicca qui per scaricare questa pagina in formato PDF | clicca qui per scaricare questa pagina in formato PDF | clicca qui per scaricare questa pagina in formato PDF |
Hedge fund, derivati e ribassi ingiustificati
07
Ottobre 2002
Paese | Indice | % ultima settimana |
% a un
anno |
|
|||
New York | S&P500 | -3,2% |
-25,15% |
Londra | Liffe | -2,4% |
-23,97% |
Francoforte | Dax | -7,0% |
-40,31% |
Parigi | Cac40 | -5,3% |
-34,08% |
Milano | Mib30 | -4,2% |
-23,01% |
Questi i numeri dell'ennesima settimana finanziaria
svoltasi all'insegna dell'estrema volatilità.
La situazione che si è venuta delineando mese dopo mese
è molto simile a quella creatasi nel periodo di fine 1999 - inizio 2000, mesi
in cui la bolla speculativa al rialzo raggiunse il suo picco più alto.
Allora si saliva senza razionalità e la miopia regnava
sovrana, ad essere coinvolti erano piccoli e grandi investitori indistintamente.
Oggi la situazione si ripete, ma al contrario. Si crea
giornalmente ed improvvisamente "panic selling" senza che nessuno si
sappia spiegare le ragioni.
Lunedì gli "esperti" del settore, o chi ha
ancora il coraggio di ritenersi tale, affermavano che le cause principali del
crollo erano rappresentate dal pericolo guerra Iraq, dall'incertezza economica e
dagli immancabili profit warning.
Il giorno dopo, però, il rimbalzo era giustificato
esattamente con gli stessi argomenti capovolti. Mercoledì lo S&P 500 da -3%
è passato positivo per poi ripiombare nel baratro. Tutto nell'arco di due ore.
Come questi, di esempi simili se ne potrebbero fare
moltissimi. La verità è che i mercati sono diventati totalmente inaffidabili
per i comuni investitori ed altamente redditizi per gli esperti speculatori.
Il perché di tutto questo?
Se lo sapessimo potremmo consideraci marziani, ma forse
una componente che si dovrebbe prendere maggiormente in considerazione e che,
invece, raramente viene citata nelle analisi è quella degli "strumenti
derivati".
Questi ultimi, infatti, permettono di effettuare
operazioni nel brevissimo, puntando indifferentemente al rialzo o al ribasso dei
mercati. Sono delle vere e proprie scommesse utilizzate dai piccoli investitori
più esperti, ma, principalmente, dai professionisti più esperti e dagli stessi
gestori di Hedge fund.
La loro presenza sul mercato è diventata sempre più
pressante mese dopo mese. La tecnologia ha permesso la diffusione su larga scala
di questi strumenti finanziari, prima utilizzati dai grandi investitori quasi
esclusivamente come copertura su operazioni rialziste.
Oggi, invece, rappresentano gli strumenti più adatti
per operare nel breve e cavalcare l'onda borsistica, rialzista o ribassista che
sia.
Ci meraviglia Greenspan quando afferma che proprio i
derivati hanno aiutato a stabilizzare l'andamento economico.
Probabilmente anche lui sottovaluta il fenomeno che
genera eccessi e che sta avendo ripercussioni anche a livello macroeconomico.
Dopo la corporate governance, ci auguriamo che
Queste ultime, infatti, imperversano sul mercato grazie
agli strumenti messi a disposizione proprio dal mondo finanziario legalizzato.
Studio C.F.A.
I ladroni di Wall Street pagheranno
03
Ottobre 2002
Eliot Spitzer, procuratore generale dello Stato di New York, in cui ha
sede legale Citigroup, una delle maggiori banche del mondo, ha svelato un
intreccio che sembra fraudolento fra la banca di investimento Salomon Smith
Barney, posseduta da Citigroup, e i capi di grandi imprese high-tech, come
Bernie Ebbers di WorldCom.
Nella fase iniziale dell’offerta pubblica, la banca “girava”
azioni di tali compagnie ai loro capi. In cambio otteneva la gestione di tali
operazioni e forniva una consulenza che ne dimostrava la convenienza.
In aggiunta, la sezione analisi e ricerche di Salomon attribuiva un voto
in classifica, cioè un rating, molto elevato alle compagnie che emettevano le
azioni. Così fioccavano gli acquisti da parte dei fondi e del pubblico degli
azionisti.
