Scenari
/ Un dollaro piccolo piccolo
05 Agosto 2009 09:24 -
MILANO - di Martin Feldstein
Professore di
economia all'università di Harvard, Feldstein è stato capo dei
consulenti economici del presidente degli Stati Uniti Ronald
Reagan.
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Il tasso di risparmio delle famiglie americane è
cresciuto nettamente dall'inizio dell'anno, toccando a
maggio la quota del 6,9% del reddito personale dopo le
tasse, il livello più alto dal 1992. In base alle dimensioni
attuali dell'economia, questa percentuale equivale a
risparmi annui per 750 miliardi di dollari (530 miliardi di
euro).
Un tasso di risparmio del 6,9% non è alto rispetto a quello
di molti altri paesi, ma resta un cambiamento impressionante
rispetto ai dati registrati nel 2005, 2006 e 2007, inferiori
all'1 per cento.
Prima di cominciare a crescere, lo scorso anno, il tasso di
risparmio delle famiglie americane era in calo da oltre
vent'anni, per effetto dell'incremento della ricchezza delle
famiglie. L'ascesa del mercato azionario e l'incremento del
valore delle abitazioni ha indotto i cittadini a consumare
una quota maggiore del loro reddito e risparmiare meno. Il
risultato è stato che la maggior parte degli americani
attivi ha ridotto la quota del proprio reddito da
accantonare per la pensione, mentre i pensionati hanno
potuto incrementare il loro livello di spesa. Il tasso di
risparmio netto è sceso quasi a zero.
Il brusco calo della ricchezza delle famiglie avvenuto negli
ultimi due anni, però, ha messo fine a tutto questo.
L'impressionante discesa dei prezzi delle azioni e un calo
del 35% dei prezzi delle case ha ridotto la ricchezza delle
famiglie a 14mila miliardi di dollari, una perdita pari al
140% del reddito disponibile annuo. I cittadini ora devono
risparmiare di più per essere pronti per la pensione, e i
pensionati hanno meno soldi da spendere. In prospettiva, il
tasso di risparmio potrebbe crescere ulteriormente, e in
ogni caso rimarrà elevato per molti anni.
L'incremento del risparmio delle famiglie fa sì che per
l'America sia meno necessario di prima poter disporre di
fondi esteri per finanziare gli investimenti e l'edilizia
residenziale. Di per sé, questi 750 miliardi di dollari
risparmiati in un anno dalle famiglie potrebbero sostituire
gli afflussi di capitale dal resto del mondo.
Considerando che il picco raggiunto da questi flussi di
denaro in ingresso è stato di 803 miliardi di dollari (nel
2006), la maggiore risparmiosità delle famiglie potrebbe
annullare quasi completamente la dipendenza dell'America dai
capitali esteri.
L'afflusso di capitali negli Stati Uniti è pari ogni anno al
deficit della bilancia dei pagamenti (la somma del deficit
commerciale più interessi netti e dividendi dovuti dal
Governo e dalle imprese Usa al resto del mondo). Il calo
degli afflussi di capitale pertanto comporterebbe una
riduzione del deficit commerciale.
Dal momento che per ridurre il deficit commerciale è
necessario incrementare le esportazioni e limitare le
importazioni, il dollaro dovrebbe perdere valore rispetto
alle altre valute per rendere i prodotti Usa più allettanti
per i compratori stranieri, e i beni e servizi Usa più
allettanti per i consumatori americani.
Senza un calo del dollaro, con conseguente aumento delle
esportazioni nette, un tasso di risparmio più alto e una
riduzione della spesa per i consumi potrebbero spingere
l'economia americana in una recessione profonda. Al
contrario, un dollaro debole renderebbe possibile coniugare
minor spesa per i consumi e piena occupazione, perché
sposterebbe la spesa da beni e servizi d'importazione a beni
e servizi di produzione nazionale, e perché a questa
crescita della domanda interna aggiungerebbe anche la
crescita delle esportazioni.
Ma questo collegamento diretto tra maggior risparmio delle
famiglie e minor valore del dollaro verrà a crearsi solo se
il maggior risparmio delle famiglie non sarà annullato da un
incremento del non-risparmio pubblico, cioè da un incremento
del deficit pubblico.
Un consistente disavanzo di bilancio aumenta la necessità di
fondi esteri per evitare di far precipitare gli investimenti
privati. Per dirla in altro modo, il valore del dollaro
riflette il risparmio complessivo nazionale, non solamente i
risparmi delle famiglie.
Sfortunatamente, il disavanzo di bilancio americano rimarrà
elevato per molti anni, secondo le previsioni. L'Ufficio
bilancio del Congresso stima che il deficit del Governo Usa
arriverà nel corso del prossimo decennio al 5,2% del Pil, e
fra dieci anni da oggi sarà del 5,5 per cento. Questo
indebitamento pubblico, se avverrà effettivamente, assorbirà
tutti i risparmi disponibili delle famiglie, anche ai
livelli attuali.
Ciò vorrà dire che gli Stati Uniti continueranno a
necessitare di forti afflussi di capitale estero per
finanziare gli investimenti e l'edilizia residenziale.
Perciò il dollaro dovrà restare ai livelli attuali per
continuare a tenere in piedi il forte deficit commerciale e
i conseguenti flussi di capitale in entrata.
È possibile, naturalmente - direi anche che è probabile -
che la Cina e altri prestatori stranieri non siano disposti
a continuare a garantire agli Stati Uniti gli attuali volumi
di prestito. La minor domanda di dollari da questi paesi
spingerà al ribasso la valuta americana e ridurrà il deficit
commerciale.
Questo minor deficit commerciale e la conseguente
diminuzione degli afflussi di capitale determinerà tassi
d'interesse più alti negli Stati Uniti. I tassi d'interesse
più alti faranno scendere gli investimenti e l'attività
edilizia, fino a che non arriveranno a un livello tale da
poter essere coperti dal ridotto volume di risparmio interno
sommato ai ridotti flussi di capitale in entrata.
L'incremento del risparmio delle famiglie limiterà la
crescita dei tassi d'interesse Usa, ma non cambierà il dato
di fatto che la combinazione tra i forti deficit di bilancio
del governo di Washington nei prossimi anni e la minore
disponibilità da parte dei prestatori esteri ad acquistare
titoli americani condurrà al tempo stesso all'indebolimento
del dollaro e all'innalzamento dei tassi d'interesse negli
Stati Uniti.
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Fonte estera -
Project Syndicate |
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Traduzione -
Fabio Galimberti |
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Fonte -
Il Sole 24 Ore
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I
due anni che hanno
cambiato i mercati
06 Agosto 2009 15:14
NEW YORK - di Massimo Gaggi
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La crisi che da due anni deva¬sta l’economia
mondiale deflagra il 9 agosto del 2007 quando a Francoforte
la Banca centrale euro¬pea inietta improvvisamente 100
miliardi di euro nei mercati per evitare una crisi di
liquidità e un improvviso prosciugamento del credito.
Gli isti¬tuti della Ue sono, infatti, sull’orlo di una crisi
di nervi: il collasso di due hedge fund americani
in-corporati nella banca Bear Stearns che sembrava essere
stato contenuto dalle autorità Usa, sparge, invece, le sue
onde d’urto dall’altro lato dell’Atlan¬tico. Scricchiolano
gloriose istituzioni finanziarie in Germania, Olanda,
Lussemburgo.
Ma l’8 ago¬sto — a scoprirlo è un’approfondita inchiesta del
Sole 24 Ore - è la francese Bnp Paribas la prima banca a
rischiare il crac per il buco di 2,2 miliardi di dollari che
emerge nei suoi fondi obbligaziona¬ri, fortemente esposti
sul mercato americano dei mutui subprime. Quella della Bce è
una ciambella di salvataggio che l’istituto, subito imitato
negli Usa dalla Federal Reserve, getta ai mercati crediti¬zi.
Ma l’effetto è quello di portare in superficie il panico che
già si era diffuso tra i capi di molte banche.
L’onda monta rapidamente costringendo le banche centrali a
una serie infinita di interven¬ti d’emergenza: gigantesche
immissioni di liquidi¬tà e ripetute riduzione dei tassi
d’interesse che ne¬gli Usa arrivano, alla fine, a quota
zero.
Nemmeno questo basta ad evitare il crollo del castello di
carte costruito da una finanza che ne¬gli ultimi anni si era
abituata a moltiplicare senza fine esposizione finanziaria e
rischi. E che, riem¬piendosi di titoli derivati basati su
obbligazioni immobiliari, aveva scommesso su un mercato
del¬la casa in perenne crescita. Passa qualche mese nel
quale la Borsa di Wall Street trova anche il mo¬do di
recuperare e segnare il record assoluto (14.164 punti
dell’indice Dow Jones il 9 ottobre 2007) ma poi il crollo
finale di Bear Sterns nel marzo 2008 e successivamente lo
tsunami finan¬ziario seguito, a settembre, al fallimento di
Leh¬man Brothers, gettano il mondo nel caos finanzia¬rio.
La crisi deflagra in Europa ma nasce in Ameri¬ca: è qui che
all’inizio di questo decennio — l’era del «denaro facile»
inaugurata dalla Fed per far crescere l’economia Usa — il
volume dei prestiti alle famiglie, dei mutui-casa e
dell’esposizione delle banche crescono tutti rapidamente e
simul-taneamente. I mutui subprime, quelli concessi a
famiglie non in grado di fornire adeguate garan¬zie
finanziarie e, spesso, con redditi da lavoro precari,
raddoppiano passando in pochi anni dal 10 al 21 per cento
del totale: a marzo 2007 i presti¬ti di questo tipo in
essere sono ben 7 milioni per un importo complessivo di 1300
miliardi, il 10 per cento del reddito nazionale Usa.
Ma intanto, con i tassi che hanno ricominciato a crescere e
i prezzi degli immobili che per la prima volta cala¬no, chi
ha scommesso sulla finanza derivata basa¬ta su «pacchetti»
di mutui soffre: nel febbraio 2007 il gruppo bancario
multinazionale Hsbc è costretto a cancellare dai suoi
bilanci 10,5 miliar¬di di dollari di titoli basati sui mutui
subprime. A giugno fallisce il gigante dei mutui American
Ho-me Mortgage: è il primo di una lunga serie.
Gli Stati Uniti stanno entrando in una tempesta che, dalla
metà del 2007 fino alla fine del 2008, spaz-zerà via oltre
un quarto del patrimonio degli ameri¬cani. Una distruzione
di ricchezza senza precedenti nella storia dell’umanità
trasformatasi ben presto in un fenomeno globale e che,
secondo le stime del Fondo monetario internazionale, ha
costretto i go¬verni di tutto il mondo ad attivare
interventi di sal-vataggio o per attutire gli effetti della
crisi per un volume complessivo di diecimila miliardi di
dollari.
A fine giugno 2009 le perdite accumulate dalle sole banche e
finanziarie occidentali venivano stimate dall’Fmi in oltre 4
trilioni di dollari: 2.700 miliardi negli Usa, 1.200 in
Europa, 150 in Giap¬pone. E in questi due anni, c’è chi ha
guadagnato e chi ha perso, an¬che tra i risparmiatori.
Ma all’inizio della crisi la Federal Reserve non si era
mostrata più allarmata di tanto, tardando a in-tervenire sul
costo del denaro. Il 3 agosto 2007 Jim Cramer — commentatore
di Borsa della Cnbc dallo stile «scamiciato» e sempre sopra
le righe, che è però un ex trader molto competente —
aggredisce Bernanke: «Sul mercato del reddito fisso sta
scop¬piando l’Apocalisse. Cosa aspetta la Fed a interveni¬re?».
Il capo della banca centrale Usa tace, ma po¬chi giorni dopo
è costretto a cominciare a correre. Due anni dopo non si è
ancora fermato.
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Fonte -
Corriere della Sera |
Cina,
USA e Germania
guidano la ripresa globale. O no?
06 Agosto 2009 19:22
MILANO - di Riccardo Sorrentino
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Dedicato agli ottimisti. È finita? Sì, sembra
proprio di sì. Fare previsioni è diventata un'attività
rischiosa, ma gli analisti ormai sono quasi certi: il mondo
sta uscendo dalla crisi. Il problema e': come si fa a
fidarsi degli analisti?
È finita? Sì, sembra proprio di sì. Fare previsioni è
diventata un'attività rischiosa, ma gli analisti ormai sono
quasi certi: il mondo sta uscendo dalla crisi. La ripresa è
lenta, zoppicante, e non coinvolgerà subito i lavoratori,
che continueranno a soffrire; ma le prospettive sono
positive.
Le aride statistiche stanno diventando ora più vivaci, anche
se non ancora brillanti, e iniziano a dare indicazioni
univoche. Se si dimenticano i numeri ancora brutti sul
prodotto interno lordo del secondo trimestre, che
appartengono al passato, tutto sembra puntare alla crescita,
un po' ovunque: dalle vendite di auto - i primi beni a cui
si rinuncia durante una recessione - alla fiducia degli
operatori economici, agli ordini, fino agli indici (i "Pmi",
che riflettono le percezioni dei manager acquisti, i più
vicini alla realtà economica) sull'attività attuale, tutto
fa pensare a una ripresa.
