Indice cronologico articoli segnalati in Previsioni 2006
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In
assenza di accurate scelte di politica economica del governo Usa, nei prossimi
due anni assisteremo ad una serie di sconvolgimenti
sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression”. *Dario Bianchi e' il Managing Director di Capitalife, Inc. www.capitalife.com.
E’
tempo di cambiamenti dirompenti sui mercati finanziari internazionali. In
questo momento il dollaro ha raggiunto i
minimi storici contro l’Euro. Non si vedevano cambi di questo genere dagli
anni '70, quando Nixon separò il golden standard dal dollaro. Nel
lontano 1972 l’oro veniva quotato $32 per oncia. Se oggi tutte le valute
fossero legate ad un “hard asset” come l’oro,
o l’argento, la maggior parte dei paesi non dovrebbe fare continuo ricorso
alla creazione di carta moneta, ed i problemi monetari sarebbero
complessivamente e globalmente più gestibili.
Il valore di ogni moneta sarebbe solido,
la speculazione non intaccherebbe le valute con l’attuale intensità e si
eviterebbe un’eccessiva espansione della massa monetaria.
In aggiunta, i governi non avrebbero a disposizione leve finanziarie e non
spenderebbero più fondi di quelli realmente disponibili. Il risultato sarebbe
una tassazione più bassa ed equa, ed un risparmio più alto. Dobbiamo
assumere che, non avendo esercitato tale
disciplina monetaria negli ultimi 30 anni, il governo degli Stati Uniti e quelli
Europei difficilmente la applicheranno in futuro. Se
il crescente debito degli USA ed il deficit corrente continueranno sugli attuali
livelli, il sistema di cambi che oggi conosciamo verrà distrutto.
Quanto tempo è necessario prima che questo accada? Difficile dirlo con
precisione, ma dobbiamo essere consapevoli che, in assenza di accurate scelte di
politica economica, nei prossimi due anni assisteremo ad una serie di
sconvolgimenti sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression”
degli anni 30. Il dilemma
del Real Estate In
un recente articolo, The Economist riporta che “negli ultimi tre anni
il valore totale del real estate residenziale nei paesi industrializzati, ha
avuto un incremento da un valore totale di circa $20,000 miliardi, ad uno
approssimativo di $60,000 miliardi. Anche se ciò
è in parte dovuto al declino del dollaro, è pur sempre il doppio
dell’incremento di $10,000 miliardi, che avvenne dal 1999 al 2000 con
l’esplosione del mercato azionario. E’ questa la più grande bolla della storia?” Questo
articolo ci fa capire come l’economia si sia sostenuta dal 2000 ad oggi.
Prendendo
come riferimento i principali indicatori real estate per queste previsioni
economiche, vediamo come lo scenario può
evolvere. Vari fattori portano a ritenere che nel 2005 e 2006, in alcune zone
degli USA (East Coast and West Coast) ed alcuni paesi Europei (Inghilterra,
Italia, Spagna, Olanda e Irlanda), centinaia di migliaia di persone non avranno
fondi a sufficienza per pagare i mutui, specialmente quelli legati ai tassi a
breve ed all’inflazione (in USA chiamati ARM’s). Questo porterà ad una
riduzione del valore del real estate residenziale. Difficile prevedere le proporzioni di tale fenomeno: se il prezzo delle case diminuirà fino ad un 10%, la riduzione sarà ordinata e l’economia potrà sopravvivere e progredire. Se il prezzo scenderà dal 20% al 25%, potremo assistere, analogamente a quanto successe all’inizio degli anni '90, a proprietari che abbandonano le loro case alle banche. A questo punto un intervento governativo si renderà necessario. Ricordate la Resolution Trust Corporation, quando il salvataggio del governo americano era costato all’erario circa 500 miliardi di dollari? Se questo scenario dovesse ripetersi, in USA ci vorranno dai $700 miliardi ai $1.000 miliardi (un bilione) di denaro fresco per prevenire il collasso di molte banche. Il
paragone potrebbe essere il mercato immobiliare Giapponese dal 1991 al 2003.
Dove è possibile trovare una somma di questo tipo? D’accordo,
qualche investitore straniero, visti i prezzi molto bassi, comprerà real estate
in USA, ma la maggioranza verrà dal governo federale che dovra’ ricorrere
all’emissione di Treasury Bonds. A
questo punto chiediamoci chi comprerà gli US Treasury Bonds per finanziare il
deficit federale, considerando il contemporaneo deficit statale, delle società
private, dei singoli individui e, soprattutto, una capacità di risparmio
praticamente inesistente? I cinesi, o forse i giapponesi?
E per quanto tempo? A quale costo? Dove andranno a finire i prezzi delle
commodities? Continueranno ad essere trattati in dollari? Cosa farà l’OPEC?
Potrebbe decidere domani di convertire il prezzo dai dollari agli Euro, oppure
in un basket di valute che comprende il dollaro, l’euro e lo yen. Cosa farà
la Russia? Contratti di gas naturale in Euro? Se il governo USA non diminuisce il
proprio deficit corrente e riduce il debito che ha raggiunto $8.000 miliardi, si
puo' essere certi che avremo inflazione e stagnazione allo stesso tempo.
In
ogni caso la nostra opinione e' che il prezzo dell’oro andrà a $500 per oncia
prima della fine del 2005. E i tassi di interesse a breve (federal funds)
saranno tra il 3.5% ed il 3.75% alla fine del 2005.
Asset
allocation Nello
scenario di cui sopra ogni investitore dovrebbe essere preparato da tempo a
diversificare in valute. Il nostro model portfolio è dinamico ed attualmente
strutturato come segue: 40% in dollari US, il resto in Euro, Sterlina Inglese,
Dollaro Australiano, Dollaro Canadese. Per
quanto riguarda l’asset allocation il nostro model portfolio è il seguente: 10%
cash o money market
7%
azioni di miniere di oro e argento, certificati di investimento in oro (Perth
Mint Certificate), fondi che investono
in oro, e monete d’oro 33%
in azioni di vario tipo (Life Sciences al 40%) e mutual
funds 20%
in mercati esteri ed emergenti attraverso fondi di investimento
30% in obbligazioni a breve termine (3 anni) in differenti valute, con rating A o superiore.
Fonte • By Dario A. Bianchi • Capitalife, Inc.
Un
dollaro del 1913, anno in cui fu costituita 11 Gennaio 2005 02:00 Milano (di Francesco Arcucci)
La
moneta all’interno di un Paese deve essere creata dalle autorità monetarie su
base discrezionale oppure in stretto rapporto con un bene reale, tipicamente
l’oro? Il primo modo di creare
moneta è detto, in particolare negli Stati Uniti, moneta tratta dall’area
sottile (out
of thin air) o anche "sia fatta la moneta" (fiat money)
e presenta molti vantaggi rispetto alla moneta merce. In particolare quello di
venir offerta per qualità e quantità in relazione all’evoluzione del Pil o
anche per stimolare lo sviluppo del medesimo e, quindi, in funzione anticiclica
(abbondante in fase recessiva e più scarsa in fase di espansione eccessiva).
Tuttavia
la moneta fiat è intrinsecamente inflazionistica e profondamente immorale. E’
inflazionistica perché le autorità monetarie, per non sbagliare in senso
restrittivo (provocando recessione), tendono ad esagerare in senso espansivo.
Gli oppositori della fiat money portano a sostegno della loro tesi che, nel
tempo, nessuna fiat money ha conservato inalterato , o quasi inalterato, il suo
valore. Anche
in un Paese come gli Stati Uniti, avente grandi risorse e vincitore di due
guerre mondiali, un dollaro del 1913, anno in cui fu costituita Così
si eliminerebbe la tendenza intrinsecamente inflazionistica e si ripristinerebbe
un sistema monetario sano e non immorale.
Dove l’immoralità consiste nel fatto che le persone devono lavorare e
faticare tutta la vita per ottenere quella moneta che per la banca centrale è
solo un piccolo giro di rotativa. Ma
tant’è. Il ritorno ad una moneta merce, a livello nazionale, è improponibile
perché si tratterebbe di ingabbiare lo sviluppo e di far dipendere il ciclo
economico dalla disponibilità di oro. Se
il capitalismo tentasse di ritornare ancora su questa strada sarebbe spazzato
via in breve tempo dalla furiosa reazione delle masse popolari che, in certi
periodi, sarebbero ridotte alla fame. Rimane, quindi, solo la moneta atto
di volontà con i suoi peccati originali intrinseci fra cui – come si è detto
quello di essere inflazionistica. Per
questo le banche centrali vedono nell’inflazione il prodotto delle loro azioni
e insieme la loro bestia nera, il nemico con cui combattere una battaglia
incessante, continua, senza quartiere. Questo
è il paradosso delle banche centrali del ‘900, o di questo secolo, rispetto
ai vecchi istituti di emissione dell’800: creare necessariamente
inflazione e combattere senza tregua la loro creatura. Fiat
money e inflazione sono due fratelli gemelli e, contemporaneamente, due nemici
acerrimi. E così è stato sempre, dal New Deal roosveltiano della metà degli
anni ’30 alla fine degli anni ’80. Ma
poi è venuto lo shock: l’esperienza giapponese degli anni ’90.
L’esperienza, cioè, di un Paese in cui la banca centrale, attrezzata a
combattere l’inflazione, si è trovata indifesa contro la deflazione.
E a questo punto i banchieri centrali hanno giurato a se stessi di fare
qualunque cosa pur di non trovarsi invischiati nell’accoppiata moneta
fiat/deflazione. In
particolare il banchiere centrale che, con più convinzione, ha giurato a se
stesso di evitare questa accoppiata funesta è stato Greenspan. Anche
perché egli ha capito che, essendo il Giappone un Paese creditore e i
giapponesi dei grandi risparmiatori la deflazione ha prodotto ivi danni
consistenti al sistema economico, ma limitati. Negli
Stati Uniti, Paese debitore e i cui cittadini sono indebitati fino al collo, gli
effetti della deflazione sarebbero catastrofici.
Un certo grado di inflazione è cioè connaturato al buon funzionamento
dell’economia americana. La
deflazione, gonfiando i valori reali dei debiti, sarebbe sconvolgente a livello
macro e micro economico. Pur di evitare questa tragedia Greenspan non si è peritato, negli ultimi anni, di inondare il suo Paese, e indirettamente il mondo, di liquidità, minacciando quasi di lanciare i dollari sulla popolazione con gli aerei. Che questo comportamento della Fed potesse generare una nuova bolla speculativa, un nuovo rialzo insano dei prezzi delle azioni, dei bonds, degli immobili, delle materie prime era secondario. Che poi questa politica monetaria si scaricasse sulla debolezza del dollaro abbassando il cambio fino a livelli inimmaginabili in termini di potere d’acquisto era ininfluente. Per sopravvivere occorre fare una lotta senza quartiere alla deflazione. Poi si discute. Primum vivere, deinde philosophari.
F
Tra le conclusioni a cui sono giunti gli esperti del Consiglio nazionale dell’intelligence degli Stati Uniti, c'è questa: il terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare e a cambiare strategie e tattiche, nei prossimi anni. 19 Gennaio 2005 03,15 Roma Quando
si analizza lo stesso problema a lungo e a breve termine spesso si giunge a
conclusioni diametralmente opposte. E’ il caso, per esempio, della
minaccia posta dal terrorismo di matrice islamica alla sicurezza degli Stati
Uniti. Mapping
the Global Future è un dossier accessibile al pubblico in cui il Consiglio
nazionale dell’intelligence discute il proprio ruolo futuro, in quanto
centro di studio strategico per il governo di Washington, a lungo termine. Negli
ultimi sette anni sono stati stilati tre dossier di questo tipo: il primo
analizzava i trend globali fino al 2010, il secondo fino al 2015, mentre è
stato pubblicato giovedì un terzo dossier che prende in considerazione lo
scenario internazionale fino al 2020. Rispetto
ai due progetti precedenti, quest’ultimo si è basato su simulazioni
computerizzate e una consultazione di oltre un migliaio di esperti, che
collaborando tra loro e in base alle rispettive competenze hanno contribuito a
sviluppare il futuro scenario politico, strategico e della sicurezza da oggi al
2020, lavorando per circa un anno. I
risultati dei vari workshop sono a disposizione del pubblico sul sito internet
della Cia cliccando sulla pagina del National
Intelligence Council. Una
della conclusioni a cui gli esperti del Consiglio d’intelligence sono giunti
è che il terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare nei prossimi
anni che, come in molti sostenevano già da prima, la globalizzazione fornirà
agli estremisti mezzi sempre maggiori e a basso costi e che (forse è
questa la notizia meno aspettata) il
terrorismo diverrà sempre più innovativo: «I terroristi probabilmente saranno
più originali, non tanto per quel che riguarda la tecnologia o le armi di cui
faranno uso, quanto piuttosto secondo l’aspetto operativo - cioè
nell’estensione, il progetto o la logistica di supporto di ogni attacco». Come
a dire che c’è da aspettarsi un aumento della creatività del modus operandi
degli estremisti indipendentemente dai progressi tecnologici che essi
riusciranno a compiere; il che non significa che non stiano cercando di
acquisire nuovi mezzi scientifici. Secondo il dossier, infatti, «esiste la
preoccupazione che i terroristi possano impossessarsi di agenti biologici
oppure, meno probabilmente, di ordigni nucleari». In
particolare, la minaccia del bioterrorismo è sembrata agli esperti più reale,
perché le armi biologiche «sono particolarmente adatte a gruppi piccoli e bene
informati». Stando
agli esperti, infatti, in tempo di globalizzazione il terrorismo di matrice
islamica andrà sviluppandosi in cellule di dimensioni sempre più ridotte e
meglio addestrate , che però si terranno in contatto tra loro, e internet
faciliterà la condivisione di materiali per la guerra e l’addestramento.
