.

 
 

 
 

INDICE ARTICOLI

 

.

Geo politica e petrolio

L'imbroglio del petrolio

Materie prime - petrolio

Petrolio allarme rosso: tutte le bugie dei sauditi

Materie prime - petrolio

Petrolio a $182 al barile!!!

Macro USA e mondo

Qual'è il capro espiatorio del rallentamento ?

Macro USA

Fine del Sogno americano

 

+++ BORSE EUROPEE AI MINIMI -- ARABIA: PIU' GREGGIO - MA I PREZZI NON CALANO  +++ SHOCK RUSSO SUL PETROLIO  +++  PETROLIO SENZA TREGUA - VOLA  VERSO I 49$  +++

  mercoledì 4 agosto 2004    sabato 14 agosto 2004    venerdì 27 agosto 2004    
..... ..... ..... .....
  scarica in formato JPEG   scarica in formato JPEG   scarica in formato JPEG  

 

 

 

  L'imbroglio del petrolio

14 Ottobre 2004   00:46  Roma (WSI)

 

Diceva Von Clausewitz che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Oggi possiamo dire tranquillamente che la guerra è la continuazione dell'economia con altri mezzi o che l'economia è a sua volta la continuazione della guerra. La guerra in Irak lo dimostra.

Guerra per il petrolio si disse e si dice ancora. E certo il petrolio ha una parte importante dell'orrendo cocktail mediorientale. Ma a guardare dati e statistiche sembra che questa più che una guerra per accaparrarsi le risorse energetiche, sia una guerra per mantenere alti i prezzi. del petrolio. Un maledetto imbroglio. Un imbroglio che si fonda sul mercato. Infatti il mercato del petrolio non è in Medioriente, ma qui, in Occidente. I prezzi non si fanno nei deserti arabi, ma nei supercondizionati grattacieli della City a Londra e di Wall Street, a Manhattan e soprattutto a Houston e a Dallas, Texas.

Facciamo allora il punto sulla questione dei prezzi. Il petrolio era già cresciuto durante la "guerra". Normale. Speculazione fin troppo facile, a vendere sul mercato erano addirittura gli americani, che mentre conquistavano i "pozzi di Saddam" si finanziavano vendendo le loro scorte sul mercato. Ma dopo la conquista i prezzi non scendono, anzi salgono. Salgano fino a $50 a barile. Vacche grasse per le compagnie di petrolio, tutte al rialzo in Borsa e con utili spettacolari. Per far digerire il salatissimo conto sui prodotti petroliferi, benzina in primo luogo, c'è più di una giustificazione: il terrorismo internazionale, che arriva addirittura a colpire gli oleodotti, la mancata ripresa della produzione irachena, e poi, naturalmente, i venali islamici che sfruttano la situazione per rimpinguare le casse dei rispettivi stati e delle famiglie regnanti.

E così si alimenta il conflitto, la "guerra fra civiltà", fra la civiltà dell' automobile utilitaria e quella delle limousine degli sceicchi. Come dire si butta benzina sul fuoco sull'odio. Peccato che le cose non stiano proprio così.

Lunedi' 2 agosto il prezzo del petrolio più pregiato, il light crude, ha sfiorato i $44 dollari il barile sul mercato a termine di New York (NYMEX, cioe' New York Mercantile Exchange). Il Brent ha raggiunto lo stesso giorno i massimi in 13 anni. Come lo Strategic Alert ha spiegato in precedenza, la tendenza al rialzo dei prezzi petroliferi nel contesto di alti e bassi vertiginosi dei mercati non è dovuta ai meccanismi di domanda ed offerta, ma alla speculazione che imperversa sui mercati a termine, che sono il NYMEX e l'International Petroleum Exchange di Londra (IPE).

Questi mercati non trattano petrolio reale, ma solo "petrolio di carta". Nel 99,9% di tutti i contratti a termine stipulati al NYMEX, nessuna delle due controparti consegna o riceve petrolio reale. Queste transazioni, però, influiscono enormemente sull'andamento dei mercati. La IPE ha reso noto da poco che i contratti derivati sul Brent Crude quest'anno hanno raggiunto un volume che non ha precedenti: il 14 maggio i contratti derivati aperti riguardavano un volume di 3375 milioni di barili. Questo equivale a cinque volte il totale dell'estrazione petrolifera giornaliera mondiale.

