Indice cronologico articoli segnalati in Previsioni 2006

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Titolo

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Allarme rosso sul mercato immobiliare

GEN 05

RISCHI CONCRETI BOLLA IMMOBILIARE NEL PROSSIMO BIENNIO

IMMOBILI

Fiat Money

GEN 05

DEFLAZIONE NEGLI USA

DEFLAZIONE

Terrorismo: 10, 100, 100 Al Quaeda

GEN 05

TERRORISMO IN EVOLUZIONE PER GLI ESPERTI USA

TERRORISMO

Case: BCE lancia l'allarme, prezzi fuori controllo

FEB 05

RISCHI BOLLA IMMOBILI IN EUROPA

IMMOBILI

Il super Hedge Fund delle famiglie USA

MAR 05

INDEBITAMENTO FAMIGLIE USA A LIVELLI RECORD -  ABN AMRO

DEBITI FAMIGLIE USA

Economia USA: ritorno alla realtà

APR 05

CALO CONSUMI + INDEBITAMENTO FAMIGLIE USA -  GIU' BORSE

CALO CONSUMI + DEBITI

America: radiografia vera dell'economia

MAG 05

SQUILIBRI DELL'ECONOMIA USA E EFFETTI NEL PROSSIMO SEMESTRE 1 ANNO

LEADING INDICATOR FED

Paradosso del dollaro: i poveri finanziano i ricchi

MAG 05

PERCHE' E CHI SOSTIENE IL DOLLARO

DOLLARO

L’oracolo di Omaha e la roulette russa del mercato credito

MAG 05

USO IMPROPRIO DEI DERIVATI

DERIVATI + BUFFETT

Smart money: attenti ai rischi

MAG 05

LA LEVA TASSI è UN BOOMERANG + RALLENTAMENTO ECON.  IN USA E EURO

TASSI

Buffett ancora short sul dollaro

GIU 05

BUFFETT SHORT DOLLARO + DEFICIT USA STELLARE

DOLLARO + DEFICIT USA

Pericolo deflazione

GIU 05

BILL GROSS PIMCO - DEFLAZIONE DA IMMOBILI E TASSI E BOND

DEFLAZIONE

Petrolio: effetto Teheran

GIU 05

STAGFLAZIONE + PETROLIO  ALTO + INFLAZIONE + DISOCCUPAZIONE anni '70

STAGFLAZIONE

I rischi della bolla

GIU 05

GREENSPAN  AMMETTE UFFICIALMENTE IL RISCHIO DI UNA BOLLA

IMMOBILI

Mercati: pericolose velleità rialziste

LUG 05

REAZIONE BORSE AGLI ATTENTATI LONDRA + IMPOSTAZIONE TECNICA E FONDAM.

TERRORISMO E BORSE

Tassi USA: curva piatta guai in vista

LUG 05

APPIATTIMENTO DELLE CURVE & RISCHI CORRELATI + ENIGMA GREENSPAN

CURVE TASSI

Ancora dubbi sull'enigma di Grennspan

LUG 05

ENIGMA DI GREENSPAN - IMMOBILI + CURVE + CONSUMI

GREENSPAN

Non prendete sottogamba il caro-greggio

AGO 05

PETROLIO 70 E EFFETTI MACRO

PETROLIO TOP 70

L' America corre fuori tempo massimo

OTT 05

EFFETTI NEGATIVI DELLA GUERRA IN IRAQ

IRAQ

Materie prime: il boom è appena cominciato

OTT 05

TREND M.P. OK PER PROSSIMI 10-15 ANNI + DOLLARO PROSSIMO KO

M.P. + DOLLARO

Il doppio deficit la polpetta avvelenata per Bernanke

NOV 05

DOPPI DEFICIT COMBATTUTO CON MEZZI ANTICHI

DEFICIT USA

Tassi USA: tredicesimo e ultimo rialzo per Greenspan

DIC 05

13 RIALZI DALL'1% - 8 NEL 2005

TASSI

WALL STREET arretra, paura dei bond

DIC 05

CURVA TASSI PIATTA

TASSI

La nuova età dell'oro

DIC 05

ORO + TASSI + CINA + INDIA

ORO

Petrolio: Goldman lo vede a $105

DIC 05

PETROLIO PREVISIONI

PETROLIO

Soros: America in recessione nel 2007

GEN 06

MACRO USA + IMMOBILIARE + FED

MACROECO USA + SOROS

 

Ricordiamo ai lettori che gli articoli sotto riportati, sono stati prelevati da fonti stampa autorevoli sempre segnalate, senza alterarne in alcun modo il contenuto nel rispetto delle normative vigenti a livello nazionale e internazionale.

La Rassegna qui presente rappresenta solo una minima parte dell'archivio storico di Studio CFA; Detto archivio è fruibile gratuitamente da tutti i visitatori del sito www.studiocfa.net

Per ulteriori approfondimenti potete visionare la sezione HOME NEWS nella barra di navigazione posta all'inizio e alla fine di questa pagina

 

 

 

  Allarme rosso sul mercato immobiliare

In assenza di accurate scelte di politica economica del governo Usa, nei prossimi due anni assisteremo ad una serie di sconvolgimenti sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression”.

 

6 Gennaio 2005 0:06 Los Angeles (di Dario Bianchi)

*Dario Bianchi e' il Managing Director di Capitalife, Inc. www.capitalife.com

 

E’ tempo di cambiamenti dirompenti sui mercati finanziari internazionali. In questo momento il dollaro ha raggiunto i minimi storici contro l’Euro. Non si vedevano cambi di questo genere dagli anni '70, quando Nixon separò il golden standard dal dollaro.

Nel lontano 1972 l’oro veniva quotato $32 per oncia. Se oggi tutte le valute fossero legate ad un “hard asset” come l’oro, o l’argento, la maggior parte dei paesi non dovrebbe fare continuo ricorso alla creazione di carta moneta, ed i problemi monetari sarebbero complessivamente e globalmente più gestibili.

Il valore di ogni moneta sarebbe solido, la speculazione non intaccherebbe le valute con l’attuale intensità e si eviterebbe un’eccessiva espansione della massa monetaria. In aggiunta, i governi non avrebbero a disposizione leve finanziarie e non spenderebbero più fondi di quelli realmente disponibili. Il risultato sarebbe una tassazione più bassa ed equa, ed un risparmio più alto.

Dobbiamo assumere che, non avendo esercitato tale disciplina monetaria negli ultimi 30 anni, il governo degli Stati Uniti e quelli Europei difficilmente la applicheranno in futuro. Se il crescente debito degli USA ed il deficit corrente continueranno sugli attuali livelli, il sistema di cambi che oggi conosciamo verrà distrutto. Quanto tempo è necessario prima che questo accada? Difficile dirlo con precisione, ma dobbiamo essere consapevoli che, in assenza di accurate scelte di politica economica, nei prossimi due anni assisteremo ad una serie di sconvolgimenti sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression” degli anni 30.

 

Il dilemma del Real Estate

In un recente articolo, The Economist riporta che “negli ultimi tre anni il valore totale del real estate residenziale nei paesi industrializzati, ha avuto un incremento da un valore totale di circa $20,000 miliardi, ad uno approssimativo di $60,000 miliardi. Anche se ciò è in parte dovuto al declino del dollaro, è pur sempre il doppio dell’incremento di $10,000 miliardi, che avvenne dal 1999 al 2000 con l’esplosione del mercato azionario. E’ questa la più grande bolla della storia?” Questo articolo ci fa capire come l’economia si sia sostenuta dal 2000 ad oggi.

Prendendo come riferimento i principali indicatori real estate per queste previsioni economiche, vediamo come lo scenario può evolvere. Vari fattori portano a ritenere che nel 2005 e 2006, in alcune zone degli USA (East Coast and West Coast) ed alcuni paesi Europei (Inghilterra, Italia, Spagna, Olanda e Irlanda), centinaia di migliaia di persone non avranno fondi a sufficienza per pagare i mutui, specialmente quelli legati ai tassi a breve ed all’inflazione (in USA chiamati ARM’s). Questo porterà ad una riduzione del valore del real estate residenziale.

Difficile prevedere le proporzioni di tale fenomeno: se il prezzo delle case diminuirà fino ad un 10%, la riduzione sarà ordinata e l’economia potrà sopravvivere e progredire. Se il prezzo scenderà dal 20% al 25%, potremo assistere, analogamente a quanto successe all’inizio degli anni '90, a proprietari che abbandonano le loro case alle banche. A questo punto un intervento governativo si renderà necessario. Ricordate la Resolution Trust Corporation, quando il salvataggio del governo americano era costato all’erario circa 500 miliardi di dollari? Se questo scenario dovesse ripetersi, in USA ci vorranno dai $700 miliardi ai $1.000 miliardi (un bilione) di denaro fresco per prevenire il collasso di molte banche.

Il paragone potrebbe essere il mercato immobiliare Giapponese dal 1991 al 2003. Dove è possibile trovare una somma di questo tipo? D’accordo, qualche investitore straniero, visti i prezzi molto bassi, comprerà real estate in USA, ma la maggioranza verrà dal governo federale che dovra’ ricorrere all’emissione di Treasury Bonds.

A questo punto chiediamoci chi comprerà gli US Treasury Bonds per finanziare il deficit federale, considerando il contemporaneo deficit statale, delle società private, dei singoli individui e, soprattutto, una capacità di risparmio praticamente inesistente? I cinesi, o forse i giapponesi? E per quanto tempo? A quale costo? Dove andranno a finire i prezzi delle commodities? Continueranno ad essere trattati in dollari? Cosa farà l’OPEC? Potrebbe decidere domani di convertire il prezzo dai dollari agli Euro, oppure in un basket di valute che comprende il dollaro, l’euro e lo yen. Cosa farà la Russia? Contratti di gas naturale in Euro?

Se il governo USA non diminuisce il proprio deficit corrente e riduce il debito che ha raggiunto $8.000 miliardi, si puo' essere certi che avremo inflazione e stagnazione allo stesso tempo.

In ogni caso la nostra opinione e' che il prezzo dell’oro andrà a $500 per oncia prima della fine del 2005. E i tassi di interesse a breve (federal funds) saranno tra il 3.5% ed il 3.75% alla fine del 2005.

 

Asset allocation

Nello scenario di cui sopra ogni investitore dovrebbe essere preparato da tempo a diversificare in valute. Il nostro model portfolio è dinamico ed attualmente strutturato come segue: 40% in dollari US, il resto in Euro, Sterlina Inglese, Dollaro Australiano, Dollaro Canadese.

Per quanto riguarda l’asset allocation il nostro model portfolio è il seguente:

10% cash o money market

7% azioni di miniere di oro e argento, certificati di investimento in oro (Perth Mint Certificate), fondi che investono in oro, e monete d’oro

33% in azioni di vario tipo (Life Sciences al 40%) e mutual funds

20% in mercati esteri ed emergenti attraverso fondi di investimento

30% in obbligazioni a breve termine (3 anni) in differenti valute, con rating A o superiore.

 

Fonte • By Dario A. Bianchi • Capitalife, Inc.

 

 

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  Fiat  money

Un dollaro del 1913, anno in cui fu costituita la Federal Reserve – una banca centrale operante nella logica di una moneta non legata all'oro – equivale a circa 30 dollari di oggi. Cioè ha perso quasi il 97% del suo valore. Per cui...

11 Gennaio 2005  02:00 Milano (di Francesco Arcucci)

 

La moneta all’interno di un Paese deve essere creata dalle autorità monetarie su base discrezionale oppure in stretto rapporto con un bene reale, tipicamente l’oro? Il primo modo di creare moneta è detto, in particolare negli Stati Uniti, moneta tratta dall’area sottile (out of thin air) o anche "sia fatta la moneta" (fiat money) e presenta molti vantaggi rispetto alla moneta merce. In particolare quello di venir offerta per qualità e quantità in relazione all’evoluzione del Pil o anche per stimolare lo sviluppo del medesimo e, quindi, in funzione anticiclica (abbondante in fase recessiva e più scarsa in fase di espansione eccessiva).

Tuttavia la moneta fiat è intrinsecamente inflazionistica e profondamente immorale. E’ inflazionistica perché le autorità monetarie, per non sbagliare in senso restrittivo (provocando recessione), tendono ad esagerare in senso espansivo. Gli oppositori della fiat money portano a sostegno della loro tesi che, nel tempo, nessuna fiat money ha conservato inalterato , o quasi inalterato, il suo valore.

Anche in un Paese come gli Stati Uniti, avente grandi risorse e vincitore di due guerre mondiali, un dollaro del 1913, anno in cui fu costituita la Fed – cioè una banca centrale operante nella logica della fiat money – equivale a circa 30 dollari di oggi, cioè ha perso quasi il 97% del suo valore (in Italia lo stesso calcolo porterebbe ad una perdita del valore della lira di circa il 99,99%). In definitiva se è vero si sostiene che il prestigio di una banca centrale si misura con la sua capacità di governare la moneta fiat come se fosse una moneta aurea (vedi Deutsche Bundesbasnk nei decenni passati), perché non ricorrere alla soluzione di ripristinare una moneta convertibile in oro?

Così si eliminerebbe la tendenza intrinsecamente inflazionistica e si ripristinerebbe un sistema monetario sano e non immorale. Dove l’immoralità consiste nel fatto che le persone devono lavorare e faticare tutta la vita per ottenere quella moneta che per la banca centrale è solo un piccolo giro di rotativa.

Ma tant’è. Il ritorno ad una moneta merce, a livello nazionale, è improponibile perché si tratterebbe di ingabbiare lo sviluppo e di far dipendere il ciclo economico dalla disponibilità di oro.

Se il capitalismo tentasse di ritornare ancora su questa strada sarebbe spazzato via in breve tempo dalla furiosa reazione delle masse popolari che, in certi periodi, sarebbero ridotte alla fame. Rimane, quindi, solo la moneta atto di volontà con i suoi peccati originali intrinseci fra cui – come si è detto quello di essere inflazionistica. Per questo le banche centrali vedono nell’inflazione il prodotto delle loro azioni e insieme la loro bestia nera, il nemico con cui combattere una battaglia incessante, continua, senza quartiere.

Questo è il paradosso delle banche centrali del ‘900, o di questo secolo, rispetto ai vecchi istituti di emissione dell’800: creare necessariamente inflazione e combattere senza tregua la loro creatura. Fiat money e inflazione sono due fratelli gemelli e, contemporaneamente, due nemici acerrimi. E così è stato sempre, dal New Deal roosveltiano della metà degli anni ’30 alla fine degli anni ’80.

Ma poi è venuto lo shock: l’esperienza giapponese degli anni ’90. L’esperienza, cioè, di un Paese in cui la banca centrale, attrezzata a combattere l’inflazione, si è trovata indifesa contro la deflazione. E a questo punto i banchieri centrali hanno giurato a se stessi di fare qualunque cosa pur di non trovarsi invischiati nell’accoppiata moneta fiat/deflazione.

In particolare il banchiere centrale che, con più convinzione, ha giurato a se stesso di evitare questa accoppiata funesta è stato Greenspan. Anche perché egli ha capito che, essendo il Giappone un Paese creditore e i giapponesi dei grandi risparmiatori la deflazione ha prodotto ivi danni consistenti al sistema economico, ma limitati. Negli Stati Uniti, Paese debitore e i cui cittadini sono indebitati fino al collo, gli effetti della deflazione sarebbero catastrofici. Un certo grado di inflazione è cioè connaturato al buon funzionamento dell’economia americana. La deflazione, gonfiando i valori reali dei debiti, sarebbe sconvolgente a livello macro e micro economico.

Pur di evitare questa tragedia Greenspan non si è peritato, negli ultimi anni, di inondare il suo Paese, e indirettamente il mondo, di liquidità, minacciando quasi di lanciare i dollari sulla popolazione con gli aerei. Che questo comportamento della Fed potesse generare una nuova bolla speculativa, un nuovo rialzo insano dei prezzi delle azioni, dei bonds, degli immobili, delle materie prime era secondario. Che poi questa politica monetaria si scaricasse sulla debolezza del dollaro abbassando il cambio fino a livelli inimmaginabili in termini di potere d’acquisto era ininfluente. Per sopravvivere occorre fare una lotta senza quartiere alla deflazione. Poi si discute. Primum vivere, deinde philosophari. 

 

Fonte - La Repubblica - Affari & Finanza

 

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  Terrorismo: 10, 100, 100 Al Quaeda

Tra le conclusioni a cui sono giunti gli esperti del Consiglio nazionale dell’intelligence degli Stati Uniti, c'è questa: il terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare e a cambiare strategie e tattiche, nei prossimi anni.

19 Gennaio 2005  03,15 Roma

Quando si analizza lo stesso problema a lungo e a breve termine spesso si giunge a conclusioni diametralmente opposte. E’ il caso, per esempio, della minaccia posta dal terrorismo di matrice islamica alla sicurezza degli Stati Uniti.

Mapping the Global Future è un dossier accessibile al pubblico in cui il Consiglio nazionale dell’intelligence discute il proprio ruolo futuro, in quanto centro di studio strategico per il governo di Washington, a lungo termine. Negli ultimi sette anni sono stati stilati tre dossier di questo tipo: il primo analizzava i trend globali fino al 2010, il secondo fino al 2015, mentre è stato pubblicato giovedì un terzo dossier che prende in considerazione lo scenario internazionale fino al 2020.

Rispetto ai due progetti precedenti, quest’ultimo si è basato su simulazioni computerizzate e una consultazione di oltre un migliaio di esperti, che collaborando tra loro e in base alle rispettive competenze hanno contribuito a sviluppare il futuro scenario politico, strategico e della sicurezza da oggi al 2020, lavorando per circa un anno. I risultati dei vari workshop sono a disposizione del pubblico sul sito internet della Cia cliccando sulla pagina del National Intelligence Council.

Una della conclusioni a cui gli esperti del Consiglio d’intelligence sono giunti è che il terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare nei prossimi anni che, come in molti sostenevano già da prima, la globalizzazione fornirà agli estremisti mezzi sempre maggiori e a basso costi e che (forse è questa la notizia meno aspettata) il terrorismo diverrà sempre più innovativo: «I terroristi probabilmente saranno più originali, non tanto per quel che riguarda la tecnologia o le armi di cui faranno uso, quanto piuttosto secondo l’aspetto operativo - cioè nell’estensione, il progetto o la logistica di supporto di ogni attacco».