Al Qaida, insomma, è destinata ad essere gradualmente rimpiazzata da un network
di entità islamiste «sempre più decentralizzato, che si evolverà in una
schiera eclettica di gruppi, cellule ed individui senza alcun quartiere generale».
Davanti alla prospettiva di un simile scenario, il Consiglio d’intelligence
suggerisce un approccio al terrorismo «su diversi fronti», proprio in virtù
della prevista decentralizzazione e ubiquità della minaccia islamista. Secondo il dossier, inoltre, la capacità militare, politica, e tecnologica degli Stati uniti è destinata a crescere nei prossimi 15 anni, tanto che Washington manterrà il suo ruolo di guida mondiale nonostante l’ascesa di India e Cina, che pur avrà “impatti drammatici” sull’equilibrio internazionale.
Fonte - Il Riformista
Cinque anni di corsa sfrenata (+45%) ma adesso i costi delle abitazioni rischiano di diventare "insostenibili". Anche se gli operatori, in Italia, non vedono "almeno a breve, alcun rischio di bolla per il mercato del real estate". 10 Febbraio 2005 16:27 Roma (ANSA) Cinque
anni di corsa sfrenata, ora è allarme: i prezzi delle case rischiano di
diventare "insostenibili". Il richiamo, forte, è della Banca Centrale
Europea, anche se gli operatori, in Italia, non vedono, "almeno a breve,
alcun rischio di bolla per il mercato immobiliare". I prezzi delle case, in
Italia, sono infatti più bassi rispetto a quelli di Francia e Gran Bretagna e,
quest'anno, cresceranno di un modesto 4,1%, quindi - sostengono gli operatori -
"poco più dell'inflazione" e nulla in confronto al +12% segnato nel
2004 ed al +45% dell'ultimo quinquennio. Il
mercato, comunque, è destinato a crescere ancora: "non avendo altro
settore in cui investire" gli italiani continueranno a puntare sul mattone.
"L'effetto congiunto dell'abbondante liquidità e della forte espansione
del credito potrebbe indurre incrementi non sostenibili dei prezzi sui mercati
immobiliari in alcune parti dell'area euro, avverte La
domanda di mutui per l'acquisto di abitazioni continua a essere sostenuta,
contribuendo alla vigorosa dinamica dei prezzi degli immobili
residenziali". Affermazione questa che trova riscontro negli ultimi dati
della Banca d'Italia, dai quali emerge che in dicembre 2004 le richieste di
mutui hanno raggiunto livelli record attestandosi a 180 miliardi di euro, circa
30 miliardi miliardi in più rispetto all'anno precedente. A
gettare acqua sull'allarme giunto da Francoforte sono gli operatori del mercato
immobiliare italiano, convinti che "ci sia una scarsa percezione" del
caro-prezzi, imputabile al fatto che il mercato è mosso ed alimentato
soprattutto da coloro che vendono una casa per acquistarne un'altra. "Solo
una piccola parte degli acquirenti è composta da famiglie che si affacciano per
la prima volta al mercato, circa un 20% - spiega il presidente di Scenari
Immobiliari, Mario Breglia - Il mercato è mosso da un notevolissimo ricambio
interno dove la percezione del rialzo è scarsa perché si tende a vendere una
casa che già si ha a 100 lire, per comprarne una a 130". Secondo
Breglia,
"la preoccupazione della Bce non è tanto l'aumento dei prezzi, ma
il crescente indebitamento delle famiglie che, se i tassi torneranno a salire,
potrebbero trovarsi nella condizione di non poter far fronte ai pagamenti".
Nonostante il caro-prezzi, il mercato immobiliare continuerà comunque ad
espandersi: "Negli ultimi cinque anni le quotazioni in Italia sono
cresciute del 45%, pressoché in linea con il +40-60% registrato a livello
europeo - aggiunge Breglia - L'aumento ora è rallentato, pur non registrandosi
alcun calo o stabilità dei prezzi, ma la pressione dei consumatori continua ad
essere forte: chi acquista lo fa turandosi il naso, compra nonostante i prezzi
alti perché non ha altra alternativa in cui investire". "Il
mercato è attivo - sottolinea Guido Lodigiani del centro studi di Tecnocasa -
c'é ancora interesse ma non ipotizziamo nessuna bolla per il mercato
immobiliare italiano a breve", anche perché la crescita dei prezzi
dovrebbe rallentare al +4,1%, con le quotazioni delle abitazioni dei centri
storici delle città stabili visto che "ormai hanno raggiunto il
picco".
Fonte (ANSA)
E´ del tutto evidente che in America si è in presenza di una gigantesca "bolla" speculativa. Gli americani sono dentro a un boom che essi stessi alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma dal quale sembra che non vogliano uscire. Gli
hedge fund, poco noti al grande pubblico (perché sono riservati ai grossi
capitali), non godono in genere di buona fama. Li si accusa di essere troppo
speculativi e troppo spregiudicati (e in effetti sono nati proprio per questo,
per giocare pesante). Adesso,
si è scoperto che esiste un Hedge Fund
(ignoto fino a pochi giorni fa) che in realtà è il più grande di tutti
(forse addirittura di tutti gli altri messi insieme). Questo Grande Hedge Fund
non ha un indirizzo e nemmeno un consiglio di amministrazione: infatti è
costituito dall´insieme delle famiglie americane, che si comportano appunto
come il più tremendo degli hedge fund. La
scoperta è stata fatta da alcuni analisti della banca Abn-Ambro, che si erano
messi a studiare l´economia americana nel 2004. Quello che hanno trovato spiega
molte cose sull´economia a stelle e strisce e lascia anche correre qualche
brivido lungo la schiena. Ma
vediamo di che cosa si tratta. Nel corso del 2004 i cittadini americani,
nonostante abbiano speso moltissimo (sono i loro consumi a aver tenuto a galla,
in parte, l´economia mondiale), alla fine si sono ritrovati con un saldo
positivo di 1200 miliardi di dollari (differenza fra il reddito e le spese). E
qui la partita potrebbe essere considerata finita, con soddisfazione di tutti.
Ma non è così. Infatti i cittadini americani, non contenti di aver speso un
sacco di soldi nel corso del 2004, hanno anche investito moltissimo. Si è
calcolato che abbiano speso per investimenti 1600 miliardi di dollari. Poiché
nello stesso periodo avevano "risparmiato" (differenza fra redditi e
spese) solo 1200 miliardi di dollari, è evidente che si sono ritrovati in
rosso. Grosso modo per più di 300
miliardi di dollari (prima abbiamo un po´ arrotondato le cifre, per
semplicità). E
qui comincia la storia del più Grande Hedge Fund del mondo. Dove hanno trovato
infatti le famiglie americane i 300 miliardi di dollari mancanti per il loro
bilancio 2004? Molto semplice:
sono andati in banca e se li sono fatti dare. Cosa che le banche,
peraltro, hanno fatto molto volentieri perché, se mai al mondo ci sono stati
clienti solvibili, questi sono i cittadini americani, pieni come sono di case e
di asset finanziari (cioè azioni e bond). Tutta roba buona e anche solida,
sicura. E infatti, già che erano in banca, le famiglie americane non si sono
limitate a farsi consegnare i 300 miliardi di dollari mancanti dai loro bilanci.
Ma se ne sono fatti dare 1100, cioè 800 miliardi di dollari in più. Ma
per farne che cosa? Ottocento miliardi di dollari sono una cifra grossa. La
risposta è sorprendente: con quegli 800 miliardi "extra" (presi a
prestito dalle banche) i cittadini americani hanno
comprato altri asset finanziari, oltre a quelli che già avevano, contribuendo
così a sostenere i corsi di quelle azioni e di quei bond (già posseduti), sui
quali si basa la loro solidità finanziaria. Insomma,
è come giocare a tombola conoscendo già i numeri che escono.
Esattamente come fanno certi hedge fund, le famiglie americane prima hanno
comprato dei titoli, poi si sono fatti dare dei soldi dalle banche per comprare
ancora altri titoli, che infatti stanno su. Questo
gioco, naturalmente, comincia a diventare costoso. Se l´indebitamento delle
famiglie americane era pari al 6,6 per cento del Pil nel 2002, nel 2003 è
passato all´8 per cento e nel 2004 al 9,5 per cento del Pil. In
sostanza, le famiglie americane sostengono i titoli che hanno già in
portafoglio grazie a un indebitamento che cresce a vista d´occhio. E che non può
non fare paura. E´ del tutto evidente, infatti, che si è in presenza di una
gigantesca "bolla" speculativa, organizzata per di più in modo
sistematico dal più Grande Hedge Fund "spontaneo" del mondo: le
famiglie americane. E è anche chiaro che tutto questo potrebbe scoppiare da un
momento all´altro con conseguenze terribili per tutta l´economia mondiale. La
cosa è talmente vistosa che anche Ma,
per ora, pare che non abbia avuto molto successo, visto che il quarto trimestre
del 2004 (quando la politica di rialzo del costo del denaro era già stata
annunciata e messa in pratica) è stato proprio quello che ha visto la maggior
crescita dell´indebitamento delle famiglie negli Stati Uniti. Famiglie che sono
dentro a un boom che esse stesse alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma
dal quale sembra che non vogliano uscire. Ma
la banca centrale continua nella sua politica e, prima poi riuscirà a far
ragionare i suoi cittadini. A quel punto è evidente che ci sarà un calo nella
domanda interna (consumeranno di meno e, forse, compreranno anche meno titoli) e
proprio per questo E l´Europa (che sarà quella chiamata a pagare il prezzo più alto della stabilizzazione americana) che cosa può fare? Niente, anche perché non ha una politica e nemmeno una visione strategica. Sopporterà.
F
Lo scossone in borsa, finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver tolto quel velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato da autorità politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. Meglio cosi'. 20 Aprile 2005 - 03:04 Lugano (di Alfonso Tuor*) Sembra
agli sgoccioli il periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari,
che aveva tra l’altro fatto sì che si fosse ridotta ai minimi storici per un
lungo periodo di tempo la volatilità dei mercati azionari (ossia la misura
delle variazioni degli indici). È quanto sembra indicare la correzione delle
borse registrata di recente. In
pratica, questo scossone, invero finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver
tolto quel velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato
da autorità politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. E
infatti è «sorprendente» notare come siano svanite nel giro di pochi giorni
le certezze sulla forza della crescita statunitense e le preoccupazioni di una
resurrezione dell’inflazione e come addirittura i timori sulle conseguenze
dell’aumento del prezzo del petrolio siano state repentinamente sostituite
dalla paura che l’attuale ribasso del greggio rappresenti un’ulteriore
conferma del forte rallentamento dell’economia mondiale. E
questo repentino mutamento d’umore è testimoniato dai mercati dei capitali,
dove, e soprattutto negli Stati Uniti, i tassi a lungo termine hanno ripreso a
scendere dopo un significativo rialzo, che alcuni prevedevano dovesse continuare
a causa del diffondersi di aspettative di inflazione. C’è
quindi da domandarsi se stiamo passando da un eccesso di ottimismo ad un eccesso
di pessimismo. Molto probabilmente la risposta corretta è che stiamo assistendo
ad un ritorno alla realtà. O,
se si vuole, ad una specie di «risveglio» che permette di osservare con
freddezza le reali condizioni di salute dell’economia americana.
Si teme che le famiglie americane, appesantite da un indebitamento senza
precedenti, stiano riducendo i loro consumi, che finora hanno trainato
l’intera economia mondiale. Si teme inoltre che il ridimensionamento dei
consumi delle famiglie non venga compensato da un aumento degli investimenti
aziendali. In
proposito, il campanello d’allarme è stato suonato dai deludenti risultati di
IBM e di altre società che hanno risentito di una contrazione degli ordinativi.
Si teme anche che un rallentamento della
crescita americana non possa essere evitato da misure di politica monetaria né
da misure fiscali, visto il crescente indebitamento dello stato federale; e
neppure da un maggiore dinamismo di Europa e Giappone, le cui economie
invece stanno già da tempo vistosamente rallentando. Insomma,
l’economia mondiale sta assistendo alla perdita di forza del motore
statunitense senza poter intravvedere altre economie e altri paesi in grado di
fungere da traino e con una situazione internazionale caratterizzata da
squilibri insostenibili nel tempo, come quello rappresentato dal disavanzo
estero degli Stati Uniti. Quello
che sta cominciando a delinearsi con sempre maggiore chiarezza è che siamo
ancora nel bel mezzo del ciclo apertosi nel 2000 con il crollo delle borse,
con l’emergere di forti sovracapacità produttive e con l’indebolimento
della domanda dovuta alle ripercussioni sui livelli salariali e occupazionali
dei paesi industrializzati della crescente apertura dei mercati. Quindi, il boom che ha fatto sì che il 2004 fosse un anno di grande crescita dell’economia mondiale (la maggiore degli ultimi 25 anni) si basava sugli eccezionali tassi di crescita dei paesi emergenti e sull’espansione statunitense, che era però «drogata» da politiche monetarie e fiscali insostenibili nel tempo. Ora sembra avviato un lento ritorno alla realtà che inevitabilmente sarà chiamato a rimettere in discussione anche i principi su cui si è retta la politica economica degli ultimi anni.