Per l'IPE sono disponibili solo le cifre del 12 febbraio, da cui risulta che i future sul brent crude avevano raggiunto i 179 milioni di barili, più del doppio del totale mondiale. Un aspetto curioso della questione è che mentre il "brent di carta" raggiunge volumi sempre maggiori, le consegne effettive di brent reale sono in netta diminuzione. All'inizio degli anni Novanta, la produzione giornaliera di brent ammontava a 700 mila barili al giorno, ma nel 2003 era scesa a 327 mila. Se presumiamo che il brent oggi effettivamente estratto sia di circa 300 mila barili al giorno, il "brent di carta" annunciato il 14 maggio supera quello realmente prodotto di 1250 volte. Sebbene il vero Brent rappresenti meno dello 0,4% della produzione mondiale, il suo prezzo determina quello del 60% di tutta la produzione petrolifera mondiale." (EIR Strategic Alert n.24).

Non solo. Molti paesi arabi non stanno rispettando le quote OPEC. L'Algeria ad esempio: per tutto il 2003 e il primo semestre 2004 ha avuto una produzione di 1,4 milioni di barili/giorno, mentre la quota OPEC è di 782.000 barili/giorno, costantemente superata dall'Algeria. Quasi tutti i paesi si comportano allo stesso modo. I 3.500 barili di petrolio dell'Irak - quelli che mancano dal mercato - già da più di un anno li stanno producendo gli altri. Dunque la crisi del petrolio è un "imbroglio".

Come nel 1973 il petrolio viene usato dagli USA per regolare il mercato mondiale, creando inflazione nei paesi più dipendenti dal petrolio, come Europa e Giappone, ma in parte anche Cina, e ridistribuendo ricchezza agli alleati petroliferi, primo fra tutti l'Arabia Saudita. Un imbroglio redditizio per tutti, e quindi una "verità economica".

03 Agosto 2004   03:07  New York (Independent Media Center)

 

 

 

venerdì 06 agosto 2004    giovedì 12 agosto 2004     venerdì 20 agosto 2004 
..... .....
scarica in formato JPEG   scarica in formato JPEG   scarica in formato JPEG
         
GR1 RAI - 05 AGO ore 22:00     MP3 (60 KB)
GR1 RAI - 12 AGO ore 19:15   MP3 (61 KB)

 

 

 

  Petrolio allarme rosso: tutte le bugie dei sauditi

04 Agosto 2004   21:03  New York (WSI)

 

Ecco il messaggio: il mondo sta velocemente dando fondo alle scorte di petrolio e di gas; e nessun incremento della produzione da parte dei Paesi dell’Opec sara’ in grado di evitarlo.

In un articolo pubblicato su TheStreet.com Jon Markman, columnist di MSN Money, da’ voce all’allarme lanciato da Matthew Simmons, amministratore delegato della Simmons & Co International, una banca d'affari di Houston specializzata nel settore petrolifero. Sono loro i messaggeri.

Mentre la teoria dei record dei prezzi del petrolio e’ ormai storia trita e ritrita, l’ipotesi inquietante di Simmons, in base ad analisi condotte da lui personalmente, e’ che le capacita’ di estrazione dell’Arabia Saudita stanno esaurendosi. Aramco, la compagnia incaricata delle operazioni petrolifere nel paese arabo, smentisce seccamente. Ma Simmons non si lascia scoraggiare tanto facilmente. Oltre ad essere l’amministratore delegato di una delle principali banche d’affari al mondo specializzate sul settore petrolifero (annovera tra i propri clienti Halliburton e la World Bank ) Simmons e’ membro del Consiglio per gli Affari Esteri ed e’ stato consulente di George W. Bush.

Il punto di vista di Simmons si fa particolarmente interessante proprio in questi giorni, con il prezzo del greggio costantemente sopra la soglia dei $40, nonostante l’impegno, pubblicamente dichiarato, dell’Arabia di aumentare la produzione nel tentativo di tenere a freno le quotazioni. Prezzi piu’ alti funzionano come un meccanismo di tassazione che deruba i consumatori di denaro che verrebbe altrimenti utilizzato per comprare altri beni di consumo, come automobili, vestiti, computer.

Il quadro mondiale della disponibilita’ di petrolio e’ poco incoraggiante. I pozzi in Indonesia sono vecchi e in diminuzione, proprio come quelli in Russia e Canada. Nuovi giacimenti sono stati scoperti nell’Alaska antartica, nelle acque piu’ profonde del Golfo del Messico, dell’ Africa Occidentale e del Mare del Nord, ma offriranno solo incrementi marginali.

