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Se
questa è una ripresa
01 Settembre 2009 23:55
LUGANO - di Alfonso Tuor
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La crisi non è ancora finita e quindi è troppo
presto per interrompere i piani di stimolo fiscale e la
politica monetaria espansiva degli ultimi mesi. Questo il
verdetto di ministri delle Finanze e banchieri centrali
riunitisi a Londra durante lo scorso fine settimana per
preparare il vertice del G20 che si terrà a Pittsburgh il 24
e 25 settembre.
Il giudizio è chiaro: vi è un miglioramento della situazione
economica (anche abbozzi di ripresa), ma non si sa quanto
sia solido e soprattutto quanto sia sostenibile nel tempo.
Insomma, permane un forte timore di una nuova caduta in
recessione dell’economia mondiale, che addirittura potrebbe
diventare una certezza se le banche centrali dovessero
cominciare a chiudere i cordoni monetari.
Le conclusioni delle autorità monetarie e politiche appaiono
assolutamente condivisibili. Banche centrali e governi sono
riusciti ad evitare il peggio, ossia il collasso del sistema
bancario. Sono pure riusciti a ripristinare, almeno in
parte, il funzionamento del mercato dei capitali e a
stabilizzare un’economia che all’inizio dell’anno era in
caduta libera. Questi risultati, frutto di eccezionali
misure di politica economica, non possono essere confusi con
una ripresa economica sana e duratura, anche perché non è
stato finora risolto nessuno dei problemi che hanno causato
la crisi.
In primo luogo, il sistema bancario non è stato risanato. I
titoli tossici detenuti dalle banche sono apparentemente
scomparsi nel nulla. In realtà sono ancora nascosti nelle
pieghe dei bilanci bancari, ma nessuno ne parla, poiché non
provocano più perdite miliardarie a causa del cambiamento
delle regole contabili. Le banche centrali hanno inoltre
inondato di liquidità il sistema bancario, risolvendo i
problemi di rifinanziamento. Dopo aver rischiato il collasso
solo pochi mesi fa, gli istituti bancari sembrano ora
scoppiare di salute.
Le autorità monetarie e politiche sono perfettamente
consapevoli che non è tutto oro quello che luccica e hanno
trovato un’intesa per aumentare sensibilmente i requisiti
del capitale delle banche e anche la sua qualità, ma sanno
che queste proposte non potranno essere adottate
immediatamente da un sistema bancario ancora molto fragile.
Infatti aumentare la dotazione di capitale non è
un’operazione indolore: il Fondo monetario internazionale ha
calcolato che le banche americane ed europee dovrebbero
attuare aumenti di capitali per 875 miliardi di dollari, se
il rapporto minimo tra mezzi propri e quelli di terzi
venisse fissato al 4%, e ben 1.700 miliardi di dollari se
fosse stabilito al 6%.
Gli altri cambiamenti prospettati comporterebbero ulteriori
aumenti di capitale che si aggiungerebbero a quelli dovuti
alle perdite «nascoste» che le grandi banche prima o poi
dovranno denunciare. È molto probabile che questi principi
vengano fatti propri dal G20, ma che la loro entrata in
vigore sia rinviata. Da un lato si constata dunque che le
banche sono ancora malate; dall’altro si agisce come se i
loro problemi fossero invece risolti. In pratica si stanno
ripetendo gli errori del Giappone, che negli anni Novanta si
rifiutò di prendere atto dei buchi presenti nei bilanci
bancari con il risultato che occorse praticamente un
decennio per smaltire le perdite nascoste.
In secondo luogo è difficile intravedere miglioramenti in
relazione, da un canto, allo scoppio della bolla formatasi
nel mercato immobiliare di alcuni Paesi e, d’altro canto, al
livello eccessivo di indebitamento delle famiglie. Anzi, il
forte aumento della disoccupazione induce a ritenere che non
siano stati fatti passi avanti. Ad esempio, negli Stati
Uniti non è detto che sia veramente finita la caduta dei
prezzi delle case, che sono già scesi in media del 30%
rispetto ai massimi, mentre il continuo aumento dei
pignoramenti non tocca più solo i subprime, ma anche i
migliori debitori, i quali o abbandonano le loro case perché
il mutuo ipotecario è nettamente superiore al prezzo di
mercato oppure perché hanno perso e non riescono più a
pagare le rate del mutuo.
Ma c’è di più. Impressionanti scricchiolii giungono dal
commercial real estate (ossia dai prestiti concessi per la
costruzione di supermercati, alberghi, edifici per uffici,
ecc.). Questo segmento di mercato è stimato attorno ai 7.000
miliardi di dollari (al confronto i subprime sembrano
noccioline) e ha caratteristiche particolari: una parte di
questi prestiti è stata cartolarizzata (come le carte di
credito, i mutui ipotecari, ecc.), ma una parte consistente
è ancora a carico delle banche, soprattutto quelle di medie
e piccole dimensioni. Non a caso è proprio verso questo tipo
di istituti, a rischio di moria, che si stanno ora
indirizzando gli aiuti della Federal Reserve.
I vecchi problemi non sono stati risolti. In più se ne sono
creati di nuovi. I principali sono due: il forte aumento
della disoccupazione e l’esplosione dei disavanzi pubblici.
Gli analisti sostengono che non bisogna guardare i dati
della disoccupazione, poiché storicamente essa comincia a
diminuire solo molto tempo dopo l’avvio di una ripresa.
Questa tesi è valida per recessioni tradizionali (e quindi
di una durata variabile tra i due e i tre trimestri), ma non
per questa crisi.
Infatti se si esclude il crollo dell’occupazione negli Stati
Uniti a metà degli anni Settanta, una perdita di posti di
lavoro mensile di 216.000 unità, come in agosto, avveniva
all’inizio di una recessione e non alla vigilia di una
ripresa. Tra l’altro, occorre rammentare che il PIL
americano si è contratto nel secondo trimestre anche nei
confronti dei primi tre mesi dell’anno. La durata di questa
recessione, iniziata nel dicembre 2007, la sua profondità,
il forte indebitamento delle famiglie americane, che è
ancora superiore al 120% del reddito disponibile, e le
perdite dovute al crollo dei prezzi delle case e di quelli
delle azioni (che vuol dire anche una perdita dei piani
pensionistici) fanno ritenere che l’evoluzione del mercato
del lavoro americano sarà questa volta molto rilevante per
capire se vi sarà una ripresa dei consumi, che rappresentano
il 70% del PIL statunitense.
L’ottimismo che sgorga dall’impressionante rally dei mercati
azionari appare scarsamente fondato. Il miglioramento appare
dovuto essenzialmente alle misure straordinarie di politica
economica adottate dai diversi Paesi e non ad una ripresa
dell’attività economica sostenibile e duratura. Queste
politiche non possono però protrarsi all’infinito. Ciò
induce a ritenere che la fine della crisi sia ancora lontana
e che i rischi di ricaduta siano molto alti.
 |
Fonte -
Corriere del Ticino |
2010:
l'economia ricadrà. E
petrolio a 15$ nel 2013
03 Settembre 2009 23:53
MILANO - di Massimiliano Malandra
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«La crisi è più grave di come la si dipinge. E
nonostante i primi sintomi di una ripresa, ben poco in
realtà è cambiato negli ultimi mesi». Rimane decisamente
pessimista sull’economia mondiale Simon Hunt, uno fra i più
noti e rispettati analisti minerari, comparto in cui opera
da quasi 50 anni.
Fondatore della società di consulenza Simon Hunt Strategic
Services, è stato ribattezzato «Mr. Copper» proprio per la
sua profonda esperienza nel settore. A giugno 2008, con
metalli e petrolio sui massimi storici aveva pronosticato ai
lettori di B&F (vedere Borsa & Finanza n.736 del 21 giugno
2008) che il prezzo del petrolio si sarebbe più che
dimezzato entro un anno e che analogo trend avrebbe avuto
anche il rame. Allora erano bastati cinque mesi per dargli
ragione. Vivendo fra Londra e l’Asia, Hunt ha continuamente
sotto gli occhi quello che sta succedendo in giro per il
mondo. E, dato che le fluttuazioni dei prezzi delle materie
prime dipendono dai trend di domanda e offerta, e, a loro
volta, queste componenti dalla congiuntura economica, ecco
che il suo è un osservatorio privilegiato da cui scrutare
quel che sta succedendo.
Eppure i dati macroeconomici sembrano darle torto Mr. Hunt,
visto che si inizia a parlare di ripresa economica...
Vero. Ma, ripeto, ben poco è cambiato realmente. I
consumatori del Vecchio Mondo - cioè Europa, Nord America e
Giappone - alle prese con i propri debiti sono ai primi
stadi del delevereging: in pratica stanno cercando di
ricostituire i propri risparmi. Prendiamo il caso degli
Stati Uniti: qui la disoccupazione reale è al 16% e il
reddito disponibile sta scendendo a tassi che non si
vedevano dagli anni ’30. Quindi al banchetto di questa
ripresa tanto decantata da banchieri ed economisti vedo una
sedia vuota.
Quella del consumatore statunitense?
Esatto. E sono consumi che valgono il 20% del Pil globale.
Stiamo parlando cioè di una cifra che è il doppio
dell’intera economia giapponese. E da cui dipende in buona
misura anche la Cina per le proprie esportazioni.
Ci sono altri fattori che supportano questa tesi così
pessimista?
Assolutamente. Si parla tanto di scorte da ricostruire dopo
la fase di smaltimento durante la crisi. Certo, vi saranno
degli acquisti, ma avverranno in misura modesta, dato che
anche le vendite sono crollate. Un caso è quello dei cash
for clunkers (gli incentivi alla rottamazione negli Usa
terminati nell’ultima settimana, ndr): hanno rilanciato
vendite di veicoli ed entusiasmi degli economisti, ma si è
trattato sostanzialmente di un’operazione di anticipo dei
ricavi. In pratica chi avrebbe dovuto cambiare l’auto l’anno
prossimo ha anticipato l’acquisto, ma non è che per questo
nel 2010 sostituirà di nuovo il proprio veicolo. Inoltre
vedo troppo ottimismo sulla capacità cinese di trainare
l’economia globale: mi pare già difficile che riescano a
«tirare a campare» loro stessi, ritardando un declino che
potrebbe già iniziare il prossimo anno, figuriamoci se
salvano il mondo.
Insomma, la ripresa a «V» dell’economia è solo una
chimera...
Ma no, la ripresa, pur modesta, c’è. E potrebbe arrivare
fino a metà 2010. Ma poi mi attendo una nuova caduta. E
arriveremo a un fatto strano sul versante intermarket. La
nuova crisi dell’economia sarà accompagnata da tassi di
interesse crescenti, dato che i governi saranno obbligati a
far fronte all’enorme indebitamento lievitato in questi
anni. E così avremo l’asset del reddito fisso che
rimpiazzerà le azioni in termini di rendimenti reali più
elevati.
In questo scenario come si comporteranno dollaro e commodity?
Negli ultimi anni uno dei trade preferiti dalle grandi case
è stato quello di andare long sulle materie prime e short
sul dollaro. E ha funzionato molto bene. Ma ora il vento sta
girando. Sul lungo termine rimango negativo sul greenback,
ma se stringiamo l’orizzonte temporale ai prossimi due anni,
personalmente sono rialzista sul dollaro, che sta tornando a
emergere come valuta di riferimento.
E per quanto riguarda le commodity?
Le materie di base rimarranno in un ampio trading range
compreso fra 3.000 e 6.500 dollari per il rame e fra 35 e 75
dollari per il petrolio. E per la fine dell’anno mi aspetto
che i prezzi saranno più vicini alla parte bassa della
forchetta che a quella alta.
Ma tutti gli acquisti cinesi di rame di cui tanto si parla e
che hanno fatto lievitare i prezzi?
I consumi cinesi, ora, non sono tanto forti quanto si dice.
In una lunga visita nel Paese in giugno abbiamo visto come
vi siano quasi 1,1 milioni di tonnellate di rame in surplus
detenuti al di fuori dei magazzini ufficiali. Si tratta di
acquisti fatti dai più diversi speculatori, dagli hedge fund
ad altre istituzioni finanziarie; ma anche semplici aziende
che non lavorano e non utilizzano il metallo, ma lo hanno
comprato come riserva di valore. È una bolla che potrà
scoppiare solo quando avremo una nuova caduta dell’economia.
Quindi a mio parere verso la fine del prossimo anno.
Nessun dubbio sulla ricaduta quindi?
Direi proprio di no. Ricordiamoci che negli anni ’30 furono
registrate ben sei false partenze dell’economia prima di
quella «buona». E per il 2013 mi aspetto che il petrolio sia
più vicino ai 15 dollari che ai 67 attuali e il rame ai
1.500 piuttosto che ai 6.000 di questi tempi.
 |
Fonte -
Borsa&Finanza |
SUPER-ALERT: E'
SHORT E ACCUSA GOLDMAN SACHS "SULLA RIPRESA SBAGLIA"
02 Settembre 2009 02:48 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Clamorosa lite tra poteri forti.
Paul Tudor Jones, miliardario gestore di hedge-funds, spara
a zero contro chi dice "la recessione e' finita". "Siamo
sulla rampa di un trampolino da salto con gli sci (lo
stimolo). Alla fine, c'e' solo il vuoto".
Clamoroso confronto a distanza tra rialzisti e ribassisti
all'interno dei "poteri forti" di Wall Street, come mai era
accaduto prima. Paul Tudor Jones, il miliardario gestore di
hedge-funds, spara ad alzo zero contro due colossi del
sistema capitalistico americano e mondiale come Goldman
Sachs e Morgan Stanley, accusandoli di aver completamente
sbagliato nel dichiarare l'avvio della ripresa economica e
la fine della recessione. Lo scrive l'agenzia finanziaria
Bloomberg.
Il leggendario investitore (al grande pubblico meno
conosciuto di George Soros ma altrettanto abile e ricco)
gestore di tre fondi hedge (Tudor Investment Corp., Clarium
Capital Management LLC e Horseman Capital Management Ltd.)
ha formalizzato di nuovo la sua posizione short - nota da
tempo - proprio ieri martedi' 1 settembre, nel giorno in cui
gli indici Usa hanno accusato la prima seria correzione da
settimane, dopo rialzi per lo S&P500 superiori al 50% dai
minimi di marzo e addirittura di +123% per il settore
finanziario. La societa' di Tudor Jones gestisce in totale
$15 miliardi con strategie macro e opportuniste, che cercano
di approfittare dei megascenari tramite trading di azioni,
obbligazioni, valute e merci.
"Se anche avessimo una qualche ripresa, non e' sostenibile"
ha confermato a Bloomberg Kevin Harrington, managing
director di Clarium, nell'ufficio di New York. "Questa,
molto probabilmente, e' una recessione simile al trampolino
di salto con gli sci: lo stimolo di breve termine dei
governi crea l'effetto rampa per l'accelerazione, solo che
alla fine ci aspetta un salto nel vuoto e un precipitoso
declino". Non esattamente una metafora per vedove ed orfani,
per cosi' dire.
"Noi pensiamo che la recessione stia finendo proprio
adesso", ha dichiarato pochi giorni fa Abby Joseph Cohen,
senior investment strategist di Goldman Sachs, nota per
essere stata rialzista e ottimista perfino subito prima del
grande crollo di Wall Street dello scorso ottobre che ci ha
portati alla Grande Recessione del 2009.
Goldman Sachs prevede una crescita del pil Usa del 2% nel
2010. Invece Tudor, uno dei fondi hedge di Greenwich, in
Connecticut controllato da Paul Tudor Jones, ha una
strategia a 180 gradi rispetto a quella di Goldman Sachs,
Morgan Stanley e di altre 55 economisti e strategist delle
maggiori banche americane, il cui consensus indica una
crescita media del 2.3% l'anno prossimo, stando a un
sondaggio di Bloomberg.
Tudor ha inviato una lettera ai clienti lo scorso 3 agosto
in cui si legge che il rialzo di borsa e' stato un
"bear-market rally". Forte disoccupazione (fino al 16%,
molto di piu' del 9.4% ufficiale, se si considerano gli
americani che hanno smesso del tutto di cercare un posto di
lavoro perche' non lo trovano), stipendi in calo, possibili
ulteriori errori da parte dei governi che non sono andati e
non vanno alla radice dei veri problemi, situazione sul
mercato del credito identica al passato (centinaia di
miliardi di "titoli tossici" ancora nei portafogli delle
banche) potrebbero soffocare la ripresa economica nel 2010,
si legge nella lettera inviata da Tudor.
Fonte
- WallStreetItalia
Interpretazioni
ottimistiche
Thursday, 3 September, 2009 at
17:11 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il caldo fa brutti effetti.
Secondo Bloomberg, la Fed starebbe cercando di preparare i
mercati alla fine del programma d’acquisto diretto di titoli
obbligazionari e di Stato. La ripresa economica sarebbe tale
da poter pensare di “gettare le stampelle” fornite ai
mercati dalla Banca Centrale.
Leggendo l’articolo, tuttavia, si nota come l’unica
discussione tenuta nel meeting di Agosto della Federal
Reserve abbia riguardato l’estensione del programma, che
dovrebbe terminare a Dicembre, e non una sua interruzione.
Il motivo di una proroga sarebbe da ricercarsi nello stato
ancora precario del mercato immobiliare. La Fed è stato di
gran lunga il maggior acquirente o finanziatore di ABS ed
RMBS, fornendo un supporto massiccio al mercato dei mutui
immobiliari; lasciare che il programma finisca alla sua data
naturale sarebbe, secondo alcuni dei governatori Fed,
rischioso.
In conclusione, abbiamo un titolo che dice una cosa ed un
articolo che ne dice un’altra, quasi opposta. E poi parlano
di mercati poco chiari.
Fonte
- Macromonitor
La curva della
ripresa
03-09-09 -
Sara Silano ______________________________________________
Tra gli adolescenti uno smile,
vale più di mille parole; tra gli economisti lo stesso si
può dire per la forma della curva della ripresa. In questo
caso scendono in campo le lettere dell’alfabeto (V, W, U, L)
che per i non addetti ai lavori non sono di così facile
comprensione come le simpatiche faccette che usano i
ragazzini nei loro messaggi.
Conoscere il significato di queste lettere, però, aiuta a
comprendere la dinamica del ciclo economico e i riflessi che
ha sugli investimenti.
La V è lo smile allegro, ossia la ripresa che tutti
vorrebbero. Si verifica quando l’economia precipita e tocca
un minimo molto basso per poi riprendersi rapidamente,
cancellando gran parte o tutte le perdite che gli
investitori hanno subito. “Perché un’inversione di questo
tipo sia possibile è necessario che le notizie meno negative
del secondo trimestre diventino positive nel terzo”, spiega
James Levin, editorialista di Morningstar.com (vedi
articolo), che aggiunge: “Pensiamo che questo scenario sia
improbabile perché la spesa per consumi rimane debole e le
famiglie eccessivamente indebitate pagano a caro prezzo la
perdita di valore del loro bene più prezioso, ossia la
casa”.
La W è lo smile perplesso, perché la ripresa dà l’illusione
di essere rapida, ma in realtà l’economia risale solo
temporaneamente per poi correggere nuovamente. Solo dopo
aver toccato un nuovo minimo riparte con decisione. Per
l’investitore, la correzione potrebbe essere un’opportunità
per fare buoni acquisti, ma è molto più probabile rimanere
incagliati nell’illusione che la prima svolta sia quella
definitiva. Una curva di questo tipo non è da escludere
nell’attuale situazione, soprattutto se il miglioramento
delle condizioni economiche porterà a una revisione delle
politiche monetarie espansive attuate dalle banche centrali.