Fonte - Il Corriere del Ticino
Mentre molti commentatori economici affermano che il mercato ha già scontato il peggio, questo tipo di conclusione non è evidente ne’ dal punto di vista del sentiment, ne’ per ciò che concerne le valutazioni. Ecco come stanno davvero le cose. 15 Maggio 2005 - 19:01 New York (di Charlie Minter) A quanto pare l’economia è destinata a
rallentare in guisa significativa o addirittura ad entrare in recessione, e
questo oltretutto non è adeguatamente scontato dai mercati. E’ questa la
conclusione a cui si perviene analizzando alcuni indicatori che si sono rivelati
buoni anticipatori nel prevedere i precedenti cicli economici. Le motivazioni
sono quelle che seguono. Il PMI Index, che scende da un po’ di tempo,
anticipa la produzione industriale di cinque mesi circa. A sua volta, la
produzione industriale anticipa l’occupazione del settore manifatturiero di
circa quattro mesi. Ciò vuol dire in sostanza che il PMI anticipa l’occupazione
di circa nove mesi. Inoltre i prezzi dell’energia in rialzo tendono ad
anticipare l’economia di un anno circa, il che vuol dire che l’aumento
sperimentato sta già facendo i suoi effetti, anche se i prezzi del greggio
dovessero immediatamente ripiegare. Abbiamo anche rilevato nei precedenti commenti
che un periodo di restringimento della politica monetaria è quasi sempre seguito
da un rallentamento economico o peggio ancora da recessione, unitamente ad un
calo del mercato azionario. Associato a ciò è il calo della crescita anno
su anno della base monetaria MZM dell’1.6%, un livello che tipicamente ha
condotto ad una rallentamento economico negli ultimi 40 anni. Un altro studio
indica una correlazione del 47% fra la crescita reale di M2 e le vendite
interne. Ciò è ammesso dal Conference Board, il quale assegna a
questo elemento la seconda ponderazione più elevata nell’ambito del suo
leading
indicator. La crescita
reale dell’aggregato M2 è scesa da un tasso annuo del 4.4% nel primo trimestre
Lo stesso Leading Indicator è ora in ribasso rispetto ad un anno fa, e negli ultimi 40
anni un simile evento ha sempre condotto ad un rallentamento economico o ad una
recessione. Oltretutto questi indicatori sono stati confermati da un
indebolimento del quadro economico a livello globale. Il Leading Indicator
dell’OCSE è sceso pesantemente, mentre l’economia giapponese sta nuovamente
rallentando vistosamente, nonostante di fatto non siamo mai cresciuta negli
ultimi 17 anni. Sebbene la maggior parte degli economisti affermi che l’economia
è in buona salute, noialtri assegniamo molto peso agli indicatori citati.
Mentre un numero di commentatori economici
afferma che il mercato ha già scontato il peggio, questo tipo di conclusione non
è evidente ne’ dal punto di vista del sentiment, ne’ per ciò che concerne le
valutazioni. Infatti, come è
noto, i commenti sui programmi che girano sulla CNBC sono perennemente
bullish. Anche chi è noto per essere ribassista su questi canali, di
fatto è soltanto un po’ meno ottimista, piuttosto che essere propriamente
pessimista. Se non si riescono a trovare gli Orsi, come fa il sentiment ad
essere bearish? In prossimità dei precedenti minimi di mercato il sondaggio di
Investors Intelligence mostrava i Bears al 55% o anche più, mentre i Bulls erano
al 20% o anche meno. Attualmente gli Orsi sono al 28%, mentre il 46% degli
analisti è classificabile come Bull. In aggiunta, in prossimità dei precedenti minimi di
mercato la liquidità degli Equity Mutual Funds era all’incirca pari al 10% del
patrimonio netto, contro l’ultima lettura del 4.1%. Il VIX resta relativamente
basso con il suo 16%, mentre per quanto riguarda le valutazioni, il P/E dello
S&P500 è sempre a quota 19, molto meno del 2000, ma sempre nella parte alta
del range dei 71 anni che hanno preceduto la fine degli anni ’90. Un mercato
ribassista termina con una capitolazione di massa del pubblico, e non con un
quadro compiacente come si rileva oggi. Quando
oltretutto si considera i persistenti squilibri economici e finanziari, pensiamo
che il mercato permanga seriamente vulnerabile a consistenti ribassi nei tempi a
venire.
N.B. Un certo numero delle correlazioni citate in questo commento sono frutto del lavoro dell’economista Ed Hyman di ISI e di Paul Kasriel di Northern Trust. Tuttavia, le conclusioni sono di chi scrive.
Fonte - Smartrading
Le fasi di transizione come quella che stiamo vivendo, in cui il vecchio ordine sta morendo e quello nuovo non è ancora nato, sono accompagnate sempre da grandi sconvolgimenti economici e finanziari e, talvolta, anche politici e militari. 10 Maggio 2005 -
10:53 Milano (di Francesco
Arcucci) Il dollaro a partire dagli anni ’40 è
diventato la moneta di riserva utilizzata dal mondo intero, cioè la moneta in
cui si effettuano i pagamenti per le grandi transazioni internazionali, si
regolano le posizioni debitorie e creditorie fra Paesi e sono denominati i
crediti verso l’estero delle Banche centrali. Questa funzione è stata
esercitata dal dollaro più che dalle altre monete come sterlina, franco
francese, marco o yen in grazia del fatto che gli Stati Uniti erano diventati la
prima economia del mondo. Ma nel secolo appena iniziato i rapporti di
causalità si sono capovolti. Oggi gli Stati Uniti rappresentano la prima
economia del mondo, nonostante il loro deficit e il loro debito verso l’estero,
solo perché il dollaro rimane la moneta di riserva. La prosperità degli Stati Uniti dipende
dall’accumulo da parte degli altri Paesi di crediti in dollari che finanziano
Nel secolo appena trascorso il resto del mondo
accumulava dollari per poter acquistare beni prodotti in America. In questi
ultimi anni è il contrario. Il resto del mondo, e specie le banche centrali
asiatiche, accumulano dollari affinché gli americani acquistino beni prodotti
altrove. Ancora venti anni fa l’America con le sue
esportazioni era il più grande creditore del mondo. Oggi l’America con le sue
importazioni è diventato il più grande debitore del mondo e lo status del
dollaro come moneta di riserva svolge una funzione paradossale: quella di
consentire ai ricchi americani di venire finanziati dai poveri cinesi e indiani.
Se questa capacità del dollaro scomparisse
dall’oggi al domani i consumi in America sarebbero limitati alla produzione
interna e i finanziamenti sarebbero limitati al risparmio nazionale: ne
seguirebbe una terribile recessione del tipo di quella che ha colpito
Ma siccome il dollaro rimane moneta di riserva, il
finanziamento dei ricchi da parte dei poveri continuerà, sfidando le leggi
dell’economia che postulano il contrario. E’ chiaro che in queste condizioni una
crisi del dollaro può essere solo ritardata, con il risultato di renderla più
grave, ma non può essere evitata perché le ragioni per le quali il dollaro è
diventato moneta di riserva (e cioè che l’America inondava il mondo con prodotti
a basso costo ed elevata qualità) non sussistono più. Oggi la fabbrica dei
manufatti del mondo è situata in Giappone, in Cina, a Taiwan, in Corea del Sud e
anche in India. Sono le monete di questi Paesi che dovrebbero godere dello
status di moneta di riserva: solo chi le detiene ha la certezza di poter
acquistare l’enorme gamma di beni prodotti in Asia. E’ evidente che l’economia
di un mondo nel quale non si accumulano le monete dei Paesi più capaci di
produrre e vendere i loro beni, ma del Paese che, acquistando in larga scala
tali beni, incorre in deficit e debiti sempre più grandi è destinato a
schiacciarsi contro un muro. In conclusione: se è vero che gli Stati Uniti
possono finanziare il loro enorme deficit di parte corrente e il loro
grandissimo debito verso l’estero sfruttando lo status del dollaro quale moneta
di riserva (e questo lo sanno tutti), è altrettanto vero che non può continuare
ad essere moneta di riserva la moneta di un Paese che incorre sistematicamente
in deficit e debito verso l’estero (questo ancora lo capiscono in pochi, ma è
destinato a diventare sempre più chiaro con l’andare del tempo).
L’economia mondiale si trova di fronte ad una
difficile transizione: da una fase in cui il dollaro è ancora il centro del
sistema monetario internazionale, ad una situazione nella quale ci sarà un nuovo
sistema monetario internazionale. Ma le fasi di transizione di questa portata,
in cui il vecchio ordine sta morendo e quello nuovo non è ancora nato, sono
accompagnate sempre da grandi sconvolgimenti economici e finanziari e, talvolta,
anche politici e militari. E’ stato così, ad esempio, nei Paesi
dell’Europa orientale in transizione dall’economia centralizzata all’economia di
mercato. Oggi i motivi che hanno propiziato la funzione del dollaro come centro
del sistema monetario internazionale non esistono più. Il dollaro è rimasto
ancora attualmente centro del sistema monetario internazionale, ma per i motivi
sbagliati, con l’effetto paradossale che sono i poveri del mondo (cinesi:1000
dollari pro capite) a finanziare i ricchi (americani: 38000 dollari pro capite).
La situazione è insostenibile. Il cambiamento è necessario, ma come ogni
grande cambiamento, sarà una rivoluzione. E purtroppo le rivoluzioni, anche
quando riescono, sono parti dolorosi.
Fonte - La Repubblica - Affari & Finanza
Gli eventi degli ultimi giorni stanno confermando che il multimilionario statunitense merita a pieni voti la fama di oracolo di Omaha. Tre anni fa…… 17 Maggio 2005 - 13,11 Milano (di Rocki Gialanella) Io
posso firmare con voi investitori un contratto in virtù del quale mi pagherete
in funzione del numero di gemelli che nascano nello stato del Nebraska nel
Il
commento fatto da Buffett tre anni or sono non fa una grinza. Questi particolari
strumenti finanziari permettono di trasferire ad un soggetto terzo il rischio di
inadempimento relativo ad un qualunque credito. Qual è il problema
potenziale? Che una banca A conceda un credito a un’impresa B e trasferisca il
rischio ad un’unità C senza che il mercato sia cosciente di quanto sta realmente
accadendo. Di modo che questa entità C, apparentemente protetta, può rapidamente
trasformarsi in un soggetto che svolge la funzione di accumulatore di rischi.
Come ha recentemente sostenuto Alan
Greenspan, questi accumulatori del rischio possono subire pressioni – se la
situazione dovesse complicarsi – per procedere alla liquidazione di posizioni,
generando un effetto domino finanziario e creditizio. Il mercato finanziario ha ben sopportato i rumors che hanno annunciato le difficoltà vissute da alcuni fondi a gestione alternativa e altri strumenti speculativi. Passata la paura, gli analisti stanno concentrando l’attenzione sulla capacità del mercato di sopportare un rialzo dei tassi di interesse che faccia aumentare i differenziali di rendimento in un contesto in cui la continua ricerca di rendimenti superiori a quelli offerti dai titoli di Stato ha fomentato lo sviluppo e la diffusione di strumenti finanziari complessi e rischiosi.
Fonte Fondi on Line
Molti grandi gestori ritengono che non c'é alcun rischio di correzione dei prezzi obbligazionari, e nessun rischio di calo delle borse, perché a questi livelli dei tassi non ci sono reali alternative all’investimento azionario. Eppure... 27 Maggio 2005 - 11,27 Lugano (di Alfonso Tuor*) *Alfonso Tuor e' il
direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in
lingua italiana. La revisione al ribasso delle previsioni di
crescita dell’OCSE unitamente al continuo calo dei tassi a lungo termine che
stanno toccando nuovi minimi in Europa e che continuano a scendere anche negli
Stati Uniti rende legittimo interrogarsi sullo stato di salute dell’economia
mondiale. Il quadro dipinto dall’OCSE vede l’economia europea nel suo
complesso destinata a stagnare, anche se la recessione è l’infelice prospettiva
di alcuni paesi, gli Stati Uniti continueranno a crescere, anche se ad un ritmo
più lento, mentre il motore della crescita rimane l’Asia.