Anche la tecnologia offrira’ un aiuto, ma – di nuovo - i benefici saranno relativamente contenuti. A tutto questo si aggiungono le preoccupazioni sull’impatto ambientale che un’esplorazione priva di regolamentazione potrebbe avere sul delicato eco-equilibrio planetario.

Ma il grande presupposto, che e’ sempre stato preso per scontato fino ad oggi, e’ che i paesi attualmente produttori di petrolio, in particolare l’Arabia Saudita, sono in grado di pompare piu’ greggio se necessario. L’Arabia Saudita pompa al momento un massimo di 9 milioni di barili al giorno, e fino ad oggi non ha mantenuto la promessa, fatta alcune settimane fa, di aumentare la produzione fino a 15 milioni. Di fronte a tale evidenza alcuni economisti hanno iniziato a chiedersi se lo stato arabo avesse deciso, per ragioni politiche, di rimangiarsi la parola data.

Secondo Simmons, la verita’ e’ diversa e la situazione molto piu' grave. Quello che Simmons mette in dubbio e’ l’affidabilita’ delle dichiarazioni dell’Arabia Saudita. Il nocciolo della questione non e’ tanto quanto petrolio il paese saudita e’ disposto a pompare, ma piuttosto quanto petrolio il regno arabo ha effettivamente a disposizione.

I sei maggiori pozzi del paese, tutti scoperti tra il 1940 e il 1967, producono circa il 95% del petrolio saudita, ovvero il 10% della produzione globale. Il principale di questi da solo ne produce fino al 60%. Simmons e’ convinto che la produttivita’ di questi giacimenti abbia ormai superato il picco e sia destinata a diventare piu’ difficile e costosa.

Aramco ribatte alle accuse con Simmons, che fa pero’ notare come la risposta in definitiva si riduca a un semplice “fidatevi”, proprio come aveva fatto Enron riferendosi alla solidita’ dei propri fondamentali. Il paragone e’ inquietante. Nessun dato, nessuna fonte indipendente, nessuna prova. “ La mancanza di dati fondati lascia il mondo del dubbio”, ha dichiarato Simmons.

Simmons fa appello a una nuova era della trasparenza basata su dati aggiornati e accurati, pozzo per pozzo, in modo che il mondo possa "vedere" e sapere veramente cosa c’e’ nel sottosuolo saudita. Il paese arabo deve abbandonare le vecchie pratiche di segretezza e fungere da guida per l’intero OPEC. Senza garanzie piu’ fondate, avverte Simmons, la mancanza di un valido Piano B, con questo tipo di scenario, potrebbe rivelarsi catastrofico per il progresso economico mondiale.

 

fonte Wall Street Italia.com

 

 

 

  Petrolio a $182 al barile!!!

14 Agosto 2004   18:25  New York (di Angelo Baracca)

 

«Il petrolio è troppo a buon mercato: la cifra che io uso è sui 182 dollari al barile». Quest'affermazione da brivido non è di un pazzo, ma di Mattew Simmons, banchiere nel settore energetico e consigliere del piano energetico Bush-Cheney, ed è stata riportata in un servizio shock della Bbc il 7 giugno scorso sul Congresso a Berlino dell'Aspo, l'Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio.

Il 14 maggio l'autorevole economista Paul Krugman scriveva sul New York Times: «Una recessione (dell'economia mondiale) spinta dal petrolio non sembra affatto remota». Che cosa sta succedendo? Non si tratta solo degli attentati, o della sottoutilizzazione dei giacimenti iracheni. La Bbc riporta che per evitare grossi problemi già alla fine di quest'anno l'Arabia Saudita dovrebbe aumentare la sua produzione del 30 %: ma la produzione saudita è quasi piatta.

L'Aspo e molti altri esperti valutano che la produzione mondiale di petrolio abbia quasi raggiunto un massimo assoluto, e già nel futuro prossimo (al massimo un paio di decenni) comincerà inesorabilmente a diminuire, e potrà ridursi a quasi la metà verso la metà del secolo. Per il gas naturale questo picco di produzione sarebbe solo ritardato di una ventina di anni. Questa analisi si basa su un metodo rigoroso introdotto dal geologo Hubbert che nel 1956 predisse che l'estrazione di petrolio negli Stati uniti avrebbe raggiunto un picco nel 1970 e poi sarebbe diminuita. Venne deriso, la sua teoria giudicata non credile. E in effetti si sbagliava, ma di molto poco: il picco arrivò nel 1971, e oggi l'estrazione negli Usa è drasticamente ridotta.