A Wall Street le quotazioni salivano e i capi d’impresa che le avevano
avute in via preliminare (il cosiddetto spinning), le rivendevano lucrando
cospicue differenze.
Ma poi le azioni di WorldCom e di altre società in cui era stato
praticato lo spinning a favore dei capi, sono andate a picco e centinaia di
migliaia di azionisti arrabbiati, in base alle leggi antifrode, hanno fatto
causa a Citigroup.
Eliot Spitzer non è certo di vincere in tribunale la propria causa, ma
ha sventolato le prove raccolte sotto il naso di Harvey Pitt, presidente della
Sec, la Consob degli Usa, che da anni indaga vanamente sullo spinning.
Pitt ha promesso che interverrà nell’ambito dei suoi poteri ed è
probabile che Citigroup riconosca le sue responsabilità patrimoniali, per
miliardi di dollari, nei confronti degli azionisti danneggiati.
La notizia tuttavia non ha fatto scendere le azioni. La sua reputazione
era già danneggiata dai rumors sulla inchiesta di Spitzer. Anzi. E’ probabile
che, riconoscendo le proprie colpe, Citigroup recuperi addirittura credibilità.
Il capitalismo americano si autocorregge sulla base dell’iniziativa degli azionisti e di pubblici ministeri che, con la loro azione, restaurano in modo pragmatico l’interesse di chi ha investito i propri soldi. Interesse che le banche e i capitani di industria, in alcuni casi importanti, hanno “scientemente” violato.
©
domenica 6 ottobre 2002 | mercoledì 16 ottobre 2002 | mercoledì 30 ottobre 2002 | ||
....... | ....... | |||
clicca qui per scaricare questa pagina in formato PDF | clicca qui per scaricare questa pagina in formato PDF | clicca qui per scaricare questa pagina in formato PDF |
05
Ottobre 2002
"Ciò che è buono per Wall Street è buono per il mondo".
Questo sembra essere il motto del Fondo monetario Internazionale, che aggiorna
il più famoso detto di Charles E. Wilson a proposito degli interessi della
General Motors e quelli degli Stati Uniti.
Allora, gli interessi di una multinazionale dell'auto al posto di quelli
del popolo americano (Wilson era stato presidente della Gm prima di essere
Segretario alla Difesa Usa); oggi, l'imposizione degli interessi della comunità
finanziaria nelle istituzioni di governo dell'economia mondiale, anche in quella
Banca Mondiale nel cui ingresso campeggia la scritta «Il nostro sogno è un
mondo senza povertà».
La denuncia non viene dai radicali di The Nation né da un marxista
europeo, ma da Joseph E. Stiglitz, economista americano post-keynesiano, già
consigliere di Bill Clinton alla Casa Bianca, vicepresidente e chief economist
della Banca Mondiale dal `97 al 2000, premio Nobel per l'economia nel 2001.
Autore del libro-scandalo dell'anno,
«Globalization and its discontents»,
appena uscito in Italia con il titolo «La globalizzazione e i suoi oppositori»
(Einaudi, € 19): tutto quel che non va nella globalizzazione e tutti i
fallimenti delle istituzioni del «Washington consensus» (Fondo monetario,
Banca Mondiale e Tesoro americano).
Fallimenti visti molto, molto da vicino, da quel professore clintoniano
colpito ed emozionato come uno scolaretto al suo primo ingresso nell'atrio
marmoreo e luccicante della Banca Mondiale e da quella scritta delle origini,
tanto diversa dal motto di Wilson.
DOMANDA: Il suo giudizio è molto netto: le istituzioni di Bretton
Woods,
e in particolare il Fmi, hanno cambiato missione. Dovevano stabilizzare i
mercati e rimediare ai loro fallimenti, sono diventate strumenti di quello che
lei chiama il «fondamentalismo di mercato». Lei è stato in una di queste
istituzioni - la Banca Mondiale - per tre anni. Quando è scattata l'ora X? C'è
stato un episodio scatenante della sua critica all'operato del Fmi?
RISPOSTA: Sì, è stata la vicenda dell'Etiopia. Un paese con i
fondamentali economici a posto: niente inflazione, crescita al 5%, un governo
impegnato nell'aiutare i poveri, niente deficit di bilancio, insomma un paese
che faceva tutto quel che doveva: eppure il Fondo sospese il programma.