Secondo Keith Wade, capo economista di Schroders, i tassi
rimarranno bassi almeno fino a quando non ci saranno chiari
segnali di ripresa della spesa per consumi. Potrebbero,
invece, terminare le misure di quantitative easing (ossia
quelle ultra-espansive).
La U è lo smile sorridente che, però, si accontenta di una
ripresa che arriva dopo un lungo periodo di ristagno
dell’economia. Secondo gli analisti di Morningstar, questo è
lo scenario più probabile dal momento che la crisi ha
lasciato strascichi pesanti perché è nata da un eccesso di
indebitamento che aveva dato l’illusione di una crescita
all’infinito del benessere. Oggi, invece, le famiglie,
soprattutto quelle americane, devono fare i conti con una
forte riduzione dei prezzi delle loro case, la
disoccupazione e condizioni creditizie più stringenti. In
agosto si sono infittite le buone notizie sul mercato
immobiliare, sulle vendite di auto, ma rimane ancora un po’
di strada da fare per restituire fiducia ai consumatori che
ora si sentono più poveri rispetto al passato.
La L è lo smile triste, perché significa che l’economia
rimane a lungo in stallo, con una bassa crescita del
Prodotto interno lordo, un lento aumento dei profitti e dei
consumi, un’elevata disoccupazione e un maggior
coinvolgimento dei governi. Bill Gross di Pimco, considerato
uno dei maggiori gestori mondiali di fondi obbligazionari,
ha definito questo scenario come la “nuova normalità”. I
segnali di risveglio della congiuntura invitano a un maggior
ottimismo, ma è ancora troppo presto per far uscire lo smile
dell’arcobaleno che indica la fine della tempesta.
Fonte
- Morningstar
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Finanza,
G20: foto di gruppo
per utili idioti
04 Settembre 2009 00:09
LONDRA - di Mauro Bottarelli
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Il rally sembra davvero finito. Il settore bancario sta
trascinando al ribasso le Borse e il dato sulla
disoccupazione nel settore privato Usa parla la lingua di
una continua contraddizione tra segnali di falsa ripresa e
la realtà di un sistema che è ben lungi dall'aver superato
le secche in cui è andata a piaggiarsi l'economia reale: i
mesi di crescita degli indici, al di là dei volumi ridicoli
che da soli avrebbero dovuto far capire quanto fossero
artificiali i cosiddetti "green shots", erano nulla più che
l'autoinduzione all'ottimismo dettata dai numeri favolosi
scodellati da Goldman Sachs e dalla volontà degli hedge
funds di speculare – e molto – a breve.
Ancora una volta, dall'Asia all'Europa agli Usa, è stato il
settore bancario a segnare le flessioni più marcate, sintomo
che qualcosa sta per accadere. E quel qualcosa è il G20 di
fine mese a Pittsburgh. Dove, leggendo il Financial Times,
si parlerà di taglio dei bonus ai banchieri, di mandatory
cap sui salari, di exit strategy dalle politiche di stimolo
fiscale dal 2010 in poi e altre inezie di questo genere. La
questione è una sola: bisogna scaricare da qualche parte
l'immondizia che le banche hanno in corpo. Il problema è
dove.
Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale si sono
esposti fin troppo, stanno mettendo in circolazione da mesi
e mesi liquidità per far ripartire un settore che invece di
ripulire gli assets sta tentando di inglobare capitale in
riserve e non accenna a voler sbloccare il mercato
interbancario e del credito. Se a questo uniamo la bolla
delle carte di credito che sta per scoppiare anche in
Europa, il quadro diventa davvero fosco.
Occorrerebbe una colossale, davvero a livello planetario,
operazione di "mark to market" edulcorata per riuscire prima
di tutto a capire la reale entità degli assets tossici e in
seconda istanza a dar vita a una bad bank sotto controllo
del Fmi per fare in modo che i furbetti della finanza
creativa la smettano di comportarsi come hedge funds e
tornino a fare il loro lavoro, ovvero risparmio e credito.
Non succederà, statene certi.
L'Ecofin brancola nel buio e straparla di nuove legislazioni
per evitare che le banche, a livello globale, diventino "too
big too fail": il problema è che è inutile e
controproducente pensare a come ricostruire la casa se prima
non si cerca di spegnere l'incendio in corso. Siamo nei guai
e guai seri. Anche perché mentre Europa e Usa si trastullano
con queste questioni, la Cina spinge sull’acceleratore
dell’autarchia.
Un report della Camera di Commercio Ue a Pechino, infatti,
mette in evidenza come fare business in Cina per le
industrie europee sia sempre più difficile: aperte
violazioni degli obblighi del Wto, regolamentazioni
ostruzionistiche valide solo per gli europei, intimidazioni,
legislazioni arbitrarie sono solo alcuni degli ostacoli che
le aziende europee – dalla chimica alla telefonia al settore
bancario – devono affrontare. Questo nonostante l'Europa sia
un mercato più importante degli Usa per la Cina in fatto di
export, visto che le esportazioni verso l'eurozona
rappresentano il 7 per cento del Pil cinese: su 171 nazioni
prese in esame riguardo la facilità per gli stranieri di
fare business, la Cina è ottantatreesima, peggio del
Venezuela di Chavez.
Il mercato dell’auto, tanto di moda in questo momento, è
esemplificativo: i cinesi possono comprare ciò che vogliono
all'estero, possono operare e acquisire mentre un europeo
che va a operare a Pechino deve farlo attraverso una
joint-venture e non può avere più di due stabilimenti. Se
questo non è dumping non si è ben capito cosa lo sia.
Forse al G20 bisognerebbe parlare, oltre che dell'ipotesi di
bad bank globale, anche di questo: perdere tempo con idiozie
come Kyoto e le emissioni gassose, quando la Cina sta
diventando sempre più verde e sempre meno dipendente dal
petrolio, significa davvero suicidarsi. Attività nella quale
l'UE è leader da tempo, tra l'altro. Vedremo come andrà a
finire ma questo G20, come gli altri appuntamenti globali
tra i grandi leader, rischia di trasformarsi nella solita
photo opportunità e in accordi bilaterali presi nei
corridoi: al di là del fatto che la tecnologia permetterebbe
una bella teleconferenza che farebbe risparmiare miliardi,
non è più accettabile che gli stati invochino collaborazione
e poi pensino soltanto ai loro interessi.
Ovviamente è normale che sia così - business is business -
ma di fronte a una crisi del genere o si agisce di concerto
oppure i vincitori, ammesso che ce ne siano, festeggeranno
sulle rovine. Il vate Roubini, su Cnbc, annunciava che la
Cina non trascinerà il mondo fuori dalla recessione: ha
ragione, sta infatti lavorando per trascinare fuori solo se
stessa e guadagnare la leadership.
L'ostaggio Usa e il suo debito non permettono controffensive
troppo brusche verso l'unico mercato abbastanza grande da
caricarsi sulle spalle bond statunitensi e mantenere in vita
il circolo vizioso del deficit federale ma qualcosa va
fatta. In fretta. Altrimenti la fine di questa crisi sarà
davvero l'alba di un nuovo ordine mondiale. Di cui possiamo,
dobbiamo e vogliamo fare a meno.
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Fonte -
IlSussidiario.net |
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Petrolio:
picco vicino e senza alternative
04 Settembre 2009 20:00
NEW YORK - di Luca Salvioli
________________________________________
Il CNR prevede il «peak oil», momento di massima
produzione di greggio oltre il quale inizia una inesorabile
discesa, per il 2030. Per Aspo Italia si parla invece gia'
di 2010. «La crescita infinita non è sostenibilie, dovremo
abituarci ad una nuova era».
Il «peak oil», momento di massima produzione di petrolio
oltre il quale inizia una inesorabile discesa, è un fantasma
di cui si discetta da decenni.
Già negli anni Cinquanta il
geofisico americano Marion King Hubbert allarmò i petrolieri
paventando il raggiungimento del picco, sul continente
statunitense, negli anni Settanta. Hubbert indovinò e
divenne un punto di riferimento. Vent'anni dopo le grandi
crisi petrolifere, Colin Campbell riprese in mano i suoi
studi diventando uno dei massimi esperti internazionali. Nel
2001, mettendo insieme diversi scienziati e contributi,
fondò Aspo, acronimo di Association for the study of peak
oil.
A oltre cinquant'anni dalle prime previsioni di Hubbert il
mondo si interroga davvero su come andare oltre quel barile
di oro nero che ne accompagna lo sviluppo da 150 anni. Luca
Pardi, vicepresidente di Aspo Italia e primo ricercatore
dell'Istituto per i processi chimico-fisici del Cnr, prende
spunto dall'intervista rilasciata al Sole24ore.com da
Claudio Bertoli, direttore del Dipartimento Energia e
Trasporti del Cnr, in cui veniva previsto il collasso
energetico per il 2065 e il picco del petrolio per il 2030.
Pardi contesta sia le previsioni temporali che l'analisi
delle soluzioni (il Cnr indicava nella fusione nucleare la
maggiore promessa, ndr). «Il metabolismo socio-economico del
pianeta dipende dal petrolio - spiega Pardi -. E' la fonte
energetica più conveniente, non esiste nulla di
paragonabile: è per questo che il momento di picco è un
evento critico di dimensioni inaudite. Vediamo una certa
semplificazione del problema che rischia di indurre un
eccessivo ottimismo nel settore e nei cittadini».
Il Cnr prevede il peak oil per il 2030. Voi?
C'è molta confusione. Nel novembre scorso l'Agenzia
internazionale per l'energia (Aie), agenzia intergovernativa
dei paesi Ocse, ha presentato, nel suo World energy outlook
2008 (Weo2008) un quadro della situazione e le proiezioni
fino al 2030. Ebbene, il picco del petrolio estratto dai
giacimenti in attività è già stato raggiunto. Il picco
globale potrebbe, secondo l'Aie, essere rimandato a dopo il
2030 solo se si comincerà a produrre petrolio da risorse il
cui sviluppo richiederebbe ingenti investimenti: la stima è
di ventiseimila miliardi di dollari. Investimenti che, al
momento, appaiono fuori dalla portata di qualsiasi compagnia
petrolifera pubblica o privata. La produzione globale oggi
arriva a 83-85 milioni di barili al giorno. Il livello è lo
stesso dal 2004. I modelli secondo noi più attendibili
indicano un possibile momento di picco per il 2010.
Quindi l'anno prossimo. Eppure vengono scoperti nuovi
giacimenti, come quello di Bp nel Golfo del Messico,
definito dalla compagnia «gigantesco»...
Vero, ma il giacimento di Tiber, stando a quanto dice Bp,
contiene 3 miliardi di barili che dopo le prime
trivellazioni potrebbero arrivare a 6 miliardi. Non è poco,
ma nel mondo ne vengono consumati 30 miliardi l'anno. Siamo
a un decimo. I giacimenti scoperti negli anni Sessanta, come
quello di Ghawar, contenevano 170 miliardi di barili.
Dall'inizio degli anni Ottanta consumiamo più di quanto
troviamo.
Le nuove tecnologie non possono allontanare la data in cui
il petrolio inizierà a diminuire andando a scovarlo in posti
un tempo impensabili?
Può incidere ma molto poco. Credo che la nostra previsione
sul momento di picco abbia un margine di errore di cinque
anni, non venti o trenta.
Passiamo al carbone. Diverse analisi concordano sul fatto
che durerà di più.
Sì, ma meno di quanto si pensi: molte delle riserve
disponibili non potranno essere sfruttate al 100%. Oltre un
certo limite l'estrazione non è più conveniente. Uno studio
del 2007 dell'Energy watch group prevede un picco globale
del carbone entro la metà del secolo.
Cosa c'è oltre?
Crediamo molto nelle rinnovabili. La critica che viene mossa
storicamente a questo tipo di energia è che il suo
contributo rimane marginale nella torta complessiva e
intermittente (il fotovoltaico non funziona di notte,
l'eolico quando non c'è vento, ndr). La crescita degli
ultimi anni è stata rilevante in assoluto, meno in relazione
al fabbisogno energetico. Guardando avanti bisogna puntare
sulle grandi centrali, non solo alla microgenerazione.
Arrivare alla produzione di centinaia di Megawatt. Per
uscire dalla nicchia. Io stesso sono tra i piccoli
investitori del progetto Kitegen per l'eolico d'alta quota
che può fornire notevole potenza e risolvere il problema
dell'intermittenza, visto che in quota i venti sono più
abbondanti.
E il nucleare?
Le tecnologie da fissione nucleare sono affidabili e mature.
Il punto è che le circa 450 centrali attualmente in
esercizio dipendono per circa il 40% dall'Uranio di riserve
strategiche accumulate in passato e certamente finite. Anche
qui ci sarà un picco, previsto per metà secolo.
In cinquant'anni potrebbero però vedere la luce le centrali
di quarta generazione e quelle a fusione nucleare.
Ha detto bene, "potrebbero". Sono tecnologie estremamente
complicate, diffido di appuntamenti così lontani nel tempo.
Anche le vostre previsioni sul picco del carbone e
dell'uranio arrivano a metà secolo.
Fare previsioni non è mai semplici. I modelli servono per
ragionare con un set di variabili sulle direzioni future,
non per indovinare l'anno preciso. Il problema è che le
politiche vengono scelte su modelli mentali, mentre quelli
di cui parlo sono fisico-matematici. Spesso si fanno
paralleli con il passat0, pensando che all'era del petrolio
ne seguirà un'altra, fucina di ulteriore sviluppo.
Non è così?
Chi l'ha detto? Io credo che ci sarà un cambio di paradigma.
La crescita economica continua ed infinita finirà. Non si
tornerà alla stessa abbondanza. Gli ecosistemi terrestri non
possono reggere questi ritmi, lo sviluppo ha dei limiti.
Dovremo abituarci.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
La "mala storia"
della crisi raccontata da Moore
06 Settembre 2009 16:11 VENEZIA -
Il sole 24 Ore ______________________________________________
Una rapina in banca, la vita
nell'antica Roma e una domanda: cosa diranno le civiltà
future, di noi? Comincia così l'ultima attesissima pellicola
di Michael Moore dal sarcastico titolo "Capitalism, a love
story", presentato ieri sera a Venezia. Perché ovviamente
una storia d'amore non è. E perché la critica nei confronti
del sistema capitalistico moderno parte da un attacco
diretto alle banche. Il cuore del sistema dei profitti per i
profitti, secondo Moore, e il centro del problema per un
Paese che non è più una democrazia «perché in America il gap
tra ricchi e poveri è diventato insostenibile» dice il
movie-maker formato gigante.
Si parte dunque da una famiglia di Detroit, sfrattata il 9
febbraio di quest'anno per non esser stata in grado di
pagare le rate del mutuo, e si finisce con un nastro adesivo
con impressa la scritta «crime scene, do not cross» che
circonda una delle maggiori banche americane. Perché se le
aziende hanno stipulato assicurazioni sui possibili decessi
dei propri dipendenti, e dunque guadagnato anche sulle
perdite di giovani impiegati (le famiglie, ovviamente, non
hanno visto un soldo) le banche si sono infiltrate nel
sistema di governo, hanno condizionato leggi e manovre
economiche (una per tutte, quella da 700 miliardi passata
praticamente sotto silenzio negli Usa) e dunque vite intere.
Togliendo pian piano ai più poveri per dar sempre di più,
anche grazie ad un sistema di stock option che ben
conosciamo, a pochi importantissimi manager.
Moore intervista uomini di Chiesa, vescovi e preti come Dick
Preston che afferma quanto sia sbagliato un sistema che
valuta tutto a seconda dei soldi guadagnati. Intervista
giornalisti del Wall Street Journal che introducono al tema
di «impresa collettiva», in cui il capitale sia diviso tra i
dipendenti. Spiega come Bush, coi i suoi proclami del genere
post-9/11 «people don't shop» abbia portato tutti ad
ipotecare anche il non ipotecabile, ovvero la casa.
Il regista-documentarista arriva anche a mettere in dubbio
che la concorrenza non sia di per sé una buona cosa, e
sbeffeggia la Mecca del sistema economico mondiale, Wall
Street, mostrando come ormai il mondo dei mestieri e delle
professioni sia un nulla in confronto a chi gioca e gestisce
prodotti, soldi, guadagni. Intervista suo padre, raccontando
come sia stato in grado, con un lavoro "normale" alla
General Motors, di pagare studi, casa e lunghe vacanze a
tutta la famiglia, e far sì che la moglie non lavorasse.
«Ora tutto è cambiato, però». E passa a raccontare come
professioni come il pilota di aereo siano ormai sottopagate,
al confronto di chi si è ben inserito nel mondo del business
e delle lobbies. «Non voglio che guida l'aereo in cui sto
viaggiando guadagni 17mila dollari l'anno e debba
arrotondare facendo il cameriere in un fast food».
Insomma, Moore "Robin Hood", in questa pellicola che è un
po' la sua "summa teologica" - la sintesi imperfetta di un
pensiero, e di altri lavori come Sicko, Roger and Me e così
via, che abbiamo visto nell'arco degli anni - ne ha davvero
per tutti. Mezzo milione di posti persi nel 2008: «I
politici dicono che il capitalismo sia il miglior sistema
possibile perché permette loro di mantenere la leadership.
In realtà non sta scritto da nessuna parte che l'America
debba avere un sistema economico che cresce con i profitti,
nemmeno sulla Costituzione».
"Capitalism" termina, dunque e Moore chiede a tutti di
partecipare alla grande riscossa contro le banche. Avesse
citato l'economia della felicità o un sistema alternativo
rispetto a quello esistente, forse sarebbe stato più
credibile. Certamente, propone due ore no-stop di
contro-economia, informazione e anche di contro-politica
dell'era Bush. L'arrivo di Obama, seppur positivo dal punto
di vista del "sentiment", deve averlo fatto piombare in una
crisi creativa. Poco citato, l'attuale presidente degli
Stati Uniti probabilmente sarà, dal punto di vista
dell'aspirazione e della ricerca creativa, il suo maggior
ostacolo. Soprattutto se farà, come Moore pure gli augura,
gran bene.
Fonte
- Il
sole 24 Ore
|
L'hi-tech
«complice» della crisi
07 Settembre 2009 10:26
MILANO - di Vittorio Carlini
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Sullo schermo del pc scorrono i mutui
immobiliari: non più documenti di carta, bensì bit digitali.
Dentro, all'interno del computer connesso in rete, il
software fa il suo lavoro: confronta la redditività dei
prestiti, la maturità dei crediti con l'andamento dei tassi
d'interesse o la fiducia dei consumatori. Dal canto suo, il
team manager delle cartolarizzazioni discute con i suoi
collaboratori per stabilire come impacchettare i mutui,
anche subprime: di lì a poco nasce l'Asset backed security
(Abs). Un procedimento, mandato a memoria centinaia di
migliaia di volte nella grandi banche di Wall Street, che
sfrutta, anche e di più, software e sistemi informatici.
Eppure tra i perché del crack finanziario l'innovazione
tecnologica si aggira come un fantasma. Una dimenticanza che
stupisce. Craig Focardi, esperto del settore della società
americana TowerGroup, dice al Sole 24 Ore: «Solamente negli
Usa la spesa in tecnologie per il business dei mutui
immobiliari supera i 6 miliardi di dollari all'anno.
Rispetto alle sole cartolarizzazioni viene sborsato oltre
mezzo miliardo di dollari». Soldi spesso usati per sistemi e
modelli informatici «che definiscono i prezzi dei portafogli
di mutui, gestiscono il rischio e, alla fine, vendono gli
asset».