Come a dire che c’è da aspettarsi un aumento della creatività del modus operandi degli estremisti indipendentemente dai progressi tecnologici che essi riusciranno a compiere; il che non significa che non stiano cercando di acquisire nuovi mezzi scientifici. Secondo il dossier, infatti, «esiste la preoccupazione che i terroristi possano impossessarsi di agenti biologici oppure, meno probabilmente, di ordigni nucleari». In particolare, la minaccia del bioterrorismo è sembrata agli esperti più reale, perché le armi biologiche «sono particolarmente adatte a gruppi piccoli e bene informati».

Stando agli esperti, infatti, in tempo di globalizzazione il terrorismo di matrice islamica andrà sviluppandosi in cellule di dimensioni sempre più ridotte e meglio addestrate , che però si terranno in contatto tra loro, e internet faciliterà la condivisione di materiali per la guerra e l’addestramento. Al Qaida, insomma, è destinata ad essere gradualmente rimpiazzata da un network di entità islamiste «sempre più decentralizzato, che si evolverà in una schiera eclettica di gruppi, cellule ed individui senza alcun quartiere generale». Davanti alla prospettiva di un simile scenario, il Consiglio d’intelligence suggerisce un approccio al terrorismo «su diversi fronti», proprio in virtù della prevista decentralizzazione e ubiquità della minaccia islamista.

Secondo il dossier, inoltre, la capacità militare, politica, e tecnologica degli Stati uniti è destinata a crescere nei prossimi 15 anni, tanto che Washington manterrà il suo ruolo di guida mondiale nonostante l’ascesa di India e Cina, che pur avrà “impatti drammatici” sull’equilibrio internazionale. 

 

Fonte - Il Riformista

 

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  Case: BCE lancia l'allarme, prezzi fuori controllo

Cinque anni di corsa sfrenata (+45%) ma adesso i costi delle abitazioni rischiano di diventare "insostenibili". Anche se gli operatori, in Italia, non vedono "almeno a breve, alcun rischio di bolla per il mercato del real estate".

10 Febbraio 2005 16:27 Roma (ANSA)

Cinque anni di corsa sfrenata, ora è allarme: i prezzi delle case rischiano di diventare "insostenibili". Il richiamo, forte, è della Banca Centrale Europea, anche se gli operatori, in Italia, non vedono, "almeno a breve, alcun rischio di bolla per il mercato immobiliare". I prezzi delle case, in Italia, sono infatti più bassi rispetto a quelli di Francia e Gran Bretagna e, quest'anno, cresceranno di un modesto 4,1%, quindi - sostengono gli operatori - "poco più dell'inflazione" e nulla in confronto al +12% segnato nel 2004 ed al +45% dell'ultimo quinquennio.

Il mercato, comunque, è destinato a crescere ancora: "non avendo altro settore in cui investire" gli italiani continueranno a puntare sul mattone. "L'effetto congiunto dell'abbondante liquidità e della forte espansione del credito potrebbe indurre incrementi non sostenibili dei prezzi sui mercati immobiliari in alcune parti dell'area euro, avverte la Bce nel suo ultimo bollettino.

La domanda di mutui per l'acquisto di abitazioni continua a essere sostenuta, contribuendo alla vigorosa dinamica dei prezzi degli immobili residenziali". Affermazione questa che trova riscontro negli ultimi dati della Banca d'Italia, dai quali emerge che in dicembre 2004 le richieste di mutui hanno raggiunto livelli record attestandosi a 180 miliardi di euro, circa 30 miliardi miliardi in più rispetto all'anno precedente.

A gettare acqua sull'allarme giunto da Francoforte sono gli operatori del mercato immobiliare italiano, convinti che "ci sia una scarsa percezione" del caro-prezzi, imputabile al fatto che il mercato è mosso ed alimentato soprattutto da coloro che vendono una casa per acquistarne un'altra. "Solo una piccola parte degli acquirenti è composta da famiglie che si affacciano per la prima volta al mercato, circa un 20% - spiega il presidente di Scenari Immobiliari, Mario Breglia - Il mercato è mosso da un notevolissimo ricambio interno dove la percezione del rialzo è scarsa perché si tende a vendere una casa che già si ha a 100 lire, per comprarne una a 130".

Secondo Breglia, "la preoccupazione della Bce non è tanto l'aumento dei prezzi, ma il crescente indebitamento delle famiglie che, se i tassi torneranno a salire, potrebbero trovarsi nella condizione di non poter far fronte ai pagamenti". Nonostante il caro-prezzi, il mercato immobiliare continuerà comunque ad espandersi: "Negli ultimi cinque anni le quotazioni in Italia sono cresciute del 45%, pressoché in linea con il +40-60% registrato a livello europeo - aggiunge Breglia - L'aumento ora è rallentato, pur non registrandosi alcun calo o stabilità dei prezzi, ma la pressione dei consumatori continua ad essere forte: chi acquista lo fa turandosi il naso, compra nonostante i prezzi alti perché non ha altra alternativa in cui investire".

"Il mercato è attivo - sottolinea Guido Lodigiani del centro studi di Tecnocasa - c'é ancora interesse ma non ipotizziamo nessuna bolla per il mercato immobiliare italiano a breve", anche perché la crescita dei prezzi dovrebbe rallentare al +4,1%, con le quotazioni delle abitazioni dei centri storici delle città stabili visto che "ormai hanno raggiunto il picco".  

 

Fonte (ANSA)

 

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  Il super Hedge Fund delle famiglie USA

E´ del tutto evidente che in America si è in presenza di una gigantesca "bolla" speculativa. Gli americani sono dentro a un boom che essi stessi alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma dal quale sembra che non vogliano uscire.

Gli hedge fund, poco noti al grande pubblico (perché sono riservati ai grossi capitali), non godono in genere di buona fama. Li si accusa di essere troppo speculativi e troppo spregiudicati (e in effetti sono nati proprio per questo, per giocare pesante).

Adesso, si è scoperto che esiste un Hedge Fund (ignoto fino a pochi giorni fa) che in realtà è il più grande di tutti (forse addirittura di tutti gli altri messi insieme). Questo Grande Hedge Fund non ha un indirizzo e nemmeno un consiglio di amministrazione: infatti è costituito dall´insieme delle famiglie americane, che si comportano appunto come il più tremendo degli hedge fund.

La scoperta è stata fatta da alcuni analisti della banca Abn-Ambro, che si erano messi a studiare l´economia americana nel 2004. Quello che hanno trovato spiega molte cose sull´economia a stelle e strisce e lascia anche correre qualche brivido lungo la schiena.

Ma vediamo di che cosa si tratta. Nel corso del 2004 i cittadini americani, nonostante abbiano speso moltissimo (sono i loro consumi a aver tenuto a galla, in parte, l´economia mondiale), alla fine si sono ritrovati con un saldo positivo di 1200 miliardi di dollari (differenza fra il reddito e le spese).

E qui la partita potrebbe essere considerata finita, con soddisfazione di tutti. Ma non è così. Infatti i cittadini americani, non contenti di aver speso un sacco di soldi nel corso del 2004, hanno anche investito moltissimo. Si è calcolato che abbiano speso per investimenti 1600 miliardi di dollari.

Poiché nello stesso periodo avevano "risparmiato" (differenza fra redditi e spese) solo 1200 miliardi di dollari, è evidente che si sono ritrovati in rosso. Grosso modo per più di 300 miliardi di dollari (prima abbiamo un po´ arrotondato le cifre, per semplicità).

E qui comincia la storia del più Grande Hedge Fund del mondo. Dove hanno trovato infatti le famiglie americane i 300 miliardi di dollari mancanti per il loro bilancio 2004? Molto semplice: sono andati in banca e se li sono fatti dare. Cosa che le banche, peraltro, hanno fatto molto volentieri perché, se mai al mondo ci sono stati clienti solvibili, questi sono i cittadini americani, pieni come sono di case e di asset finanziari (cioè azioni e bond). Tutta roba buona e anche solida, sicura. E infatti, già che erano in banca, le famiglie americane non si sono limitate a farsi consegnare i 300 miliardi di dollari mancanti dai loro bilanci. Ma se ne sono fatti dare 1100, cioè 800 miliardi di dollari in più.

Ma per farne che cosa? Ottocento miliardi di dollari sono una cifra grossa. La risposta è sorprendente: con quegli 800 miliardi "extra" (presi a prestito dalle banche) i cittadini americani hanno comprato altri asset finanziari, oltre a quelli che già avevano, contribuendo così a sostenere i corsi di quelle azioni e di quei bond (già posseduti), sui quali si basa la loro solidità finanziaria.

Insomma, è come giocare a tombola conoscendo già i numeri che escono. Esattamente come fanno certi hedge fund, le famiglie americane prima hanno comprato dei titoli, poi si sono fatti dare dei soldi dalle banche per comprare ancora altri titoli, che infatti stanno su.

Questo gioco, naturalmente, comincia a diventare costoso. Se l´indebitamento delle famiglie americane era pari al 6,6 per cento del Pil nel 2002, nel 2003 è passato all´8 per cento e nel 2004 al 9,5 per cento del Pil. In sostanza, le famiglie americane sostengono i titoli che hanno già in portafoglio grazie a un indebitamento che cresce a vista d´occhio. E che non può non fare paura. E´ del tutto evidente, infatti, che si è in presenza di una gigantesca "bolla" speculativa, organizzata per di più in modo sistematico dal più Grande Hedge Fund "spontaneo" del mondo: le famiglie americane. E è anche chiaro che tutto questo potrebbe scoppiare da un momento all´altro con conseguenze terribili per tutta l´economia mondiale.

La cosa è talmente vistosa che anche la Federal Reserve (cioè la banca centrale americana) ha cominciato a spaventarsi, e ha varato una politica (annunciata a chiare lettere) di progressivo aumento del costo del denaro, proprio al fine di scoraggiare l´indebitamento crescente delle famiglie americane.

Ma, per ora, pare che non abbia avuto molto successo, visto che il quarto trimestre del 2004 (quando la politica di rialzo del costo del denaro era già stata annunciata e messa in pratica) è stato proprio quello che ha visto la maggior crescita dell´indebitamento delle famiglie negli Stati Uniti. Famiglie che sono dentro a un boom che esse stesse alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma dal quale sembra che non vogliano uscire.

Ma la banca centrale continua nella sua politica e, prima poi riuscirà a far ragionare i suoi cittadini. A quel punto è evidente che ci sarà un calo nella domanda interna (consumeranno di meno e, forse, compreranno anche meno titoli) e proprio per questo la Federal Reserve sta facendo scivolare il dollaro, nel tentativo di recuperare all´estero quegli sbocchi alla produzione che si ridurranno all´interno (con danni evidenti per l´Europa, che farà più fatica a esportare oltre Atlantico).

E l´Europa (che sarà quella chiamata a pagare il prezzo più alto della stabilizzazione americana) che cosa può fare? Niente, anche perché non ha una politica e nemmeno una visione strategica. Sopporterà.

 

Fonte - MiaEconomia.it

 

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  Economia USA: ritorno alla realtà

Lo scossone in borsa, finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver tolto quel velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato da autorità politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. Meglio cosi'.

20 Aprile 2005 - 03:04 Lugano (di Alfonso Tuor*)

Sembra agli sgoccioli il periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari, che aveva tra l’altro fatto sì che si fosse ridotta ai minimi storici per un lungo periodo di tempo la volatilità dei mercati azionari (ossia la misura delle variazioni degli indici). È quanto sembra indicare la correzione delle borse registrata di recente.

In pratica, questo scossone, invero finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver tolto quel velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato da autorità politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. E infatti è «sorprendente» notare come siano svanite nel giro di pochi giorni le certezze sulla forza della crescita statunitense e le preoccupazioni di una resurrezione dell’inflazione e come addirittura i timori sulle conseguenze dell’aumento del prezzo del petrolio siano state repentinamente sostituite dalla paura che l’attuale ribasso del greggio rappresenti un’ulteriore conferma del forte rallentamento dell’economia mondiale.

E questo repentino mutamento d’umore è testimoniato dai mercati dei capitali, dove, e soprattutto negli Stati Uniti, i tassi a lungo termine hanno ripreso a scendere dopo un significativo rialzo, che alcuni prevedevano dovesse continuare a causa del diffondersi di aspettative di inflazione. C’è quindi da domandarsi se stiamo passando da un eccesso di ottimismo ad un eccesso di pessimismo. Molto probabilmente la risposta corretta è che stiamo assistendo ad un ritorno alla realtà.

O, se si vuole, ad una specie di «risveglio» che permette di osservare con freddezza le reali condizioni di salute dell’economia americana. Si teme che le famiglie americane, appesantite da un indebitamento senza precedenti, stiano riducendo i loro consumi, che finora hanno trainato l’intera economia mondiale. Si teme inoltre che il ridimensionamento dei consumi delle famiglie non venga compensato da un aumento degli investimenti aziendali.

In proposito, il campanello d’allarme è stato suonato dai deludenti risultati di IBM e di altre società che hanno risentito di una contrazione degli ordinativi. Si teme anche che un rallentamento della crescita americana non possa essere evitato da misure di politica monetaria né da misure fiscali, visto il crescente indebitamento dello stato federale; e neppure da un maggiore dinamismo di Europa e Giappone, le cui economie invece stanno già da tempo vistosamente rallentando.

Insomma, l’economia mondiale sta assistendo alla perdita di forza del motore statunitense senza poter intravvedere altre economie e altri paesi in grado di fungere da traino e con una situazione internazionale caratterizzata da squilibri insostenibili nel tempo, come quello rappresentato dal disavanzo estero degli Stati Uniti.

Quello che sta cominciando a delinearsi con sempre maggiore chiarezza è che siamo ancora nel bel mezzo del ciclo apertosi nel 2000 con il crollo delle borse, con l’emergere di forti sovracapacità produttive e con l’indebolimento della domanda dovuta alle ripercussioni sui livelli salariali e occupazionali dei paesi industrializzati della crescente apertura dei mercati.

Quindi, il boom che ha fatto sì che il 2004 fosse un anno di grande crescita dell’economia mondiale (la maggiore degli ultimi 25 anni) si basava sugli eccezionali tassi di crescita dei paesi emergenti e sull’espansione statunitense, che era però «drogata» da politiche monetarie e fiscali insostenibili nel tempo. Ora sembra avviato un lento ritorno alla realtà che inevitabilmente sarà chiamato a rimettere in discussione anche i principi su cui si è retta la politica economica degli ultimi anni.

 

Fonte - Il Corriere del Ticino

 

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  America: radiografia vera dell'economia

Mentre molti commentatori economici affermano che il mercato ha già scontato il peggio, questo tipo di conclusione non è evidente ne’ dal punto di vista del sentiment, ne’ per ciò che concerne le valutazioni. Ecco come stanno davvero le cose.

15 Maggio 2005 - 19:01 New York (di Charlie Minter)

A quanto pare l’economia è destinata a rallentare in guisa significativa o addirittura ad entrare in recessione, e questo oltretutto non è adeguatamente scontato dai mercati. E’ questa la conclusione a cui si perviene analizzando alcuni indicatori che si sono rivelati buoni anticipatori nel prevedere i precedenti cicli economici. Le motivazioni sono quelle che seguono.

Il PMI Index, che scende da un po’ di tempo, anticipa la produzione industriale di cinque mesi circa. A sua volta, la produzione industriale anticipa l’occupazione del settore manifatturiero di circa quattro mesi. Ciò vuol dire in sostanza che il PMI anticipa l’occupazione di circa nove mesi. Inoltre i prezzi dell’energia in rialzo tendono ad anticipare l’economia di un anno circa, il che vuol dire che l’aumento sperimentato sta già facendo i suoi effetti, anche se i prezzi del greggio dovessero immediatamente ripiegare.

Abbiamo anche rilevato nei precedenti commenti che un periodo di restringimento della politica monetaria è quasi sempre seguito da un rallentamento economico o peggio ancora da recessione, unitamente ad un calo del mercato azionario. Associato a ciò è il calo della crescita anno su anno della base monetaria MZM dell’1.6%, un livello che tipicamente ha condotto ad una rallentamento economico negli ultimi 40 anni. Un altro studio indica una correlazione del 47% fra la crescita reale di M2 e le vendite interne.

Ciò è ammesso dal Conference Board, il quale assegna a questo elemento la seconda ponderazione più elevata nell’ambito del suo leading indicator. La crescita reale dell’aggregato M2 è scesa da un tasso annuo del 4.4% nel primo trimestre 2004 a solo lo 0.6% nel primo trimestre di quest’anno. Uno studio simile rileva una correlazione del 44% fra un appiattimento della curva dei rendimenti (la differenza fra il rendimento del Bond decennale e il rendimento del T-Bill a tre mesi) e un conseguente rallentamento delle vendite al dettaglio. Il differenziale era di 359 punti base nel secondo trimestre 2004, è sceso a 183 bp nel primo trimestre 2005 ed è sceso ora a 118 bp. Difatti, il Conference Board assegna a questo indicatore la più elevata ponderazione nell’ambito dei suoi dieci leading indicator.

Lo stesso Leading Indicator è ora in ribasso rispetto ad un anno fa, e negli ultimi 40 anni un simile evento ha sempre condotto ad un rallentamento economico o ad una recessione. Oltretutto questi indicatori sono stati confermati da un indebolimento del quadro economico a livello globale. Il Leading Indicator dell’OCSE è sceso pesantemente, mentre l’economia giapponese sta nuovamente rallentando vistosamente, nonostante di fatto non siamo mai cresciuta negli ultimi 17 anni. Sebbene la maggior parte degli economisti affermi che l’economia è in buona salute, noialtri assegniamo molto peso agli indicatori citati.

