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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Situazione Macro mondo - Opinioni

Se questa è una ripresa

Situazione Macro mondo - Opinioni

2010: l'economia ricadrà. E petrolio a 15$ nel 2013

G20 e normative post crisi creditizia

Finanza, G20: foto di gruppo per utili idioti

Commodities e Petrolio - Previsioni

Petrolio: picco vicino e senza alternative

Crisi creditizia e cause esogene

L'hi-tech «complice» della crisi

Situazione Macro mondo - Opinioni

Crisi: chi dice "c'é la ripresa" mente

Crisi creditizia - Opinioni

Volcker: «Le banche devono fare solo le banche»

Crisi creditizia e situazione Macro - Opinioni

Il mercato funziona se è accompagnato da buone regole

Storia finanziaria

La Grande Depressione del 1873: tracce sulla spiaggia

Crisi creditizia e stato adeguamenti normativi

Grande finanza e ricatti

Situazione Macro mondo - Opinioni

«Attenti, la recessione può tornare»

Crisi creditizia - Opinioni

Trappola liquidità, alert ennesima bolla

   
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+++  ANSA  +++  01 Settembre 2009 17:22 NEW YORK - Paul Tudor Jones: prematuro parlare di ripresa   +++   03 Settembre 2009 21:24 NEW YORK - Oro: schizza a massimo da sei mesi, sfiora 1000 dlr l'oncia   +++   04 Settembre 2009 14:46 CERNOBBIO - Roubini: «La ripresa è anemica. Ecco come evitare il rischio di ricaduta»   +++   07 Settembre 2009 15:22 BASILEA - TRICHET OTTIMISTA SULLA CRISI: «PEGGIO E' PASSATO MA SERVE CAUTELA»    +++   12 Settembre 2009 17:19 NEW YORK - Fmi: crisi economica mondiale proseguirà, dice Strauss-Kahn   +++   ANSA  +++
 
  Martedì 01 Settembre 2009   Venerdì 04 Settembre 2009   Lunedì 07 Settembre 2009  
       
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  Se questa è una ripresa

01 Settembre 2009 23:55 LUGANO - di Alfonso Tuor

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La crisi non è ancora finita e quindi è troppo presto per interrompere i piani di stimolo fiscale e la politica monetaria espansiva degli ultimi mesi. Questo il verdetto di ministri delle Finanze e banchieri centrali riunitisi a Londra durante lo scorso fine settimana per preparare il vertice del G20 che si terrà a Pittsburgh il 24 e 25 settembre.
Il giudizio è chiaro: vi è un miglioramento della situazione economica (anche abbozzi di ripresa), ma non si sa quanto sia solido e soprattutto quanto sia sostenibile nel tempo. Insomma, permane un forte timore di una nuova caduta in recessione dell’economia mondiale, che addirittura potrebbe diventare una certezza se le banche centrali dovessero cominciare a chiudere i cordoni monetari.

Le conclusioni delle autorità monetarie e politiche appaiono assolutamente condivisibili. Banche centrali e governi sono riusciti ad evitare il peggio, ossia il collasso del sistema bancario. Sono pure riusciti a ripristinare, almeno in parte, il funzionamento del mercato dei capitali e a stabilizzare un’economia che all’inizio dell’anno era in caduta libera. Questi risultati, frutto di eccezionali misure di politica economica, non possono essere confusi con una ripresa economica sana e duratura, anche perché non è stato finora risolto nessuno dei problemi che hanno causato la crisi.

In primo luogo, il sistema bancario non è stato risanato. I titoli tossici detenuti dalle banche sono apparentemente scomparsi nel nulla. In realtà sono ancora nascosti nelle pieghe dei bilanci bancari, ma nessuno ne parla, poiché non provocano più perdite miliardarie a causa del cambiamento delle regole contabili. Le banche centrali hanno inoltre inondato di liquidità il sistema bancario, risolvendo i problemi di rifinanziamento. Dopo aver rischiato il collasso solo pochi mesi fa, gli istituti bancari sembrano ora scoppiare di salute.

Le autorità monetarie e politiche sono perfettamente consapevoli che non è tutto oro quello che luccica e hanno trovato un’intesa per aumentare sensibilmente i requisiti del capitale delle banche e anche la sua qualità, ma sanno che queste proposte non potranno essere adottate immediatamente da un sistema bancario ancora molto fragile. Infatti aumentare la dotazione di capitale non è un’operazione indolore: il Fondo monetario internazionale ha calcolato che le banche americane ed europee dovrebbero attuare aumenti di capitali per 875 miliardi di dollari, se il rapporto minimo tra mezzi propri e quelli di terzi venisse fissato al 4%, e ben 1.700 miliardi di dollari se fosse stabilito al 6%.

Gli altri cambiamenti prospettati comporterebbero ulteriori aumenti di capitale che si aggiungerebbero a quelli dovuti alle perdite «nascoste» che le grandi banche prima o poi dovranno denunciare. È molto probabile che questi principi vengano fatti propri dal G20, ma che la loro entrata in vigore sia rinviata. Da un lato si constata dunque che le banche sono ancora malate; dall’altro si agisce come se i loro problemi fossero invece risolti. In pratica si stanno ripetendo gli errori del Giappone, che negli anni Novanta si rifiutò di prendere atto dei buchi presenti nei bilanci bancari con il risultato che occorse praticamente un decennio per smaltire le perdite nascoste.

In secondo luogo è difficile intravedere miglioramenti in relazione, da un canto, allo scoppio della bolla formatasi nel mercato immobiliare di alcuni Paesi e, d’altro canto, al livello eccessivo di indebitamento delle famiglie. Anzi, il forte aumento della disoccupazione induce a ritenere che non siano stati fatti passi avanti. Ad esempio, negli Stati Uniti non è detto che sia veramente finita la caduta dei prezzi delle case, che sono già scesi in media del 30% rispetto ai massimi, mentre il continuo aumento dei pignoramenti non tocca più solo i subprime, ma anche i migliori debitori, i quali o abbandonano le loro case perché il mutuo ipotecario è nettamente superiore al prezzo di mercato oppure perché hanno perso e non riescono più a pagare le rate del mutuo.

Ma c’è di più. Impressionanti scricchiolii giungono dal commercial real estate (ossia dai prestiti concessi per la costruzione di supermercati, alberghi, edifici per uffici, ecc.). Questo segmento di mercato è stimato attorno ai 7.000 miliardi di dollari (al confronto i subprime sembrano noccioline) e ha caratteristiche particolari: una parte di questi prestiti è stata cartolarizzata (come le carte di credito, i mutui ipotecari, ecc.), ma una parte consistente è ancora a carico delle banche, soprattutto quelle di medie e piccole dimensioni. Non a caso è proprio verso questo tipo di istituti, a rischio di moria, che si stanno ora indirizzando gli aiuti della Federal Reserve.

I vecchi problemi non sono stati risolti. In più se ne sono creati di nuovi. I principali sono due: il forte aumento della disoccupazione e l’esplosione dei disavanzi pubblici. Gli analisti sostengono che non bisogna guardare i dati della disoccupazione, poiché storicamente essa comincia a diminuire solo molto tempo dopo l’avvio di una ripresa. Questa tesi è valida per recessioni tradizionali (e quindi di una durata variabile tra i due e i tre trimestri), ma non per questa crisi.

Infatti se si esclude il crollo dell’occupazione negli Stati Uniti a metà degli anni Settanta, una perdita di posti di lavoro mensile di 216.000 unità, come in agosto, avveniva all’inizio di una recessione e non alla vigilia di una ripresa. Tra l’altro, occorre rammentare che il PIL americano si è contratto nel secondo trimestre anche nei confronti dei primi tre mesi dell’anno. La durata di questa recessione, iniziata nel dicembre 2007, la sua profondità, il forte indebitamento delle famiglie americane, che è ancora superiore al 120% del reddito disponibile, e le perdite dovute al crollo dei prezzi delle case e di quelli delle azioni (che vuol dire anche una perdita dei piani pensionistici) fanno ritenere che l’evoluzione del mercato del lavoro americano sarà questa volta molto rilevante per capire se vi sarà una ripresa dei consumi, che rappresentano il 70% del PIL statunitense.

L’ottimismo che sgorga dall’impressionante rally dei mercati azionari appare scarsamente fondato. Il miglioramento appare dovuto essenzialmente alle misure straordinarie di politica economica adottate dai diversi Paesi e non ad una ripresa dell’attività economica sostenibile e duratura. Queste politiche non possono però protrarsi all’infinito. Ciò induce a ritenere che la fine della crisi sia ancora lontana e che i rischi di ricaduta siano molto alti.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

  2010: l'economia ricadrà. E petrolio a 15$ nel 2013

03 Settembre 2009 23:53 MILANO - di Massimiliano Malandra

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«La crisi è più grave di come la si dipinge. E nonostante i primi sintomi di una ripresa, ben poco in realtà è cambiato negli ultimi mesi». Rimane decisamente pessimista sull’economia mondiale Simon Hunt, uno fra i più noti e rispettati analisti minerari, comparto in cui opera da quasi 50 anni.
Fondatore della società di consulenza Simon Hunt Strategic Services, è stato ribattezzato «Mr. Copper» proprio per la sua profonda esperienza nel settore. A giugno 2008, con metalli e petrolio sui massimi storici aveva pronosticato ai lettori di B&F (vedere Borsa & Finanza n.736 del 21 giugno 2008) che il prezzo del petrolio si sarebbe più che dimezzato entro un anno e che analogo trend avrebbe avuto anche il rame. Allora erano bastati cinque mesi per dargli ragione. Vivendo fra Londra e l’Asia, Hunt ha continuamente sotto gli occhi quello che sta succedendo in giro per il mondo. E, dato che le fluttuazioni dei prezzi delle materie prime dipendono dai trend di domanda e offerta, e, a loro volta, queste componenti dalla congiuntura economica, ecco che il suo è un osservatorio privilegiato da cui scrutare quel che sta succedendo.

Eppure i dati macroeconomici sembrano darle torto Mr. Hunt, visto che si inizia a parlare di ripresa economica...

Vero. Ma, ripeto, ben poco è cambiato realmente. I consumatori del Vecchio Mondo - cioè Europa, Nord America e Giappone - alle prese con i propri debiti sono ai primi stadi del delevereging: in pratica stanno cercando di ricostituire i propri risparmi. Prendiamo il caso degli Stati Uniti: qui la disoccupazione reale è al 16% e il reddito disponibile sta scendendo a tassi che non si vedevano dagli anni ’30. Quindi al banchetto di questa ripresa tanto decantata da banchieri ed economisti vedo una sedia vuota.

Quella del consumatore statunitense?

Esatto. E sono consumi che valgono il 20% del Pil globale. Stiamo parlando cioè di una cifra che è il doppio dell’intera economia giapponese. E da cui dipende in buona misura anche la Cina per le proprie esportazioni.

Ci sono altri fattori che supportano questa tesi così pessimista?

Assolutamente. Si parla tanto di scorte da ricostruire dopo la fase di smaltimento durante la crisi. Certo, vi saranno degli acquisti, ma avverranno in misura modesta, dato che anche le vendite sono crollate. Un caso è quello dei cash for clunkers (gli incentivi alla rottamazione negli Usa terminati nell’ultima settimana, ndr): hanno rilanciato vendite di veicoli ed entusiasmi degli economisti, ma si è trattato sostanzialmente di un’operazione di anticipo dei ricavi. In pratica chi avrebbe dovuto cambiare l’auto l’anno prossimo ha anticipato l’acquisto, ma non è che per questo nel 2010 sostituirà di nuovo il proprio veicolo. Inoltre vedo troppo ottimismo sulla capacità cinese di trainare l’economia globale: mi pare già difficile che riescano a «tirare a campare» loro stessi, ritardando un declino che potrebbe già iniziare il prossimo anno, figuriamoci se salvano il mondo.

Insomma, la ripresa a «V» dell’economia è solo una chimera...

Ma no, la ripresa, pur modesta, c’è. E potrebbe arrivare fino a metà 2010. Ma poi mi attendo una nuova caduta. E arriveremo a un fatto strano sul versante intermarket. La nuova crisi dell’economia sarà accompagnata da tassi di interesse crescenti, dato che i governi saranno obbligati a far fronte all’enorme indebitamento lievitato in questi anni. E così avremo l’asset del reddito fisso che rimpiazzerà le azioni in termini di rendimenti reali più elevati.

In questo scenario come si comporteranno dollaro e commodity?

Negli ultimi anni uno dei trade preferiti dalle grandi case è stato quello di andare long sulle materie prime e short sul dollaro. E ha funzionato molto bene. Ma ora il vento sta girando. Sul lungo termine rimango negativo sul greenback, ma se stringiamo l’orizzonte temporale ai prossimi due anni, personalmente sono rialzista sul dollaro, che sta tornando a emergere come valuta di riferimento.

E per quanto riguarda le commodity?

Le materie di base rimarranno in un ampio trading range compreso fra 3.000 e 6.500 dollari per il rame e fra 35 e 75 dollari per il petrolio. E per la fine dell’anno mi aspetto che i prezzi saranno più vicini alla parte bassa della forchetta che a quella alta.

Ma tutti gli acquisti cinesi di rame di cui tanto si parla e che hanno fatto lievitare i prezzi?

I consumi cinesi, ora, non sono tanto forti quanto si dice. In una lunga visita nel Paese in giugno abbiamo visto come vi siano quasi 1,1 milioni di tonnellate di rame in surplus detenuti al di fuori dei magazzini ufficiali. Si tratta di acquisti fatti dai più diversi speculatori, dagli hedge fund ad altre istituzioni finanziarie; ma anche semplici aziende che non lavorano e non utilizzano il metallo, ma lo hanno comprato come riserva di valore. È una bolla che potrà scoppiare solo quando avremo una nuova caduta dell’economia. Quindi a mio parere verso la fine del prossimo anno.

Nessun dubbio sulla ricaduta quindi?

Direi proprio di no. Ricordiamoci che negli anni ’30 furono registrate ben sei false partenze dell’economia prima di quella «buona». E per il 2013 mi aspetto che il petrolio sia più vicino ai 15 dollari che ai 67 attuali e il rame ai 1.500 piuttosto che ai 6.000 di questi tempi.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

SUPER-ALERT: E' SHORT E ACCUSA GOLDMAN SACHS "SULLA RIPRESA SBAGLIA"

02 Settembre 2009 02:48 NEW YORK - WSI
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Clamorosa lite tra poteri forti. Paul Tudor Jones, miliardario gestore di hedge-funds, spara a zero contro chi dice "la recessione e' finita". "Siamo sulla rampa di un trampolino da salto con gli sci (lo stimolo). Alla fine, c'e' solo il vuoto".
Clamoroso confronto a distanza tra rialzisti e ribassisti all'interno dei "poteri forti" di Wall Street, come mai era accaduto prima. Paul Tudor Jones, il miliardario gestore di hedge-funds, spara ad alzo zero contro due colossi del sistema capitalistico americano e mondiale come Goldman Sachs e Morgan Stanley, accusandoli di aver completamente sbagliato nel dichiarare l'avvio della ripresa economica e la fine della recessione. Lo scrive l'agenzia finanziaria Bloomberg.
Il leggendario investitore (al grande pubblico meno conosciuto di George Soros ma altrettanto abile e ricco) gestore di tre fondi hedge (Tudor Investment Corp., Clarium Capital Management LLC e Horseman Capital Management Ltd.) ha formalizzato di nuovo la sua posizione short - nota da tempo - proprio ieri martedi' 1 settembre, nel giorno in cui gli indici Usa hanno accusato la prima seria correzione da settimane, dopo rialzi per lo S&P500 superiori al 50% dai minimi di marzo e addirittura di +123% per il settore finanziario. La societa' di Tudor Jones gestisce in totale $15 miliardi con strategie macro e opportuniste, che cercano di approfittare dei megascenari tramite trading di azioni, obbligazioni, valute e merci.

"Se anche avessimo una qualche ripresa, non e' sostenibile" ha confermato a Bloomberg Kevin Harrington, managing director di Clarium, nell'ufficio di New York. "Questa, molto probabilmente, e' una recessione simile al trampolino di salto con gli sci: lo stimolo di breve termine dei governi crea l'effetto rampa per l'accelerazione, solo che alla fine ci aspetta un salto nel vuoto e un precipitoso declino". Non esattamente una metafora per vedove ed orfani, per cosi' dire.

"Noi pensiamo che la recessione stia finendo proprio adesso", ha dichiarato pochi giorni fa Abby Joseph Cohen, senior investment strategist di Goldman Sachs, nota per essere stata rialzista e ottimista perfino subito prima del grande crollo di Wall Street dello scorso ottobre che ci ha portati alla Grande Recessione del 2009.

Goldman Sachs prevede una crescita del pil Usa del 2% nel 2010. Invece Tudor, uno dei fondi hedge di Greenwich, in Connecticut controllato da Paul Tudor Jones, ha una strategia a 180 gradi rispetto a quella di Goldman Sachs, Morgan Stanley e di altre 55 economisti e strategist delle maggiori banche americane, il cui consensus indica una crescita media del 2.3% l'anno prossimo, stando a un sondaggio di Bloomberg.

Tudor ha inviato una lettera ai clienti lo scorso 3 agosto in cui si legge che il rialzo di borsa e' stato un "bear-market rally". Forte disoccupazione (fino al 16%, molto di piu' del 9.4% ufficiale, se si considerano gli americani che hanno smesso del tutto di cercare un posto di lavoro perche' non lo trovano), stipendi in calo, possibili ulteriori errori da parte dei governi che non sono andati e non vanno alla radice dei veri problemi, situazione sul mercato del credito identica al passato (centinaia di miliardi di "titoli tossici" ancora nei portafogli delle banche) potrebbero soffocare la ripresa economica nel 2010, si legge nella lettera inviata da Tudor.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

Interpretazioni ottimistiche

Thursday, 3 September, 2009 at 17:11 - by John Christian Falkenberg
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Il caldo fa brutti effetti. Secondo Bloomberg, la Fed starebbe cercando di preparare i mercati alla fine del programma d’acquisto diretto di titoli obbligazionari e di Stato. La ripresa economica sarebbe tale da poter pensare di “gettare le stampelle” fornite ai mercati dalla Banca Centrale.
Leggendo l’articolo, tuttavia, si nota come l’unica discussione tenuta nel meeting di Agosto della Federal Reserve abbia riguardato l’estensione del programma, che dovrebbe terminare a Dicembre, e non una sua interruzione. Il motivo di una proroga sarebbe da ricercarsi nello stato ancora precario del mercato immobiliare. La Fed è stato di gran lunga il maggior acquirente o finanziatore di ABS ed RMBS, fornendo un supporto massiccio al mercato dei mutui immobiliari; lasciare che il programma finisca alla sua data naturale sarebbe, secondo alcuni dei governatori Fed, rischioso.
In conclusione, abbiamo un titolo che dice una cosa ed un articolo che ne dice un’altra, quasi opposta. E poi parlano di mercati poco chiari.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

La curva della ripresa

03-09-09 - Sara Silano
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Tra gli adolescenti uno smile, vale più di mille parole; tra gli economisti lo stesso si può dire per la forma della curva della ripresa. In questo caso scendono in campo le lettere dell’alfabeto (V, W, U, L) che per i non addetti ai lavori non sono di così facile comprensione come le simpatiche faccette che usano i ragazzini nei loro messaggi.

Conoscere il significato di queste lettere, però, aiuta a comprendere la dinamica del ciclo economico e i riflessi che ha sugli investimenti.

La V è lo smile allegro, ossia la ripresa che tutti vorrebbero. Si verifica quando l’economia precipita e tocca un minimo molto basso per poi riprendersi rapidamente, cancellando gran parte o tutte le perdite che gli investitori hanno subito. “Perché un’inversione di questo tipo sia possibile è necessario che le notizie meno negative del secondo trimestre diventino positive nel terzo”, spiega James Levin, editorialista di Morningstar.com (vedi articolo), che aggiunge: “Pensiamo che questo scenario sia improbabile perché la spesa per consumi rimane debole e le famiglie eccessivamente indebitate pagano a caro prezzo la perdita di valore del loro bene più prezioso, ossia la casa”.

La W è lo smile perplesso, perché la ripresa dà l’illusione di essere rapida, ma in realtà l’economia risale solo temporaneamente per poi correggere nuovamente. Solo dopo aver toccato un nuovo minimo riparte con decisione. Per l’investitore, la correzione potrebbe essere un’opportunità per fare buoni acquisti, ma è molto più probabile rimanere incagliati nell’illusione che la prima svolta sia quella definitiva. Una curva di questo tipo non è da escludere nell’attuale situazione, soprattutto se il miglioramento delle condizioni economiche porterà a una revisione delle politiche monetarie espansive attuate dalle banche centrali. Secondo Keith Wade, capo economista di Schroders, i tassi rimarranno bassi almeno fino a quando non ci saranno chiari segnali di ripresa della spesa per consumi. Potrebbero, invece, terminare le misure di quantitative easing (ossia quelle ultra-espansive).

La U è lo smile sorridente che, però, si accontenta di una ripresa che arriva dopo un lungo periodo di ristagno dell’economia. Secondo gli analisti di Morningstar, questo è lo scenario più probabile dal momento che la crisi ha lasciato strascichi pesanti perché è nata da un eccesso di indebitamento che aveva dato l’illusione di una crescita all’infinito del benessere. Oggi, invece, le famiglie, soprattutto quelle americane, devono fare i conti con una forte riduzione dei prezzi delle loro case, la disoccupazione e condizioni creditizie più stringenti. In agosto si sono infittite le buone notizie sul mercato immobiliare, sulle vendite di auto, ma rimane ancora un po’ di strada da fare per restituire fiducia ai consumatori che ora si sentono più poveri rispetto al passato.

La L è lo smile triste, perché significa che l’economia rimane a lungo in stallo, con una bassa crescita del Prodotto interno lordo, un lento aumento dei profitti e dei consumi, un’elevata disoccupazione e un maggior coinvolgimento dei governi. Bill Gross di Pimco, considerato uno dei maggiori gestori mondiali di fondi obbligazionari, ha definito questo scenario come la “nuova normalità”. I segnali di risveglio della congiuntura invitano a un maggior ottimismo, ma è ancora troppo presto per far uscire lo smile dell’arcobaleno che indica la fine della tempesta.
 