Una situazione, peraltro, non sconosciuta. Già nel 2005,
l'allora presidente della Fed Alan Greenspan, affermava: «La
tecnologia ha permesso ai creditori di raggiungere
fondamentali efficienze (...) per valutare il rischio di
credito e prezzarlo (...) Questi miglioramenti hanno
permesso una rapida crescita dei prestiti subprime». La
stessa agenzia americana Fdic, dodici mesi dopo, faceva da
eco: «I progressi tecnologici saranno fondamentali nel
mercato delle cartolarizzazioni». Firme automatizzate,
«modelli statistici di valutazione delle garanzie -
aggiungono gli economisti Mark Doms e John Krainer - hanno
trasformato l'industria americana dei prestiti immobiliari».
Un business sempre più online («nel 2008 il 15% dei nuovi
mutui - dice Focardi- e stato stipulato via web») dove i
costi operativi si abbattono e dove i pc e la rete sono
essenziali anche per le cartolarizzazioni.
Insomma, non è fantasia dire che l'innovazione sia dietro la
crisi. Ma non sotto le sembianze, magari un po' naif, del
fisico "genialoide" che inventa l'algoritmo per l'hedge fund
di turno. Tutt'altro. Si tratta di una presenza pervasiva,
rilevante sotto tre aspetti: i software che immagazzinano
miliardi di dati per, poi, valutarli e processarli; la rete
(l'hardware) che consente di trasmettere, in pochi centesimi
di secondo, in ogni parte del mondo, i prodotti finanziari
trasformati in bit digitali; i modelli matematici che sono
alla base sia degli stessi software sia delle strategie per
usarli.
Per rendersi conto di ciò va ricordato come hanno funzionato
proprio le grandi cartolarizzazioni, in particolare dei
subprime, negli Usa. La banca scorpora dal bilancio i
crediti illiquidi (i mutui), li impacchetta e li vende sul
mercato, magari sotto forma di bond, attraverso una società
ad hoc: lo Special purpose vehicle (Spv). Nasce così l'Abs.
L'obiettivo? Generare liquidità e trasferire, se non
disperdere quasi in un gioco delle tre carte, il rischio di
credito. Ebbene, già nella scelta e impacchettamento degli
asset (spesso migliaia per ogni singola operazione), la
banca sfrutta dei «software - spiega Paolo Comuzzi, ceo di
Securitization.it - per confrontarli con i criteri di rating
delle agenzie» e cercare di avere, per il maggior numero di
mutui, il giudizio più alto. È nella fase succcesiva, però,
che l'informatica assume maggiore rilievo. Per la banca,
spiega un esperto al Sole 24 Ore, è fondamentale avere il
giusto equilibrio tra i flussi di cassa generati dai mutui e
le cedole dei bond emessi dallo Spv. Un'attività gestita
grazie a complessi cash flow model che richiedono l'uso di
calcolatori e software.
E non basta. Concluso il primo passaggio, qualche parte
dell'Abs può non avere raggiunto il giusto rating. Ecco,
allora, la nuova magia: la cartolarizzazione dell'Abs
stesso. Ecco, allora, che compaiono nuovi software di
calcolo. «A questo livello - afferma Comuzzi - vengono
realizzate analisi statistiche complesse» che coinvolgono
molte variabili. Giocoforza, i sistemi sono più evoluti. O,
almeno, così dovrebbero essere. «E sì, perché -sottolinea
Emilio Barucci, professore di finanza quantitativa al
Politecnico di Milano -, nella realtà le cose non funzionano
in questo modo». Vale a dire? «Simili processi di
cartolarizzazione sono stati realizzati su scala
industriale, utilizzando sistemi eccessivamente
standardizzati, incapaci di cogliere tutte le variabili in
gioco. La conseguenza è che si sono creati ulteriori danni».
Ma se questa è la realtà delle cose, perché chi detta le
regole per il futuro non sembra occuparsi di questo aspetto
della crisi? La risposta è sempre la stessa: la tecnologia è
solamente un mezzo. È uno strumento neutro: solo il suo
cattivo uso può provocare danni. Questa scuola di pensiero,
maggioritaria, al massimo concede «che - come dice Barucci -
esista l'idea di un'innovazione onnipotente che possa
portare alla deresponsabilizzazione di chi gestisce il
business».
Tuttavia c'è anche chi, minoritario, sostiene che proprio
perché così pervasiva nella finanza la tecnologia non può
considerarsi neutra. Non può essere delegata solo agli
uffici di risk management. Le competenze tecnologiche, al
contrario, devono diventare pane quotidiano per chi
definisce i global standard finanziari e i top manager. Il
tema insomma, al di là della neutralità dell'innovazione, è
culturale. Secondo Alfonso Fugetta, esperto di tecnologie e
presidente del Cefriel: «La potenza dei sistemi di calcolo,
l'interconnessione e la capacità istantanea di trasmissioni
dati sono aumentate in maniera esponenziale. Fino a quando
questi sistemi - dice- rispondono direttamente all'uomo i
problemi sono minori. Ma quando sono retroazionati, cioè si
muovono automaticamente su regole prefissate, che a
posteriori possono anche rivelarsi errate, nascono i
problemi. La competenza è quindi essenziale». Vale a dire?
«Nelle aziende, comprese le banche, l'It non può stare da
una parte e la gestione del business dall'altra. È
necessario l'incontro tra le diverse competenze. È
fondamentale il salto culturale». Intanto, le stringhe di
software continuano a cartolarizzare.
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Fonte -
Il Sole 24 ore |
Crisi:
chi dice "c'é la
ripresa" mente
07 Settembre 2009 03:50
LONDRA - di Mauro Bottarelli
________________________________________
L’Ocse ci informa che la recessione potrebbe
finire prima del previsto, anche se la ripresa sarà lenta.
Bene. Peccato che dai mercati arrivino segnali un tantino
più preoccupanti. L’oro, bene rifugio che tesaurizza le
aspettative di crisi, ieri ha registrato un aumento del 2,3
per cento toccando il picco massimo dal 18 marzo scorso a
quota 984,30 dollari l’oncia e gli analisti parlano a chiare
lettere del fatto che l’instabilità che colpirà i mercati e
la debolezza del dollaro potrebbero portare entro l’anno il
metallo prezioso a toccare quota 1000 dollari l’oncia.
Come leggere, poi, le parole del segretario al Tesoro Usa,
Timothy Geithner, che alla vigilia del G20 ha detto a chiare
lettere che è troppo presto per bloccare le politiche di
stimolo fiscale da parte dei governi se non come un segnale
di tensione per i mesi a venire? Ma per capire quanto la
crisi sia profonda negli Usa non serve ricorrere ai dati
sulla disoccupazione già citati nei giorni scorsi, basta
pensare allo stillicidio di piccole banche che sta colpendo
il paese profondo, l’America reale e non quella di Wall
Street.
A meno che non vengano modificate anche le regole contabili
sui crediti non performing, che prevedono la cancellazione
dei crediti dopo pochi mesi di morosità, non vi è infatti
dubbio che molte delle 416 banche in difficoltà presenti
nella lista della Federal Deposit Insurance Corporation
andranno presto a fare compagnia alle 84 banche già chiuse
d’autorità dall’inizio di quest’anno, un numero che è
secondo solo a quello del 1992, quando la crisi sistemica
delle Saving & Loans toccò il suo massimo.
Anche in Gran Bretagna si corre ai ripari, visto che la Fsa
- l’ente di controllo della City - ha richiesto e ottenuto
dalla semi-privatizzata Lloyds Tsb i piani riguardo
l’aumento di capitale senza ulteriori iniezioni di denaro
pubblico: è in corso uno stress test che ci dirà se la
disgraziata banca sarà in grado di claudicare con la sua
unica gamba, l’altra è resa inutilizzabile dal macigno
rappresentato dall’inglobata Hbos oppure se lo Stato - cioè
i contribuenti - dovranno ancora mettere mano al
portafoglio, scelta che la Bank of England ha già giudicato
pericolosa per quanto riguarda il debito pubblico.
C’è poi il problema globale legato all’eurozona: il Fondo
Monetario Internazionale ha stimato infatti che le
istituzioni finanziarie Ue hanno scaricato solo il 20% dei
900 miliardi di debiti tossici che hanno in pancia e devono
ottenere almeno 375 miliardi di capitale fresco rispetto ai
275 delle banche Usa. Gli esperti della Bce, d’altronde,
hanno parlato chiaro: ci sono almeno altri 203 miliardi di
euro di svalutazioni da fare entro l’anno nei bilanci delle
banche Ue e questo nonostante proprio la Banca centrale
europea abbia recentemente iniettato la cifra monstre di 442
miliardi di euro nel sistema per rilanciare il credito.
Con uno sfondo simile appare chiaro a tutti che le sorti di
stabilità politica della Germania, alle prese con le
prossime elezioni, sono qualcosa che trascende il mero dato
di politica interna: il piano della bad bank statale voluto
dalla Merkel, piaccia o meno la possibilità di scaricare gli
assets su un piano ventennale di fatto off-balance sheets,
appare fondamentale per poter uscire dalla situazione di
emergenza latente che quella bomba bancaria rappresenta per
l’economia.
Un governo instabile, diviso, incapace di una maggioranza
che possa lavorare speditamente a un piano di intervento -
con magari la Linke pronta a sfruttare la situazione con
entrate populiste a gamba tesa contro i "ricchi" - sarebbe
una sciagura. Occorre sperare in una coalizione che vede
insieme Cdu e Liberali, magari con l’appoggio dei Verdi, che
si muova senza indulgere in troppe discussioni verso un
enorme stress test bancario e verso la creazione dell’entità
in cui scaricare a un valore di mark-to-market molto
ritoccato tutte le tossicità che ancora inquinano i bilanci
bancari. D’altronde è l’Ue a chiederlo, anche se in Italia
l’Abi ha già detto no definendo questa operazione di
trasparenza "troppo intrusiva".
Da giorni, anzi settimane, parlo della Cina come grande
player che attende al varco gli ulteriori errori strategici
di Europa e Usa per guadagnare terreno e ruolo egemonico
dopo aver chiuso accordi per indicizzare gli scambi con
tutti i paesi dell’Asia in yuang e non in dollari e aver
fatto partire la rivoluzione verde per non essere più
ostaggio del petrolio. Il fatto che i mercati europei
abbiano conosciuto un piccolo "rimbalzo del gatto morto" è
proprio perché in Cina la Borsa aveva chiuso su di quasi il
5 per cento: chi sa investe dove si deve investire, la crisi
sta creando enormi possibilità di sviluppo e crescita se si
sanno leggere gli indicatori.
Il fatto poi che Pechino abbia pressoché raddoppiato le
riserve monetarie rende tutto più semplice, non avendo
competitori ma bensì camerieri come l’Europa o clienti
fedeli come gli Usa del debito monstre. Si continua a
parlare, si chiacchiera di tagli ai bonus dei manager ma
nessuno sembra voler guardare davvero in faccia la realtà e
i problemi che devono essere affrontati da subito. Il tempo
passa e la situazione si complica sempre di più.
 |
Fonte -
IlSussidiario.net |
Obama elettrizza il
Congresso sulla sanità: «Il traguardo è vicino»
10 Settembre 2009 08:34 -
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
NEW YORK – Ispirato, mostrando la
grinta del leader a chi lo accusava di essere troppo blando,
Barack Obama ha chiesto ieri notte al Congresso e
all'America di seguirlo lungo la strada di una storica
riforma sanitaria: «Non sono il primo presidente che si fa
carico della riforma sanitaria, ma sono determinato a essere
l'ultimo – ha detto Obama parlando al Congresso riunito in
sessione plenaria - in questa sala c'è un accordo sull'80%
di quel che dobbiamo fare, il traguardo della riforma è più
vicino che mai».
In effetti alla Camera, dove erano schierati anche i
senatori di ambo i partiti e molti ministri fra cui Hillary
Clinton, che 16 anni fa cercò a sua volta di far passare
senza successo una riforma sanitaria, si respirava
l'atmosfera dell'occasione storica. Il Presidente ha parlato
per oltre un'ora, scoppiettante, preoccupato, severo,
incoraggiante, sfoderando tutte le migliori armi della
retorica obamiama. In galleria, di fianco a Michelle Obama
c'era la moglie di Ted Kennedy, Vicky, commossa fino alle
lacrime quando il Presidente ha rivelato di aver ricevuto
una lettera del Senatore che più di ogni altro politico ha
dedicato energie alla riforma sanitaria: «Un accesso alla
sanità per tutti è prima di tutto una questione morale, in
gioco non vi sono soltanto i dettagli della politica, ma
principi fondamentali di giustizia sociale e il carattere
della nostra Nazione». In sala c'erano anche i figli di Ted
Kennedy, Patrick deputato del Rhode Island e Edward, che fu
malato di cancro osseo: «Ted Kennedy ha sofferto le pene di
un genitore con un figlio gravamente malato. Sono le pene di
tutti. E non è giusto, diceva, che alcuni siano costretti a
rinunciare alle cure mediche, non è giusto guardare
dall'altra parte, non è nella natura del nostro Paese...».
E' stato in quel momento, ormai verso la fine del discorso,
che la sala è rimasta in un silenzio profondo, maggioranza e
opposizione ad ascoltare il Presidente che scandiva con tono
grave e serio le sue parole e il suo appello a ritrovare il
carattere che, nella storia, ha formato gli Stati Uniti
d'America. Il suo appello a compiere con coraggio un balzo
nel futuro »come è nostro dovere fare e come vogliono coloro
che ci hanno eletto».
Obama non si è limitato alla retorica. Ha ammesso che il
dibattito si è fatto aspro, con toni troppo spesso al di
fuori di un dialogo civile. Ha ammesso che nel tempo si è
creata confusione e sospetto attorno a un'idea che può solo
servire l'interesse della Nazione: «Abbiamo assistito allo
stesso spettacolo partigiano che rafforza il disprezzo di
molti americani nei confronti del governo. Invece di un
onesto dibattito, abbiamo visto le tattiche della paura. E
nella bufera di accuse e controaccuse, ha regnato la
confusione».
Per questo, e per fare chiarezza, Obama ha proposto a sua
volta un progetto molto dettagliato enunciando tre
obiettivi: più sicurezza e stabilità per coloro che già
hanno l'assicurazione sanitaria; assistenza a chi non ce
l'ha; ridurre l'aumento dei costi sanitari per le famiglie,
le aziende e il governo. Obama ha anche stimato il costo del
suo piano, circa 900 miliardi di dollari in dieci anni,
«meno di quello che abbiamo speso finora per le nostre
guerre in Afghanistan e in Iraq». Dei tre obiettivi
enunciati, il primo è stato il più importante. Obama ha
voluto rassicurare i 180 milioni di americani che hanno già
l'assicurazione che non la perderanno, che nulla nella loro
vita cambierà: «Voglio essere chiaro: nessuno sarà obbligato
a cambiare la propria assicurazione medica. Ma tutti, ripeto
tutti potranno avere un servizio migliore». Obama infatti ha
annunciato che secondo il suo piano diventerà illegale per
le assicurazioni americane interrompere cure per malattie
terminali, non rinnovare o onorare polizze con la scusa che
la malattia era preesistente, un rischio al quale oggi sono
esposti anche coloro che sono assicurati. E in un momento di
incertezza economica per il Paese, con un tasso di
disoccupazione in crescita, Obama ha promesso che anche chi
perderà il posto di lavoro avrà il diritto a mantenere
l'assicurazione: «non è da paese avanzato costringere una
famiglia alla bancarotta prima di offrigli aiuto... creeremo
un pool di assicurazioni da cui si potranno sottoscrivere
delle polizze a buon mercato...».
Il Presidente ha anche teso la mano ai repubblicani
introducendo, la prima volta per un democratico, un progetto
per limitare le cause contro i dottori, seguendo la
falsariga di un progetto che aveva annunciato il suo
concorrente alle elezioni, il Senatore John McCain, che ha
identificato e salutato nel pubblico. Ha elogiato lo sforzo
di un suo compagno di partito, il Senatore Max Baucus del
Montana, che ha presentato a sua volta un piano appena
leggermente diverso dal suo. Infine ha riaffermato il suo
desiderio di offrire un piano di sottoscrizione di polizze
sanitarie gestite direttamente dallo stato: «Saranno solo il
5% delle polizze totali, ma consentiranno di aiutare chi ne
ha bisogno». Allo stesso tempo ha fatto capire che quel 5%
del suo progetto non diventerà un ostacolo per trovare un
compromesso e far passare misure che potranno comunque
essere rivoluzionarie: «Sono pronto – ha detto ancora – a
recepire le idee di tutti».
Il presidente ha dato un ampio respiro storico al suo
discorso, ricordando come negli anni Trenta, quando sono
state introdotte le pensioni statali, c'erano moltitudini di
persone che gridavano al socialismo. E quando negli anni
Sessanta è stata introdotta per la prima volta l'assistenza
sanitaria per gli anziani, di nuovo in molti dicevano che lo
stato avrebbe preso il controllo della sanità': «eppure
oggi, nessuno, dico nessuno si sogna di dire che questi due
programmi possano essere annullati... Il tempo delle
polemiche è finito. Il tempo dei giochi è tramontato. Il
momento di unire le migliori idee di entrambi i partiti è
ora, per dimostrare agli americani che possiamo ancora fare
ciò che siamo stati eletti per fare. Adesso è il momento di
ottenere risultati sulla sanità», ha detto ancora Obama.
Le reazioni non si sono fatte attendere. Il Senatore
repubblicano Charles Grassley, dell'Iowa, ha chiesto a Obama
«di costruire un consenso che possa ottenere l'appoggio di
70-80 senatori...un progetto che non avrà successo se ci
sarà un piano governativo". L'unico momento di un certo
imbarazzo c'è stato quando Obama ha promesso di non usare
fondi pubblici per l'aborto e di non voler includere nel
programma sanitario gli immigrati illegali. «Sei un
bugiardo» gli ha urlato Joe Wilson, un deputato della
Carolina del Sud. Poi, a dicorso ultimato, il deputato si è
scusato. E ha ammesso che aveva superato i confini della
civiltà nel dibattito politico.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
USA 9/11: OBAMA,
DIFENDERO' L'AMERICA
11 Settembre 2009 20:39 NEW YORK -
La Repubblica ______________________________________________
Il presidente al Pentagono per
commemorare le vittime. A Ground Zero il sindaco di New York
e il vicepresidente Biden. Cnn: la guardia costiera di
Washington spara su una barca "sospetta" sul Potomac. Ma
l'Fbi smentisce: "Era un'esercitazione".
Non dimenticare. Sembra questo l'imperativo
nell'anniversario dell'11 settembre. E coniugare il ricordo
con la svolta rappresentata dall'elezione di Obama. Per
l'ottava volta New York e gli Stati Uniti si sono stretti
nuovamente nel ricordo delle vittime. Ma la voglia di andare
avanti è forte.
Il presidente Obama usa parole nette per assicurare agli
americani che l'impegno non è scemato: "Difenderò l'America,
nessuna esitazione contro Al Qaeda". La routine del
cerimoniale è la stessa degli ultimi anni. A New York questa
notte si sono accesi i grandi fari azzurri puntati al cielo,
per disegnare sulla skyline della città il profilo delle
torri gemelle abbattute dai kamikaze. E questa mattina, a
Ground Zero, nella consueta cerimonia in memoria delle 2.752
vittime, sono stati posati dei fiori nelle due vasche
quadrate, il simbolo delle torri. La cerimonia, alla
presenza del vice presidente americano Joe Biden e dal
sindaco della città Michael Bloomberg, è stata punteggiata
da quattro momenti di silenzio, scanditi dal suono di
campane per ricordare i momenti dell'impatto dei due aerei
dirottati e il momento in cui gli edifici sono crollati.