Mentre un numero di commentatori economici afferma che il mercato ha già scontato il peggio, questo tipo di conclusione non è evidente ne’ dal punto di vista del sentiment, ne’ per ciò che concerne le valutazioni. Infatti, come è noto, i commenti sui programmi che girano sulla CNBC sono perennemente bullish. Anche chi è noto per essere ribassista su questi canali, di fatto è soltanto un po’ meno ottimista, piuttosto che essere propriamente pessimista. Se non si riescono a trovare gli Orsi, come fa il sentiment ad essere bearish? In prossimità dei precedenti minimi di mercato il sondaggio di Investors Intelligence mostrava i Bears al 55% o anche più, mentre i Bulls erano al 20% o anche meno.

Attualmente gli Orsi sono al 28%, mentre il 46% degli analisti è classificabile come Bull. In aggiunta, in prossimità dei precedenti minimi di mercato la liquidità degli Equity Mutual Funds era all’incirca pari al 10% del patrimonio netto, contro l’ultima lettura del 4.1%. Il VIX resta relativamente basso con il suo 16%, mentre per quanto riguarda le valutazioni, il P/E dello S&P500 è sempre a quota 19, molto meno del 2000, ma sempre nella parte alta del range dei 71 anni che hanno preceduto la fine degli anni ’90. Un mercato ribassista termina con una capitolazione di massa del pubblico, e non con un quadro compiacente come si rileva oggi. Quando oltretutto si considera i persistenti squilibri economici e finanziari, pensiamo che il mercato permanga seriamente vulnerabile a consistenti ribassi nei tempi a venire.

N.B. Un certo numero delle correlazioni citate in questo commento sono frutto del lavoro dell’economista Ed Hyman di ISI e di Paul Kasriel di Northern Trust. Tuttavia, le conclusioni sono di chi scrive. 

 

Fonte - Smartrading

 

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  Paradosso del dollaro: i poveri finanziano i ricchi

Le fasi di transizione come quella che stiamo vivendo, in cui il vecchio ordine sta morendo e quello nuovo non è ancora nato, sono accompagnate sempre da grandi sconvolgimenti economici e finanziari e, talvolta, anche politici e militari.

10 Maggio 2005 - 10:53  Milano (di Francesco Arcucci)

Il dollaro a partire dagli anni ’40 è diventato la moneta di riserva utilizzata dal mondo intero, cioè la moneta in cui si effettuano i pagamenti per le grandi transazioni internazionali, si regolano le posizioni debitorie e creditorie fra Paesi e sono denominati i crediti verso l’estero delle Banche centrali. Questa funzione è stata esercitata dal dollaro più che dalle altre monete come sterlina, franco francese, marco o yen in grazia del fatto che gli Stati Uniti erano diventati la prima economia del mondo.

Ma nel secolo appena iniziato i rapporti di causalità si sono capovolti. Oggi gli Stati Uniti rappresentano la prima economia del mondo, nonostante il loro deficit e il loro debito verso l’estero, solo perché il dollaro rimane la moneta di riserva. La prosperità degli Stati Uniti dipende dall’accumulo da parte degli altri Paesi di crediti in dollari che finanziano la Confederazione nordamericana.

Nel secolo appena trascorso il resto del mondo accumulava dollari per poter acquistare beni prodotti in America. In questi ultimi anni è il contrario. Il resto del mondo, e specie le banche centrali asiatiche, accumulano dollari affinché gli americani acquistino beni prodotti altrove.

Ancora venti anni fa l’America con le sue esportazioni era il più grande creditore del mondo. Oggi l’America con le sue importazioni è diventato il più grande debitore del mondo e lo status del dollaro come moneta di riserva svolge una funzione paradossale: quella di consentire ai ricchi americani di venire finanziati dai poveri cinesi e indiani.

Se questa capacità del dollaro scomparisse dall’oggi al domani i consumi in America sarebbero limitati alla produzione interna e i finanziamenti sarebbero limitati al risparmio nazionale: ne seguirebbe una terribile recessione del tipo di quella che ha colpito la Russia nell’agosto del 1998.

Ma siccome il dollaro rimane moneta di riserva, il finanziamento dei ricchi da parte dei poveri continuerà, sfidando le leggi dell’economia che postulano il contrario. E’ chiaro che in queste condizioni una crisi del dollaro può essere solo ritardata, con il risultato di renderla più grave, ma non può essere evitata perché le ragioni per le quali il dollaro è diventato moneta di riserva (e cioè che l’America inondava il mondo con prodotti a basso costo ed elevata qualità) non sussistono più.

Oggi la fabbrica dei manufatti del mondo è situata in Giappone, in Cina, a Taiwan, in Corea del Sud e anche in India. Sono le monete di questi Paesi che dovrebbero godere dello status di moneta di riserva: solo chi le detiene ha la certezza di poter acquistare l’enorme gamma di beni prodotti in Asia.

E’ evidente che l’economia di un mondo nel quale non si accumulano le monete dei Paesi più capaci di produrre e vendere i loro beni, ma del Paese che, acquistando in larga scala tali beni, incorre in deficit e debiti sempre più grandi è destinato a schiacciarsi contro un muro. In conclusione: se è vero che gli Stati Uniti possono finanziare il loro enorme deficit di parte corrente e il loro grandissimo debito verso l’estero sfruttando lo status del dollaro quale moneta di riserva (e questo lo sanno tutti), è altrettanto vero che non può continuare ad essere moneta di riserva la moneta di un Paese che incorre sistematicamente in deficit e debito verso l’estero (questo ancora lo capiscono in pochi, ma è destinato a diventare sempre più chiaro con l’andare del tempo).

L’economia mondiale si trova di fronte ad una difficile transizione: da una fase in cui il dollaro è ancora il centro del sistema monetario internazionale, ad una situazione nella quale ci sarà un nuovo sistema monetario internazionale. Ma le fasi di transizione di questa portata, in cui il vecchio ordine sta morendo e quello nuovo non è ancora nato, sono accompagnate sempre da grandi sconvolgimenti economici e finanziari e, talvolta, anche politici e militari. E’ stato così, ad esempio, nei Paesi dell’Europa orientale in transizione dall’economia centralizzata all’economia di mercato. Oggi i motivi che hanno propiziato la funzione del dollaro come centro del sistema monetario internazionale non esistono più. Il dollaro è rimasto ancora attualmente centro del sistema monetario internazionale, ma per i motivi sbagliati, con l’effetto paradossale che sono i poveri del mondo (cinesi:1000 dollari pro capite) a finanziare i ricchi (americani: 38000 dollari pro capite). La situazione è insostenibile. Il cambiamento è necessario, ma come ogni grande cambiamento, sarà una rivoluzione. E purtroppo le rivoluzioni, anche quando riescono, sono parti dolorosi.

 

Fonte - La Repubblica - Affari & Finanza

 

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  L’oracolo di Omaha e la roulette russa nel mercato creditizio

Gli eventi degli ultimi giorni stanno confermando che il multimilionario statunitense merita a pieni voti la fama di oracolo di Omaha. Tre anni fa……

17 Maggio 2005 - 13,11 Milano (di Rocki Gialanella)

L’oracolo di Omaha, città dello stato del Nebraska, conosciuto anche come Warren Buffett, lanciava tre anni or sono un allarme severo sui rischi collegati all’uso improprio dei derivati nel mondo del credito. Buffett non incriminava i derivati come strumenti finanziari, attività legittime alla stregua di qualunque altro prodotto della finanza, ma cercava di attrarre l’attenzione degli esperti sia sulle enormi difficoltà insite nel processo di valutazione di tali prodotti, sia sulla conseguente impossibilità di rifletterne il valore reale nei bilanci delle aziende. Gli ostacoli che gravavano sul processo di valutazione dei derivati avrebbero – secondo Buffett – alterato la trasparenza dei mercati nel medio- lungo periodo.

Io posso firmare con voi investitori un contratto in virtù del quale mi pagherete in funzione del numero di gemelli che nascano nello stato del Nebraska nel 2020’ , spiegava l’oracolo qualche anno fa. La valutazione effettiva di tale contratto, sosteneva Buffett, dipende in modo totale dal meccanismo di calcolo che decidiamo di utilizzare. L’assenza di un accordo sui metodi da seguire per valutare correttamente tale contratto, sosteneva ancora Warren Buffett, determinerà una totale anarchia nel modo di riflettere i risultati dell’accordo. Ciascun contraente si sentirà legittimato a valorizzare il risultato ottenuto in ragione dei propri personalissimi bisogni.

Il commento fatto da Buffett tre anni or sono non fa una grinza. Questi particolari strumenti finanziari permettono di trasferire ad un soggetto terzo il rischio di inadempimento relativo ad un qualunque credito. Qual è il problema potenziale? Che una banca A conceda un credito a un’impresa B e trasferisca il rischio ad un’unità C senza che il mercato sia cosciente di quanto sta realmente accadendo. Di modo che questa entità C, apparentemente protetta, può rapidamente trasformarsi in un soggetto che svolge la funzione di accumulatore di rischi. Come ha recentemente sostenuto Alan Greenspan, questi accumulatori del rischio possono subire pressioni – se la situazione dovesse complicarsi – per procedere alla liquidazione di posizioni, generando un effetto domino finanziario e creditizio.

Il taglio del livello di affidabilità creditizia che ha interessato Ford e General Motors, due delle maggiori emittenti di corporate bond al mondo, ha resuscitato i timori che sembravano definitivamente scomparsi nel 2002. La probabile concentrazione dei rischi in entità apparentemente protette suppone, agli occhi degli investitori, una roulette russa che pilota il mercato verso una riduzione dell’appetito per gli strumenti no risk free.

Il mercato finanziario ha ben sopportato i rumors che hanno annunciato le difficoltà vissute da alcuni fondi a gestione alternativa e altri strumenti speculativi. Passata la paura, gli analisti stanno concentrando l’attenzione sulla capacità del mercato di sopportare un rialzo dei tassi di interesse che faccia aumentare i differenziali di rendimento in un contesto in cui la continua ricerca di rendimenti superiori a quelli offerti dai titoli di Stato ha fomentato lo sviluppo e la diffusione di strumenti finanziari complessi e rischiosi.

 

Fonte Fondi on Line

 

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  Smart money: attenti ai rischi

Molti grandi gestori ritengono che non c'é alcun rischio di correzione dei prezzi obbligazionari, e nessun rischio di calo delle borse, perché a questi livelli dei tassi non ci sono reali alternative all’investimento azionario. Eppure...

27 Maggio 2005 - 11,27 Lugano (di Alfonso Tuor*)

*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua italiana.

La revisione al ribasso delle previsioni di crescita dell’OCSE unitamente al continuo calo dei tassi a lungo termine che stanno toccando nuovi minimi in Europa e che continuano a scendere anche negli Stati Uniti rende legittimo interrogarsi sullo stato di salute dell’economia mondiale. Il quadro dipinto dall’OCSE vede l’economia europea nel suo complesso destinata a stagnare, anche se la recessione è l’infelice prospettiva di alcuni paesi, gli Stati Uniti continueranno a crescere, anche se ad un ritmo più lento, mentre il motore della crescita rimane l’Asia.

L’inevitabile corollario di quest’analisi è che il «buco nero» dell’economia internazionale è il Vecchio Continente che non esce dalla crisi, poiché non ha fatto le riforme strutturali, ossia non ha liberalizzato il mercato del lavoro, non ha sufficientemente deregolamentato alcuni settori di attività, ecc. Ma è veramente corretta questa analisi che si basa sul confronto tra i risultati economici dell’Europa e quelli degli Stati Uniti? E poi questi differenti tassi di crescita tra le principali aree economiche del mondo sono sostenibili nel tempo? Vi è più di un motivo per dubitarne.

Innanzitutto, il quadro europeo non è omogeneo come quello americano, ma non vi è dubbio che in questi anni in molti paesi europei (dalla Germania all’Olanda, dalla Spagna alla Svezia) sono state varate importanti riforme strutturali. Quindi, anche se il modello sociale ed economico europeo rimane diverso da quello statunitense, è incontestabile che alcuni governi europei hanno cercato di adeguare le strutture delle loro economie alle necessità dei tempi. La vera differenza tra Europa e Stati Uniti è stata la risposta alla crisi deflattiva di questo inizio di secolo determinata dallo scoppio della bolla speculativa delle borse e dalla crescente pressione competitiva dei paesi a bassi salari. L’Europa non ha preso provvedimenti straordinari ed, anzi, ha avuto una politica monetaria ingessata da una Banca centrale europea che voleva costruirsi la propria credibilità.

Completamente diversa è stata la risposta degli Stati Uniti: i tassi sono stati portati all’1%, si è passati ad una politica di deficit spending e si è fatto scivolare il valore del dollaro. Considerata la portata di questi interventi non può sorprendere che il tasso di crescita americano sia stato e sia ancora oggi nettamente superiore a quello europeo. Non deve nemmeno sorprendere che negli Stati Uniti comincino a manifestarsi alcuni segnali (invero ancora contraddittori) di rallentamento della crescita proprio in concomitanza con l’esaurirsi degli effetti di queste politiche di stimolo.

La politica di Washington è stata possibile perché gli Stati Uniti hanno potuto vivere al di sopra dei loro mezzi, come dimostra una bilancia commerciale destinata a chiudersi quest’anno con un disavanzo superiore ai 600 miliardi di dollari senza dover pagare alcun prezzo. Questo deficit così come i differenziali di crescita tra le diverse aree del mondo, come sottolinea con forza l’OCSE, appaiono insostenibile. In altri termini, come sostengono gli economisti dell’Organizzazione con sede a Parigi, la continuazione di questo trend renderà ancora più gravi gli squilibri dell’economia internazionale, rendendo più probabile lo scoppio di una crisi.

Ora tutto sembra contraddire questo scenario. Ad esempio, il ritrovato vigore del dollaro sembra indicare che la capacità degli Stati Uniti di attrarre i risparmi del resto del mondo è intatta. Anche il rialzo delle borse sembra far ritenere che le prospettive di crescita dell’economia sono buone. A disturbare sembra esserci, da un canto, la stagnazione dell’economia europea, e dall’altro, il comportamento dei mercati dei capitali dove i tassi continuano a scendere. Se i rendimenti delle obbligazioni della Confederazione attorno al 2% e dei Bund tedeschi decennali scesi al 3,3% possono essere in linea con le prospettive di crescita non esaltanti dell’Europa, è molto più difficile capire la discesa dei tassi americani, ora di poco superiori al 4%.

La nuova teoria degli analisti finanziari, che ricorda molto quella della nuova economia prodotta da Internet, è che gli investitori istituzionali starebbero comprando a mani basse le obbligazioni e quindi spingendo al ribasso i rendimenti. Il corollario paradossale e assurdo di questa teoria è che saremmo tornati nel «Paese del Bengodi», poiché non vi sarebbe alcun rischio di correzione dei corsi delle obbligazioni, visto che le casse pensioni continueranno a comprare, e nessun rischio di correzione delle borse, poiché a questi livelli dei tassi non vi sono reali alternative all’investimento azionario.

Il tutto è troppo bello per essere vero e soprattutto sostenibile nel tempo. La vera spiegazione potrebbe però essere che i mercati dei capitali non prevedono solo, come l’OCSE, che non vi sarà ripresa in Europa, ma anche che la crescita statunitense è destinata a rallentare sensibilmente. Ossia potrebbero anticipare che l’esaurirsi degli effetti propulsivi delle manovre economiche statunitensi riproponga lo scenario deflazionistico dell’inizio di questo decennio. 

 

Fonte - La Repubblica

 

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  Buffett ancora short sul dollaro

I contratti in valuta estera di Berkshire Hataway hanno raggiunto il livello complessivo di $21.8 miliardi. Per il "guru di Omaha" grandi guadagni nel 2004, ma pesante perdita quest'anno con le scommesse al ribasso sul biglietto verde.

27 Giugno 2005 - 05:05 New York (di WSI)

Warren Buffett ha dichiarato in un'intervista rilasciata giovedi' scorso alla CNBC di scommettere su una discesa del dollaro nel lungo periodo. Il guru di Omaha rintraccia nella gigantesca dimensione del deficit della bilancia commerciale Usa la ragione in grado di affossare il biglietto verde, nonostante il recupero fatto segnare nelle ultime settimane.

Alla precisa domanda se si attende che la valuta statunitense riprendera' la sua discesa, Buffett, presidente Berkshire Hathaway Inc. (oltre che secondo uomo piu' ricco del mondo dopo Bill Gates) ha risposto di non saper dire se tra un anno il dollaro sara' piu' forte o piu' debole rispetto ad oggi: ma che in un arco di tempo di cinque anni non ha dubbi su un suo deprezzamento.

Buffett ha confermato la voce di mercato secondo cui lo scorso anno la Berkshire ha conseguito un profitto rilevante dal forte crollo del dollaro, ma che quest'anno ha accusato una perdita rilevante in bilancio per il rimbalzo mostrato dal biglietto verde.

Il dollaro si era deprezzato di circa il 30% negli ultimi tre anni fino allo scorso dicembre, ma dall'inizio dell'anno e' rimbalzato di un 10% dai minimi.

Il 31 marzo, i contratti in valuta estera di Berkshire avevano raggiunto il livello complessivo di $21.8 miliardi, rispetto ai $21.4 miliardi di fine 2004. Tuttavia, Buffett sottolinea come la gigantesca voragine nei conti statunitensi con l'estero puo' solo indebolire il biglietto verde in futuro.

Buffett ha ricordato come il deterioramento dei conti con l'estero sia un percorso estremanente pericoloso per l'economia di qualunque paese. Si e', pertanto, voluto riallacciare agli allarmi lanciati dal Governatore della Federal Reserve Alan Greenspan e perfino dal suo precedessore Paul Volcker con riferimento al fatto che il deficit statunitense sia ad un livello insostenibile.

L'ultimo dato disponibile mostra che il deficit corrente degli Stati Uniti ha superato i $195 miliardi nel primo trimestre di quest'anno, ovvero il 6.4% del PIL, un nuovo record negativo per quanto riguarda entrambe le misure.

In altri termini l'economia statuntense deve attirare ogni giorno circa $2 miliardi di capitali esteri solo per bilanciare il suo debito commerciale, alleviare la pressione al ribasso sul dollaro e prevenire un deciso rialzo nei tassi d'interesse.