Fonte - Morningstar

 

 

 

 

 

  Finanza, G20: foto di gruppo per utili idioti

04 Settembre 2009 00:09 LONDRA - di Mauro Bottarelli

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Il rally sembra davvero finito. Il settore bancario sta trascinando al ribasso le Borse e il dato sulla disoccupazione nel settore privato Usa parla la lingua di una continua contraddizione tra segnali di falsa ripresa e la realtà di un sistema che è ben lungi dall'aver superato le secche in cui è andata a piaggiarsi l'economia reale: i mesi di crescita degli indici, al di là dei volumi ridicoli che da soli avrebbero dovuto far capire quanto fossero artificiali i cosiddetti "green shots", erano nulla più che l'autoinduzione all'ottimismo dettata dai numeri favolosi scodellati da Goldman Sachs e dalla volontà degli hedge funds di speculare – e molto – a breve.
Ancora una volta, dall'Asia all'Europa agli Usa, è stato il settore bancario a segnare le flessioni più marcate, sintomo che qualcosa sta per accadere. E quel qualcosa è il G20 di fine mese a Pittsburgh. Dove, leggendo il Financial Times, si parlerà di taglio dei bonus ai banchieri, di mandatory cap sui salari, di exit strategy dalle politiche di stimolo fiscale dal 2010 in poi e altre inezie di questo genere. La questione è una sola: bisogna scaricare da qualche parte l'immondizia che le banche hanno in corpo. Il problema è dove.

Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale si sono esposti fin troppo, stanno mettendo in circolazione da mesi e mesi liquidità per far ripartire un settore che invece di ripulire gli assets sta tentando di inglobare capitale in riserve e non accenna a voler sbloccare il mercato interbancario e del credito. Se a questo uniamo la bolla delle carte di credito che sta per scoppiare anche in Europa, il quadro diventa davvero fosco.

Occorrerebbe una colossale, davvero a livello planetario, operazione di "mark to market" edulcorata per riuscire prima di tutto a capire la reale entità degli assets tossici e in seconda istanza a dar vita a una bad bank sotto controllo del Fmi per fare in modo che i furbetti della finanza creativa la smettano di comportarsi come hedge funds e tornino a fare il loro lavoro, ovvero risparmio e credito. Non succederà, statene certi.

L'Ecofin brancola nel buio e straparla di nuove legislazioni per evitare che le banche, a livello globale, diventino "too big too fail": il problema è che è inutile e controproducente pensare a come ricostruire la casa se prima non si cerca di spegnere l'incendio in corso. Siamo nei guai e guai seri. Anche perché mentre Europa e Usa si trastullano con queste questioni, la Cina spinge sull’acceleratore dell’autarchia.

Un report della Camera di Commercio Ue a Pechino, infatti, mette in evidenza come fare business in Cina per le industrie europee sia sempre più difficile: aperte violazioni degli obblighi del Wto, regolamentazioni ostruzionistiche valide solo per gli europei, intimidazioni, legislazioni arbitrarie sono solo alcuni degli ostacoli che le aziende europee – dalla chimica alla telefonia al settore bancario – devono affrontare. Questo nonostante l'Europa sia un mercato più importante degli Usa per la Cina in fatto di export, visto che le esportazioni verso l'eurozona rappresentano il 7 per cento del Pil cinese: su 171 nazioni prese in esame riguardo la facilità per gli stranieri di fare business, la Cina è ottantatreesima, peggio del Venezuela di Chavez.

Il mercato dell’auto, tanto di moda in questo momento, è esemplificativo: i cinesi possono comprare ciò che vogliono all'estero, possono operare e acquisire mentre un europeo che va a operare a Pechino deve farlo attraverso una joint-venture e non può avere più di due stabilimenti. Se questo non è dumping non si è ben capito cosa lo sia.

Forse al G20 bisognerebbe parlare, oltre che dell'ipotesi di bad bank globale, anche di questo: perdere tempo con idiozie come Kyoto e le emissioni gassose, quando la Cina sta diventando sempre più verde e sempre meno dipendente dal petrolio, significa davvero suicidarsi. Attività nella quale l'UE è leader da tempo, tra l'altro. Vedremo come andrà a finire ma questo G20, come gli altri appuntamenti globali tra i grandi leader, rischia di trasformarsi nella solita photo opportunità e in accordi bilaterali presi nei corridoi: al di là del fatto che la tecnologia permetterebbe una bella teleconferenza che farebbe risparmiare miliardi, non è più accettabile che gli stati invochino collaborazione e poi pensino soltanto ai loro interessi.

Ovviamente è normale che sia così - business is business - ma di fronte a una crisi del genere o si agisce di concerto oppure i vincitori, ammesso che ce ne siano, festeggeranno sulle rovine. Il vate Roubini, su Cnbc, annunciava che la Cina non trascinerà il mondo fuori dalla recessione: ha ragione, sta infatti lavorando per trascinare fuori solo se stessa e guadagnare la leadership.

L'ostaggio Usa e il suo debito non permettono controffensive troppo brusche verso l'unico mercato abbastanza grande da caricarsi sulle spalle bond statunitensi e mantenere in vita il circolo vizioso del deficit federale ma qualcosa va fatta. In fretta. Altrimenti la fine di questa crisi sarà davvero l'alba di un nuovo ordine mondiale. Di cui possiamo, dobbiamo e vogliamo fare a meno.
 

Fonte - IlSussidiario.net

 

 

 

  Giovedì 10 Settembre 2009   Lunedì 14 Settembre 2009   Mercoledì 16 Settembre 2009  
       
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  Petrolio: picco vicino e senza alternative

04 Settembre 2009 20:00 NEW YORK - di Luca Salvioli

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Il CNR prevede il «peak oil», momento di massima produzione di greggio oltre il quale inizia una inesorabile discesa, per il 2030. Per Aspo Italia si parla invece gia' di 2010. «La crescita infinita non è sostenibilie, dovremo abituarci ad una nuova era».
Il «peak oil», momento di massima produzione di petrolio oltre il quale inizia una inesorabile discesa, è un fantasma di cui si discetta da decenni. Già negli anni Cinquanta il geofisico americano Marion King Hubbert allarmò i petrolieri paventando il raggiungimento del picco, sul continente statunitense, negli anni Settanta. Hubbert indovinò e divenne un punto di riferimento. Vent'anni dopo le grandi crisi petrolifere, Colin Campbell riprese in mano i suoi studi diventando uno dei massimi esperti internazionali. Nel 2001, mettendo insieme diversi scienziati e contributi, fondò Aspo, acronimo di Association for the study of peak oil.

A oltre cinquant'anni dalle prime previsioni di Hubbert il mondo si interroga davvero su come andare oltre quel barile di oro nero che ne accompagna lo sviluppo da 150 anni. Luca Pardi, vicepresidente di Aspo Italia e primo ricercatore dell'Istituto per i processi chimico-fisici del Cnr, prende spunto dall'intervista rilasciata al Sole24ore.com da Claudio Bertoli, direttore del Dipartimento Energia e Trasporti del Cnr, in cui veniva previsto il collasso energetico per il 2065 e il picco del petrolio per il 2030. Pardi contesta sia le previsioni temporali che l'analisi delle soluzioni (il Cnr indicava nella fusione nucleare la maggiore promessa, ndr). «Il metabolismo socio-economico del pianeta dipende dal petrolio - spiega Pardi -. E' la fonte energetica più conveniente, non esiste nulla di paragonabile: è per questo che il momento di picco è un evento critico di dimensioni inaudite. Vediamo una certa semplificazione del problema che rischia di indurre un eccessivo ottimismo nel settore e nei cittadini».

Il Cnr prevede il peak oil per il 2030. Voi?

C'è molta confusione. Nel novembre scorso l'Agenzia internazionale per l'energia (Aie), agenzia intergovernativa dei paesi Ocse, ha presentato, nel suo World energy outlook 2008 (Weo2008) un quadro della situazione e le proiezioni fino al 2030. Ebbene, il picco del petrolio estratto dai giacimenti in attività è già stato raggiunto. Il picco globale potrebbe, secondo l'Aie, essere rimandato a dopo il 2030 solo se si comincerà a produrre petrolio da risorse il cui sviluppo richiederebbe ingenti investimenti: la stima è di ventiseimila miliardi di dollari. Investimenti che, al momento, appaiono fuori dalla portata di qualsiasi compagnia petrolifera pubblica o privata. La produzione globale oggi arriva a 83-85 milioni di barili al giorno. Il livello è lo stesso dal 2004. I modelli secondo noi più attendibili indicano un possibile momento di picco per il 2010.

Quindi l'anno prossimo. Eppure vengono scoperti nuovi giacimenti, come quello di Bp nel Golfo del Messico, definito dalla compagnia «gigantesco»...

Vero, ma il giacimento di Tiber, stando a quanto dice Bp, contiene 3 miliardi di barili che dopo le prime trivellazioni potrebbero arrivare a 6 miliardi. Non è poco, ma nel mondo ne vengono consumati 30 miliardi l'anno. Siamo a un decimo. I giacimenti scoperti negli anni Sessanta, come quello di Ghawar, contenevano 170 miliardi di barili. Dall'inizio degli anni Ottanta consumiamo più di quanto troviamo.

Le nuove tecnologie non possono allontanare la data in cui il petrolio inizierà a diminuire andando a scovarlo in posti un tempo impensabili?

Può incidere ma molto poco. Credo che la nostra previsione sul momento di picco abbia un margine di errore di cinque anni, non venti o trenta.

Passiamo al carbone. Diverse analisi concordano sul fatto che durerà di più.

Sì, ma meno di quanto si pensi: molte delle riserve disponibili non potranno essere sfruttate al 100%. Oltre un certo limite l'estrazione non è più conveniente. Uno studio del 2007 dell'Energy watch group prevede un picco globale del carbone entro la metà del secolo.

Cosa c'è oltre?

Crediamo molto nelle rinnovabili. La critica che viene mossa storicamente a questo tipo di energia è che il suo contributo rimane marginale nella torta complessiva e intermittente (il fotovoltaico non funziona di notte, l'eolico quando non c'è vento, ndr). La crescita degli ultimi anni è stata rilevante in assoluto, meno in relazione al fabbisogno energetico. Guardando avanti bisogna puntare sulle grandi centrali, non solo alla microgenerazione. Arrivare alla produzione di centinaia di Megawatt. Per uscire dalla nicchia. Io stesso sono tra i piccoli investitori del progetto Kitegen per l'eolico d'alta quota che può fornire notevole potenza e risolvere il problema dell'intermittenza, visto che in quota i venti sono più abbondanti.

E il nucleare?

Le tecnologie da fissione nucleare sono affidabili e mature. Il punto è che le circa 450 centrali attualmente in esercizio dipendono per circa il 40% dall'Uranio di riserve strategiche accumulate in passato e certamente finite. Anche qui ci sarà un picco, previsto per metà secolo.


In cinquant'anni potrebbero però vedere la luce le centrali di quarta generazione e quelle a fusione nucleare.

Ha detto bene, "potrebbero". Sono tecnologie estremamente complicate, diffido di appuntamenti così lontani nel tempo.


Anche le vostre previsioni sul picco del carbone e dell'uranio arrivano a metà secolo.

Fare previsioni non è mai semplici. I modelli servono per ragionare con un set di variabili sulle direzioni future, non per indovinare l'anno preciso. Il problema è che le politiche vengono scelte su modelli mentali, mentre quelli di cui parlo sono fisico-matematici. Spesso si fanno paralleli con il passat0, pensando che all'era del petrolio ne seguirà un'altra, fucina di ulteriore sviluppo.

Non è così?

Chi l'ha detto? Io credo che ci sarà un cambio di paradigma. La crescita economica continua ed infinita finirà. Non si tornerà alla stessa abbondanza. Gli ecosistemi terrestri non possono reggere questi ritmi, lo sviluppo ha dei limiti. Dovremo abituarci.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

La "mala storia" della crisi raccontata da Moore

06 Settembre 2009 16:11 VENEZIA - Il sole 24 Ore
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Una rapina in banca, la vita nell'antica Roma e una domanda: cosa diranno le civiltà future, di noi? Comincia così l'ultima attesissima pellicola di Michael Moore dal sarcastico titolo "Capitalism, a love story", presentato ieri sera a Venezia. Perché ovviamente una storia d'amore non è. E perché la critica nei confronti del sistema capitalistico moderno parte da un attacco diretto alle banche. Il cuore del sistema dei profitti per i profitti, secondo Moore, e il centro del problema per un Paese che non è più una democrazia «perché in America il gap tra ricchi e poveri è diventato insostenibile» dice il movie-maker formato gigante.
Si parte dunque da una famiglia di Detroit, sfrattata il 9 febbraio di quest'anno per non esser stata in grado di pagare le rate del mutuo, e si finisce con un nastro adesivo con impressa la scritta «crime scene, do not cross» che circonda una delle maggiori banche americane. Perché se le aziende hanno stipulato assicurazioni sui possibili decessi dei propri dipendenti, e dunque guadagnato anche sulle perdite di giovani impiegati (le famiglie, ovviamente, non hanno visto un soldo) le banche si sono infiltrate nel sistema di governo, hanno condizionato leggi e manovre economiche (una per tutte, quella da 700 miliardi passata praticamente sotto silenzio negli Usa) e dunque vite intere. Togliendo pian piano ai più poveri per dar sempre di più, anche grazie ad un sistema di stock option che ben conosciamo, a pochi importantissimi manager.
Moore intervista uomini di Chiesa, vescovi e preti come Dick Preston che afferma quanto sia sbagliato un sistema che valuta tutto a seconda dei soldi guadagnati. Intervista giornalisti del Wall Street Journal che introducono al tema di «impresa collettiva», in cui il capitale sia diviso tra i dipendenti. Spiega come Bush, coi i suoi proclami del genere post-9/11 «people don't shop» abbia portato tutti ad ipotecare anche il non ipotecabile, ovvero la casa.
Il regista-documentarista arriva anche a mettere in dubbio che la concorrenza non sia di per sé una buona cosa, e sbeffeggia la Mecca del sistema economico mondiale, Wall Street, mostrando come ormai il mondo dei mestieri e delle professioni sia un nulla in confronto a chi gioca e gestisce prodotti, soldi, guadagni. Intervista suo padre, raccontando come sia stato in grado, con un lavoro "normale" alla General Motors, di pagare studi, casa e lunghe vacanze a tutta la famiglia, e far sì che la moglie non lavorasse. «Ora tutto è cambiato, però». E passa a raccontare come professioni come il pilota di aereo siano ormai sottopagate, al confronto di chi si è ben inserito nel mondo del business e delle lobbies. «Non voglio che guida l'aereo in cui sto viaggiando guadagni 17mila dollari l'anno e debba arrotondare facendo il cameriere in un fast food».
Insomma, Moore "Robin Hood", in questa pellicola che è un po' la sua "summa teologica" - la sintesi imperfetta di un pensiero, e di altri lavori come Sicko, Roger and Me e così via, che abbiamo visto nell'arco degli anni - ne ha davvero per tutti. Mezzo milione di posti persi nel 2008: «I politici dicono che il capitalismo sia il miglior sistema possibile perché permette loro di mantenere la leadership. In realtà non sta scritto da nessuna parte che l'America debba avere un sistema economico che cresce con i profitti, nemmeno sulla Costituzione».
"Capitalism" termina, dunque e Moore chiede a tutti di partecipare alla grande riscossa contro le banche. Avesse citato l'economia della felicità o un sistema alternativo rispetto a quello esistente, forse sarebbe stato più credibile. Certamente, propone due ore no-stop di contro-economia, informazione e anche di contro-politica dell'era Bush. L'arrivo di Obama, seppur positivo dal punto di vista del "sentiment", deve averlo fatto piombare in una crisi creativa. Poco citato, l'attuale presidente degli Stati Uniti probabilmente sarà, dal punto di vista dell'aspirazione e della ricerca creativa, il suo maggior ostacolo. Soprattutto se farà, come Moore pure gli augura, gran bene.
 

Fonte - Il sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  L'hi-tech «complice» della crisi

07 Settembre 2009 10:26 MILANO - di Vittorio Carlini

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Sullo schermo del pc scorrono i mutui immobiliari: non più documenti di carta, bensì bit digitali. Dentro, all'interno del computer connesso in rete, il software fa il suo lavoro: confronta la redditività dei prestiti, la maturità dei crediti con l'andamento dei tassi d'interesse o la fiducia dei consumatori. Dal canto suo, il team manager delle cartolarizzazioni discute con i suoi collaboratori per stabilire come impacchettare i mutui, anche subprime: di lì a poco nasce l'Asset backed security (Abs). Un procedimento, mandato a memoria centinaia di migliaia di volte nella grandi banche di Wall Street, che sfrutta, anche e di più, software e sistemi informatici.

Eppure tra i perché del crack finanziario l'innovazione tecnologica si aggira come un fantasma. Una dimenticanza che stupisce. Craig Focardi, esperto del settore della società americana TowerGroup, dice al Sole 24 Ore: «Solamente negli Usa la spesa in tecnologie per il business dei mutui immobiliari supera i 6 miliardi di dollari all'anno. Rispetto alle sole cartolarizzazioni viene sborsato oltre mezzo miliardo di dollari». Soldi spesso usati per sistemi e modelli informatici «che definiscono i prezzi dei portafogli di mutui, gestiscono il rischio e, alla fine, vendono gli asset».

Una situazione, peraltro, non sconosciuta. Già nel 2005, l'allora presidente della Fed Alan Greenspan, affermava: «La tecnologia ha permesso ai creditori di raggiungere fondamentali efficienze (...) per valutare il rischio di credito e prezzarlo (...) Questi miglioramenti hanno permesso una rapida crescita dei prestiti subprime». La stessa agenzia americana Fdic, dodici mesi dopo, faceva da eco: «I progressi tecnologici saranno fondamentali nel mercato delle cartolarizzazioni». Firme automatizzate, «modelli statistici di valutazione delle garanzie - aggiungono gli economisti Mark Doms e John Krainer - hanno trasformato l'industria americana dei prestiti immobiliari». Un business sempre più online («nel 2008 il 15% dei nuovi mutui - dice Focardi- e stato stipulato via web») dove i costi operativi si abbattono e dove i pc e la rete sono essenziali anche per le cartolarizzazioni.

Insomma, non è fantasia dire che l'innovazione sia dietro la crisi. Ma non sotto le sembianze, magari un po' naif, del fisico "genialoide" che inventa l'algoritmo per l'hedge fund di turno. Tutt'altro. Si tratta di una presenza pervasiva, rilevante sotto tre aspetti: i software che immagazzinano miliardi di dati per, poi, valutarli e processarli; la rete (l'hardware) che consente di trasmettere, in pochi centesimi di secondo, in ogni parte del mondo, i prodotti finanziari trasformati in bit digitali; i modelli matematici che sono alla base sia degli stessi software sia delle strategie per usarli.

Per rendersi conto di ciò va ricordato come hanno funzionato proprio le grandi cartolarizzazioni, in particolare dei subprime, negli Usa. La banca scorpora dal bilancio i crediti illiquidi (i mutui), li impacchetta e li vende sul mercato, magari sotto forma di bond, attraverso una società ad hoc: lo Special purpose vehicle (Spv). Nasce così l'Abs. L'obiettivo? Generare liquidità e trasferire, se non disperdere quasi in un gioco delle tre carte, il rischio di credito. Ebbene, già nella scelta e impacchettamento degli asset (spesso migliaia per ogni singola operazione), la banca sfrutta dei «software - spiega Paolo Comuzzi, ceo di Securitization.it - per confrontarli con i criteri di rating delle agenzie» e cercare di avere, per il maggior numero di mutui, il giudizio più alto. È nella fase succcesiva, però, che l'informatica assume maggiore rilievo. Per la banca, spiega un esperto al Sole 24 Ore, è fondamentale avere il giusto equilibrio tra i flussi di cassa generati dai mutui e le cedole dei bond emessi dallo Spv. Un'attività gestita grazie a complessi cash flow model che richiedono l'uso di calcolatori e software.

E non basta. Concluso il primo passaggio, qualche parte dell'Abs può non avere raggiunto il giusto rating. Ecco, allora, la nuova magia: la cartolarizzazione dell'Abs stesso. Ecco, allora, che compaiono nuovi software di calcolo. «A questo livello - afferma Comuzzi - vengono realizzate analisi statistiche complesse» che coinvolgono molte variabili. Giocoforza, i sistemi sono più evoluti. O, almeno, così dovrebbero essere. «E sì, perché -sottolinea Emilio Barucci, professore di finanza quantitativa al Politecnico di Milano -, nella realtà le cose non funzionano in questo modo». Vale a dire? «Simili processi di cartolarizzazione sono stati realizzati su scala industriale, utilizzando sistemi eccessivamente standardizzati, incapaci di cogliere tutte le variabili in gioco. La conseguenza è che si sono creati ulteriori danni».

Ma se questa è la realtà delle cose, perché chi detta le regole per il futuro non sembra occuparsi di questo aspetto della crisi? La risposta è sempre la stessa: la tecnologia è solamente un mezzo. È uno strumento neutro: solo il suo cattivo uso può provocare danni. Questa scuola di pensiero, maggioritaria, al massimo concede «che - come dice Barucci - esista l'idea di un'innovazione onnipotente che possa portare alla deresponsabilizzazione di chi gestisce il business».
Tuttavia c'è anche chi, minoritario, sostiene che proprio perché così pervasiva nella finanza la tecnologia non può considerarsi neutra. Non può essere delegata solo agli uffici di risk management. Le competenze tecnologiche, al contrario, devono diventare pane quotidiano per chi definisce i global standard finanziari e i top manager. Il tema insomma, al di là della neutralità dell'innovazione, è culturale. Secondo Alfonso Fugetta, esperto di tecnologie e presidente del Cefriel: «La potenza dei sistemi di calcolo, l'interconnessione e la capacità istantanea di trasmissioni dati sono aumentate in maniera esponenziale. Fino a quando questi sistemi - dice- rispondono direttamente all'uomo i problemi sono minori. Ma quando sono retroazionati, cioè si muovono automaticamente su regole prefissate, che a posteriori possono anche rivelarsi errate, nascono i problemi. La competenza è quindi essenziale». Vale a dire? «Nelle aziende, comprese le banche, l'It non può stare da una parte e la gestione del business dall'altra. È necessario l'incontro tra le diverse competenze. È fondamentale il salto culturale». Intanto, le stringhe di software continuano a cartolarizzare.
 

Fonte - Il Sole 24 ore

 

 

 

  Crisi: chi dice "c'é la ripresa" mente

07 Settembre 2009 03:50 LONDRA - di Mauro Bottarelli

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L’Ocse ci informa che la recessione potrebbe finire prima del previsto, anche se la ripresa sarà lenta. Bene. Peccato che dai mercati arrivino segnali un tantino più preoccupanti. L’oro, bene rifugio che tesaurizza le aspettative di crisi, ieri ha registrato un aumento del 2,3 per cento toccando il picco massimo dal 18 marzo scorso a quota 984,30 dollari l’oncia e gli analisti parlano a chiare lettere del fatto che l’instabilità che colpirà i mercati e la debolezza del dollaro potrebbero portare entro l’anno il metallo prezioso a toccare quota 1000 dollari l’oncia.