Le parole di Obama. Il presidente Barack Obama, con la
moglie Michelle al Pentagono, ha ricordato con un minuto di
silenzio le vittime dell'impatto del terzo dei quattro aerei
dirottati da Al Qaeda. E poi un breve discorso: "Gli anni
che passano non diminuiscono la pena. Per la difesa della
nostra nazione non avremo esitazioni nel perseguire Al-Qaeda
e i suoi alleati estremisti". In contemporanea a Ground
Zero, la lettura dei nomi delle 2,752 persone uccise
nell'attentato. La quarta cerimonia ufficiale è invece in
Pennsylvania, dove si schiantò il quarto aereo, dopo una
rivolta dei passeggeri contro i dirottatori. Il jet era
diretto contro la Casa Bianca.
Il giallo degli spari sul Potomac. Proprio in contemporanea
con l'orario fissato per le commemorazioni (le 15, come 8
anni fa), a Washington si è diffuso l'allarme per la
notizia, riportata da Cnn, che la Guardia costiera aveva
sparato contro una imbarcazione sospetta. Nell'audio diffuso
dalla Cnn si sentono le autorità marittime intimare alla
barca di rallentare, "altrimenti spariamo". Poi, riferisce
la tv, "sono state sparate almeno dieci raffiche. Una misura
senza precedenti" motivata, spiegano i giornalisti, "dalla
delicatezza dell'anniversario". Più tardi l'Fbi ha riportato
la smentita della Guardia costiera, che nega di aver sparato
su alcuna imbarcazione e sostiene che si trattasse di una
"esercitazione". La Cnn commenta: "Abbiamo le registrazioni
delle conversazioni tra polizia e guardia costiera e la
polizia non sembrava sapere che si trattasse di
un'esercitazione. Quel che sappiamo è che quando il
presidente è in giro c'è un sacco di gente armata e nervosa.
Cos'altro e chi altro non sapeva?".
Le polemiche. A New York tuttavia l'attenzione è soprattutto
per i ritardi nei lavori di ricostruzione a Ground Zero. I
cinque grattacieli che avrebbero dovuto prendere il posto
del Wtc ancora non ci sono, e del più importante, la Freedom
Tower, si comincia a vedere lo scheletro d'acciaio dei primi
piani, ma servono gli occhi del direttore dell'autorità
portuale di New York e New Jersey Chris Ward per vedere "un
senso di rinascita". Per tutti gli altri newyorchesi Ground
Zero sembra congelata nel tempo, e i mille operai al lavoro
nel cantiere.
Un sondaggio della Quinnipiac University condotto il mese
scorso suggerisce che più della metà dei newyorchesi è
convinta che la ricostruzione proceda male. Il sessanta per
cento non crede che la Freedom Tower, alta 1.776 Piedi in
memoria delle 1.776 Vittime del Wtc, sarà costruita entro i
termini previsti.
Garbugli politici, complicazioni nella realizzazione e la
recessione economica hanno allungato i tempi e gonfiato i
costi.
"Ricordando un futuro di cui molti hanno (ancora) paura", è
il titolo del New York Times, secondo il quale all'indomani
degli attacchi dell'11 settembre, molti newyorkesi vedevano
un futuro cupo, che non è ancora stato superato. Per il
Washington Post, invece, gli attentati "sono un ricordo
troppo lontano per i teenagers", otto anni dopo, sono già
diventati pagine dei libri di storia, per una generazione
troppo giovane per ricordarsene.
Fonte
- La
Repubblica
|
Volcker:
«Le banche devono fare solo le banche»
11 Settembre 2009 08:13
MILANO - di Claudio Gatti
________________________________________
Paul Volcker può essere definito un gigante
dell'economia. Nel senso letterale e non della parola. Per
la sua altezza: più di due metri. E per la stima che si ha
di lui. In un'intervista concessa nel maggio scorso al New
York Times, il presidente Barack Obama non ha usato mezze
parole: "una persona che ha grande influenza su di me è Paul
Volcker".
Sono esattamente 40 anni che Volcker ha modo di influenzare
le scelte economico-finanziarie di chi governa a Washington.
Prima come sottosegretario al Tesoro poi come presidente
della Federal Reserve Bank. Nel 1987, Ronald Reagan non gli
rinnovò il mandato al vertice della banca centrale
americana. La decisione fu successivamente spiegata in
questo modo dal premio Nobel per l'economia Paul Joseph
Stiglitz: "perché l'amministrazione Reagan non pensava fosse
disposto a deregolamentare a sufficienza".
Visti i danni della deregulation, le sue opinioni sono più
che apprezzate che mai. Tant'è che è stato
autore/supervisore del rapporto sulla riforma dei sistemi
regolatori completato nel gennaio scorso dal cosiddetto
Gruppo dei Trenta. Nonostante i suoi 82 anni, Barack Obama
lo ha anche scelto per dirigere il President's Economic
Recovery Advisory Board, un gruppo di consulenti che
consiglia la Casa Bianca sul tema della ripresa economica.
Alla vigilia del primo anniversario della bancarotta di
Lehman Brothers, e cioè del culmine della crisi finanziaria
internazionale, Il Sole 24 Ore gli ha chiesto un incontro
per un'intervista a 360 gradi.
Cominciamo con la sua decisione, nel gennaio 2008, di
dichiarare pubblicamente il suo sostegno all'allora
candidato Barack Obama. Era la prima volta che lo faceva?
Prima di lui l'ho fatto solo con Bill Bradley, l'ex cestista
che nel 2000 si è candidato alla presidenza.
Sia Bradley che Obama sono democratici, lei come si
definisce politicamente?
Quando ho cominciato a votare mi ritenevo un repubblicano.
Ho cominciato a votare per il partito democratico con Adlai
Stevenson. Poi ho sostenuto Kennedy. Una volta andato alla
Federal Reserve ho però deciso di non voler essere associato
ad alcun partito. E comunque avevo capito che uno valeva
l'altro! Da allora sono un indipendente. Non sono iscritto a
nessuno dei due partiti.
Che cosa l'ha spinta a sostenere Barack Obama?
Pensavo che gli Stati Uniti non stessero andando nella
direzione giusta e che in politica l'asprezza e le posizioni
per partito preso stavano avendo la meglio. Condividevo il
suo desiderio di riunificare il paese e le sue idee sul
ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Si ricorda del vostro primo contatto dopo la sua
dichiarazione di supporto?
Era un sabato, o una domenica – un giorno del weekend – e
ricevetti una telefonata a casa. Presi il telefono e sentii:
"Sono Barack". Io lì per lì pensai fosse una scherzo. "Ma
che stai a dire! Altro che Barack, chi sei?' risposi. Ma era
lui.
Che cosa l'ha colpita di più di lui?
E' sempre straordinariamente preparato e ben informato.
Almeno sui soggetti di cui mi occupo io.
Nell'intervista al New York Times del maggio scorso Obama ha
detto che lei gli ha dato "consigli enormi". Mi può fare un
esempio di uno di quegli "enormi consigli"?
Non so se la citazione sia accurata. Mi pare sia eccessiva.
Abbiamo avuto vari incontri, e io non ho mancato di
esprimere le mie opinioni, in particolare sul tema delle
riforme finanziarie... non che l'amministrazione le abbia
seguite tutte!
Recentemente il Wall Street Journal ha scritto che Obama è
un "micro-manager", a volte troppo focalizzato su dettagli
insignificanti. Le è parso anche a lei?
Per quello che ho potuto vedere io, non direi sia un
micro-manager. Mi pare piuttosto che abbia attorno a sé un
team di persone responsabili che hanno la libertà di manovra
per implementare le sue politiche.
Che tipo di lavoro ha fatto finora per il presidente o
l'amministrazione?
Quello che faccio è limitato. Ma ho un interesse particolare
per il tema della riforma del sistema regolatorio e ho ruolo
attivo in quel dibattito. Ho presentato le mie idee al
presidente e ai suoi consiglieri economici.
Quando è l'ultima volta che ha parlato con il presidente?
Qualche settimana fa.
Parlando dell'economia: teme un ritorno dell'inflazione?
La preoccupazione di un ritorno dell'inflazione ce l'ho
sempre. Penso sia una minaccia imminente? No. Con così tanta
disoccupazione e l'economia mondiale così moscia non direi.
Ma mi preoccupa sentire la gente dire che è meglio un po' di
inflazione di molta disoccupazione. Neppure io voglio la
disoccupazione, ma non bisogna sottovalutare il rischio
dell'inflazione. Abbiamo un deficit gigantesco e la Federal
Reserve ha messo in campo una quantità enorme di liquidità.
Per ora possiamo assorbirla, ma potrebbe essere un problema
quando l'economia americana e quella mondiale ricominceranno
a crescere.
Alcuni pensano che l'inflazione sia l'unica soluzione al
debito crescente?
Lo so. Ma io non sono tra questi.
Che pensa del deficit del budget federale?
E' senza precedenti. Ma per il momento non penso sia un
problema. E' stato di aiuto nel moderare la caduta
dell'economia, anche se uscirne sarà dura.
Nel lungo termine, il deficit è una minaccia?
Se non gli si farà fronte potrebbe alimentare l'inflazione,
ridurre la vitalità dell'economia e creare problemi con il
ruolo del dollaro nel mondo. Ma l'obbiettivo è di riportarlo
sotto controllo.
Che pensa del ruolo del governo nell'industria
automobilistica e nella Gm in particolare? C'è chi dice che
il governo non dovrebbe entrare in una casa automobilistica.
Lo penso anch'io. E spero che il governo ne possa uscire il
più rapidamente possibile. Detto questo, io stesso ho
partecipato al salvataggio della Chrysler negli anni '70. Fu
più semplice di questo, e finì bene. Il governo assunse dei
rischi, ma recuperò i suoi soldi e la Chrysler si riprese.
Almeno per alcuni anni. Il che ha creato un precedente
negativo. Perché il governo non dovrebbe produrre
automobili.
Sta dicendo che l'amministrazione non avrebbe dovuto
intervenire per salvare Gm dalla bancarotta?
No. Date le circostanze esistenti...
... lei avrebbe dato la sua benedizione?
Sì. Viste le condizioni, l'assistenza del governo non era
inappropriata.
Alcuni pensano che se non si fosse lasciata fallire la
Lehman l'intensità della crisi successiva non sarebbe stata
la stessa.
Non si può sapere. Se la Lehman fosse stata salvata sono
sicuro che il mercato avrebbe cominciato a speculare contro
Morgan Stanley o Goldman Sachs e penso che si sarebbero
comunque avute ripercussioni. Se sarebbero state altrettanto
gravi e improvvise non si può dire. Forse no. Forse sarebbe
stato un processo meno violento.
Quindi non pensa sia stato un errore?
Penso che ci sarebbero state difficoltà anche se la si fosse
salvata.
C'è un famoso detto del capo gabinetto di Obama, Rahm
Emanuel: "non si devono mai sprecare le opportunità offerte
da una crisi".. L'ex Segretario del Tesoro Nicholas Brady ha
dichiarato che l'amministrazione Obama ha però sprecato
l'opportunità di ridisegnare il sistema di regolamentazione
finanziaria. Che ne pensa?
Non è finita, anche se c'è effettivamente il rischio che non
si producano le riforme e le regole augurabili. E' troppo
presto per dare un giudizio, ma mi preoccupo, quello sì,
perchè penso che un sacco di gente a Wall Street farà presto
a tornare alle vecchie abitudini e dire: il passato è
passato, è ora di far ricominciare la musica. Sono
preoccupato, ma la partita non è chiusa.
La reazione di Wall Street alle riforme volute dal
presidente Franklin Delano Roosevelt fu violenta. Le riforme
di Barack Obama non hanno invece provocato forti reazioni,
il che ha portato alcuni a ritenere che non siano
sufficientemente radicali o efficaci.
Nonostante la mia bella età, non sono così vecchio da
ricordare la reazione alle riforme di Rooselvelt! Scherzi a
parte, penso che rispetto ad allora la gente fosse più
preparata e si aspettasse molto e perciò, quando il Tesoro
ha annunciato le sue proposte, non c'è stata sorpresa.
Comunque, ripeto, mi preoccupa il fatto che lo sforzo di
riforma non venga portato avanti fino in fondo.
Pensa che ci sia un modo per rendere improbabile una nuova
tempesta finanziaria?
Dobbiamo cercare di renderla improbabile. Bisogna vedere se
ci riusciamo.
Quali sono le sue proposte principali in materia di riforma
del quadro regolatorio?
Io penso che si debbano trattare le banche in modo diverso
dalle altre istituzioni finanziarie. E che si debbano
limitare le loro attività. Per essere più specifici: le
banche non dovrebbero essere proprietarie di hedge fund o di
fondi di equity e le loro attività di trading dovrebbero
essere circoscritte. Un'istituzione che produce il grosso
del suo reddito con il trading non dovrebbe avere una
licenza bancaria. Se vuole fare trading va bene, ma non come
banca. Perché le banche hanno protezioni particolari che non
si devono estendere a tutti.
Quali sono gli ostacoli?
C'è un sacco di gente che fa enormi quantità di soldi in
finanza e vuole continuare a farlo.
Che pensa di imporre dei tetti ai compensi di banchieri e
finanzieri?
Che troverebbero i modi di circonvenirle. Lo vediamo già
adesso: è osceno quello che guadagnano.
Uno dei problemi emersi con la crisi è stato quello delle
agenzia di rating creditizio, in particolare il fatto che
sono pagate dagli stessi soggetti che ricevono il loro
rating. Un editorialista del New York Times ha scritto che è
come se gli studi cinematografici pagassero i critici
cinematografici per le loro recensioni.
Le agenzie hanno certamente contribuito al fallimento del
sistema. E non ho ancora visto alcun piano per riformarle.
Il problema è che nessuno ha trovato un altro modo
economicamente sostenibile per pagare il loro lavoro. Anche
il fatto che ci sia un oligopolio è un problema. Una
possibile soluzione potrebbe essere quello di
de-monopolizzare il settore. Forse dovrebbero essercene
molte di più, con alcune specializzate in specifiche
industrie. E potrebbero essere pagate dagli investitori.
Pensa che Wall Street e le istituzioni finanziarie in
generale abbiano un'influenza politica sproporzionata?
Non sono le uniche. L'influenza dei soldi e delle lobby su
Washington è diventata sempre maggiore e ha raggiunto un
livello vergognoso. Per non parlare del fatto che, poiché al
Tesoro molte nomine ancora non sono state confermate dal
Congresso, Geithenr sta lì circondato di consulenti privati.
A otto mesi dall'arrivo della nuova amministrazione, il
Tesoro non ha ancora un suo staff di funzionari confermati.
E questo solleva la questione dell'utilizzo di consiglieri
informali che vengono da Wall Street. Non dovrebbe
succedere.
Che pensa del team di economisti scelti da Obama?
Non ho problemi con il team. Ma con il fatto che non opera
ancora con il necessario complemento di uno staff al
completo.
E' un problema di questa amministrazione?
É un problema che si trascina da tempo e continua a
peggiorare. Nella prima amministrazione di Nixon, ricordo
che io ero già nel mio ufficio di sottosegretario al Tesoro
due settimane dopo il giorno dell'inaugurazione. Oggi sono
passati otto mesi e ancora non c'è il sottosegretario per
gli affari internazionali. E siamo all'indomani di una crisi
finanziaria!
Che cosa pensa finora della performance
dell'amministrazione?
Hanno dovuto affrontare una crisi e hanno risposto in modo
non ortodosso. E si può dire che l'intero sistema
finanziario sia stato salvato dall'intervento governativo.
Ma personalmente non penso che sarebbe mai dovuto accadere
ciò che è accaduto. Il sistema finanziario avrebbe dovuto
reggere da solo.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore |
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Mercoledì
16 Settembre
2009 |
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Venerdì
18 Settembre
2009 |
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Domenica
20 Settembre
2009 |
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Il
mercato funziona se è
accompagnato da buone regole
14 Settembre 2009
09:39 MILANO - di Armando Massarenti
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Amartya Sen, premio Nobel per l'economia nel
'98, è stato chiamato dal presidente francese Nicolas
Sarkozy a presiedere, insieme all'altro Nobel, l'ameericano
Stiglitz, e al francese Fitoussi, la commissione su
performance economica e progresso sociale che lunedì 14
settembre ha presentato il suo rapporto in cui si sottolinea
che tra gli indici di sviluppo è necessario comprendere
anche quelli sul benessere percepito dalla popolazione. In
questa intervista il Nobel per l'economia mette in evidenza
come «la lezione» della crisi «è che il nostro sistema
economico funziona se è ben accompagnato».
Professor Sen, a che cosa attribuisce la crisi economica che
ha travolto il mondo dallo scorso autunno, e che ora sembra
dare qualche segnale del suo esaurirsi? Quali lezioni ne
possiamo trarre per il futuro, in maniera da non riptere gli
stessi errori?
Ogni evento di tale portata ha più di una causa, ma per
trarne lezioni per il futuro, è importante vedere che dietro
questa crisi economica ci sono decenni di politiche fondate
su un pensiero economico confuso. Dalla fine della seconda
guerra mondiale, l'economia globale è progredita a ritmo
abbastanza costante, e rapido, basandosi su una sorta di
equilibrio dei mercati e degli interventi dello stato nei
paesi occidentali. In quel periodo, si confidava nei
mercati, che sono il motore della crescita, ma anche nella
supervisione di molte loro attività - dal credito alle
assicurazioni e alle transazioni finanziarie – e in un
sistema statale di sicurezza economica e sociale che
alleviava la povertà, con sussidi di disoccupazione,
pensioni e così via, compresa – in Europa – una sanità
pubblica accessibile a tutti. Sotto questi aspetti, gli
Stati Uniti erano rimasti indietro: Medicare, per esempio,
garantisce solo una copertura selettiva, non universale. In
compenso, regolavano con fermezza il credito, le
assicurazioni e la finanza, ed erogavano alcune forme di
previdenza.
Poi che cos'è successo?
Che a partire dall'era Reagan, è riecheggiato in ogni
settore un appello a un capitalismo meno imbrigliato. Quanto
iniziato allora è proseguito sotto la presidenza di Bill
Clinton e di George W. Bush, con l'estirpazione graduale
della regolamentazione della finanza, delle assicurazioni e
delle altre transazioni per le quali è necessaria una
supervisione. L'Europa ha fatto lo stesso percorso, anche se
la natura della politica europea lo ha reso meno brutale.
Anche in Europa, il capitalismo puro e semplice pareva la
strada da imboccare e dire bene del ruolo economico dello
stato pareva anacronistico.
Lei è stato invece l'economista che, senza demonizzare mai
il mercato, anzi riconscendone tutti i pregi, ha sostenuto
proprio in quegli anni la necessità di tornare a una
regolamentazione, insistento più di ogni altro sui rapporti
tra etica ed economia.
Sì. Ciò che ho descritto finora avveniva in America e in
Europa nel preciso momento in cui aumentavano le ragioni a
favore della regolamentazione. Negli anni scorsi, le
responsabilità per le varie transazioni sono diventate più
difficili da rintracciare grazie al rapido sviluppo di
mercati secondari per i derivati e per altri strumenti
finanziari "innovativi", i quali consentivano per esempio di
offrire credito per mutui subprime, e di scaricare i rischi
di default a terzi, estranei alla transazione.