 

Fonte Wall Street Italia.com

 

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  Pericolo deflazione

Bill Gross, guru e gestore del fondo Pimco, spiega perche' nei prossimi tre-cinque anni si attende una crescita economica Usa molto debole, la continuazione della bolla sui bond e rendimenti sempre piu' bassi. I rischi nel settore immobiliare.

24 Giugno 2005 - 20:57 New York (di WSI)

Lo scorso martedi’ Bill Gross, chief investment officer dei fondi obbligazionari di Pimco ($445 miliardi) e grande guru del mercato obbligazionario, ha tenuto a Chicago il discorso d’apertura della Morningstar Investment Conference. All'attenta platea Gross ha spiegato perche’ si attende una crescita economica debole e rendimenti sui titoli di stato Usa ancora molto bassi.

Pimco sta recentemente operando sul mercato ipotizzando uno scenario di deflazione negli Stati Uniti. La previsione e' di rendimenti sui bond piu’ bassi per i prossimi tre-cinque anni. In effetti, la societa’ di Gross sta scommettendo su una fase di recessione che dovrebbe essere negativa per il mercato azionario.

Gross si attende che la crescita degli utili delle aziende americane rallentera’ al 4% o 5% e inoltre che i prezzi dei titoli rifletteranno tale dinamica. Il gestore ha dichiarato, davanti alla platea di money manager e consulenti finanziari riunitasi a Chicago, che fino allo scorso maggio aveva una posizione “neutral”, se non “bearish”, sulle prospettive dei titoli di stato statunitensi. Ma ora, assieme al suo team di gestori, ritiene che nei prossimi tre-cinque anni la possibilita’ di una deflazione sia altamente probabile.
Tale previsione e’ arrivata mentre gli investitori erano gia’ alle prese con la disperata ricerca di comprendere il “conundrum” (mistero) del mercato dei bond di cui ha recentemente parlato Alan Greenspan. L'anno scorso la Federal Reserve ha effettuato graduali aumenti sui tassi a breve termine; i tassi a lungo termine, pero’, si sono ridotti, a dispetto di tutte le certezze teoriche degli economisti. L’azione della Fed ha solo alimentato il fuoco che cova al di sotto del mercato immobiliare statunitense, ora considerato come una bolla prossima allo scoppio.

Gross e’ stato alla larga dal tema, nonostante abbia affermato che l’aumento del livello di indebitamento nel settore immobiliare stia cominciando a spaventarlo. L’esperto del mercato obbligazionario ha sottolineato come l’economia statunitense possa essere danneggiata da un affondamento del mercato immobiliare. L’attuale livello dei rendimenti obbligazionari riflette la necessita’ che il settore degli immobili continui a supportare la domanda dei consumi. Ma, ha sottolinea ancora Gross, questa non e’ la strada che percorre un paese con un’economia sana.

Lo scorso maggio, relativamente alle linee guida seguite dal fondo Pimco, Gross ha dichiarato di attendersi che il rendimento sul Treasury a 10 anni dovrebbe mantenersi tra il 3% ed il 4.5% nei prossimi anni. Rendimenti inferiori a questa soglia indicherebbero che l’economia si verra’ a trovare in una fase di recessione.
In uno scenario di indebolimento dell’economia Americana, Gross ha evidenziato l’opportunita’ di investire sul mercato obbligazionario. Finche’ il disavanzo della bilancia commerciale Usa continuera’ ad aumentare, saranno sempre di piu’ gli investimenti sui Treasury bond.
Gross, pero’, ha enfatizzato come la sua previsione sui tassi a livelli contenuti sia soggetta ad alcuni rischi, principalmente quelli relativi alle decisioni che le le banche centrali asiatiche assumeranno.
Le banche cinesi e giapponesi, in particolare, sono state, negli ultimi anni, assidue acquirenti di titoli di debito del governo Usa. Non sono poche le preoccupazioni che uno smobilizzo di asset denominati in dollari da parte di queste nazioni potrebbe colpire pesantemente l’economia statunitense. Gross giudica che le strategie di questi paesi abbiano un effetto di 50-100 punti base sui rendimenti del Treasury.
Gross, infine, ha dichiarato di mantenere una posizione short sui Treasury Inflation-Protected Securities (TIPS), titoli di stato statunitensi indicizzati all’inflazione. Una volta questi titoli costituivano le fondamenta del suo portafoglio obbligazionario, ma ora, in un ambiente che tende alla deflazione, li considera decisamente poco attraenti.

 

Fonte Wall Street Italia.com

 

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 Petrolio: effetto Teheran

L´Occidente ha paura di "quota 80" e di rivivere lo choc di trent´anni fa. Pesa l´incognita sulla domanda cinese: terrà gli attuali ritmi? Molti credono a una crisi mondiale imminente. L´amministrazione Bush sdrammatizza il problema. E non si muove.

28 Giugno 2005 - 02:39  Roma (di Federico Rampini)

Il petrolio supera i 60 dollari a barile e i pessimisti ormai considerano ripetibile la "quota 80", il prezzo che fu raggiunto nei drammatici choc energetici di trent´anni fa. Tre eventi fanno da sfondo al nuovo record: la vittoria di un falco in Iran peggiora la tensione nel Golfo; la Cina assetata di energia ha lanciato una storica Opa su una compagnia petrolifera americana; infine è in atto da mesi il recupero del dollaro sull´euro, che amplifica gli effetti del rincaro sull´economia italiana.

Il risultato delle elezioni iraniane nell´immediato non sposta gli equilibri tra offerta e domanda di greggio: per quanto il nuovo presidente sia un estremista antioccidentale, non ha interesse a ridurre quelle esportazioni che gli procurano la valuta pregiata per mantenere le sue promesse populiste. Ma il voto iraniano aggrava l´instabilità geopolitica nella regione del mondo che resta per noi la principale fonte di petrolio. Nello scenario più catastrofico la prosecuzione del programma nucleare di Teheran - finalizzato a produrre "l´atomica degli ayatollah" - può sfociare in un attacco militare di Israele o degli Usa, in una seconda guerra dopo quella irachena, con serie conseguenze sui flussi di approvvigionamenti dal Golfo persico verso Europa e Stati Uniti.
Anche senza arrivare a tanto, la vittoria di Ahmadinejad cancella le speranze di un disgelo politico fra Teheran e Washington, che poteva sbloccare gli investimenti occidentali necessari per modernizzare gli impianti e aumentare la capacità di estrazione. In Iran infatti, così come nell´Iraq devastato dalla violenza, la produzione di petrolio resta molto inferiore alle potenzialità, per dei limiti strutturali legati a uno «sciopero degli investimenti» dai paesi ricchi. Questa è una delle ragioni per cui il cartello dei paesi produttori riuniti nell´Opec, anche quando promette di aumentare la produzione, ha scarso effetto sui prezzi.
C´è un´altra strozzatura industriale che limita l´offerta di benzina e gasolio e fa esplodere i prezzi: nonostante la lunga galoppata al rialzo, le compagnie petrolifere dei paesi ricchi hanno investito poco per potenziare le raffinerie. Le multinazionali del settore si comportano come se non credessero che il boom mondiale dei consumi energetici durerà a lungo, e quindi non vogliono esporsi accumulando troppa capacità di raffinazione. Commettono un errore di previsione? Sottovalutano la tenuta dell´economia americana e il vigore della crescita cinese?
O invece "sanno" qualcosa che noi non sappiamo? Il comportamento delle multinazionali petrolifere è parallelo a quello dei mercati finanziari che continuano a mantenere tassi d´interesse a lungo termine molto bassi: sembra che molti scommettano su una crisi mondiale imminente. Possono sbagliarsi. Ma a volte queste profezie hanno il potere di autoavverarsi.

A furia di spingere al rialzo il costo dell´energia, c´è il rischio che la Cina non riesca più a sfornare ritmi di crescita del 9% annuo, e che gli Usa non "tengano" alla loro velocità di equilibrio del 3%. Se il mondo rallenta l´Europa continentale, che è già a crescita zero, finirà ancora peggio. Gli ultimi due choc energetici avvennero nel 1974 e nel 1977, spedirono il petrolio oltre 80 dollari al barile (in valore attuale), e furono gli anni più duri dopo la seconda guerra mondiale.
Crearono il mostro della stagflazione: stagnazione economica, alta disoccupazione, aggravata da un´inflazione a due cifre che distruggeva il potere d´acquisto dei consumatori. La lira debole rendeva l´Italia uno dei paesi più prostrati. Oggi, se l´euro dovesse continuare a perdere quota sul dollaro, la bolletta energetica sarà ingigantita e forse sentiremo meno i nostalgici delle svalutazioni. A dispetto delle previsioni più catastrofiste, la Cina continua per ora a essere la locomotiva dello sviluppo mondiale e il suo boom economico altamente energivoro è una delle cause di lungo termine del rincaro petrolifero (+67% in un anno). La sete di energia spiega la mossa clamorosa del governo cinese che ha autorizzato l´azienda pubblica Cnooc a lanciare una scalata da 18,5 miliardi di dollari sulla compagnia petrolifera californiana Unocal, già appetita dalla Chevron. La Unocal controlla ricchi giacimenti anche nel Sudest asiatico.
Ma petrolio e gas sono materie prime liberamente scambiate sui mercati. Non occorre comprarsi una compagnia petrolifera per avere accesso all´energia che essa vende. Da questo punto di vista la Cina userebbe meglio quei 18,5 miliardi accelerando il suo programma di centrali nucleari. Il controllo diretto delle riserve petrolifere diventa necessario solo in situazioni estreme, come una guerra. Perciò l´accanimento con cui i cinesi perseguono l´acquisto di Unocal, e lo speculare dibattito «strategico» che questa mossa scatena in America, suonano come un altro segnale poco rassicurante per il futuro.

Per capire le vicende del mercato petrolifero è bene non dimenticare un ultimo elemento del paesaggio attuale, a cui siamo talmente abituati da trascurarne il peso. Alla Casa Bianca c´è un presidente che viene dallo oil business texano. Il vicepresidente per anni ha diretto l´azienda petrolifera Halliburton. Il segretario di Stato sedette nel consiglio d´amministrazione della Chevron, che ha battezzato "Condoleeza" una superpetroliera. Exxon, Chevron e tutte le "sorelle" petrolifere dominano la classifica delle capitalizzazioni di Borsa.
L´Amministrazione Bush nega che esista un problema di surriscaldamento climatico. Le politiche di riduzione dei consumi energetici, gli incentivi al risparmio e all´uso di tecnologie verdi, sono stati abbandonati o ridimensionati. Al governo della superpotenza mondiale c´è un gruppo dirigente che di fronte al barile di greggio a 60 dollari si dice: qual è il problema?

 

Fonte La Repubblica

 

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  I rischi della bolla

Greenspan ha dovuto ammettere che vi sono segnali di eccessi anche se limitati ad alcune aree. Il tentativo è quello di evitare un surriscaldamento eccessivo dei prezzi delle case. Che armi rimangono alla Fed?

13 Giugno 2005 20:28 SIENA  (di *Antonio Cesarano)


* Antonio Cesarano e' il responsabile dell'ufficio ricerca MPS Finance.

Il dibattito sulle ragioni dell’attuale permanenza dei tassi su livelli molto contenuti diventa sempre più animato ed ha coinvolto anche Greenspan che ha ammesso di trovarsi in difficoltà nel trovare una ragione forte alla base di tale andamento.

Verosimilmente vi è un complesso di fattori che sta spiegando l’andamento al ribasso dei tassi a livello internazionale e che attengono in gran parte la ricomposizione della domanda in seguito a diversi cambi strutturali tra cui la maggiore domanda di investimenti a scopo previdenziale, il ruolo crescente delle banche centrali asiatiche fino ad arrivare alla maggiore mobilità dei capitali indotta dalla globalizzazione.
Negli Usa il fenomeno è ancora più evidente in quanto a fronte di una fase di rialzo dei tassi della Fed e di una continuazione della fase di crescita dell’economia, i tassi di mercato hanno seguito un trend molto forte al ribasso soprattutto a lungo termine, al punto che attualmente il differenziale tra tassi a 10 e 2 anni è prossimo allo zero.

Il capo della Fed immaginava invece che i mercati avrebbero seguito il rialzo dei tassi di riferimento, al punto che nei mesi scorsi la Fed si è sempre premurata di avvertire che i rialzi sarebbero stati comunque graduali onde evitare bruschi rialzi che avrebbero potuto mettere a rischio la ripresa dell’economia. Ed ecco che invece è accaduto esattamente l’opposto.
I livelli molto contenuti dei tassi stessi a loro volta hanno amplificato in modo evidente la speculazione nel settore immobiliare. Lo stesso Greenspan, pur rinnegando la presenza di una bolla immobiliare, ha dovuto però ammettere che vi sono segnali di eccessi anche se limitati ad alcune aree. Il tentativo è quello di evitare un surriscaldamento eccessivo dei prezzi immobiliari ossia del settore dove attualmente si annida una grossa fetta della ricchezza dei consumatori Usa. Occorrerebbe convincere gli operatori a riportare i tassi su livelli più elevati. La consueta arma del rialzo dei Fed funds finora non ha funzionato. Che armi rimangono allora a disposizione della Fed?
 

Vista la loro inefficacia, il rialzo dei Fed Funds potrebbe essere limitato alla prossima riunione del 30 giugno e forse estendersi a quella del 9 agosto. Ma di fronte ad un situazione senza precedenti occorrerà ipotizzare altri strumenti al fine di evitare che dalla bolla azionaria si passi in modo sempre più forte a quella immobiliare.

 


Fonte - La Repubblica

 

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  Mercati: pericolose velleità rialziste

I miglioramenti transitori dei dati economici non cancellano i seri problemi strutturali dell’economia americana. Il caro petrolio e l’aumento dei tassi presto peseranno sui consumi. E l’effetto sulle borse...

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15 Luglio 2005  16:36  MILANO (di *Michele Pezzinga)

*Michele Pezzinga e' lo strategist di CentroSim.

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Superato, con una pronta reazione, l'impatto emotivo legato alla nuova ondata di attacchi terroristici, i mercati finanziari sembrano ora sposare scenari persino migliori rispetto a quelli che avevamo lasciato a fine giugno. Paradossalmente, proprio le capacità di tenuta dell'azionario di fronte ai drammatici eventi di Londra hanno rafforzato tra gli investitori le velleità rialziste, diffondendo la convinzione che i rischi di caduta in questa fase siano molto contenuti e, per gli hedge funds, che i tentativi di forzatura all'ingiù, almeno per ora, non paghino.

Ne sanno qualcosa coloro che avevano venduto, anche solo per motivi precauzionali, durante la convulsa seduta del 7 luglio. Ma è davvero cambiato il quadro di riferimento? Sotto questo profilo, non ci sembra di cogliere novità sostanziali rispetto ad un mese fa: i problemi strutturali, sostanzialmente riconducibili all'economia USA e che ci facevano dubitare della sostenibilità degli attuali trend, rimangono infatti sempre vivi. Continuiamo inoltre a credere che tra altri tre-sei mesi l'aumento dei tassi e il caro energia finiranno per frenare davvero i consumi delle famiglie americane, vero motore della crescita globale.

Tuttavia, nelle ultime settimane proprio da questi fronti sono giunti segnali più incoraggianti, a nostro avviso solo interlocutori, ma comunque tali da spostare un po' più avanti nel tempo le temute verifiche di tenuta. Il disavanzo federale USA del 2005, per esempio, viene ora visto in calo verso quota 330 mld di dollari circa, 100 in meno rispetto a quello 2004 e alle proiezioni che circolavano ad inizio anno. La notizia è confortante, anche se finora il merito è stato del boom di entrate fiscali, più che di un taglio delle spese, il che lascia dubitare dell'auspicato innesco di un circuito davvero virtuoso.

Anche il deficit della bilancia commerciale USA ha registrato un'altra contrazione in maggio, ma siamo pur sempre a quota 55,4 mld di dollari, in progresso rispetto alla punta record di quasi 60 mld a inizio anno, ma molto oltre rispetto ai 48,7 mld registrati dodici mesi prima. Le proiezioni per giugno, a causa del rafforzamento del cambio e del balzo dei prezzi dell'energia importata, puntano inoltre verso un netto peggioramento (di nuovo verso quota 60 mld), che non sembra destinato a rientrare in maniera significativa nella seconda metà dell'anno.

Se il disavanzo record (che ormai viaggia su ritmi del 5,6% rispetto al PIL) era il sintomo di un problema strutturale - l'eccesso di consumi delle famiglie americane finanziato con il risparmio d'oltreoceano - questo non appare affare in via di risoluzione; e anche il dollaro, ora contagiato da un diffuso consenso rialzista, quanto prima dovrà tornare a renderne conto. Al tempo stesso, però, la maggiore e forse unica sorpresa negativa di questa fase, il rinnovato balzo in avanti nelle quotazioni del greggio, oltre la soglia finora inviolata dei 60 dollari il barile, non sembra aver generato allarmi dal lato nè dell'inflazione, nè della crescita economica.

Dal punto di vista degli investitori azionari, una simile reazione rappresenta un altro segnale decisamente rassicurante: se l'effetto di un'ascesa da 50 a 60 dollari il barile non è tale da far deragliare crescita e performance di Borsa, perchè mai le cose dovrebbero andare diversamente qualora il greggio salisse ancora a 65 o a 70 dollari? L'esperienza passata ci direbbe che l'impatto sulla congiuntura di incrementi annui del 30-40% è tutt'altro che marginale e che si registra con la maggiore intensità solo 6 mesi-1 anno dopo gli aumenti sottostanti; ma nel clima attuale di compiacente ottimismo sulle capacità di reazione delle economie, inclusa quella di assorbire gli aumenti dei costi energetici, il rischio viene quasi ignorato.

Qui dal nostro punto di vista potrebbe però esserci qualche sorpresa positiva: condividiamo infatti l'idea che nelle ultime settimane i prezzi del greggio abbiano mostrato eccessi di natura speculativa e che il rallentamento della domanda reale di energia, in atto anche da parte dei Paesi asiatici, Cina inclusa (-1,3% su base annua il suo import di greggio in giugno e -21% quello di prodotti raffinati), possa produrre uno sgonfiamento delle quotazioni, magari solo temporaneo, ma comunque significativo. A neutralizzare i timori sul petrolio forse hanno provvidenzialmente contribuito anche alcuni segnali di riaccelerazione dell'economia USA, in grado di cancellare quei pericolosi indizi di frenata congiunturale che avevamo segnalato ad inizio primavera.