L'analisi di Hubbert si basa sul fatto che in qualsiasi campo petrolifero (come per ogni risorsa non rinnovabile) la produzione (milioni di barili/anno) all'inizio aumenta rapidamente perché si estrae il petrolio più superficiale e abbondante, poi raggiunge un massimo (quando il giacimento è ridotto a circa la metà) ed incomincia a diminuire perché rimane il petrolio che richiede l'impiego di più tecnologia ed energia. Infine si arresta (quando può rimanere ancora più del 20% del giacimento originale) perché l'ulteriore estrazione richiede più energia di quella contenuta nel petrolio.

Questo andamento dell'estrazione viene definito «curva a campana» ed è stata verificata per tutti i campi petroliferi: le produzioni del Mare del Nord e della Gran Bretagna, ad esempio, hanno raggiunto il picco nel 1999. Questa analisi, estesa a tutti i giacimenti mondiali - accertati, probabili e possibili - conduce appunto a prevedere un picco di estrazione (Hubbert Peak) verso la fine di questo decennio, ed è facilmente reperibile in molti siti Internet (ad esempio quello dell'Aspo Italia: www.aspoitalia.net).

Per inciso,la produzione dei paesi non-Opec ha già raggiunto il picco qualche anno fa. D'altra parte, le scoperte di nuovi giacimenti ha raggiunto un picco nei primi anni `60: l'80 % del petrolio che consumiamo è stato trovato prima del 1973, e oggi viene scoperto 1 barile di nuovo petrolio ogni 4 che consumiamo. Le conclusioni dell'Aspro si possono comprendere anche in base a dati globali. Le riserve del passato si valutano in 821 Gb (miliardi di barili) certi e probabili, più circa 150 Gb possibili. Si estraggono attualmente 23 Gb all'anno. I giacimenti ancora da scoprire si valutano in 163 Gb, che darebbero una produzione di 6 Gb all'anno: occorrerebbe dunque scoprire quattro volte di quanto si faccia oggi nuovi giacimenti per compensare la produzione attuale.

Senza tenere conto di un punto fondamentale, che la domanda è in continua crescita: nel 2002 la International Energy Agency prevedeva un aumento dei consumi del 50 % nei prossimi 20 anni. E l'ombra lunga della Cina - già ora secondo consumatore mondiale di greggio dopo gli Usa che nei primi 7 mesi del 2004 ha importato 70 milioni di tonnelate di greggio, con un incremento di quasi il 40% rispetto all'anno precedente- si proietta minacciosa anche sul petrolio.

Vi sono ingenti giacimenti di «petrolio non convenzionale» (in acque profonde e polari, sabbie e scisti bituminosi), ma molti esperti valutano molto costosa e problematica la sua estrazione, e non sembra modificare sostanzialmente le predizioni dell'Aspro. Oggi gli occhi sono puntati sui segni di ripresa dell'economia mondiale: ma potrebbe intervenire un fattore che mozzerebbe letteralmente la testa alle economie del petrolio.

Ma vi è una considerazione che sta ancora a monte. Le nostre economie sono eticamente ingiuste e immorali, ancor prima che insostenibili. Fa ridere sentire parlare di «sviluppo sostenibile» quando si dipende in modo determinante dallo sfruttamento spudorato di una risorsa che appartiene ad altri paesi, estorto in base a rapporti di forza: se anche se vi fosse petrolio per mille anni, questo deve essere rifiutato, e superato. Paradossalmente, forse un prezzo giusto sarebbe di mille dollari al barile. Lascia interdetti che quella che la sedicente «sinistra» abbia abbandonato qualsiasi criterio morale, e consideri egoisticamente «normale» questa situazione.

Naturalmente, se le cose stanno così (ma sono sempre più i riconoscimenti egli allarmi dell'establishment) è indilazionabile la ricerca di alternative e soluzioni. La transizione alle energie rinnovabili è un imperativo: ma sarà sufficiente? Forse è tardi.

il Manifesto

 

 

 

 

 

Crisi del petrolio: non solo Yucos e Bin Laden

ecco perchè il greggio andrà a 50$ al barile. Dobbiamo rassegnarci al fatto che le ondate speculative diventeranno ancora più pesanti, di fronte a un mercato che non ha flessibilità nella domanda e nell'offerta.