L’inevitabile corollario di
quest’analisi è che il «buco nero» dell’economia internazionale è il Vecchio
Continente che non esce dalla crisi, poiché non ha fatto le riforme strutturali,
ossia non ha liberalizzato il mercato del lavoro, non ha sufficientemente
deregolamentato alcuni settori di attività, ecc. Ma è veramente corretta questa
analisi che si basa sul confronto tra i risultati economici dell’Europa e quelli
degli Stati Uniti? E poi questi differenti tassi di crescita tra le principali
aree economiche del mondo sono sostenibili nel tempo? Vi è più di un motivo per
dubitarne. Innanzitutto, il quadro
europeo non è omogeneo come quello americano, ma non vi è dubbio che in questi
anni in molti paesi europei (dalla Germania all’Olanda, dalla Spagna alla
Svezia) sono state varate importanti riforme strutturali. Quindi, anche se il
modello sociale ed economico europeo rimane diverso da quello statunitense, è
incontestabile che alcuni governi europei hanno cercato di adeguare le strutture
delle loro economie alle necessità dei tempi. La vera differenza tra Europa e Stati Uniti è
stata la risposta alla crisi deflattiva di questo inizio di secolo determinata
dallo scoppio della bolla speculativa delle borse e dalla crescente pressione
competitiva dei paesi a bassi salari. L’Europa non ha preso provvedimenti
straordinari ed, anzi, ha avuto una politica monetaria ingessata da una Banca
centrale europea che voleva costruirsi la propria credibilità.
Completamente diversa è stata la risposta
degli Stati Uniti: i tassi sono stati portati all’1%, si è passati ad una
politica di deficit spending e si è fatto scivolare il valore del dollaro.
Considerata la portata di questi interventi non può sorprendere che il tasso di
crescita americano sia stato e sia ancora oggi nettamente superiore a quello
europeo. Non deve nemmeno
sorprendere che negli Stati Uniti comincino a manifestarsi alcuni segnali
(invero ancora contraddittori) di rallentamento della crescita proprio in
concomitanza con l’esaurirsi degli effetti di queste politiche di stimolo.
La politica di Washington è stata possibile
perché gli Stati Uniti hanno potuto vivere al di sopra dei loro mezzi, come
dimostra una bilancia commerciale destinata a chiudersi quest’anno con un
disavanzo superiore ai 600 miliardi di dollari senza dover pagare alcun
prezzo. Questo deficit così come i differenziali di crescita tra le
diverse aree del mondo, come sottolinea con forza l’OCSE, appaiono
insostenibile. In altri termini, come sostengono gli economisti
dell’Organizzazione con sede a Parigi, la continuazione di questo trend renderà
ancora più gravi gli squilibri dell’economia internazionale, rendendo più
probabile lo scoppio di una crisi. Ora tutto sembra contraddire questo scenario.
Ad esempio, il ritrovato vigore del dollaro sembra indicare che la capacità
degli Stati Uniti di attrarre i risparmi del resto del mondo è intatta. Anche il
rialzo delle borse sembra far ritenere che le prospettive di crescita
dell’economia sono buone. A disturbare sembra esserci, da un canto, la
stagnazione dell’economia europea, e dall’altro, il comportamento dei mercati
dei capitali dove i tassi continuano a scendere. Se i rendimenti delle
obbligazioni della Confederazione attorno al 2% e dei Bund tedeschi decennali
scesi al 3,3% possono essere in linea con le prospettive di crescita non
esaltanti dell’Europa, è molto più difficile capire la discesa dei tassi
americani, ora di poco superiori al 4%. La nuova teoria degli analisti finanziari, che
ricorda molto quella della nuova economia prodotta da Internet, è che gli
investitori istituzionali starebbero comprando a mani basse le obbligazioni e
quindi spingendo al ribasso i rendimenti. Il corollario paradossale e
assurdo di questa teoria è che saremmo tornati nel «Paese del Bengodi», poiché non vi sarebbe alcun rischio di
correzione dei corsi delle obbligazioni, visto che le casse pensioni
continueranno a comprare, e nessun rischio di correzione delle borse, poiché a
questi livelli dei tassi non vi sono reali alternative all’investimento
azionario. Il tutto è troppo bello per essere vero e soprattutto sostenibile nel tempo. La vera spiegazione potrebbe però essere che i mercati dei capitali non prevedono solo, come l’OCSE, che non vi sarà ripresa in Europa, ma anche che la crescita statunitense è destinata a rallentare sensibilmente. Ossia potrebbero anticipare che l’esaurirsi degli effetti propulsivi delle manovre economiche statunitensi riproponga lo scenario deflazionistico dell’inizio di questo decennio.
I contratti in valuta estera di Berkshire Hataway hanno raggiunto il livello complessivo di $21.8 miliardi. Per il "guru di Omaha" grandi guadagni nel 2004, ma pesante perdita quest'anno con le scommesse al ribasso sul biglietto verde. 27 Giugno 2005 - 05:05 New York (di WSI) Warren Buffett ha dichiarato in un'intervista rilasciata giovedi' scorso alla CNBC di scommettere su una discesa del dollaro nel lungo periodo. Il guru di Omaha rintraccia nella gigantesca dimensione del deficit della bilancia commerciale Usa la ragione in grado di affossare il biglietto verde, nonostante il recupero fatto segnare nelle ultime settimane. Alla precisa domanda se si attende che la valuta statunitense riprendera' la sua discesa, Buffett, presidente Berkshire Hathaway Inc. (oltre che secondo uomo piu' ricco del mondo dopo Bill Gates) ha risposto di non saper dire se tra un anno il dollaro sara' piu' forte o piu' debole rispetto ad oggi: ma che in un arco di tempo di cinque anni non ha dubbi su un suo deprezzamento. Buffett ha confermato la voce di mercato secondo cui lo scorso anno la Berkshire ha conseguito un profitto rilevante dal forte crollo del dollaro, ma che quest'anno ha accusato una perdita rilevante in bilancio per il rimbalzo mostrato dal biglietto verde. Il dollaro si era deprezzato di circa il 30% negli ultimi tre anni fino allo scorso dicembre, ma dall'inizio dell'anno e' rimbalzato di un 10% dai minimi. Il 31 marzo, i contratti in valuta estera di Berkshire avevano raggiunto il livello complessivo di $21.8 miliardi, rispetto ai $21.4 miliardi di fine 2004. Tuttavia, Buffett sottolinea come la gigantesca voragine nei conti statunitensi con l'estero puo' solo indebolire il biglietto verde in futuro. Buffett ha ricordato come il deterioramento dei conti con l'estero sia un percorso estremanente pericoloso per l'economia di qualunque paese. Si e', pertanto, voluto riallacciare agli allarmi lanciati dal Governatore della Federal Reserve Alan Greenspan e perfino dal suo precedessore Paul Volcker con riferimento al fatto che il deficit statunitense sia ad un livello insostenibile. L'ultimo dato disponibile mostra che il deficit corrente degli Stati Uniti ha superato i $195 miliardi nel primo trimestre di quest'anno, ovvero il 6.4% del PIL, un nuovo record negativo per quanto riguarda entrambe le misure. In altri termini l'economia statuntense deve attirare ogni giorno circa $2 miliardi di capitali esteri solo per bilanciare il suo debito commerciale, alleviare la pressione al ribasso sul dollaro e prevenire un deciso rialzo nei tassi d'interesse.
Fonte Wall Street Italia.com
Bill Gross, guru e gestore del fondo Pimco, spiega perche' nei prossimi tre-cinque anni si attende una crescita economica Usa molto debole, la continuazione della bolla sui bond e rendimenti sempre piu' bassi. I rischi nel settore immobiliare. 24
Giugno 2005 -
20:57 New York (di WSI) Gross si attende che la crescita degli utili delle aziende americane rallentera’
al 4% o 5% e inoltre che i prezzi dei titoli rifletteranno tale dinamica. Il
gestore ha dichiarato, davanti alla platea di money manager e consulenti
finanziari riunitasi a Chicago, che fino allo scorso maggio aveva una posizione
“neutral”, se non “bearish”, sulle prospettive dei titoli di stato statunitensi.
Ma ora, assieme al suo team di gestori, ritiene che nei prossimi tre-cinque anni
la possibilita’ di una deflazione sia altamente probabile. Gross e’ stato alla larga dal tema, nonostante abbia affermato che l’aumento del livello di indebitamento nel settore immobiliare stia cominciando a spaventarlo. L’esperto del mercato obbligazionario ha sottolineato come l’economia statunitense possa essere danneggiata da un affondamento del mercato immobiliare. L’attuale livello dei rendimenti obbligazionari riflette la necessita’ che il settore degli immobili continui a supportare la domanda dei consumi. Ma, ha sottolinea ancora Gross, questa non e’ la strada che percorre un paese con un’economia sana. Lo scorso maggio, relativamente alle linee guida seguite dal fondo Pimco, Gross
ha dichiarato di attendersi che il rendimento sul Treasury a 10 anni dovrebbe
mantenersi tra il 3% ed il 4.5% nei prossimi anni. Rendimenti inferiori a questa
soglia indicherebbero che l’economia si verra’ a trovare in una fase di
recessione.
Fonte Wall Street Italia.com
L´Occidente ha paura di "quota 80" e di rivivere lo choc di trent´anni fa. Pesa l´incognita sulla domanda cinese: terrà gli attuali ritmi? Molti credono a una crisi mondiale imminente. L´amministrazione Bush sdrammatizza il problema. E non si muove. 28
Giugno 2005 - 02:39 Roma (di Federico
Rampini)
Il petrolio
supera i 60 dollari a barile e i pessimisti ormai considerano ripetibile la
"quota 80", il prezzo che fu raggiunto nei drammatici choc energetici di
trent´anni fa. Tre eventi fanno da sfondo al nuovo record: la
vittoria di un falco in Iran peggiora la tensione nel Golfo; la Cina
assetata di energia ha lanciato una storica Opa su una compagnia petrolifera
americana; infine è in atto da mesi il recupero del dollaro sull´euro, che
amplifica gli effetti del rincaro sull´economia italiana.
A furia di spingere
al rialzo il costo dell´energia, c´è il rischio che la Cina non riesca più a
sfornare ritmi di crescita del 9% annuo, e che gli Usa non "tengano" alla loro
velocità di equilibrio del 3%. Se il mondo rallenta l´Europa continentale, che è
già a crescita zero, finirà ancora peggio. Gli ultimi due choc energetici
avvennero nel 1974 e nel 1977, spedirono il petrolio oltre 80 dollari al barile
(in valore attuale), e furono gli anni più duri dopo la seconda guerra mondiale.
Per capire le vicende del mercato petrolifero è bene non
dimenticare un ultimo elemento del paesaggio attuale, a cui siamo talmente
abituati da trascurarne il peso. Alla Casa Bianca c´è un presidente che viene
dallo oil business texano. Il vicepresidente per anni ha diretto l´azienda
petrolifera Halliburton. Il segretario di Stato sedette nel consiglio
d´amministrazione della Chevron, che ha battezzato "Condoleeza" una
superpetroliera. Exxon, Chevron e tutte le "sorelle" petrolifere dominano la
classifica delle capitalizzazioni di Borsa.
Fonte La Repubblica
I
rischi della bolla
Il dibattito sulle ragioni dell’attuale permanenza dei tassi su livelli
molto contenuti diventa sempre più animato ed ha coinvolto anche Greenspan
che ha ammesso di trovarsi in difficoltà nel trovare una ragione forte alla
base di tale andamento.
Il capo della Fed immaginava invece che i mercati avrebbero seguito il rialzo dei tassi di
riferimento, al punto che nei mesi scorsi la Fed si è sempre premurata di
avvertire che i rialzi sarebbero stati comunque graduali onde evitare
bruschi rialzi che avrebbero potuto mettere a rischio la ripresa
dell’economia. Ed ecco che invece è accaduto esattamente l’opposto.
Vista la loro inefficacia, il rialzo dei Fed Funds potrebbe essere limitato alla prossima riunione del 30 giugno e forse estendersi a quella del 9 agosto. Ma di fronte ad un situazione senza precedenti occorrerà ipotizzare altri strumenti al fine di evitare che dalla bolla azionaria si passi in modo sempre più forte a quella immobiliare.