Tenuto conto della forza dei consumi - confermata ieri dal +1,7% delle vendite al dettaglio di giugno, di nuovo trainate dal balzo del comparto auto (+4,8%) - e dalla tenuta degli investimenti, il PIL americano sembrerebbe in grado di confermarsi in crescita di circa il 3% anche nel 3° trimestre, un ritmo analogo a quello stimato per il 2°, non eccezionale (era pari al 3,8% nel 1° trimestre 2005 e al 4,4% per l'intero 2004) ma comunque soddisfacente, soprattutto rispetto ai depressi standard europei. I dilemmi di fondo riguardano però le modalità con cui si muoverà la congiuntura più avanti, diciamo nella parte finale dell'anno: in altri termini se davvero l'economia USA riuscirà a viaggiare ancora alla velocità attuale, se l'area euro riuscirà finalmente ad uscire dalla stagnazione corrente e quanto sarà pronunciata la frenata della Cina, e con essa dell'intero blocco asiatico, che ancora una volta si sta iniziando a profilare. Tutti elementi ancora molto dibattuti tra gli addetti ai lavori.

Rimane invece diffuso il consenso sul fatto che l'inflazione continuerà a non rappresentare una minaccia concreta: a conferma di ciò proprio ieri sono stati resi noti i prezzi al consumo USA di giugno, rimasti invariati sul mese precedente e cresciuti solo di uno 0,1% esclusi alimentari ed energia, un rassicurante +2% su base annua, ma soprattutto un +1,2% annualizzato nell'ultimo trimestre, in netto calo da quel +3,3% che si era minacciosamente profilato nel 1° trimestre 2005. Ha comunque ripreso quota l'idea che la FED, dopo aver alzato i tassi di un altro quarto di punto anche ad agosto, possa spingersi fin verso la soglia del 4% entro l'inizio del 2006, un'ipotesi che a inizio giugno, con i bond ai massimi, sembrava fin troppo aggressiva. Il focus della Banca Centrale non è infatti sull'inflazione, ma sul persistente boom immobiliare da cui traggono sostegno, indebitandosi a ritmi crescenti, i redditi (e i consumi) delle famiglie: anche a costo di frenare ulteriormente la crescita del 2006 Greenspan dovrà quindi intervenire ancora su questa spirale, in modo da scongiurare la formazione di una pericolosa bolla speculativa.

Per quanto riguarda invece la BCE, l'idea di un taglio dei tassi entro fine anno, richiesto dalle difficoltà economiche e politiche dell'area, ha perso quota; la Banca Centrale potrebbe quindi rimanere ferma su questi livelli ancora a lungo, un cambiamento di prospettiva che ha contribuito da un lato a rafforzare l'euro, riportandolo nelle ultime sedute sopra quota 1.20 contro dollaro, e dall'altro a frenare l'euforia sull'obbligazionario, dove la parte lunga della curva sembra aver esaurito, almeno in questa fase, tutto il suo potenziale. In ogni caso, i rendimenti obbligazionari, pur lievemente risaliti dai minimi di giugno, non ci sembrano destinati a risalire molto dagli ancora contenuti livelli correnti (un 4,16% sul decennale USA e un 3,29% su quello tedesco); i tempi per una decisiva inversione di trend a nostro avviso non sono ancora maturi e anzi dopo l'estate, se la ripresa non si farà strada, il tema del taglio potrebbe tornare d'attualità.

Si tratta di livelli tali comunque da mantenere in vita un significativo effetto liquidità, di cui continuano a beneficiare i mercati finanziari e l'immobiliare. Gli spread sui bond dei mercati emergenti segnano continuamente nuovi minimi (siamo ormai intorno ai 300 punti base, rispetto ai 1000 di tre anni fa e agli oltre 500 toccati ancora l'anno scorso), analoga euforia traspare dai junk bond, mentre le Borse continuano a registrare progressi, sia pure modesti, che hanno comunque portato molti dei listini europei sui record degli ultimi quattro anni. In assenza di particolari traumi esterni, si tratta di uno situazione che potrebbe auto-alimentarsi, favorita dalla mancanza di sbocchi concreti per gli investimenti nell'economia reale e dalla ricerca di rendimenti competitivi rispetto a quelli, risibili in termini reali, offerti dalle attività prive di rischio.

Continuiamo a credere che sui mercati azionari i rischi al ribasso rimangano abbastanza contenuti, visto che nessuno dei due elementi chiave su cui si fondano, la crescita degli utili, che prosegue persino nel caso di un'Europa in completo stallo congiunturale, e i bassi rendimenti obbligazionari sembra mostrare pericolosi segni di cedimento. Finora semmai era il potenziale al rialzo delle Borse a non convincerci: nemmeno ora vediamo grandi cose, ma visto che nell'immediato i bond ci sembrano ormai arrivati, un temporaneo cambiamento di peso a favore delle azioni potrebbe risultare opportuno. Con l'idea però di fare nuovamente retromarcia tra qualche mese e riscoprire le obbligazioni, se, come continuiamo a credere, la crescita globale per allora segnalerà un più significativo rallentamento.

 

Fonte - CentroSim per Wall Street Italia.com

 

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Greenspan non cambia rotta

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01 Luglio 2005  20:40  MILANO (ANSA)

Nessuna sorpresa, il presidente della Fed rispetta le previsioni e alza per la nona volta di fila i tassi d'interesse dello 0,25% portandoli al 3,5%. "La crescita - dice la Fed - resta inoltre solida, nonostante il caro-petrolio, e le condizioni del mercato del lavoro continuano a migliorare gradualmente".

Si prosegue quindi sulla strada del stretta monetaria, certo in maniera graduale, ma senza ripensamenti, tanto che si ipotizza che ci sarà un ulteriore ritocco già nelle prossima riunione, in programma il 9 di agosto.
La Fed sottolinea che le pressioni congiunturali della dinamica dei prezzi sono presenti, ma dovrebbero rientrare sul lungo termine."Le preoccupazioni sull'andamento dell'inflazione negli Stati Uniti - scrive il board della banca centrale - sono ancora presenti, ma le aspettative sulla dinamica dei prezzi al consumo nel lungo termine restano contenute".

Come prassi, il board ribadisce che "risponderà se necessario ai cambiamenti delle prospettive economiche per rispettare l'impegno di mantenere la stabilità dei prezzi".

Sulla base degli ultimi dati, gli Stati Uniti sembrano comunque crescere bene come conferma la stima definitiva sul Pil del primo trimestre, rivista al rialzo al 3,8% rispetto al 3,5% della seconda rilevazione, grazie al calo del deficit commerciale e al settore immobiliare, con l'aumento delle costruzioni abitative, anche i prezzi segnano una dinamica moderata, con l'apposito indicatore compreso nel computo del Pil rivisto al ribasso, al tasso annualizzato del 2,9% dal +3,2% della precedente rilevazione.
 

Fonte - ANSA

 

 

Tassi USA: curva piatta guai in vista 

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01 Luglio 2005  21:16  NEW YORK  (ANSA)

Con il nono rialzo consecutivo dei tassi a breve (+0,25%) deciso dal Federal Open Market Committee della Fed, al 3,25% (la stretta comincio' esattamente un anno fa, il 30 giugno 2004, con i feds fund all'1%) la curva dei rendimenti dei Treasury americani fara' un altro passo avanti verso la cosiddetta "inversione". E questo, stando alle ricerche statistiche, e' un fenomeno che in passato ha sempre provocato conseguenze funeste, si dice in ambienti finanziari di New York.
La curva dei rendimenti - la differenza tra i tassi a breve e lungo termine - si e' notevolmente appiattita in quest'ultimo anno nel corso del quale la Federal Reserve guidata da Alan Greenspan ha alzato i fed funds. Dodici mesi fa, la differenza del rendimento tra il Treasury a 2 anni e il Treasury a 10 anni era di 1.92 punti percentuali, mentre all'inizio di questa settimana lo "spread" (differenza) si era ristretto a 0.31%, il minimo dagli inizi del 2001.
La sostanza e' questa: se i tassi a lungo termine, quelli del T-Bond a 10 anni, nei prossimi mesi non si muoveranno un poco verso l'alto, lo spread potrebbe addirittura diventare negativo. E cio' avrebbe - per money manager e investitori istituzionali - un significato ben preciso. Infatti l'ultima volta che la curva dei rendimenti ha cominciato a "invertirsi" fu nei primi mesi del 2000 (il Nasdaq inizio' il suo catastrofico crollo da oltre quota 5000 il 14 marzo) cioe' un anno prima che l'economia degli Stati Uniti entrasse in recessione. E prima ancora, lo stesso fenomeno funesto accadde nel 1989, e in quel caso l'inversione della curva anticipo' la recessione del 1990.
Date queste premesse, le domande sono: perche' mai, allora, la Fed non smette di alzare i tassi americani e non si ferma? Vuole forse prima far scoppiare la bolla immobiliare che essa stessa ha creato? O forse Alan Greenspan - mago dei mercati per la maggioranza degli operatori, vero avventuriero per pochi estremisti della finanza - non e' piu' in grado di risolvere quell'enigma sui tassi ("conundrum") di cui parlo' misteriosamente qualche settimana fa?
 

Fonte - ANSA

 

 

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  Ancora dubbi sull'enigma di Grennspan

Tassi e bolla immobiliare. L'ampia liquidità come effetto della lunga fase di politica monetaria espansiva. Nuove tipologie di investitori e di gestione di portafoglio tali da aumentare la domanda di bond. A scapito dell' azionario?

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5 Luglio 2005  20:57  Siena  (di *Antonio Cesarano)

*Antonio Cesarano e' il responsabile dell'ufficio ricerca MPS Finance. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

E' da poco iniziato il secondo semestre che concretamente si inaugura oggi dopo il ponte lungo Usa e con la presenza di tutti i principali players sui mercati internazionali.

Proviamo a ricostruire ex post quanto accaduto nel semestre appena conclusosi, la cui dinamica a sua volta in gran parte è la prosecuzione di un complesso di fattori che hanno cominciato a manifestarsi già nel corso del 2004 e che sono divenuti più evidenti nel momento in cui, pur essendo iniziata la fase di rialzo dei tassi della Fed, è continuato il trend calante dei tassi di mercato dando luogo all'ormai celebre "conundrum" evocato da Greenspan a febbraio.

Schematicamente la sequenza logica della interazione dei fattori prima menzionati può essere così sintetizzata:

1) la lunga fase di politica monetaria espansiva inaugurata dalla Fed e dalla Bce a partire dalla metà del 2001 fino a toccare l'apice a metà del 2003, ha prodotto come conseguenza un’enorme massa di liquidità alla ricerca di rendimenti addizionali rispetto a quanto offerto dai titoli governativi che nel frattempo hanno continuato a seguire un trend calante;

2) contemporaneamente sono divenuti sempre più rilevanti nel quadro finanziario internazionale investitori come le banche centrali asiatiche che hanno dimostrato di seguire logiche diverse da quelle tipiche dei gestori del risparmio gestito, essendo ispirate a considerazioni politco/strategiche nella gestione delle enormi masse di riserve accumulate dalla fine degli anni '90, piuttosto che a criteri più strettamente inerenti le performance di portafoglio. La lunga fase di deprezzamento del Dollaro pertanto non ha intaccato in modo rilevante la preferenza verso i Treasuries Usa che hanno beneficiato di un flusso costante e copioso di domanda estera fino ad arrivare alla situazione attuale in cui circa la metà del debito pubblico Usa è in mano a investitori esteri;

3) altra novità di rilevo è stata rappresentata dall'affermarsi di nuovi criteri di gestione del portafoglio da parte soprattutto dei fondi pensione Usa che gradualmente hanno cominciato a ribilanciare i proprio portafogli spostando la preferenza verso gli asset obbligazionari rispetto a quelli azionari. Questa nuova filosofia di gestione è figlia probabilmente di due fattori principali:

a) le cocenti perdite subite dopo lo sgonfiamento della bolla azionaria a partire dal 2000; b) la presa d'atto di una profonda mutazione della dinamica demografica tale da comportare l'esigenza di gestire flussi di risparmio con finalità prettamente previdenziali. In sostanza si prende atto del fatto che la popolazione nei principali paesi sta invecchiando (finisce ad es. negli Usa il periodo dei baby-boomers che ora sono in prossimità del pensionamento) e che quindi in futuro sarà maggiore la quota di reddito destinata a scopo ad esempio sanitario vs. quella destinata in precedenza a beni di consumo di massa.

Di conseguenza i rendimenti attesi dal mercato azionario diventano inferiori rispetto al passato vista la minore propensione marginale al consumo attesa a causa del processo di invecchiamento stesso. In questo contesto allora i gestori Usa riscoprono il mercato obbligazionario che negli anni '90 era invece divenuto un corollario nei portafogli dei fondi pensione dove la netta prevalenza era invece assegnata al comparto azionario;

Sinteticamente i fattori finora esposti possono essere sintetizzati come: 1) ampia liquidità come effetto della lunga fase di politica monetaria espansiva; 2) presenza di nuove tipologie di investitori e filosofie di gestione di portafoglio tali da aumentare in modo molto forte la domanda di bond.

Tali fattori hanno generato un perdurante trend calante dei tassi che non è stato affatto scalfito dall'inizio della fase di rimozione dell'accomodamento monetario iniziato dalla Fed nel mese di giugno 2004. Tale andamento ha finito a sua volta per supportare il settore immobiliare su cui gradualmente si è innestata una nuova potenziale bolla. Greenspan per ora ha negato di trovarsi di fronte ad una situazione di questo tipo preferendo piuttosto parlare di surriscaldamento dei prezzi immobiliari confinato solo a singole aree piuttosto che trattarsi di un fenomeno diffuso.

Anche in Europa i prezzi delle case ne hanno beneficiato. Se si osservano gli indici di settore pubblicati dall'Economist si scopre ad esempio che in Europa nell'ultimo anno, ad eccezione della Germania, i prezzi immobiliari hanno registrato incrementi spesso a due cifre (Spagna + 15,5%, Francia +15%, Italia +9,7%) paragonabili a quanto verificatosi negli Usa (+12,5%) nello stesso periodo di tempo.

A parità di rialzo dei prezzi delle case negli Usa ed in gran parte dell'Europa, gli effetti sui consumi sono stati però nettamente differenti, risultando determinanti per la crescita Usa e del tutto irrilevanti in Europa. La ragione risiede nel fatto che in Europa il mercato dei mutui immobiliari non è strutturato come quello Usa dove risulta molto più semplice estrarre valore per i consumatori anche dal rialzo del prezzo della sola prima casa. Basti pensare alle rinegoziazioni dei mutui a tasso fisso (possibili anche grazie all'esistenza delle GSE come Fannie Mae e Freddie Mac), alla possibilità di liquidare mediante mutui gli incrementi di valore dell'immobile, alla diffusione (fin troppo marcata al punto da allarmare la stessa Fed) di forme di mutui strutturati (i c.d. ARM, Adjustable Rate Mortgages) che consentono di abbattere il peso della rata nei primi anni di vita del mutuo per consentire l'acquisto di immobili a prezzi anche molto più elevati rispetto al passato.

Greenspan si è trovato così di fronte ad un fenomeno del tutto imprevisto quale appunto il rialzo dei prezzi delle case. Il fenomeno era inatteso in quanto il capo della Fed immaginava che ad un rialzo dei tassi della Fed avesse fatto seguito un comportamento analogo dei tassi di mercato. Greenspan si era anzi preoccupato di evitare che il rialzo fosse troppo brusco ribadendo esplicitamente nel comunicato successivo ad ogni riunione che l'approccio adottato sarebbe stato "misurato".

Di conseguenza, il vecchio capo della Fed si è trovato di fronte ad un'economia in cui il settore immobiliare sta rappresentando uno dei motivi di sostegno principali per i consumi al punto da sostituirsi al supporto in precedenza offerto dalla politica fiscale espansiva. Di conseguenza occorre fare molta attenzione a porre in essere provvedimenti tali da innescare un ridimensionamento brusco dei prezzi delle case stesse, pena un impatto marcato anche sui consumi. Forse anche per tale ragione Greenspan evita di parlare di bolla immobiliare, pur essendovi diversi elementi per lasciare immaginare una tale possibilità.

Diventa pertanto estremamente complesso il percorso che la Fed dovrà seguire nella gestione di politica monetaria onde evitare che il delicato equilibrio su cui l'economia al momento si regge possa essere compromesso. La scelta per ora è semplicemente quella di continuare con l'approccio graduale, sperando che poco alla volta anche i tassi di mercato seguano un sentiero rialzista altrettanto graduale.

In realtà però , oltre alla Fed, il vero fulcro della situazione macro attuale risiede nella continuazione del forte flusso di acquisti di fonte asiatica che consente per ora anche di porre in secondo piano il problema del deficit di partite correnti che nel frattempo non ha accennato a diminuire raggiungendo il non invidiabile livello di 6,4% del PIl.

Fin qui abbiamo provato a ricostruire lo status quo che aiuta almeno a comprendere il delicato compito che spetta alla Fed. In realtà, come spiegato anche da Greenspan in interventi successivi a quello di febbraio, stanno probabilmente cambiando soprattutto i players protagonisti della partita dei tassi. I gestori insieme agli stessi hedge funds hanno spesso orientato le proprie scelte di investimento sulla base dell'attesa di una fase di rialzo dei tassi conseguente ad un recupero dell’economia, ritrovandosi nettamente spiazzati.

Ammettiamo che in passato, trovandoci di fronte alla necessità di formulare previsioni sull'andamento dei tassi, il focus sul solo andamento macro è stato anche per noi talora fuorviante, almeno negli Usa perché nel frattempo la situazione europea lasciava invece ipotizzare la possibilità di mantenimento dei tassi fermi, visto il basso livello di crescita e le continue revisioni al ribasso delle stime per il 2005.