Come leggere, poi, le parole del segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, che alla vigilia del G20 ha detto a chiare lettere che è troppo presto per bloccare le politiche di stimolo fiscale da parte dei governi se non come un segnale di tensione per i mesi a venire? Ma per capire quanto la crisi sia profonda negli Usa non serve ricorrere ai dati sulla disoccupazione già citati nei giorni scorsi, basta pensare allo stillicidio di piccole banche che sta colpendo il paese profondo, l’America reale e non quella di Wall Street.

A meno che non vengano modificate anche le regole contabili sui crediti non performing, che prevedono la cancellazione dei crediti dopo pochi mesi di morosità, non vi è infatti dubbio che molte delle 416 banche in difficoltà presenti nella lista della Federal Deposit Insurance Corporation andranno presto a fare compagnia alle 84 banche già chiuse d’autorità dall’inizio di quest’anno, un numero che è secondo solo a quello del 1992, quando la crisi sistemica delle Saving & Loans toccò il suo massimo.

Anche in Gran Bretagna si corre ai ripari, visto che la Fsa - l’ente di controllo della City - ha richiesto e ottenuto dalla semi-privatizzata Lloyds Tsb i piani riguardo l’aumento di capitale senza ulteriori iniezioni di denaro pubblico: è in corso uno stress test che ci dirà se la disgraziata banca sarà in grado di claudicare con la sua unica gamba, l’altra è resa inutilizzabile dal macigno rappresentato dall’inglobata Hbos oppure se lo Stato - cioè i contribuenti - dovranno ancora mettere mano al portafoglio, scelta che la Bank of England ha già giudicato pericolosa per quanto riguarda il debito pubblico.

C’è poi il problema globale legato all’eurozona: il Fondo Monetario Internazionale ha stimato infatti che le istituzioni finanziarie Ue hanno scaricato solo il 20% dei 900 miliardi di debiti tossici che hanno in pancia e devono ottenere almeno 375 miliardi di capitale fresco rispetto ai 275 delle banche Usa. Gli esperti della Bce, d’altronde, hanno parlato chiaro: ci sono almeno altri 203 miliardi di euro di svalutazioni da fare entro l’anno nei bilanci delle banche Ue e questo nonostante proprio la Banca centrale europea abbia recentemente iniettato la cifra monstre di 442 miliardi di euro nel sistema per rilanciare il credito.

Con uno sfondo simile appare chiaro a tutti che le sorti di stabilità politica della Germania, alle prese con le prossime elezioni, sono qualcosa che trascende il mero dato di politica interna: il piano della bad bank statale voluto dalla Merkel, piaccia o meno la possibilità di scaricare gli assets su un piano ventennale di fatto off-balance sheets, appare fondamentale per poter uscire dalla situazione di emergenza latente che quella bomba bancaria rappresenta per l’economia.

Un governo instabile, diviso, incapace di una maggioranza che possa lavorare speditamente a un piano di intervento - con magari la Linke pronta a sfruttare la situazione con entrate populiste a gamba tesa contro i "ricchi" - sarebbe una sciagura. Occorre sperare in una coalizione che vede insieme Cdu e Liberali, magari con l’appoggio dei Verdi, che si muova senza indulgere in troppe discussioni verso un enorme stress test bancario e verso la creazione dell’entità in cui scaricare a un valore di mark-to-market molto ritoccato tutte le tossicità che ancora inquinano i bilanci bancari. D’altronde è l’Ue a chiederlo, anche se in Italia l’Abi ha già detto no definendo questa operazione di trasparenza "troppo intrusiva".

Da giorni, anzi settimane, parlo della Cina come grande player che attende al varco gli ulteriori errori strategici di Europa e Usa per guadagnare terreno e ruolo egemonico dopo aver chiuso accordi per indicizzare gli scambi con tutti i paesi dell’Asia in yuang e non in dollari e aver fatto partire la rivoluzione verde per non essere più ostaggio del petrolio. Il fatto che i mercati europei abbiano conosciuto un piccolo "rimbalzo del gatto morto" è proprio perché in Cina la Borsa aveva chiuso su di quasi il 5 per cento: chi sa investe dove si deve investire, la crisi sta creando enormi possibilità di sviluppo e crescita se si sanno leggere gli indicatori.

Il fatto poi che Pechino abbia pressoché raddoppiato le riserve monetarie rende tutto più semplice, non avendo competitori ma bensì camerieri come l’Europa o clienti fedeli come gli Usa del debito monstre. Si continua a parlare, si chiacchiera di tagli ai bonus dei manager ma nessuno sembra voler guardare davvero in faccia la realtà e i problemi che devono essere affrontati da subito. Il tempo passa e la situazione si complica sempre di più.
 

Fonte - IlSussidiario.net

 

 

 

 

 

Obama elettrizza il Congresso sulla sanità: «Il traguardo è vicino»

10 Settembre 2009 08:34 - Il Sole 24 Ore
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NEW YORK – Ispirato, mostrando la grinta del leader a chi lo accusava di essere troppo blando, Barack Obama ha chiesto ieri notte al Congresso e all'America di seguirlo lungo la strada di una storica riforma sanitaria: «Non sono il primo presidente che si fa carico della riforma sanitaria, ma sono determinato a essere l'ultimo – ha detto Obama parlando al Congresso riunito in sessione plenaria - in questa sala c'è un accordo sull'80% di quel che dobbiamo fare, il traguardo della riforma è più vicino che mai».
In effetti alla Camera, dove erano schierati anche i senatori di ambo i partiti e molti ministri fra cui Hillary Clinton, che 16 anni fa cercò a sua volta di far passare senza successo una riforma sanitaria, si respirava l'atmosfera dell'occasione storica. Il Presidente ha parlato per oltre un'ora, scoppiettante, preoccupato, severo, incoraggiante, sfoderando tutte le migliori armi della retorica obamiama. In galleria, di fianco a Michelle Obama c'era la moglie di Ted Kennedy, Vicky, commossa fino alle lacrime quando il Presidente ha rivelato di aver ricevuto una lettera del Senatore che più di ogni altro politico ha dedicato energie alla riforma sanitaria: «Un accesso alla sanità per tutti è prima di tutto una questione morale, in gioco non vi sono soltanto i dettagli della politica, ma principi fondamentali di giustizia sociale e il carattere della nostra Nazione». In sala c'erano anche i figli di Ted Kennedy, Patrick deputato del Rhode Island e Edward, che fu malato di cancro osseo: «Ted Kennedy ha sofferto le pene di un genitore con un figlio gravamente malato. Sono le pene di tutti. E non è giusto, diceva, che alcuni siano costretti a rinunciare alle cure mediche, non è giusto guardare dall'altra parte, non è nella natura del nostro Paese...».
E' stato in quel momento, ormai verso la fine del discorso, che la sala è rimasta in un silenzio profondo, maggioranza e opposizione ad ascoltare il Presidente che scandiva con tono grave e serio le sue parole e il suo appello a ritrovare il carattere che, nella storia, ha formato gli Stati Uniti d'America. Il suo appello a compiere con coraggio un balzo nel futuro »come è nostro dovere fare e come vogliono coloro che ci hanno eletto».
Obama non si è limitato alla retorica. Ha ammesso che il dibattito si è fatto aspro, con toni troppo spesso al di fuori di un dialogo civile. Ha ammesso che nel tempo si è creata confusione e sospetto attorno a un'idea che può solo servire l'interesse della Nazione: «Abbiamo assistito allo stesso spettacolo partigiano che rafforza il disprezzo di molti americani nei confronti del governo. Invece di un onesto dibattito, abbiamo visto le tattiche della paura. E nella bufera di accuse e controaccuse, ha regnato la confusione».
Per questo, e per fare chiarezza, Obama ha proposto a sua volta un progetto molto dettagliato enunciando tre obiettivi: più sicurezza e stabilità per coloro che già hanno l'assicurazione sanitaria; assistenza a chi non ce l'ha; ridurre l'aumento dei costi sanitari per le famiglie, le aziende e il governo. Obama ha anche stimato il costo del suo piano, circa 900 miliardi di dollari in dieci anni, «meno di quello che abbiamo speso finora per le nostre guerre in Afghanistan e in Iraq». Dei tre obiettivi enunciati, il primo è stato il più importante. Obama ha voluto rassicurare i 180 milioni di americani che hanno già l'assicurazione che non la perderanno, che nulla nella loro vita cambierà: «Voglio essere chiaro: nessuno sarà obbligato a cambiare la propria assicurazione medica. Ma tutti, ripeto tutti potranno avere un servizio migliore». Obama infatti ha annunciato che secondo il suo piano diventerà illegale per le assicurazioni americane interrompere cure per malattie terminali, non rinnovare o onorare polizze con la scusa che la malattia era preesistente, un rischio al quale oggi sono esposti anche coloro che sono assicurati. E in un momento di incertezza economica per il Paese, con un tasso di disoccupazione in crescita, Obama ha promesso che anche chi perderà il posto di lavoro avrà il diritto a mantenere l'assicurazione: «non è da paese avanzato costringere una famiglia alla bancarotta prima di offrigli aiuto... creeremo un pool di assicurazioni da cui si potranno sottoscrivere delle polizze a buon mercato...».
Il Presidente ha anche teso la mano ai repubblicani introducendo, la prima volta per un democratico, un progetto per limitare le cause contro i dottori, seguendo la falsariga di un progetto che aveva annunciato il suo concorrente alle elezioni, il Senatore John McCain, che ha identificato e salutato nel pubblico. Ha elogiato lo sforzo di un suo compagno di partito, il Senatore Max Baucus del Montana, che ha presentato a sua volta un piano appena leggermente diverso dal suo. Infine ha riaffermato il suo desiderio di offrire un piano di sottoscrizione di polizze sanitarie gestite direttamente dallo stato: «Saranno solo il 5% delle polizze totali, ma consentiranno di aiutare chi ne ha bisogno». Allo stesso tempo ha fatto capire che quel 5% del suo progetto non diventerà un ostacolo per trovare un compromesso e far passare misure che potranno comunque essere rivoluzionarie: «Sono pronto – ha detto ancora – a recepire le idee di tutti».
Il presidente ha dato un ampio respiro storico al suo discorso, ricordando come negli anni Trenta, quando sono state introdotte le pensioni statali, c'erano moltitudini di persone che gridavano al socialismo. E quando negli anni Sessanta è stata introdotta per la prima volta l'assistenza sanitaria per gli anziani, di nuovo in molti dicevano che lo stato avrebbe preso il controllo della sanità': «eppure oggi, nessuno, dico nessuno si sogna di dire che questi due programmi possano essere annullati... Il tempo delle polemiche è finito. Il tempo dei giochi è tramontato. Il momento di unire le migliori idee di entrambi i partiti è ora, per dimostrare agli americani che possiamo ancora fare ciò che siamo stati eletti per fare. Adesso è il momento di ottenere risultati sulla sanità», ha detto ancora Obama.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Il Senatore repubblicano Charles Grassley, dell'Iowa, ha chiesto a Obama «di costruire un consenso che possa ottenere l'appoggio di 70-80 senatori...un progetto che non avrà successo se ci sarà un piano governativo". L'unico momento di un certo imbarazzo c'è stato quando Obama ha promesso di non usare fondi pubblici per l'aborto e di non voler includere nel programma sanitario gli immigrati illegali. «Sei un bugiardo» gli ha urlato Joe Wilson, un deputato della Carolina del Sud. Poi, a dicorso ultimato, il deputato si è scusato. E ha ammesso che aveva superato i confini della civiltà nel dibattito politico.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

USA 9/11: OBAMA, DIFENDERO' L'AMERICA

11 Settembre 2009 20:39 NEW YORK - La Repubblica
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Il presidente al Pentagono per commemorare le vittime. A Ground Zero il sindaco di New York e il vicepresidente Biden. Cnn: la guardia costiera di Washington spara su una barca "sospetta" sul Potomac. Ma l'Fbi smentisce: "Era un'esercitazione".
Non dimenticare. Sembra questo l'imperativo nell'anniversario dell'11 settembre. E coniugare il ricordo con la svolta rappresentata dall'elezione di Obama. Per l'ottava volta New York e gli Stati Uniti si sono stretti nuovamente nel ricordo delle vittime. Ma la voglia di andare avanti è forte.

Il presidente Obama usa parole nette per assicurare agli americani che l'impegno non è scemato: "Difenderò l'America, nessuna esitazione contro Al Qaeda". La routine del cerimoniale è la stessa degli ultimi anni. A New York questa notte si sono accesi i grandi fari azzurri puntati al cielo, per disegnare sulla skyline della città il profilo delle torri gemelle abbattute dai kamikaze. E questa mattina, a Ground Zero, nella consueta cerimonia in memoria delle 2.752 vittime, sono stati posati dei fiori nelle due vasche quadrate, il simbolo delle torri. La cerimonia, alla presenza del vice presidente americano Joe Biden e dal sindaco della città Michael Bloomberg, è stata punteggiata da quattro momenti di silenzio, scanditi dal suono di campane per ricordare i momenti dell'impatto dei due aerei dirottati e il momento in cui gli edifici sono crollati.

Le parole di Obama. Il presidente Barack Obama, con la moglie Michelle al Pentagono, ha ricordato con un minuto di silenzio le vittime dell'impatto del terzo dei quattro aerei dirottati da Al Qaeda. E poi un breve discorso: "Gli anni che passano non diminuiscono la pena. Per la difesa della nostra nazione non avremo esitazioni nel perseguire Al-Qaeda e i suoi alleati estremisti". In contemporanea a Ground Zero, la lettura dei nomi delle 2,752 persone uccise nell'attentato. La quarta cerimonia ufficiale è invece in Pennsylvania, dove si schiantò il quarto aereo, dopo una rivolta dei passeggeri contro i dirottatori. Il jet era diretto contro la Casa Bianca.

Il giallo degli spari sul Potomac. Proprio in contemporanea con l'orario fissato per le commemorazioni (le 15, come 8 anni fa), a Washington si è diffuso l'allarme per la notizia, riportata da Cnn, che la Guardia costiera aveva sparato contro una imbarcazione sospetta. Nell'audio diffuso dalla Cnn si sentono le autorità marittime intimare alla barca di rallentare, "altrimenti spariamo". Poi, riferisce la tv, "sono state sparate almeno dieci raffiche. Una misura senza precedenti" motivata, spiegano i giornalisti, "dalla delicatezza dell'anniversario". Più tardi l'Fbi ha riportato la smentita della Guardia costiera, che nega di aver sparato su alcuna imbarcazione e sostiene che si trattasse di una "esercitazione". La Cnn commenta: "Abbiamo le registrazioni delle conversazioni tra polizia e guardia costiera e la polizia non sembrava sapere che si trattasse di un'esercitazione. Quel che sappiamo è che quando il presidente è in giro c'è un sacco di gente armata e nervosa. Cos'altro e chi altro non sapeva?".

Le polemiche. A New York tuttavia l'attenzione è soprattutto per i ritardi nei lavori di ricostruzione a Ground Zero. I cinque grattacieli che avrebbero dovuto prendere il posto del Wtc ancora non ci sono, e del più importante, la Freedom Tower, si comincia a vedere lo scheletro d'acciaio dei primi piani, ma servono gli occhi del direttore dell'autorità portuale di New York e New Jersey Chris Ward per vedere "un senso di rinascita". Per tutti gli altri newyorchesi Ground Zero sembra congelata nel tempo, e i mille operai al lavoro nel cantiere.

Un sondaggio della Quinnipiac University condotto il mese scorso suggerisce che più della metà dei newyorchesi è convinta che la ricostruzione proceda male. Il sessanta per cento non crede che la Freedom Tower, alta 1.776 Piedi in memoria delle 1.776 Vittime del Wtc, sarà costruita entro i termini previsti.
Garbugli politici, complicazioni nella realizzazione e la recessione economica hanno allungato i tempi e gonfiato i costi.

"Ricordando un futuro di cui molti hanno (ancora) paura", è il titolo del New York Times, secondo il quale all'indomani degli attacchi dell'11 settembre, molti newyorkesi vedevano un futuro cupo, che non è ancora stato superato. Per il Washington Post, invece, gli attentati "sono un ricordo troppo lontano per i teenagers", otto anni dopo, sono già diventati pagine dei libri di storia, per una generazione troppo giovane per ricordarsene.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

  Volcker: «Le banche devono fare solo le banche»

11 Settembre 2009 08:13 MILANO - di Claudio Gatti

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Paul Volcker può essere definito un gigante dell'economia. Nel senso letterale e non della parola. Per la sua altezza: più di due metri. E per la stima che si ha di lui. In un'intervista concessa nel maggio scorso al New York Times, il presidente Barack Obama non ha usato mezze parole: "una persona che ha grande influenza su di me è Paul Volcker".
Sono esattamente 40 anni che Volcker ha modo di influenzare le scelte economico-finanziarie di chi governa a Washington. Prima come sottosegretario al Tesoro poi come presidente della Federal Reserve Bank. Nel 1987, Ronald Reagan non gli rinnovò il mandato al vertice della banca centrale americana. La decisione fu successivamente spiegata in questo modo dal premio Nobel per l'economia Paul Joseph Stiglitz: "perché l'amministrazione Reagan non pensava fosse disposto a deregolamentare a sufficienza".
Visti i danni della deregulation, le sue opinioni sono più che apprezzate che mai. Tant'è che è stato autore/supervisore del rapporto sulla riforma dei sistemi regolatori completato nel gennaio scorso dal cosiddetto Gruppo dei Trenta. Nonostante i suoi 82 anni, Barack Obama lo ha anche scelto per dirigere il President's Economic Recovery Advisory Board, un gruppo di consulenti che consiglia la Casa Bianca sul tema della ripresa economica.
Alla vigilia del primo anniversario della bancarotta di Lehman Brothers, e cioè del culmine della crisi finanziaria internazionale, Il Sole 24 Ore gli ha chiesto un incontro per un'intervista a 360 gradi.

Cominciamo con la sua decisione, nel gennaio 2008, di dichiarare pubblicamente il suo sostegno all'allora candidato Barack Obama. Era la prima volta che lo faceva?
Prima di lui l'ho fatto solo con Bill Bradley, l'ex cestista che nel 2000 si è candidato alla presidenza.

Sia Bradley che Obama sono democratici, lei come si definisce politicamente?
Quando ho cominciato a votare mi ritenevo un repubblicano. Ho cominciato a votare per il partito democratico con Adlai Stevenson. Poi ho sostenuto Kennedy. Una volta andato alla Federal Reserve ho però deciso di non voler essere associato ad alcun partito. E comunque avevo capito che uno valeva l'altro! Da allora sono un indipendente. Non sono iscritto a nessuno dei due partiti.

Che cosa l'ha spinta a sostenere Barack Obama?
Pensavo che gli Stati Uniti non stessero andando nella direzione giusta e che in politica l'asprezza e le posizioni per partito preso stavano avendo la meglio. Condividevo il suo desiderio di riunificare il paese e le sue idee sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

Si ricorda del vostro primo contatto dopo la sua dichiarazione di supporto?
Era un sabato, o una domenica – un giorno del weekend – e ricevetti una telefonata a casa. Presi il telefono e sentii: "Sono Barack". Io lì per lì pensai fosse una scherzo. "Ma che stai a dire! Altro che Barack, chi sei?' risposi. Ma era lui.

Che cosa l'ha colpita di più di lui?
E' sempre straordinariamente preparato e ben informato. Almeno sui soggetti di cui mi occupo io.

Nell'intervista al New York Times del maggio scorso Obama ha detto che lei gli ha dato "consigli enormi". Mi può fare un esempio di uno di quegli "enormi consigli"?
Non so se la citazione sia accurata. Mi pare sia eccessiva. Abbiamo avuto vari incontri, e io non ho mancato di esprimere le mie opinioni, in particolare sul tema delle riforme finanziarie... non che l'amministrazione le abbia seguite tutte!

Recentemente il Wall Street Journal ha scritto che Obama è un "micro-manager", a volte troppo focalizzato su dettagli insignificanti. Le è parso anche a lei?
Per quello che ho potuto vedere io, non direi sia un micro-manager. Mi pare piuttosto che abbia attorno a sé un team di persone responsabili che hanno la libertà di manovra per implementare le sue politiche.

Che tipo di lavoro ha fatto finora per il presidente o l'amministrazione?
Quello che faccio è limitato. Ma ho un interesse particolare per il tema della riforma del sistema regolatorio e ho ruolo attivo in quel dibattito. Ho presentato le mie idee al presidente e ai suoi consiglieri economici.
Quando è l'ultima volta che ha parlato con il presidente?
Qualche settimana fa.

Parlando dell'economia: teme un ritorno dell'inflazione?
La preoccupazione di un ritorno dell'inflazione ce l'ho sempre. Penso sia una minaccia imminente? No. Con così tanta disoccupazione e l'economia mondiale così moscia non direi. Ma mi preoccupa sentire la gente dire che è meglio un po' di inflazione di molta disoccupazione. Neppure io voglio la disoccupazione, ma non bisogna sottovalutare il rischio dell'inflazione. Abbiamo un deficit gigantesco e la Federal Reserve ha messo in campo una quantità enorme di liquidità. Per ora possiamo assorbirla, ma potrebbe essere un problema quando l'economia americana e quella mondiale ricominceranno a crescere.


Alcuni pensano che l'inflazione sia l'unica soluzione al debito crescente?
Lo so. Ma io non sono tra questi.

Che pensa del deficit del budget federale?
E' senza precedenti. Ma per il momento non penso sia un problema. E' stato di aiuto nel moderare la caduta dell'economia, anche se uscirne sarà dura.

Nel lungo termine, il deficit è una minaccia?
Se non gli si farà fronte potrebbe alimentare l'inflazione, ridurre la vitalità dell'economia e creare problemi con il ruolo del dollaro nel mondo. Ma l'obbiettivo è di riportarlo sotto controllo.


Che pensa del ruolo del governo nell'industria automobilistica e nella Gm in particolare? C'è chi dice che il governo non dovrebbe entrare in una casa automobilistica.
Lo penso anch'io. E spero che il governo ne possa uscire il più rapidamente possibile. Detto questo, io stesso ho partecipato al salvataggio della Chrysler negli anni '70. Fu più semplice di questo, e finì bene. Il governo assunse dei rischi, ma recuperò i suoi soldi e la Chrysler si riprese. Almeno per alcuni anni. Il che ha creato un precedente negativo. Perché il governo non dovrebbe produrre automobili.

Sta dicendo che l'amministrazione non avrebbe dovuto intervenire per salvare Gm dalla bancarotta?
No. Date le circostanze esistenti...