(WSI) - L’ovvia considerazione del ministro del Tesoro Usa John Snow («C’è qualcosa di molto di più della semplice dinamica tra domanda e offerta nelle attuali quotazioni del petrolio»), suggerisce che senza la speculazione sul timore di clamorosi attentati agli impianti produttivi, o quella generata dai regolamenti di conti che Putin sta operando in patria anche a costo di mettere a rischio l’intera produzione della Yukos, il mercato del greggio non sarebbe in fibrillazione.

Facile dargli ragione nel giorno in cui viene ritoccato di nuovo il record del petrolio a New York proprio sull’onda delle notizie del congelamento dei conti correnti del primo produttore russo da parte del ministero della giustizia. Ma ancor più preoccupante dei magistrati russi e dei guerriglieri arabi è proprio la dinamica tra domanda e offerta. La domanda globale di petrolio continua ad aumentare, ma non certo sulla spinta dei soliti clienti: le riserve americane due giorni fa si sono segnalate in crescita, persino del bel mezzo della «driving season»; l’Europa, purtroppo, cresce troppo poco per diventare un consumatore eccessivo.

Le vere novità dal lato della domanda sono dunque i paesi emergenti. La Cina fino al 1994 era un esportatore di greggio, ora importa circa il 30% del suo fabbisogno; la stessa Arabia Saudita nell’ultimo decennio ha visto crescere il consumo interno più velocemente della capacita' produttiva; in Russia, anche se siamo sotto i livelli di consumo del periodo sovietico, il numero di macchine circolanti cresce del 20% all’anno e i tassi di crescita del pil promettono impennate nei consumi; perfino l’Iran, secondo esportatore arabo, ha ufficialmente dichiarato che si aspetta di diventare un importatore di petrolio nel giro di un decennio (e punta sul nucleare). 

A questo nuovo mondo l’attuale industria petrolifera non è riuscita ad adeguarsi, concentrandosi più che altro a ridurre una capacità estrattiva che negli anni ’80 era eccessiva. Ma il blocco d’investimenti di allora costringe le raffinerie americane a lavorare al 97% delle loro capacità per soddisfare la richiesta di benzina (il problema della carenza delle strutture di trasformazione è simile a livello mondiale) e impone al presidente dell’Opec, Purnomo Yusgiantoro, di ammettere che dopo l’ulteriore innalzamento di 2 milioni di barili al giorno, anche il cartello dei produttori avrà finito le cartucce.

Se domani prendessero Bin Laden, oppure Putin e il patron di Yukos, Kodorkhovski, tornassero buoni amici, il prezzo del petrolio scenderebbe, ma l’emergenza non verrebbe meno. Tutto ciò suggerisce che dobbiamo rassegnarci a prezzi alti e che le ondate speculative - quale che sia il pretesto - diventeranno ancora più pesanti di fronte ad un mercato che non ha flessibilità nella domanda e nell’offerta. Con queste premesse quota 50 dollari al barile diventa una scommessa plausibile per molti trader.

Ma il vero problema non sono i picchi di questi giorni o dei prossimi mesi (che comunque zavorreranno l’intera economia mondiale): bisogna ovviare a questa carenza strutturale con investimenti per far diminuire la dipendenza dell’oro nero e affrettare la transizione verso forme di energia, magari più pulite. Saranno necessari anni e migliaia di miliardi, con un’incognita in più: nessun singolo paese, nemmeno gli Stati Uniti possono muoversi da soli. E’ pronto il mondo a fronteggiare la prima sfida veramente globale della sua storia?

La Repubblica

 

 

 

 

 

 

mercoledì  11  agosto 2004   sabato 14 agosto 2004   mercoledì 18 agosto 2004
..... .....
scarica in formato JPEG   scarica in formato JPEG   scarica in formato JPEG
         
GR1 RAI - 11 AGO  19:15     MP3 (61 KB)
 
GR1 RAI - 10 AGO 19:15     MP3 (65 KB)
 
GR1 RAI - 10 AGO  23:00     MP3 (61 KB)

         

 

 

 

  Qual'è il capro espiatorio del rallentamento ?

21 Agosto 2004  18:44 Lugano  (di Alfonso Tuor)  

 

L’impennata del prezzo del petrolio comincia a far paura e a gettare un’ombra sulle prospettive di crescita dell’economia mondiale. La marcia verso l’alto del prezzo del greggio sembra infatti inarrestabile: ieri il prezzo del barile ha sfiorato i 50 dollari, ossia circa 10 dollari di più dello scorso mese di giugno. È quindi legittimo interrogarsi se il suo prezzo continuerà a salire e quindi se l’oro nero si trasformerà in quella variabile che farà deragliare la ripresa.