«L'economia globale - spiegano Sophia Drossos e Yilin Nie di
Morgan Stanley - sta guadagnando forza. Per dirne una, i
dati sui Pmi delle maggiori economie hanno proseguito il
loro miglioramento e il rimbalzo dell'attività dai minimi
del primo trimestre è stato forte e segnala un impulso ora
più deciso alla crescita mondiale».
In alcuni casi la ripresa appare persino consolidata.
Secondo Christian Broda di Barclays, in Cina e Giappone,
dove aumentano ormai anche le esportazioni, la crisi è
finita a febbraio; nel resto dell'Asia e in Brasile a marzo,
in Germania e in Francia ad aprile (anche se in settimana il
Pil di primavera potrebbe riservare qualche brutta
sorpresa). A giugno è poi toccato agli Usa, e a fine mese
sarà il turno della Gran Bretagna - dove l'attività
industriale era in espansione a luglio - e, forse,
dell'Italia. La Spagna, però, uscirà dalle nebbie ad aprile,
e l'Europa dell'est dovrà aspettare ancora.
Il punto più importante è che ormai c'è ripresa in tutte le
aree del pianeta. «Le recenti notizie indicano che si sta
verificando un rimbalzo sincronizzato della crescita
globale», spiegano Bruce Kasman e David Hensley di JPMorgan,
che puntano a una crescita della produzione mondiale dell'8%
(semestrale annualizzata), «il ritmo più veloce dalla fine
degli anni 80». A parte l'Asia sudorientale guidata dalla
Cina, che conferma la sua relativa autonomia economica, il
Brasile sta infatti trainando l'America Latina e la Germania
torna a spingere Eurolandia. Gli Stati Uniti continuano
infine ad acquistare più di quanto vendano e quindi a dare
impulso a tutto il mondo.
Questo non significa però che tutto tornerà come prima: il
potere economico continuerà a redistribuirsi nel mondo. Per
ora - nel bene e nel male - è il capitalismo di Stato cinese
e asiatico e quello oligarchico di India e America Latina ad
aver gestito meglio la crisi, anche se si sta appannando il
modello di sviluppo adottato da questi paesi, basato sulle
esportazioni: la chiave per l'uscita dalla recessione è
stata dappertutto il sostegno alla domanda interna.
Tutto finito, allora? No, non proprio tutto. L'occupazione
continuerà a soffrire. «L'economia sta ancora perdendo
posti» aggiunge Broda che ricorda: «Prima viene la crescita,
poi si fermano i licenziamenti e soltanto dopo ripartono le
assunzioni». È per questo che il presidente Usa Barack Obama,
da politico più attento alle persone che alle astratte
statistiche, dice semplicemente: «Vediamo la luce in fondo
al tunnel». Se un analista può accogliere con soddisfazione
la notizia che a luglio, negli Stati Uniti, "solo" 247mila
persone hanno perso il lavoro, dopo le 443mila di giugno,
non altrettanto possono fare tutti gli altri. Anche perché
l'emorragia continuerà: nella sola Italia, secondo la Cgia,
l'Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, sono a
rischio altri 200mila posti in autunno.
Analogamente, la ripresa appare "senza credito", o quasi:
«Le perdite su prestiti, negli Usa e in Europa, potrebbero
aumentare: la guarigione del sistema bancario sarà lenta e
dolorosa», aggiungono gli analisti della JPMorgan.
Si continua poi a discutere, quasi cabalisticamente, sulla
forma della ripresa. Ora gli analisti pensano che potrà
somigliare a una V, con un rimbalzo forte dopo la
contrazione, come è avvenuto in Asia. In tanti però
prevedono ancora che sarà una L, con una lenta
stabilizzazione dopo la recessione. Tutti temono però che
sia invece una W, con una ripresa seguita da una seconda
fase di difficoltà.
È uno scenario estremo, questo, ma la crisi ha insegnato a
non escludere nulla. Molte cose possono far arenare la
ripresa. Soprattutto una domanda interna troppo debole per
sostenere tutto. «I consumatori restano sotto pressione a
causa dei cattivi bilanci familiari», aggiunge Broda, che
pure resta ottimista.
Il nodo è allora lo stimolo della politica fiscale e
monetaria, oggi iperespansiva e stretta tra mercati in forte
rialzo - a cominciare dal petrolio, fonte di inflazione - ed
economie ancora traballanti. Sbagliare i tempi della
"strategia di uscita" è quindi facilissimo. Senza contare
che i grandi squilibri globali sono ancora tutti lì: il
surplus cinese, il deficit Usa, il cambio quasi fisso dello
yuan. La crisi non li ha toccati, e nessuno sa che ruolo
potranno avere ora.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
L'Europa fa i conti
con la deflazione
11-08-09 -
Marco Caprotti ______________________________________________
Dopo averne a lungo evocato il fantasma, la recessione ha
fatto la sua apparizione in Europa. E non si tratta di una
buona notizia (deriva dalla debolezza della domanda di beni
e servizi, cioè un freno nella spesa di consumatori e
aziende, i quali poi attendono ulteriori cali dei prezzi,
creando una spirale negativa. Le imprese, non riuscendo a
vendere a determinati prezzi parte dei beni e servizi,
cercano di collocarli a prezzi inferiori con impatti
negativi sui ricavi).
Il fenomeno era atteso. Tanto che l’indice Msci della
regione da tempo si sta muovendo con cautela. Nell’ultimo
mese (fino all’11 agosto e calcolato in euro) ha guadagnato
il 16% mentre da inizio anno ha segnato +15%. Ancora poco
per sperare di recuperare il -45,5% perso nel 2008. A dare
l’annuncio della nuova situazione macroeconomica è stato, il
mese scorso, Eurostat. Secondo l’ufficio di statistica di
Eurolandia i prezzi al consumo a giugno sono calati dello
0,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Colpa
del calo del costo dei generi alimentari e di quelli
energetici.
C’è poi un’altra ragione indiretta: le banche europee non
hanno ancora aperto i rubinetti del credito. O almeno questa
è l’impressione che hanno le famiglie del Vecchio
continente. Gli ultimi dati sulla fiducia dei consumatori in
Germania (calcolati dal think thank ZEW), ad esempio,
mostrano un calo per la prima volta da ottobre proprio a
causa della difficoltà ad avere prestiti dalle banche.
L’associazione degli esportatori tedeschi, intanto, lamenta
le stesse difficoltà.
La scivolata nella deflazione è una pessima notizia
soprattutto per le aziende di grande distribuzione che non
possono fare altro che abbassare i prezzi sperando di
aumentare le vendite. La strategia, però, non sta
funzionando per la catena di abiti low cost H&M che pur
abbassando i prezzi dei suoi capi vede ancora gli scaffali
pieni con ripercussioni negative sulla trimestrale. Una
scelta analoga – e con risultati simili - l’ha fatta la
francese Carrefour (supermercati).
L’entrata in una situazione di deflazione è facilitata anche
da un pessimo scenario macroeconomico. Il tasso di
disoccupazione in Eurolandia, secondo gli ultimi dati si
attesta al 9,5%. L’attenzione degli operatori, a questo
punto, torna a concentrarsi sulle mosse della Banca centrale
europea. Fino ad ora è stata calma anche se prudente. Nel
bollettino di luglio non ha nemmeno menzionato la parola
“deflazione”, mentre il suo presidente Jean Claude Trichet
ha detto di aspettarsi “un rallentamento dei prezzi nel
medio termine”.
Fonte
-
Morninigstar.it
TASSI USA: LA
FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%
12 Agosto 2009 20:16 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
La Banca Centrale lascia invariata al minimo storico la
forchetta sui fed funds decisa per evitare il collasso del
mercato finanziario. Tassi "eccezionalmente bassi per un
lungo periodo di tempo". "L'economia si sta stabilizzando".
Il comunicato.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse
in un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25% confermando che
i tassi americani resteranno "eccezionalmente bassi per un
lungo periodo di tempo" e che "l'economia si sta
stabilizzando".
La decisione del Fomc (Federal Open Market Committee, il
braccio operativo della Fed riunito gia' da ieri sotto la
presidenza di Ben Bernanke) segue risoluzioni identiche
prese dalla banca centrale degli Stati Uniti a gennaio,
marzo, aprile e giugno, tutte precedute dal drammatico
taglio di dicembre 2008, il nono della serie iniziata
nell’ottobre 2007, tagli che avevano portato i fed funds
all'attuale (e oggi mantenuto) minimo storico; lo scopo era
di evitare il collasso del mercato finanziario dopo la crisi
e stimolare la ripresa economica attenuando la peggior
recessione in America degli ultimi 70 anni.
Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha
accompagnato la decisione rispetto alla riunione di giugno;
confermato anche il programma di riacquisto di Treasury fino
a $300 miliardi entro la fine di ottobre.
Nel dettaglio la Fed scrive che "l'attivita' economica sta
trovando un punto di stabilizzazione. Le condizioni dei
mercati finanziari sono ulteriormente migliorate nelle
settimane recenti. La spesa delle famiglie ha continuato a
mostrare segni di stabilizzazione ma rimane imbrigliata da
continue perdite di posti di lavoro, crescita fiacca dei
redditi, minor valore delle case e dalla stretta sul
credito".
Il Fomc scrive che conferma "il target dei federal funds
compreso tra 0 e 1/4 per cento" e che "continua ad
anticipare che le condizioni economiche sono destinate a
garantire livelli eccezionalmente bassi dei federal funds
per un lungo periodo". "Come gia' annunciato in precedenza -
si legge nel comunicato - per dare supporto ai prestatori di
mutui e al mercato immobiliare e per migliorare in generale
le condizioni del mercato privato del credito, la Federal
Reserve acquistera' in totale entro la fine dell'anno fino a
$1.25 trilioni (1250 miliardi di dollari) di "mortgage-backed
securities" e fino a $200 miliardi di obbligazioni emesse da
agenzie governative. In aggiunta, la Federal Reserve e' in
fase di acquisto di $300 miliardi di Titoli del Tesoro".
"Le aziende stanno ancora tagliando sia gli investimenti
fissi sia il personale ma stanno facendo progressi nel
portare le scorte di magazzino a un miglior allineamento con
le vendite", scrive la Fed. "Sebbene l'attivita' economica
stia destinata a rimanere debole - continua il comunicato -
il Fomc continua ad anticipare che le azioni di politica
volte a stabilizzare i mercati finanziari e le istituzioni,
gli stimoli fiscali e monetari e le forze del mercato,
continueranno a contribuire a una graduale ripresa di una
crescita economica sostenibile in un contesto di stabilita'
dei prezzi".
Prima della riunione del Fomc di oggi, dando per scontata la
permanenza del tasso di riferimento in prossimità dello 0%,
l’attenzione è focalizzata su due punti, secondo un' analisi
pubblicata su Wall Street Italia da MPS Capital Services: 1)
ammissione eventuale della Fed di segnali di miglioramento
dell’economia, pur in presenza ancora di elevati rischi; 2)
estensione temporale o meno di due importanti programmi
rappresentati dal piano di riacquisto di Treasury da $300
miliardi (in scadenza a settembre) e dal TALF (in scadenza a
fine anno).
Sul primo programma l’aspettativa fino a qualche giorno fa
era di una fine del programma stesso, vista l’assenza di
effetti sui tassi che nel frattempo sono sensibilmente
risaliti ed alla luce dei rischi inflattivi causati dalla
conseguente creazione di moneta. La recente decisione in
senso opposto da parte della BoE potrebbe però portare la
Fed a differire la decisione al prossimo Fomc del 23
settembre.
Ed ecco il comunicato integrale della Federal Reserve:
Information received since the Federal Open Market Committee
met in June suggests that economic activity is leveling out.
Conditions in financial markets have improved further in
recent weeks. Household spending has continued to show signs
of stabilizing but remains constrained by ongoing job
losses, sluggish income growth, lower housing wealth, and
tight credit. Businesses are still cutting back on fixed
investment and staffing but are making progress in bringing
inventory stocks into better alignment with sales. Although
economic activity is likely to remain weak for a time, the
Committee continues to anticipate that policy actions to
stabilize financial markets and institutions, fiscal and
monetary stimulus, and market forces will contribute to a
gradual resumption of sustainable economic growth in a
context of price stability.
The prices of energy and other commodities have risen of
late. However, substantial resource slack is likely to
dampen cost pressures, and the Committee expects that
inflation will remain subdued for some time.
In these circumstances, the Federal Reserve will employ all
available tools to promote economic recovery and to preserve
price stability. The Committee will maintain the target
range for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and
continues to anticipate that economic conditions are likely
to warrant exceptionally low levels of the federal funds
rate for an extended period. As previously announced, to
provide support to mortgage lending and housing markets and
to improve overall conditions in private credit markets, the
Federal Reserve will purchase a total of up to $1.25
trillion of agency mortgage-backed securities and up to $200
billion of agency debt by the end of the year. In addition,
the Federal Reserve is in the process of buying $300 billion
of Treasury securities. To promote a smooth transition in
markets as these purchases of Treasury securities are
completed, the Committee has decided to gradually slow the
pace of these transactions and anticipates that the full
amount will be purchased by the end of October. The
Committee will continue to evaluate the timing and overall
amounts of its purchases of securities in light of the
evolving economic outlook and conditions in financial
markets. The Federal Reserve is monitoring the size and
composition of its balance sheet and will make adjustments
to its credit and liquidity programs as warranted.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S.
Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman;
Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey
M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M.
Warsh; and Janet L. Yellen.
Fonte
- WSI
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07
Agosto
2009 |
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Domenica
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2009 |
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Venerdì
14
Agosto
2009 |
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Obama
vs. Bush jr.: continuità o
rottura?
August 13th, 2009 -
Andrea Gilli
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Dopo sei mesi di presidenza Obama, e numerose
inaspettate sfide sul panorama internazionale, due
interpretazioni sembrano dominare relativamente alla
politica estera perseguita dal nuovo inquilino della Casa
Bianca. Una vede la politica estera obamiana come una totale
inversione di rotta rispetto al precedente corso americano.
L’altra, invece, vede le politiche di Obama come una
naturale prosecuzione della rotta tracciata da George W.
Bush. La nostra posizione è una sintesi: siamo esattamente a
metà. Poiché i fatti sembrano confermare quanto avevamo
previsto a novembre (relativamente alla prima
interpretazione), ci soffermiamo in questo articolo sulla
seconda visione, quella appunto per cui Obama starebbe
fondamentalmente proseguendo sulla via della precedente
amministrazione.
La politica è un’arena complessa, variegata e difficile sia
da prevedere che da spiegare e soprattutto da comprendere.
Come abbiamo ricordato più volte, emozioni, tradizioni,
storia, idee e interessi influenzano e si fanno influenzare
dalla politica. Quando si entra dunque nel meandro dell’arte
della sua interpretazione (la scienza politica) bisogna
dunque prestare particolare attenzione a non farsi ingannare
dalle apparenze o dalle proprie convinzioni.
Per capire se Obama abbia o meno proseguito le politiche di
George W. Bush è dunque necessario innanzitutto identificare
il nostro metro di giudizio. Solo definendo un criterio
chiaro – esponibile ad eventuale critica terza – è infatti
possibile stabilire un’interpretazione che abbia una sua
coerenza interna e una sua validità generalizzabile.
L’unico modo per effettuare questa verifica è individuare
una serie macro-punti cardine delle politiche estere sia di
Bush che di Obama e vedere se vi sono divergenze o
convergenze. I punti cardini, ovviamente, devono riguardare
questioni di principale importanza. Altrimenti, il risultato
del test verrebbe a dipendere dalla scelta dei casi da noi
selezionati (tipico caso di selection-bias, come ci
ricordano i metodologisti). Per fare un esempio: se
selezioniamo la politica americana verso Cuba, non avremmo
differenze tra le due amministrazioni. E ciò dovrebbe
portarci a pensare ad una continuità tra i due Presidenti.
Dall’altra parte, selezionando questioni minori nelle quali
però vi è stato un netto cambio di rotta, per esempio il
linguaggio del nuovo ambasciatore americano presso l’ONU
rispetto ai suoi omologhi precedenti, avremmo la sensazione
di una drammatica inversione di rotta. Selezionando tre casi
abbiamo modo di osservare se divergenze o convergenze si
registrano in più situazioni e soprattutto in quale grado.
Gli Stati Uniti, a partire dalla fine della Guerra Fredda,
hanno dato particolare attenzione a tre questioni: Russia,
Cina e Medio Oriente. Questa attenzione non sembra essere
mutata sotto Bush jr. e neppure sotto Obama. Concentriamo su
queste tre aree la nostra analisi.
Russia. Le relazioni verso la Russia sono state
particolarmente aggressive sotto Clinton. L’obiettivo
principale sembra essere stato il ridimensionamento della
sfera di influenza russa. Guerra in Kossovo, espansione
della NATO e poi dell’EU, dissidi sulle pipelines hanno
infatti reso molto accesi i rapporti con Mosca. Sotto Bush,
il tentativo di indebolire la Russia è stato ulteriormente
rafforzato. Il progetto di scudo missilistico ha ricevuto
nuovo impeto, Georgia e Ucraina sono stato aiutate nel loro
tentativo di liberarsi dall’influenza di Mosca, al Kossovo è
stato concessa l’indipendenza e la guerra delle pipelines si
è ulteriormente esacerbata.
Avendo Obama come consiglieri di politica estera Zbigniew
Brzezinski e Michael McFacul, ci si aspetterebbe un politica
altrettanto muscolare verso la Russia. Soprattutto se si
sposa l’interpretazione della continuità tra Bush e Obama.
La realtà sembra andare esattamente dall’altra parte. Obama
ha messo in stand-by il progetto di scudo, è stato molto
cauto sulla Georgia e soprattutto ha messo tra le sue
priorità un immediato miglioramento delle relazioni con
Mosca – coronato poche settimane fa con un vertice
bilaterale.
Cina. I rapporti tra Washington e Beijing sono
particolarmente complessi. Profonde dispute geopolitiche si
incrociano a comuni interessi economici che, negli anni, da
commerciali hanno assunto carattere anche finanziario e
monetario. Comprendere le relazioni tra i due Paesi non è
assolutamente facile. Durante gli anni di Clinton, la
politica americana ha cercato l’integrazione della Cina nel
sistema internazionale sperando che la globalizzazione
potesse favorire la trasformazione democratica cinese.
L’apice di questa politica si è toccato con l’ingresso del
Paese nel WTO accordato nel dicembre 2000. Sotto Bush, le
relazioni con Pechino sono rimaste tese ma cooperative. Si
era partiti con l’idea che la Cina fosse il nemico del nuovo
secolo, ma l’amministrazione Bush ha dovuto accettare la
crescente importanza della Cina nel sistema internazionale.
Bush ha chiesto maggiore democrazia ai vertici del Partito
Comunista, ma la sua politica estera è stata molto meno
esigente: la necessità di finanziare il deficit delle
partite correnti americane e di provvedere beni a basso
costo per calmierare l’inflazione interna hanno infatti
suggerito una certa cautela.
Obama sembra essersi collocato a metà tra Clinton e Bush. La
dipendenza americana (economica e finanziaria) dalla Cina è
cresciuta, ma le preoccupazioni sugli sviluppi militari
cinesi sembrano non essere tra le priorità della Casa
Bianca. Pressioni su diritti umani e democrazia sono
scomparse, ma in realtà non hanno mai trovato eccessivo
spazio neppure sotto Bush. Continua, invece, l’embargo sulle
armi senza che nessuno si sorprenda.
Medio Oriente. Il discorso sul Medio Oriente è complicato in
quanto l’area ingloba numerosi paesi, questioni e minacce
che difficilmente possono essere raggruppate sotto una sola
rubrica. Vediamo come le diverse amministrazioni hanno
affrontato le varie questioni.
1. Promozione della democrazia. Clinton sperava che la
globalizzazione favorisse la trasformazione politica del
Medio Oriente. Il risultato, invece, è stato un
indebolimento dei Governi e un rafforzamento dell’Islamismo
– soprattutto per le dinamiche identitarie scatenate dai
processi globali. Bush ha proposto la Freedom Agenda,
parlare ai popoli e non ai regimi, ribaltare questi ultimi
per stabilire la democrazia e chiedere ad alta voce
democrazia ed elezioni. Obama ha buttato via la Freedom
Agenda, ha cancellato i sogni democratici dell’Afghanistan,
e si è detto disponibile a trattare con chiunque, eletto
democraticamente o meno, e ha ricordato la sua stima per
l’Islam.
2. Iraq. Bush aveva definito le date per il ritiro. Obama
sta più o meno cercando di rispettarle. La sua promessa
elettorale era di uscire il prima possibile dal teatro
iracheno. La realtà è che un ritiro troppo veloce rischia di
mettere in pericolo sia le truppe americane, che i pochi
successi ottenuti sul campo che la stabilità geopolitica
della regione. Non si tratta di non rispettare le promesse o
di voler rimanere in Iraq, il punto è che ogni mossa deve
essere messa in pratica nel momento giusto – almeno se si
hanno a cuore gli interessi americani.
3. Iran. Bush ha sempre dichiarato che la minaccia non si
trova nella bomba iraniana, ma nel regime. Di qui la
necessità di ribaltarlo. Obama ha invece affermato di voler
dialogare con l’Iran per trovare un accordo sulla stabilità
e sullo sviluppo dell’Afghanistan, dell’Iraq e poi di tutto
il Medio Oriente. I recenti fatti iraniani possono portare
ad un cambio di rotta: vedremo se, in quale direzione e di
che portata esso sarà.
4. Lotta al terrorismo. Per Bush il terrorismo nasce dalla
dittatura. Obama non ha fatto affermazioni di sorta a
proposito. Si è però detto disponibile a trattare con i
talebani per dare un futuro all’Afghanistan. Dall’altra
parte, Obama, come Bush, non ha mai accettato compromessi
sulla sicurezza nazionale americana: vuole chiudere
Guantanamo, ma solo se ciò non comporta liberare dei
terroristi pronti a riprendere le armi contro l’America.
Vuole sostenere il Pakistan, ma anche colpire chi dal suo
suolo opera per minare i successi in Afghanistan.
Orientamento strategico. Bush ha lanciato la guerra in
Afghanistan, prima, e quella in Iraq, dopo. Convintosi del
successo della prima, ha dedicato i suoi sforzi sulla
seconda – le cui alterne vicende hanno richiesto sforzi
incrementali. Quando Obama ha preso le redini del comando,
la situazione strategica regionale era nettamente cambiata.
L’Iraq registrava numerosi segni di miglioramento, mentre
l’Afghanistan era sempre più prossimo al baratro.
Parallelamente, l’instabilità pakistana ha iniziato a
minacciare non solo le operazioni intorno a Kabul ma anche
la sicurezza nucleare della regione. Di qui la volontà da
parte del team di Obama di focalizzare le risorse su
Afghanistan e Pakistan.
Risultati
Esaminando la politica estera americana verso Russia, Cina e
Medio Oriente, emerge una realtà molto più smussata di
quella che molti cercano di far apparire. Se verso la
Russia, il cambio di rotta tra Bush e Obama è stato totale,
verso la Cina è quasi impercettibile, mentre verso il Medio
Oriente si registrano sia cambiamenti che continuità.
Inoltre, spesso, la transizione della politica americana,
più che essere dettata dalla volontà dell’esecutivo, sembra
essere stata guidata dai fattori ambientali. Il ritiro
dall’Iraq di Obama, per esempio, sembra più dovuto ai
miglioramenti in loco che non dalla fermezza del
neo-presidente. Lo stesso, al contrario, vale per
l’Afghanistan, dove la concentrazione degli sforzi americani
deriva principalmente dal peggioramento della sicurezza del
Paese.
Non esprimiamo un giudizio sulla bontà, o meno, dei
cambiamenti o delle continuità avvenute. Ci pare però
evidente che parlare di netta continuità o bruschi
cambiamenti sia quanto mai inappropriato. Allo stesso modo,
basare le proprie valutazioni su piccoli dettagli, come ci è
spesso capitato di leggere, segnala una certa ignoranza
sulla politica estera. Il fatto che un esercito continui ad
usare le stesse armi non significa che continui ad adottare
la stessa dottrina e tanto meno che uno Stato continui la
sua politica estera precedente. Lo stesso vale quando si
valuta la transizione dalla politica estera americana tra
Bush jr. a Obama. Il fatto che Guantanamo non sia ancora
chiuso o che i droni continuino ad attaccare il Pakistan non
solo dice poco sulla politica estera americana: non dice
quasi nulla.
 |
Fonte -
Epistemes.org |
Dagli
all'economista
17 Agosto 2009 00:41 MILANO -
di Giuseppe Turani
________________________________________
Gli economisti sbagliano (come gli avvocati, i
medici, gli architetti, e i giornalisti). Per mesi ci hanno
detto che al di là della Grande Crisi avremmo trovato la
strada bloccata da due mostri: l’iper-inflazione e la
deflazione. Non era chiaro quale dei due sarebbe arrivato
prima, ma certamente uno si sarebbe fatto vivo.
L’iper-inflazione (determinata da tutti i soldi messi in
giro per bloccare la Grande Crisi) ci avrebbe resi tutti più
poveri nel giro di qualche mese. La deflazione (con il
ribasso continuo dei prezzi) avrebbe trasformato la Grande
Crisi in una Grande Depressione, e allora sarebbero stati
guai seri.
Ebbene, ormai siamo arrivati sul confine della Grande Crisi,
ma dei due mostri non c’è nemmeno l’ombra. Spariti,
inghiottiti dalle nebbie. I prezzi si muovono più o meno
dolcemente (quelli della benzina fin troppo alla svelta …),
e c’è chi sostiene che la loro crescita moderata ci
accompagnerà per un anno o due, fino alla piena ripresa
dell’economia.