... lei avrebbe dato la sua benedizione?
Sì. Viste le condizioni, l'assistenza del governo non era inappropriata.

Alcuni pensano che se non si fosse lasciata fallire la Lehman l'intensità della crisi successiva non sarebbe stata la stessa.
Non si può sapere. Se la Lehman fosse stata salvata sono sicuro che il mercato avrebbe cominciato a speculare contro Morgan Stanley o Goldman Sachs e penso che si sarebbero comunque avute ripercussioni. Se sarebbero state altrettanto gravi e improvvise non si può dire. Forse no. Forse sarebbe stato un processo meno violento.

Quindi non pensa sia stato un errore?
Penso che ci sarebbero state difficoltà anche se la si fosse salvata.


C'è un famoso detto del capo gabinetto di Obama, Rahm Emanuel: "non si devono mai sprecare le opportunità offerte da una crisi".. L'ex Segretario del Tesoro Nicholas Brady ha dichiarato che l'amministrazione Obama ha però sprecato l'opportunità di ridisegnare il sistema di regolamentazione finanziaria. Che ne pensa?
Non è finita, anche se c'è effettivamente il rischio che non si producano le riforme e le regole augurabili. E' troppo presto per dare un giudizio, ma mi preoccupo, quello sì, perchè penso che un sacco di gente a Wall Street farà presto a tornare alle vecchie abitudini e dire: il passato è passato, è ora di far ricominciare la musica. Sono preoccupato, ma la partita non è chiusa.


La reazione di Wall Street alle riforme volute dal presidente Franklin Delano Roosevelt fu violenta. Le riforme di Barack Obama non hanno invece provocato forti reazioni, il che ha portato alcuni a ritenere che non siano sufficientemente radicali o efficaci.
Nonostante la mia bella età, non sono così vecchio da ricordare la reazione alle riforme di Rooselvelt! Scherzi a parte, penso che rispetto ad allora la gente fosse più preparata e si aspettasse molto e perciò, quando il Tesoro ha annunciato le sue proposte, non c'è stata sorpresa. Comunque, ripeto, mi preoccupa il fatto che lo sforzo di riforma non venga portato avanti fino in fondo.

Pensa che ci sia un modo per rendere improbabile una nuova tempesta finanziaria?
Dobbiamo cercare di renderla improbabile. Bisogna vedere se ci riusciamo.

Quali sono le sue proposte principali in materia di riforma del quadro regolatorio?
Io penso che si debbano trattare le banche in modo diverso dalle altre istituzioni finanziarie. E che si debbano limitare le loro attività. Per essere più specifici: le banche non dovrebbero essere proprietarie di hedge fund o di fondi di equity e le loro attività di trading dovrebbero essere circoscritte. Un'istituzione che produce il grosso del suo reddito con il trading non dovrebbe avere una licenza bancaria. Se vuole fare trading va bene, ma non come banca. Perché le banche hanno protezioni particolari che non si devono estendere a tutti.


Quali sono gli ostacoli?
C'è un sacco di gente che fa enormi quantità di soldi in finanza e vuole continuare a farlo.

Che pensa di imporre dei tetti ai compensi di banchieri e finanzieri?
Che troverebbero i modi di circonvenirle. Lo vediamo già adesso: è osceno quello che guadagnano.

Uno dei problemi emersi con la crisi è stato quello delle agenzia di rating creditizio, in particolare il fatto che sono pagate dagli stessi soggetti che ricevono il loro rating. Un editorialista del New York Times ha scritto che è come se gli studi cinematografici pagassero i critici cinematografici per le loro recensioni.
Le agenzie hanno certamente contribuito al fallimento del sistema. E non ho ancora visto alcun piano per riformarle. Il problema è che nessuno ha trovato un altro modo economicamente sostenibile per pagare il loro lavoro. Anche il fatto che ci sia un oligopolio è un problema. Una possibile soluzione potrebbe essere quello di de-monopolizzare il settore. Forse dovrebbero essercene molte di più, con alcune specializzate in specifiche industrie. E potrebbero essere pagate dagli investitori.


Pensa che Wall Street e le istituzioni finanziarie in generale abbiano un'influenza politica sproporzionata?
Non sono le uniche. L'influenza dei soldi e delle lobby su Washington è diventata sempre maggiore e ha raggiunto un livello vergognoso. Per non parlare del fatto che, poiché al Tesoro molte nomine ancora non sono state confermate dal Congresso, Geithenr sta lì circondato di consulenti privati. A otto mesi dall'arrivo della nuova amministrazione, il Tesoro non ha ancora un suo staff di funzionari confermati. E questo solleva la questione dell'utilizzo di consiglieri informali che vengono da Wall Street. Non dovrebbe succedere.

Che pensa del team di economisti scelti da Obama?
Non ho problemi con il team. Ma con il fatto che non opera ancora con il necessario complemento di uno staff al completo.

E' un problema di questa amministrazione?
É un problema che si trascina da tempo e continua a peggiorare. Nella prima amministrazione di Nixon, ricordo che io ero già nel mio ufficio di sottosegretario al Tesoro due settimane dopo il giorno dell'inaugurazione. Oggi sono passati otto mesi e ancora non c'è il sottosegretario per gli affari internazionali. E siamo all'indomani di una crisi finanziaria!

Che cosa pensa finora della performance dell'amministrazione?
Hanno dovuto affrontare una crisi e hanno risposto in modo non ortodosso. E si può dire che l'intero sistema finanziario sia stato salvato dall'intervento governativo. Ma personalmente non penso che sarebbe mai dovuto accadere ciò che è accaduto. Il sistema finanziario avrebbe dovuto reggere da solo.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

  Mercoledì 16 Settembre 2009   Venerdì 18 Settembre 2009   Domenica 20 Settembre 2009  
       
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  Il mercato funziona se è accompagnato da buone regole

14 Settembre 2009 09:39 MILANO - di Armando Massarenti

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Amartya Sen, premio Nobel per l'economia nel '98, è stato chiamato dal presidente francese Nicolas Sarkozy a presiedere, insieme all'altro Nobel, l'ameericano Stiglitz, e al francese Fitoussi, la commissione su performance economica e progresso sociale che lunedì 14 settembre ha presentato il suo rapporto in cui si sottolinea che tra gli indici di sviluppo è necessario comprendere anche quelli sul benessere percepito dalla popolazione. In questa intervista il Nobel per l'economia mette in evidenza come «la lezione» della crisi «è che il nostro sistema economico funziona se è ben accompagnato».
Professor Sen, a che cosa attribuisce la crisi economica che ha travolto il mondo dallo scorso autunno, e che ora sembra dare qualche segnale del suo esaurirsi? Quali lezioni ne possiamo trarre per il futuro, in maniera da non riptere gli stessi errori?
Ogni evento di tale portata ha più di una causa, ma per trarne lezioni per il futuro, è importante vedere che dietro questa crisi economica ci sono decenni di politiche fondate su un pensiero economico confuso. Dalla fine della seconda guerra mondiale, l'economia globale è progredita a ritmo abbastanza costante, e rapido, basandosi su una sorta di equilibrio dei mercati e degli interventi dello stato nei paesi occidentali. In quel periodo, si confidava nei mercati, che sono il motore della crescita, ma anche nella supervisione di molte loro attività - dal credito alle assicurazioni e alle transazioni finanziarie – e in un sistema statale di sicurezza economica e sociale che alleviava la povertà, con sussidi di disoccupazione, pensioni e così via, compresa – in Europa – una sanità pubblica accessibile a tutti. Sotto questi aspetti, gli Stati Uniti erano rimasti indietro: Medicare, per esempio, garantisce solo una copertura selettiva, non universale. In compenso, regolavano con fermezza il credito, le assicurazioni e la finanza, ed erogavano alcune forme di previdenza.
Poi che cos'è successo?
Che a partire dall'era Reagan, è riecheggiato in ogni settore un appello a un capitalismo meno imbrigliato. Quanto iniziato allora è proseguito sotto la presidenza di Bill Clinton e di George W. Bush, con l'estirpazione graduale della regolamentazione della finanza, delle assicurazioni e delle altre transazioni per le quali è necessaria una supervisione. L'Europa ha fatto lo stesso percorso, anche se la natura della politica europea lo ha reso meno brutale. Anche in Europa, il capitalismo puro e semplice pareva la strada da imboccare e dire bene del ruolo economico dello stato pareva anacronistico.
Lei è stato invece l'economista che, senza demonizzare mai il mercato, anzi riconscendone tutti i pregi, ha sostenuto proprio in quegli anni la necessità di tornare a una regolamentazione, insistento più di ogni altro sui rapporti tra etica ed economia.
Sì. Ciò che ho descritto finora avveniva in America e in Europa nel preciso momento in cui aumentavano le ragioni a favore della regolamentazione. Negli anni scorsi, le responsabilità per le varie transazioni sono diventate più difficili da rintracciare grazie al rapido sviluppo di mercati secondari per i derivati e per altri strumenti finanziari "innovativi", i quali consentivano per esempio di offrire credito per mutui subprime, e di scaricare i rischi di default a terzi, estranei alla transazione.
Erano tempi di una disponibilità di credito senza precedenti, alimentata in parte dall'enorme eccedente della bilancia commerciale di alcuni paesi, la Cina in particolare, e amplificata dalla scala sulla quale si potevano lanciare operazioni spregiudicate. Proprio mentre diventava necessaria una sorveglianza stretta da parte dello stato, essa si allentava drasticamente come richiesto dalla fiducia in un capitalismo di mercato liberato da ogni freno. E così il sistema economico è diventato vulnerabile alla crisi. Ci sono anche altri fattori, ma questa mi sembra la parte importante della lezione. Il messaggio non è "il mercato fa male", bensì "il mercato fa bene se è ben accompagnato."
E quali sono gli alti fattori?
I cambiamenti controproducenti non hanno riguardato soltanto l'assenza di controllo sui derivati e sugli altri strumenti finanziari indiretti. Faccio un esempio. Nel 2000 il Congresso statunitense, spinto dalla lobby di Wall Street e dall'équipe economica della Casa Bianca, ha votato il Commodity Features Modernization Act, una legge che esentava certe assicurazioni note sotto il nome cosmetico di "credit default swaps" dalle normative federali su tutte le forme di assicurazione. Questo "buco nero normativo", per dirla con l'amico David Richards, ha partorito un mostro: assicurazioni vendute con lucrosi profitti da venditori che nessuno controllava. Assicurazioni contro il rischio di default per miliardi di dollari, prive di qualunque garanzia, si sono riversate sui mercati creando una vulnerabilità enorme, e ancora oggi incutono terrore nei mercati finanziari globali. Il principale venditore di tali assicurazioni era il colosso AIG - American International Group – che ha dovuto essere riscattato e ora sembra essersi finalmente ripreso grazie al sostegno massiccio del governo e a un costo gigantesco per il contribuente americano.
Tutto ciò, in termini morali, si può dire che abbia generato una enorme crisi di fiducia?
Come diceva Adam Smith più di 200 anni fa, l'economia di mercato si basa sulla fiducia e qui il governo deve fare la sua parte. Ha abdicato questa responsabilità, contribuendo direttamente alla crisi, al crollo della fiducia nell'economia in generale, e nel settore finanziario in particolare. Molto gradualmente, la fiducia viene ricostruita e la crisi potrebbe esser presto superata, ma il collasso deve insegnarci a essere più avveduti in futuro.
Perché la crisi ha avuto un minor impatto in Cina e in India, la cui economia cresce tuttora rapidamente, al contrario di quanto accade nel resto del mondo?
Innanzitutto in Cina e in India non c'è stata una deregolamentazione simile a quella statunitense, e la vulnerabilità immediata era minore. Sebbene entrambi i paesi soffrano del crollo globale, possono contare su un mercato interno fortemente dinamico. Senza la crisi avrebbero avuto una crescita maggiore, certo, ma quel dinamismo non è stato intaccato. Infine Cina e India hanno reagito subito e adottato misure per contrastare la crisi.

C'è un fatto più generale di cui tenere conto. Quando un'economia si espande su più fronti, i vari settori si rafforzano l'un l'altro. Prendiamo come indicatore qualcosa che conta poco nella spesa nazionale, ma che misura bene la capacità di star a galla di una determinata società: la circolazione dei quotidiani. Sappiamo che la stampa è in difficoltà in Europa e in America, soprattutto per la diffusione di Internet. Il quale si è diffuso a una velocità stupefacente anche in India e in Cina, eppure la circolazione dei quotidiani continua ad aumentare di pari passo e l'India si appresta a diventare il paese del mondo in cui si vendono più quotidiani. La robustezza dell'espansione economica indiana va vista nella prospettiva più ampia di miglioramenti incessanti su molti fronti. Come in Cina, ci sono ancora problemi gravi di povertà e di disuguaglianza nella condivisione dei vantaggi dell'espansione, ma nell'insieme l'economia è fiorente.
E' uno dei temi assai concreti che lei tratta nel suo ultimo libro, "The idea of Justice". Quanto è grave la disuguaglianza in India?
E' gravissima. Malgrado un calo sostanziale della povertà, intesa come basso reddito, in India come in Cina, c'è tuttora una grande miseria. Il rimedio sta nell'utilizzare il reddito pubblico generato dalla veloce crescita economica per rimuovere gli handicap dovuti all'assenza di cure sanitarie, di educazione, e ad altri ostacoli sociali che intralciano la condivisione dei benefici dello sviluppo. Entrambi i paesi hanno usato il reddito pubblico a tale scopo, ma senza riuscire a garantire cure sanitarie per tutti e l'India, inoltre, ha un tasso d'analfabetismo superiore a quello cinese. Il successo dello sviluppo economico resta da completare con una distribuzione più equa dei suoi benefici.
Ma questo sviluppo non è anche una minaccia per l'ambiente?
L'ambiente è sicuramente una preoccupazione globale, e Cina e India devono contribuire allo sforzo per salvaguardarlo con una quota appropriata. Ma cosa significa "appropriata" nel loro caso? Prima di dare lezioni a questi paesi su come rallentare il proprio sviluppo economico, teniamo presente alcuni fatti. Innanzitutto, sono paesi poveri e lo sviluppo serve loro per uscire dalla povertà. Poi l'Europa e l'America si sono sviluppate e arricchite per secoli e così facendo hanno inquinato il mondo intero. Con alle spalle una storia così spudorata, meglio non dettare la morale ad altri.
Tuttavia viviamo in un mondo minacciato dal riscaldamento globale e da altre conseguenze dell'inquinamento: le restrizioni e i loro costi sociali vanno suddivisi equamente. Occorre quindi arrivare a un accordo internazionale che tenga conto innanzitutto della povertà di alcuni paesi e della prosperità di altri. Poi del fatto che l'America e l'Europa si sono appropriate di una grossa fetta dei commons (beni comuni) globali; la miglior restrizione sta nel ridurre non lo sviluppo economico, bensì il suo impatto inquinante attraverso incentivi all'innovazione e alla ricerca mirata. Devono anche aumentare le forme di cooperazione in tutti gli ambiti della vita sociale, compreso quello dei trasporti pubblici che riducono le emissioni inquinanti. Se oggi la Cina e l'India affermano di non voler firmare alcun accordo, ciò riflette soprattutto la loro frustrazione nel vedere che non sono presi in considerazione i fattori rilevanti nella distribuzione dei costi sociali. Sono certo che altrimenti lo firmerebbero, per esempio al prossimo vertice di Copenaghen. In India il movimento ambientalista è forte, e quello cinese sta crescendo.
Quale pericolo rappresenta l'India come potenza nucleare?
Ero molto contrario ai test nucleari indiani del 1998. Il paese aveva già mostrato le proprie capacità nel 1974, e sono stati utili solo al Pakistan. Gli hanno dato un pretesto per far esplodere per la prima volta le proprie bombe, e per rendere palese che era una potenza nucleare. Non era nell'interesse dell'India, e cosa più importante, ha reso più pericoloso l'intero subcontinente.
Perciò ero contrario. Detto questo, non mi tormenta troppo l'idea che l'India usi un giorno le sue testate nucleari: è poco probabile, ed è ancora meno plausibile nella pratica della democrazia indiana. Il Pakistan non è ancora una democrazia, quindi c'è un problema, ma dal suo governo mi aspetto una certa prudenza. In compenso, le sue armi atomiche potrebbero finire in mano a estremisti, e occorre riflettere sugli interventi in grado di prevenire tale eventualità.
I recenti dibattiti non riguardavano però le bombe atomiche, ma l'accordo con il quale gli Stati Uniti fornivano all'India combustibile nucleare per le centrali che producono elettricità. L'India ha fatto alcune concessioni sulle ispezioni nei suoi impianti, e molti critici hanno ritenuto che in questo modo la sovranità del paese veniva compromessa. Non è stata soltanto la posizione del partito induista Bharatiya Janata, ma con mia delusione, anche quella dei partiti di sinistra che su questo punto cercarono di far cadere il governo di Manmohan Singh. Non ci sono riusciti, hanno solo rafforzato la leadership di Singh e la sinistra è uscita ridimensionata dalle elezioni successive. In America e in Europa, l'accordo non è stato visto come una compromissione della sovranità indiana, ma come un ottimo affare. Strano come le interpretazioni siano state diverse, in India e all'estero. Credo che siano tutte e due sbagliate. L'India ha ottenuto qualcosa, non granché, e ha ceduto qualcosa, non granché. Quello che importa davvero non sono le dispute su temi minori come questi, ma il dibattito ben più vigoroso in India come in Pakistan su come evitare disastri nucleari.
Anche la questione nucleare quindi può essere considerata una questione di giustizia?
Dietro a tutto ciò, c'è in effetti la riluttanza delle vecchie potenze nucleari – USA, Russia, Francia, Gran Bretagna e Cina – a prendere iniziative per eliminare tutte le armi nucleari, ovunque si trovino. E' quello l'obiettivo grande che il mondo deve darsi, facendo pressione non solo sull'India e il Pakistan, e su Israele, la Corea del Nord e forse tra poco l'Iran, ma anche sulle vecchie potenze nucleari.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Cina – Il credito è vivo e lotta insieme a noi

Friday, 11 September, 2009 at 22:35 - by phastidio
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Durante la notte, il paese più importante del mondo in termini di capacità di accendere il fiammifero della crescita economica (vera o sperata), la Cina, ha reso noto una serie di dati macroeconomici accolti dall’indice di Shanghai con il massimo delle ultime tre settimane. Di particolare rilievo il dato del credito bancario, ammontato in agosto a 410.4 miliardi di Yuan, circa 90 miliardi più del previsto. Nei primi 8 mesi di quest’anno il totale è stato di 8.100 miliardi, ben al di sopra dei 4.900 miliardi erogati nell’intero 2008, ma il ritmo di crescita del credito sta rallentando al crescere dell’attenzione del governo alla gestione del potenziale surriscaldamento. Anche la produzione industriale è aumentata oltre le stime, mentre le vendite al dettaglio e gli investimenti in immobilizzazioni sono stati circa in linea con il consenso. L’avanzo commerciale è stato superiore al previsto, ma sia le importazioni che le esportazioni sono scese più del consenso, circostanza che evidentemente non depone a favore di una rivitalizzazione del commercio globale.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

Dopo crack Lehman oltre un mld di affamati

Lunedì 14 Settembre 2009, 16:29 - Di Pierpaolo Molinengo
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La speculazione sulla fame non si è fermata ed ha bruciato nel mondo quasi 200 miliardi di dollari solo per il grano, con le quotazioni internazionali che sono dimezzate da 10 dollari per bushel (0,37 dollari al chilo) dello scorso anno a meno di 5 dollari per bushel (0,18 dollari al chilo), mentre i prezzi dei prodotti alimentari derivati come pane e pasta hanno continuato ad aumentare nei paesi ricchi ed in quelli poveri. E' quanto afferma la Coldiretti, sulla base delle quotazioni al Chicago Board of Trade, nel sottolineare che secondo le stime Fao il numero di affamati nel mondo ha superato, per la prima volta, il miliardo con una crescita dell'11 per cento, ad un anno del crack della Lehman Brothers
Con la crisi finanziaria la speculazione si è spostata anche sulle materie prime agricole le cui quotazioni sono fortemente condizionate dai movimenti di capitale che stanno “giocando” senza regole sui prezzi di grano, mais e soia provocando una grande volatilità che - denuncia la Coldiretti - ha impedito la programmazione e la sicurezza degli approvvigionamenti in molti Paesi. Nonostante il crollo dei prezzi alla produzione agricola - denuncia la Coldiretti - rimangono alti i prezzi al consumo che rendono piu' difficile la sopravvivenza del miliardo di affamati, come dimostra il fatto che, secondo una analisi della Fao, in 58 Paesi in via di sviluppo nell'80 per cento dei casi i prezzi sono piu' alti dello scorso anno. Un problema che - continua la Coldiretti - riguarda anche i paesi piu' sviluppati dove la denutrizione riguarda 15 milioni di persone, per un aumento del 15,4 per cento sul 2008.
L'emergenza alimentare - precisa la Coldiretti - non si risolve con i prezzi bassi all'origine per i produttori perche' questi non consentono all'agricoltura di sopravvivere e, con la chiusura delle imprese, destrutturano il sistema che non è piu' in grado di riprendersi anche in condizioni positive. Occorre combattere - sostiene la Coldiretti - la grave ingiustizia rappresentata dall'iniqua distribuzione del valore aggiunto a danno degli agricoltori e dei consumatori lungo le filiere agroalimentari.
In Italia, dove i prezzi moltiplicano per cinque dal campo alla tavola, si è verificata ad agosto una crescita tendenziale dei prezzi degli alimentari dell'1,2 per cento ad agosto (sei volte superiore al valore medio dell'inflazione dello 0,2 per cento) nonostante - precisa la Coldiretti - il crollo del 16 per cento in media dei prezzi agricoli con una punta del -30 per cento per il grano , che mette a rischio il futuro delle coltivazioni in Italia. Ed è scandaloso - continua la Coldiretti - il caso della pasta di semola di grano duro che, nonostante la multa di 12,5 milioni del 2 febbraio 2009, decisa dall'Antitrust per il “cartello” tra produttori, nel primo semestre del 2009 è stata il prodotto che è aumentato di piu' (+11 per cento tendenziale) e si posiziona al quarto posto nel contributo all'inflazione (dopo sigarette, canone di affitto, pasto al ristorante e carrozziere), sulla base delle elaborazioni Coldiretti sul rapporto Coop 2009.
“La crisi ha smascherato le false promesse dell'economia virtuale e i pericoli di una assenza totale di regole sul mercato che hanno permesso a pochi di fare affari mettendo a rischio lo sviluppo di larga parte della popolazione mondiale” ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini nel sottolineare che “con la auspicabile ripresa abbiamo una occasione unica per ridare alle cose un nuovo ordine e far riacquisire il primato alla verità e alla concretezza che sono le parole d'ordine dell'agricoltura”. L'economia - conclude Marini - esce dalla crisi solo se assumono centralità i valori veri dell'agire di ciascuno di noi: la responsabilità, l'affidabilità, l'etica dei comportamenti ed ancora, si recupera pienamente la dimensione dell'identità come qualificazione positiva della persona, dei territori, di tutto ciò che è vero e che non può essere scambiato per altro.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

Mervyn King taglia i tassi sui depositi?