Non vi è alcun dubbio che l’attuale prezzo è influenzato dalla guerra in Iraq e dai timori di instabilità politica soprattutto nella regione del Golfo Persico. Questo «premio di rischio politico», si stima, si aggira attorno ai 10 dollari il barile.

Il peso di questi fattori di incertezza è esaltato da un forte aumento della domanda di petrolio da parte degli Stati Uniti e soprattutto dalla Cina cui non ha corrisposto un aumento analogo dell’offerta, poiché negli ultimi anni le attività di ricerca e di sfruttamento di nuovi giacimenti sono state ridotte. Quindi, l’aumento del prezzo non è solo il frutto dell’incertezza geopolitica, ma è soprattutto il risultato di un forte aumento della domanda.

Come ha detto un analista americano «se alcuni pensano che l’impennata del greggio sia la manifestazione di una nuova bolla speculativa, dovranno aspettare la prossima recessione mondiale (ossia una diminuzione della domanda di greggio) per vederla scoppiare». Questo giudizio è confortato da quello dei mercati, che hanno visto un forte rialzo dei prezzi dei futures (ossia dei prezzi del petrolio che verrà consegnato in futuro).

Le tensioni geopolitiche, che non sembrano diminuire, e il gioco della domanda e dell’offerta sul mercato del greggio lasciano dunque supporre che questo aumento del prezzo del petrolio sia destinato ad essere duraturo e inducano a prevedere che l’impennata del greggio contribuirà a rendere più brusco il rallentamento dell’economia mondiale.

Secondo i modelli econometrici di OCSE, FMI e IEA un aumento duraturo di 10 dollari il barile riduce la crescita mondiale dello 0,5%. Si tratta di una percentuale significativa soprattutto per economie stagnanti, come quelle europee, ma non in grado di determinare una recessione per un’economia mondiale che quest’anno, secondo le previsioni, avrebbe dovuto crescere attorno al 4 per cento. Questi modelli econometrici presentano però il difetto di tenere in scarsa considerazione il fatto che un medesimo fenomeno può produrre effetti diversi in contesti diversi.

Infatti, come abbiamo sempre sostenuto su questo colonne e come sta emergendo dai dati degli ultimi mesi, la crescita dell’economia americana a partire dalla fine del primo trimestre di quest’anno sta rallentando in modo sensibile. Il motivo è semplice: l’esaurirsi degli effetti delle «droghe» monetarie e fiscali prodigate a piene mani dalla Federal Reserve e dall’amministrazione Bush.

La fine dell’era dei tassi prossimi allo zero e la fine dei ristorni fiscali, da un canto, e la diminuzione dei redditi reali e la scarsa prolificità di nuovi posti di lavoro che caratterizza questa ripresa dall’altro, hanno costretto le famiglie americane a ridurre la voglia di spendere. La riduzione dei consumi, calati dal 4% del primo trimestre all’1% del secondo, è stata sicuramente acuita dall’aumento del greggio, che ha ulteriormente ridotto le disponbilità finanziarie di molte famiglie.

Quindi il petrolio non è la causa prima di questo rallentamento della crescita statunitense, ma è destinato ad accentuarlo. E dato che l’economia americana rimane l’unica locomotiva dell’economia mondiale, è inevitabile che gli effetti, come sta già avvenendo, si manifestino anche nelle altre regioni del mondo.

In Europa, ad esempio (dove l’aumento del prezzo del greggio è stato in parte attutito dal rafforzamento dell’euro e del franco svizzero nei confronti del dollaro) è destinato a ridurre ulteriormente la già scarsa voglia di consumo delle famiglie e a rendere meno dinamiche le esportazioni verso gli Stati Uniti e l’Asia. Infatti i paesi asiatici, grandi consumatori di petrolio, subiranno gli effetti del rallentamento americano e dei tentativi di Pechino di raffreddare l’economia cinese per tenere a bada l’inflazione. Quindi, l’impennata del prezzo del petrolio staglia un’ulteriore ombra sulle prospettive dell’economia mondiale.

Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

America: terribile doccia fredda dall'occupazione

Un disastro che pesera' su Wall Street: non c'e' lavoro. A luglio l'economia americana ha creato appena 32.000 nuovi posti. Il dato e' nettamente inferiore alle stime (sempre sbagliate) degli economisti, che prevedevano 243.000 nuovi posti.