Intanto, in America (che è il cuore della crisi) le cose
vanno meglio (meno disoccupazione totale e meno disoccupati
mensili). Al punto che Goldman Sachs lancia una specie di
scommessa. Sostiene che nella seconda parte del 2009
l’economia americana crescerà al ritmo del 3 per cento: una
ripresa discretamente robusta. Ma, attenzione, gli
economisti della banca d’affari avvertono anche che quel 3
per cento è frutto di uno stimolo fiscale pari al 3 per
cento e a un processo di ricostituzione delle scorte del 2
per cento. Senza questi due movimenti, cioè, l’economia
americana sarebbe ancora negativa per il 2 per cento. Altro
che ripresa.
Gli ottimisti, però, fanno notare che la ricostituzione
delle scorte è fisiologica e naturale: proprio la
liquidazione delle scorte ha avuto tanta parte nel
determinare la crisi (non si produceva più perché si vendeva
quello che c’era in magazzino). Adesso è arrivata l’ora di
tornare a mettere qualcosa nei magazzini. Certo, il fenomeno
non potrà andare avanti all’infinito. Ma intanto c’è. Più
complicata la situazione degli stimoli fiscali. Secondo
alcuni cesseranno a fine anno, secondo altri a metà del
2010. Ma intanto ci sono, e l’economia americana si trova in
ripresa (con un anno di anticipo rispetto alla previsioni
dei gufi del Fondo monetario internazionale).
Ma anche gli stimoli fiscali (come la ricostituzione delle
scorte) non potranno durare all’infinito. E’ probabile che,
in misura più o meno sostenuta, vadano avanti fino a quando
l’economia americana non sarà in grado di correre con le
proprie gambe. In sostanza, gli Stati Uniti hanno
acchiappato la ripresa con dodici mesi di anticipo (e in
maniera quasi insperata): difficile che se la facciano
svanire fra le mani.
In realtà, hanno comunque un problema: troppi disoccupati.
Se la congiuntura non si mette a correre e se non comincia
il riassorbimento di quelli che sono rimasti senza lavoro (e
senza stipendio) sarà difficile avere una ripresa vera. In
un’economia che per il 75-80 per cento dipende dai consumi
interni, il 9,5 per cento di disoccupati è troppo. Questo è
il vero problema.
Se dall’altra parte dell’Atlantico le cose vanno meglio (al
punto che si parla di un rally di Borsa ormai senza fine),
da questa parte, in Europa, tutto è ancora incerto. Per due
motivi. Intanto c’è da superare lo scoglio dell’autunno
(quando la disoccupazione morderà sul serio). E poi c’è il
pericolo che a una breve fase di ripresa segua una lunga
fase di crisi a causa proprio dei troppi disoccupati
prodotti in questi ultimi mesi senza che dai governi venisse
una politica di contrasto adeguata. In un certo senso,
l’Europa rischia di ritrovarsi rapidamente in una "seconda"
crisi a causa dell’inerzia e della pigrizia con la quale ha
affrontato la "prima". L’America ci ha portati nei guai, ma
ci ha anche fatto vedere come se ne può uscire. Solo che
l’Europa non impara mai niente.
 |
Fonte -
La Repubblica |
Rapida, lenta o
altalenante, ecco i tre scenari per la ripresa
18 Agosto 2009 16:25 MILANO -
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Economisti divisi sulla ripresa
economica americana. Alcuni si attendono un forte rimbalzo,
altri una crescita lenta, e altri ancora ripresa momentanea
e poi un nuovo calo. Per cercare di stimare quale forma
assumerà la ripresa - afferma il Wall Street Journal - gli
economisti cercano paralleli con le precedenti recessioni.
Ma a distinguere la crisi attuale da quelle passate è la
forte contrazione del credito che, secondo gli economisti,
si protrarrà probabilmente per anni.
«Alcuni settori dell'economia si riprenderanno prima di
altri. I comparti manifatturiero e immobiliare hanno subito
una forte contrazione e probabilmente inizieranno a
riprendersi prima. Ma il settore finanziario è ancora in
contrazione con le banche impegnate a ripulire i propri
bilanci. Trovandosi di fronte a diversi scenari di crescita,
gli americani mostrano o un forte ottimismo o un'ansiosa
cautela».
Ecco di seguito - secondo il Wall Street Journal - i tre
possibili scenari dipinti dagli economisti.
Un rimbalzo rapido come dopo la crisi petrolifera del '73
La strada più comune per l'economia dopo una severa
contrazione è una forte ripresa dell'attività economica.
«Non è possibile rintracciare una singola forte recessione
seguita da una ripresa modesta», afferma Dean Maki, capo
economista per gli Usa di Carclays Capital. Gli economisti
che credono in una forte ripresa prevedono che l'economia
americana crescerà fra il 3% e il 5% fino alla fine
dell'anno. Ripresa lunga e graduale come nei
primi anni '90
L'economia potrebbe tornare a espandersi, ma ci sono molte
barriere che impediscono una forte ripresa. Le difficoltà dei
consumi e nel credito possono contribuire a rallentare le
ripresa economica. «Uno dei motivi per non aspettarsi una
crescita forte arriva dai consumi. Questo non significa che le
spese dei consumatori non cresceranno, ma che di sicuro non
saranno il motore che tutti abbiamo conosciuto finora» osserva
Nigel Gault, capo economista per gli Usa di Global Insight. Chi,
fra gli osservatori, sostiene una crescita lenta prevede una
crescita fra l'1% e il 2% il prossimo anno, cioè molto al di
sotto del 4-5% necessario per contribuire al rilancio del
mercato del lavoro.
Una breve ripresa e poi un nuovo calo come nei primi anni '80
L'economia registrerà una naturale inversione di tendenza nei
prossimi mesi grazie alla ripresa della produzione. Il piano di
stimolo fiscale contribuirà ad aiutare gli americani fra la fine
del 2009 e l'inizio del 2010. Ma non appena gli effetti del
maxi-piano dell'amministrazione Obama si esauriranno l'economia
rischia di restare senza una forza trainante, visto che i
consumi non saranno più il motore della crescita. E questo
potrebbe tradursi in una nuova flessione dell'economia. «Mi
auguro che ciò non accada ma è una possibilità precisa Ron
Heaton di State Bank».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Il consumo
risparmiato
18-08-09 -
Sara Silano ______________________________________________
Un anno e mezzo fa, la signora
Rossi e Mrs Smith andavano volentieri a spasso per le vie di
Milano o di New York a fare shopping. Oggi, la prima è in
cassa integrazione e la seconda è stata licenziata. Entrambe
se hanno qualche soldo lo lasciano sul conto di deposito o
su un titolo obbligazionario. Le statistiche parlano chiaro:
secondo la Confcommercio, in Italia i consumi scenderanno
dell’1,9% nel 2009. Oltreoceano, il calo è stato dell’1,2%
nel periodo aprile-giugno, contro stime pari a -0,5% (dati
del dipartimento del Commercio Usa). L’indice di fiducia dei
consumatori americani elaborato dall’Università del Michigan
è precipitato ad agosto a 63,2 punti dai 66 del mese
precedente. Per contro, la disoccupazione è in continua
ascesa tanto in Italia quanto negli Stati Uniti.
Eppure si infittiscono le voci sulla fine della recessione e
i mercati azionari, seppur nell’incertezza del quadro
macro-economico, hanno continuato a salire anche nei mesi
estivi (+6,32% l’Msci World dal 19 giugno al 19 agosto),
grazie ai buoni risultati aziendali. “Sono i consumatori ad
essere troppo pessimisti o gli investitori troppo
ottimisti?”, si domanda Ad Van Tiggelen, senior strategist
di Ing Investment management nella sua nota di agosto. In
realtà i comportamenti degli uni sono mossi da fattori
diversi da quelli che governano gli atteggiamenti degli
altri.
I consumi dipendono principalmente dalla disponibilità di
lavoro e dallo stato del mercato immobiliare, mentre gli
investimenti tendono a ripartire non appena ci sono segnali
che l’economia smette di peggiorare e aumenta la propensione
al rischio. Come spiega Van Tiggelen, le famiglie sono
pressate dalla disoccupazione, dalla mancata crescita degli
stipendi reali e dal crollo dei prezzi delle case (negli
Stati Uniti è il peggiore degli ultimi 80 anni). Soprattutto
in America, dopo anni di consumi finanziati con il debito,
la gente è tornata a risparmiare.
Tra gli economisti è sempre più forte la convinzione che il
mondo post-crisi sarà molto diverso da quello che è
sprofondato nella recessione. Todd Edwards, analista di
Cambiar Investor, in un lungo articolo pubblicato sul sito
Morningstar.com, sostiene che sta avvenendo un
ribilanciamento della crescita globale, per cui con il tempo
gli Stati Uniti consumeranno di meno (e risparmieranno di
più), mentre la Cina e gli altri Paesi emergenti faranno
l’opposto. Così la ripresa in America (e in tutte le nazioni
sviluppate) sarà caratterizzata da una bassa domanda e da un
forzato risanamento dei bilanci familiari. Dopo essere sceso
in territorio negativo nel 2006, il tasso di risparmio è
risalito negli Usa, sfiorando recentemente il 7%. Per
contro, sono scese le richieste di finanziamento da parte
dei privati.
Per Edwards, il cambiamento strutturale nelle dinamiche
mondiali, con la Cina meno formica e gli States non più
cicale, può disegnare un nuovo scenario espansivo a livello
globale ed è un tema di investimento nel lungo termine. Per
dirla con le parole dell’economista Michael Darda di Mkm
Partners, il fatto che la signora Smith non compri il
televisore a schermo piatto di ultima generazione,
preferendo risparmiare e, magari, investire in titoli
obbligazionari non significa che non ci sarà crescita, ma
che questa avrà dinamiche diverse. Non tutti, però, sono
d’accordo con questa ipotesi, perché la ripresa senza la
spesa per consumi in occidente potrebbe essere zoppa.
Fonte
- Morningstar
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La
ripresa c'è ma sarà dura uscire dalla crisi
18 Agosto 2009 17:20
MILANO - di Olivier Blanchard
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Nelle
recessioni normali, per quanto dirompenti possano essere le
ripercussioni sulle imprese e sull'occupazione, le cose si
svolgono in modo prevedibile. Ma la recessione che stiamo
vivendo è tutt'altro che normale.
Di solito, per
combattere una recessione, la Banca centrale abbassa i tassi
d'interesse, facendo crescere la domanda e la produzione.
La gente ricomincia a comprare beni durevoli come
elettrodomestici e automobili. Le aziende avviano progetti
d'investimento che erano stati rimandati.
Spesso una
svalutazione della moneta nazionale ridà slancio alle
esportazioni rendendole più convenienti. La crescita
inferiore alla norma durante la recessione cede il passo per
un certo periodo a una crescita superiore alla norma, fino a
quando l'economia riprende il suo ritmo di crescita
consueto.
Ma il mondo non sta attraversando una recessione ordinaria e
non sarà semplice invertire la tendenza. La crisi ha
lasciato cicatrici profonde, che produrranno effetti per
molti anni a venire, sia sull'offerta che sulla domanda.
Problemi dal lato dell'offerta
Alcuni elementi del
sistema economico sono andati in pezzi. Sono fallite aziende
che in una normale recessione non sarebbero fallite. Nei
Paesi avanzati, i sistemi finanziari sono diventati
parzialmente disfunzionali e ci vorrà molto tempo perché
ritrovino forma. Nel frattempo, l'intermediazione
finanziaria - e implicitamente il processo di riallocazione
delle risorse, fondamentale per la crescita - rimarrà a
mezzo servizio. Nei Paesi emergenti, i flussi di capitale in
ingresso, diminuiti drasticamente durante la crisi, forse
non torneranno subito ai livelli precedenti. Le
trasformazioni nella composizione della domanda mondiale,
man mano che i consumi si sposteranno dalle economie
avanzate a quelle emergenti, potrebbero comportare
cambiamenti nella struttura della produzione.
In quasi tutti i
Paesi, i costi della crisi hanno aggravato il carico fiscale
e un incremento della tassazione è inevitabile.
Tutto questo significa che forse non torneremo alla crescita
di un tempo, che la produzione potenziale potrebbe essere
più bassa rispetto a prima della crisi.
Quanto è diminuita
la produzione potenziale? È molto difficile dirlo: noi non
vediamo la produzione potenziale, solo la produzione
effettiva. I dati storici sono preoccupanti, però. Il
World Economic Outlook dell'Fmi, di prossima pubblicazione,
presenta i dati di 88 crisi bancarie avvenute negli ultimi
quarant'anni in numerosi Paesi diversi. Pur essendoci
variazioni enormi fra un Paese e l'altro, la conclusione è
che in media la produzione non ritorna ai ritmi pre-crisi,
anzi rimane stabilmente al di sotto.
La buona notizia forse è che il trend non sembra risentirne:
mediamente, le crisi fanno scendere in via permanente il
livello della produzione, ma non il suo tasso di crescita.
Perciò, se il passato è d'insegnamento, l'economia mondiale
probabilmente tornerà al tasso di crescita di prima della
crisi. Ma il periodo di crescita al di sopra della media
tipico delle normali riprese, potrebbe, specialmente nei
Paesi avanzati, rivelarsi di breve durata o inesistente.