Tuesday, 15 September, 2009 at 13:07 - by phastidio
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Il governatore di Bank of England, Mervyn King, ha segnalato oggi la possibilità che l’istituto di emissione britannico possa ridurre il tasso al quale vengono remunerate le riserve bancarie che eccedono i requisiti minimi di sistema. Iniziativa che, come ricordato da King, non modificherebbe il livello di complessivo di riserve del sistema bancario, che è determinato dagli acquisti della banca centrale in regime di easing quantitativo, ma potrebbe spingere le banche a convertire parte di quelle riserve in altre tipologie di attivi.
La mossa sarebbe solo in apparenza simile a quella della svedese Riksbank, che sui depositi delle banche presso la banca centrale (in eccesso dei requisiti minimi) applica un penalty rate, cioè un tasso negativo, pari allo 0,25 per cento. In realtà, il tasso negativo svedese rappresenta una mossa simbolica, sia perché la Svezia non sta creando riserve attraverso l’easing quantitativo, sia perché la facility del deposito delle banche commerciali presso la Riksbank non viene di fatto utilizzato.
Tornando al caso britannico, King ammette che la minore remunerazione delle riserve in eccesso non è ncessariamente destinata a trasformarsi in impieghi, potendo prendere la via dei titoli di stato a breve scadenza e trasformandosi quindi in un canale di domanda quasi forzosa per questo segmento di emissioni pubbliche. Il mercato ha in effetti finora reagito premiando i Gilt corti.

 

 

 

Stati Uniti – Rimbalzo delle vendite al dettaglio

Tuesday, 15 September, 2009 at 19:02 - by phastidio
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Il dato delle vendite al dettaglio di agosto ha evidenziato un incremento mensile del 2,7 per cento, e dell’1,1 per cento al netto della componente auto, in entrambi i casi meglio delle stime di consenso. Su base annuale, siamo rispettivamente a meno 5,3 e meno 6,2 per cento al netto delle auto, grandezze nominali. L’andamento delle vendite fuori dai settori auto e carburanti è stato piuttosto robusto, con il più 1,6 per cento mensile del general merchandise, mentre l’elettronica fa segnare un più 1,1 per cento, alimentari e bevande a più 0.5 per cento. In calo le vendite di arredamento, a meno 1,6 per cento, e materiali da costruzione e attrezzature da giardino a meno 1,2 per cento.
In un altro dato relativo alle vendite al dettaglio, l’International Council of Shopping Centers riporta una variazione nulla si base settimanale ed un rialzo su base annua dell’1,6 per cento, mentre i dati sulle vendite al dettaglio del Johnson Redbook continuano ad uscire molto deboli, a meno 1,9 per cento settimanale, pur provenendo da variazioni recenti a meno 4 per cento.
Tra gli altri dati della giornata, l’indice dei prezzi alla produzione è balzato in agosto dell’1,7 per cento sul mese precedente, soprattutto per effetto di un aumento mensile del 23 per cento nei prezzi della benzina. La variazione annuale è del 4,3 per cento.
L’indice Empire State Manufacturing continua a mostrare una ripresa nel settore della manifattura, ed in agosto fa segnare un livello di 18,88 punti, 4 oltre le stime di consenso e 7 in più del mese precedente. Balzo della componente riferita ai nuovi ordini, con più 6,5 punti, che segnala attività in espansione nei prossimi mesi.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

COSA HA INSEGNATO L'APOCALISSE? QUASI NIENTE

16 Settembre 2009 00:35 MILANO - di Carlo Pelanda
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Il fallimento un anno fa di Lehman Brothers, generando un collasso totale della fiducia, trasformò la crisi finanziaria in recessione globale. Dal marzo 2009 l’economia mondiale è in ripresa. Ora è possibile analizzare con freddezza la storia della crisi, ripulirla dai miti, e usarla come lezione per il futuro.
Che la crisi finanziaria sia nata per eccesso di finanziarizzazione dell’economia e avidità dei banchieri è il mito più importante da smontare. Il cataclisma iniziò alla fine del 2006 in America perchè si incrociarono tre fattori: (a) la legislazione populista statunitense, in particolare dal 1997, che permette ad un povero di comprare una casa accedendo ad un mutuo facilitato, senza garanzie, invece di assisterlo con edilizia pubblica; (b) la mancata regolazione del sistema finanziario da parte della politica, con la complicazione della nuova legge bancaria statunitense del 1999 che permetteva di spostare il risparmio in speculazioni acrobatiche e senza controllo; (c) il rialzo del costo del denaro a causa del picco inatteso di inflazione che rese insostenibili per molti americani le rate a tasso variabile dei mutui.

Le insolvenze contaminarono i prodotti finanziari sintetici con alla base i mutui e ciò fece crollare la fiducia anche sul resto del ciclo finanziario globale congelandone le operazioni. La liquidità cominciò a mancare. Nell’estate del 2007 le banche centrali iniziarono a compensarne la mancanza con erogazioni d’emergenza. Ma ciò finanziò la crisi e non la soluzione. Il mercato finanziario restava bloccato, le banche restie a ricostruire i patrimoni e ripulire i bilanci, la Riserva federale senza poteri per costringerle, il governo, troppo influenzato da interessi privati, indeciso nel dargliele. Nel settembre 2008 Lehman Brothers fu lasciata fallire, probabilmente, per dare il segnale che così non si poteva andare avanti.

In questa storia, pur semplificata, si trova facilmente che il colpevole principale è il sistema politico statunitense sia incapace di fare il mestiere di regolatore stando dietro alle innovazioni della finanza sia ammalato di populismo economico. Gli enti che erogarono e finanziarizzarono la gran parte dei mutui insolventi furono le agenzie di fatto governative Freddie Mac a Fannie Mae. L’industria finanziaria non regolata, ovviamente, divenne più acrobatica e predatoria per motivi di concorrenza. Ma la colpa principale è stata della politica. Anche in Europa.

Le banche europee saltarono o andarono in crisi di liquidità per il rapporto sbilanciato tra patrimonio e operazioni a debito, sintomo evidente di una colpevole mancata regolazione. La finanziarizzazione è come la tecnologia nucleare. Se controllata produce tanta energia pulita a basso costo, se non lo è diviene distruttiva. Probabilmente la demonizzazione dell’industria finanziaria deriva dalla paura dei politici di farsi imputare di incompetenza e conseguente necessità di trovare un capro espiatorio altrove, anche contando sulla mancata conoscenza della tecnica finanziaria da parte della popolazione.

Questo punto è critico per il futuro. La finanza supersintetica permette di rendere il capitale abbondante per l’economia reale. Va regolata non per comprimerla o per punirla, ma per darle basi di certezza utili a reggere l’espansione del suo ciclo tecnico. Se la regolazione sarà restrittiva e non espansiva mancherà nel mondo circa 1/3 del capitale finanziario necessario alla ripresa e questa si trasformerà in lunga stagnazione con impatto negativo anche sull’Italia. Per evitarlo va fatto un chiarimento pubblico urgente sui punti qui detti.
 

Fonte - IlSussidiario.net.

 

 

 

 

 

  La Grande Depressione del 1873: tracce sulla spiaggia

Mercoledì 16 Settembre 2009, 16:40 - di Andrea Mazzalai

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Secondo quanto scritto su WIKIPEDIA la crisi economica del 1873-1896, indicata come Grande depressione, ebbe inizio dopo oltre trent'anni di incessante crescita economica. Il mondo conobbe una crisi agraria, cui si aggiunse una parallela crisi industriale.
(...) Alcuni studiosi di storia economica affermano che la Grande Depressione era in realtà una fase deflazionistica e non un periodo di caduta della produzione e del PIL. La tesi sulla deflazione porta a sostenere che la Grande Depressione non era per nulla una depressione, perché la produzione e il PIL reale crescevano durante tutto il periodo (vedi la tabella sotto). La confusione proviene dal fatto che i prezzi erano in calo. La deflazione era dovuta alla grande produttività industriale e ad una moneta sana e onesta (regime monetario coperto da oro e/o
Ecco quindi che come vedremo tra breve, la prima Grande Depressione produsse una sorta di "deflazione positiva, buona" ovvero una caduta dei prezzi non originata da un eccesso di produzione ma dall'aumento della produttività, da un aumento della concorrenza.
Nell'anniversario del fallimento della Lehman Brothers (NYSE: LEH - notizie) ecco quindi un'uteriore impronta della storia in questo passo:
(...)La crisi ebbe inizio dopo il fallimento della grande banca newyorkese di Jay Cooke la quale diede il via ad un'ondata di panico che si diffuse nell'economia americana e poi in tutti gli altri paesi industrializzati. Nel giro di pochi mesi la produzione industriale degli Stati Uniti cadde di un terzo per la mancanza di acquirenti mentre aumentava a dismisura la disoccupazione. (...)
La crisi si manifestò come una forte eccedenza di offerta sulla domanda; le industrie cioè producevano molto più di quanto il mercato potesse assorbire sotto forma di consumi. Era la prima manifestazione di una crisi economica moderna.(...)
Oggi vi sono delle differenze sostanziali rispetto a quel periodo, questa crisi proviene da una crescita economica degli ultimi anni stimolata dalle bolle dell'ideologia monetarista, che ha prodotto un boom immobiliare insostenibile, che a sua volta ha lasciato come risultato, la più imponente depressione immobiliare della storia.
Senza questo boom indotto in maniera quasi scientifica, nessuna crescita di rilievo avrebbe accompagnato un sistema economico basato sul circolo virtuoso/vizioso Cina-Usa-Cina, crescita sostanzialmente figlia del debito esponenziale, a sua volta prodotto dal boom immobiliare.
(...) In un articolo del New York Times (NYSE: NYT - notizie) del 2006, Charles R. Morris affermò che la "Grande Depressione" era in realtà un periodo di grande crescita economica, ma al tempo molti americani erano confusi a causa della diminuzione dei prezzi e dell'incremento delle disuguaglianze reddituali, risultanti da un aumento degli standard di vita degli americani più benestanti a ritmi più elevati rispetto alle comunque migliorate condizione di vita del resto della popolazione. Nytimes
Come nella Grande Depressione del '29 e quella che si continua a chiamare Grande Recessione, la Depressione di fine secolo diciannovesimo vide un'esplosione delle disuguaglianze in termine di redditi, alle quali aggiungerei un'imponente trasferimento di patrimoni e profitti.
Alcuni giorni fa, sul SOLE24ORE è apparso un pezzo che riprende il filone delle lezioni dal passato, .... Per battere la crisi imitate Rockefeller nel crack del 1873 di Marco Fortis:
Nell'ottobre dello scorso anno, durante i giorni di panico seguiti al crollo di Wall Street, lo storico americano dell'Ottocento e della guerra di secessione Scott Reynolds Nelson, del College of William and Mary di Williamsburgh ( Virginia), conobbe un momento di particolare notorietà. Infatti, pubblicò sulla rivista "The Chronicle of Higher Education" un articolo in cui paragonava la recessione globale che allora stava iniziando non al 1929, cioè al più noto paradigma di tutte le crisi economiche, bensì alla grande depressione del 1873.

I compagni di viaggio di Icebergfinanza conoscono l'importanza della storia e come abbiamo appena visto in MinskyMoment Hyman Minsky e Irving Fisher con la sua "DebtDeflation" sono stelle polari che ci hanno aiutato a comprendere i meccanismi di questa crisi, prima di molti altri.

L'attenzione dei media (l'articolo fu tradotto in molte lingue e variamente commentato) verso questo raffronto storico è poi scemata sotto l'incalzare degli avvenimenti, ma vale la pena oggi di rivisitare le argomentazioni di Nelson, perché quando una crisi ha una portata come quella attuale i paralleli storici sono necessari. E anche chi non è storico di professione e quindi ha una visione parziale degli eventi può dare un contributo per stimolare il dibattito.
Il calo degli indicatori economici durante il primo anno dell'attuale recessione ha toccato intensità indubbiamente simili a quelle registrate nella prima fase dellacrisi del '29 ma, a parte altre analogie marginali, il paragone si ferma qui. Nel 1873, invece, gli indicatori macroeconomici allora esistenti non registrarono una caduta analoga a quella odierna e di ottanta anni fa. Infatti, il numero di paesi che accusarono diminuzioni del prodotto interno lordo nel 1873 e negli anni successivi fu abbastanza limitato. Tuttavia quella crisi fu avvertita pesantemente dalle borse ed ebbe conseguenze profonde e durature sulle economie, determinando un lungo strascico di problemi in molti settori produttivi, nell'occupazione e nel commercio internazionale.
Le cause che determinarono la depressione del 1873 furono in effetti assai simili a quelle che hanno provocato la crisi odierna, mentre il crack del '29 originò principalmente da altri fattori, come la sovrapproduzione di beni di consumo in America e la conseguente crisi bancaria e azionaria, senza dimenticare il fatto che l'Europa era nel '29 profondamente divisa e debole, con la Germania ancora afflitta dalle difficoltà conseguenti al pagamento dei debiti della prima guerra mondiale. La crisi del '29,inoltre,non fu assolutamente causata da un eccesso di debiti delle famiglie per i mutui sulla casa e il credito al consumo, come è avvenuto stavolta negli Stati Uniti e in molti altri paesi.
Peccato davvero che Fortis (Amsterdam: FORAL.AS - notizie) non abbia letto le memorie di MARRINER.S.ECCLES governatore della Federal Reserve tra il 1934 e il 1948 uomo che condivise accanto a Franklin Delano Roosevelt gli anni della Grande Depressione, quindi non un fonte qualsiasi........
Come la produzione di massa deve essere accompagnata da consumi di massa, i consumi di massa a oro volta implicano una distribuzione della ricchezza - non di ricchezza esistente, ma di ricchezza prodotta attualmente per fornire agli uomini il potere d'acquisto di importo pari a quello di beni e servizi offerti dal circuito economico nazionale.
Invece di realizzare questo tipo di distribuzione, una pompa di aspirazione gigante aveva attirato nel 1929-30 in poche mani una crescente quota di ricchezza. Questo serviva come accumulazione di capitale.(...) Abbiamo sostenuto livelli elevati di occupazione in quel periodo con l'aiuto di un eccezionale espansione del debito al di fuori del sistema bancario. Questo debito è stato fornito da una grande crescita del business di risparmio, nonché dal risparmio da parte di privati, in particolare ad alto reddito, dove le tasse sono relativamente basse.

E' importante esplorare ogni singola goccia degli oceani nei quali si naviga, in maniera particolare quelli della Storia!
Prosegue Fortis:
Viceversa, come ha rilevato Nelson, la crisi del 1873 originò come quella di oggi dai problemi del settore immobiliare in Europa centrale e in Francia e si trasferì poi rapidamente al settore finanziario, propagandosi alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti con un crollo generalizzato delle borse. Osserva Nelson che intorno al 1870 negli stati dell'Europa continentale prese avvio un boom incontrollato del settore delle costruzioni municipali e residenziali, specialmente nelle capitali di Vienna, Parigi e Berlino, favorito anche da una eccessiva fioritura di istituzioni finanziarie specializzate nell'erogazione di mutui immobiliari concessi con sempre maggiore facilità e senza adeguate garanzie.
Che si tratti di yusen giapponesi o subprime americani, mutui immobiliari concessi con sempre maggiore facilità e senza adeguate garanzie, la storia è inesorabile, chi dimentica il passato è destinato a riviverlo.

La vittoria militare sulla Francia nel 1871 e i relativi incassi per le riparazioni di guerra generarono in Germania un'euforia di investimenti in ferrovie, fabbriche, scali portuali e navi che si aggiunsero agli investimenti nel settore delle costruzioni. Quando la borsa di Vienna crollò nel maggio 1873, generando un panico diffuso, le banche inglesi ritirarono rapidamente i loro capitali dal continente e il costo del credito interbancario in Europa andò alle stelle, proprio come è avvenuto nell'odierna crisi.
La crisi bancaria si propagò rapidamente anche agli Stati Uniti colpendo in modo particolare il settore delle ferrovie, che già da qualche tempo era in difficoltà poiché non riusciva più a finanziarsi attraverso l'emissione di obbligazioni, ma doveva ricorrere in misura crescente ai prestiti a breve dalle banche. Il 18 settembre del 1873 la Jay Cooke & Company, uno dei maggiori istituti del mondo bancario americano pesantemente coinvolto nei collocamenti obbligazionari della compagnia ferroviaria Northern Pacific Railway, dichiarò bancarotta. Come la Lehman Brothers anche la Jay Cooke era un istituto sistemico e gli effetti furono disastrosi sull'intero sistema finanziario americano e internazionale.

I prezzi a Wall Street precipitarono, scoppiò il panico e invano il governo statunitense annunciò che avrebbe comprato parecchi milioni di dollari di obbligazioni cercando di iniettare liquidità e fiducia nel sistema. Il presidente degli Stati Uniti Ulisse Grant, consultandosi con i più autorevoli uomini d'affari dell'epoca come Cornelius Vanderbilt e Henry Clews, cercò senza riuscire di arginare la catastrofe. Sull'arco della crisi decine di membri dello Stock Exchange e migliaia di compagnie mercantili fallirono. Fu ripristinato il gold standard nel tentativo di stabilizzare la moneta e di frenare l'inflazione e la speculazione.
Le conseguenze della crisi finanziaria del 1873 sull'economia reale furono molto forti, specialmente nel settore industriale e ferroviario. L'indice della produzione manifatturiera americana ricostruito da Edwin Frickey registra una caduta progressiva dal 1873 al 1876 analogamente a un indicatore "reale" particolarmente sensibile come le consegne di ghisa ( si veda il primo grafico qui a fianco). I tratti di nuove ferrovie realizzati, dopo aver toccato un massimo di 7.439 miglia nel 1872, precipitarono a 1.606 miglia nel 1875. Secondo la cronologia del Nber il ciclo negativo dell'economia statunitense perdurò dall'ottobre del 1873 al marzo del 1879, per un totale di 65 mesi: la depressione più lunga della storia americana assieme a quella del '29.
E oggi qualcuno mi vuole far credere che la svolta è dietro l'angolo, che il fondo è stato solo un incidente di percorso, che è stata una sorta di tempesta in un bicchier d'acqua, che in fondo oggi è diverso. Dalla Depressione del 1873, passando per quella del '29, sino a giungere alla "Lost Decade" giapponese, non c'è un periodo storico rivestito di deflazione negativa o positiva che sia che non abbia impiegato più di quindici anni per uscire dal gorgo e dal mulinello in cui è precipitato.
La disoccupazione si impennò rapidamente toccando nella sola città di New York il 25%. Gli scioperi e le manifestazioni crebbero per numero e intensità assumendo dimensioni senza precedenti, come in occasione della protesta del gennaio del 1874 al Tompkins Square Park in cui migliaia di disoccupati furono violentemente dispersi dalla polizia. Nelson sottolinea come gli operatori più colpiti furono le piccole e medie imprese, proprio come sta avvenendo oggi, a causa del credit crunch che anche allora fu fortissimo.
Ma la crisi produsse anche una generazione di vincenti, cioè le compagnie, non solo finanziarie, che disponevano di liquidità e che poterono consolidarsi e crescere comprando a prezzi di saldo altre società concorrenti. Andrew Carnegie, Cyrus McCormick e John D. Rockfeller ebbero abbastanza capitali per finanziare la loro crescita tumultuosa. Fu proprio in quell'epoca che i grandi gruppi industriali e finanziari d'America cominciarono ad assumere dimensioni tali da necessitare poi di essere contrastati e limitati dalle successive legislazioni antitrust.
Oggi avviene la stessa cosa, la recente merger-mania, la mania di nuove fusioni è uno dei sintomi, senza dimenticare quel "too big to fail" che sta sequestrando la democrazia e l'economia, istituti finanziari troppo grandi per fallire, che secondo la mia modesta opinione dovrebbero essere nazionalizzati in prima battuta e poi successivamente smantellati, eliminando il rischio sistemico.
L'era aperta dalla crisi del 1873, secondo Nelson, portò anche altre conseguenze, tra cui un aumento del protezionismo commerciale a livello internazionale, una diffusa insofferenza per i lavoratori immigrati che minacciavano i posti di lavoro delle popolazioni autoctone e anche il diffondersi di teorie "cospirative" nell'Europa centrale come quella secondo la quale la crisi finanziaria era stata provocata dagli ebrei e dalle banche straniere.
Gli anni della lunga depressione del 1873 segnarono anche il passaggio del testimone della leadership economica del mondo dall'Europa agli Stati Uniti, con l'emblematico sorpasso del Pil statunitense, nonostante la recessione in corso, ai danni di quello inglese (si veda l'altro grafico qui a fianco).
Si chiede poi Nelson: forse la crisi globale odierna sarà presto seguita da un nuovo cambio di leadership, quello tra l'indebolita economia americana che, come una "cicala", ha vissuto troppo a lungo al di sopra dei propri mezzi senza più produrre beni reali e senza risparmiare, e l'emergente potenza della Cina?