Veniamo all'arduo compito di provare ad ipotizzare cosa potrebbe ora accadere sul fronte tassi. Premettiamo che al momento non riteniamo che le forze in gioco prima evidenziate abbiano dispiegato in modo completo il loro effetto. Il processo di ribilanciamento dei fondi pensione, la presenza di investitori come le banche centrali, verosimilmente manterrà ancora aperto il "conundrum sui tassi".

Inoltre a ciò si aggiunga la necessità da parte della Fed di evitare che i prezzi immobiliari possano bruscamente risentire di rapide accelerazioni al rialzo dei tassi di riferimento. Di conseguenza almeno fino ad agosto la Fed rimane orientata ad un approccio graduale. Nell’ipotesi di un rallentamento dell’economia che ancora non è del tutto da escludere, rimarrebbe ancora aperta la possibilità di una fase di arresto nel processo di rialzo dei tassi che pertanto chiuderebbero l’anno al 3,5%.

In Europa inoltre la Bce probabilmente manterrà i tassi fermi al 2% per tutto l'anno. Insomma diversi fattori depongono ancora a favore di politiche monetarie che difficilmente dovrebbero determinare un rientro dell'ampia liquidità in circolazione alla ricerca forsennata di investimenti profittevoli.

Infine i gestori che da oltre un anno hanno cercato di difendersi dal temuto rialzo dei tassi mantenendo profili di duration di portafoglio piuttosto contenuti rispetto ai benchmark di riferimento, si trovano ora nella necessità di procedere a graduali allungamenti di tale parametro privilegiando pertanto i segmenti più a lungo termine della curva.

In tale contesto, laddove dovesse materializzarsi un rallentamento dell'economia Usa nel secondo trimestre, si tratterebbe di un elemento che si aggiungerebbe ad un clima sui tassi già surriscaldato per altri fattori estranei a considerazioni prettamente macro.

In ogni caso, il primo semestre dell’anno ha educato gli investitori a non immaginare gli sviluppi futuri dei tassi solo in base al quadro macro ipotizzato ma anche tenendo conto del mutato quadro dei players in azione.

Sul tratto lungo della curva pertanto l'eventuale rialzo dei tassi decennali (innescato in settimana ad esempio anche grazie a favorevoli attese sui non farm payrolls di venerdì soprattutto laddove l'indice Ism non manifatturiero supportasse tale ottimismo) potrebbe incontrare livelli di resistenza molto vicini situati tra 4,15/4,20 sui T-note e tra 3,30/3,35 sul Bund. In prossimità di tali livelli potrebbero tornare gli acquisti dei fund managers che vedrebbero così soddisfatta la necessità di riadeguare i parametri di sensitività dei propri portafogli, attualmente ancora molto scarichi di duration.

La "sete di rendimenti" in sintesi continua ad essere un fattore predominante nelle scelte degli asset allocators che sta spingendo i gestori internazionali anche a valutare l'investimento in titoli di stato nipponici, che al momento risultano essere competitivi rispetto a quelli Usa ed europei se analizzati in termini di tassi reali, come evidenziato anche da un recente articolo del WSJ in cui si segnala un incremento dell'attività su tale comparto da parte di alcune grosse case di investimento internazionali. Un dato per tutti: gli acquisti di titoli di stato nipponici da parte di investment banks straniere sono stati pari al 15,7% del totale emesso nel 2004. Quest'anno lo stesso rapporto calcolato da inizio 2005 è risultato pari al 24,3%. 

Il presente documento è stato predisposto in maniera indipendente da MPS Finance Banca Mobiliare SpA (di seguito: MPS Finance). Esso contiene opinioni, informazioni e dati, con fine divulgativo, ottenuti dalla predetta MPS Finance tramite fonti ritenute in buona fede attendibili, tuttavia MPS Finance non ha la qualifica di agenzia di rating, quindi non intende certificare, come in effetti non certifica la veridicità, l'accuratezza e la completezza delle predette informazioni e dei predetti dati.

 

Fonte - MPS Finance per Wall Street Italia.com

 

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   Non prendete sottogamba il caro-greggio

Ricordate che il prezzo del barile era attorno ai $30 nell’estate del 2003. In termini reali comunque il petrolio non ha ancora raggiunto le vette del secondo choc petrolifero del 1979, che oggi corrisponderebbero a una quotazione tra i $90 e i $120.

18 Agosto 2005   14:47 Lugano  (di *Alfonso Tuor)

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Il caro-petrolio comincia a preoccupare le autorità politiche e monetarie. La Banca centrale europea ha sottolineato nel suo ultimo bollettino mensile che l’impennata del prezzo del greggio costituisce una minaccia per la ripresa dell’economia europea; l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) sostiene che il caro-petrolio taglia la crescita dell’economia mondiale di 0,8 punti; il Kof del Politecnico di Zurigo stima che un aumento del prezzo del petrolio del 10%, che si protrae per due anni, costa all’economia elvetica 0,2 punti di crescita e si potrebbe continuare.

Ebbene, il prezzo del greggio, che veleggia ora al di sopra dei 65 dollari il barile si aggirava attorno ai 45 dollari durante l’estate dell’anno scorso e attorno ai 30 dollari nell’estate del 2003. Quindi, il trend ascendente è di lungo periodo. Infatti il prezzo, che era caduto all’indomani della «crisi asiatica» al di sotto dei 10 dollari il barile, si è poi ripreso e soprattutto a partire dal 2003 ha cominciato a correre al rialzo. La domanda sulla bocca di tutti è se si tratta di un eccesso oppure di un fenomeno di lungo termine.

Fino a poche settimane orsono, i più ritenevano che l’aumento fosse esagerato dalle tensioni geopolitiche e dalla speculazione e che quindi prima poi sarebbe tornato a muoversi in una fascia tra i 30 e i 40 dollari il barile. Negli ultimi mesi si è però infoltita di molto la schiera di coloro che ritengono che il caro-petrolio sia un fenomeno di lungo periodo, con ulteriori aumenti all’orizzonte.

Tra questi vi è, ad esempio, il primo ministro francese Dominique de Villepin, il quale martedì scorso ha dichiarato che il petrolio rimarrà caro anche nei prossimi anni. E vi sono soprattutto i mercati, come sottolinea l’economista di UBS George Magnus. Infatti il prezzo del petrolio a un anno sul mercato dei derivati si è continuato ad aggirare dal 2000 fino al 2004 attorno ai 25 dollari, nonostante l’anno scorso il prezzo alla consegna avesse già raggiunto i 50 dollari.

Quest’anno la differenza tra il prezzo alla consegna e il prezzo tra un anno si è notevolmente ridotto. Ciò vuol dire, come sostiene Magnus, che i mercati ritengono che non si ridurrà di molto rispetto ai livelli attuali, ma anche che per il momento non credono in un’ulteriore forte e duratura ascesa. È impossibile sapere chi ha ragione sul lungo termine. È però possibile azzardare alcune ipotesi sul breve e medio termine.

Il rialzo del greggio è il frutto di una domanda che sta crescendo ad un ritmo nettamente superiore a quello degli anni Novanta. I motivi sono noti: la fame di energia di Cina ed India e di molti altri paesi emergenti e la forte crescita di un’economia «energivora» come quella statunitense. Rispetto a questo aumento della domanda non vi è stato un corrispondente aumento dell’offerta, per cui la capacità di estrazione dei paesi produttori è pressoché completamente utilizzata. Inoltre vi sono stati scarsissimi investimenti negli impianti di raffinazione. Ciò ha per effetto che i prezzi di riferimento delle migliori qualità di greggio, che sono il Brent e il West Texas, sono esplosi ancor più.

Le strozzature dell’offerta non possono certamente essere risolte in breve tempo. Quindi è probabile che il prezzo continui a salire sul medio termine (pur facendo anche ampie correzioni). L’inversione di tendenza potrebbe avvenire grazie ad un calo del consumo. La domanda potrà però diminuire solo se l’economia mondiale rallenterà fortemente. Finora ciò non è avvenuto: in altri termini, finora l’impennata del petrolio non ha prodotto significative conseguenze economiche. Questo fenomeno è sicuramente il frutto della maggiore efficienza energetica dei paesi industrializzati (rispetto agli anni Settanta consumiamo la metà di energia per produrre un’unità di Pil), per cui il rialzo del greggio ha pesato meno sulla crescita economica.

E’ anche dovuto al fatto che l’attuale situazione economica ha fatto sì che l’aumento del prezzo del petrolio agisse come una tassa che decurta il reddito disponibile delle famiglie, senza innescare una spirale al rialzo generale dei prezzi. L’entità e la rapidità del recente movimento al rialzo stanno però mettendo in forse queste certezze. Si cominciano cioé a manifestare tensioni inflazionistiche che moltiplicherebbero gli effetti economici negativi del caro-petrolio. In buona sostanza, si confermerebbe la regola secondo cui l’ascesa del prezzo del petrolio finisce con una recessione che produce poi il declino del suo prezzo.

Insomma, ci stiamo rapidamente avvicinando alla «soglia del dolore». Basti pensare che oggi il prezzo del petrolio è ai massimi in termini nominali, ma che in termini reali non ha ancora raggiunto le vette del secondo choc petrolifero del 1979, che secondo i diversi calcoli corrisponderebbero ad un prezzo odierno tra i 90 e i 120 dollari il barile. Oggi questa soglia appare purtroppo non molto lontana.

*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua italiana. 

 

Fonte - Il Corriere del Ticino

 

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L' America corre fuori tempo massimo

La guerra in Iraq ha avvantaggiato tre beneficiari: al-Qaeda, l'Iran, e le grandi imprese di ricostruzione che dall'accoppiata Bush e Cheney ricevono contratti milionari. Tutti gli altri hanno perso. E il tempo sfugge di mano.

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1 Ottobre 2005 3:56 New York  (di *Paul Craig Roberts)

*Paul Craig Roberts e' un commentatore conservatore, professore al dipartimento John M. Olin dell' Institute for Political Economy, research fellow all' Independent Institute e ricercatore senior della Hoover Institution, Stanford University. Ex direttore e columnist di The Wall Street Journal, scrive regolarmente per Creators Syndicate e per Investors Business Daily.
 

George W. Bush passerà alla storia come il presidente che più di ogni altro ha perso tempo con cose inutili mentre il proprio paese ha perso il proprio status di superpotenza mondiale.
Bush si è servito delle armi dell’inganno e dell’isteria per condurre l’America in una guerra che la sta uccidendo economicamente, militarmente e diplomaticamente. Una guerra che si sta combattendo grazie a centinaia di miliardi di dollari presi in prestito all’estero. Una guerra che sta insanguinando le truppe militari. Una guerra che ha fatto perdere agli Usa la propria cosiddetta “leadership morale” e li ha esposti all’esercizio di un potere aggressivo e sconsiderato.

Intenta nella macchinazione della “guerra al terrorismo”, l’amministrazione Bush ha deviato le risorse economiche dalle dighe di New Orleans all’Iraq, con il risultato che adesso ci si ritrova con un fattura di ricostruzione di 100 miliardi di dollari in cima alla lista delle spese di guerra.
Gli Usa sono così a corto di truppe che i neoconservatori stanno sostenendo con forza l’ipotesi di affidarsi a mercenari stranieri, pagati dai cittadini statunitensi.
Gli sforzi degli Stati Uniti per isolare l’Iran sono stati vanificati dall’azione congiunta di Russia e Cina, due potenze nucleari verso le quali Bush non può permettersi di fare il prepotente.
La guerra in Iraq ha avvantaggiato tre beneficiari: al-Qaeda, l’Iran, l’industria bellica Usa e gli amici di Bush e di Cheney che ricevono contratti milionari.
Tutti gli altri hanno perso.

La guerra ha donato ad al-Qaeda nuove reclute, prestigio e un terreno di addestramento.
La guerra ha unito in alleanza l’Iran alla maggioranza sciita irachena.
La guerra ha incrementato i profitti del settore industriale militare e delle imprese di ricostruzione a spese di 20.000 tra morti e feriti nei soldati Usa e decine di migliaia di civili iracheni complessivamente colpiti.
Il partito repubblicano ha perso, perché il suo pregiudiziale sostegno al conflitto non è condiviso dall’opinione pubblica.
Il partito democratico ha perso perché, malgrado la contrarietà della maggior parte dei propri rappresentanti, nei confronti della guerra si dimostra codardamente acquiescente, rendendosi un’entità politica irrilevante.

Recenti sondaggi evidenziano che la maggioranza dei cittadini statunitensi crede che gli Usa non riusciranno a vincere la guerriglia irachena. La maggioranza è a favore del ritiro e al dirottamento delle spese belliche verso la ricostruzione di New Orleans. Nonostante l’evidenza della volontà popolare, i repubblicani continuano a sostenere una guerra sgradita.
Fatta eccezione per Cynthia McKinney e per John Conyers, i Democratici hanno completamente ignorato la manifestazione di Washington contro la guerra del 24 settembre scorso. Il partito democratico sembra essere legato agli stessi gruppi d’interesse che condizionano il partito repubblicano, e sta rifiutando l’opportunità offerta dalla maggioranza dei cittadini americani che chiedono di essere rappresentati da uno schieramento politico a favore del ritiro dall’Iraq.

L’amministrazione Bush sta sforando i propri bilanci per una cifra attorno ai 1000 miliardi di dollari all’anno. Il deficit federale si aggira sui 500 miliardi di dollari. Il deficit commerciale degli Usa sta raggiungendo i 700 miliardi di dollari.
Il deficit di bilancio viene finanziato da governi stranieri, asiatici in particolare, che ora, semmai volessero decidere di fare uso del potere che George Bush ha conferito loro, vanterebbero sufficiente potere contrattuale verso gli Usa da influenzarne l’andamento dei tassi d’interesse e il valore del dollaro.
Il deficit commerciale viene finanziato trasferendo la proprietà Usa di determinati flussi di risorse attuali e future a soggetti stranieri, compromettendo il benessere sociale generale per la perdita di ricchezza accumulata.
È prevedibile che la Cina incrementerà la propria disponibilità di risorse Usa trasferite, impossessandosi dei mercati statunitensi, attraendo l’industria manifatturiera Usa grazie a fittizi tassi valutari e all’acquisizione della stessa tecnologia americana.
La strategia cinese consiste nel sopravvalutare il dollaro per incoraggiare il trasferimento delle risorse economiche dagli Stati Uniti alla Cina, una tecnica che comprime i tassi d’interesse Usa ad un livello artificialmente basso.
Il valore dei titoli azionari e dei bond americani dipende dal sostegno che le politiche economie dei paesi asiatici forniscono al dollaro e ai tassi Usa.
Nel momento in cui l’Asia realizzerà il proprio obiettivo in termini di primato manifatturiero, innovazione e ricerca & sviluppo, la strategia cambierà. Una volta che la Cina avrà completato la propria acquisizione di know-how statunitense, non avrà più ragione di sostenere la crescita del dollaro.
Quando il dollaro cadrà, costi, profitti, tassi d’interesse e, quindi, standard di vita, si modificheranno drammaticamente. I costi e i tassi d’interesse cresceranno; i profitti, gli standard di vita e di equità sociale precipiteranno.
Queste spiacevoli controindicazioni per attuarsi attendono solo la decisione dei giganti asiatici di tagliare il sostegno al risanamento dei bilanci Usa. Ciò accadrà solo quando questo sostegno non rientrerà più fra gli interessi degli stessi paesi asiatici.
Quando l’Asia affosserà il dollaro, il governo Usa comprenderà che la propria politica fiscale e la propria politica monetaria non forniranno rimedi per scampare alle drammatiche conseguenze.
Rispetto allo stato del budget degli Usa e al deficit commerciale, il terrorismo diventa un problema minore. Il pericolo incombente è che ora gli Stati Uniti potrebbero fronteggiare la perdita da parte del dollaro del proprio ruolo di valuta di riserva. Sarebbe una grave degenerazione, dalla quale il paese non si riprenderebbe.
Un governo intelligente realmente interessato alla sicurezza del proprio paese troverebbe un modo ragionevole di affrontare queste criticità economiche ed evitare che, prima o poi, il deficit degli Usa esploda. La difficoltà delle imprese statunitensi di esportare lavoro e allocare le produzioni all’estero rende ancora più critica la gestione di un budget sconvolto dalla guerra, dai disastri naturali, dall’impatto demografico sul sistema sanitario e sulla sicurezza interna.
Le dinamiche del mercato mondiale stanno rapidamente mettendo a rischio la stabilità politica degli Stati Uniti d’America. Una minaccia più seria di quella che potrebbe mai rappresentare qualsiasi Osama bin Laden di turno.
Per i Democratici e i Repubblicani il tempo per porre fine alla distrazione di una guerra insensata e tornare ad occuparsi dei veri problemi del paese sta sfuggendo di mano.

 


Fonte: http://www.counterpunch.org/roberts09262005.html
Tradotto da Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media

 

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Materie prime: il boom è appena cominciato

23 Ottobre 2005 23:22 Milano (di Vincenzo Sciarretta)

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Al telefono, Jim Rogers, il leggendario investitore newyorkese, gongola. L’indice delle materie prime da lui creato, il Rogers International Commodities Index (Rici), ha messo a segno, se calcolato in euro, un rialzo del 35%, stracciando azioni e obbligazioni. Quando nel 2002 iniziò a parlare ai lettori di B&F di commodity come di un grande tema d’investimento, i veicoli per cavalcare l’andamento di petrolio, oro e cereali erano confinati ai contratti future. Adesso si sono moltiplicati e includono certificati, obbligazioni e fondi (vedi servizio a pagina 56). E, secondo l’esperto, l’apprezzamento proseguirà. «Vendere oggi - dice - sarebbe come aver venduto le azioni americane nel 1985 dopo soli 5 anni di toro. Ma queste tendenze durano 10 o 20 anni. Io aspetto le correzioni per comprare e non per vendere».