Problematiche dal lato della domanda
Anche solo ottenere
una crescita "normale", tuttavia, potrebbe risultare
difficile per via dei problemi della domanda. Le previsioni
ora dicono che la crescita nei prossimi trimestri sarà
positiva nella maggior parte dei Paesi, inclusi quelli
industrializzati.
Ci sono però due
distinguo da fare. La crescita non sarà abbastanza forte da
ridurre la disoccupazione, che secondo le previsioni
continuerà a salire fino al prossimo anno. Queste
previsioni di crescita positive sono basate in gran parte su
una combinazione di stimoli di bilancio e ricostituzione
delle scorte da parte delle imprese, invece che su consumi
privati forti e spese per investimenti in beni capitale.
Prima o poi, gli stimoli di bilancio dovranno essere
gradatamente ridotti, e anche la ricostituzione delle scorte
terminerà.
La domanda allora è:
che cosa serve per sostenere la ripresa? Dovranno entrare in
gioco due ribilanciamenti. Il primo consisterà nel
riequilibrare spesa pubblica e spesa privata. Il secondo
consisterà nel riequilibrare la domanda aggregata a livello
internazionale, con un ribilanciamento fra domanda interna e
domanda estera, a favore della seconda negli Stati Uniti e a
favore della prima nel resto del mondo, in particolare in
Asia.
Riequilibrare spesa pubblica e spesa
privata
I Governi hanno
risposto alla crisi incrementando la spesa pubblica,
abbassando le tasse e accettando incrementi sostanziosi del
disavanzo pubblico. Di fronte al crollo della domanda
privata e all'impossibilità di ridurre i tassi d'interesse
al di sotto dello zero, i governi hanno fatto chiaramente la
scelta corretta. Ma grandi disavanzi conducono in
tempi rapidi a un forte aumento del debito, e considerando
che in molti paesi i livelli del debito erano già alti,
incrementi del genere non potranno andare avanti a lungo.
Se un forte
disavanzo si prolunga nel tempo, cresceranno sempre di più i
dubbi sulla sostenibilità del debito. E con essi crescerà il
rischio di un aumento dei tassi di interesse a lungo
termine, sia perché lo stato estrometterà i privati dal
mercato del prestito sia per il maggior rischio
d'insolvenza.
Per quanto può andare avanti una politica di stimoli di
bilancio? Di per sé, nella maggior parte dei Paesi avanzati,
probabilmente non molto a lungo. Il rapporto medio fra
debito e Pil per le economie dei Paesi del G-20 era alto già
prima della crisi e secondo le previsioni nei prossimi anni
supererà il 100 per cento. (La situazione è molto diversa in
una serie di Paesi emergenti, dove il debito partiva da
livelli molto inferiori e dove c'è più spazio per politiche
di deficit spending.)
Sottolineiamo il "di per sé". Gli stimoli possono essere
prolungati se contemporaneamente vengono prese misure
strutturali per limitare la crescita futura dei programmi di
spesa sociale (la crescita dei costi della sanità o
l'effetto dell'invecchiamento della popolazione sul sistema
pensionistico). Lo scambio è interessante. Secondo le stime
dell'Fmi, i futuri incrementi di queste voci di spesa
peseranno sui bilanci pubblici dieci volte di più dei costi
della crisi. Pertanto, anche una modesta riduzione del ritmo
di crescita dei programmi di spesa sociale può garantire uno
spazio considerevole per portare avanti gli interventi di
stimolo.
Alla fine, però, questa politica dovrà essere
progressivamente abbandonata e la domanda privata dovrà
prendere il posto degli stimoli di bilancio. Da dove verrà
questa domanda, se dai consumi o dagli investimenti,
rappresenta una questione fondamentale.
I tassi d'interesse bassi possono
essere d'aiuto?
È probabile che la
domanda Usa rimanga debole a lungo, più debole di prima
della crisi con qualsiasi tasso d'interesse. Sottolineo "con
qualsiasi tasso di interesse". Questo sembra lasciare spazio
a un certo ottimismo.
Il tasso di rendimento a breve termine d'un investimento
privo di rischio ora è più basso rispetto a prima della
crisi. Nei tre anni precedenti alla crisi, il tasso
d'interesse medio nominale sui buoni del Tesoro Usa era del
4%, mentre il tasso d'inflazione medio era del 3 per cento.
Quindi il tasso reale, cioè dopo l'inflazione, era dell'1
per cento. Oggi il tasso d'interesse dei buoni del Tesoro è
prossimo allo zero e l'inflazione prevista sembra ancorata
intorno al 2 per cento. Questo implica un tasso reale di
circa il -2%, vale a dire 3 punti percentuali al di sotto
del livello pre-crisi.
La Federal Reserve
può lasciare il suo tasso di riferimento - il tasso
interbancario - a zero se ne ha necessità, e dal momento che
l'inflazione attesa è più probabile che aumenti invece di
diminuire, i tassi reali verosimilmente rimarranno in
territorio negativo. Una regola empirica vuole che un
tasso reale più basso di un punto percentuale, e che rimarrà
tale secondo le previsioni per un certo periodo, conduce più
o meno a un incremento di circa l'1% nella domanda
complessiva. Un decremento del tasso reale di 3 punti
percentuali sembrerebbe sufficiente a compensare la prudenza
di consumatori e imprese e sostenere la ripresa.
Ma non è detto che andrà così.
Quello che influenza
la domanda è il tasso a cui consumatori e imprese possono
prendere soldi in prestito, non il tasso di riferimento in
sé e per sé. Com'è risultato chiaro durante questa crisi, il
tasso a cui consumatori e imprese ottengono soldi in
prestito spesso è molto più alto del tasso di riferimento. I
premi di rischio sui titoli Usa con rating BBB (medio), ad
esempio, sono più alti di quasi tre punti percentuali
rispetto a prima della crisi.
Questa maggiore
percezione del rischio potrebbe essere un'eredità duratura
della crisi. (La Grande Depressione portò a un forte
incremento del premio di rischio sulle azioni, che si
protrasse per quasi quarant'anni. Ma la Depressione durò a
lungo, e questa crisi difficilmente avrà lo stesso impatto
psicologico.) Premi di rischio più alti, dunque,
potrebbero vanificare, almeno in parte, il calo dei tassi
d'interesse. Le autorità Usa non possono fare affidamento
solo sui tassi d'interesse per garantire una ripresa
stabile.
L'Asia può essere d'aiuto?
Se si vuole che la
ripresa negli Stati Uniti arrivi, se la politica di stimoli
di bilancio dev'essere gradatamente abbandonata e se la
domanda interna del settore privato è debole, allora devono
crescere le esportazioni nette Usa.
In altre, parole,
Washington deve ridurre l'attuale disavanzo delle partite
correnti. Questo significa che il resto del mondo,
attualmente in forte surplus, dovrà ridurlo. Da dove dovrà
arrivare questa riduzione?
Viene naturale
guardare innanzitutto ai Paesi con grandi eccedenze
commerciali. I primi fra questi sono gli asiatici, e la
prima di tutti è la Cina. Dal punto di vista degli
Stati Uniti, un decremento dell'attuale surplus nella
bilancia dei pagamenti cinese contribuirebbe a incrementare
la domanda e a sostenere la ripresa negli Usa: il risultato
sarebbe più importazioni dagli Stati Uniti, che a loro volta
contribuirebbero a sostenere la ripresa mondiale.
Per avere un'idea delle proporzioni è utile fare altri due
conti alla buona. Il Pil dei Paesi emergenti dell'Asia è
circa il 50% di quello Usa (con il rapporto che secondo le
proiezioni arriverà nel 2014 al 70%). Dunque, se tutti i
loro scambi fossero con gli Stati Uniti, i Paesi asiatici
dovrebbero ridurre il loro surplus del 4% del Pil per
migliorare la bilancia dei pagamenti Usa nella misura del 2%
del Pil (che rappresenta una caduta del 3% nel rapporto fra
consumi e Pil, meno l'incremento della domanda Usa derivato
dalla riduzione dei tassi d'interesse). Dal momento che
l'Asia, naturalmente, non commercia soltanto con gli Stati
Uniti, l'aggiustamento probabilmente dovrebbe essere ancora
maggiore, e questo induce a domandarsi se altri Paesi
possano e debbano giocare un ruolo.
Quale ruolo per i paesi
non asiatici?
Anche molti altri
paesi, tra cui alcuni paesi industrializzati, hanno la
bilancia dei pagamenti in attivo. Ad esempio la Germania,
che nel 2008 poteva vantare un surplus pari alla metà di
quello cinese (anche se si sta contraendo rapidamente); il
surplus giapponese è pari a un terzo di quello cinese.
La Germania dovrebbe ridurre il suo surplus commerciale?
Berlino non può seguire la stessa strada suggerita per la
Cina, cioè una rivalutazione della moneta accompagnata da un
decremento del risparmio.
Facendo parte della
zona euro, la Germania non può procedere autonomamente a una
rivalutazione della moneta. E, sul versante della
domanda, soffre in buona parte dello stesso problema degli
Usa: ha poco spazio di manovra sul fronte della spesa
pubblica e non è chiaro se sia auspicabile o praticabile
convincere i consumatori tedeschi a risparmiare meno. La
Germania tuttavia potrebbe migliorare la produttività nel
settore dei beni e servizi non scambiabili, cosa che sarebbe
nel suo interesse e che a sua volta porterebbe a una
riallocazione della domanda verso i beni e servizi non
scambiabili e ridurrebbe il suo surplus commerciale.
Lo stesso argomento
si applica al Giappone. Ma, dal momento che riforme
strutturali del genere sono politicamente difficili, e dal
momento che gli effetti che producono si fanno sentire in
tempi lunghi, probabilmente sarà un processo lento, troppo
lento per offrire un supporto sostanziale alla ripresa nei
prossimi anni. Perciò, se la necessità è quella di procedere
a riequilibri rapidi, probabilmente dovrà pensarci
soprattutto l'Asia, riducendo il tasso di risparmio e
rivalutando le monete asiatiche rispetto al dollaro.
Che succede se il riequilibrio non
avviene?
Da questo giro del
mondo emergono tre conclusioni. La prima è che la crisi
probabilmente porterà a un calo della produzione potenziale.
Non c'è da aspettarsi tassi di crescita molto alti quando
arriverà la ripresa.
La seconda è che per
una ripresa sostenuta negli Stati Uniti e in altri paesi
servirà in prospettiva un riequilibrio fra spesa privata e
spesa pubblica.
La terza è che per
una ripresa sostenuta probabilmente servirà un incremento
dell'export Usa e un corrispettivo decremento dell'export
del resto del mondo, soprattutto dell'Asia.
Tutt'e tre queste
conclusioni sono contestabili. Dal lato dell'offerta,
l'effetto della produzione potenziale è estremamente
incerto. Dopo tutto, nonostante i pessimistici dati storici,
alcuni Paesi sono usciti dalle crisi bancarie senza subire
impatti evidenti sulla produzione potenziale (per altro
verso, però, alcuni Paesi hanno riscontrato un impatto
negativo duraturo non soltanto a livello del Pil, ma anche
rispetto al tasso di crescita).
Dal lato della
domanda, lo spazio di manovra in termini di spesa pubblica
nei Paesi avanzati potrebbe rivelarsi maggiore del previsto,
consentendo agli Stati Uniti di mantenere più a lungo di
quanto stimato attualmente disavanzi prolungati e un livello
d'indebitamento più alto, senza sollevare preoccupazioni nei
mercati sulla sostenibilità del debito. Se sarà così,
il riequilibrio fra spesa pubblica e spesa privata potrebbe,
se necessario, procedere a ritmi più rilassati, lasciando
più tempo per riportare in equilibrio la domanda mondiale.
Oppure, la domanda privata negli Stati Uniti potrebbe essere
più forte del previsto: i consumatori americani potrebbero
tornare alle loro vecchie abitudini e risparmiare meno.
Questo aiuterebbe la ripresa ed eviterebbe di dover
ricorrere a un aggiustamento su larga scala delle
esportazioni nette, ma ricreerebbe sul lungo periodo alcuni
dei problemi che hanno provocato l'attuale crisi. Oppure, il
mondo potrebbe imboccare strade diverse: l'Asia, ad esempio,
potrebbe riuscire a tornare a una crescita sostenuta, mentre
nei paesi avanzati la ripresa arrancherebbe. Ma la crisi, e
i forti legami commerciali che hanno trasformato un grave
shock negli Stati Uniti in una recessione mondiale
suggeriscono che il decoupling, per quanto possibile, è
improbabile.
Ma se si accetta la
tesi che entrambi i riequilibri siano necessari per una
ripresa stabile, la domanda successiva è se essi avverranno
o meno. È evidente che potrebbero non avvenire, quantomeno
non nelle proporzioni necessarie. Se, ad esempio, l'Asia non
sarà disposta a ridurre il suo surplus nella bilancia dei
pagamenti e le esportazioni nette degli Stati Uniti non
registreranno un miglioramento sostanziale, una domanda
debole da parte del settore privato negli Usa potrebbe
portare a una ripresa anemica negli Stati Uniti. In questo
caso probabilmente ci sarebbero forti pressioni politiche
per prorogare gli stimoli di bilancio fino alla ripartenza
della domanda privata.