Nel mese di luglio il numero di nuovi occupati nel settore non agricolo Usa e' salito di appena 32.000 unita'.

Lo ha comunicato il Dipartimento del Lavoro.

Il dato sull'occupazione e' nettamente inferiore alle aspettative del mercato. Il consensus degli analisti era infatti per un incremento di 243.000 nuovi occupati. Da notare che nessuno degli analisti interpellati si aspettava un numero inferiore a 170.000.

Il tasso di disoccupazione e' sceso al 5.5% dal 5.6% del mese precedente. Si tratta del valore piu' basso dall'ottobre 2001. Le attese erano di un dato stabile.

E' stato inoltre rivisto al ribasso il dato del mese di giugno, passato a 78.000 dai 112.000 della prima lettura.

Gary Pollack, che gestisce $12 miliardi per Deutsche Bank a New York ha commentato per Bloomberg che "i numeri sono molto deboli, e' un dato allarmante per il mercato, che semplicemnete non sta creando nuovi posti di lavoro". Per quanto riguarda le prossime manovre della Fed, Pollack prevede che la banca centrale americana procedera' all'aumento di 25 punti base martedi' prossimo per poi restare in attesa di nuove conferme sullo stato della ripresa economica.

E' probabile che il dato abbia ripercussioni a livello politico ed esponga Bush a un'ondata di critiche da parte del candidato democratico Kerry. L'accusa che verra' rivolta all'attuale presidente americano e' di non aver fatto abbastanza per aiutare l'economia.

Ricordiamo che la scorsa settimana e' stato pubblicato il dato sulla crescita di secondo trimestre del Pil americano (+3%, il dato piu' basso registrato in oltre un anno). Le attese degli analisti al momento sono di una ripresa nel terzo e quarto trimestre e di una espansione del 4.5% su base annua.

06 Agosto 2004  14:30 New York (WSI) 

 

 

 

 

 

 

  Fine del Sogno americano

19 Agosto 2004  16:17   New York  (di Jeremy Rifkin)  

In una America partigiana, nella quale tutto è divenuto motivo di critica e controversia, un’unica cosa rimaneva sacrosanta: il Sogno Americano – l’idea che chiunque, indipendentemente dalla condizione alla nascita, possa fare ciò che vuole della propria vita, con la forza della disciplina, della determinazione, del duro lavoro. Il Sogno Americano unisce gli americani, al di là delle divisioni etniche e di classe e dà comune obiettivo e senso allo stile di vita americano.

Il problema è: un terzo degli americani, in base a un recente sondaggio nazionale, non crede più nel Sogno Americano. Alcuni hanno perso fiducia perché hanno lavorato duramente tutta la vita, solo per trovarsi infine disperati e senza più tempo davanti. Altri mettono in discussione il sogno stesso, sostenendo che sottolinearne il principio è diventato sempre meno rilevante in un mondo sempre più interdipendente e interconnesso. Per la prima volta, il Sogno Americano non serve più per unificare il popolo americano.

Un nuovo Sogno Europeo, nel frattempo, sta cominciando a catturare l’immaginazione mondiale. Questo sogno ora è stato codificato sotto forma di una costituzione europea, e gli europei stanno ora dibattendo sul se ratificarne i contenuti e accettarne i valori come centrali per la nuova Europa. La visione europea del futuro avrà grande risonanza – una sorta di inversione di tendenza rispetto a quanto occorso 200 anni fa, quando milioni di europei guardavano all’America in cerca di una visione diversa e nuova.

Venticinque nazioni, rappresentanti 455 milioni di persone, si sono unite insieme per generare "gli Stati Uniti" di Europa. Come gli Stati Uniti d'America, questa entità politica tanto vasta ha il proprio mito, che gli dà legittimità e forza. Anche se ancora adolescente, il Sogno Europeo è la prima visione delle cose transnazionale, molto più adeguata alla prossima fase del viaggio umano sul pianeta. Gli europei stanno cominciando ad adottare una nuova coscienza globale, che si estende al di là dei confini degli stati, e che li rende molto più adeguati in un mondo sempre più interconnesso.

Gli Americani sono soliti pensare al loro paese come al più riuscito sulla Terra. Non è più così: l’Unione Europea è cresciuta sino a diventare la terza più grande istituzione con un unico governo al mondo. Benché il suo territorio sia la metà di quello degli Usa, i suoi 10.500 miliardi di dollari di PIL eclissano quello statunitense, rendendola la più grande economia del mondo. La UE è già il maggior esportatore e il principale mercato commercale del pianeta. Sessantuno delle 140 maggiori aziende, in base a Global Fortune, sono europee; solo 50 sono statunitensi.