Mr. Rogers, c’è qualcosa di nuovo nel suo portafoglio personale? Direi di no. L’investitore di lungo termine ha bisogno di fare poche scelte. Io non sono un grande speculatore. Perciò il grosso del mio denaro rimane investito in materie prime, dove non si possono liquidare le posizioni di giorno in giorno.
E le altri classi d’investimento? I titoli del debito stanno preparando la discesa. A mio giudizio, i rendimenti rischiano di salire per 10 o 15 anni, e parallelamente i prezzi delle obbligazioni caleranno. Non conosco esempi storici in cui il reddito fisso è salito mentre le materie prime rincaravano anno dopo anno. Se ci sono dei soldi da fare nel mercato dei bond è vendendo allo scoperto, e non comprando.

E per le azioni? Wall Street andrà su e giù come negli anni ’70, che rappresentano una buona mappa per orientarsi: i prodotti di base salivano, i bond scendevano e le azioni estenuavano i risparmiatori con allunghi alternati a netti capovolgimenti. Il nostro decennio si muoverà su questa falsariga.
Lei ha costruito un indice di commodity, il Rici, che dall’introduzione nel 1998 ha battuto ogni altro benchmark. Sappiamo anche che i suoi fondi sono ancorati a panieri di commodity, e non a singole materie prime. Insomma lei investe su un giardinetto di merci e derrate. Ma se dovesse scegliere singole commodity, a cosa guarderebbe in questo momento?
Probabilmente guarderei ai beni agricoli che sono rimasti indietro rispetto alle altre risorse di base, e storicamente hanno quotazioni assai depresse, specialmente se si tiene conto dell’inflazione. Nel mercato dei future presterei attenzione al cotone, al succo d’arancia congelato, alla soia o al caffè. È chiaro che si tratta di operazioni per specialisti.

Parliamo del dollaro. Da inizio anno, il biglietto verde ha messo a segno un bel rialzo. È l’inizio di un nuovo trend per la valuta americana o è un’occasione per venderla?
I fondamentali del dollaro sono profondamente viziati e in peggioramento. Ciononostante un rimbalzo era nell’aria.
Questa è la ragione per cui nel forum di gennaio organizzato da Borsa & Finanza non suggerii di vendere allo scoperto la divisa statunitense, ma mi limitai a indicare alcune materie prime: cotone, succo d’arancia e zucchero.
Allora è da vendere?
Io aspetto un’opportunità più favorevole. Non escludo l’ipotesi che il dollaro si rafforzi prima di capitolare del tutto. Mi preparo a vendere pesantemente. Tuttavia sento che il momento buono non è ancora arrivato.
Una delle ragioni in base alle quali lei teorizzò il grande avanzamento delle commodity, fu l’industrializzazione dell’Asia e l’immensa domanda che avrebbe sprigionato. È possibile che la nascita di una classe media in quell’area spinga verso l’alto anche i prezzi dell’arte, dei tappeti antichi, delle monete rare e così via?
Certamente sì. Come in passato. Quando nuove potenze economiche emergono dall’indigenza, gli abitanti rimangono folgorati da arte e cultura. I capolavori, le monete e ogni rarità da collezione. Della propria tradizione e anche delle civiltà estere. In Asia ci sono tre miliardi di persone con un potere d’acquisto in ascesa. La cosa non passerà inosservata.
Un mercato un po’ particolare però…
Sì, il problema è la liquidità. Non è come la compravendita di azioni. E ci sono notevoli costi di transazione; se acquista un quadro di pregio, spesso deve pagare commissioni rilevanti. E infine c’è lo stoccaggio.

 

 Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza

 

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Il doppio deficit la polpetta avvelenata per Bernanke

7 Novembre 2005  11:18 - Roma  (di Eugenio Occorsio)

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«Tutti e quattro i precedenti capi della Federal Reserve, Arthur Burns, William Miller, Paul Volcker e Alan Greenspan, sono stati subito, appena messo piede nell’ufficio, chiamati a misurarsi con problemi per i quali non erano preparati. Burns si trovò con un’inflazione impazzita, Miller dovette fronteggiare un crollo del dollaro, Volcker una dura recessione e Greenspan la caduta delle azioni del 1987. Bene, io credo che un destino analogo attenda Ben Bernanke: dovrà fronteggiare un’emergenza per la quale non è preparato».

Stephen Roach, capo economista della Morgan Stanley, uno degli analisti e dei Fed watchers più prestigiosi del mondo (tra l’altro alla Fed ha anche lavorato), invita a temperare gli entusiasmi, e ci spiega quale sarà quest’emergenza: «Bernanke puntualizza è famoso per la sua conoscenza e la sua attenzione sui temi dell’inflazione, ed è stato scelto da Bush proprio perché si pensa che l’inflazione sarà il maggior problema dei prossimi anni. Io credo che la realtà sarà molto diversa: l’inflazione non è né sarà un problema, la vera questione che esploderà fra le mani del prossimo presidente della Fed sarà la crisi dei conti pubblici americani».

Bè, veramente Bernanke ha fama di solido economista in senso lato, possibile che andrà nel panico per una questione imprevista? «Senta, io sono 33 anni che seguo la Fed, e tutte le volte mi è capitato di dover assistere con palpitazione alle difficoltà di un presidente, prestigioso quanto si vuole, alle prese con un problema per cui era impreparato. Poi, certo, se l’è cavata, ma le difficoltà per il paese sono state molto forti. Ora, Bernanke arriva con le migliori credenziali. Il suo pedigree è impeccabile, ha studiato e poi insegnato nelle migliori università, i giornali accademici sono pieni dei suoi editoriali, è forse l’economista più sofisticato oggi disponibile. Però ha scarsa esperienza sui mercati ed è tutta da dimostrare la sua capacità di leadership internazionale in circostanze eccezionali e, ripeto, impreviste». Lei però è da tempo che ripete i suoi allarmi sui conti pubblici, il deficit in effetti si aggrava di anno in anno, però non succede niente...

«Proprio niente direi di no, dodici rialzi consecutivi dei tassi le sembrano niente? Comunque, è vero, rischio di ripetermi e di andare a finire come il ragazzo che gridava "al lupo, al lupo". Per la precisione, sono quattro anni e mezzo che immancabilmente ad ogni uscita pubblica mi sento ripetere: e allora? Quando avremo questo drammatico aggiustamento dovuto ai deficit americani e al loro finanziamento? Io resto convinto che la situazione sia insostenibile. Anzi, quanto più a lungo si tira avanti e il mondo deve sostenere un disequilibrio come l’attuale, e tanto più aumentano i pericoli di una crisi globale e molto profonda. Molti sono gli aspetti da tener presente: per esempio, in diversi paesi si assiste ad una crescita economica interna, a partire dal Giappone ma anche probabilmente in Germania, che finirà con l’assorbire risorse sottraendole ad un mero investimento in attività denominate in dollari. E anche la Cina, altra fondamentale ‘sostenitrice’, sarà sempre più orientata a stimolare i consumi interni».

Per inciso, l’attuale situazione dei prezzi petroliferi sta dando il suo contributo alle tensioni internazionali? E quanto durerà? «Diciamo che sicuramente contribuisce all’inflazione, però in misura contenuta e contenibile. Voglio dire che ha alzato di qualche decimo di punto gli indici dei prezzi, ma assolutamente niente di drammatico, e questo perché l’occidente è meno dipendente dal petrolio, perché anche se costa caro ce n’è tantissimo, perché oggi l’industria non dipende più dal manifatturiero ma dai servizi, e mille altri motivi. Per tutto questo, dico che l’effetto maggiore è stato paradossalmente che ha diffuso la paura, anzi il terrore, di un boom dell’inflazione. E questo è ingiustificato. Per la seconda parte della sua domanda, quanto durerà il rialzo, è veramente difficile da dire, dipende da mille fattori, dai conflitti, dalle capacità di assorbimento dei paesi di nuova industrializzazione, anche dal tempo che farà quest’inverno. In linea di massima, potrei azzardare che il peggio è passato, e infatti i consumatori americani hanno ricominciato subito a comprare appena i prezzi del petrolio sono scesi un minimo, però è veramente difficile da dire. E poi il problema per i consumatori americani non è che non comprano, è che pur di farlo finiscono con l’indebitarsi oltre ogni ragione».

E qui veniamo al tema centrale. Lei sostiene da anni che non è possibile che l’America viva ‘a credito’, basandosi sul fronte dei conti pubblici sul flusso di denaro che arriva dai grandi investitori stranieri, soprattutto orientali, e sul fronte dei conti privati sui soldi che la gente affannosamente prende in prestito. E’ sempre questo il problema? «Certo, anzi come le dicevo è in continuo peggioramento. Ma lo sa che il tasso di risparmio è arrivato all’1,5 per cento del pil Usa, e che non è mai stato più basso? E che entro l’anno prossimo, secondo i nostri calcoli, arriverà a zero? Ora, mi dica se è sostenibile che un paese come l’America, il leader economico mondiale, non riesca a risparmiare neanche un centesimo e che continui a investire montagne di capitali presi a prestito dall’estero. E le lascio solo immaginare cosa accadrà se, come tutti gli economisti all'unanimità ormai indicano, il boom immobiliare finirà fra poco e con esso si prosciugherà la possibilità per i privati di rifinanziare continuamente il loro mutuo secondo il modello diffusissimo in America. Ecco, su questo dovrebbero concentrarsi le autorità monetarie, non su una paura dell’inflazione assolutamente esagerata. Tutti si preparano alla battaglia come negli anni 70, quando si andò a finire con la stagflazione, cioè recessione più inflazione, ma le condizioni erano totalmente diverse».

Significa che Bernanke si prepara ad affrontare battaglie nuove con metodi antichi? «Guardi, vuol dire semplicemente che ci si dovrebbe concentrare su un problema preciso: qui sta per scoppiare la madre di tutte le bolle speculative, quella dei conti pubblici e privati insieme, perché c’è un mostruoso deficit dei pagamenti, e lo scoppio sarà rafforzato dalla contemporanea crisi dei valori immobiliari. E non bisogna fare errori come quelli che ha fatto Greenspan».

Greenspan? Il Maestro, come lo chiamano, in italiano e con la maiuscola, i suoi connazionali? «Sì, il Maestro. Ha di fatto incoraggiato gli americani, tenendo i tassi incredibilmente bassi per un periodo protratto di tempo, a non risparmiare più nulla, ed è come dicevo la prima volta che il national savings rate finisce in negativo nella storia, o almeno dal 1933 quando questi conteggi hanno cominciato ad essere fatti. Parallelamente, con il deficit pubblico che è andato crescendo in modo anch’esso incontrollato, la Fed ha dovuto fare equilibrismi finanziari per attrarre capitali stranieri. Il capitolo finale di questa storia, dell’America povera che vive da ricca, dev’essere ancora scritto, e lo sarà sotto la nuova presidenza della Federal Reserve. La crescita economica del paese, e con essa dell’occupazione, dello sviluppo, anche dei partner occidentali, è appesa a questo filo sempre più sottile. Questa è la vera sfida per Bernanke. Come se non bastasse, ora ci si è messa anche Katrina».

Katrina? L’uragano? «Guardi che i costi della ricostruzione, anzi prima del cleaningup che è appena cominciato, sono enormi. E anche pieni di incognite come il recupero della piena funzionalità delle raffinerie petrolifere e dei terminal portuali. Abbiamo calcolato che i costi finali, a carico per lo più delle amministrazioni federali e locali, potrebbero costare fino a un punto di più nel rapporto deficitpil rispetto a quanto oggi preventivato, si potrebbe cioè arrivare al 3,8% nel 2005».

Aumentano insomma le spese senza che a questo corrispondano risorse interne adeguate. Fino a quando durerà? «Senta, per non ricadere nella sindrome del richiamo "al lupo" le dico solo che il deficit delle partite correnti, il più preoccupante fra i vari deficit di cui stiamo parlando, nella prima metà del 2005 ha viaggiato sulla base di una media annuale di 800 miliardi di dollari. Significa che attualmente occorre che 3 miliardi di dollari per giorno lavorativo arrivino in America dall’estero. Ora, visto anche le conseguenze di Katrina di cui parlavo, la situazione è destinata a peggiorare. Per sostenere quest’afflusso serve una solidissima fiducia nei confronti dell’America da parte del resto del mondo. E tenere alta questa fiducia è il compito su cui dovrà concentrarsi Bernanke, altro che l’inflazione. Altrimenti ogni giorno rischiamo due cose: un crollo del dollaro, un crollo vero intendo, e un correlato brusco rialzo dei tassi d’interesse, che a sua volta ovviamente porterebbe ad una contrazione dell’economia. Mi pare evidente che non possiamo continuare a fidarci solo della benevolenza degli stranieri». Oltretutto, la benevolenza verso l’America non sembra un sentimento molto diffuso nel mondo...

 

Fonte - La Repubblica

 

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  Tassi USA: tredicesimo e ultimo rialzo per Greenspan

12 Dicembre 2005  23:58  MILANO (di FtaOnline)

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La BCE ha deciso (finalmente per alcuni, avventatamente per altri) di mettere mano alla leva dei tassi di interesse, decretandone un rialzo, probabilmente il primo di una serie. Il comportamento della Federal Reverse e le dichiarazioni che accompagnano gli interventi della Banca Centrale Usa lasciano invece pensare che l'era dei rialzi volga ormai al termine, anche se appare molto probabile che oggi 13 dicembre il Presidente uscente della Federal Reserve, Alan Greenspan, possa, salvo colpi di scena dell'ultima ora, rialzare il costo del denaro di 25 punti base. 

Sarebbe questo l'ottavo incremento nel solo 2005, forse il penultimo della serie iniziata a metà 2004 quando il saggio sui Fed Funds era all'1 per cento. I successivi, se ci saranno, verranno attuati sotto la guida del nuovo Presidente, Ben Bernanke. Valutando, forse in modo semplicistico, le diverse tempistiche di intervento delle due Banche Centrali, è possibile ipotizzare che gli Usa siano circa 18/24 mesi avanti rispetto ai paesi dell'area Euro lungo la curva del ciclo economico. Immaginando di rappresentare l'evoluzione del ciclo come un circolo diviso in quattro quadranti, ciascuno della durata di 18 mesi circa, con il primo quadrante che rappresenta l'avvio dell'espansione, il secondo la fase matura della ripresa, il terzo l'avvio della recessione ed il quarto la recessione piena, è possibile immaginare che gli Usa stiano iniziando adesso a percorrere il secondo quadrante, mentre gli stati dell'area Euro si stiano incamminando adesso sul primo.

Il Giappone è probabilmente in una posizione intermedia rispetto agli altri due blocchi citati, mentre i paesi a più alto tasso di crescita, come Cina ed India stanno percorrendo una circonferenza diversa, quindi non confrontabile con quella delle economie più mature. Per Europa, Giappone e Stati Uniti si prospetta quindi ancora un periodo di crescita che va dai due ai tre anni e mezzo prima che si verifichi una nuova fase di recessione. In base a queste osservazioni quale potrebbe essere la giusta strategia di investimento nei prossimi mesi? Per rispondere a questa domanda è necessario fare riferimento alle teorie dell'analisi intermarket. Durante la fase di espansione economica, come quella attuale (matura negli USA ed ancora in fase di decollo in Europa) l'inflazione ed i tassi di interesse reali in crescita fanno calare i prezzi dei bond ed il mercato delle commodities si avvia a toccare i suoi massimi (le voci, anche autorevoli, di un petrolio stabile tra i 50 ed i 70 dollari nel prossimo futuro si sprecano, non sono più in molti a scommettere su di una ulteriore crescita delle quotazioni del greggio).

In una seconda fase i tassi alti e, spesso, l'intervento restrittivo delle autorità monetarie (già molto avanzato negli Usa e forse prossimo alla fine, appena iniziato in Europa) colpiscono negativamente le azioni. A questo punto (ma presumibilmente prima di raggiungerlo dovrebbero passare 1/2 anni) l'economia entra in una fase di recessione: la domanda si riduce e con essa la produzione e quindi la domanda (ed i prezzi) delle materie prime. La ridotta domanda di beni si traduce quindi in una ridotta domanda di moneta con conseguente calo degli interessi. Questo comporta il rally dei titoli a reddito fisso e, successivamente, quello dei titoli azionari. A questo punto riparte la crescita dell'economia reale seguita dalla crescita di interessi ed inflazione. E il ciclo si ripete. Dal punto di vista operativo nella prima fase dell'espansione dell'economia, quella dove si trova l'economia mondiale adesso, è meglio posizionarsi sul mercato dell'oro, delle materie prime e dei relativi futures per profittare al massimo del loro apprezzamento, mentre conviene alleggerire le posizioni in obbligazioni, almeno quelle a vita residua più lunga. In questi periodi, per quanto il mercato azionario complessivamente sia ancora in crescita, sarebbe meglio passare da titoli azionari interest sensitive (finanziari, TMT, ciclici, utilities con forte leverage) a titoli che performano meglio in contesti inflattivi (materie prime, miniere, chimici, farmaceutici, titoli petroliferi ed energetici).

Nella seconda fase dell'espansione, si assiste al top degli interessi e del CRB index, mentre i bond sono ai minimi ed inizia il calo sui mercati azionari (uno scenario che potrebbe essere di attualità tra un anno circa): in questo contesto "cash is king". Mentre l'economia entra nella fase di recessione, con oro, inflazione e materie prime in calo, bisognerebbe iniziare a ritornare sui mercati obbligazionari. Con il bottom del ciclo economico reale, i tassi sono ai minimi e i prezzi dei titoli tendono a raggiungere i massimi (mentre il CRB index è prossimo ai minimi). Uno scenario di questo tipo è forse troppo lontano da quello attuale per essere di attualità, ma è sempre meglio avere presente il quadro completo e non solo i dettagli per evitare di prendere decisioni di investimento con il timing errato. In sintesi quindi il 2006 potrebbe portare listini azionari ancora al rialzo, ma forse più in Europa ed in Giappone che negli Usa, obbligazioni in calo, soprattutto quelle a più lunga scadenza, e materie prime stabili, con forse l'eccezione dell'oro, in crescita a causa di dinamiche nuove sul fronte della domanda, e del carbone, il cui prezzo potrebbe aumentare per effetto del tentativo di sostituire questo combustibile al petrolio dove possibile per la produzione di energia.