I miglioramenti transitori dei dati economici non cancellano i seri problemi strutturali dell’economia americana. Il caro petrolio e l’aumento dei tassi presto peseranno sui consumi. E l’effetto sulle borse... ________________________________________ 15 Luglio 2005 16:36 MILANO (di *Michele Pezzinga) *Michele Pezzinga e' lo strategist di CentroSim. _______________________________________ Superato, con una pronta reazione, l'impatto emotivo legato alla nuova ondata di attacchi terroristici, i mercati finanziari sembrano ora sposare scenari persino migliori rispetto a quelli che avevamo lasciato a fine giugno. Paradossalmente, proprio le capacità di tenuta dell'azionario di fronte ai drammatici eventi di Londra hanno rafforzato tra gli investitori le velleità rialziste, diffondendo la convinzione che i rischi di caduta in questa fase siano molto contenuti e, per gli hedge funds, che i tentativi di forzatura all'ingiù, almeno per ora, non paghino. Ne sanno qualcosa coloro che avevano venduto, anche solo per motivi precauzionali, durante la convulsa seduta del 7 luglio. Ma è davvero cambiato il quadro di riferimento? Sotto questo profilo, non ci sembra di cogliere novità sostanziali rispetto ad un mese fa: i problemi strutturali, sostanzialmente riconducibili all'economia USA e che ci facevano dubitare della sostenibilità degli attuali trend, rimangono infatti sempre vivi. Continuiamo inoltre a credere che tra altri tre-sei mesi l'aumento dei tassi e il caro energia finiranno per frenare davvero i consumi delle famiglie americane, vero motore della crescita globale. Tuttavia, nelle ultime settimane proprio da questi fronti sono giunti segnali più incoraggianti, a nostro avviso solo interlocutori, ma comunque tali da spostare un po' più avanti nel tempo le temute verifiche di tenuta. Il disavanzo federale USA del 2005, per esempio, viene ora visto in calo verso quota 330 mld di dollari circa, 100 in meno rispetto a quello 2004 e alle proiezioni che circolavano ad inizio anno. La notizia è confortante, anche se finora il merito è stato del boom di entrate fiscali, più che di un taglio delle spese, il che lascia dubitare dell'auspicato innesco di un circuito davvero virtuoso. Anche il deficit della bilancia commerciale USA ha registrato un'altra contrazione in maggio, ma siamo pur sempre a quota 55,4 mld di dollari, in progresso rispetto alla punta record di quasi 60 mld a inizio anno, ma molto oltre rispetto ai 48,7 mld registrati dodici mesi prima. Le proiezioni per giugno, a causa del rafforzamento del cambio e del balzo dei prezzi dell'energia importata, puntano inoltre verso un netto peggioramento (di nuovo verso quota 60 mld), che non sembra destinato a rientrare in maniera significativa nella seconda metà dell'anno. Se il disavanzo record (che ormai viaggia su ritmi del 5,6% rispetto al PIL) era il sintomo di un problema strutturale - l'eccesso di consumi delle famiglie americane finanziato con il risparmio d'oltreoceano - questo non appare affare in via di risoluzione; e anche il dollaro, ora contagiato da un diffuso consenso rialzista, quanto prima dovrà tornare a renderne conto. Al tempo stesso, però, la maggiore e forse unica sorpresa negativa di questa fase, il rinnovato balzo in avanti nelle quotazioni del greggio, oltre la soglia finora inviolata dei 60 dollari il barile, non sembra aver generato allarmi dal lato nè dell'inflazione, nè della crescita economica. Dal punto di vista degli investitori azionari, una simile reazione rappresenta un altro segnale decisamente rassicurante: se l'effetto di un'ascesa da 50 a 60 dollari il barile non è tale da far deragliare crescita e performance di Borsa, perchè mai le cose dovrebbero andare diversamente qualora il greggio salisse ancora a 65 o a 70 dollari? L'esperienza passata ci direbbe che l'impatto sulla congiuntura di incrementi annui del 30-40% è tutt'altro che marginale e che si registra con la maggiore intensità solo 6 mesi-1 anno dopo gli aumenti sottostanti; ma nel clima attuale di compiacente ottimismo sulle capacità di reazione delle economie, inclusa quella di assorbire gli aumenti dei costi energetici, il rischio viene quasi ignorato. Qui dal nostro punto di vista potrebbe però esserci qualche sorpresa positiva: condividiamo infatti l'idea che nelle ultime settimane i prezzi del greggio abbiano mostrato eccessi di natura speculativa e che il rallentamento della domanda reale di energia, in atto anche da parte dei Paesi asiatici, Cina inclusa (-1,3% su base annua il suo import di greggio in giugno e -21% quello di prodotti raffinati), possa produrre uno sgonfiamento delle quotazioni, magari solo temporaneo, ma comunque significativo. A neutralizzare i timori sul petrolio forse hanno provvidenzialmente contribuito anche alcuni segnali di riaccelerazione dell'economia USA, in grado di cancellare quei pericolosi indizi di frenata congiunturale che avevamo segnalato ad inizio primavera. Tenuto conto della forza dei consumi - confermata ieri dal +1,7% delle vendite al dettaglio di giugno, di nuovo trainate dal balzo del comparto auto (+4,8%) - e dalla tenuta degli investimenti, il PIL americano sembrerebbe in grado di confermarsi in crescita di circa il 3% anche nel 3° trimestre, un ritmo analogo a quello stimato per il 2°, non eccezionale (era pari al 3,8% nel 1° trimestre 2005 e al 4,4% per l'intero 2004) ma comunque soddisfacente, soprattutto rispetto ai depressi standard europei. I dilemmi di fondo riguardano però le modalità con cui si muoverà la congiuntura più avanti, diciamo nella parte finale dell'anno: in altri termini se davvero l'economia USA riuscirà a viaggiare ancora alla velocità attuale, se l'area euro riuscirà finalmente ad uscire dalla stagnazione corrente e quanto sarà pronunciata la frenata della Cina, e con essa dell'intero blocco asiatico, che ancora una volta si sta iniziando a profilare. Tutti elementi ancora molto dibattuti tra gli addetti ai lavori. Rimane invece diffuso il consenso sul fatto che l'inflazione continuerà a non rappresentare una minaccia concreta: a conferma di ciò proprio ieri sono stati resi noti i prezzi al consumo USA di giugno, rimasti invariati sul mese precedente e cresciuti solo di uno 0,1% esclusi alimentari ed energia, un rassicurante +2% su base annua, ma soprattutto un +1,2% annualizzato nell'ultimo trimestre, in netto calo da quel +3,3% che si era minacciosamente profilato nel 1° trimestre 2005. Ha comunque ripreso quota l'idea che la FED, dopo aver alzato i tassi di un altro quarto di punto anche ad agosto, possa spingersi fin verso la soglia del 4% entro l'inizio del 2006, un'ipotesi che a inizio giugno, con i bond ai massimi, sembrava fin troppo aggressiva. Il focus della Banca Centrale non è infatti sull'inflazione, ma sul persistente boom immobiliare da cui traggono sostegno, indebitandosi a ritmi crescenti, i redditi (e i consumi) delle famiglie: anche a costo di frenare ulteriormente la crescita del 2006 Greenspan dovrà quindi intervenire ancora su questa spirale, in modo da scongiurare la formazione di una pericolosa bolla speculativa. Per quanto riguarda invece la BCE, l'idea di un taglio dei tassi entro fine anno, richiesto dalle difficoltà economiche e politiche dell'area, ha perso quota; la Banca Centrale potrebbe quindi rimanere ferma su questi livelli ancora a lungo, un cambiamento di prospettiva che ha contribuito da un lato a rafforzare l'euro, riportandolo nelle ultime sedute sopra quota 1.20 contro dollaro, e dall'altro a frenare l'euforia sull'obbligazionario, dove la parte lunga della curva sembra aver esaurito, almeno in questa fase, tutto il suo potenziale. In ogni caso, i rendimenti obbligazionari, pur lievemente risaliti dai minimi di giugno, non ci sembrano destinati a risalire molto dagli ancora contenuti livelli correnti (un 4,16% sul decennale USA e un 3,29% su quello tedesco); i tempi per una decisiva inversione di trend a nostro avviso non sono ancora maturi e anzi dopo l'estate, se la ripresa non si farà strada, il tema del taglio potrebbe tornare d'attualità. Si tratta di livelli tali comunque da mantenere in vita un significativo effetto liquidità, di cui continuano a beneficiare i mercati finanziari e l'immobiliare. Gli spread sui bond dei mercati emergenti segnano continuamente nuovi minimi (siamo ormai intorno ai 300 punti base, rispetto ai 1000 di tre anni fa e agli oltre 500 toccati ancora l'anno scorso), analoga euforia traspare dai junk bond, mentre le Borse continuano a registrare progressi, sia pure modesti, che hanno comunque portato molti dei listini europei sui record degli ultimi quattro anni. In assenza di particolari traumi esterni, si tratta di uno situazione che potrebbe auto-alimentarsi, favorita dalla mancanza di sbocchi concreti per gli investimenti nell'economia reale e dalla ricerca di rendimenti competitivi rispetto a quelli, risibili in termini reali, offerti dalle attività prive di rischio. Continuiamo a credere che sui mercati azionari i rischi al ribasso rimangano abbastanza contenuti, visto che nessuno dei due elementi chiave su cui si fondano, la crescita degli utili, che prosegue persino nel caso di un'Europa in completo stallo congiunturale, e i bassi rendimenti obbligazionari sembra mostrare pericolosi segni di cedimento. Finora semmai era il potenziale al rialzo delle Borse a non convincerci: nemmeno ora vediamo grandi cose, ma visto che nell'immediato i bond ci sembrano ormai arrivati, un temporaneo cambiamento di peso a favore delle azioni potrebbe risultare opportuno. Con l'idea però di fare nuovamente retromarcia tra qualche mese e riscoprire le obbligazioni, se, come continuiamo a credere, la crescita globale per allora segnalerà un più significativo rallentamento.
Fonte - CentroSim per Wall Street Italia.com
Tassi e bolla immobiliare. L'ampia liquidità come effetto della lunga fase di politica monetaria espansiva. Nuove tipologie di investitori e di gestione di portafoglio tali da aumentare la domanda di bond. A scapito dell' azionario? ________________________________________ 5 Luglio 2005 20:57 Siena (di *Antonio Cesarano) *Antonio Cesarano e' il responsabile dell'ufficio ricerca MPS Finance. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente. E' da poco iniziato il secondo semestre che concretamente si inaugura oggi dopo il ponte lungo Usa e con la presenza di tutti i principali players sui mercati internazionali. Proviamo a ricostruire ex post quanto accaduto nel semestre appena conclusosi, la cui dinamica a sua volta in gran parte è la prosecuzione di un complesso di fattori che hanno cominciato a manifestarsi già nel corso del 2004 e che sono divenuti più evidenti nel momento in cui, pur essendo iniziata la fase di rialzo dei tassi della Fed, è continuato il trend calante dei tassi di mercato dando luogo all'ormai celebre "conundrum" evocato da Greenspan a febbraio. Schematicamente la sequenza logica della interazione dei fattori prima menzionati può essere così sintetizzata: 1) la lunga fase di politica monetaria espansiva inaugurata dalla Fed e dalla Bce a partire dalla metà del 2001 fino a toccare l'apice a metà del 2003, ha prodotto come conseguenza un’enorme massa di liquidità alla ricerca di rendimenti addizionali rispetto a quanto offerto dai titoli governativi che nel frattempo hanno continuato a seguire un trend calante; 2) contemporaneamente sono divenuti sempre più rilevanti nel quadro finanziario internazionale investitori come le banche centrali asiatiche che hanno dimostrato di seguire logiche diverse da quelle tipiche dei gestori del risparmio gestito, essendo ispirate a considerazioni politco/strategiche nella gestione delle enormi masse di riserve accumulate dalla fine degli anni '90, piuttosto che a criteri più strettamente inerenti le performance di portafoglio. La lunga fase di deprezzamento del Dollaro pertanto non ha intaccato in modo rilevante la preferenza verso i Treasuries Usa che hanno beneficiato di un flusso costante e copioso di domanda estera fino ad arrivare alla situazione attuale in cui circa la metà del debito pubblico Usa è in mano a investitori esteri; 3) altra novità di rilevo è stata rappresentata dall'affermarsi di nuovi criteri di gestione del portafoglio da parte soprattutto dei fondi pensione Usa che gradualmente hanno cominciato a ribilanciare i proprio portafogli spostando la preferenza verso gli asset obbligazionari rispetto a quelli azionari. Questa nuova filosofia di gestione è figlia probabilmente di due fattori principali: a) le cocenti perdite subite dopo lo sgonfiamento della bolla azionaria a partire dal 2000; b) la presa d'atto di una profonda mutazione della dinamica demografica tale da comportare l'esigenza di gestire flussi di risparmio con finalità prettamente previdenziali. In sostanza si prende atto del fatto che la popolazione nei principali paesi sta invecchiando (finisce ad es. negli Usa il periodo dei baby-boomers che ora sono in prossimità del pensionamento) e che quindi in futuro sarà maggiore la quota di reddito destinata a scopo ad esempio sanitario vs. quella destinata in precedenza a beni di consumo di massa. Di conseguenza i rendimenti attesi dal mercato azionario diventano inferiori rispetto al passato vista la minore propensione marginale al consumo attesa a causa del processo di invecchiamento stesso. In questo contesto allora i gestori Usa riscoprono il mercato obbligazionario che negli anni '90 era invece divenuto un corollario nei portafogli dei fondi pensione dove la netta prevalenza era invece assegnata al comparto azionario; Sinteticamente i fattori finora esposti possono essere sintetizzati come: 1) ampia liquidità come effetto della lunga fase di politica monetaria espansiva; 2) presenza di nuove tipologie di investitori e filosofie di gestione di portafoglio tali da aumentare in modo molto forte la domanda di bond. Tali fattori hanno generato un perdurante trend calante dei tassi che non è stato affatto scalfito