Erano tempi di una disponibilità di credito senza
precedenti, alimentata in parte dall'enorme eccedente della
bilancia commerciale di alcuni paesi, la Cina in
particolare, e amplificata dalla scala sulla quale si
potevano lanciare operazioni spregiudicate. Proprio mentre
diventava necessaria una sorveglianza stretta da parte dello
stato, essa si allentava drasticamente come richiesto dalla
fiducia in un capitalismo di mercato liberato da ogni freno.
E così il sistema economico è diventato vulnerabile alla
crisi. Ci sono anche altri fattori, ma questa mi sembra la
parte importante della lezione. Il messaggio non è "il
mercato fa male", bensì "il mercato fa bene se è ben
accompagnato."
E quali sono gli alti fattori?
I cambiamenti controproducenti non hanno riguardato soltanto
l'assenza di controllo sui derivati e sugli altri strumenti
finanziari indiretti. Faccio un esempio. Nel 2000 il
Congresso statunitense, spinto dalla lobby di Wall Street e
dall'équipe economica della Casa Bianca, ha votato il
Commodity Features Modernization Act, una legge che esentava
certe assicurazioni note sotto il nome cosmetico di "credit
default swaps" dalle normative federali su tutte le forme di
assicurazione. Questo "buco nero normativo", per dirla con
l'amico David Richards, ha partorito un mostro:
assicurazioni vendute con lucrosi profitti da venditori che
nessuno controllava. Assicurazioni contro il rischio di
default per miliardi di dollari, prive di qualunque
garanzia, si sono riversate sui mercati creando una
vulnerabilità enorme, e ancora oggi incutono terrore nei
mercati finanziari globali. Il principale venditore di tali
assicurazioni era il colosso AIG - American International
Group – che ha dovuto essere riscattato e ora sembra essersi
finalmente ripreso grazie al sostegno massiccio del governo
e a un costo gigantesco per il contribuente americano.
Tutto ciò, in termini morali, si può dire che abbia generato
una enorme crisi di fiducia?
Come diceva Adam Smith più di 200 anni fa, l'economia di
mercato si basa sulla fiducia e qui il governo deve fare la
sua parte. Ha abdicato questa responsabilità, contribuendo
direttamente alla crisi, al crollo della fiducia
nell'economia in generale, e nel settore finanziario in
particolare. Molto gradualmente, la fiducia viene
ricostruita e la crisi potrebbe esser presto superata, ma il
collasso deve insegnarci a essere più avveduti in futuro.
Perché la crisi ha avuto un minor impatto in Cina e in
India, la cui economia cresce tuttora rapidamente, al
contrario di quanto accade nel resto del mondo?
Innanzitutto in Cina e in India non c'è stata una
deregolamentazione simile a quella statunitense, e la
vulnerabilità immediata era minore. Sebbene entrambi i paesi
soffrano del crollo globale, possono contare su un mercato
interno fortemente dinamico. Senza la crisi avrebbero avuto
una crescita maggiore, certo, ma quel dinamismo non è stato
intaccato. Infine Cina e India hanno reagito subito e
adottato misure per contrastare la crisi.
C'è un fatto più generale di cui tenere conto. Quando
un'economia si espande su più fronti, i vari settori si
rafforzano l'un l'altro. Prendiamo come indicatore qualcosa
che conta poco nella spesa nazionale, ma che misura bene la
capacità di star a galla di una determinata società: la
circolazione dei quotidiani. Sappiamo che la stampa è in
difficoltà in Europa e in America, soprattutto per la
diffusione di Internet. Il quale si è diffuso a una velocità
stupefacente anche in India e in Cina, eppure la
circolazione dei quotidiani continua ad aumentare di pari
passo e l'India si appresta a diventare il paese del mondo
in cui si vendono più quotidiani. La robustezza
dell'espansione economica indiana va vista nella prospettiva
più ampia di miglioramenti incessanti su molti fronti. Come
in Cina, ci sono ancora problemi gravi di povertà e di
disuguaglianza nella condivisione dei vantaggi
dell'espansione, ma nell'insieme l'economia è fiorente.
E' uno dei temi assai concreti che lei tratta nel suo ultimo
libro, "The idea of Justice". Quanto è grave la
disuguaglianza in India?
E' gravissima. Malgrado un calo sostanziale della povertà,
intesa come basso reddito, in India come in Cina, c'è
tuttora una grande miseria. Il rimedio sta nell'utilizzare
il reddito pubblico generato dalla veloce crescita economica
per rimuovere gli handicap dovuti all'assenza di cure
sanitarie, di educazione, e ad altri ostacoli sociali che
intralciano la condivisione dei benefici dello sviluppo.
Entrambi i paesi hanno usato il reddito pubblico a tale
scopo, ma senza riuscire a garantire cure sanitarie per
tutti e l'India, inoltre, ha un tasso d'analfabetismo
superiore a quello cinese. Il successo dello sviluppo
economico resta da completare con una distribuzione più equa
dei suoi benefici.
Ma questo sviluppo non è anche una minaccia per l'ambiente?
L'ambiente è sicuramente una preoccupazione globale, e Cina
e India devono contribuire allo sforzo per salvaguardarlo
con una quota appropriata. Ma cosa significa "appropriata"
nel loro caso? Prima di dare lezioni a questi paesi su come
rallentare il proprio sviluppo economico, teniamo presente
alcuni fatti. Innanzitutto, sono paesi poveri e lo sviluppo
serve loro per uscire dalla povertà. Poi l'Europa e
l'America si sono sviluppate e arricchite per secoli e così
facendo hanno inquinato il mondo intero. Con alle spalle una
storia così spudorata, meglio non dettare la morale ad
altri.
Tuttavia viviamo in un mondo minacciato dal riscaldamento
globale e da altre conseguenze dell'inquinamento: le
restrizioni e i loro costi sociali vanno suddivisi
equamente. Occorre quindi arrivare a un accordo
internazionale che tenga conto innanzitutto della povertà di
alcuni paesi e della prosperità di altri. Poi del fatto che
l'America e l'Europa si sono appropriate di una grossa fetta
dei commons (beni comuni) globali; la miglior restrizione
sta nel ridurre non lo sviluppo economico, bensì il suo
impatto inquinante attraverso incentivi all'innovazione e
alla ricerca mirata. Devono anche aumentare le forme di
cooperazione in tutti gli ambiti della vita sociale,
compreso quello dei trasporti pubblici che riducono le
emissioni inquinanti. Se oggi la Cina e l'India affermano di
non voler firmare alcun accordo, ciò riflette soprattutto la
loro frustrazione nel vedere che non sono presi in
considerazione i fattori rilevanti nella distribuzione dei
costi sociali. Sono certo che altrimenti lo firmerebbero,
per esempio al prossimo vertice di Copenaghen. In India il
movimento ambientalista è forte, e quello cinese sta
crescendo.
Quale pericolo rappresenta l'India come potenza nucleare?
Ero molto contrario ai test nucleari indiani del 1998. Il
paese aveva già mostrato le proprie capacità nel 1974, e
sono stati utili solo al Pakistan. Gli hanno dato un
pretesto per far esplodere per la prima volta le proprie
bombe, e per rendere palese che era una potenza nucleare.
Non era nell'interesse dell'India, e cosa più importante, ha
reso più pericoloso l'intero subcontinente.
Perciò ero contrario. Detto questo, non mi tormenta troppo
l'idea che l'India usi un giorno le sue testate nucleari: è
poco probabile, ed è ancora meno plausibile nella pratica
della democrazia indiana. Il Pakistan non è ancora una
democrazia, quindi c'è un problema, ma dal suo governo mi
aspetto una certa prudenza. In compenso, le sue armi
atomiche potrebbero finire in mano a estremisti, e occorre
riflettere sugli interventi in grado di prevenire tale
eventualità.
I recenti dibattiti non riguardavano però le bombe atomiche,
ma l'accordo con il quale gli Stati Uniti fornivano
all'India combustibile nucleare per le centrali che
producono elettricità. L'India ha fatto alcune concessioni
sulle ispezioni nei suoi impianti, e molti critici hanno
ritenuto che in questo modo la sovranità del paese veniva
compromessa. Non è stata soltanto la posizione del partito
induista Bharatiya Janata, ma con mia delusione, anche
quella dei partiti di sinistra che su questo punto cercarono
di far cadere il governo di Manmohan Singh. Non ci sono
riusciti, hanno solo rafforzato la leadership di Singh e la
sinistra è uscita ridimensionata dalle elezioni successive.
In America e in Europa, l'accordo non è stato visto come una
compromissione della sovranità indiana, ma come un ottimo
affare. Strano come le interpretazioni siano state diverse,
in India e all'estero. Credo che siano tutte e due
sbagliate. L'India ha ottenuto qualcosa, non granché, e ha
ceduto qualcosa, non granché. Quello che importa davvero non
sono le dispute su temi minori come questi, ma il dibattito
ben più vigoroso in India come in Pakistan su come evitare
disastri nucleari.
Anche la questione nucleare quindi può essere considerata
una questione di giustizia?
Dietro a tutto ciò, c'è in effetti la riluttanza delle
vecchie potenze nucleari – USA, Russia, Francia, Gran
Bretagna e Cina – a prendere iniziative per eliminare tutte
le armi nucleari, ovunque si trovino. E' quello l'obiettivo
grande che il mondo deve darsi, facendo pressione non solo
sull'India e il Pakistan, e su Israele, la Corea del Nord e
forse tra poco l'Iran, ma anche sulle vecchie potenze
nucleari.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
Cina – Il
credito è vivo e lotta insieme a noi
Friday, 11 September, 2009 at
22:35 -
by phastidio ______________________________________________
Durante la notte, il paese più
importante del mondo in termini di capacità di accendere il
fiammifero della crescita economica (vera o sperata), la
Cina, ha reso noto una serie di dati macroeconomici accolti
dall’indice di Shanghai con il massimo delle ultime tre
settimane. Di particolare rilievo il dato del credito
bancario, ammontato in agosto a 410.4 miliardi di Yuan,
circa 90 miliardi più del previsto. Nei primi 8 mesi di
quest’anno il totale è stato di 8.100 miliardi, ben al di
sopra dei 4.900 miliardi erogati nell’intero 2008, ma il
ritmo di crescita del credito sta rallentando al crescere
dell’attenzione del governo alla gestione del potenziale
surriscaldamento. Anche la produzione industriale è
aumentata oltre le stime, mentre le vendite al dettaglio e
gli investimenti in immobilizzazioni sono stati circa in
linea con il consenso. L’avanzo commerciale è stato
superiore al previsto, ma sia le importazioni che le
esportazioni sono scese più del consenso, circostanza che
evidentemente non depone a favore di una rivitalizzazione
del commercio globale.
Fonte
- Macromonitor
Dopo crack Lehman
oltre un mld di affamati
Lunedì 14 Settembre 2009, 16:29 -
Di Pierpaolo Molinengo ______________________________________________
La speculazione sulla fame non si
è fermata ed ha bruciato nel mondo quasi 200 miliardi di
dollari solo per il grano, con le quotazioni internazionali
che sono dimezzate da 10 dollari per bushel (0,37 dollari al
chilo) dello scorso anno a meno di 5 dollari per bushel
(0,18 dollari al chilo), mentre i prezzi dei prodotti
alimentari derivati come pane e pasta hanno continuato ad
aumentare nei paesi ricchi ed in quelli poveri. E' quanto
afferma la Coldiretti, sulla base delle quotazioni al
Chicago Board of Trade, nel sottolineare che secondo le
stime Fao il numero di affamati nel mondo ha superato, per
la prima volta, il miliardo con una crescita dell'11 per
cento, ad un anno del crack della Lehman Brothers
Con la crisi finanziaria la speculazione si è spostata anche
sulle materie prime agricole le cui quotazioni sono
fortemente condizionate dai movimenti di capitale che stanno
“giocando” senza regole sui prezzi di grano, mais e soia
provocando una grande volatilità che - denuncia la
Coldiretti - ha impedito la programmazione e la sicurezza
degli approvvigionamenti in molti Paesi. Nonostante il
crollo dei prezzi alla produzione agricola - denuncia la
Coldiretti - rimangono alti i prezzi al consumo che rendono
piu' difficile la sopravvivenza del miliardo di affamati,
come dimostra il fatto che, secondo una analisi della Fao,
in 58 Paesi in via di sviluppo nell'80 per cento dei casi i
prezzi sono piu' alti dello scorso anno. Un problema che -
continua la Coldiretti - riguarda anche i paesi piu'
sviluppati dove la denutrizione riguarda 15 milioni di
persone, per un aumento del 15,4 per cento sul 2008.
L'emergenza alimentare - precisa la Coldiretti - non si
risolve con i prezzi bassi all'origine per i produttori
perche' questi non consentono all'agricoltura di
sopravvivere e, con la chiusura delle imprese, destrutturano
il sistema che non è piu' in grado di riprendersi anche in
condizioni positive. Occorre combattere - sostiene la
Coldiretti - la grave ingiustizia rappresentata dall'iniqua
distribuzione del valore aggiunto a danno degli agricoltori
e dei consumatori lungo le filiere agroalimentari.
In Italia, dove i prezzi moltiplicano per cinque dal campo
alla tavola, si è verificata ad agosto una crescita
tendenziale dei prezzi degli alimentari dell'1,2 per cento
ad agosto (sei volte superiore al valore medio
dell'inflazione dello 0,2 per cento) nonostante - precisa la
Coldiretti - il crollo del 16 per cento in media dei prezzi
agricoli con una punta del -30 per cento per il grano , che
mette a rischio il futuro delle coltivazioni in Italia. Ed è
scandaloso - continua la Coldiretti - il caso della pasta di
semola di grano duro che, nonostante la multa di 12,5
milioni del 2 febbraio 2009, decisa dall'Antitrust per il
“cartello” tra produttori, nel primo semestre del 2009 è
stata il prodotto che è aumentato di piu' (+11 per cento
tendenziale) e si posiziona al quarto posto nel contributo
all'inflazione (dopo sigarette, canone di affitto, pasto al
ristorante e carrozziere), sulla base delle elaborazioni
Coldiretti sul rapporto Coop 2009.
“La crisi ha smascherato le false promesse dell'economia
virtuale e i pericoli di una assenza totale di regole sul
mercato che hanno permesso a pochi di fare affari mettendo a
rischio lo sviluppo di larga parte della popolazione
mondiale” ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio
Marini nel sottolineare che “con la auspicabile ripresa
abbiamo una occasione unica per ridare alle cose un nuovo
ordine e far riacquisire il primato alla verità e alla
concretezza che sono le parole d'ordine dell'agricoltura”.
L'economia - conclude Marini - esce dalla crisi solo se
assumono centralità i valori veri dell'agire di ciascuno di
noi: la responsabilità, l'affidabilità, l'etica dei
comportamenti ed ancora, si recupera pienamente la
dimensione dell'identità come qualificazione positiva della
persona, dei territori, di tutto ciò che è vero e che non
può essere scambiato per altro. Fonte
- Il Sole 24 Ore
Mervyn King
taglia i tassi sui depositi?
Tuesday, 15 September, 2009 at
13:07 -
by phastidio ______________________________________________
Il governatore di Bank of
England, Mervyn King, ha segnalato oggi la possibilità che
l’istituto di emissione britannico possa ridurre il tasso al
quale vengono remunerate le riserve bancarie che eccedono i
requisiti minimi di sistema. Iniziativa che, come ricordato
da King, non modificherebbe il livello di complessivo di
riserve del sistema bancario, che è determinato dagli
acquisti della banca centrale in regime di easing
quantitativo, ma potrebbe spingere le banche a convertire
parte di quelle riserve in altre tipologie di attivi.
La mossa sarebbe solo in apparenza simile a quella della
svedese Riksbank, che sui depositi delle banche presso la
banca centrale (in eccesso dei requisiti minimi) applica un
penalty rate, cioè un tasso negativo, pari allo 0,25 per
cento. In realtà, il tasso negativo svedese rappresenta una
mossa simbolica, sia perché la Svezia non sta creando
riserve attraverso l’easing quantitativo, sia perché la
facility del deposito delle banche commerciali presso la
Riksbank non viene di fatto utilizzato.
Tornando al caso britannico, King ammette che la minore
remunerazione delle riserve in eccesso non è ncessariamente
destinata a trasformarsi in impieghi, potendo prendere la
via dei titoli di stato a breve scadenza e trasformandosi
quindi in un canale di domanda quasi forzosa per questo
segmento di emissioni pubbliche. Il mercato ha in effetti
finora reagito premiando i Gilt corti.
Stati Uniti –
Rimbalzo delle vendite al dettaglio
Tuesday, 15 September, 2009 at
19:02 -
by phastidio ______________________________________________
Il dato delle vendite al
dettaglio di agosto ha evidenziato un incremento mensile del
2,7 per cento, e dell’1,1 per cento al netto della
componente auto, in entrambi i casi meglio delle stime di
consenso. Su base annuale, siamo rispettivamente a meno 5,3
e meno 6,2 per cento al netto delle auto, grandezze
nominali. L’andamento delle vendite fuori dai settori auto e
carburanti è stato piuttosto robusto, con il più 1,6 per
cento mensile del general merchandise, mentre l’elettronica
fa segnare un più 1,1 per cento, alimentari e bevande a più
0.5 per cento. In calo le vendite di arredamento, a meno 1,6
per cento, e materiali da costruzione e attrezzature da
giardino a meno 1,2 per cento.
In un altro dato relativo alle vendite al dettaglio,
l’International Council of Shopping Centers riporta una
variazione nulla si base settimanale ed un rialzo su base
annua dell’1,6 per cento, mentre i dati sulle vendite al
dettaglio del Johnson Redbook continuano ad uscire molto
deboli, a meno 1,9 per cento settimanale, pur provenendo da
variazioni recenti a meno 4 per cento.
Tra gli altri dati della giornata, l’indice dei prezzi alla
produzione è balzato in agosto dell’1,7 per cento sul mese
precedente, soprattutto per effetto di un aumento mensile
del 23 per cento nei prezzi della benzina. La variazione
annuale è del 4,3 per cento.
L’indice Empire State Manufacturing continua a mostrare una
ripresa nel settore della manifattura, ed in agosto fa
segnare un livello di 18,88 punti, 4 oltre le stime di
consenso e 7 in più del mese precedente. Balzo della
componente riferita ai nuovi ordini, con più 6,5 punti, che
segnala attività in espansione nei prossimi mesi.
Fonte
-
Macromonitor
COSA HA INSEGNATO
L'APOCALISSE? QUASI NIENTE
16 Settembre 2009 00:35 MILANO -
di Carlo Pelanda ______________________________________________
Il fallimento un anno fa di
Lehman Brothers, generando un collasso totale della fiducia,
trasformò la crisi finanziaria in recessione globale. Dal
marzo 2009 l’economia mondiale è in ripresa. Ora è possibile
analizzare con freddezza la storia della crisi, ripulirla
dai miti, e usarla come lezione per il futuro.
Che la crisi finanziaria sia nata per eccesso di
finanziarizzazione dell’economia e avidità dei banchieri è
il mito più importante da smontare. Il cataclisma iniziò
alla fine del 2006 in America perchè si incrociarono tre
fattori: (a) la legislazione populista statunitense, in
particolare dal 1997, che permette ad un povero di comprare
una casa accedendo ad un mutuo facilitato, senza garanzie,
invece di assisterlo con edilizia pubblica; (b) la mancata
regolazione del sistema finanziario da parte della politica,
con la complicazione della nuova legge bancaria statunitense
del 1999 che permetteva di spostare il risparmio in
speculazioni acrobatiche e senza controllo; (c) il rialzo
del costo del denaro a causa del picco inatteso di
inflazione che rese insostenibili per molti americani le
rate a tasso variabile dei mutui.