 

Fonte - FtaOnline per Wall Street Italia

 

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I TASSI AMERICANI VERSO IL 4,5%

11 Dicembre 2005  19:07  MILANO (di Cheo Condina) 

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BANCHE CENTRALI Paul Kasriel è capoeconomista e vicepresidente della Northern Trust Bank di Chicago. E alla vigilia della riunione della Federal Reserve (prevista per martedì 13 dicembre) ha le idee chiare sul prossimo futuro: «Sarà il penultimo rialzo dei tassi, l’ultimo arriverà nel meeting del 31 gennaio, con l’addio di Alan Greenspan e l’insediamento di Ben Bernanke al vertice della Banca centrale».

E poi che cosa accadrà? La Fed fermerà la stretta per un po’ di tempo. Per diversi motivi: innanzitutto l’economia americana, nonostante le apparenze, rallenta. I consumi si stanno indebolendo: ve ne accorgerete col dato sul pil del quarto trimestre. In secondo luogo lo spettro dell’inflazione si sta allontanando: le aspettative sui prezzi sono calate e il mercato del lavoro non contribuisce a riscaldare il carovita. Infine c’è il problema dell’eccessivo appiattimento della curva dei rendimenti, che spesso annuncia la recessione.

Greenspan però ha detto il contrario: che l’appiattimento della curva non lo preoccupa. Infatti in questo momento le sue preoccupazioni sono altre. In primis come cambiare il comunicato della Fed, già dalla prossima riunione, senza creare scossoni sui mercati.

Questo l’ha confermato la settimana scorsa Janet Yellen, presidente della Fed di San Francisco. Come potrebbe cambiare il comunicato? Potrebbe essere cancellata la promessa più importante di Greenspan: che la politica monetaria accomodante sarà rimossa a un ritmo misurato. Il che, in parole povere, significa che è stato raggiunto il livello neutrale dei tassi. Almeno fino a quando il dollaro non crollerà nuovamente contro l’euro.

Si tratta di uno scenario plausibile? Assolutamente sì. Se quest’anno il biglietto verde ha fatto meglio di euro e yen, è semplicemente per il fatto che i tassi nel Vecchio Continente e in Giappone sono ai minimi storici. Ma adesso che la Bce ha iniziato a sua volta la stretta monetaria e l’economia europea ha ripreso a marciare, la musica cambierà nuovamente. E sul dollaro tornerà a pesare l’enorme deficit di bilancio americano. Credo che i nodi verranno al pettine già nel prossimo autunno.

E per Bernanke l’unica possibilità sarà alzare i tassi... Certo, per attirare nuovi capitali negli Stati Uniti e finanziare il disavanzo. Questo però non gioverà alla congiuntura americana: normalmente, dopo un rialzo simile a quello realizzato dalla Fed, il costo del denaro non cresce ancora, resta fermo per un po’, e poi la banca centrale torna a ridurlo.

Bernanke, però, potrebbe avere un’arma in più: il target d’inflazione. Non cambierà nulla, la Fed ha una credibilità tale che non ha bisogno di questo strumento. E l’attuale trasparenza della nostra banca centrale è sufficiente. Troppa - come ha sottolineato Greenspan - rischia di indebolirla.

 

Fonte - Borsa & Finanza

 

WALL STREET ARRETRA, PAURA DEI BOND

27 Dicembre 2005  22:00  NEW YORK (ANSA)

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E' pesantemente negativa la prima seduta di Wall Street dopo lo stop natalizio. Il Dow Jones ha perso lo 0,97% a 10.777,77 punti, il Nasdaq Composite e' arretrato dell'1,00% a 2.226,89 punti e lo S&P 500 è calato dello 0,96% a 1.256,54 punti. Per il Dow Jones la perdita di 105 punti e' la peggiore dalla fine di ottobre.

Dopo un avvio positivo, gli indici hanno virato in rosso scontando la performance negativa dei titoli energetici e tecnologici, con vendite in accelerazione proprio negli ultimi 20 minuti. Va detto che i volumi sono comunque molto bassi per via del lungo periodo festivo. Secondo i trader del Nyse, sono mancati soprattutto i buy ad arginare le vendite.

Tutti e 10 i principali settori hano chiuso in rosso: Financials (-0.78%), Tech (-0.91%), Health Care (-0.84%), Consumer Staples (-0.68%), Consumer Discretionary (-0.79%), Industrials (-0.93%), Energy (-2.63%), Telecom (-0.09%), Materials (-0.69%) e Utilities (-0.41%).

In realta' i sell sono scattati quando sul mercato obbligazionario si e' creata una situazione particolare, che non si ripeteva da 5 anni, dal 2001. E' successo che i rendimenti del titolo del Tesoro americano a lungo termine, cioe' i Bot Usa a 10 anni (lo yield e' calato martedi' al 4.33% e il prezzo e' salito + 09/32) sono risultati esattamente uguali ai rendimenti del Titolo del Tesoro a 2 anni. Questo fenomeno, molto raro, che si chiama appiattimento o "inversione" della curva dei rendimenti, ha messo in allarme le banche d'affari di New York e provocato il ribasso in borsa, perche' segnala un rallentamento dell'economia degli Stati Uniti e nei casi peggiori, una recessione. E di conseguenza - secondo alcuni analisti - prelude a un possibile futuro taglio dei tassi da parte della Federal Reserve.

Secondo alcuni analisti interpellati dall'agenzia Bloomberg, sarebbe stato principalmente l'appiattimento della curva dei rendimenti evidenziato dal mercato dei Treasury e che segnalerebbe la possibilità di un rallentamento della crescita economica. In particolare - come gia' detto - si è verificata una inversione della curva dei tassi obbligazionari, con i rendimenti a breve termine superiori a quelli a lungo termine: un fenomeno che ha preceduto ognuna delle fasi di recessione vissute dagli Usa.

L'ultima volta risale a dicembre 2000: prima, quindi, della recessione del 2001. Per Stephen Massocca, di Pacific Growth Equities a San Francisco, in giorni di trading molto ridotto l'attenzione degli investitori si è concentrata su un "potenziale movimento del mercato dei bond nel timore che possa segnalare una recessione a breve termine".

Sul listino, la frenata dei prezzi del greggio, scesi sotto la soglia dei 58 dollari al barile, ha appesantito il comparto petrolifero che ha registrato un forte calo, mentre il comparto tecnologico ha sconta le perdite registrate dai 'negozi' online Amazon e EBay. Quanto ai singoli titoli, spiccano le perdite dei petroliferi con Valero Energy e di Exxon Mobil. In generale tutto il comparto retail e' andato male, oltre ad Amazon e Ebay, con arretramenti per Wal-Mart e Best Buy.

Al termine delle contrattazioni sul mercato valutario di New York, l'euro ha chiuso in ribasso a 1,1833 contro il dollaro, a fronte di 1,1865 di venerdì scorso.

 

Fonte - Ansa

 

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  La nuova età dell'oro

02 dicembre 2005 - MILANO (Maria Grazia Briganti)

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Le quotazioni sfondano i 500 dollari l'oncia, toccando i livelli del 1983. Ma questa volta vi è un fatto nuovo. Alla base dei rialzi non c’è la crisi di fiducia nell’investimento finanziario e nell’economia. Lo scenario mondiale è cambiato, a partire dai Paesi emergenti che entrano sul mercato, come nuovi, ricchi, acquirenti.

Dopo una pausa di riflessione di due giorni, il prezzo dell’oro ha sfondato la soglia psicologica dei 500 dollari l’oncia (31,1035 grammi). A spingere verso l’alto le quotazioni, che nell’ultimo mese sono salite del 6% ed è di circa il 17% il rialzo da inizio anno, vi sono i massicci acquisti degli investitori che, oltre alla classica necessità di diversificare i portafogli, stanno prendendo posizioni su un bene la cui domanda mondiale è vista crescere esponenzialmente. Non solo perché le banche centrali asiatiche stanno convertendo le loro riserve da dollari a oro, ma perché -fattore nuovo rispetto al passato- le economie emergenti, più ricche e solide, si stanno affacciando sullo scenario internazionale come nuovi, aggressivi acquirenti.

L’oro di solito costituisce un investimento sicuro in tempi di alta inflazione o di crisi economiche a livello globale. La sua caratteristica di bene rifugio dipende anche dal fatto che è un metallo poco utilizzato nell’industria, diversamente dalle altre materie prime e minerali i cui prezzi tendono a muoversi in linea con la crescita economica a causa del loro più o meno intenso utilizzo nel settore industriale. Ma attualmente non vi sono segnali di crisi economiche. Trascurando i tassi di crescita vicini alle due cifre dei paesi asiatici, il prodotto statunitense e' salito del 4,3%: è il decimo trimestre consecutivo in cui l'economia statunitense è aumentata più del 3%. Anche in Europa, le attese sono per una crescita che si attesterà intorno al 2% per il 2006.

 Dal punto di vista dell’inflazione, essa è sotto l’occhio vigile delle banche centrali, americana ed europea, che sono già intervenute sui tassi, mentre la prima causa di surriscaldamento dei prezzi, il petrolio, è oggi stabile attorno a 55 dollari al barile. Ma l’oro è utilizzato come strumento di copertura contro movimenti al ribasso dei prezzi nei mercati finanziari, perché quando gli investimenti scendono e cala la fiducia nei titoli mobiliari, solitamente aumenta la necessita di detenere asset fisici, come i lingotti d’oro o le proprietà immobiliari. Storicamente, le valutazioni più alte si sono raggiunte nel 1980, a quota 873 dollari l’oncia. Nel ventennio successivo, fino alla fine degli anni ’90 le condizioni generali del mondo sono migliorate: l’inflazione è stata combattuta, la democrazia è arrivata in molti Paesi emergenti, le barriere al movimento di capitali sono state abbattute. Con i mercati in ripresa, gli investitori hanno accantonato l’investimento in lingotti. Fino allo scoppio della bolla speculativa, quando le valutazioni gonfiate del 2000 hanno reso l’acquisto di oro di nuovo conveniente. I corsi auriferi sono saliti, ma anche i mercati finanziari hanno pian piano smaltito gli eccessi e stanno per archiviare il loro secondo anno consecutivo in crescita. E le previsioni restano positive anche per il 2006.

I tempi sono cambiati, dunque, perchè al momento l’inflazione non è una vera minaccia, né vi sono crisi economiche in atto. Al contrario. Perchè è proprio la maggiore ricchezza economica dei paesi emergenti, India e Cina in testa, a sostenere la domanda e non solo in vista della stagione dei matrimoni e delle festività asiatiche di fine anno. Secondo il World gold Council, l’India, primo consumatore mondiale, quest’anno dovrebbe incrementare i suoi acquisti del 40%, superando le 850 tonnellate.

 

Fonte - Miaeconomia.it

 

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  Petrolio: Goldman lo vede a $105

15 Dicembre 2005  18:20  MILANO (di La Lettera Finanziaria)

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Goldman Sachs torna con la sua previsione "catastrofista" sul prezzo del greggio. Gli analisti vedono a 105 dollari al barile con una "super-impennata" che forse durerà fino al 2009, a causa della scarsità dell'offerta rispetto alla domanda. Già lo scorso marzo Goldman stimò che il greggio, quotato attualmente poco sopra i 61 dollari al barile, potrebbe raggiungere 105 dollari al barile nel futuro. Oggi la banca americana compie un passo avanti: ribadisce la stima e le assegna un'indicazione temporale, entro la quale l'impennata potrebbe verificarsi.

Nella "migliore delle ipotesi," gli analisti di goldman, fra cui Arjun Murti, stimano che il prezzo medio del greggio sarà di 68 dollari al barile nel 2006. "Non siamo d'accordo con l'opinione prevalente che le quotazioni del greggio abbiano raggiunto i massimi nel 2005," hanno scritto gli analisti in un rapporto inviato ieri ai clienti.

Mercantile Exchange sono balzati del 50 percento negli ultimi 12 mesi, spinti dalla "perdurante domanda energetica, dalla fiacca crescita dell'offerta e dalla inesistente capacità inutilizzata," hanno indicato gli analisti. Il loro rapporto cita "l'ostacolo apparentemente insormontabile" di aumentare la capacità petrolifera in maniera tempestiva da parte dell'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, come motivo che "ci rende così certi di essere in una fase di 'super-impennata' del mercato energetico". Le azioni del settore petrolifero e del gas potrebbero offrire rendimenti del 60 percento, via via che i prezzi delle materie prime salgono verso i loro massimi, ha scritto murti. I titoli azionari consigliati da goldman includono quelli di Exxon Mobil Corp., Murphy Oil corp., Suncor Energy inc. e Encana corp.

 

Fonte - La Lettera Finanziaria

 

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  Soros: America in recessione nel 2007

10 Gennaio 2006 16:21 Milano - (di La Lettera Finanziaria)
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Il 2006 sarà un anno in leggera frenata per l'economia americana, con meno inflazione, e con prezzi degli immobili più bassi. L'anno in corso tutto sommato non dovrebbe presentare grossi rischi per la più grande economia mondiale. Non altrettanto si può invece dire per il 2007, un anno che potrebbe vedere la Locomotiva a stelle e strisce cadere in recessione, come ha detto anche ieri il finanziere super miliardario George Soros, uno dei guru più ascoltati di Wall Street.

Crescita Usa in frenata. A causa soprattutto di un raffreddamento della spesa per consumi e di un calo della domanda di abitazioni (che porterà a uno sgonfiamento dei prezzi degli immobili erodendo la ricchezza delle famiglie), il 2006 vedrà un rallentamento della crescita americana. Secondo uno dei più recenti sondaggi disponibili, quello realizzato ieri dalla Bloomberg tra 72 economisti, gli Stati Uniti quest'anno cresceranno del 3,4%, contro il 3,6% atteso per il 2005.
Gli americani consumano meno. Nel terzo trimestre 2005 i consumi delle famiglie americane dovrebbero essere cresciuti dello 0,7% rispetto all'analogo trimestre 2004. Era dal primo trimestre 2005 che i consumi non crescevano così poco. La frenata è notevole se si pensa che nel terzo trimestre erano cresciuti, sempre su base annua, del 4,1%. Basti pensare che a dicembre la più grnade catena di distribuzione d'America, la Wall-Mart, ha rilevato un incremento su base annua delle vendite del 2,2%, il più basso degli ultimi cinque anni nel mese caratterizzato dalle vendite natalizie. Vendite oltretutto sostenute da un taglio dei prezzi che si farà sentire sui profitti della società attesi per il quarto trimestre. Grazie però ai saldi e a ulteriori ribassi dei prezzi, i consumi dovrebbero tornare a crescere nel primo trimestre di quest'anno. Le attese sono per un aumento del 3,4% su base annua.
 

Mercato immobiliare e occupazione. Dopo aver raggiunto il livello record di 7,1 milioni di dollari nel 2005, le compravendite di abitazioni dovrebbero rallentare nel corso del 2006, specie a fronte dei rialzi dei tassi che rendono meno favorevole accendere mutui. Gli economisti interpellati da Bloomberg prevedono che quest'anno le compravendite di abitazioni esistenti si fermeranno a 6,84 milioni di dollari. Questo potrebbe avere riflessi anche sull'occupazione, dal momento che il settore delle costruzioni è stato nel 2005 uno di quelli che più a contribuito alla formazione di nuovi posti di lavoro. Nel 2005 sono stati creati 2,02 milioni di nuovi posti di lavoro, con una differenza minima rispetto ai 2,194 milioni creati nel 2004. Poichè si tratta dei maggiori valori dal 1999, gli eocnomisti osservano che l'economia americana non può continuare a creare posti di lavoro a questo ritmo troppo a lungo senza scontrarsi a un certo punto con i limiti della capacità produttiva.
 

L'inflazione rallenta la marcia. Il 2006 sarà anche un anno di frenata per l'inflazione americana, grazie soprattutto ai ribassi dei prezzi attuati in molti settori - a partire da quello dell'auto dove proprio oggi la numero uno mondiale General Motors inaugura drastici tagli ai listini - al fine di sostenere le vendite e restare competitivi. Lo stesso sondaggio Bloomberg vede una crescita dei prezzi del 2,8% nel 2006, a fronte di un incremento del 3,7% nel corso del 2005. Questo a patto di una certa stabilità dei prezzi petroliferi, che però proprio in questi primi giorni del 2006 sono soggetti a nuove tensioni, anche di origine speculativa. Nel complesso la situazione resta tuttavia più favorevole. Ad esempio, rispetto al record del 5 settembre scorso, quando il prezzo della benzina alla pompa era arrivato negli Stati Uniti a 3,06 dollari al gallone, oggi gli americani fanno il pieno all'auto con 2,31 dollari al gallone.
 

Le mosse della Fed. Dopo aver alzato il costo del denaro 13 volte dal giugno 2004 ad oggi, la Federal Reserve potrebbe prendersi una pausa. Rispetto al 4,25% a cui sono arrivati oggi i Fed Funds, gli economisti interpellati dalla Bloomberg prevedono che i tassi arriveranno entro fine marzo al 4,75% e lì si fermeranno per il resto dell'anno. Questo a patto che l'inflazione non torni in fibrillazione. Se così fosse, la Fed si troverebbe costretta a procedere con ulteriori rialzi dei tassi che potrebbe essere la cuasa di un atterraggio duro dell'economia americana.
Ne è convinto il miliardario George Soros, uno dei più ascoltati guru di Wall Street , il quale teme che la recessione economica possa colpire gli Usa nel 2007, per effetto di una eccessiva stretta monetaria da parte della Federal Reserve. Nel corso di un intervento a un convegno dell'Istituto per gli Affari internazionali di Singapore, Soros ha spiegato che l'aumento del costo del denaro potrebbe unirsi pericolosamente a una brusca discesa dei prezzi immobiliari e al calo del dollaro, rendendo vani così gli sforzi della Fed e del suo presidente uscente, Alan Greenspan, di creare un "atterraggio morbido" per l'economia. Soros si aspetta quindi negli Usa "una recessione nel 2007 e non nel 2006". Mentre la ripresa in corso sia in Europa sia in Giappone non è ancora sufficientemente solida per riequilibrare i riflessi negativi su scala mondiale della crisi statunitense.
 

 

Fonte - La Lettera Finanziaria per Wall Street Italia

 

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