Questo evento potrebbe non essere lontano e, se la storia non riserverà sorprese, potrebbe essere accelerato dalla crisi economica globale che gli Stati Uniti stessi hanno principalmente contribuito a generare.
Robert Reich la chiamata " Mini depressione ", uno che ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, chiamarla depressione è un attentato alla realtà dei numeri economici, nessun paragone con il passato è vero, ma alle volte le differenze non tengono conto della realtà, talvolta demografica, talvolta statistica.
Il dibattito sulle virgole continua inesorabile, i contenuti invece sono sfumati.
Anche Barry Rutholz e Mike Shedlock ne parlano nei loro DISCORSI Depression versus Recession, comunque sia, questa è la storia, messaggi inequivocabili che gli uomini dimenticano facilmente perche in fondo.....
come sempre nella storia, capacità finanziaria e perspicacia politica sono inversamente proporzionali. La salvezza a lunga scadenza non è mai stata apprezzata dagli uomini d'affari se essa comporta adesso una perturbazione nel normale andamento della vita e nel proprio utile. Cosi si auspicherà l'inazione al presente anche se essa significa gravi guai nel futuro. Questa è la minaccia per il capitalismo (...) E' ciò che agli uomini che sanno che le cose vanno molto male fa dire che la situazione è fondamentalmente sana! JK GALBRAITH.>
 

Fonte - icebergfinanza.splinder.com

 

 

 

  Martedì 22 Settembre 2009   Martedì 22 Settembre 2009   Venerdì 25 Settembre 2009  
       
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  Grande finanza e ricatti

16 Settembre 2009 23:59 MILANO - di Marcello De Cecco

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Il 15 settembre 2008, l’azione sconsiderata del segretario del Tesoro Paulson e del presidente della Fed Bernanke portò al fallimento della Lehman, che tutto il mondo sapeva fosse in difficoltà ma della quale tutto il mondo si aspettava il salvataggio. Per questa follia il partito repubblicano ha pagato con la sconfitta elettorale. Bernanke invece, per essere stato capace di correre ai ripari, è stato premiato con il rinnovo del mandato. Ma correre ai ripari ha significato raddoppiare il bilancio della Fed acquisendo attivi di qualità scadente e ipotecando la politica monetaria americana e il bilancio dello stato per molti anni.
Il fallimento Lehman ha paralizzato l’economia mondiale. I finanziamenti a breve alle imprese sono cessati di colpo, a causa del crollo della fiducia nelle possibilità di rientrare in possesso della liquidità erogata. Si è bloccato in particolare il commercio internazionale, che è impossibile senza l’appoggio delle banche. Le imprese hanno velocemente esaurito il capitale circolante. Quella che era apparsa fino ad allora solo una devastante crisi finanziaria si è trasformata per l’insipienza di pochi uomini in un disastro economico mondiale.

Dal disastro, sempre per scelta di pochi uomini, si è riusciti a far emergere con misure di inaudita gravità le istituzioni finanziarie. Ma lo si è fatto confermando la legittimità del loro operato, e mettendole in condizioni di continuare per la stessa strada. Peggio sono andate le cose per le imprese industriali e commerciali, che sono state, specie quelle minori, abbandonate al loro destino, e il risultato si è visto rapidamente, in termini di un crollo del commercio internazionale senza precedenti e un aumento gigantesco della disoccupazione, in tutti i paesi.

Per il rifiorire, artificialmente provocato, dei bilanci delle istituzioni finanziarie, alle quali è stato scandalosamente permesso persino di mostrare utili e di distribuire dividendi e prebende ai manager, si è messa all’ordine del giorno mondiale la cosiddetta exit strategy, un piano di uscita dall’emergenza e di risanamento dei bilanci pubblici, sui quali si è abbattuto il peso del risanamento della finanza privata e del crollo delle entrate tributarie indotto dalla crisi economica.

Si tratta per ora di un argomentare furbesco, perché mentre si fanno piani di uscita dall’emergenza, il G20 riassicura gli operatori economici che non si ha nessuna intenzione di stringere i freni del credito né nell’immediato né nel futuro prossimo. Il governo tedesco, mentre deplora la dissolutezza finanziaria angloamericana, mantiene la barra in direzione della generosità monetaria e fiscale, in una situazione di bilancio federale che farebbe rizzare i capelli in capo a intere generazioni di ministri del tesoro tedeschi: stando a una stima della commissione Ue, il debito pubblico di Berlino nel giro di un decennio salirà 200% del Pil se non cambierà l’attuale politica economica.

L’allagamento dell’economia mondiale con fiumi di liquidità immessi dalle banche centrali non accenna quindi a diminuire, perché le stesse banche sanno bene che se accennassero a stringere i freni, crollerebbe in pochissimo tempo l’intera sovrastruttura finanziaria, causando ulteriori disastri all’economia reale.

D’altronde, nelle condizioni di eccesso di offerta che si registra sui mercati delle merci non ci sono pericoli di inflazione. L’eccesso di capacità produttiva è peggiorato dalle manovre di stimolo del governo cinese, i cui programmi di opere pubbliche solo indirettamente beneficiano i consumi interni, mentre l’ordine alle banche di continuare a prestare impedisce la razionalizzazione produttiva in nome del mantenimento dell’ordine sociale e alimenta una bolla speculativa sui mercati. La politica monetaria e di bilancio americana, imitata negli altri paesi, è riuscita a ottenere un risultato essenziale, la risalita della Borsa dal precipizio in cui era caduta nel 2008.

Questo vuol dire che, per ora, il sistema delle pensioni di quell’enorme paese, basato sugli investimenti in azioni, è fuori pericolo. Ma vuol dire che di exit strategy si potrà solo parlare senza effettuarla perché se la Borsa si accorgesse che le autorità stanno per ridurre l’espansione monetaria, le azioni crollerebbero di nuovo.

Il ricatto della grande finanza al presidente della Fed e al presidente degli Stati Uniti, continua indisturbato da qualsiasi tentativo di riforma volto a spezzare il cerchio di ferro che stringe le azioni di politica economica e le riduce a fomentare una continua espansione. Suonano divertenti le dichiarazioni del prof. Mishkin, ex presidente della Fed di New York, secondo il quale una politica di restrizione creditizia deve essere decisa e improvvisa, tale da sorprendere i mercati. Quando propone di attuarla, questa politica, l’illustre professore? Tra quanti anni o tra quanti decenni?

Se il cerchio finanziario non si spezza, se il peso della finanza sull’economia non si riduce, come è giunto ora ad auspicare Lord Turner, capo dell’autorità di vigilanza inglese, non c’è possibilità di tornare a un equilibrio duraturo. Non ci sembra che di tale necessità sia convinta la dirigenza americana. Messa in salvo la finanza col denaro pubblico, l’urgenza delle riforme della struttura finanziaria appare tramontata ai loro occhi. Non sono sufficienti a indicare una svolta le recenti dichiarazioni di Geithner, secondo cui le autorità devono cancellare la propria orma dal sistema finanziario cominciando col ritiro della garanzia statale sui cruciali "money market mutual funds".

Le banche contano i loro profitti, per loro reali ma ottenuti con la restrizione della concorrenza, l’allentamento delle norme di contabilità, le garanzie statali e gli aiuti della Fed. Esse si permettono di guardare con occhio critico all’industria, la cui rovina hanno indotto. Obama ha voltato pagina e si dedica alla sanità: solo un nuovo disastro finanziario potrà fargli cambiare agenda.

Tradizionalmente l’autunno è un periodo in cui nel nostro emisfero cadono non solo le foglie, ma anche le banche. Ma se si verifica un simile evento, è poco probabile che Bernanke, Obama e Geithner sfuggano all’imperativo di salvare i mercati con un nuovo diluvio di liquidità. Continuerà il ricatto che dal 1987 la finanza americana esprime nei confronti dei gestori della politica monetaria ogni volta che si manifestano difficoltà. La vera exit strategy sarebbe una decisa politica di graduale diminuzione del peso della finanza sugli altri settori dell’economia.

Negli ultimi anni, il settore finanziario americano ha generato l’8% del Pil assicurandosi il 40% dei profitti. Con la ripresa dei mercati e il miglioramento assistito della salute delle istituzioni che in essi operano, sembra che da tale malsana e insostenibile situazione non si voglia recedere con riforme altrettanto radicali di quelle che Roosevelt adottò negli anni 30.

Le residue banche d’investimento, in particolare la leggendaria Goldman Sachs, si giovano della diminuita concorrenza per caricare di maggiori costi i servizi, esplicando allo stesso tempo grazie ai capitali ricevuti dalle autorità una attività di "proprietary trading" che pare vada benissimo e renda moltissimo. Tanto da far circolare la voce secondo cui la Goldman sarebbe tentata di restituire la licenza bancaria che le è stata imposta per poterle somministrare gli aiuti nell’ora della crisi ma che la assoggetta alla vigilanza da parte della Fed, al posto di quella della assai più mite Sec. Se ciò accadesse, sarebbe evidente anche ai più restii che la dirigenza americana non vuole vere riforme e che il peso della finanza sull’economia è destinato a perpetuarsi, con il rischio di nuove bolle speculative e nuove crisi, a breve.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

DAL CASO SUBPRIME AD OGGI: LE TAPPE DELLA CRISI

16 Settembre 2009 23:31 NEW YORK - APCOM
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A un anno dal fallimento di Lehman Brothers, ecco gli eventi fondamentali della crisi peggiore dagli anni Trenta e che, secondo il governo Usa e gli analisti, appare sulla via della conclusione.
A un anno dal fallimento di Lehman Brothers, nel fine settimana che ha cambiato il volto di Wall Street e della finanza americana, ecco le tappe fondamentali della crisi peggiore dagli anni Trenta e che, secondo il governo Usa e gli analisti, appare sulla via della conclusione.

Inizio 2007: nel 2006 il boom dei prezzi delle case cambia corso, tra il quarto trimestre 2005 e il primo trimestre 2006, il prezzo mediano delle case cala del 3,3%. Il declino accelerò nel 2007, finendo per far collassare il mercato dei mutui subprime (erogati a clienti con basso merito creditizio). Oltre 25 società finiscono in bancarotta tra febbraio e marzo 2007. Anche il Dow Jones accusa il colpo e il 27 febbraio brucia 416 punti, il 3,3%, il calo peggiore in termini di punti dall’11 settembre 2001.

6 marzo 2007: durante una conferenza a Honolulu, alle Hawaii, il presidente della Federal Reserve Ben Bernake, citando il suo predecessore Alan Greenspan, mette in guardia sul fatto che i colossi americano del rifinanziamento dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac rappresentano "una fonte potenziale di rischio sistemico".

8 marzo 2007: la Banca Centrale Europea alza i tassi di interesse di 25 punti base al 3,75 per cento.

2 aprile 2007: New Century Financial Corporation, maggiore società americana erogatrice di mutui subrime, cade in amministrazione controllata. Gli analisti cominciano a temere che la crisi dei mutui finisca per intaccare l’intero settore finanziario.

6 giugno 2007: la Banca Centrale Europea alza i tassi di interesse di 25 punti base al 4 per cento. 19 luglio 2007: a Wall Street il listino Dow Jones chiude sopra i 14.000 punti per la prima volta nella storia.

31 luglio 2007: Bear Stearns, una delle principale banche di investimenti americane, annuncia che due dei suoi hedge fund hanno bruciato quasi tutto il capitale, finendo per avviare le pratiche fallimentari. La banca aveva in precedenza cercato di salvarli, ma le perdite riportate avevano reso inutili gli sforzi.

Agosto 2007: I problemi del mercato subrime cominciano ad allargarsi a livello globale, mentre hedge fund e banche internazionali rendono noto di avere in portafoglio attività collegate a obbligazioni garantite da mutui. La francese Bnp Paribas comunica che gli asset detenuti da tre dei suoi fondi d’investimento specializzati in asset backed securities sono stati congelati a causa delle condizioni di liquidità sul mercato. I fondi saranno riammessi alle negoziazioni tre settimane dopo. Altre banche europee fanno annunci simili e la Banca Centrale Europea offre linee di credito per aiutarle. Federal Reserve, Bce e le banche centrali di Giappone, Australia e Canada immettono liquidità nel sistema in modo coordinato.

15 agosto 2007: il titolo di Countrywide Financial, colosso americano dei mutui, cede il 13% sul New York Stock Exchange dopo avere annunciato che il numero di mancati rimborsi dei prestiti è salito al livello massimo dall’inizio del 2002. Il giorno dopo la società evita per un soffio l’amministrazione controllata, dopo avere ricevuto prestiti di emergenza per 11 miliardi di dollari da un gruppo di banche.

13 settembre 2007: La britannica Northern Rock chiede prestiti di emergenza alla Banca d’Inghilterra. Nel febbraio 2008 la banca finisce sotto il controllo statale.

18 settembre 2007: La Fed opera il primo di una serie di tagli dei tassi di interesse, abbassando il tasso sui fed funds dal 6,25 al 5,75 per cento. Da qui al novembre 2008, la Banca Centrale americana riduce i tassi all’1 per cento, per poi portarli, nel dicembre 2008, a un range tra lo 0 e lo 0,25 per cento, dove si trovano ancora.

9 ottobre 2007: Il Dow Jones arriva al record storico di 14.164 punti. Poi comincia il calo che porterà l’indice poco sopra i 6.500 punti nel febbraio 2009.

10-17 ottobre 2007: L’allora segretario al Tesoro Henry Paulson e il segretario per lo sviluppo immobiliare e urbano Alphonso Jackson presentano il piano "Hope Now Alliance", il primo di una serie di programmi volti a rilanciare il mercato dei mutui subprime e che mira a scongelare i tassi di interesse applicati ad alcuni prestiti. Pochi giorni dopo arriva il "Super-Siv Plan": un consorzio di banche con alle spalle il Governo annuncia un piano per comprare structured investment vehichle (veicoli finanziari strutturati) per 100 miliardi di dollari.

14-16 marzo 2008: Bear Stearns annuncia di avere problemi di liquidità e riceve un prestito di emergenza con scadenza a 28 giorni dalla Fed di New York. Gli investitori temono che il collasso della banca metta a rischio il sistema. Due giorni dopo JpMorgan Chase rileva Bear Stearns per 2 dollari per azione (il prezzo sale poi a 10 dollari), ma il titolo, fino a due mesi prima, era scambiato a 172 dollari per azione.

31 marzo 2008: Paulson propone un piano di soccorso per il sistema finanziario americano, che ipotizza maggiori poteri per la Fed e la fusione di due delle maggiori autorità di regolamentazione, ovvero la Securities and Exchange Commission (la Consob americana) e la Commodity Futures Trading Commission.

Luglio 2008: Dopo il collasso di IndyMac, banca commerciale di Pasadena (11 luglio), cominciano a emergere anche i problemi di Fannie Mae e Freddie Mac, le agenzie semigovernative di rifinanziamento dei mutui. Paulson prende in considerazione massicci interventi federali per stabilizzare le istituzioni finanziarie "too big to fail", troppo grandi per fallire. Il 30 luglio il presidente degli Stati Uniti George W. Bush firma l’Housing and Economic Recovery Act, che autorizza la Federal Housing Administration a garantire fino a 300 miliardi di dollari di nuovi mutui trentennali a tasso fisso.

3 luglio 2008: la Banca Centrale Europea alza i tassi di interesse di 25 punti base al 4,25 per cento.

7 settembre 2008: Il Governo assume il controllo di Fannie Mae e Freddie Mac, in quello che è considerato il maggiore intervento di Washington nella crisi del credito fino a quel momento.

Settembre 2008: Wall Street cambia volto. Bank of America annuncia l’acquisto di Merrill Lynch per 50 miliardi di dollari. Lehman Brothers non riesce a trovare un acquirente e avvia le pratiche fallimentari, in quello che è il maggiore collasso bancario della storia americana. Le agenzie di rating tagliano le valutazioni del colosso assicurativo American International Group e il 17 settembre la Fed eroga prestiti di emergenza per 85 miliardi di dollari per salvarlo.

19 settembre 2008: Paulson presenta il Troubled Assets Relief Program (Tarp), piano da 700 miliardi di dollari per stabilizzare i mercati. La versione originaria del programma prevede l’acquisto di asset tossici, la loro rivalutazione e quindi la vendita per ristabilire la fiducia. Il 12 novembre, Paulson abbandona l’idea dell’acquisto di asset per usare i fondi per ricapitalizzare le società finanziarie. Camera e Senato approvano il piano a inizio ottobre.

21 settembre 2008: Le due maggiori banche di investimenti americane, Goldman Sachs e Morgan Stanley, cambiano il proprio assetto in holding bancarie, un fatto che le sottopone a maggiore regolamentazione federale ma dà maggiore accesso ai prestiti straordinari della Fed.

25-29 settembre 2008: Washington Mutual finisce sotto il controllo della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic, l’agenzia federale che garantisce i depositi federali) e dichiara bancarotta. JpMorgan rileva gli asset della banca. Il 29 settembre, Wachovia avvia trattative con Citigroup ma finisce per essere acquistata, all’inizio di ottobre, da Wells Fargo.

6-11 ottobre 2008: Il 6 ottobre la Fed mette a disposizione delle banche prestiti a breve termine per 900 miliardi di dollari. Il giorno successivo annuncia un piano per prestare circa 1.300 miliardi di dollari a società esterne al settore finanziario. Il 10 ottobre il Dow Jones termina la settimana peggiore della sua storia, bruciando il 22,1 per cento. L’11 ottobre i leader del G7, riuniti a Washington, si trovano d’accordo sulla necessità di una risposta globale alla crisi, ma non decidono un piano concreto. Lo stesso concetto è ribadito il 14 novembre al Finance Summit di Washington, considerato una seconda Bretton Woods, dove si sottolinea la necessità di non cedere a tentazioni protezionistiche.

8 ottobre 2008: la Banca Centrale Europea abbassa i tassi di interesse di 50 punti base al 3,75 per cento, quindi di nuovo il 6 novembre di altri 50 punti base al 3,25 per cento.

7 novembre 2008: Il dipartimento del Lavoro americano annuncia la perdita di 240.000 posti di lavoro in ottobre, il primo di una serie di analoghi cali che si protraggono nel 2009. A marzo 2009 il tasso di disoccupazione arriva all’8,5 per cento, il livello massimo in 25 anni, e i posti di lavoro andati in fumo dall’inizio della crisi sono circa 6 milioni. 4 dicembre 2008: la Banca Centrale Europea abbassa i tassi di interesse di 75 punti base al 2,50 per cento, quindi di ulteriori 50 punti base al 2 per cento il 15 gennaio 2009.

20 gennaio 2009: Barack Obama si insedia alla Casa Bianca come 44esimo presidente americano. Promette di fare della soluzione della crisi economica una priorità del suo Governo. Sceglie la squadra economica e istituisce nuove commissioni ad hoc per gestire una situazione senza precedenti.

17 febbraio 2009: Obama firma in legge un pacchetto di stimoli da 787 miliardi di dollari. Il provvedimento è a sostegno dei settori vitali dell’economia americana, compresi quello energetico e sanitario.

25 febbraio 2009: Il segretario al Tesoro Timothy Geithner annuncia di volere sottoporre le 19 principali banche americane a uno "stress test" per determinarne lo stato di salute e la resistenza a un eventuale perdurare della crisi. La decisione è presa nell’ambito del "Financial Stability Plan", una parte del quale è rappresentata dal "Public-Private Investment Program" e dal "Term Asset-Backed Securities Lending Facility" (Talf, volto a scongelare il credito al consumo e a favorire le piccole aziende).

5 marzo 2009: la Banca Centrale Europea abbassa i tassi di interesse di 50 punti base all’1,50 per cento e quindi nuovamente il 2 aprile di altri 25 punti base all’1,25 per cento. 2 aprile 2009: Il G20, riunito a Londra, decide di triplicare i finanziamenti al Fondo Monetario Internazionale, portandoli a 1.100 miliardi di dollari. Su richiesta di Francia e Germania, i leader delle venti nazioni più industrializzate e in via di sviluppo annunciano l’intenzione di bloccare i paradisi fiscali e migliorare la regolamentazione internazionale sui flussi finanziari.

3-6 aprile 2009: il dipartimento del Tesoro americano acquista un totale di 54,8 milioni di dollari in azioni privilegiate di dieci banche americane nell’ambito del Capital Purchase Program (altre operazioni analoghe seguiranno nei mesi successivi). La Fed annuncia un accordo per lo scambio di valuta (swap line) con la Banca di Inghilterra, la Banca Centrale Europea, la Banca del Giappone e la Banca Nazionale Svizzera per aiutare l’istituto di Washington a garantire liquidità alle istituzioni finanziarie americane.

7 maggio 2009: la Banca Centrale Europea abbassa i tassi di interesse di 28 punti base all’1 per cento. 7-12 maggio 2009: la Fed pubblica i risultati degli stress test. Nove delle 19 banche analizzate hanno un adeguato livello di capitale, mentre le altre dovranno reperire nuova liquidità per un totale di 185 miliardi di dollari. Fannie Mae e Freddie Mac annunciano di avere riportato nel primo trimestre 2009 perdite rispettivamente per 23,2 e 9,9 miliardi di dollari. 20 maggio 2009: il presidente degli Stati Uniti Barack Obama firma l’Helping Families Save Their Homes Act, che autorizza temporaneamente (fino all’1 gennaio 2014) la Fdic ad alzare le assicurazioni sui depositi da 100.000 a 250.000 dollari.

Giugno 2009: General Motors, nell’ambito di un accordo di ristrutturazione con il dipartimento del Tesoro americano e i Governi di Canada e Ontario, fa ricorso all’amministrazione controllata. Il 24 giugno, la Securities and Exchange Commission propone emendamenti volti a rafforzare la regolamentazione dei mercati e la Fed annuncia l’estensione o la modifica di vari dei propri programmi per garantire liquidità.

Luglio 2009: nel corso della testimonianza semestrale al Congresso, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke spiega che la crisi si va attenuando, sottolineando che "gli investitori stanno tornando ai mercati del credito". Nel corso del mese, altri indicatori macroeconomici lasciano pensare che la recessione iniziata nel dicembre 2007 comincia ad avviarsi a conclusione.

Agosto-settembre 2009: dal fronte macroeconomico arrivano ulteriori segnali di stabilizzazione, ma il tallone d’Achille del sistema americano continua a essere il mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione, dopo essere calato al 9,4 per cento, è tornato in agosto al 9,6 per cento, il massimo in 26 anni.
 

Fonte - APCOM

 

 

Un anno dopo Lehman: ora c'è il rischio carte di credito

16 Settembre 2009 23:59 MILANO - di Luigi dell'Olio
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Esattamente un anno dopo il fallimento di Lehamn Brothers, un nuovo spettro agita economisti e consumatori: le crescenti difficoltà dei titolari di carta di credito. A lanciare l’allarme nei giorni scorsi è stato il presidente di Deutsche Bank, Joseph Ackermann: “tra coloro che hanno carte revolving ci sono crescenti problemi a rimborsare i crediti ricevuti”.

La situazione
Il fallimento di Lehman Brothers rappresenta uno spartiacque nella crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo: quando - il 15 settembre 2008 - la banca americana ha dichiarato fallimento, sui mercati si è prodotto un clima di pessimismo che ha coinvolto tutti i settori e gli strumenti di investimento. Il timore è che una situazione simile possa produrre ora, ma con effetti più gravi, visto che i singoli consumatori non hanno certo le spalle larghe come una banca d’affari.Il mondo delle carte di pagamento è in continua espansione. Le più diffuse sono le carte di credito tradizionali (dette ‘charge’) e l’Italia ne conta ben 27 milioni, di cui quelle attive però sono poco più di 14 milioni. La carta è uno strumento comodo che evita il fastidio di dover portare con sé troppi soldi in contanti, e sicuro, a patto però di osservare alcune semplici regole di comportamento.