dall'inizio della fase di rimozione dell'accomodamento monetario iniziato dalla Fed nel mese di giugno 2004. Tale andamento ha finito a sua volta per supportare il settore immobiliare su cui gradualmente si è innestata una nuova potenziale bolla. Greenspan per ora ha negato di trovarsi di fronte ad una situazione di questo tipo preferendo piuttosto parlare di surriscaldamento dei prezzi immobiliari confinato solo a singole aree piuttosto che trattarsi di un fenomeno diffuso. Anche in Europa i prezzi delle case ne hanno beneficiato. Se si osservano gli indici di settore pubblicati dall'Economist si scopre ad esempio che in Europa nell'ultimo anno, ad eccezione della Germania, i prezzi immobiliari hanno registrato incrementi spesso a due cifre (Spagna + 15,5%, Francia +15%, Italia +9,7%) paragonabili a quanto verificatosi negli Usa (+12,5%) nello stesso periodo di tempo. A parità di rialzo dei prezzi delle case negli Usa ed in gran parte dell'Europa, gli effetti sui consumi sono stati però nettamente differenti, risultando determinanti per la crescita Usa e del tutto irrilevanti in Europa. La ragione risiede nel fatto che in Europa il mercato dei mutui immobiliari non è strutturato come quello Usa dove risulta molto più semplice estrarre valore per i consumatori anche dal rialzo del prezzo della sola prima casa. Basti pensare alle rinegoziazioni dei mutui a tasso fisso (possibili anche grazie all'esistenza delle GSE come Fannie Mae e Freddie Mac), alla possibilità di liquidare mediante mutui gli incrementi di valore dell'immobile, alla diffusione (fin troppo marcata al punto da allarmare la stessa Fed) di forme di mutui strutturati (i c.d. ARM, Adjustable Rate Mortgages) che consentono di abbattere il peso della rata nei primi anni di vita del mutuo per consentire l'acquisto di immobili a prezzi anche molto più elevati rispetto al passato. Greenspan si è trovato così di fronte ad un fenomeno del tutto imprevisto quale appunto il rialzo dei prezzi delle case. Il fenomeno era inatteso in quanto il capo della Fed immaginava che ad un rialzo dei tassi della Fed avesse fatto seguito un comportamento analogo dei tassi di mercato. Greenspan si era anzi preoccupato di evitare che il rialzo fosse troppo brusco ribadendo esplicitamente nel comunicato successivo ad ogni riunione che l'approccio adottato sarebbe stato "misurato". Di conseguenza, il vecchio capo della Fed si è trovato di fronte ad un'economia in cui il settore immobiliare sta rappresentando uno dei motivi di sostegno principali per i consumi al punto da sostituirsi al supporto in precedenza offerto dalla politica fiscale espansiva. Di conseguenza occorre fare molta attenzione a porre in essere provvedimenti tali da innescare un ridimensionamento brusco dei prezzi delle case stesse, pena un impatto marcato anche sui consumi. Forse anche per tale ragione Greenspan evita di parlare di bolla immobiliare, pur essendovi diversi elementi per lasciare immaginare una tale possibilità. Diventa pertanto estremamente complesso il percorso che la Fed dovrà seguire nella gestione di politica monetaria onde evitare che il delicato equilibrio su cui l'economia al momento si regge possa essere compromesso. La scelta per ora è semplicemente quella di continuare con l'approccio graduale, sperando che poco alla volta anche i tassi di mercato seguano un sentiero rialzista altrettanto graduale. In realtà però , oltre alla Fed, il vero fulcro della situazione macro attuale risiede nella continuazione del forte flusso di acquisti di fonte asiatica che consente per ora anche di porre in secondo piano il problema del deficit di partite correnti che nel frattempo non ha accennato a diminuire raggiungendo il non invidiabile livello di 6,4% del PIl. Fin qui abbiamo provato a ricostruire lo status quo che aiuta almeno a comprendere il delicato compito che spetta alla Fed. In realtà, come spiegato anche da Greenspan in interventi successivi a quello di febbraio, stanno probabilmente cambiando soprattutto i players protagonisti della partita dei tassi. I gestori insieme agli stessi hedge funds hanno spesso orientato le proprie scelte di investimento sulla base dell'attesa di una fase di rialzo dei tassi conseguente ad un recupero dell’economia, ritrovandosi nettamente spiazzati. Ammettiamo che in passato, trovandoci di fronte alla necessità di formulare previsioni sull'andamento dei tassi, il focus sul solo andamento macro è stato anche per noi talora fuorviante, almeno negli Usa perché nel frattempo la situazione europea lasciava invece ipotizzare la possibilità di mantenimento dei tassi fermi, visto il basso livello di crescita e le continue revisioni al ribasso delle stime per il 2005. Veniamo all'arduo compito di provare ad ipotizzare cosa potrebbe ora accadere sul fronte tassi. Premettiamo che al momento non riteniamo che le forze in gioco prima evidenziate abbiano dispiegato in modo completo il loro effetto. Il processo di ribilanciamento dei fondi pensione, la presenza di investitori come le banche centrali, verosimilmente manterrà ancora aperto il "conundrum sui tassi". Inoltre a ciò si aggiunga la necessità da parte della Fed di evitare che i prezzi immobiliari possano bruscamente risentire di rapide accelerazioni al rialzo dei tassi di riferimento. Di conseguenza almeno fino ad agosto la Fed rimane orientata ad un approccio graduale. Nell’ipotesi di un rallentamento dell’economia che ancora non è del tutto da escludere, rimarrebbe ancora aperta la possibilità di una fase di arresto nel processo di rialzo dei tassi che pertanto chiuderebbero l’anno al 3,5%. In Europa inoltre la Bce probabilmente manterrà i tassi fermi al 2% per tutto l'anno. Insomma diversi fattori depongono ancora a favore di politiche monetarie che difficilmente dovrebbero determinare un rientro dell'ampia liquidità in circolazione alla ricerca forsennata di investimenti profittevoli. Infine i gestori che da oltre un anno hanno cercato di difendersi dal temuto rialzo dei tassi mantenendo profili di duration di portafoglio piuttosto contenuti rispetto ai benchmark di riferimento, si trovano ora nella necessità di procedere a graduali allungamenti di tale parametro privilegiando pertanto i segmenti più a lungo termine della curva. In tale contesto, laddove dovesse materializzarsi un rallentamento dell'economia Usa nel secondo trimestre, si tratterebbe di un elemento che si aggiungerebbe ad un clima sui tassi già surriscaldato per altri fattori estranei a considerazioni prettamente macro. In ogni caso, il primo semestre dell’anno ha educato gli investitori a non immaginare gli sviluppi futuri dei tassi solo in base al quadro macro ipotizzato ma anche tenendo conto del mutato quadro dei players in azione. Sul tratto lungo della curva pertanto l'eventuale rialzo dei tassi decennali (innescato in settimana ad esempio anche grazie a favorevoli attese sui non farm payrolls di venerdì soprattutto laddove l'indice Ism non manifatturiero supportasse tale ottimismo) potrebbe incontrare livelli di resistenza molto vicini situati tra 4,15/4,20 sui T-note e tra 3,30/3,35 sul Bund. In prossimità di tali livelli potrebbero tornare gli acquisti dei fund managers che vedrebbero così soddisfatta la necessità di riadeguare i parametri di sensitività dei propri portafogli, attualmente ancora molto scarichi di duration. La "sete di rendimenti" in sintesi continua ad essere un fattore predominante nelle scelte degli asset allocators che sta spingendo i gestori internazionali anche a valutare l'investimento in titoli di stato nipponici, che al momento risultano essere competitivi rispetto a quelli Usa ed europei se analizzati in termini di tassi reali, come evidenziato anche da un recente articolo del WSJ in cui si segnala un incremento dell'attività su tale comparto da parte di alcune grosse case di investimento internazionali. Un dato per tutti: gli acquisti di titoli di stato nipponici da parte di investment banks straniere sono stati pari al 15,7% del totale emesso nel 2004. Quest'anno lo stesso rapporto calcolato da inizio 2005 è risultato pari al 24,3%. Il presente documento è stato predisposto in maniera indipendente da MPS Finance Banca Mobiliare SpA (di seguito: MPS Finance). Esso contiene opinioni, informazioni e dati, con fine divulgativo, ottenuti dalla predetta MPS Finance tramite fonti ritenute in buona fede attendibili, tuttavia MPS Finance non ha la qualifica di agenzia di rating, quindi non intende certificare, come in effetti non certifica la veridicità, l'accuratezza e la completezza delle predette informazioni e dei predetti dati.
Fonte - MPS Finance per Wall Street Italia.com
Non prendete
sottogamba il caro-greggio
Ricordate
che il prezzo del barile era attorno ai $30 nell’estate del 2003. In termini
reali comunque il petrolio non ha ancora raggiunto le vette del secondo choc
petrolifero del 1979, che oggi corrisponderebbero a una quotazione tra i $90 e i
$120. _________________________________________________ Il caro-petrolio comincia a preoccupare le
autorità politiche e monetarie. La Banca centrale europea ha sottolineato nel
suo ultimo bollettino mensile che l’impennata del prezzo del greggio costituisce
una minaccia per la ripresa dell’economia europea; l’Agenzia
internazionale per l’energia (AIE) sostiene che il caro-petrolio taglia la
crescita dell’economia mondiale di 0,8 punti; il Kof del Politecnico di Zurigo
stima che un aumento del prezzo del petrolio del 10%, che si protrae per due
anni, costa all’economia elvetica 0,2 punti di crescita e si potrebbe
continuare. Ebbene, il prezzo del greggio, che veleggia
ora al di sopra dei 65 dollari il barile si aggirava attorno ai 45 dollari
durante l’estate dell’anno scorso e attorno ai 30 dollari nell’estate del 2003.
Quindi, il trend ascendente è di lungo periodo. Infatti il prezzo, che era
caduto all’indomani della «crisi asiatica» al di sotto dei 10 dollari il barile,
si è poi ripreso e soprattutto a partire dal 2003 ha cominciato a correre al
rialzo. La domanda sulla bocca di tutti è se si tratta di un eccesso oppure di
un fenomeno di lungo termine. Fino a poche settimane
orsono, i più ritenevano che l’aumento fosse esagerato dalle tensioni
geopolitiche e dalla speculazione e che quindi prima poi sarebbe tornato a
muoversi in una fascia tra i 30 e i 40 dollari il barile. Negli ultimi mesi si è
però infoltita di molto la schiera di coloro che ritengono che il caro-petrolio
sia un fenomeno di lungo periodo, con ulteriori aumenti all’orizzonte. Tra questi vi è, ad esempio, il
primo ministro francese Dominique de Villepin, il quale martedì scorso ha
dichiarato che il petrolio rimarrà caro anche nei prossimi anni. E vi sono
soprattutto i mercati, come sottolinea l’economista di UBS George Magnus.
Infatti il prezzo del petrolio a un anno sul mercato dei derivati si è
continuato ad aggirare dal 2000 fino al 2004 attorno ai 25 dollari, nonostante
l’anno scorso il prezzo alla consegna avesse già raggiunto i 50 dollari.
Quest’anno la differenza tra il
prezzo alla consegna e il prezzo tra un anno si è notevolmente ridotto. Ciò vuol
dire, come sostiene Magnus, che i mercati ritengono che non si ridurrà di molto
rispetto ai livelli attuali, ma anche che per il momento non credono in
un’ulteriore forte e duratura ascesa. È impossibile sapere chi ha ragione sul
lungo termine. È però possibile azzardare alcune ipotesi sul breve e medio
termine. Il rialzo del greggio è il frutto di una
domanda che sta crescendo ad un ritmo nettamente superiore a quello degli anni
Novanta. I motivi sono noti: la fame di energia di Cina ed India e di molti
altri paesi emergenti e la forte crescita di un’economia «energivora» come
quella statunitense. Rispetto a questo aumento della domanda non vi è
stato un corrispondente aumento dell’offerta, per cui la capacità di estrazione
dei paesi produttori è pressoché completamente utilizzata. Inoltre vi sono stati
scarsissimi investimenti negli impianti di raffinazione. Ciò ha per effetto che
i prezzi di riferimento delle migliori qualità di greggio, che sono il Brent e
il West Texas, sono esplosi ancor più. Le strozzature dell’offerta non possono
certamente essere risolte in breve tempo. Quindi è probabile che il prezzo
continui a salire sul medio termine (pur facendo anche ampie correzioni).
L’inversione di tendenza potrebbe
avvenire grazie ad un calo del consumo. La domanda potrà però diminuire solo se
l’economia mondiale rallenterà fortemente. Finora ciò non è avvenuto: in
altri termini, finora l’impennata del petrolio non ha prodotto significative
conseguenze economiche. Questo fenomeno è sicuramente il frutto della maggiore
efficienza energetica dei paesi industrializzati (rispetto agli anni Settanta
consumiamo la metà di energia per produrre un’unità di Pil), per cui il rialzo
del greggio ha pesato meno sulla crescita economica. E’ anche dovuto al fatto che
l’attuale situazione economica ha fatto sì che l’aumento del prezzo del petrolio
agisse come una tassa che decurta il reddito disponibile delle famiglie, senza
innescare una spirale al rialzo generale dei prezzi. L’entità e la rapidità del
recente movimento al rialzo stanno però mettendo in forse queste certezze. Si cominciano cioé a manifestare tensioni
inflazionistiche che moltiplicherebbero gli effetti economici negativi del
caro-petrolio. In buona sostanza, si confermerebbe la regola secondo cui
l’ascesa del prezzo del petrolio finisce con una recessione che produce poi il
declino del suo prezzo. Insomma, ci stiamo rapidamente avvicinando alla «soglia del dolore». Basti pensare che oggi il prezzo del petrolio è ai massimi in termini nominali, ma che in termini reali non ha ancora raggiunto le vette del secondo choc petrolifero del 1979, che secondo i diversi calcoli corrisponderebbero ad un prezzo odierno tra i 90 e i 120 dollari il barile. Oggi questa soglia appare purtroppo non molto lontana. *Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua italiana.