Se dovesse accadere
questo, si possono immaginare diversi scenari: le autorità
potrebbero resistere alla pressione politica, gli stimoli di
bilancio verrebbero gradatamente abbandonati e la ripresa
Usa sarebbe molto lenta. Oppure, gli stimoli di bilancio
potrebbero essere prorogati troppo a lungo, portando a
problemi di sostenibilità del debito e timori per i titoli
di Stato Usa e per il dollaro, e provocando l'uscita
d'ingenti flussi di capitale dagli Stati Uniti. La
svalutazione del dollaro potrebbe avvenire, ma in modo
disordinato, dando origine a un altro episodio d'instabilità
e grande incertezza, che rischierebbe a sua volta di mandare
a gambe all'aria la ripresa.
Per sostenere la ripresa nascente probabilmente serviranno
delicate azioni di ribilanciamento, sia a livello nazionale
che a livello internazionale. Altrettanto cruciale nei
prossimi anni, come lo è stato durante la fase più intensa
della crisi, sarà probabilmente la comprensione dei problemi
e dei pericoli e un certo grado di coordinamento tra Paesi.
|
Traduzione -
Fabio Galimberti |
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
RECESSIONE, ROUBINI:
ATTENTI CHE ARRIVA LA SECONDA BOTTA
22 Agosto 2009 03:27 NEW YORK -
di
WSI ______________________________________________
Nouriel Roubini, noto come Dottor
Sfiga (eppure e' uno dei pochi economisti che ha previsto
con accuratezza e largo anticipo la gravita' della crisi)
vede ora un "gran rischio" di ricaduta, dopo una breve
ripresa.
Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti che ha previsto
con accuratezza e largo anticipo la gravita' della crisi
finanziaria mondiale, vede oggi un "grande rischio" di
ricaduta in recessione dopo una breve ripresa, stando ad un
editoriale pubblicato domenica sul sito del Financial Times,
intitolato The risk of a double-dip recession is rising.
Roubini, professore alla Stern School of Business della New
York University, scrive che dai dati recenti sembrerebbe che
l'economia globale abbia toccato il fondo o il suo punto
peggiore nella seconda meta' di quest'anno, e che le
economie degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale molto
probabilmente vedranno una crescita "anemica" e "al di sotto
della media" almeno per un paio di anni, secondo quanto
riporta l'agenzia Reuters.
Per l'economista (noto come Dottor Doom, letteralmente
Sfiga) i governi saranno dannati per un dilemma che li
fronteggia in un verso o nell'altro: e cioe' sia che
agiscano, sia che non agiscano per eliminare i massicci
programmi di stimoli fiscali e monetari che finora hanno
impedito all'economia globale di precipitare in depressione,
lo scenario restera' comunque molto complicato.
Secondo Roubini se i governi cercheranno di combattere
l'allargamento smisurato dei deficit di bilancio tramite un
aumento delle tasse e un taglio delle spese, allora
finirebbero per minare alla base qualsiasi sintomo di
ripresa. D'altro canto, se i governi continueranno a
mantenere gli attuali mega deficit, cresceranno anche i
timori per un'eccessiva inflazione, il che causera' un
aumento dei tassi sui bond e su tutti gli strumenti di
credito, con la conseguenza di strozzare sul nascere la
ripresa economica.
Per l'economista della New York University un altro motivo
di preoccupazione e' che i prezzi dell'energia, degli
alimentari e del petrolio stanno salendo molto di piu' di
quanto i fondamentali giustifichino; e potrebbero essere
essere fatti salire ancora di piu' dalla speculazione oppure
se la liquidita' eccessiva creasse artificialmente una
domanda troppo alta. "L'economia mondiale - scrive Roubini
sul Finacial Times - non potrebbe tollerare un altro shock
da contrazione" se la speculazione portasse in tempi rapidi
il prezzo del petrolio verso la soglia dei $100 al barile".
Alla chiusura dei mercati venerdi' scorso la quotazione dei
futures sul greggio era salita ai massimi di periodo a quota
$73.83 (vedi quotazione in tempo reale).
Per Roubini la crescita "anemica" che e' all'orizzonte fara'
seguito ad un paio di trimestri di rapido sviluppo, grazie
al fatto che le scorte di magazzino e la produttivita'
stanno recuperando da livelli molto vicini a quella che e'
stata una vera e propria depressione.
Fonte
-
WallStreetItalia
RIPRESA: ORMAI
SI DELINEANO DUE SCUOLE DI PENSIERO
23 Agosto 2009 11:46 SIENA - di
Carmela Pace – MPS Capital Services ______________________________________________
In settimana in area Euro sono
attesi i dati finali del Pil tedesco e spagnolo ed i dati
preliminari dei prezzi al consumo per gli stessi paesi. In
Germania è inoltre atteso l’indice Ifo (sondaggio tra
imprenditori) di agosto. Negli Usa oggi non sono attesi dati
macro importanti. Nel corso della settimana segnaliamo la
seconda lettura del Pil relativo al 2° trimestre. Attesi
anche i dati relativi alla fiducia dei consumatori di agosto
ed i redditi e spesa personale di luglio. Infine, a partire
da domani, in programma anche emissioni di Treasury a 2, 5 e
7 anni per un totale di 109 Mld$.
Tassi di interesse: in area Euro i tassi di mercato sono
saliti su tutta la curva potando il differenziale sul 2-10
anni a 193 pb da 197. Continua invece a scendere il
differenziale sul decennale Italia-Germania, chiudendo la
sessione di venerdì a 76 pb da 82 del giorno precedente. I
listini azionari hanno chiuso la sessione in rialzo sulla
scia dei positivi dati sui Pmi manifatturiero e servizi e
del rialzo delle borse statunitensi. I dati preliminari dei
Pmi manifatturiero e servizi hanno continuato il trend al
rialzo degli ultimi mesi, portandosi in alcuni casi sopra la
soglia dei 50.
In Francia il Pmi manifatturiero è infatti salito a 50,2 da
48,1, mentre il Germania il dato sui servizi si è portato a
54,1 da 48,1. Il membro della Bce, Liikanen, ha dichiarato
che malgrado i segnali positivi che giungono dall’economia
al momento non c’è alcun bisogno di modificare l’attuale
politica monetaria, in quanto l’attività economica è ancora
molto al di sotto del livello dello scorso anno e c’è ancora
molta incertezza. Il tasso di disoccupazione inoltre
dovrebbe continuare ad aumentare. Sul decennale la
resistenza si colloca a 3,37% ed il supporto a 3,29%.
Negli Usa i tassi di mercato sono saliti in modo marcato su
tutta la curva sulla scia del rialzo delle borse. Lo spread
2-10 anni è salito da 244 a 247pb. L’indice S&P500 si è
portato sui massimi del 2009 guidato in particolar modo
dagli energetici, industriali, produttori di materie prime e
finanziari. Sul fronte macro le vendite di case esistenti a
luglio sono salite sui massimi degli ultimi due anni.
Il governatore della Fed, Bernanke, ha dichiarato che le
prospettive per un ritorno alla crescita nel breve termine
appaiono buone, sia negli Usa sia a livello globale grazie
agli interventi delle banche centrali e dei governi.
Sono ancora presenti alcune tensioni in molti mercati
finanziari a livello globale, le istituzioni finanziarie si
troveranno di fronte ad ulteriori perdite e le famiglie
hanno ancora difficoltà nell’accedere al credito. Questa
situazione lascia pertanto ritenere che il recupero sarà
relativamente lento all’inizio. Altri economisti come ad
esempio Roubini e Feldstein, hanno invece enfatizzato i
rischi di una seconda fase recessiva, collegati
principalmente alla fine degli stimoli fiscali e monetari.
Secondo tale filone di pensiero, l’economia globale dovrebbe
recuperare nel secondo semestre 2009, però successivamente
saranno presenti elevati rischi di ricadute nel momento in
cui le banche centrali ed i governi decideranno di
implementare le "exit strategy". Sul decennale governativo
supporto a 3,37%, resistenza a 3,60%.
Fonte
-
Servizio Market Strategy MPS Capital Services
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Giovedì
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Sabato 22
Agosto
2009 |
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Mercoledì
26
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2009 |
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Banche
tossico-dipendenti nulla è cambiato
24 Agosto 2009 04:05
LONDRA - di Mauro Bottarelli
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Ci
risiamo. Dopo aver fatto le brave per qualche tempo, onde
evitare il linciaggio e soprattutto di non ottenere i fondi
statali per i piani di salvataggio, le banche Usa hanno
ripreso le vecchie abitudini: bonus rivoltanti ai manager e,
soprattutto, il brutto vizio di cercare di scaricare lo
schifo presente nei propri assets spezzettandolo e
rivendendolo come sicurissimo prodotto nuovo.
A denunciarlo è
Herbert Kaufman, professore di Economia alla Arizona State
University: «C’è un po’ di déjà vu in tutto questo»,
ha dichiarato interpellato da Cnbc. Anche perché, sempre
secondo lui, «è proprio questa pratica di spezzettamento e
impacchettamento che ha creato il cuore vero del problema,
ovvero intasare i mercati e rendere non rintracciabile il
punto di partenza del marcio, la sua radice, quella che di
fatto va a infettare anche quanto di buono c’è nel mercato
finanziario e di investimento». Sia come sia, quelle
obbligazioni - nemmeno a dirlo - sono valutate l’una per
l’altra con rating AAA: ancora déjà vu.
Siamo al passo
successivo, all’evoluzione della specie dei re-remics (resecuritization
of real estate mortagage investment conduits), ovvero una
nuova generazione di cdo (collateralized debt obligations)
che già ad inizio anno aveva cominciato a far luccicare gli
occhi agli operatori della City e di Wall Street. Ma
partiamo dai cdo per capire meglio di cosa stiamo parlando.
Come ormai saprete i cdo sono dei pacchetti con
un’obbligazione emessa dalla banca e con all’interno diversi
debiti che cercano un investitore per coprirli, tra cui
anche i tanto giubilati subprime.
Accade dunque che una banca che vuole dei finanziamenti
emette questi cdo cercando credito, promettendo di ripagare
il tutto con relativi interessi: in caso di mancato
rimborso, però, la banca ci rimetterà i soldi investiti nel
mutuato e i soldi da restituire all’investitore vedendo
svalutare questi titoli e quindi anche il proprio
portafoglio.
Cosa sono invece i
re-remics? Un fondo di investimento in mutui ipotecari su
immobili. In realtà si prendono un bel po’ di mutui, molti
dei quali rischiosi, li si spezzetta, li si trasferisce in
bond che vengono mischiati per bene e immessi nel mercato:
una macedonia di cdo. Nei primi cinque mesi dello scorso
anno, mentre la crisi esplodeva in tutta la sua virulenza,
il volume di investimento in re-remics ha toccato quota 9,3
miliardi di dollari (il 47% di tutti i bond di debito emessi
in quel periodo escludendo quelli di Fannie Mae e Freddie
Mac, tre volte tanto rispetto allo stesso periodo del 2007).
Goldman Sachs, JP
Morgan Chase e altre sei banche d’affari prima dell’estate
si sono lanciate su questo mercato riassicurando pacchetti
di investimenti che come cdo non riuscivano più a trovare
mercato ma che come re-remics diventavano appetibili.
Il perché è presto
detto: i re-remics contengono meno di dodici tipi di bond a
loro interno, quindi appaiono più analizzabili e soprattutto
sono formalmente formati solo da debiti con rating AAA,
sicurissimi sulla carta. Solo che la differenza tra i
cdo subprime e i re-remics è quantomeno comica alla luce di
quanto accaduto: nel primo caso si garantivano mutui a
potenziali insolventi, nel secondo caso la controparte non è
tenuta a provare il proprio reddito.
Ma non è tutto visto
che grandi merchant bank e alcuni segmenti di hedge funds in
questi giorni di turbolenza hanno creato desk appositi per
l’acquisto di cdo e re-remics, investimenti che nel lungo
termine possono risultare fruttuosi visto che prima o poi la
crisi immobiliare finirà e il sottostante di quei veicoli
sono beni immobili. Non male, alla faccia dei green
shots borsistici, degli Stati che si svenano, dei cds sul
rischio di default sul debito dei paesi dell’Est e baltici
in continua crescita, della Cina che sbanda e degli Usa che
- nonostante i buoni propositi - continuano a piazzare sul
grande mercato delle riserve estere il debito sempre
crescente.