Revolving e tradizionale
Rispetto ad una carta di credito tradizionale, la revolving si distingue perché il pagamento del bene acquistato non avviene subito , ma in un periodo più lungo, concordato nel contratto stipulato. In cambio di questa facilitazione, il consumatore deve pagare un tasso di interesse, che può arrivare a toccare anche il 17-20% annuo. In sostanza, quindi, la revolving contiene in sé anche un finanziamento personale. In altre parole, questa carta offre la possibilità di spendere del denaro indipendentemente dai fondi disponibili sul conto corrente e di ripagare ratealmente il proprio debito. Ecco perché, quando si sottoscrive l’acquisto di una carta di credito revolving, bisognerebbe valutare con attenzione il costo effettivo legato al possesso e all’utilizzo dei servizi offerti. Risulta però piuttosto difficile capire quanto costa realmente, in quanto le voci di spesa sono numerose (per interessi, spese annuali, spese di incasso rata) e non facilmente sommabili.

Attenzione a costi e interessi
Le carte revolving sono quindi carte di credito particolari, che consentono di pagare le spese rateizzando gli estratti conti. Queste rate di pagamento servono a ricostruire il fido, che così è pronto per un nuovo utilizzo. Ogni mese al titolare viene inviato l'estratto conto, che riepiloga le spese fatte con la carta, l'utilizzo del credito, la rata addebitata e il fido di nuovo disponibile. Ognuno di questi estratti conto ha in media un costo di invio di 1,23 euro; per quelli superiori a 77,47 euro è prevista anche un'imposta di bollo di 1,81 euro. Le carte revolving vengono promosse dalle banche e dalle finanziarie, perché sono più redditizie delle carte di credito tradizionali: rateizzare gli addebiti aumenta infatti gli interessi che finiscono nelle casse degli intermediari. Secondo le ultime rilevazioni della Banca d'Italia, il tasso medio di interesse delle carte revolving per un credito fino a 1.500 euro è del 16,71%, quindi decisamente elevato. Ma ci sono operatori che si spingono anche oltre.

Carta revolving: non è un acquisto a rate!
Molti consumatori considerano la carta revolving come un’evoluzione dell’acquisto a rate. In realtà la differenza è enorme: la prima, infatti, non riguarda il singolo bene, ma tutti quelli acquistati. Quindi le spese e gli interessi si cumulano nel tempo via via che si spende. A maggior ragione, occorre usare molta prudenza e appuntare tutte le spese che si fanno, per non correre il rischio di fare il passo più lungo della gamba.
 

Fonte - MIAECONOMIA

 

 

Giappone, sarà vera svolta?

September 16th, 2009 - Mario Seminerio
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Con l’eccezione di un breve periodo di opposizione, nel 1990, il Partito Liberal Democratico (LDP) ha governato il Giappone negli ultimi 50 anni. Ora il Partito Democratico del Giappone (DPJ) ha ottenuto, il 30 agosto, una vittoria schiacciante nelle elezioni per il parlamento giapponese, ed oggi il parlamento ha eletto nuovo premier Yukio Hatoyama. Se un tale sconvolgimento politico si fosse verificato in qualunque altro paese, avrebbe attirato enorme interesse, sia in patria e all’estero. Invece, la reazione dei mercati finanziari giapponesi a questo storico cambiamento è stata pressoché nulla.
I politici giapponesi vanno e vengono, ma il loro impatto sul mercato tende ad essere molto limitato. Questo perché, da sempre, il potere è in mano ai burocrati. Ed è per questo che sia gli investitori nazionali che gli stranieri hanno finora largamente ignorato l’elezione. Vi è stato un certo interesse speculativo su singoli settori ed imprese che saranno probabilmente beneficiate dal nuovo governo, come l’assistenza all’infanzia e l’ambiente ma, in generale, le aspettative per il nuovo governo non sembrano elevate.

Un Giappone più consumatore e meno esportatore
Eppure, il manifesto del DPJ contiene alcune idee potenzialmente rivoluzionarie per la società giapponese, quali aumento del reddito disponibile per le famiglie, gratuità dell’istruzione superiore, abolizione dei pedaggi autostradali, eliminazione delle addizionali sulle aliquote d’imposta sui redditi. Misure che potrebbero trasformare quella giapponese in un’economia centrata sulla domanda interna, rispetto ad un modello in essere dal Dopoguerra che è invece centrato sulle esportazioni. Ma resta l’incognita di come finanziare le riforme: il pacchetto di tagli fiscali e nuove prestazioni è stimato ammontare a oltre il 3% del PIL, il DPJ sostiene che si può finanziare con tagli agli sprechi, oltre che con l’utilizzo del “tesoro nascosto”, un fondo di riserva istituito in molte parti del bilancio statale, stimato in 4000 miliardi di yen. Resta da capire quanto realistico è questo obiettivo.

Nel 2005, quando Koizumi è salito al potere, gli investitori stranieri hanno espresso forte interesse per il potenziale di cambiamento in Giappone. Questa volta le aspettative sono molto minori e gli investitori stranieri rimangono scarsamente investiti, preferendo concentrarsi in settori come auto e tecnologia. Tuttavia, se il DPJ avrà successo nell’attuazione del proprio programma-manifesto, i settori nazionali quali il retail saranno i principali beneficiari. Recenti indagini indicano che gli investitori stranieri rimangono molto sottopeso proprio in tali settori.

L’agenda di un partito-enigma
Il DPJ è un partito difficilmente classificabile, sul piano ideologico: appare come una sorta di raccoglitore di fuoriusciti del partito Liberal Democratico impegnati a perseguire una propria agenda politica di dissenso, ed ha inoltre accolto numerosi esponenti della sinistra. Il rischio di produrre politiche incoerenti e di avere come proprio collante unicamente il populismo è quindi elevato, senza contare che il programma potrebbe essere frustrato dalla problematica condizione fiscale del paese.
Vi è poi un potenziale rischio per i vincitori: l’ex presidente del partito, Ichiro Ozawa, è stato costretto a rassegnare le dimissioni all’inizio di quest’anno a seguito di uno scandalo politico relativo a donazioni. Ci sono voci che il suo successore e futuro primo ministro, Yukio Hatoyama, potrebbe a sua volta essere implicato in uno scandalo relativo a finanziamenti al partito. Se l’LDP decidesse di spingere questo tema dall’opposizione e Hatoyama fosse costretto a dimettersi da primo ministro, gran parte del impulso positivo del DPJ potrebbe essere vanificato.
Per attuare la propria agenda, il DPJ dovrà smantellare quello che è stato chiamato “il triangolo di ferro”, composto dal partito Liberal Democratico, dai grandi burocrati pubblici e dalle grandi imprese, e che è stato al centro del modello economico giapponese del Dopoguerra, fatto di esportazioni e di grandi imprese conglomerate. Il DPJ punta a creare un modello basato sui consumi delle famiglie, e necessita quindi di smantellare questa rete di rapporti privilegiati. Per ottenere ciò, cambierà il decentramento fiscale: i governi locali otterranno fondi che potranno essere spesi secondo le loro priorità e preferenze, mentre oggi la destinazione è decisa dai ministri e dai burocrati ministeriali attraverso le prefetture, che erogano materialmente gli importi. Anche il processo legislativo, oggi in capo ai burocrati ministeriali che redigono le leggi inviandole in seguito al parlamento senza praticamente alcun controllo del governo, verrà riformato.
La riforma del processo di allocazione delle risorse colpirà soprattutto il settore dei lavori pubblici, controllato dalla burocrazia statale, oltre ai trattamenti fiscali preferenziali per alcuni settori. Da queste revisioni di spesa, oltre che dal già citato “tesoro occulto”, dovrebbe prodursi il finanziamento delle misure volte ad aumentare il reddito personale disponibile. Tra tali misure figura un assegno familiare equivalente a 3300 dollari annui per ogni figlio, maggiori sussidi agli agricoltori e maggiori benefici di welfare, soprattutto ad uso degli anziani, una coorte di cittadini-elettori in forte ampliamento in Giappone, una delle società a maggiore invecchiamento. Per i pensionati sono previsti l’innalzamento del reddito minimo e l’eliminazione dei contributi sanitari. Per il mercato del lavoro sono previste misure a favore dei precari, un gruppo la cui consistenza è in forte aumento.
Più in generale, la retorica del futuro primo ministro Yukio Hatoyama, è di tipo populista e pro-regolamentazione, ed esprime critiche al sistema del libero mercato (che il Giappone tuttavia non ha mai realmente conosciuto), con grande tempismo rispetto alla delicata fase economica che stiamo vivendo, in cui gli elettori esprimono soprattutto un bisogno di protezione. Tuttavia, a giudizio degli economisti, per risolvere i propri problemi strutturali al Giappone serve meno e non più regolamentazione, anche se la maggiore sicurezza che le politiche promesse potranno dare (soprattutto sul mercato del lavoro) servirà a sostenere i consumi, che rappresentano oltre metà del Pil.

Problemi strutturali
Nell’anno fiscale 2010, che va da aprile a marzo dell’anno successivo, le proposte di spesa sociale del DPJ costeranno circa 7000 miliardi di yen, e questa cifra è destinata a subire un forte incremento negli anni successivi. Il partito di maggioranza ha promesso di non alzare le tasse sui consumi per i prossimi anni. Ciò pone l’agenda del DPJ in rotta di collisione con la dura realtà della posizione fiscale giapponese. Il debito pubblico salirà nel 2009 al 191 per cento del Pil, di gran lunga il peggiore del mondo sviluppato. Ulteriore stimolo pubblico, combinato con un calo delle entrate fiscali, rinvierà di molti anni l’appuntamento con il pareggio del saldo primario del bilancio pubblico (cioè al netto della spesa per interessi).
I problemi economici strutturali del Giappone sono così radicati che è lungi dall’essere chiaro se e in che modo il recente esito elettorale, per quanto “storico” in termini politici, riuscirà a mutare le prospettive di lungo termine dell’economia. Il consumatore giapponese, che non ha il peso del debito del suo omologo statunitense, è comunque molto debole: il tasso di risparmio è in costante diminuzione, ed è passato dal 15 per cento del reddito disponibile nel 1991 al 3 per cento del 2008, ponendo anche rischi per la sostenibilità dell’enorme stock di debito pubblico. Ma soprattutto il Giappone è tornato in deflazione. A luglio (ultimo dato disponibile), l’inflazione tendenziale complessiva era a meno 2,2 per cento annuale. Parte di questo movimento è dovuto al venir meno dello shock dello scorso anno nel prezzo delle materie prime. La recente ripresa dei prezzi dell’energia indica che probabilmente l’inflazione complessiva ha toccato un minimo ciclico. Ma il passo del declino nei prezzi core (al netto di alimentari ed energia) ha accelerato. L’enorme eccesso di capacità sia nel mercato del lavoro che in quello dei prodotti indica che è probabile che l’andamento dell’inflazione core proseguirà al ribasso. Gli analisti stimano che l’output gap, la differenza tra il Pil potenziale e quello corrente, sia intorno al 7 per cento, livello mai raggiunto nemmeno nel cosiddetto “decennio perduto”, negli anni Novanta.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

RUMOR: RIBALTONE ALLA BANCA DEL VATICANO (IOR)?

18 Settembre 2009 16:34 CITTA' DEL VATICANO - di APCOM
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La Santa Sede non conferma una riunione presieduta dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone. L'Istituto per le Opere di Religione è stato implicato in trame oscure e tangenti (Enimont) dai tempi di Marcinkus, Calvi, De Bonis. Lascia il presidente Caloia?
Si infittiscono le voci di un imminente cambio alla presidenza dello Ior, la Banca vaticana, guidata attualmente dal professor Angelo Caloia. E si parla con insistenza anche di una riunione del Consiglio direttivo dello Ior, presieduto dal cardinale Tarcisio Bertone, questa mattina nella sede della Banca vaticana al Torrione di Niccolò V, anche se ufficialmente la riunione non è stata confermata dal Vaticano.

L'Istituto per le Opere di Religione (Ior) è finito nell'occhio del ciclone con la pubblicazione del volume 'Vaticano s.p.A', in cui l'autore Gianluigi Nuzzi denuncia gli affari oscuri o poco chiari delle finanze vaticane, soprattutto nel periodo gestito dal 'banchiere di Dio', monsignor Paul Marcinkus e dal suo numero due, Donato De Bonis, ma anche quello dell'attuale presidente Caloia. Proprio per questo è partita l''operazione trasparenza' che dovrebbe portare al rinnovo del vertice dello Ior.

Il primo ottobre ci sarà un summit di esperti della finanza bianca su iniziativa della fondazione 'Centesimus annus' per discutere anche del rinnovo dei vertici laici dello Ior. Il mandato del banchiere lombardo Caloia scade nel marzo 2011, ma in molti parlano di una sua uscita imminente. Il nuovo presidente sarà selezionato in una rosa di nomi e tra i favoriti c'è Ettore Gotti Tedeschi, rappresentante in Italia del Banco Santander Central Hispano, ma soprattutto editorialista dell''Osservatore Romano', vicino al segretario di Stato vaticano. Sembra invece oramai improbabile la nomina di Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, sponsorizzato dal cardinale Giovanni Battista Re, oggi rinviato a giudizio per il caso Unipol.
Il professor Caloia è da 20 anni alla guida dello Ior ed è stato chiamato dal cardinale Casaroli per mettere la parola fine allo 'scandalo' dell'ex Banco Ambrosiano che coinvolse Marcinkus e Roberto Calvi. Ma come viene nominato il presidente dello Ior? Una commissione di super consulenti esterni dovrebbe proporre una rosa di nomi, ma la nomina spetterebbe al cardinale Bertone, anche se l'ultima parola resta sempre al Papa.

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di Orazio La Rocca - La Repubblica


Scatta oggi allo Ior, l´Istituto opere di religione, l´«operazione trasparenza» voluta da papa Ratzinger e dal suo braccio destro, il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone. E per i vertici della banca vaticana spira aria di ribaltone. A partire dal presidente Angelo Caloia, che potrebbe essere sostituito con circa due anni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato, fissata per contratto al 14 marzo 2011.

Il professor Caloia è da 20 anni al comando della struttura operativa dello Ior, il Consiglio di Sovrintendenza, col «grado» di presidente. Incarico a cui fu chiamato nel 1989, su designazione di Giovanni Paolo II per sostituire l´allora presidente, l´arcivescovo americano Paul Marcinkus, travolto dallo scandalo dell´ex Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.

Oltre al presidente, sarà rinnovato anche il Consiglio di Sovrintendenza, finora composto dal vice di Caloia, Virgil Dechant, americano e membro dei Cavalieri di Colombo, dal tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, dallo spagnolo Manuel Soto Serra e dallo svizzero Robert Studer dell´Union de Banques Swisse.

Nulla, comunque, trapela Oltretevere su chi andrà ad occupare la poltrona di Caloia. Di certo si sa che il prossimo presidente dello Ior verrà fuori da una rosa di sei nominativi selezionati da una commissione di super consulenti esterni. I 6 profili sono stati presentati a luglio.

Uno dei nomi che da un po´ di tempo circola con una certa insistenza è Ettore Gotti Tedeschi, rappresentante in Italia del Banco Santander Central Hispano (Spagna) e, soprattutto, editorialista dell´Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede. Un certo appeal nel Palazzo Apostolico lo suscita anche il tedesco Hans Tietmeyer, ex presidente della Bundesbank, economista di fama con alle spalle studi di teologia.

Ma recentemente si è parlato anche di Roberto Mazzotta, presidente della Banca popolare di Milano, sul quale punterebbero un gruppo di esponenti della finanza lombarda vicini all´Università Cattolica; Giuseppe Profiti, direttore amministrativo dell´ospedale vaticano Bambino Gesù, molto stimato dal cardinale Bertone; Antonio Fazio, ex governatore della Banca d´Italia, sponsorizzato dal cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi.

La decisione sarà presa nel cinquecentesco Torrione di Niccolò V - sede della banca pontificia - dove la Commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior presieduta dal cardinale Bertone dovrebbe provvedere anche a snellire il vertice della banca, annullando la figura del Prelato, l´ecclesiastico a cui finora sono stati demandati i compiti di collegamento tra il Consiglio di Sovrintendenza e la stessa Commissione cardinalizia.

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"Stiamo attraversando una crisi dai molteplici risvolti" dai quali emergeranno "nuovi assetti e inedite prospettive che matureranno in questi mesi e in questi anni". E' quanto ha detto questo pomeriggio monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, intervenendo al seminario nazionale su "Carità, Verità, Sviluppo integrale", organizzato in questi giorni ad Assisi dal network di associazioni cattoliche "Retinopera", sulla scorta della terza enciclica del Papa, "Caritas in Veritate".

In questo frangente, ha aggiunto il prelato, sul versante della carità, della verità e dello sviluppo integrale "i cattolici sono chiamati a intervenire con particolare urgenza". C'è la necessità, ha aggiunto, di sviluppare lo "statuto di cittadinanza" del cristianesimo "nella vita e nella cultura contemporanea", grazie a "uomini retti" che provengono dal "vasto e complesso mondo cattolico", il cui "contributo" è "importante e atteso per il bene comune nel passaggio significativo e incerto di questi anni".

"Non spetta alla Chiesa prospettare soluzioni tecniche per la politica degli Stati, ma le compete un irrinunciabile dovere di annuncio, testimonianza e presenza", ha aggiunto il segretario generale della Cei.

"Non ci è concesso oggi semplicemente un 'di più di etica', un qualche discorso morale", ha proseguito monsignor Crociata, secondo cui "siamo invece spronati a sviluppare, in dialogo con tutte le persone di buona volontà, una nuova ed approfondita riflessione sul senso e sui fini dell'economia e della stessa vita sociale", a partire dalla consapevolezza - come scrive Benedetto XVI - che "la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica" e che "ogni riflessione culturale diventa feconda se ha il coraggio di mettere in campo e di confrontarsi con la totalità dell'umano".
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

  «Attenti, la recessione può tornare»

20 Settembre 2009 14:37 NEW YORK - di Il sole 24 Ore

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«Se prima le prospettive mondiali erano terribili, adesso sono "solo" deprimenti». Il premio Nobel 2008 per l'economia, Paul Krugman, liberal per eccellenza, tira un sospiro di sollievo, ma rimane molto preoccupato. «La temuta grande depressione non c'è stata e probabilmente oggi ci troviamo in una situazione di nuova crescita. Ma c'è una grande differenza tra lasciarsi una recessione alle spalle e avviare una vera ripresa. Gli interventi statali hanno evitato il peggio, hanno fermato la catastrofe, ma non sono ancora sufficienti a rilanciare l'economia».

Professor Krugman, è possibile che torni la recessione?
Ci sono buone possibilità, inferiori al 50%, ma ci sono. Questo perché la ripresa è fondamentalmente costruita sulle scorte supplementari e sulle giacenze e storicamente questo porta a una crescita molto lenta. Le misure di sostegno all'economia varate dai governi nei prossimi mesi si affievoliranno e temo che ci possa essere una recessione a W.

I deficit quindi hanno salvato il mondo?
Meno male che c'è stata una decisa espansione della spesa pubblica. Se i governi non avessero accettato di aumentare i deficit, saremmo tornati agli anni 30. Ma ora i leader mondiali devono fare di più.

Recentemente ha affermato che «se persino l'Italia può gestire rapporti debito-Pil superiori al 100%, anche noi americani dovremmo farcela».
In effetti utilizzo l'Italia, ma anche il Belgio, come recenti esempi di paesi in cui è possibile avere un alto livello di indebitamento, paragonabile a quello che può attendere gli Stati Uniti in futuro. Due esempi di paesi che nonostante il debito elevato, non sono falliti.

C'è il rischio che scoppi una nuova bolla?
Negli ultimi 25 anni siamo passati da una bolla all'altra e nel contempo abbiamo sempre proclamato un ritorno alla stabilizzazione. Ma in realtà si raggiungeva un'apparente stabilità sostituendo una bolla con un'altra. È difficile poter dire quale sarà la prossima, comunque temo che siamo in una situazione di vulnerabilità. La domanda da farsi è: ci sarà una riforma finanziaria sufficiente a evitare una new bubble?

Gli ultimi dati evidenziano una disoccupazione Usa in aumento al 9,7%. Quali sono le sue previsioni?
Temo che dobbiamo accettare ancora un lungo periodo di disoccupazione. Se osserviamo le recenti recessioni negli Stati Uniti, nei primi anni 90 e nel 2002, in entrambi i casi all'avvio della ripresa la situazione del mercato del lavoro è continuata a peggiorare per un altro anno e mezzo. La prospettiva adesso è che la disoccupazione continui a crescere fino al 2012.

Molti lavoratori perderanno anche l'assicurazione per le cure mediche. Da sempre lei è un forte sostenitore di una riforma della sanità Usa. Quanto è soddisfatto del piano presentato dal senatore Max Baucus?
Il nuovo piano è insufficiente. Se migliorato, forse, può diventare accettabile. L'approccio giusto, secondo me, è avere una maggiore erogazione dei servizi assicurativi-sanitari di tipo governativo. Ci vorranno anni, se non decenni, perché diventi possibile. Ma è anche vero che alcuni paesi europei, fra cui la Svizzera, hanno una copertura sanitaria universale con un sistema privato di assicurazioni. Questo è possibile con il giusto sistema di sussidi e regolamenti.

Come giudica le ultime decisioni americane di tassare le importazioni di tubi di acciaio e pneumatici dalla Cina? Si ritorna al protezionismo? Quanto è forte il rischio di un'escalation?
Penso che si sia trattato di misure assolutamente calibrate e ponderate, ci si è mossi all'interno di quanto stabilito in sede Wto nei rapporti con la Cina. Si tratta di protezioni safeguards che gli stati possono attivare per proteggere l'industria da fenomeni eccessivamente avversi per quanto riguarda le importazioni. D'altra parte il libero commercio puro non è mai esistito; ha sempre bisogno di cuscinetti per proteggere l'industria da shock eccessivi.

La Cina è il più grande creditore degli Stati Uniti. È lecito attendersi ritorsioni? Le ultime flessioni del dollaro sono state accompagnate da voci insistenti secondo cui Pechino intende diversificare gli investimenti in riserve valutarie, senza trascurare l'alternativa oro.
In questo gioco la Cina ha da perdere più di quanto possono perdere gli Stati Uniti. E la recente caduta del dollaro, in realtà, aiuta gli Usa. Questo può essere un problema per l'Europa e per il Giappone, ma aiuta le esportazioni statunitensi a essere più concorrenziali. Non vedo una minaccia.