Lì è stato molto chiaro che si aveva a che fare con qualcos'altro, non
con la preoccupazione per le condizioni reali di quel paese. Le motivazioni
economiche della sospensione dell'assistenza erano davvero pessime. In quel caso
fui totalmente sostenuto dalla Banca Mondiale, e abbiamo lavorato duramente per
spostare le posizioni del Fmi.
Guardi, a volte le cose si presentano più grigie, più sfumate: il
paese non è perfetto, il giudizio è più incerto; ma nel caso dell'Etiopia non
c'era niente di grigio, era tutto chiaro. Allora, stava accadendo qualcos'altro:
o era sbagliata l'economia, o la politica.
DOMANDA: Non solo errori, lei dice. E nel libro denuncia la prevalenza
degli interessi dei creditori e della comunità finanziaria occidentale.
RISPOSTA: C'è un mix di diverse questioni. Ci sono stati sicuramente
errori economici molto gravi. E' successo in Indonesia, dove hanno fatto
chiudere 16 banche: quello è stato di sicuro un errore, non è stata ideologia
ma stupidità pura.
E' stato un errore tecnico il fatto che hanno sottostimato l'estensione
della crisi nel sud est asiatico. Ma l'insistenza nel non ricorrere alle
procedure del fallimento e nello scegliere invece il salvataggio, proprio nel
caso asiatico, nasconde anche un forte interesse. Quando si è trattato di
decidere sulla strategia migliore, non hanno messo l'accento su cosa sarebbe
stato meglio per la Thailandia, la Corea, l'Indonesia, ma hanno pensato di più
a cosa sarebbe stato meglio per salvaguardare le probabilità che i creditori
venissero ripagati.
DOMANDA: A proposito dello scontro tra interessi finanziari e interesse
delle popolazioni locali: Lula, il candidato anti-Fmi, potrebbe vincere le
elezioni in Brasile. Cosa gli augura e cosa gli consiglia?
RISPOSTA: Spero che la comunità internazionale rispetti la scelta della
gente fatta con elezioni democratiche e collabori con il Brasile, sostenga le
politiche che lui farà, le quali rifletteranno il modo di vedere di una gran
parte dell'elettorato brasiliano.
Quel che è interessante del Brasile è che sulla maggior parte della
politica economica c'è accordo tra i candidati e i consiglieri economici; hanno
una democrazia viva e una forte discussione sulla politica economica. Le sfide
del Brasile sono molto forti: ci sono stati progressi significativi negli ultimi
anni, ma non hanno ridotto la povertà e l'ineguaglianza.
DOMANDA: E' la prima volta che una critica profonda alle politiche del
Fmi viene da un insider, da «dentro il recinto». Come è stato accolto
dall'establishment e dal mondo accademico?
RISPOSTA: Dalla Banca Mondiale c'è stato un vasto sostegno, perché
molti economisti lì dentro condividevano la mia stessa frustrazione nei
rapporti con il Fmi. Anche nella comunità accademica ho avuto un ampio
supporto, ad esempio da gente come John Williamson, che è uno degli inventori
della formula del «consenso di Washington». Persino membri della comunità
finanziaria - che metto sotto accusa nel libro - hanno apprezzato quanto ho
scritto.
DOMANDA: Questo è abbastanza sorprendente.
RISPOSTA: Beh, si tratta comunque di persone che hanno una testa
pensante. Gente come George Soros può aver tirato fuori un sacco di soldi dal
sistema, ma comunque riconosce i fallimenti del sistema.
Quanto alle critiche: qualche accademico mi ha accusato di aver
semplificato troppo, cosa normale quando si vuole raggiungere una cerchia di
lettori vasta. E io penso che è meglio semplificare una teoria complicata che dà
una migliore descrizione del mondo che semplificare una cattiva descrizione del
mondo quale quella fornita dalle teorie del «consenso di Washington».
Molte delle questioni che ho sollevato, come quella della
liberalizzazione del mercato dei capitali, le avevo già scritte 5 o 6 anni fa.
Oggi molti economisti si dicono d'accordo con me, ad esempio circa il ruolo
delle istituzioni nel controllare i flussi finanziari.
DOMANDA: Questo fa pensare che le cose possano cambiare...
RISPOSTA: Si e no. Un esempio è la discussione recente sul fallimento.
Nella crisi dell'est asiatico io avevo sostenuto un maggior ricorso alle
procedure di fallimento, con il Fmi fortemente contrario. Ora invece ne parlano
molto apertamente, il che è positivo.