Ma se l’atteggiamento di alcuni trader può apparire
criminale (in effetti non lo è del tutto, l’evidenza storica
sembra infatti mostrare che il rendimento medio di lungo
periodo dei titoli "buoni" e dei junk bonds sia stato
abbastanza allineato - ovviamente, basso e stabile il primo;
grandi guadagni che si alternano a grandi perdite per i
secondi. Nel caso specifico dei re-remics la spiegazione
potrebbe essere che il prezzo è precipitato ed è ovviamente
il momento di comprare: chi non ha problemi di deleveraging,
eccessiva esposizione, può farlo con fondi propri e fa un
affare), capire a quale gioco si stia giocando sul mercato
delle commodities appare davvero un rompicapo. Ma di questo
tema vi parlerò in un prossimo articolo.
 |
Fonte -
IlSussidiario.net. |
Falliscono le banche
Usa Parte lo shopping dall'estero?
24 Agosto 2009 17:28 MILANO - di
Vittorio Carlini – Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Le banche americane fallite, nel
2009, sono salite a 81. L'ultima, in ordine temporale, è la
Guaranty Bank di Austin (Texas) i cui uffici sono stati
posti sotto sigillo per ordine della Federal Deposit
Insurance Corporation (Fdic).
I più grandi fallimenti delle banche americane
Nomi delle società Valore asset* Data fallimento
Washington Mutual 307 9/25/2008
Continental Illinois 40 5/17/1984
First RepublicBank 32,5 7/29/1988
IndyMac Bank F.S.B. 30,7 07/11/2008
American S & L 30,.2 09/07/1988
Colonial Bank 25,5 8/14/2009
Bank of New England 21,7 01/06/1991
MCorp 18,.5 3/28/1989
Gilbraltar Savings 15,1 3/31/1989
BankUnited, FSB 13,7 5/21/2009
First City 13 4/20/1988
Downey Savings 12,8 11/21/2008
Homefed Bank FSB 12,2 07/06/1992
Souteast Bank, N.A. 11 9/19/1991
*Dati in miliardi di dollari
Quello dell'istituto texano non è una bancarotta di poco
conto: si tratta, infatti, del 12° fallimento bancario, per
ordine di grandezza, mai avvenuto negli negli Stati Uniti.
La Guaranty Bank (in inglese, letteralmente la banca
garanzia...), al 30 giugno vantava assett per circa 13
miliardi di dollari e i suoi depositi arrivavano al valore
di 12 miliardi. Insomma, non proprio noccioline. Ma il
gruppo, proprio poco tempo fa, era stato costretto a
realizzare svalutazioni per 1,5 miliardi nel business dei
mutui immobiliari. Quali, adesso, le sorti dell'istituto
texano? Il futuro parlerà spagnolo: Bbva Compass, la filiale
americana del Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, ha accettato
di acquisire i depositi di Guaranty e pagherà 12 miliardi
per i suoi asset. Già lunedì prossimo, i 162 sportelli che
operano sia in Texas sia in California saranno riaperti
sotto il "marchio" del Bbva.
Jose Maria Garcia Meyer, presidente di BbvaCompass, ha
sottolineato che si tratta di una transazione espressione
«di una eccelente strategia» e rappresenta un'ottima
opportunità per il Bbva di espandersi in «un'area con alti
tassi di crescita». Già, espandersi. Proprio su questo
fronte molti analisti e operatori si pongono una domanda:
siamo di fronte all'inizio di una campagna di shopping delle
banche europee in territorio americano? L'acquisizione, in
effetti, rappresenta la prima operazione transoceanica del
2009. Ma non va dimenticato che il gruppo di Bilbao ha già
fatto diverse acquisizioni in Texas prima di quest'anno e la
sua presenza nell'area è già consolidata. Di più: il Bbva
non è la sola banca straniera a tentare di cogliere l'attimo
della crisi finanziaria a stelle e strisce. La Td Bank unit
of Toronto Dominion (TD) ha fatto un'offerta in maggio per
la Bank United (istituto finanziario della Florida fallito a
causa dei subprime), perdendo l'asta di fronte all'offerta
di un private equity. Inoltre, altre banche europee sono già
attive sul territorio americano: nel 2008 il Santander ha
comprato la Pennsylvania's Sovereign Bank e la britannica
Hsbc ha più di 400 sportelli, soprattutto a New York.
Ciò detto, il fenomeno di una campagna di take over da parte
degli europei, che sfruttano i fallimenti americani, non
deve essere sopravvalutato. I big bancari del Vecchio
Continente, e non solo, devono affrontare diversi problemi a
casa loro. Anch'essi sono stati colpiti dalla crisi. Proprio
in Spagna, per esempio, il tasso di disoccupazione sta
crescendo molto e la crisi del mercato immobilare ha colpito
duro sull'economia reale.
Banche, affare
di stato
24 Agosto 2009 14:06 MILANO - di
Morya Longo – Il Sole 24 Ore ______________________________________________
«Bail out people, not banks!».
Nei giorni bui della crisi finanziaria, quando i Governi
dovevano salvare gli istituti di credito a suon di miliardi,
in America montava la protesta con lo slogan «salvate i
cittadini, non le banche!». Alla gente comune, munita di
cartelli e striscioni, non andava giù che lo stato spendesse
i soldi dei contribuenti per aiutare banche e banchieri. Ma
oggi la realtà appare un po' meno amara: da quei salvataggi
gli stati (dunque i contribuenti) iniziano a guadagnare.
La Svizzera ha rivenduto per 7,2 miliardi di franchi la
quota che aveva acquistato in Ubs, registrando in pochi mesi
una plusvalenza di 1,2 miliardi di franchi (790 milioni di
euro). In America il salvataggio di Citigroup sta già
fruttando allo stato potenzialmente più di 11 miliardi di
dollari e quello di Bank of America poco più di un miliardo.
In Gran Bretagna una delle due banche nazionalizzate, cioè
Royal Bank of Scotland, sta quasi riportando l'investimento
pubblico vicino alla pari. Ancora in perdita, invece, quello
in Lloyds Banking Group. Insomma: quelli che sembravano
soldi buttati via, stanno in alcuni casi tornando. Con gli
interessi.
Usa: i primi ritorni
Gli Stati Uniti hanno iniettato nel sistema finanziario, in
vario modo, un totale di 8.500 miliardi di dollari: più
della metà del Pil statunitense. Una spesa immane. Che in
parte faticherà a essere recuperata. Ma almeno una fetta di
questa montagna di soldi sta – potenzialmente – tornando
indietro. Complice il rally delle borse (giustificato o meno
che sia) e le caratteristiche tecniche dei salvataggi.
Le soddisfazioni principali stanno arrivando da Citigroup,
dove lo stato ha iniettato 45 miliardi di dollari nei mesi
più bui della crisi. Ebbene: le preferred shares
(particolari titoli simili alle azioni) che il governo ha
usato per aiutare la ex banca più grande del mondo, secondo
i calcoli realizzati da Bloomberg a metà giugno hanno già
fruttato interessi per 1,6 miliardi di dollari. Ma il
boccone più grosso è arrivato dopo. Un mese fa lo stato ha
convertito 25 miliardi di dollari di preferred shares in
normali azioni ordinarie, al prezzo di 3,25 dollari. Dato
che oggi Citigroup quota a 4,70, Ubs ha calcolato che se lo
stato smobilizzasse l'investimento porterebbe a casa una
plusvalenza di circa 10 miliardi di dollari (pari a 7
miliardi di euro). Insomma: frutta più Citigroup che la
furibonda lotta all'evasione fiscale e al segreto bancario.
Un po' meno munifica è Bank of America, che – sempre secondo
i calcoli di Bloomberg – ha pagato interessi allo stato per
1,1 miliardi di dollari (pari a 760 milioni di euro). Anche
Goldman Sachs ha dato qualche soddisfazione ai contribuenti.
A luglio l'istituto ha infatti restituito allo Stato 10
miliardi di dollari prelevati dal piano Tarp, cioè il piano
di sostegno per i titoli tossici. E, contestualmente, ha
riacquistato i warrant che il Governo americano aveva in
mano. Ebbene: alla fine lo stato ha guadagnato un tondo 23%
annualizzato. È invece andata diversamente per altre 11
banche minori che, al pari di Goldman, hanno restituito i
soldi del Tarp e riacquistato il loro warrant. Si tratta di
istituti americani meno noti, come Sun Bancorp, First
Niagara Financial o Berkshire Hill. Secondo i calcoli
effettuati dalla Congressional Oversight Panel, cioè
l'organismo Usa che vigila sul programma Tarp, nel caso di
queste ultime banche lo stato ha perso 2,7 miliardi di
dollari. Per un motivo molto semplice: ha permesso loro di
riacquistare i warrant al 66% del valore.
Europa a due velocità
Nel vecchio continente l'esito dei salvataggi bancari è più
variegato. Se la Svizzera con Ubs ha incassato un assegno da
1,2 miliardi di franchi, la Gran Bretagna non è ancora
riuscita a portare in attivo il suo investimento. Lo stato
il 13 ottobre è dovuto intervenire per salvare Royal Bank of
Scotland e Lloyds Banking Group, nazionalizzandole di fatto.
Per la prima ha speso 20 miliardi di sterline (pari a 23
miliardi di euro) diventando azionista al 70%, mentre per la
seconda ha usato 17 miliardi di sterline (19 miliardi di
euro) e ha rilevato una quota pari al 43% del capitale.
Secondo i calcoli effettuati dalla Uk Financial Investment
(l'organismo creato dal governo per gestire e monitorare i
due salvataggi bancari), la Corona britannica ha rilevato le
azioni di Royal Bank of Scotland a un prezzo medio di 50,5
sterline e quelle di Lloyds a 122,6. Ebbene: considerando
che oggi la prima quota 48,48 sterline e la seconda 101,58,
si capisce che lo stato è ancora in perdita ma anche che –
grazie al rally delle Borse – ha recuperato molto rispetto
al momento dell'investimento. Ancora – riferiscono dalla Uk
Financial Investment – non è in agenda il disinvestimento,
ma quando il governo deciderà di uscire dalle due banche
potrebbe non perderci.
Decisamente peggio, invece, è andata in Germania.
Soprattutto con Ikb, la banca creata negli anni 20 per
aiutare l'economia tedesca sfiancata dalla prima guerra
mondiale, lo stato ha perso il perdibile. Non esistono cifre
ufficiali, ma quando la banca è stata venduta al fondo Lone
Star i giornali locali ipotizzavano una minusvalenza
pubblica di 10 miliardi di euro. Insomma: la banca che ha
tirato fuori la Germania dalle rovine della Grande Guerra,
ora ha fatto pagare il conto ai tedeschi.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
|
Usa
in bancarotta: a casa gli
statali
25 Agosto 2009 09:32
MILANO - Il Giornale
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È come
in Sim City, un vecchio videogame che simula la gestione di
una città. Fai strade, ferrovie, centrali idroelettriche,
investi, spendi, metti da parte i fondi per i sussidi di
disoccupazione, giochi con le tasse e butti sul mercato
qualche gratta e vinci, arriva però un momento in cui non ce
la fai più e scopri che i conti sono di un rosso cupo. Se
sei un pessimo amministratore da questa situazione non ne
esci più, i debiti portano debiti, e a quel punto non resta
che spegnere e resettare. Tutti a casa.
È quello che più o
meno sta accadendo in molte città e Stati americani. È colpa
della crisi, dicono. E un po’ è vero. Forse però
anche lì negli States il pubblico costa. La risposta, però,
è molto poco europea e porta anche i colletti bianchi nella
dimensione liquida di questa stagione dove gli uomini sono
costretti a convivere con il rischio quotidiano. Nulla è
certo, neppure lo Stato. La bancarotta non fa paura solo ai
privati. Che fare? A Chicago, patria di Barack Obama, il 17
agosto tutti gli uffici pubblici sono rimasti chiusi. Niente
stipendio per un giorno. Niente raccolta di rifiuti,
biblioteche serrate, anagrafi fuori servizio. Sarà così
anche i giorni prima di Natale e dopo il Thanksgiving Day.
Una scelta che fa risparmiare al comune 8,3 milioni di
dollari. La speranza è di arrivare a tagliare il deficit di
altri 34 milioni. Il problema è che il buco 2009 è di 300
milioni.
Il
futuro è fatto di «ferie forzate». Messa così sembra una
bella vacanza. Attenti. Non siamo in Italia.
Qui la regola è che
chi non lavora non prende lo stipendio. Le ferie non vengono
pagate. I travet vedono la busta paga più sottile,
mugugnano, ma sanno che l’alternativa è un giro di
licenziamenti, una sorta di lotteria al contrario. Ma c’è di
più. È lo Stato che si ritira, fa un viaggio a ritroso
nell’America dei pionieri, in città senza legge, abbandonata
al buon cuore dei cittadini. È quello che stanno pensando
gli eredi di William Penn, a Filadelfia, un tempo pacifica
città dei quaccheri, ora un inferno metropolitano di bande
rivali e delinquenti, dove si esce al mattino e non si sa se
si torna a casa. Le casse di Filadelfia sono un abisso,
tanto che dovranno chiudere per qualche giorno tutti gli
uffici pubblici, compresi tribunali e stazioni di polizia.
Ecco, immaginate. Questa città violenta sembra sprofondare
in un incubo alla Philip K. Dick, quartieri, strade,
confini, case e negozi alla mercé dei senzalegge. È la
sospensione del diritto per una manciata di giorni, ma può
accadere di tutto. Ed è un paradosso per questa città dove i
padri fondatori firmarono l’indipendenza e la costituzione.