Le insolvenze contaminarono i prodotti finanziari sintetici
con alla base i mutui e ciò fece crollare la fiducia anche
sul resto del ciclo finanziario globale congelandone le
operazioni. La liquidità cominciò a mancare. Nell’estate del
2007 le banche centrali iniziarono a compensarne la mancanza
con erogazioni d’emergenza. Ma ciò finanziò la crisi e non
la soluzione. Il mercato finanziario restava bloccato, le
banche restie a ricostruire i patrimoni e ripulire i
bilanci, la Riserva federale senza poteri per costringerle,
il governo, troppo influenzato da interessi privati,
indeciso nel dargliele. Nel settembre 2008 Lehman Brothers
fu lasciata fallire, probabilmente, per dare il segnale che
così non si poteva andare avanti.
In questa storia, pur semplificata, si trova facilmente che
il colpevole principale è il sistema politico statunitense
sia incapace di fare il mestiere di regolatore stando dietro
alle innovazioni della finanza sia ammalato di populismo
economico. Gli enti che erogarono e finanziarizzarono la
gran parte dei mutui insolventi furono le agenzie di fatto
governative Freddie Mac a Fannie Mae. L’industria
finanziaria non regolata, ovviamente, divenne più acrobatica
e predatoria per motivi di concorrenza. Ma la colpa
principale è stata della politica. Anche in Europa.
Le banche europee saltarono o andarono in crisi di liquidità
per il rapporto sbilanciato tra patrimonio e operazioni a
debito, sintomo evidente di una colpevole mancata
regolazione. La finanziarizzazione è come la tecnologia
nucleare. Se controllata produce tanta energia pulita a
basso costo, se non lo è diviene distruttiva. Probabilmente
la demonizzazione dell’industria finanziaria deriva dalla
paura dei politici di farsi imputare di incompetenza e
conseguente necessità di trovare un capro espiatorio
altrove, anche contando sulla mancata conoscenza della
tecnica finanziaria da parte della popolazione.
Questo punto è critico per il futuro. La finanza
supersintetica permette di rendere il capitale abbondante
per l’economia reale. Va regolata non per comprimerla o per
punirla, ma per darle basi di certezza utili a reggere
l’espansione del suo ciclo tecnico. Se la regolazione sarà
restrittiva e non espansiva mancherà nel mondo circa 1/3 del
capitale finanziario necessario alla ripresa e questa si
trasformerà in lunga stagnazione con impatto negativo anche
sull’Italia. Per evitarlo va fatto un chiarimento pubblico
urgente sui punti qui detti.
Fonte
-
IlSussidiario.net.
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La
Grande Depressione del
1873: tracce sulla spiaggia
Mercoledì 16 Settembre
2009, 16:40 - di Andrea Mazzalai
________________________________________
Secondo quanto scritto su WIKIPEDIA la crisi
economica del 1873-1896, indicata come Grande depressione,
ebbe inizio dopo oltre trent'anni di incessante crescita
economica. Il mondo conobbe una crisi agraria, cui si
aggiunse una parallela crisi industriale.
(...) Alcuni studiosi di storia economica affermano che la
Grande Depressione era in realtà una fase deflazionistica e
non un periodo di caduta della produzione e del PIL. La tesi
sulla deflazione porta a sostenere che la Grande Depressione
non era per nulla una depressione, perché la produzione e il
PIL reale crescevano durante tutto il periodo (vedi la
tabella sotto). La confusione proviene dal fatto che i
prezzi erano in calo. La deflazione era dovuta alla grande
produttività industriale e ad una moneta sana e onesta
(regime monetario coperto da oro e/o
Ecco quindi che come vedremo tra breve, la prima Grande
Depressione produsse una sorta di "deflazione positiva,
buona" ovvero una caduta dei prezzi non originata da un
eccesso di produzione ma dall'aumento della produttività, da
un aumento della concorrenza.
Nell'anniversario del fallimento della Lehman Brothers
(NYSE: LEH - notizie) ecco quindi un'uteriore impronta della
storia in questo passo:
(...)La crisi ebbe inizio dopo il fallimento della grande
banca newyorkese di Jay Cooke la quale diede il via ad
un'ondata di panico che si diffuse nell'economia americana e
poi in tutti gli altri paesi industrializzati. Nel giro di
pochi mesi la produzione industriale degli Stati Uniti cadde
di un terzo per la mancanza di acquirenti mentre aumentava a
dismisura la disoccupazione. (...)
La crisi si manifestò come una forte eccedenza di offerta
sulla domanda; le industrie cioè producevano molto più di
quanto il mercato potesse assorbire sotto forma di consumi.
Era la prima manifestazione di una crisi economica
moderna.(...)
Oggi vi sono delle differenze sostanziali rispetto a quel
periodo, questa crisi proviene da una crescita economica
degli ultimi anni stimolata dalle bolle dell'ideologia
monetarista, che ha prodotto un boom immobiliare
insostenibile, che a sua volta ha lasciato come risultato,
la più imponente depressione immobiliare della storia.
Senza questo boom indotto in maniera quasi scientifica,
nessuna crescita di rilievo avrebbe accompagnato un sistema
economico basato sul circolo virtuoso/vizioso Cina-Usa-Cina,
crescita sostanzialmente figlia del debito esponenziale, a
sua volta prodotto dal boom immobiliare.
(...) In un articolo del New York Times (NYSE: NYT -
notizie) del 2006, Charles R. Morris affermò che la "Grande
Depressione" era in realtà un periodo di grande crescita
economica, ma al tempo molti americani erano confusi a causa
della diminuzione dei prezzi e dell'incremento delle
disuguaglianze reddituali, risultanti da un aumento degli
standard di vita degli americani più benestanti a ritmi più
elevati rispetto alle comunque migliorate condizione di vita
del resto della popolazione. Nytimes
Come nella Grande Depressione del '29 e quella che si
continua a chiamare Grande Recessione, la Depressione di
fine secolo diciannovesimo vide un'esplosione delle
disuguaglianze in termine di redditi, alle quali aggiungerei
un'imponente trasferimento di patrimoni e profitti.
Alcuni giorni fa, sul SOLE24ORE è apparso un pezzo che
riprende il filone delle lezioni dal passato, .... Per
battere la crisi imitate Rockefeller nel crack del 1873 di
Marco Fortis:
Nell'ottobre dello scorso anno, durante i giorni di panico
seguiti al crollo di Wall Street, lo storico americano
dell'Ottocento e della guerra di secessione Scott Reynolds
Nelson, del College of William and Mary di Williamsburgh (
Virginia), conobbe un momento di particolare notorietà.
Infatti, pubblicò sulla rivista "The Chronicle of Higher
Education" un articolo in cui paragonava la recessione
globale che allora stava iniziando non al 1929, cioè al più
noto paradigma di tutte le crisi economiche, bensì alla
grande depressione del 1873.
I compagni di viaggio di Icebergfinanza conoscono
l'importanza della storia e come abbiamo appena visto in
MinskyMoment Hyman Minsky e Irving Fisher con la sua "DebtDeflation"
sono stelle polari che ci hanno aiutato a comprendere i
meccanismi di questa crisi, prima di molti altri.
L'attenzione dei media (l'articolo fu tradotto in molte
lingue e variamente commentato) verso questo raffronto
storico è poi scemata sotto l'incalzare degli avvenimenti,
ma vale la pena oggi di rivisitare le argomentazioni di
Nelson, perché quando una crisi ha una portata come quella
attuale i paralleli storici sono necessari. E anche chi non
è storico di professione e quindi ha una visione parziale
degli eventi può dare un contributo per stimolare il
dibattito.
Il calo degli indicatori economici durante il primo anno
dell'attuale recessione ha toccato intensità indubbiamente
simili a quelle registrate nella prima fase dellacrisi del
'29 ma, a parte altre analogie marginali, il paragone si
ferma qui. Nel 1873, invece, gli indicatori
macroeconomici allora esistenti non registrarono una caduta
analoga a quella odierna e di ottanta anni fa. Infatti, il
numero di paesi che accusarono diminuzioni del prodotto
interno lordo nel 1873 e negli anni successivi fu abbastanza
limitato. Tuttavia quella crisi fu avvertita pesantemente
dalle borse ed ebbe conseguenze profonde e durature sulle
economie, determinando un lungo strascico di problemi in
molti settori produttivi, nell'occupazione e nel commercio
internazionale.
Le cause che determinarono la depressione del 1873 furono in
effetti assai simili a quelle che hanno provocato la crisi
odierna, mentre il crack del '29 originò principalmente da
altri fattori, come la sovrapproduzione di beni di consumo
in America e la conseguente crisi bancaria e azionaria,
senza dimenticare il fatto che l'Europa era nel '29
profondamente divisa e debole, con la Germania ancora
afflitta dalle difficoltà conseguenti al pagamento dei
debiti della prima guerra mondiale. La crisi del
'29,inoltre,non fu assolutamente causata da un eccesso di
debiti delle famiglie per i mutui sulla casa e il credito al
consumo, come è avvenuto stavolta negli Stati Uniti e in
molti altri paesi.
Peccato davvero che Fortis (Amsterdam: FORAL.AS - notizie)
non abbia letto le memorie di MARRINER.S.ECCLES governatore
della Federal Reserve tra il 1934 e il 1948 uomo che
condivise accanto a Franklin Delano Roosevelt gli anni della
Grande Depressione, quindi non un fonte qualsiasi........
Come la produzione di massa deve essere accompagnata da
consumi di massa, i consumi di massa a oro volta implicano
una distribuzione della ricchezza - non di ricchezza
esistente, ma di ricchezza prodotta attualmente per fornire
agli uomini il potere d'acquisto di importo pari a quello di
beni e servizi offerti dal circuito economico nazionale.
Invece di realizzare questo tipo di distribuzione, una pompa
di aspirazione gigante aveva attirato nel 1929-30 in poche
mani una crescente quota di ricchezza. Questo serviva come
accumulazione di capitale.(...) Abbiamo sostenuto livelli
elevati di occupazione in quel periodo con l'aiuto di un
eccezionale espansione del debito al di fuori del sistema
bancario. Questo debito è stato fornito da una grande
crescita del business di risparmio, nonché dal risparmio da
parte di privati, in particolare ad alto reddito, dove le
tasse sono relativamente basse.
E' importante esplorare ogni singola goccia degli oceani nei
quali si naviga, in maniera particolare quelli della Storia!
Prosegue Fortis:
Viceversa, come ha rilevato Nelson, la crisi del 1873
originò come quella di oggi dai problemi del settore
immobiliare in Europa centrale e in Francia e si trasferì
poi rapidamente al settore finanziario, propagandosi alla
Gran Bretagna e agli Stati Uniti con un crollo generalizzato
delle borse. Osserva Nelson che intorno al 1870 negli stati
dell'Europa continentale prese avvio un boom incontrollato
del settore delle costruzioni municipali e residenziali,
specialmente nelle capitali di Vienna, Parigi e Berlino,
favorito anche da una eccessiva fioritura di istituzioni
finanziarie specializzate nell'erogazione di mutui
immobiliari concessi con sempre maggiore facilità e senza
adeguate garanzie.
Che si tratti di yusen giapponesi o subprime americani,
mutui immobiliari concessi con sempre maggiore facilità e
senza adeguate garanzie, la storia è inesorabile, chi
dimentica il passato è destinato a riviverlo.
La vittoria militare sulla Francia nel 1871 e i relativi
incassi per le riparazioni di guerra generarono in Germania
un'euforia di investimenti in ferrovie, fabbriche, scali
portuali e navi che si aggiunsero agli investimenti nel
settore delle costruzioni. Quando la borsa di Vienna crollò
nel maggio 1873, generando un panico diffuso, le banche
inglesi ritirarono rapidamente i loro capitali dal
continente e il costo del credito interbancario in Europa
andò alle stelle, proprio come è avvenuto nell'odierna
crisi.
La crisi bancaria si propagò rapidamente anche agli Stati
Uniti colpendo in modo particolare il settore delle
ferrovie, che già da qualche tempo era in difficoltà poiché
non riusciva più a finanziarsi attraverso l'emissione di
obbligazioni, ma doveva ricorrere in misura crescente ai
prestiti a breve dalle banche. Il 18 settembre del 1873 la
Jay Cooke & Company, uno dei maggiori istituti del mondo
bancario americano pesantemente coinvolto nei collocamenti
obbligazionari della compagnia ferroviaria Northern Pacific
Railway, dichiarò bancarotta. Come la Lehman Brothers anche
la Jay Cooke era un istituto sistemico e gli effetti furono
disastrosi sull'intero sistema finanziario americano e
internazionale.
I prezzi a Wall Street precipitarono, scoppiò il panico e
invano il governo statunitense annunciò che avrebbe comprato
parecchi milioni di dollari di obbligazioni cercando di
iniettare liquidità e fiducia nel sistema. Il presidente
degli Stati Uniti Ulisse Grant, consultandosi con i più
autorevoli uomini d'affari dell'epoca come Cornelius
Vanderbilt e Henry Clews, cercò senza riuscire di arginare
la catastrofe. Sull'arco della crisi decine di membri dello
Stock Exchange e migliaia di compagnie mercantili fallirono.
Fu ripristinato il gold standard nel tentativo di
stabilizzare la moneta e di frenare l'inflazione e la
speculazione.
Le conseguenze della crisi finanziaria del 1873
sull'economia reale furono molto forti, specialmente nel
settore industriale e ferroviario. L'indice della produzione
manifatturiera americana ricostruito da Edwin Frickey
registra una caduta progressiva dal 1873 al 1876
analogamente a un indicatore "reale" particolarmente
sensibile come le consegne di ghisa ( si veda il primo
grafico qui a fianco). I tratti di nuove ferrovie
realizzati, dopo aver toccato un massimo di 7.439 miglia nel
1872, precipitarono a 1.606 miglia nel 1875. Secondo la
cronologia del Nber il ciclo negativo dell'economia
statunitense perdurò dall'ottobre del 1873 al marzo del
1879, per un totale di 65 mesi: la depressione più lunga
della storia americana assieme a quella del '29.
E oggi qualcuno mi vuole far credere che la svolta è dietro
l'angolo, che il fondo è stato solo un incidente di
percorso, che è stata una sorta di tempesta in un bicchier
d'acqua, che in fondo oggi è diverso. Dalla Depressione del
1873, passando per quella del '29, sino a giungere alla "Lost
Decade" giapponese, non c'è un periodo storico rivestito di
deflazione negativa o positiva che sia che non abbia
impiegato più di quindici anni per uscire dal gorgo e dal
mulinello in cui è precipitato.
La disoccupazione si impennò rapidamente toccando nella sola
città di New York il 25%. Gli scioperi e le manifestazioni
crebbero per numero e intensità assumendo dimensioni senza
precedenti, come in occasione della protesta del gennaio del
1874 al Tompkins Square Park in cui migliaia di disoccupati
furono violentemente dispersi dalla polizia. Nelson
sottolinea come gli operatori più colpiti furono le piccole
e medie imprese, proprio come sta avvenendo oggi, a causa
del credit crunch che anche allora fu fortissimo.
Ma la crisi produsse anche una generazione di vincenti, cioè
le compagnie, non solo finanziarie, che disponevano di
liquidità e che poterono consolidarsi e crescere comprando a
prezzi di saldo altre società concorrenti. Andrew Carnegie,
Cyrus McCormick e John D. Rockfeller ebbero abbastanza
capitali per finanziare la loro crescita tumultuosa. Fu
proprio in quell'epoca che i grandi gruppi industriali e
finanziari d'America cominciarono ad assumere dimensioni
tali da necessitare poi di essere contrastati e limitati
dalle successive legislazioni antitrust.
Oggi avviene la stessa cosa, la recente merger-mania, la
mania di nuove fusioni è uno dei sintomi, senza dimenticare
quel "too big to fail" che sta sequestrando la democrazia e
l'economia, istituti finanziari troppo grandi per fallire,
che secondo la mia modesta opinione dovrebbero essere
nazionalizzati in prima battuta e poi successivamente
smantellati, eliminando il rischio sistemico.
L'era aperta dalla crisi del 1873, secondo Nelson, portò
anche altre conseguenze, tra cui un aumento del
protezionismo commerciale a livello internazionale, una
diffusa insofferenza per i lavoratori immigrati che
minacciavano i posti di lavoro delle popolazioni autoctone e
anche il diffondersi di teorie "cospirative" nell'Europa
centrale come quella secondo la quale la crisi finanziaria
era stata provocata dagli ebrei e dalle banche straniere.
Gli anni della lunga depressione del 1873 segnarono anche il
passaggio del testimone della leadership economica del mondo
dall'Europa agli Stati Uniti, con l'emblematico sorpasso del
Pil statunitense, nonostante la recessione in corso, ai
danni di quello inglese (si veda l'altro grafico qui a
fianco).
Si chiede poi Nelson: forse la crisi globale odierna sarà
presto seguita da un nuovo cambio di leadership, quello tra
l'indebolita economia americana che, come una "cicala", ha
vissuto troppo a lungo al di sopra dei propri mezzi senza
più produrre beni reali e senza risparmiare, e l'emergente
potenza della Cina?
Questo evento potrebbe non essere lontano e, se la storia
non riserverà sorprese, potrebbe essere accelerato dalla
crisi economica globale che gli Stati Uniti stessi hanno
principalmente contribuito a generare.
Robert Reich la chiamata " Mini depressione ", uno che ha il
coraggio di chiamare le cose con il loro nome, chiamarla
depressione è un attentato alla realtà dei numeri economici,
nessun paragone con il passato è vero, ma alle volte le
differenze non tengono conto della realtà, talvolta
demografica, talvolta statistica.
Il dibattito sulle virgole continua inesorabile, i contenuti
invece sono sfumati.
Anche Barry Rutholz e Mike Shedlock ne parlano nei loro
DISCORSI Depression versus Recession, comunque sia, questa è
la storia, messaggi inequivocabili che gli uomini
dimenticano facilmente perche in fondo.....
come sempre nella storia, capacità finanziaria e perspicacia
politica sono inversamente proporzionali. La salvezza a
lunga scadenza non è mai stata apprezzata dagli uomini
d'affari se essa comporta adesso una perturbazione nel
normale andamento della vita e nel proprio utile. Cosi si
auspicherà l'inazione al presente anche se essa significa
gravi guai nel futuro. Questa è la minaccia per il
capitalismo (...) E' ciò che agli uomini che sanno che le
cose vanno molto male fa dire che la situazione è
fondamentalmente sana! JK GALBRAITH.>
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Fonte -
icebergfinanza.splinder.com |
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Martedì
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Martedì
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Venerdì
25 Settembre
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Grande
finanza e ricatti
16 Settembre 2009
23:59 MILANO - di Marcello De Cecco
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Il 15 settembre 2008, l’azione sconsiderata del
segretario del Tesoro Paulson e del presidente della Fed
Bernanke portò al fallimento della Lehman, che tutto il
mondo sapeva fosse in difficoltà ma della quale tutto il
mondo si aspettava il salvataggio. Per questa follia il
partito repubblicano ha pagato con la sconfitta elettorale.