Lei ha anche avanzato l'ipotesi che l'Europa abbia commesso un errore dieci anni fa nell'adottare l'euro, più che altro perché per reagire alle crisi è meglio avere una sola entità decisionale. Ma la più devastante decisione di lasciar fallire Lehman, è stata presa proprio da un'autorità finanziaria unica, quella americana?
È vero. Però è altrettanto vero che la crisi è stata profonda anche in Europa, quindi non è chiaro quanta differenza abbia fatto la decisione di lasciar cadere Lehman. L'Europa pur avendo dei punti di forza, ha un problema strutturale: avete un'unica valuta, però non c'è un'unica autorità finanziaria. Un'altra problematica è la bassa mobilità del mercato del lavoro. L'Eurozona, quindi, ha più problemi di quelli dell'area dollaro, che invece, ha funzionato bene a confronto.

Le responsabilità della crisi a suo giudizio sono da attribuire, in buona parte, all'ex presidente della Fed Alan Greenspan e alle sue politiche monetarie durante la presidenza Bush. Ma certe patologie del sistema - il degrado etico, i buchi nella rete dei controlli - erano già presenti negli anni di Clinton: le bancherotte Worldcom ed Enron insegnano. Mi perdoni, ma lei non era un consigliere di Enron?
No, facevo solo parte di un comitato consultivo dell'azienda. Ero stato chiamato come consulente per informarli sulla crisi finanziaria mondiale. Non avevo alcuna conoscenza di quello che avveniva nell'azienda.

Professore, per concludere, dove sta andando l'economia?
Ci sono stati cambiamenti nella giusta direzione e l'abbiamo visto negli Stati Uniti. Un cambiamento magari un po' troppo prudente, ma c'è motivo di sperare che continui. Siamo riusciti a venir fuori dagli orribili anni 30 più forti, con una migliore giustizia sociale. Voglio sperare che la stessa cosa si verifichi ora.
 

Fonte - Il sole 24 Ore

 

 

 

  Sabato 26 Settembre 2009   Lunedì 28 Settembre 2009   Mercoledì 30 Settembre 2009  
       
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  Trappola liquidità, alert ennesima bolla

21 Settembre 2009 01:23 MILANO - di IlSussidiario.net

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Il default del secolo? «Stiamo pagando lo scotto non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come la crisi è stata gestita». È severo con Barack Obama, Franco Debenedetti: come può il presidente sostenere in modo credibile che non ci saranno più salvataggi da parte dello stato, quando l’amministrazione ha fatto scelte contraddittorie, salvando e non salvando gli istituti a rischio? Non solo: facendo come ha fatto il governo ha dato una grossa mano alla crisi, legittimando prassi di moral hazard. Il buon proposito di evitare nuovi rischi sistemici c’è, ma non basta: tutto sta nel capire come fare e le proposte, per ora, sul piatto non ci sono.

A un anno dal default di Lehman Brothers, ha detto Obama nel suo discorso alla Federal Hall, «non torneremo ai giorni delle azioni sconsiderate e degli eccessi incontrollati alla base della crisi». Ci vogliono le riforme, ha detto, per impedire a una crisi come questa di ripetersi.

Credo che Obama abbia ragione. Non per i motivi che ha detto, però. Il discorso riduce tutto ai rapporti tra Wall Street e Washington. Servirebbe invece adottare una logica più sistemica, e riconoscere che stiamo pagando lo scotto non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come la crisi è stata gestita.

Che cosa intende dire?

C’erano due soluzioni "pulite". Una era quella del fallimento: gli azionisti perdono i loro soldi, il management viene cacciato, i bilanci vengono puliti. Questa è la soluzione di mercato. L’altra soluzione era quella di governo, che consiste nella nazionalizzazione delle banche: anche lì gli azionisti perdono, il management viene sostituito, si decide se e in che misura rimborsare gli obbligazionisti, e poi, rapidamente, il governo rivende le banche ripulite al mercato. È la soluzione svedese.

Il governo Usa però non ha seguito né l’una né l’altra stada…

Infatti. Mi rendo perfettamente conto che sono soluzioni limite, in qualche misura astratte. Le procedure fallimentari, anche negli Stati Uniti, hanno tempi incompatibili con la necessità di fermare la frana in tempi di giorni se non di ore; e i governi non hanno le risorse umane e le competenze per gestire banche, e quindi devono per forza ricorrere ai medesimi manager. Inoltre la nazionalizzazione presenta il pericolo che ci sia qualcuno che ci pigli gusto, che le banche non vengano più restituite al sistema privato e che quindi si finisca in un sistema di banche pubbliche. Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Si é inondato il mercato di liquidità: l’incendio è stato spento, le banche ricominciano a guadagnare, ma la qualità degli attivi dei loro bilanci è in buona parte quella di prima.

Abbiamo visto pesi e misure differenti: Lehman è stata lasciata fallire, mentre il colosso delle assicurazioni Aig, per esempio, è stato salvato.

Obama, quando dice che nessuno dovrà più illudersi che ci siano salvataggi da parte dello stato, come può pretendere di essere creduto? Con l’eccezione di Lehman, l’amministrazione Usa non ha fatto mancare a nessuno il sostegno diretto o indiretto, esplicito o implicito. Ha legittimato l’azzardo morale: e adesso dice che non lo farà più? Eliminare il problema alla radice, impedendo sul nascere che si formino situazioni che presentano rischi sistemici é un buon proposito, ma chi vigilerà e lancerà l’allarme? Avrà la visione per individuarli, e i poteri per smontarli?

Il presidente ha garantito una svolta. «Il lavoro di recupero prosegue - ha detto - le tempeste dei due anni passati stanno iniziando a calmarsi».

Sarebbe masochista non riconoscerlo. Ma sarebbe compiacente non essere avvertiti dei pericoli che hanno prodotto proprio le misure di contrasto della crisi, cioè la massa di danaro con cui si è inondato il mercato. Quanto alle misure per "non tornare alle misure sconsiderate", per citare la fase di Obama, le proposte che si fanno sono anche giuste, ma o non sono molto efficaci, o sono difficili da applicare. Ad esempio: chi devono essere i nuovi supervisori? Una sola o più autorità?

Joseph Stiglitz ha detto che Wall Street è ancor più fragile, perché le banche sono più grosse di un anno fa e le regole ancora non ci sono. È così?

Ha ragione anche lui: se ci sono banche "too big to fail" nessuno crederà che lo stato non interverrà a salvarle. E poi, quando é che una banca diventa troppo grossa? Lehman non era tra le più grosse, e Aig non era neppure una banca. Cosa vuol dire che non ci deve essere un rischio sistemico? Giustissimo, ma in base a che cosa si valuta se c’è un rischio sistemico oppure no? Ci vuole una strategia per gestire le emergenze, dice il governo. Benissimo. Quale? Anche perché le emergenze hanno la pessima abitudine di non presentarsi due volte nello stesso modo.

Esiste un provvedimento per ridurre i rischi sul quale c’è un consenso unanime: quello di aumentare i requisiti patrimoniali delle banche.

Ottimo, ma intanto diamo alle banche dei messaggi contraddittori: da un lato diciamo loro di aumentare gli impieghi, di prestare più soldi, dall’altro di ridurre la leva. Diciamo che devono rafforzarsi e le rimproveriamo se ricominciano a guadagnare. Il Fmi ha calcolato che per arrivare ai rapporti di patrimonializzazione di metà anni ’90 ci vorrebbero a livello mondiale 1700 miliardi di dollari. Alla fine l’unica cosa sulla quale ci si trova facilmente d’accordo è di mettere un tetto agli stipendi dei banchieri.
Lasciamo tutto così com’è, compresi i superbonus?

Alcuni bonus erano e sono scandalosi, l’indignazione è giustificata. Riportarli alla decenza è legittimo, anche se non lo sono tutti i mezzi proposti. L’importante è non pensare che siano stati i bonus la causa della crisi, e che quindi ridurli serva a evitare crisi future. Un discorso analogo vale per gli impieghi: vogliamo che Passera guadagni di meno o che vengano dati prestiti alle aziende che lo meritano e che possono restituirli?

A un anno dal crack secondo lei prevalgono i fattori di sofferenza - i fallimenti che continuano per le banche regionali più piccole, o i titoli tossici ancora in possesso della Fed per esempio - o i segnali positivi?

Sicuramente ci sono segnali positivi. Ma i problemi non sono stati risolti. E il pericolo che con l’inondazione di capitale immesso nel sistema si crei un’altra bolla è reale.
 

Fonte - IlSussidiario.net

 

 

 

 

 

Al Congresso Usa fronda anti-Obama per la riforma dei mercati finanziari

20 Settembre 2009 20:13 WASHINGTON - Il sole 24 Ore
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A pochi giorni dal G-20 di Pittsburgh è giunta ieri dal Senato, fin troppo pubblica, una sfida politica alla Casa Bianca in materia di riforma per la supervisione del settore finanziario. La sfida, che ribalta i programmi dell'amministrazione, è tanto più delicata in quanto giunge da un compagno di partito di Barack Obama, il potente senatore democratico del Connecticut, Christopher Dodd, capo della commissione bancaria al Senato, determinato a non lasciare al potere esecutivo il monopolio per una delle riforme più importanti di questo mandato legislativo e forse dell'intero decennio.
Il senatore democratico ha annunciato di aver messo a punto un progetto di riforma che prevede la nascita di una superagenzia per il controllo del settore bancario e finanziario americano che assorbirà le quattro grandi agenzie di controllo attuali, la Federal Deposit Insurance Corporation, (Fdic, che assicura i depositi), l'Office of Thrift Supervision, il Comptroller of the Currency e appunto la Fed, sotto l'ombrello di un'unica superagenzia di controllo.
Dodd è un senatore autorevole, ma in difficoltà politiche nel suo stato dove è stato accusato di rapporti troppo "vicini" con alcuni protagonisti del settore finanziario. Anche per questo sono in molti a Washington a dire che è motivato a intraprendere iniziative di rottura per dimostrare la sua indipendenza dal settore bancario e finanziario. Comunque sia il suo piano è un attacco alla Casa Bianca perché prevede un ridimensionamento dei poteri acquisiti dalla Banca Centrale americana in questa crisi in materia di supervisione sistemica per il settore finanziario e comunque un ridimensionamento del suo ruolo, guardando in avanti. Un approccio dunque diametralmente opposto a quello della Casa Bianca che vuole invece mettere la Federal Reserve al centro dei controlli per rischi sistemici nella finanza e nell'economia. Obama e la sua squadra economica vogliono anche mantenere intatte molte funzioni delle altre agenzie che resterebbero indipendenti, con il Comptroller of the Currency e l'Office of Thrifts, riunite in un'unica organizzazione.
La scelta della Casa Bianca è ovvia: cambiare radicalmente il sistema di controllo avrebbe comportato forti resistenze di potenti lobby di settore, ritardi per l'iter legislativo e aumentato il rischio di disfuzioni impreviste, ma potenzialmente implicite in un passaggio radicale che la Casa Bianca aveva considerato e poi escluso. La Casa Bianca inoltre può contare sull'appoggio di un alleato in Congresso, potente quanto Dodd, il deputato democratico Barney Frank, capo della Commissione Finanza, anch'essa preposta alla formulazione di un prgoetto di riforma, che anticipano le indiscrezioni è più simile a quello dell'amministrazione.
Resta il fatto che Obama si presenterà al G-20 senza un fronte unito in Congresso dietro le sue proposte. Anche per questo, per giocare d'anticipo sulle iniziative di Dodd, la Casa Bianca aveva scatenato un'offensiva di comunicazione preventiva. Il Presidente in un solenne discorso lunedì scorso a Federal Hall a New York, in occasione dell'anniversario della caduta di Lehman Brothers, aveva offerto la sua visione di riforma, identificando nella Fed la nuova autorità di controllo del settore finanziario necessaria per impedire il rischio di un vuoto di potere o di responsabilità per gli stessi regolatori.
Il Presidente ha anche proposto nuove regole per proteggere il consumatore attraverso una nuova agenzia, la Financial Protection Agency. Infine si è impegnato a chiudere i gap che esistono a livello internazionale fra i diversi paesi e questo, ha detto «sarà il compito principale del prossimo G-20 di Pittsburgh». Pochi giorni la Fed aveva illustrato il suo progetto di controllo degli stipendi dei banchieri e venerdì infine è intervenuto di peso Larry Summers, il principale consigliere di Obama in materia economica: «Chi attacca le nostre idee e quella in particolare per proteggere il consumatore dicendo che i fiorai non potranno più concedere crediti, usa tattiche del terrore simili a quelli che dicono che la riforma sanitaria creerà "commissioni per la morte"...».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

E' ORA DI RINNOVARE IL G-20

21 Settembre 2009 16:44 NEW YORK - di Mario Platero
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Proposta della Casa Bianca per l'incontro di Pittsburgh. Obiettivo: raddrizzare gli squilibri strutturali delle grandi economie e lanciare un nuovo modello di crescita. Il documento e' gia' in circolazione ma...
C'e' una proposta per il G20 di Pittsburgh, anzi, una megaproposta per raddrizzare gli squilibri strutturali delle grandi economie e lanciare un nuovo modello di crescita su basi piu' solide. La proposta ha anche un nome, si chiama Framework for Sustainable Economic Growth, (Quadro per una Crescita Economica Sostenibile), viene dagli Stati Uniti, anzi dalla Casa Bianca, e chiede a ciascuna delle grandi aree economiche di passare all'azione nei rispettivi comparti piu' fragili: gli Stati Uniti dovranno impegnarsi a ridurre il loro disvanzo pubblico e il debito e a risparmiare di piu'; la Cina si impegnera' e ridurre le proprie esportazioni e l'Europa dovra' varare nuove misure per liberarsi una volta per tutte delle vecchie immarciscibili rigidita' strutturali. Una megariforma economica insomma. Il documento messo a punto dall'amministrazione americana circola gia' nelle capitali dei 20 grandi, ma non avra' necessariamente facile applicazione.

Al di la' degli intenti generici, condivisibili e apprezzabili da tutti, quando poi si scende nei dettagli, ad esempio come limitare le esportazioni cinesi, le vedute divergono immeditamente. Indiscrezioni raccolte a Washington e riprese dalla stampa americana incluso il Wall Street Journal di questa mattina confermano che all'ordine del giorno, sul piano piu' tecnico, vi saranno anche le ipotesi di armonizzare le regole di controllo sul piano internazionale, aumentare i livelli minimi nei rapporti capitale attivo di bilancio per le banche e le grandi istituzioni finanziarie, controllare gli stipendi e , soprattutto, i bonus de banchieri con l'obiettivo di limitare incentivi che premiano il rischio a scapito della severita' dei controlli. Di questo per oraa Washington si sta occupando direttamente la Federal Reserve.

Le proposte dell'amministrazione tuttavia sono sotto attacco dallo stesso Congresso a Washington, soprattutto per le riforme interne che, sul piano dell'armonizzazione delle regole, avranno un impatto non da poco sulle azioni degli altri paesi membri del G20. E' di ieri la notizia di un attacco durissimo del senatore Christopher Dodd, il potente capo della commissione bancaria al Senato, al progetto di riforma interna per il settore finanziario messo a punto dalla Casa Bianca. Dodd ha annunciato di aver messo a punto un disegno di riforma indipendente e chiede sia varata una nuova superagenzia per il controllo del settore bancario e finanziario americano.

La nuova agenzia assorbira' le quattro grandi agenzie di controllo attuali, la Federal Deposit Insurance Corporaiton, (FDIC, che assicura i depositi), l'Office of Thrift Supervision, il Comptroller of the Currency e appunto la Fed, sotto l'ombrello di un'unica superagenzia di controllo. Dodd e' un senatore autorevole, ma in difficolta' politiche nel suo stato dove e' stato accusato di rapporti troppo "vicini" con alcuni protagonisti del settore finanziario. Anche per questo sono in molti a Washington a dire che il Senatore e' motivato a intraprendere iniziative di rottura per dimostrare la sua indipendenza dal settore bancario e finanziario. Comunque sia il suo piano e' un attacco alla Casa Bianca perche' prevede in particolare un ridimensionamento dei poteri acquisiti dalla Banca Centrale americana in questa crisi in materia di supervisione sistemica per il settore finanziario e comunque un ridimensionamento del suo ruolo guardando in avanti. Un approccio dunque diametralmente opposto a quello della Casa Bianca che vuole invece mettere la Federal Reserve al centro dei controlli per rischi sistemici nella finanza e nell'economia.

Obama e la sua squadra economica vogliono anche mantenere intatte molte funzioni delle altre agenzie che resterebbero indipendenti, con il comptroller of the Currency e l'Office for Thrifts, riunite in un'unica organizzazione. La scelta della Casa Bianca e' ovvia: cambiare radicalmente il sistema di controllo avrebbe comportato forti resistenze di potenti lobby di settore, ritardi per l'iter legislativo e aumentato il rischio di disfuzioni impreviste, ma potenzialmente implicite in un passaggio radicale che la Casa Bianca aveva considerato e poi escluso. La Casa Bianca inoltre puo' contare sull'appoggio di un alleato in Congresso, potente quanto Dodd, il deputato democratico Barney Frank, capo della Commissione Finanza, anch'essa preposta alla formulazione di un prgoetto di riforma, che anticipano le indiscrezioni e' piu' simile a quello dell'amministrazione.

Comunque sia, per il Presidente, che ieri ha fatto una controversa apparizione su cinque reti televisive con altrettante interviste si apre una settimana decisiva, sia sul piano politico, con l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e le sfide sull'Iran e sul processo di pace in Medio Oriente che sul quello economico, con il vertice di Pittsburgh convocato a partire da gioved' 24 in serata per poi proseguire nella giornata di venerdi'. Dopo la grzande visibilita' di domenica per Obama la sfida e' cruciale per il futuro della sua amministrazione: se non portera' a casa dei risultatoi questa settimana le ambizioni politiche e di riforma politica potrebbero emergere di molto ridimensionate.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

TASSI USA: LA FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%

23 Settembre 2009 20:16 NEW YORK - di WSI
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La Banca Centrale Americana ha mantenuto invariata la forchetta sui fed funds. L’economia ha accelerato ad agosto, ma restera’ ancora debole per diverso tempo. I tassi continueranno a rimanere "eccezionalmente bassi". Rallenta l'acquisto di asset MBS.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse ad un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. I tassi sono fermi all’attuale livello dal 16 dicembre dello scorso anno. Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha accompagnato la decisione; confermato il programma di riacquisto di Treasury fino a $300 miliardi entro ottobre, esteso quello sugli asset MBS.

Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:

Le informazioni ricevute dall’incontro del FOMC svoltosi ad agosto suggeriscono che l’attivita’ economica si e’ ripresa dopo la severa contrazione. Le condizioni all’interno dei mercati finanziari sono ulteriormente migliorate, si e’ intensificata l’attivita’ nel comparto immobiliare. La spesa delle famiglie sembra essere entrata in una fase di stabilizzazione ma resta limitata dalla continua perdita di posti di lavoro, dalla debole crescita dei salari, dalla ridotta ricchezza e dal limitato accesso al credito. Le aziende stanno continuando a ridurre investimenti e personale sebbene ad un tasso inferiore; ma continuano a registrare progressi verso un migliore allineamento tra scorte e vendite. Sebbene l’attivita’ economica restera’ probabilmente debole ancora per diverso tempo, il Comitato ritiene che le azioni mirate alla stabilizzazione dei mercati e degli istituti finanziari, gli stimoli fiscali e monetari e le forze di mercato supporteranno un rafforzamento della crescita economica ed un graduale ritorno a maggiori livelli di utilizzazione delle risorse in un contesto di stabilita’ dei prezzi.

Con il significativo rallentamento dell’utilizzazione delle risorse che continuera’ a limitare le pressioni sui costi, in un contesto inflativo di lungo termine stabile, il Comitato si aspetta che l’inflazione restera’ contenuta per diverso tempo.

In tali circostanze, la Federal Reserve continuera' ad impiegare un ampia varieta' di strumenti per promuovere il recupero economico e preservare la stabilita’ dei prezzi. Il Comitato manterra’ il target sui fed funds nel range 0.00%-0.25% e continua ad anticipare che le condizioni economiche probabilmente contribuiranno a mantenere i tassi a livelli eccezionalmente bassi per un lungo periodo. Per fornire supporto alle attivita’ di prestito mutui ed al mercato immobiliare e per migliorare le condizioni generali all’interno dei mercati del credito privati, la Federal Reserve acquistera’ $1.25 mila miliardi in asset MBS (Mortgage-Backed Securities) e fino a $200 miliardi in debito. Il Comitato rallentera’ gradualmente l’attivita’ di acquisto di tali strumenti per promuovere una piu’ semplice transizione sui mercati ed anticipa che saranno eseguiti entro la fine del primo trimestre 2010. Come annunciato in precedenza, il programma di acquisto di Treasury fino ad un valore di $300 miliardi sara’ completato entro la fine di ottobre 2009. Il Comitato continuera’ a valutare la tempistica e l’ammontare generale degli acquisti alla luce dello sviluppo dell’outlook economico e delle condizioni dei mercati finanziari. La Federal Reserve sta monitorando la dimensione e la composizione del proprio stato patrimoniale ed apportera’ delle modifiche ai programmi di credito e liquidita’ cosi’ come garantito.

A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen.

Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di confermare il tasso interbancario in un range di 0.0%-0.25%:

Information received since the Federal Open Market Committee met in August suggests that economic activity has picked up following its severe downturn. Conditions in financial markets have improved further, and activity in the housing sector has increased. Household spending seems to be stabilizing, but remains constrained by ongoing job losses, sluggish income growth, lower housing wealth, and tight credit. Businesses are still cutting back on fixed investment and staffing, though at a slower pace; they continue to make progress in bringing inventory stocks into better alignment with sales. Although economic activity is likely to remain weak for a time, the Committee anticipates that policy actions to stabilize financial markets and institutions, fiscal and monetary stimulus, and market forces will support a strengthening of economic growth and a gradual return to higher levels of resource utilization in a context of price stability.

With substantial resource slack likely to continue to dampen cost pressures and with longer-term inflation expectations stable, the Committee expects that inflation will remain subdued for some time.

In these circumstances, the Federal Reserve will continue to employ a wide range of tools to promote economic recovery and to preserve price stability. The Committee will maintain the target range for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and continues to anticipate that economic conditions are likely to warrant exceptionally low levels of the federal funds rate for an extended period. To provide support to mortgage lending and housing markets and to improve overall conditions in private credit markets, the Federal Reserve will purchase a total of $1.25 trillion of agency mortgage-backed securities and up to $200 billion of agency debt. The Committee will gradually slow the pace of these purchases in order to promote a smooth transition in markets and anticipates that they will be executed by the end of the first quarter of 2010. As previously announced, the Federal Reserve’s purchases of $300 billion of Treasury securities will be completed by the end of October 2009. The Committee will continue to evaluate the timing and overall amounts of its purchases of securities in light of the evolving economic outlook and conditions in financial markets. The Federal Reserve is monitoring the size and composition of its balance sheet and will make adjustments to its credit and liquidity programs as warranted.

Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 
 

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