È l’America che inciampa proprio lì dove è nata.
Non ci
sono solo le città. Le ferie forzate per i dipendenti
pubblici sono in agenda in 19 Stati. In Rhode Island
l’81 per cento dei 13.550 statali resteranno a casa, senza
stipendio, per 12 giorni. Gli unici a lavorare saranno i
poliziotti e le guardie carcerarie. In Michigan i giorni
saranno sei, con un risparmio di 21,7 milioni di dollari. Il
caso più noto è quello della California, dove Arnold
Schwarzennegger annaspa nei debiti. Lì, dove un tempo c’era
l’eden americano e la corsa all’oro, uffici pubblici chiusi
tre volte ogni mese, fino al 30 giugno 2010. Obiettivo:
tagliare dal bilancio 820 milioni. In Minnesota il senatore
Dan Spark ha proposto di giocare d’azzardo, con slot machine
nei bar e nei ristoranti, con un aumento delle tasse sulle
giocate. Peccato che nelle terre del poker e del Black Jack
la crisi sta rovinando gli Stati. In Nevada, dove c’è Las
Vegas, le entrate fiscali sono scese del 30 per cento.
Stessa musica nel New Jersey di Atlantic City. Meno
giocatori, meno tasse. E anche lì i travet tremano, magari
sfidando la fortuna.
Questa
storia delle «ferie forzate» sembra una nuova frontiera del
rapporto di lavoro. È molto americana, lì dove il dipendente
pubblico non è una miniera di voti e il sindacato non fa
grandi battaglie di principio. Qui in Italia ci sarebbe la
rivoluzione. Brunetta sorride, ma davvero non ha modo
e ragione di importarla. Le ferie da noi sono pagate, sono
un sacro diritto inalienabile e se proprio si manda a casa
il Fantozzi di turno fate la cortesia di non spacciare le
sue giornate senza stipendio in una vacanza regalata allo
Stato. Fantozzi non capirebbe. Nè lui né altri. È il
federalismo, bellezza. Ma non fino a questo punto.
Questo vento di crisi che sconvolge i colletti bianchi
potrebbe salvare la pelle a chi aspetta la morte in tuta
arancione. «Nessuno tocchi Caino» dice che in Maryland,
Colorado, Kansas, Montana, Nebraska, New Hampshire e Nuovo
Messico vogliono sospendere la pena di morte. Costa troppo.
Il senatore democratico Martin O’Malley spiega che
«condannare a morte un assassino costa tre volte di più
dell’ergastolo». Beccaria superato da Adam Smith. È la forza
morale della mano invisibile.
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Fonte -
Il Giornale |
Washington,
continuiamo ad avere un problema
Tuesday, 25 August, 2009 at 13:22 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
La tabella seguente mostra le
quantità di debito emessi dagli USA soltanto nell’ultima
asta di Titoli di Stato. Le settimane precedenti hanno visto
un torrente di debito di dimensioni simili e la domanda
sorge spontanea: per quanto tempo questi livelli di
emissione potranno essere mantenuti, prima di un calo dei
corsi?
E’ vero che non si sa mai per quanto tempo l’equilibrio fra
paura ed avidità possa essere sostenuto a livelli
irrazionali prima di allinearsi ai fondamentali, soprattutto
quando un mercato viene distorto e drogato dall’intervento
pubblico.
In questo caso, abbiamo addirittura un duplice intervento di
operatori al di fuori dei limiti del mercato. Da un lato, la
Federal Reserve continua a mantenere tassi d’interesse
vicini allo zero. Dall’altro, la Banca Centrale Cinese
continua ad acquistare titoli di Stato, in parte come
conseguenza della manipolazione del valore della propria
moneta e in parte per sostenere le quotazioni dell’ingente
posizione che detiene.
clipped from
www.agorafinancial.com
Last week’s auction schedule was
truly amazing, in and of itself:
* $31 billion in three-month bills
* $30 billion in six-month bills
* $27 billion in 52-week bills
* $42 billion in two-year notes
* $39 billion in five-year notes
* $28 billion in seven-year notes
Karl Denninger. “I count $207
billion, coming two weeks after a $250 billion dollar week
Consumatori americani
fiduciosi. Per il futuro Tuesday, 25 August, 2009 at 19:27 -
by phastidio ______________________________________________
Il dato di agosto sulla fiducia
dei consumatori statunitensi, elaborato dal Conference Board,
è risultato in aumento, al livello di 54,1 da 47,4 in luglio
e contro attese poste a 47,9. E’ il dato migliore da maggio,
che a sua volta era il migliore da agosto 2008, prima del
meltdown di Lehman. Quasi tutto il miglioramento nell’indice
deriva dalla componente delle aspettative, cresciuta di
circa 10 punti, mentre l’indicatore di situazione corrente è
cresciuto di soli 1,6 punti, e resta solo 3 punti sopra il
minimo dal 1983. Le aspettative sono al massimo da ottobre
2007, poco prima dell’inizio ufficiale della recessione, che
il NBER data da dicembre di quell’anno.
Le risposte riferite alla condizione del mercato del lavoro
mostrano un miglioramento, con la quota di quanti vedono una
disponibilità di impieghi “abbondante” cresciuta di 0,5
punti, e quella di quanti ritengono gli impieghi “difficili
da ottenere” scesa di 3,4 punti. Entrambi gli indici tornano
così al valore di giugno. La quota di quanti pianificano di
acquistare un’abitazione entro sei mesi è cresciuta di 0,7
punti, al massimo da maggio, mentre quella di chi pensa di
acquistare un’auto è cresciuta di 0,4 punti, anch’essa
massimo da maggio. E’ singolare notare che le aspettative
sul tasso d’inflazione tra 12 mesi sono rimaste, durante
questi mesi, pressoché costanti su livelli piuttosto
elevati, e in agosto sono pari al 5,4 per cento, un decimo
di punto percentuale in meno rispetto a luglio, malgrado un
tendenziale che oggi è a meno 2,1 per cento.
In sintesi, gli americani sono molto ottimisti sul futuro, e
questa caratteristica degli indici di fiducia dei
consumatori è sostanzialmente comune anche all’Europa.
Stanno formandosi aspettative molto favorevoli, che hanno
tuttavia elevata probabilità di essere frustrate nei
prossimi mesi, dato il costante deterioramento del mercato
del lavoro. Forse anche per questo motivo i mercati
obbligazionari non paiono aver alcuna intenzione di
scendere, e quindi di far crescere i rendimenti, malgrado il
furibondo rally azionario degli ultimi sei mesi.
Di zombies e robots Friday, 28 August, 2009 at 17:42 -
by phastidio ______________________________________________
Di zombies e robots
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Mentre Wall Street continua a posporre indefinitamente
l’appuntamento con la correzione, l’andamento dei corsi
appare influenzato da due fattori: cinque zombies (diciamo
tre zombies e due too big to fail) concentrano su di sé
circa un terzo del volume di scambi, peraltro divergente con
il trend rialzista di mercato. Sono AIG, Fannie, Freddie,
Citigroup e Bank of America. Difficile credere che si tratti
di scalpers in overdose di Red Bull, soprattutto
considerando che, secondo alcune stime, il 70 per cento
degli scambi azionari implica un ordine di acquisto o
vendita generato da società di high frequency trading. Gli
umani facciano attenzione.
Segnali di stabilizzazione
dall’economia reale? Friday, 28 August, 2009 at 13:42 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
I dati sul trasporto merci
ferroviario negli USA sono spesso indicati come un
anticipatore delle tendenze dell’economia reale: quello che
viene prodotto o consumato va, per la gran parte,
trasportato. Gli ultimi dati evidenziano nel breve periodo
un aspetto positivo , ma giustificano poco ottimismo per il
medio e lungo termine.
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USA - Indice
trasporto merci ferroviario |
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La buona notizia è che abbiamo smesso di peggiorare. La cattiva
notizia è che non si vede alcuna ripresa all’orizzonte: il
traffico è comuncuqe in calo del 18 percento su base annuale.
Quello che si può dire è che siamo in vista del fondo, ma questo
non garantisce che si possa risalire prima di un lungo periodo,
o che una volta toccato il fondo non si cominci a scavare.
Welcome to Japan Sunday, 30 August, 2009 at 16:08 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il tasso d’interesse
interbancario in dollari americani è più basso di quello per
lo yen giapponese per la prima volta in sedici anni. E’ un
segno di ripresa dei mercati o un segnale d’allarme per un
futuro di stagnazione decennale “alla giapponese”?
Il tasso LIBOR è una delle variabili fondamentali per
misurare le condizioni dei mercati monetari e la salute del
sistema dei pagamenti internazionali. E’ conosciuto
soprattutto per il ruolo che riveste sul mercato dei mutui,
e dei prestiti ad aziende e privati, perché è il principale
parametro di riferimento per i prestiti a tasso variabile,
ma la sua importanza va al di là di questa funzione.
Tecnicamente, il LIBOR è la rilevazione giornaliera del
tasso d’interesse medio a cui le maggiori banche si prestano
denaro fra loro per un determinato periodo di tempo; il
tasso più osservato è quello per i prestiti a a tre mesi. Il
LIBOR a tre mesi in dollari ha toccato giovedì il livello di
0.37188%; per indebitarsi in yen, una banca dovrebbe pagare
il 0.38813% . Si tratta della prima volta dal Maggio 1993 in
cui il LIBOR in dollari è inferiore a quello in yen. L’interpretazione di una parte
degli analisti e della stampa è stata almeno inizialmente
positiva: la discesa dei tassi LIBOR segnalerebbe la fine
dell’emergenza nel mercato monetario ed una normalizzazione dei
flussi di liquidità. La crisi nel mercato interbancario ha
innescato il calo del commercio mondiale e con esso l’inizio
della recessione nei settori economici al di fuori di quello
finanziario. Il ritorno ad un normale funzionamento del mercato
monetario rafforzerebbe le tendenze alla stabilizzazione del
quadro economico che cominciano ad emergere anche negli USA.
D’altro canto, esistono fondati motivi per essere cauti. Il calo
dei tassi può indicare anche una scarsa domanda di credito (un
aspetto della cosiddetta trappola della liquidità): aziende,
consumatori ed investitori non hanno sufficiente fiducia nelle
prospettive economiche per ricominciare ad investire prendendo
denaro a prestito. Ad esempio nell’Eurozona, che ha sperimentato
un’analoga caduta dei tassi interbancari, la domanda di credito
pare tuttora anemica. La strada di fronte agli USA non
è ancora sgombra dal rischio di una deriva giapponese. Per
sedici anni, le autorità monetarie giapponesi hanno mantenuto i
tassi d’interesse vicini allo zero, cercando di stimolare
un’economia messa in ginocchio da una bolla immobiliare generata
dall’assenza di flessibilità del mercato interno e da una
precedente, eccessiva iniezione di liquidità diretta a mantenere
competitivo il cambio. I risultati non sono certo incoraggianti:
l’economia giapponese, pur essendo all’avanguardia in alcuni
settori industriali, è rimasta stagnante per un decennio e
mezzo. Agli stimoli monetari si sono affiancati quindici anni di
pacchetti di stimoli fiscali senza alcun effetto, se non
l’esplosione del debito pubblico. Le riforme necessarie a
liberare il campo e ripartire sono state promesse, ma raramente
portate avanti, in una parodia di altri membri del G7. La
tentazione di rimandare riforme e rigore a tempi migliori ha
portato alla prevalenza di aziende e banche “zombie”: troppo
deboli per prestare denaro od investire, troppo grandi per
essere risanate, troppo protette perché i concorrenti più
efficienti possano scalzarle, anche tali concorrenti vengono
svantaggiati dalla protezione e privati di risorse per
competere, tramite la tassazione ed i prestiti di favore proprio
alle aziende in difficoltà. Il risultato è una nazione di fatto
paralizzata, dove le banche non sono in grado di prestare o non
trovano aziende desiderose di investire. Negli USA, lo stimolo monetario
ha già superato l’esempio nipponico. Per quanto riguarda
l’aspetto fiscale, le previsioni per il deficit pubblico statale
sono preoccupanti e previsioni indipendenti arrivano ad
ipotizzare un totale di 14 triliardi di dollari (pari a circa il
100% del PIL) in 10 anni e un’analisi delle componenti del PIL
evidenzia il rischio di una ricaduta nella recessione, quando
(non se) lo stimolo governativo verrà a cessare. Nel frattempo,
le riforme varate dall’amministrazione Obama sembrano andare
nella direzione di un aumento della regolamentazione di incerta
utilità, di una maggiore ireggimentazione dell’economia, di una
ulteriore cessione di potere a elementi che mirano a conservare
l’esistente più che ad aprire la strada al cambiamento, di un
trattamento a volte punitivo ed arbitrario degli investitori. La
scelta fra le due interpretazioni del movimento dei tassi, a
questo punto, diventa molto meno semplice e molto più rilevante
di una mera curiosità statistica. Fonte
- Macromonitor
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