D'altro lato ancora non capiscono che non puoi avere un procedimento
fallimentare nel quale un creditore centrale - il Fmi - è anche il giudice del
fallimento. Non hanno ancora affrontato gli aspetti democratici fondamentali
della questione. E poi ci sono gli aspetti politici, con gli Stati Uniti che
spesso bloccano con il loro veto possibili soluzioni positive.
DOMANDA: Lei chiede «una globalizzazione dal volto umano». L'augurio
è che la formula abbia più successo di quella del «socialismo dal volto umano».
Ma può dirci in sintesi in cosa consiste «il volto umano»?
RISPOSTA: La globalizzazione può avere molti aspetti positivi: la
globalizzazione della democrazia, dei diritti umani; della società civile,
della conoscenza. In paesi come quelli dell'Asia orientale stanno volgendo la
globalizzazione a loro vantaggio: hanno una crescita orientata all'export ma non
la liberalizzazione dei mercati dei capitali; mantenendo una loro impronta, un
loro controllo, sono riusciti non solo a crescere ma anche a ridurre la povertà,
rafforzando - anzi creando - democrazie.
In molti posti la globalizzazione rappresenta uno stimolo alla diversità
culturale. Ma purtroppo in tantissimi posti non è andata così. E non solo per
colpa del Fmi. Certo io parlo soprattutto del Fmi, delle vicende nelle quali
sono stato coinvolto, ma anche del Wto, credo che il suo funzionamento sia la
questione all'ordine del giorno oggi.
Parlando più in generale: la globalizzazione richiede che la gente
lavori insieme. Richiede azione collettiva globale. Dunque è totalmente
incompatibile con l'attuale unilateralismo americano. A livello internazionale
la democrazia non vuole dire votare per un presidente del mondo, ma avere
un'attitudine di base democratica.
E l'elemento essenziale per farlo è dare la voce: quando si prendono
delle decisioni che hanno conseguenze sulla vita della gente, occorre che le
loro opinioni in qualche modo vengano ascoltate. Il voto è un modo per farlo,
ma non è il solo. Il problema è che l'amministrazione Bush ha un approccio
alla globalizzazione fondamentalmente non democratico, unilaterale.
DOMANDA: E' possibile che, dopo l'11 settembre e la crisi del
capitalismo americano, nell'amministrazione e nella finanza Usa si veda la
guerra permanente come via d'uscita alla crisi?
RISPOSTA: No, non penso. Il terrorismo è un problema, dobbiamo fare
tutto quello che possiamo per tenerlo a freno, ma occorre andare alle radici del
problema, ossia provare a fare qualcosa contro la povertà, la disperazione,
tutto ciò che nutre il terrorismo.
No, non credo che ci sia un grande sostegno alla guerra come via
d'uscita dalla crisi. Credo che ci sia una crescente preoccupazione sul fatto
che nella lotta al terrorismo mondiale stiamo compromettendo i nostri diritti
civili, ci stiamo dirigendo verso un governo sempre più segreto, così minando
i fondamenti della nostra democrazia.
DOMANDA: Come giudica la crisi di fiducia aperta dal caso
Enron? E' vero
che è «l'11 settembre» dei mercati?
RISPOSTA: Il caso Enron mostra la debolezza fondamentale del
fondamentalismo di mercato. Mostra che il mercato in sé ha problemi di ogni
tipo, che riguardano tutti. Mostra che i mercati non sono autoregolati, hanno
bisogno dei governi.
E se questo succede in un'economia con le istituzioni più avanzate,
lunga esperienza, un livello medio di trasparenza, buone informazioni, problemi
ancora maggiori possono sorgere in situazioni più svantaggiate.
Non è l'11 settembre, se non nel fatto che è una sveglia. Non che sia
la prima: si sapeva che la deregulation non funzionava, ma il Fmi l'ha applicata
comunque a tutto il mondo. E' difficile imparare qualcosa dalle esperienze,
soprattutto quando prevalgono ideologie e interessi particolari.
DOMANDA: In conclusione, il suo libro è ottimista o pessimista?
RISPOSTA: E' un libro fondamentalmente ottimista. Io sono uno che crede
nel potere della democrazia, della discussione, della trasparenza. Uno dei
motivi della situazione in cui siamo è che il Fmi e la globalizzazione non sono
stati sottoposti a nessun tipo di verifica democratica. Tutto è stato trattato
come un problema tecnico, per esperti. Adesso è cresciuto l'interesse pubblico
e anche la contestazione e la pressione per un cambiamento.