Bernanke invece, per essere stato capace di correre ai
ripari, è stato premiato con il rinnovo del mandato. Ma
correre ai ripari ha significato raddoppiare il bilancio
della Fed acquisendo attivi di qualità scadente e ipotecando
la politica monetaria americana e il bilancio dello stato
per molti anni.
Il fallimento Lehman ha paralizzato l’economia mondiale. I
finanziamenti a breve alle imprese sono cessati di colpo, a
causa del crollo della fiducia nelle possibilità di
rientrare in possesso della liquidità erogata. Si è bloccato
in particolare il commercio internazionale, che è
impossibile senza l’appoggio delle banche. Le imprese hanno
velocemente esaurito il capitale circolante. Quella che era
apparsa fino ad allora solo una devastante crisi finanziaria
si è trasformata per l’insipienza di pochi uomini in un
disastro economico mondiale.
Dal disastro, sempre per scelta di pochi uomini, si è
riusciti a far emergere con misure di inaudita gravità le
istituzioni finanziarie. Ma lo si è fatto confermando la
legittimità del loro operato, e mettendole in condizioni di
continuare per la stessa strada. Peggio sono andate le cose
per le imprese industriali e commerciali, che sono state,
specie quelle minori, abbandonate al loro destino, e il
risultato si è visto rapidamente, in termini di un crollo
del commercio internazionale senza precedenti e un aumento
gigantesco della disoccupazione, in tutti i paesi.
Per il rifiorire, artificialmente provocato, dei bilanci
delle istituzioni finanziarie, alle quali è stato
scandalosamente permesso persino di mostrare utili e di
distribuire dividendi e prebende ai manager, si è messa
all’ordine del giorno mondiale la cosiddetta exit strategy,
un piano di uscita dall’emergenza e di risanamento dei
bilanci pubblici, sui quali si è abbattuto il peso del
risanamento della finanza privata e del crollo delle entrate
tributarie indotto dalla crisi economica.
Si tratta per ora di un argomentare furbesco, perché mentre
si fanno piani di uscita dall’emergenza, il G20 riassicura
gli operatori economici che non si ha nessuna intenzione di
stringere i freni del credito né nell’immediato né nel
futuro prossimo. Il governo tedesco, mentre deplora la
dissolutezza finanziaria angloamericana, mantiene la barra
in direzione della generosità monetaria e fiscale, in una
situazione di bilancio federale che farebbe rizzare i
capelli in capo a intere generazioni di ministri del tesoro
tedeschi: stando a una stima della commissione Ue, il debito
pubblico di Berlino nel giro di un decennio salirà 200% del
Pil se non cambierà l’attuale politica economica.
L’allagamento dell’economia mondiale con fiumi di liquidità
immessi dalle banche centrali non accenna quindi a
diminuire, perché le stesse banche sanno bene che se
accennassero a stringere i freni, crollerebbe in pochissimo
tempo l’intera sovrastruttura finanziaria, causando
ulteriori disastri all’economia reale.
D’altronde, nelle condizioni di eccesso di offerta che si
registra sui mercati delle merci non ci sono pericoli di
inflazione. L’eccesso di capacità produttiva è peggiorato
dalle manovre di stimolo del governo cinese, i cui programmi
di opere pubbliche solo indirettamente beneficiano i consumi
interni, mentre l’ordine alle banche di continuare a
prestare impedisce la razionalizzazione produttiva in nome
del mantenimento dell’ordine sociale e alimenta una bolla
speculativa sui mercati. La politica monetaria e di bilancio
americana, imitata negli altri paesi, è riuscita a ottenere
un risultato essenziale, la risalita della Borsa dal
precipizio in cui era caduta nel 2008.
Questo vuol dire che, per ora, il sistema delle pensioni di
quell’enorme paese, basato sugli investimenti in azioni, è
fuori pericolo. Ma vuol dire che di exit strategy si potrà
solo parlare senza effettuarla perché se la Borsa si
accorgesse che le autorità stanno per ridurre l’espansione
monetaria, le azioni crollerebbero di nuovo.
Il ricatto della grande finanza al presidente della Fed e al
presidente degli Stati Uniti, continua indisturbato da
qualsiasi tentativo di riforma volto a spezzare il cerchio
di ferro che stringe le azioni di politica economica e le
riduce a fomentare una continua espansione. Suonano
divertenti le dichiarazioni del prof. Mishkin, ex presidente
della Fed di New York, secondo il quale una politica di
restrizione creditizia deve essere decisa e improvvisa, tale
da sorprendere i mercati. Quando propone di attuarla, questa
politica, l’illustre professore? Tra quanti anni o tra
quanti decenni?
Se il cerchio finanziario non si spezza, se il peso della
finanza sull’economia non si riduce, come è giunto ora ad
auspicare Lord Turner, capo dell’autorità di vigilanza
inglese, non c’è possibilità di tornare a un equilibrio
duraturo. Non ci sembra che di tale necessità sia convinta
la dirigenza americana. Messa in salvo la finanza col denaro
pubblico, l’urgenza delle riforme della struttura
finanziaria appare tramontata ai loro occhi. Non sono
sufficienti a indicare una svolta le recenti dichiarazioni
di Geithner, secondo cui le autorità devono cancellare la
propria orma dal sistema finanziario cominciando col ritiro
della garanzia statale sui cruciali "money market mutual
funds".
Le banche contano i loro profitti, per loro reali ma
ottenuti con la restrizione della concorrenza,
l’allentamento delle norme di contabilità, le garanzie
statali e gli aiuti della Fed. Esse si permettono di
guardare con occhio critico all’industria, la cui rovina
hanno indotto. Obama ha voltato pagina e si dedica alla
sanità: solo un nuovo disastro finanziario potrà fargli
cambiare agenda.
Tradizionalmente l’autunno è un periodo in cui nel nostro
emisfero cadono non solo le foglie, ma anche le banche. Ma
se si verifica un simile evento, è poco probabile che
Bernanke, Obama e Geithner sfuggano all’imperativo di
salvare i mercati con un nuovo diluvio di liquidità.
Continuerà il ricatto che dal 1987 la finanza americana
esprime nei confronti dei gestori della politica monetaria
ogni volta che si manifestano difficoltà. La vera exit
strategy sarebbe una decisa politica di graduale diminuzione
del peso della finanza sugli altri settori dell’economia.
Negli ultimi anni, il settore finanziario americano ha
generato l’8% del Pil assicurandosi il 40% dei profitti. Con
la ripresa dei mercati e il miglioramento assistito della
salute delle istituzioni che in essi operano, sembra che da
tale malsana e insostenibile situazione non si voglia
recedere con riforme altrettanto radicali di quelle che
Roosevelt adottò negli anni 30.
Le residue banche d’investimento, in particolare la
leggendaria Goldman Sachs, si giovano della diminuita
concorrenza per caricare di maggiori costi i servizi,
esplicando allo stesso tempo grazie ai capitali ricevuti
dalle autorità una attività di "proprietary trading" che
pare vada benissimo e renda moltissimo. Tanto da far
circolare la voce secondo cui la Goldman sarebbe tentata di
restituire la licenza bancaria che le è stata imposta per
poterle somministrare gli aiuti nell’ora della crisi ma che
la assoggetta alla vigilanza da parte della Fed, al posto di
quella della assai più mite Sec. Se ciò accadesse, sarebbe
evidente anche ai più restii che la dirigenza americana non
vuole vere riforme e che il peso della finanza sull’economia
è destinato a perpetuarsi, con il rischio di nuove bolle
speculative e nuove crisi, a breve.
 |
Fonte -
La Repubblica |
DAL CASO SUBPRIME AD
OGGI: LE TAPPE DELLA CRISI
16 Settembre 2009 23:31 NEW YORK -
APCOM ______________________________________________
A un anno dal fallimento di
Lehman Brothers, ecco gli eventi fondamentali della crisi
peggiore dagli anni Trenta e che, secondo il governo Usa e
gli analisti, appare sulla via della conclusione.
A un anno dal fallimento di Lehman Brothers, nel fine
settimana che ha cambiato il volto di Wall Street e della
finanza americana, ecco le tappe fondamentali della crisi
peggiore dagli anni Trenta e che, secondo il governo Usa e
gli analisti, appare sulla via della conclusione.
Inizio 2007:
nel 2006 il boom dei prezzi delle case cambia corso, tra il
quarto trimestre 2005 e il primo trimestre 2006, il prezzo
mediano delle case cala del 3,3%. Il declino accelerò nel 2007,
finendo per far collassare il mercato dei mutui subprime
(erogati a clienti con basso merito creditizio). Oltre 25
società finiscono in bancarotta tra febbraio e marzo 2007. Anche
il Dow Jones accusa il colpo e il 27 febbraio brucia 416 punti,
il 3,3%, il calo peggiore in termini di punti dall’11 settembre
2001.
6 marzo 2007: durante una
conferenza a Honolulu, alle Hawaii, il presidente della Federal
Reserve Ben Bernake, citando il suo predecessore Alan Greenspan,
mette in guardia sul fatto che i colossi americano del
rifinanziamento dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac rappresentano
"una fonte potenziale di rischio sistemico".
8 marzo 2007: la Banca Centrale
Europea alza i tassi di interesse di 25 punti base al 3,75 per
cento.
2 aprile 2007: New Century
Financial Corporation, maggiore società americana erogatrice di
mutui subrime, cade in amministrazione controllata. Gli analisti
cominciano a temere che la crisi dei mutui finisca per intaccare
l’intero settore finanziario.
6 giugno 2007: la Banca Centrale
Europea alza i tassi di interesse di 25 punti base al 4 per
cento. 19 luglio 2007: a Wall Street il listino Dow Jones chiude
sopra i 14.000 punti per la prima volta nella storia.
31 luglio 2007: Bear Stearns, una
delle principale banche di investimenti americane, annuncia che
due dei suoi hedge fund hanno bruciato quasi tutto il capitale,
finendo per avviare le pratiche fallimentari. La banca aveva in
precedenza cercato di salvarli, ma le perdite riportate avevano
reso inutili gli sforzi.
Agosto 2007: I problemi del mercato
subrime cominciano ad allargarsi a livello globale, mentre hedge
fund e banche internazionali rendono noto di avere in
portafoglio attività collegate a obbligazioni garantite da
mutui. La francese Bnp Paribas comunica che gli asset detenuti
da tre dei suoi fondi d’investimento specializzati in asset
backed securities sono stati congelati a causa delle condizioni
di liquidità sul mercato. I fondi saranno riammessi alle
negoziazioni tre settimane dopo. Altre banche europee fanno
annunci simili e la Banca Centrale Europea offre linee di
credito per aiutarle. Federal Reserve, Bce e le banche centrali
di Giappone, Australia e Canada immettono liquidità nel sistema
in modo coordinato.
15 agosto 2007: il titolo di
Countrywide Financial, colosso americano dei mutui, cede il 13%
sul New York Stock Exchange dopo avere annunciato che il numero
di mancati rimborsi dei prestiti è salito al livello massimo
dall’inizio del 2002. Il giorno dopo la società evita per un
soffio l’amministrazione controllata, dopo avere ricevuto
prestiti di emergenza per 11 miliardi di dollari da un gruppo di
banche.
13 settembre 2007: La britannica
Northern Rock chiede prestiti di emergenza alla Banca
d’Inghilterra. Nel febbraio 2008 la banca finisce sotto il
controllo statale.
18 settembre 2007: La Fed opera il
primo di una serie di tagli dei tassi di interesse, abbassando
il tasso sui fed funds dal 6,25 al 5,75 per cento. Da qui al
novembre 2008, la Banca Centrale americana riduce i tassi all’1
per cento, per poi portarli, nel dicembre 2008, a un range tra
lo 0 e lo 0,25 per cento, dove si trovano ancora.
9 ottobre 2007: Il Dow Jones arriva
al record storico di 14.164 punti. Poi comincia il calo che
porterà l’indice poco sopra i 6.500 punti nel febbraio 2009.
10-17 ottobre 2007: L’allora
segretario al Tesoro Henry Paulson e il segretario per lo
sviluppo immobiliare e urbano Alphonso Jackson presentano il
piano "Hope Now Alliance", il primo di una serie di programmi
volti a rilanciare il mercato dei mutui subprime e che mira a
scongelare i tassi di interesse applicati ad alcuni prestiti.
Pochi giorni dopo arriva il "Super-Siv Plan": un consorzio di
banche con alle spalle il Governo annuncia un piano per comprare
structured investment vehichle (veicoli finanziari strutturati)
per 100 miliardi di dollari.
14-16 marzo 2008: Bear Stearns
annuncia di avere problemi di liquidità e riceve un prestito di
emergenza con scadenza a 28 giorni dalla Fed di New York. Gli
investitori temono che il collasso della banca metta a rischio
il sistema. Due giorni dopo JpMorgan Chase rileva Bear Stearns
per 2 dollari per azione (il prezzo sale poi a 10 dollari), ma
il titolo, fino a due mesi prima, era scambiato a 172 dollari
per azione.
31 marzo 2008: Paulson propone un
piano di soccorso per il sistema finanziario americano, che
ipotizza maggiori poteri per la Fed e la fusione di due delle
maggiori autorità di regolamentazione, ovvero la Securities and
Exchange Commission (la Consob americana) e la Commodity Futures
Trading Commission.
Luglio 2008: Dopo il collasso di
IndyMac, banca commerciale di Pasadena (11 luglio), cominciano a
emergere anche i problemi di Fannie Mae e Freddie Mac, le
agenzie semigovernative di rifinanziamento dei mutui. Paulson
prende in considerazione massicci interventi federali per
stabilizzare le istituzioni finanziarie "too big to fail",
troppo grandi per fallire. Il 30 luglio il presidente degli
Stati Uniti George W. Bush firma l’Housing and Economic Recovery
Act, che autorizza la Federal Housing Administration a garantire
fino a 300 miliardi di dollari di nuovi mutui trentennali a
tasso fisso.
3 luglio 2008: la Banca Centrale
Europea alza i tassi di interesse di 25 punti base al 4,25 per
cento.
7 settembre 2008: Il Governo assume
il controllo di Fannie Mae e Freddie Mac, in quello che è
considerato il maggiore intervento di Washington nella crisi del
credito fino a quel momento.
Settembre 2008: Wall Street cambia
volto. Bank of America annuncia l’acquisto di Merrill Lynch per
50 miliardi di dollari. Lehman Brothers non riesce a trovare un
acquirente e avvia le pratiche fallimentari, in quello che è il
maggiore collasso bancario della storia americana. Le agenzie di
rating tagliano le valutazioni del colosso assicurativo American
International Group e il 17 settembre la Fed eroga prestiti di
emergenza per 85 miliardi di dollari per salvarlo.
19 settembre 2008: Paulson presenta
il Troubled Assets Relief Program (Tarp), piano da 700 miliardi
di dollari per stabilizzare i mercati. La versione originaria
del programma prevede l’acquisto di asset tossici, la loro
rivalutazione e quindi la vendita per ristabilire la fiducia. Il
12 novembre, Paulson abbandona l’idea dell’acquisto di asset per
usare i fondi per ricapitalizzare le società finanziarie. Camera
e Senato approvano il piano a inizio ottobre.
21 settembre 2008: Le due maggiori
banche di investimenti americane, Goldman Sachs e Morgan
Stanley, cambiano il proprio assetto in holding bancarie, un
fatto che le sottopone a maggiore regolamentazione federale ma
dà maggiore accesso ai prestiti straordinari della Fed.
25-29 settembre 2008: Washington
Mutual finisce sotto il controllo della Federal Deposit
Insurance Corporation (Fdic, l’agenzia federale che garantisce i
depositi federali) e dichiara bancarotta. JpMorgan rileva gli
asset della banca. Il 29 settembre, Wachovia avvia trattative
con Citigroup ma finisce per essere acquistata, all’inizio di
ottobre, da Wells Fargo.
6-11 ottobre 2008: Il 6 ottobre la
Fed mette a disposizione delle banche prestiti a breve termine
per 900 miliardi di dollari. Il giorno successivo annuncia un
piano per prestare circa 1.300 miliardi di dollari a società
esterne al settore finanziario. Il 10 ottobre il Dow Jones
termina la settimana peggiore della sua storia, bruciando il
22,1 per cento. L’11 ottobre i leader del G7, riuniti a
Washington, si trovano d’accordo sulla necessità di una risposta
globale alla crisi, ma non decidono un piano concreto. Lo stesso
concetto è ribadito il 14 novembre al Finance Summit di
Washington, considerato una seconda Bretton Woods, dove si
sottolinea la necessità di non cedere a tentazioni
protezionistiche.
8 ottobre 2008: la Banca Centrale
Europea abbassa i tassi di interesse di 50 punti base al 3,75
per cento, quindi di nuovo il 6 novembre di altri 50 punti base
al 3,25 per cento.
7 novembre 2008: Il dipartimento
del Lavoro americano annuncia la perdita di 240.000 posti di
lavoro in ottobre, il primo di una serie di analoghi cali che si
protraggono nel 2009. A marzo 2009 il tasso di disoccupazione
arriva all’8,5 per cento, il livello massimo in 25 anni, e i
posti di lavoro andati in fumo dall’inizio della crisi sono
circa 6 milioni. 4 dicembre 2008: la Banca Centrale Europea
abbassa i tassi di interesse di 75 punti base al 2,50 per cento,
quindi di ulteriori 50 punti base al 2 per cento il 15 gennaio
2009.
20 gennaio 2009: Barack Obama si
insedia alla Casa Bianca come 44esimo presidente americano.
Promette di fare della soluzione della crisi economica una
priorità del suo Governo. Sceglie la squadra economica e
istituisce nuove commissioni ad hoc per gestire una situazione
senza precedenti.
17 febbraio 2009: Obama firma in
legge un pacchetto di stimoli da 787 miliardi di dollari. Il
provvedimento è a sostegno dei settori vitali dell’economia
americana, compresi quello energetico e sanitario.
25 febbraio 2009: Il segretario al
Tesoro Timothy Geithner annuncia di volere sottoporre le 19
principali banche americane a uno "stress test" per determinarne
lo stato di salute e la resistenza a un eventuale perdurare
della crisi. La decisione è presa nell’ambito del "Financial
Stability Plan", una parte del quale è rappresentata dal "Public-Private
Investment Program" e dal "Term Asset-Backed Securities Lending
Facility" (Talf, volto a scongelare il credito al consumo e a
favorire le piccole aziende).
5 marzo 2009: la Banca Centrale
Europea abbassa i tassi di interesse di 50 punti base all’1,50
per cento e quindi nuovamente il 2 aprile di altri 25 punti base
all’1,25 per cento. 2 aprile 2009: Il G20, riunito a Londra,
decide di triplicare i finanziamenti al Fondo Monetario
Internazionale, portandoli a 1.100 miliardi di dollari. Su
richiesta di Francia e Germania, i leader delle venti nazioni
più industrializzate e in via di sviluppo annunciano
l’intenzione di bloccare i paradisi fiscali e migliorare la
regolamentazione internazionale sui flussi finanziari.
3-6 aprile 2009: il dipartimento
del Tesoro americano acquista un totale di 54,8 milioni di
dollari in azioni privilegiate di dieci banche americane
nell’ambito del Capital Purchase Program (altre operazioni
analoghe seguiranno nei mesi successivi). La Fed annuncia un
accordo per lo scambio di valuta (swap line) con la Banca di
Inghilterra, la Banca Centrale Europea, la Banca del Giappone e
la Banca Nazionale Svizzera per aiutare l’istituto di Washington
a garantire liquidità alle istituzioni finanziarie americane.