Fonte - Il Corriere del Ticino
L' America corre
fuori tempo massimo ________________________________________________ 1 Ottobre 2005 3:56 New York (di *Paul Craig Roberts) *Paul Craig
Roberts e' un commentatore conservatore, professore al dipartimento John M. Olin
dell' Institute for Political Economy, research fellow all' Independent
Institute e ricercatore senior della Hoover Institution, Stanford University. Ex
direttore e columnist di The Wall Street Journal, scrive regolarmente per
Creators Syndicate e per Investors Business Daily. George
W. Bush passerà alla storia come il presidente che più di ogni altro ha perso
tempo con cose inutili mentre il proprio paese ha perso il proprio status di
superpotenza mondiale. La guerra ha donato ad al-Qaeda nuove reclute,
prestigio e un terreno di addestramento.
Recenti sondaggi evidenziano che la maggioranza dei cittadini statunitensi crede
che gli Usa non riusciranno a vincere la guerriglia irachena. La maggioranza è a
favore del ritiro e al dirottamento delle spese belliche verso la ricostruzione
di New Orleans. Nonostante l’evidenza della volontà popolare, i
repubblicani continuano a sostenere una guerra sgradita.
L’amministrazione Bush sta sforando i propri bilanci per una cifra
attorno ai 1000 miliardi di dollari all’anno. Il deficit federale si aggira sui
500 miliardi di dollari. Il deficit commerciale degli Usa sta raggiungendo i 700
miliardi di dollari.
Materie prime: il boom è appena cominciato 23 Ottobre 2005 23:22 Milano (di Vincenzo Sciarretta) ________________________________________ Al
telefono, Jim Rogers, il leggendario investitore newyorkese, gongola. L’indice
delle materie prime da lui creato, il Rogers International Commodities Index
(Rici), ha messo a segno, se calcolato in euro, un rialzo del 35%, stracciando
azioni e obbligazioni. Quando nel 2002 iniziò a parlare ai lettori di B&F
di commodity come di un grande tema d’investimento, i veicoli per cavalcare
l’andamento di petrolio, oro e cereali erano confinati ai contratti future.
Adesso si sono moltiplicati e includono certificati, obbligazioni e fondi (vedi
servizio a pagina 56). E, secondo
l’esperto, l’apprezzamento proseguirà. «Vendere oggi - dice - sarebbe come aver
venduto le azioni americane nel 1985 dopo soli 5 anni di toro. Ma queste
tendenze durano 10 o 20 anni. Io aspetto le correzioni per comprare e non per
vendere». E per
le azioni?
Wall Street andrà su e giù come negli
anni ’70, che rappresentano una buona mappa per orientarsi: i prodotti di base
salivano, i bond scendevano e le azioni estenuavano i risparmiatori con allunghi
alternati a netti capovolgimenti. Il nostro decennio si muoverà su questa
falsariga.
Parliamo del dollaro. Da inizio anno, il biglietto verde ha messo a segno un bel
rialzo. È l’inizio di un nuovo trend per la valuta americana o è un’occasione
per venderla?
Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza
Il doppio deficit la polpetta avvelenata per Bernanke 7 Novembre 2005 11:18 - Roma (di Eugenio Occorsio) ________________________________________ «Tutti e quattro i precedenti capi della Federal Reserve, Arthur Burns, William Miller, Paul Volcker e Alan Greenspan, sono stati subito, appena messo piede nell’ufficio, chiamati a misurarsi con problemi per i quali non erano preparati. Burns si trovò con un’inflazione impazzita, Miller dovette fronteggiare un crollo del dollaro, Volcker una dura recessione e Greenspan la caduta delle azioni del 1987. Bene, io credo che un destino analogo attenda Ben Bernanke: dovrà fronteggiare un’emergenza per la quale non è preparato». Stephen Roach, capo economista della Morgan Stanley, uno degli analisti e dei Fed watchers più prestigiosi del mondo (tra l’altro alla Fed ha anche lavorato), invita a temperare gli entusiasmi, e ci spiega quale sarà quest’emergenza: «Bernanke puntualizza è famoso per la sua conoscenza e la sua attenzione sui temi dell’inflazione, ed è stato scelto da Bush proprio perché si pensa che l’inflazione sarà il maggior problema dei prossimi anni. Io credo che la realtà sarà molto diversa: l’inflazione non è né sarà un problema, la vera questione che esploderà fra le mani del prossimo presidente della Fed sarà la crisi dei conti pubblici americani». Bè, veramente Bernanke ha fama di solido economista in senso lato, possibile che andrà nel panico per una questione imprevista? «Senta, io sono 33 anni che seguo la Fed, e tutte le volte mi è capitato di dover assistere con palpitazione alle difficoltà di un presidente, prestigioso quanto si vuole, alle prese con un problema per cui era impreparato. Poi, certo, se l’è cavata, ma le difficoltà per il paese sono state molto forti. Ora, Bernanke arriva con le migliori credenziali. Il suo pedigree è impeccabile, ha studiato e poi insegnato nelle migliori università, i giornali accademici sono pieni dei suoi editoriali, è forse l’economista più sofisticato oggi disponibile. Però ha scarsa esperienza sui mercati ed è tutta da dimostrare la sua capacità di leadership internazionale in circostanze eccezionali e, ripeto, impreviste». Lei però è da tempo che ripete i suoi allarmi sui conti pubblici, il deficit in effetti si aggrava di anno in anno, però non succede niente... «Proprio niente direi di no, dodici rialzi consecutivi dei tassi le sembrano niente? Comunque, è vero, rischio di ripetermi e di andare a finire come il ragazzo che gridava "al lupo, al lupo". Per la precisione, sono quattro anni e mezzo che immancabilmente ad ogni uscita pubblica mi sento ripetere: e allora? Quando avremo questo drammatico aggiustamento dovuto ai deficit americani e al loro finanziamento? Io resto convinto che la situazione sia insostenibile. Anzi, quanto più a lungo si tira avanti e il mondo deve sostenere un disequilibrio come l’attuale, e tanto più aumentano i pericoli di una crisi globale e molto profonda. Molti sono gli aspetti da tener presente: per esempio, in diversi paesi si assiste ad una crescita economica interna, a partire dal Giappone ma anche probabilmente in Germania, che finirà con l’assorbire risorse sottraendole ad un mero investimento in attività denominate in dollari. E anche la Cina, altra fondamentale ‘sostenitrice’, sarà sempre più orientata a stimolare i consumi interni». Per inciso, l’attuale situazione dei prezzi petroliferi sta dando il suo contributo alle tensioni internazionali? E quanto durerà? «Diciamo che sicuramente contribuisce all’inflazione, però in misura contenuta e contenibile. Voglio dire che ha alzato di qualche decimo di punto gli indici dei prezzi, ma assolutamente niente di drammatico, e questo perché l’occidente è meno dipendente dal petrolio, perché anche se costa caro ce n’è tantissimo, perché oggi l’industria non dipende più dal manifatturiero ma dai servizi, e mille altri motivi. Per tutto questo, dico che l’effetto maggiore è stato paradossalmente che ha diffuso la paura, anzi il terrore, di un boom dell’inflazione. E questo è ingiustificato. Per la seconda parte della sua domanda, quanto durerà il rialzo, è veramente difficile da dire, dipende da mille fattori, dai conflitti, dalle capacità di assorbimento dei paesi di nuova industrializzazione, anche dal tempo che farà quest’inverno. In linea di massima, potrei azzardare che il peggio è passato, e infatti i consumatori americani hanno ricominciato subito a comprare appena i prezzi del petrolio sono scesi un minimo, però è veramente difficile da dire. E poi il problema per i consumatori americani non è che non comprano, è che pur di farlo finiscono con l’indebitarsi oltre ogni ragione». E qui veniamo al tema centrale. Lei sostiene da anni che non è possibile che l’America viva ‘a credito’, basandosi sul fronte dei conti pubblici sul flusso di denaro che arriva dai grandi investitori stranieri, soprattutto orientali, e sul fronte dei conti privati sui soldi che la gente affannosamente prende in prestito. E’ sempre questo il problema? «Certo, anzi come le dicevo è in continuo peggioramento. Ma lo sa che il tasso di risparmio è arrivato all’1,5 per cento del pil Usa, e che non è mai stato più basso? E che entro l’anno prossimo, secondo i nostri calcoli, arriverà a zero? Ora, mi dica se è sostenibile che un paese come l’America, il leader economico mondiale, non riesca a risparmiare neanche un centesimo e che continui a investire montagne di capitali presi a prestito dall’estero. E le lascio solo immaginare cosa accadrà se, come tutti gli economisti all'unanimità ormai indicano, il boom immobiliare finirà fra poco e con esso si prosciugherà la possibilità per i privati di rifinanziare continuamente il loro mutuo secondo il modello diffusissimo in America. Ecco, su questo dovrebbero concentrarsi le autorità monetarie, non su una paura dell’inflazione assolutamente esagerata. Tutti si preparano alla battaglia come negli anni 70, quando si andò a finire con la stagflazione, cioè recessione più inflazione, ma le condizioni erano totalmente diverse». Significa che Bernanke si prepara ad affrontare battaglie nuove con metodi antichi? «Guardi, vuol dire semplicemente che ci si dovrebbe concentrare su un problema preciso: qui sta per scoppiare la madre di tutte le bolle speculative, quella dei conti pubblici e privati insieme, perché c’è un mostruoso deficit dei pagamenti, e lo scoppio sarà rafforzato dalla contemporanea crisi dei valori immobiliari. E non bisogna fare errori come quelli che ha fatto Greenspan». Greenspan? Il Maestro, come lo chiamano, in italiano e con la maiuscola, i suoi connazionali? «Sì, il Maestro. Ha di fatto incoraggiato gli americani, tenendo i tassi incredibilmente bassi per un periodo protratto di tempo, a non risparmiare più nulla, ed è come dicevo la prima volta che il national savings rate finisce in negativo nella storia, o almeno dal 1933 quando questi conteggi hanno cominciato ad essere fatti. Parallelamente, con il deficit pubblico che è andato crescendo in modo anch’esso incontrollato, la Fed ha dovuto fare equilibrismi finanziari per attrarre capitali stranieri. Il capitolo finale di questa storia, dell’America povera che vive da ricca, dev’essere ancora scritto, e lo sarà sotto la nuova presidenza della Federal Reserve. La crescita economica del paese, e con essa dell’occupazione, dello sviluppo, anche dei partner occidentali, è appesa a questo filo sempre più sottile. Questa è la vera sfida per Bernanke. Come se non bastasse, ora ci si è messa anche Katrina». Katrina? L’uragano? «Guardi che i costi della ricostruzione, anzi prima del cleaningup che è appena cominciato, sono enormi. E anche pieni di incognite come il recupero della piena funzionalità delle raffinerie petrolifere e dei terminal portuali. Abbiamo calcolato che i costi finali, a carico per lo più delle amministrazioni federali e locali, potrebbero costare fino a un punto di più nel rapporto deficitpil rispetto a quanto oggi preventivato, si potrebbe cioè arrivare al 3,8% nel 2005». Aumentano insomma le spese senza che a questo corrispondano risorse interne adeguate. Fino a quando durerà? «Senta, per non ricadere nella sindrome del richiamo "al lupo" le dico solo che il deficit delle partite correnti, il più preoccupante fra i vari deficit di cui stiamo parlando, nella prima metà del 2005 ha viaggiato sulla base di una media annuale di 800 miliardi di dollari. Significa che attualmente occorre che 3 miliardi di dollari per giorno lavorativo arrivino in America dall’estero. Ora, visto anche le conseguenze di Katrina di cui parlavo, la situazione è destinata a peggiorare. Per sostenere quest’afflusso serve una solidissima fiducia nei confronti dell’America da parte del resto del mondo. E tenere alta questa fiducia è il compito su cui dovrà concentrarsi Bernanke, altro che l’inflazione. Altrimenti ogni giorno rischiamo due cose: un crollo del dollaro, un crollo vero intendo, e un correlato brusco rialzo dei tassi d’interesse, che a sua volta ovviamente porterebbe ad una contrazione dell’economia. Mi pare evidente che non possiamo continuare a fidarci solo della benevolenza degli stranieri». Oltretutto, la benevolenza verso l’America non sembra un sentimento molto diffuso nel mondo...