Più rivelatore, però, è il confronto tra le due qualità della vita. Nella UE, ad esempio, ci sono 322 medici ogni 100.000 abitanti, negli Usa 279. Gli Stati Uniti sono 26esimi tra i paesi industrializzati per quanto riguarda la mortalità infantile, ben al di sotto della UE. La vita media nei 15 paesi UE più sviluppati è ora di 78,2 anni, contro i 76,9 degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza – un’unità di misura fondamentale per stabilire l’abilità di un paese nel manovrare le promesse di benessere – gli Usa si trovano al 24esimo posto tra i paesi industrializzati. Tutti 18 i paesi europei più sviluppati hanno di gran lunga meno disuguaglianze tra ricchi e poveri. Ci sono ora molti più poveri che vivono negli Usa che nei 16 paesi europei per i quali il dato è disponibile.

L’America è anche un paese molto più pericoloso: il tasso di omicidi negli Usa è quattro volte maggiore che nella UE. Ancor più preoccupante, il tasso di omicidi di bambini, i suicidi, le morti correlate al possesso di armi da fuoco, negli Usa superano di gran lunga quelli degli altri 25 paesi più ricchi. Anche se gli Stati Uniti hanno solo il 4% della popolazione mondiale, hanno un quarto degli incarcerati del mondo.

Gli europei dicono spesso che gli americani “vivono per lavorare” mentre loro “lavorano per vivere”. Il tempo medio di vacanze pagate, ora, in Europa è di 6 settimane ogni anno. Per contro gli americani hanno solo due settimane. Per ciò che si ritiene che serva a rendere uno stile di vita migliore, l’Europa sta superando gli Usa.

Il contrasto più netto tra il Sogno Europeo e il Sogno Americano sta nella definizione di libertà personale. Per gli americani, la libertà è stata lungamente associata all’autonomia; più ricchezza uno raccoglie, più indipendente è. La libertà la si acquista con la fiducia in se stessi, diventando un’isola. Con la ricchezza si guadagna l’esclusivismo e con l’esclusivismo la sicurezza.

Per gli europei la libertà non è l’autonomia ma qualcosa da ricercarsi nella comunità. E’ appartenere, non possedere.

Il Sogno Americano enfatizza la crescita economica, la ricchezza personale e l’indipendenza. Il Sogno Europeo considera di più lo sviluppo sosteniblie, la qualità della vita e l’interdipendenza. Il Sogno Americano paga pegno alla sua discendenza dalla razza e dalla religione. Il Sogno Europeo, più attratto dal piacere, prende le mosse da un nucleo secolare. Il Sogno Americano dipende dall’assimilazione. Il Sogno Europeo, al contrario, si basa di più sulla conservazione delle identità culturali e da un mondo multiculturale.

Gli americani sono più disponibili a usare la forza militare per ciò che percepiamo come nostri interessi vitali. Gli europei sono più inclini alla diplomazia, all’assistenza economica per evitare i conflitti, alle operazioni di peacekeeping per mantenere l’ordine. Il Sogno Americano è profondamente individualista e non si cura del resto dell’umanità. Il Sogno Europeo è più integrato e, pertanto, più limitato nel suo essere dal benessere del pianeta.

Ciò non significa che l’Europa sia l’utopia. Gli europei sono diventati sempre più ostili nei confronti degli immigranti e di coloro che cercano asilo. L’antisemitismo è in aumento così come le discriminazioni contro gli islamici e contro le minoranze religiose. Mentre gli europei rimproverano gli Usa per avere una politica estera dalla pistola facile, hanno poi lasciato che le forze statunitensi salvaguardassero gli interessi e la sicurezza europee. E perfino i suoi sostenitori riconoscono che la macchina governativa di Bruxelles è un labirinto di tappe burocratiche, scollato dai cittadini che dovrebbe servire.

La questione, però, non è se gli europei stiano vivendo il loro sogno. Noi americani non abbiamo mai completamente vissuto il nostro. Ciò che importa è che una nuova generazione di europei sta creando una nuova visione, radicale, del futuro – migliore per adeguarsi ai cambiamenti dettate dall’interdipendenza crescente del mondo del 21esimo secolo.  

 

Tradotto da Nuovi Mondi Media
Fonte: http://www.commondreams.org/views04/0817-08.htm'.