Fonte - La Repubblica
Tassi USA: tredicesimo e ultimo rialzo per Greenspan 12 Dicembre 2005 23:58 MILANO (di FtaOnline) ________________________________________ La BCE ha deciso (finalmente per alcuni, avventatamente per altri) di mettere mano alla leva dei tassi di interesse, decretandone un rialzo, probabilmente il primo di una serie. Il comportamento della Federal Reverse e le dichiarazioni che accompagnano gli interventi della Banca Centrale Usa lasciano invece pensare che l'era dei rialzi volga ormai al termine, anche se appare molto probabile che oggi 13 dicembre il Presidente uscente della Federal Reserve, Alan Greenspan, possa, salvo colpi di scena dell'ultima ora, rialzare il costo del denaro di 25 punti base. Sarebbe questo l'ottavo incremento nel solo 2005, forse il penultimo della serie iniziata a metà 2004 quando il saggio sui Fed Funds era all'1 per cento. I successivi, se ci saranno, verranno attuati sotto la guida del nuovo Presidente, Ben Bernanke. Valutando, forse in modo semplicistico, le diverse tempistiche di intervento delle due Banche Centrali, è possibile ipotizzare che gli Usa siano circa 18/24 mesi avanti rispetto ai paesi dell'area Euro lungo la curva del ciclo economico. Immaginando di rappresentare l'evoluzione del ciclo come un circolo diviso in quattro quadranti, ciascuno della durata di 18 mesi circa, con il primo quadrante che rappresenta l'avvio dell'espansione, il secondo la fase matura della ripresa, il terzo l'avvio della recessione ed il quarto la recessione piena, è possibile immaginare che gli Usa stiano iniziando adesso a percorrere il secondo quadrante, mentre gli stati dell'area Euro si stiano incamminando adesso sul primo. Il Giappone è probabilmente in una posizione intermedia rispetto agli altri due blocchi citati, mentre i paesi a più alto tasso di crescita, come Cina ed India stanno percorrendo una circonferenza diversa, quindi non confrontabile con quella delle economie più mature. Per Europa, Giappone e Stati Uniti si prospetta quindi ancora un periodo di crescita che va dai due ai tre anni e mezzo prima che si verifichi una nuova fase di recessione. In base a queste osservazioni quale potrebbe essere la giusta strategia di investimento nei prossimi mesi? Per rispondere a questa domanda è necessario fare riferimento alle teorie dell'analisi intermarket. Durante la fase di espansione economica, come quella attuale (matura negli USA ed ancora in fase di decollo in Europa) l'inflazione ed i tassi di interesse reali in crescita fanno calare i prezzi dei bond ed il mercato delle commodities si avvia a toccare i suoi massimi (le voci, anche autorevoli, di un petrolio stabile tra i 50 ed i 70 dollari nel prossimo futuro si sprecano, non sono più in molti a scommettere su di una ulteriore crescita delle quotazioni del greggio). In una seconda fase i tassi alti e, spesso, l'intervento restrittivo delle autorità monetarie (già molto avanzato negli Usa e forse prossimo alla fine, appena iniziato in Europa) colpiscono negativamente le azioni. A questo punto (ma presumibilmente prima di raggiungerlo dovrebbero passare 1/2 anni) l'economia entra in una fase di recessione: la domanda si riduce e con essa la produzione e quindi la domanda (ed i prezzi) delle materie prime. La ridotta domanda di beni si traduce quindi in una ridotta domanda di moneta con conseguente calo degli interessi. Questo comporta il rally dei titoli a reddito fisso e, successivamente, quello dei titoli azionari. A questo punto riparte la crescita dell'economia reale seguita dalla crescita di interessi ed inflazione. E il ciclo si ripete. Dal punto di vista operativo nella prima fase dell'espansione dell'economia, quella dove si trova l'economia mondiale adesso, è meglio posizionarsi sul mercato dell'oro, delle materie prime e dei relativi futures per profittare al massimo del loro apprezzamento, mentre conviene alleggerire le posizioni in obbligazioni, almeno quelle a vita residua più lunga. In questi periodi, per quanto il mercato azionario complessivamente sia ancora in crescita, sarebbe meglio passare da titoli azionari interest sensitive (finanziari, TMT, ciclici, utilities con forte leverage) a titoli che performano meglio in contesti inflattivi (materie prime, miniere, chimici, farmaceutici, titoli petroliferi ed energetici). Nella seconda fase dell'espansione, si assiste al top degli interessi e del CRB index, mentre i bond sono ai minimi ed inizia il calo sui mercati azionari (uno scenario che potrebbe essere di attualità tra un anno circa): in questo contesto "cash is king". Mentre l'economia entra nella fase di recessione, con oro, inflazione e materie prime in calo, bisognerebbe iniziare a ritornare sui mercati obbligazionari. Con il bottom del ciclo economico reale, i tassi sono ai minimi e i prezzi dei titoli tendono a raggiungere i massimi (mentre il CRB index è prossimo ai minimi). Uno scenario di questo tipo è forse troppo lontano da quello attuale per essere di attualità, ma è sempre meglio avere presente il quadro completo e non solo i dettagli per evitare di prendere decisioni di investimento con il timing errato. In sintesi quindi il 2006 potrebbe portare listini azionari ancora al rialzo, ma forse più in Europa ed in Giappone che negli Usa, obbligazioni in calo, soprattutto quelle a più lunga scadenza, e materie prime stabili, con forse l'eccezione dell'oro, in crescita a causa di dinamiche nuove sul fronte della domanda, e del carbone, il cui prezzo potrebbe aumentare per effetto del tentativo di sostituire questo combustibile al petrolio dove possibile per la produzione di energia.
Fonte - FtaOnline per Wall Street Italia
02 dicembre 2005 - MILANO (Maria Grazia Briganti) ________________________________________ Le quotazioni sfondano i 500 dollari l'oncia, toccando i livelli del 1983. Ma questa volta vi è un fatto nuovo. Alla base dei rialzi non c’è la crisi di fiducia nell’investimento finanziario e nell’economia. Lo scenario mondiale è cambiato, a partire dai Paesi emergenti che entrano sul mercato, come nuovi, ricchi, acquirenti. Dopo una pausa di riflessione di due giorni, il prezzo dell’oro ha sfondato la soglia psicologica dei 500 dollari l’oncia (31,1035 grammi). A spingere verso l’alto le quotazioni, che nell’ultimo mese sono salite del 6% ed è di circa il 17% il rialzo da inizio anno, vi sono i massicci acquisti degli investitori che, oltre alla classica necessità di diversificare i portafogli, stanno prendendo posizioni su un bene la cui domanda mondiale è vista crescere esponenzialmente. Non solo perché le banche centrali asiatiche stanno convertendo le loro riserve da dollari a oro, ma perché -fattore nuovo rispetto al passato- le economie emergenti, più ricche e solide, si stanno affacciando sullo scenario internazionale come nuovi, aggressivi acquirenti. L’oro di solito costituisce un investimento sicuro in tempi di alta inflazione o di crisi economiche a livello globale. La sua caratteristica di bene rifugio dipende anche dal fatto che è un metallo poco utilizzato nell’industria, diversamente dalle altre materie prime e minerali i cui prezzi tendono a muoversi in linea con la crescita economica a causa del loro più o meno intenso utilizzo nel settore industriale. Ma attualmente non vi sono segnali di crisi economiche. Trascurando i tassi di crescita vicini alle due cifre dei paesi asiatici, il prodotto statunitense e' salito del 4,3%: è il decimo trimestre consecutivo in cui l'economia statunitense è aumentata più del 3%. Anche in Europa, le attese sono per una crescita che si attesterà intorno al 2% per il 2006. Dal punto di vista dell’inflazione, essa è sotto l’occhio vigile delle banche centrali, americana ed europea, che sono già intervenute sui tassi, mentre la prima causa di surriscaldamento dei prezzi, il petrolio, è oggi stabile attorno a 55 dollari al barile. Ma l’oro è utilizzato come strumento di copertura contro movimenti al ribasso dei prezzi nei mercati finanziari, perché quando gli investimenti scendono e cala la fiducia nei titoli mobiliari, solitamente aumenta la necessita di detenere asset fisici, come i lingotti d’oro o le proprietà immobiliari. Storicamente, le valutazioni più alte si sono raggiunte nel 1980, a quota 873 dollari l’oncia. Nel ventennio successivo, fino alla fine degli anni ’90 le condizioni generali del mondo sono migliorate: l’inflazione è stata combattuta, la democrazia è arrivata in molti Paesi emergenti, le barriere al movimento di capitali sono state abbattute. Con i mercati in ripresa, gli investitori hanno accantonato l’investimento in lingotti. Fino allo scoppio della bolla speculativa, quando le valutazioni gonfiate del 2000 hanno reso l’acquisto di oro di nuovo conveniente. I corsi auriferi sono saliti, ma anche i mercati finanziari hanno pian piano smaltito gli eccessi e stanno per archiviare il loro secondo anno consecutivo in crescita. E le previsioni restano positive anche per il 2006. I tempi sono cambiati, dunque, perchè al momento l’inflazione non è una vera minaccia, né vi sono crisi economiche in atto. Al contrario. Perchè è proprio la maggiore ricchezza economica dei paesi emergenti, India e Cina in testa, a sostenere la domanda e non solo in vista della stagione dei matrimoni e delle festività asiatiche di fine anno. Secondo il World gold Council, l’India, primo consumatore mondiale, quest’anno dovrebbe incrementare i suoi acquisti del 40%, superando le 850 tonnellate.
Fonte - Miaeconomia.it
Petrolio: Goldman lo vede a $105 15 Dicembre 2005 18:20 MILANO (di La Lettera Finanziaria) ________________________________________ Goldman Sachs torna con la sua previsione "catastrofista" sul prezzo del greggio. Gli analisti vedono a 105 dollari al barile con una "super-impennata" che forse durerà fino al 2009, a causa della scarsità dell'offerta rispetto alla domanda. Già lo scorso marzo Goldman stimò che il greggio, quotato attualmente poco sopra i 61 dollari al barile, potrebbe raggiungere 105 dollari al barile nel futuro. Oggi la banca americana compie un passo avanti: ribadisce la stima e le assegna un'indicazione temporale, entro la quale l'impennata potrebbe verificarsi. Nella "migliore delle ipotesi," gli analisti di goldman, fra cui Arjun Murti, stimano che il prezzo medio del greggio sarà di 68 dollari al barile nel 2006. "Non siamo d'accordo con l'opinione prevalente che le quotazioni del greggio abbiano raggiunto i massimi nel 2005," hanno scritto gli analisti in un rapporto inviato ieri ai clienti. Mercantile Exchange sono balzati del 50 percento negli ultimi 12 mesi, spinti dalla "perdurante domanda energetica, dalla fiacca crescita dell'offerta e dalla inesistente capacità inutilizzata," hanno indicato gli analisti. Il loro rapporto cita "l'ostacolo apparentemente insormontabile" di aumentare la capacità petrolifera in maniera tempestiva da parte dell'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, come motivo che "ci rende così certi di essere in una fase di 'super-impennata' del mercato energetico". Le azioni del settore petrolifero e del gas potrebbero offrire rendimenti del 60 percento, via via che i prezzi delle materie prime salgono verso i loro massimi, ha scritto murti. I titoli azionari consigliati da goldman includono quelli di Exxon Mobil Corp., Murphy Oil corp., Suncor Energy inc. e Encana corp.
Fonte - La Lettera Finanziaria
Mercato immobiliare e occupazione. Dopo aver raggiunto il livello record
di 7,1 milioni di dollari nel 2005, le compravendite di abitazioni dovrebbero
rallentare nel corso del 2006, specie a fronte dei rialzi dei tassi che rendono
meno favorevole accendere mutui. Gli economisti interpellati da Bloomberg
prevedono che quest'anno le compravendite di abitazioni esistenti si fermeranno
a 6,84 milioni di dollari. Questo potrebbe avere riflessi anche
sull'occupazione, dal momento che il settore delle costruzioni è stato nel 2005
uno di quelli che più a contribuito alla formazione di nuovi posti di lavoro.
Nel 2005 sono stati creati 2,02 milioni di nuovi posti di lavoro, con una
differenza minima rispetto ai 2,194 milioni creati nel 2004. Poichè si tratta
dei maggiori valori dal 1999, gli eocnomisti osservano che l'economia americana
non può continuare a creare posti di lavoro a questo ritmo troppo a lungo senza
scontrarsi a un certo punto con i limiti della capacità produttiva.
L'inflazione rallenta la marcia. Il 2006 sarà anche un anno di frenata
per l'inflazione americana, grazie soprattutto ai ribassi dei prezzi attuati in
molti settori - a partire da quello dell'auto dove proprio oggi la numero uno
mondiale General Motors inaugura drastici tagli ai listini - al fine di
sostenere le vendite e restare competitivi. Lo stesso sondaggio Bloomberg
vede una crescita dei prezzi del 2,8% nel 2006, a fronte di un incremento del
3,7% nel corso del 2005. Questo a patto di una certa stabilità dei prezzi
petroliferi, che però proprio in questi primi giorni del 2006 sono soggetti a
nuove tensioni, anche di origine speculativa. Nel complesso la situazione resta
tuttavia più favorevole. Ad esempio, rispetto al record del 5 settembre scorso,
quando il prezzo della benzina alla pompa era arrivato negli Stati Uniti a 3,06
dollari al gallone, oggi gli americani fanno il pieno all'auto con 2,31 dollari
al gallone.
Le
mosse della Fed. Dopo aver alzato il costo del denaro 13 volte dal giugno
2004 ad oggi, la Federal Reserve potrebbe prendersi una pausa. Rispetto al 4,25%
a cui sono arrivati oggi i Fed Funds, gli economisti interpellati dalla
Bloomberg prevedono che i tassi arriveranno entro fine marzo al 4,75% e lì si
fermeranno per il resto dell'anno. Questo a patto che l'inflazione non
torni in fibrillazione. Se così fosse, la Fed si troverebbe costretta a
procedere con ulteriori rialzi dei tassi che potrebbe essere la cuasa di un
atterraggio duro dell'economia americana.
Fonte - La Lettera Finanziaria per Wall Street Italia
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