7 maggio 2009: la Banca Centrale
Europea abbassa i tassi di interesse di 28 punti base all’1 per
cento. 7-12 maggio 2009: la Fed pubblica i risultati degli
stress test. Nove delle 19 banche analizzate hanno un adeguato
livello di capitale, mentre le altre dovranno reperire nuova
liquidità per un totale di 185 miliardi di dollari. Fannie Mae e
Freddie Mac annunciano di avere riportato nel primo trimestre
2009 perdite rispettivamente per 23,2 e 9,9 miliardi di dollari.
20 maggio 2009: il presidente degli Stati Uniti Barack Obama
firma l’Helping Families Save Their Homes Act, che autorizza
temporaneamente (fino all’1 gennaio 2014) la Fdic ad alzare le
assicurazioni sui depositi da 100.000 a 250.000 dollari.
Giugno 2009: General Motors,
nell’ambito di un accordo di ristrutturazione con il
dipartimento del Tesoro americano e i Governi di Canada e
Ontario, fa ricorso all’amministrazione controllata. Il 24
giugno, la Securities and Exchange Commission propone
emendamenti volti a rafforzare la regolamentazione dei mercati e
la Fed annuncia l’estensione o la modifica di vari dei propri
programmi per garantire liquidità.
Luglio 2009: nel corso della
testimonianza semestrale al Congresso, il presidente della
Federal Reserve Ben Bernanke spiega che la crisi si va
attenuando, sottolineando che "gli investitori stanno tornando
ai mercati del credito". Nel corso del mese, altri indicatori
macroeconomici lasciano pensare che la recessione iniziata nel
dicembre 2007 comincia ad avviarsi a conclusione.
Agosto-settembre 2009: dal fronte
macroeconomico arrivano ulteriori segnali di stabilizzazione, ma
il tallone d’Achille del sistema americano continua a essere il
mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione, dopo essere
calato al 9,4 per cento, è tornato in agosto al 9,6 per cento,
il massimo in 26 anni.
Fonte
- APCOM
Un anno dopo Lehman:
ora c'è il rischio carte di credito
16 Settembre 2009 23:59 MILANO -
di Luigi dell'Olio ______________________________________________
Esattamente un anno dopo il
fallimento di Lehamn Brothers, un nuovo spettro agita
economisti e consumatori: le crescenti difficoltà dei
titolari di carta di credito. A lanciare l’allarme nei
giorni scorsi è stato il presidente di Deutsche Bank, Joseph
Ackermann: “tra coloro che hanno carte revolving ci sono
crescenti problemi a rimborsare i crediti ricevuti”.
La situazione
Il fallimento di Lehman Brothers rappresenta uno spartiacque
nella crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo:
quando - il 15 settembre 2008 - la banca americana ha
dichiarato fallimento, sui mercati si è prodotto un clima di
pessimismo che ha coinvolto tutti i settori e gli strumenti
di investimento. Il timore è che una situazione simile possa
produrre ora, ma con effetti più gravi, visto che i singoli
consumatori non hanno certo le spalle larghe come una banca
d’affari.Il mondo delle carte di pagamento è in continua
espansione. Le più diffuse sono le carte di credito
tradizionali (dette ‘charge’) e l’Italia ne conta ben 27
milioni, di cui quelle attive però sono poco più di 14
milioni. La carta è uno strumento comodo che evita il
fastidio di dover portare con sé troppi soldi in contanti, e
sicuro, a patto però di osservare alcune semplici regole di
comportamento.
Revolving e tradizionale
Rispetto ad una carta di credito tradizionale, la revolving
si distingue perché il pagamento del bene acquistato non
avviene subito , ma in un periodo più lungo, concordato nel
contratto stipulato. In cambio di questa facilitazione, il
consumatore deve pagare un tasso di interesse, che può
arrivare a toccare anche il 17-20% annuo. In sostanza,
quindi, la revolving contiene in sé anche un finanziamento
personale. In altre parole, questa carta offre la
possibilità di spendere del denaro indipendentemente dai
fondi disponibili sul conto corrente e di ripagare
ratealmente il proprio debito. Ecco perché, quando si
sottoscrive l’acquisto di una carta di credito revolving,
bisognerebbe valutare con attenzione il costo effettivo
legato al possesso e all’utilizzo dei servizi offerti.
Risulta però piuttosto difficile capire quanto costa
realmente, in quanto le voci di spesa sono numerose (per
interessi, spese annuali, spese di incasso rata) e non
facilmente sommabili.
Attenzione a costi e interessi
Le carte revolving sono quindi carte di credito particolari,
che consentono di pagare le spese rateizzando gli estratti
conti. Queste rate di pagamento servono a ricostruire il
fido, che così è pronto per un nuovo utilizzo. Ogni mese al
titolare viene inviato l'estratto conto, che riepiloga le
spese fatte con la carta, l'utilizzo del credito, la rata
addebitata e il fido di nuovo disponibile. Ognuno di questi
estratti conto ha in media un costo di invio di 1,23 euro;
per quelli superiori a 77,47 euro è prevista anche
un'imposta di bollo di 1,81 euro. Le carte revolving vengono
promosse dalle banche e dalle finanziarie, perché sono più
redditizie delle carte di credito tradizionali: rateizzare
gli addebiti aumenta infatti gli interessi che finiscono
nelle casse degli intermediari. Secondo le ultime
rilevazioni della Banca d'Italia, il tasso medio di
interesse delle carte revolving per un credito fino a 1.500
euro è del 16,71%, quindi decisamente elevato. Ma ci sono
operatori che si spingono anche oltre.
Carta revolving: non è un acquisto a
rate!
Molti consumatori considerano la carta revolving come
un’evoluzione dell’acquisto a rate. In realtà la differenza
è enorme: la prima, infatti, non riguarda il singolo bene,
ma tutti quelli acquistati. Quindi le spese e gli interessi
si cumulano nel tempo via via che si spende. A maggior
ragione, occorre usare molta prudenza e appuntare tutte le
spese che si fanno, per non correre il rischio di fare il
passo più lungo della gamba.
Fonte
- MIAECONOMIA
Giappone, sarà
vera svolta?
September 16th, 2009 -
Mario Seminerio ______________________________________________
Con l’eccezione di un breve
periodo di opposizione, nel 1990, il Partito Liberal
Democratico (LDP) ha governato il Giappone negli ultimi 50
anni. Ora il Partito Democratico del Giappone (DPJ) ha
ottenuto, il 30 agosto, una vittoria schiacciante nelle
elezioni per il parlamento giapponese, ed oggi il parlamento
ha eletto nuovo premier Yukio Hatoyama. Se un tale
sconvolgimento politico si fosse verificato in qualunque
altro paese, avrebbe attirato enorme interesse, sia in
patria e all’estero. Invece, la reazione dei mercati
finanziari giapponesi a questo storico cambiamento è stata
pressoché nulla.
I politici giapponesi vanno e vengono, ma il loro impatto
sul mercato tende ad essere molto limitato. Questo perché,
da sempre, il potere è in mano ai burocrati. Ed è per questo
che sia gli investitori nazionali che gli stranieri hanno
finora largamente ignorato l’elezione. Vi è stato un certo
interesse speculativo su singoli settori ed imprese che
saranno probabilmente beneficiate dal nuovo governo, come
l’assistenza all’infanzia e l’ambiente ma, in generale, le
aspettative per il nuovo governo non sembrano elevate.
Un Giappone più consumatore e meno
esportatore
Eppure, il manifesto del DPJ contiene alcune idee
potenzialmente rivoluzionarie per la società giapponese,
quali aumento del reddito disponibile per le famiglie,
gratuità dell’istruzione superiore, abolizione dei pedaggi
autostradali, eliminazione delle addizionali sulle aliquote
d’imposta sui redditi. Misure che potrebbero trasformare
quella giapponese in un’economia centrata sulla domanda
interna, rispetto ad un modello in essere dal Dopoguerra che
è invece centrato sulle esportazioni. Ma resta l’incognita
di come finanziare le riforme: il pacchetto di tagli fiscali
e nuove prestazioni è stimato ammontare a oltre il 3% del
PIL, il DPJ sostiene che si può finanziare con tagli agli
sprechi, oltre che con l’utilizzo del “tesoro nascosto”, un
fondo di riserva istituito in molte parti del bilancio
statale, stimato in 4000 miliardi di yen. Resta da capire
quanto realistico è questo obiettivo.
Nel 2005, quando Koizumi è salito al potere, gli investitori
stranieri hanno espresso forte interesse per il potenziale
di cambiamento in Giappone. Questa volta le aspettative sono
molto minori e gli investitori stranieri rimangono
scarsamente investiti, preferendo concentrarsi in settori
come auto e tecnologia. Tuttavia, se il DPJ avrà successo
nell’attuazione del proprio programma-manifesto, i settori
nazionali quali il retail saranno i principali beneficiari.
Recenti indagini indicano che gli investitori stranieri
rimangono molto sottopeso proprio in tali settori.
L’agenda di un partito-enigma
Il DPJ è un partito difficilmente classificabile, sul piano
ideologico: appare come una sorta di raccoglitore di
fuoriusciti del partito Liberal Democratico impegnati a
perseguire una propria agenda politica di dissenso, ed ha
inoltre accolto numerosi esponenti della sinistra. Il
rischio di produrre politiche incoerenti e di avere come
proprio collante unicamente il populismo è quindi elevato,
senza contare che il programma potrebbe essere frustrato
dalla problematica condizione fiscale del paese.
Vi è poi un potenziale rischio per i vincitori: l’ex
presidente del partito, Ichiro Ozawa, è stato costretto a
rassegnare le dimissioni all’inizio di quest’anno a seguito
di uno scandalo politico relativo a donazioni. Ci sono voci
che il suo successore e futuro primo ministro, Yukio
Hatoyama, potrebbe a sua volta essere implicato in uno
scandalo relativo a finanziamenti al partito. Se l’LDP
decidesse di spingere questo tema dall’opposizione e
Hatoyama fosse costretto a dimettersi da primo ministro,
gran parte del impulso positivo del DPJ potrebbe essere
vanificato.
Per attuare la propria agenda, il DPJ dovrà smantellare
quello che è stato chiamato “il triangolo di ferro”,
composto dal partito Liberal Democratico, dai grandi
burocrati pubblici e dalle grandi imprese, e che è stato al
centro del modello economico giapponese del Dopoguerra,
fatto di esportazioni e di grandi imprese conglomerate. Il
DPJ punta a creare un modello basato sui consumi delle
famiglie, e necessita quindi di smantellare questa rete di
rapporti privilegiati. Per ottenere ciò, cambierà il
decentramento fiscale: i governi locali otterranno fondi che
potranno essere spesi secondo le loro priorità e preferenze,
mentre oggi la destinazione è decisa dai ministri e dai
burocrati ministeriali attraverso le prefetture, che erogano
materialmente gli importi. Anche il processo legislativo,
oggi in capo ai burocrati ministeriali che redigono le leggi
inviandole in seguito al parlamento senza praticamente alcun
controllo del governo, verrà riformato.
La riforma del processo di allocazione delle risorse colpirà
soprattutto il settore dei lavori pubblici, controllato
dalla burocrazia statale, oltre ai trattamenti fiscali
preferenziali per alcuni settori. Da queste revisioni di
spesa, oltre che dal già citato “tesoro occulto”, dovrebbe
prodursi il finanziamento delle misure volte ad aumentare il
reddito personale disponibile. Tra tali misure figura un
assegno familiare equivalente a 3300 dollari annui per ogni
figlio, maggiori sussidi agli agricoltori e maggiori
benefici di welfare, soprattutto ad uso degli anziani, una
coorte di cittadini-elettori in forte ampliamento in
Giappone, una delle società a maggiore invecchiamento. Per i
pensionati sono previsti l’innalzamento del reddito minimo e
l’eliminazione dei contributi sanitari. Per il mercato del
lavoro sono previste misure a favore dei precari, un gruppo
la cui consistenza è in forte aumento.
Più in generale, la retorica del futuro primo ministro Yukio
Hatoyama, è di tipo populista e pro-regolamentazione, ed
esprime critiche al sistema del libero mercato (che il
Giappone tuttavia non ha mai realmente conosciuto), con
grande tempismo rispetto alla delicata fase economica che
stiamo vivendo, in cui gli elettori esprimono soprattutto un
bisogno di protezione. Tuttavia, a giudizio degli
economisti, per risolvere i propri problemi strutturali al
Giappone serve meno e non più regolamentazione, anche se la
maggiore sicurezza che le politiche promesse potranno dare
(soprattutto sul mercato del lavoro) servirà a sostenere i
consumi, che rappresentano oltre metà del Pil.
Problemi strutturali
Nell’anno fiscale 2010, che va da aprile a marzo dell’anno
successivo, le proposte di spesa sociale del DPJ costeranno
circa 7000 miliardi di yen, e questa cifra è destinata a
subire un forte incremento negli anni successivi. Il partito
di maggioranza ha promesso di non alzare le tasse sui
consumi per i prossimi anni. Ciò pone l’agenda del DPJ in
rotta di collisione con la dura realtà della posizione
fiscale giapponese. Il debito pubblico salirà nel 2009 al
191 per cento del Pil, di gran lunga il peggiore del mondo
sviluppato. Ulteriore stimolo pubblico, combinato con un
calo delle entrate fiscali, rinvierà di molti anni
l’appuntamento con il pareggio del saldo primario del
bilancio pubblico (cioè al netto della spesa per interessi).
I problemi economici strutturali del Giappone sono così
radicati che è lungi dall’essere chiaro se e in che modo il
recente esito elettorale, per quanto “storico” in termini
politici, riuscirà a mutare le prospettive di lungo termine
dell’economia. Il consumatore giapponese, che non ha il peso
del debito del suo omologo statunitense, è comunque molto
debole: il tasso di risparmio è in costante diminuzione, ed
è passato dal 15 per cento del reddito disponibile nel 1991
al 3 per cento del 2008, ponendo anche rischi per la
sostenibilità dell’enorme stock di debito pubblico. Ma
soprattutto il Giappone è tornato in deflazione. A luglio
(ultimo dato disponibile), l’inflazione tendenziale
complessiva era a meno 2,2 per cento annuale. Parte di
questo movimento è dovuto al venir meno dello shock dello
scorso anno nel prezzo delle materie prime. La recente
ripresa dei prezzi dell’energia indica che probabilmente
l’inflazione complessiva ha toccato un minimo ciclico. Ma il
passo del declino nei prezzi core (al netto di alimentari ed
energia) ha accelerato. L’enorme eccesso di capacità sia nel
mercato del lavoro che in quello dei prodotti indica che è
probabile che l’andamento dell’inflazione core proseguirà al
ribasso. Gli analisti stimano che l’output gap, la
differenza tra il Pil potenziale e quello corrente, sia
intorno al 7 per cento, livello mai raggiunto nemmeno nel
cosiddetto “decennio perduto”, negli anni Novanta.
Fonte
-
Epistemes.org
RUMOR: RIBALTONE
ALLA BANCA DEL VATICANO (IOR)?
18 Settembre 2009 16:34 CITTA'
DEL VATICANO -
di APCOM ______________________________________________
La Santa Sede non conferma una
riunione presieduta dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone.
L'Istituto per le Opere di Religione è stato implicato in
trame oscure e tangenti (Enimont) dai tempi di Marcinkus,
Calvi, De Bonis. Lascia il presidente Caloia?
Si infittiscono le voci di un imminente cambio alla
presidenza dello Ior, la Banca vaticana, guidata attualmente
dal professor Angelo Caloia. E si parla con insistenza anche
di una riunione del Consiglio direttivo dello Ior,
presieduto dal cardinale Tarcisio Bertone, questa mattina
nella sede della Banca vaticana al Torrione di Niccolò V,
anche se ufficialmente la riunione non è stata confermata
dal Vaticano.
L'Istituto per le Opere di Religione (Ior) è finito
nell'occhio del ciclone con la pubblicazione del volume
'Vaticano s.p.A', in cui l'autore Gianluigi Nuzzi denuncia
gli affari oscuri o poco chiari delle finanze vaticane,
soprattutto nel periodo gestito dal 'banchiere di Dio',
monsignor Paul Marcinkus e dal suo numero due, Donato De
Bonis, ma anche quello dell'attuale presidente Caloia.
Proprio per questo è partita l''operazione trasparenza' che
dovrebbe portare al rinnovo del vertice dello Ior.
Il primo ottobre ci sarà un summit di esperti della finanza
bianca su iniziativa della fondazione 'Centesimus annus' per
discutere anche del rinnovo dei vertici laici dello Ior. Il
mandato del banchiere lombardo Caloia scade nel marzo 2011,
ma in molti parlano di una sua uscita imminente. Il nuovo
presidente sarà selezionato in una rosa di nomi e tra i
favoriti c'è Ettore Gotti Tedeschi, rappresentante in Italia
del Banco Santander Central Hispano, ma soprattutto
editorialista dell''Osservatore Romano', vicino al
segretario di Stato vaticano. Sembra invece oramai
improbabile la nomina di Antonio Fazio, ex governatore della
Banca d'Italia, sponsorizzato dal cardinale Giovanni
Battista Re, oggi rinviato a giudizio per il caso Unipol.
Il professor Caloia è da 20 anni alla guida dello Ior ed è
stato chiamato dal cardinale Casaroli per mettere la parola
fine allo 'scandalo' dell'ex Banco Ambrosiano che coinvolse
Marcinkus e Roberto Calvi. Ma come viene nominato il
presidente dello Ior? Una commissione di super consulenti
esterni dovrebbe proporre una rosa di nomi, ma la nomina
spetterebbe al cardinale Bertone, anche se l'ultima parola
resta sempre al Papa.
________________________________________________
di Orazio La Rocca - La
Repubblica
Scatta oggi allo Ior, l´Istituto opere di religione,
l´«operazione trasparenza» voluta da papa Ratzinger e dal
suo braccio destro, il cardinale segretario di Stato
Tarcisio Bertone. E per i vertici della banca vaticana spira
aria di ribaltone. A partire dal presidente Angelo Caloia,
che potrebbe essere sostituito con circa due anni di
anticipo rispetto alla scadenza del mandato, fissata per
contratto al 14 marzo 2011.
Il professor Caloia è da 20 anni al comando della struttura
operativa dello Ior, il Consiglio di Sovrintendenza, col
«grado» di presidente. Incarico a cui fu chiamato nel 1989,
su designazione di Giovanni Paolo II per sostituire l´allora
presidente, l´arcivescovo americano Paul Marcinkus, travolto
dallo scandalo dell´ex Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.
Oltre al presidente, sarà rinnovato anche il Consiglio di
Sovrintendenza, finora composto dal vice di Caloia, Virgil
Dechant, americano e membro dei Cavalieri di Colombo, dal
tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, dallo spagnolo Manuel Soto
Serra e dallo svizzero Robert Studer dell´Union de Banques
Swisse.
Nulla, comunque, trapela Oltretevere su chi andrà ad
occupare la poltrona di Caloia. Di certo si sa che il
prossimo presidente dello Ior verrà fuori da una rosa di sei
nominativi selezionati da una commissione di super
consulenti esterni. I 6 profili sono stati presentati a
luglio.
Uno dei nomi che da un po´ di tempo circola con una certa
insistenza è Ettore Gotti Tedeschi, rappresentante in Italia
del Banco Santander Central Hispano (Spagna) e, soprattutto,
editorialista dell´Osservatore Romano, il quotidiano della
Santa Sede. Un certo appeal nel Palazzo Apostolico lo
suscita anche il tedesco Hans Tietmeyer, ex presidente della
Bundesbank, economista di fama con alle spalle studi di
teologia.
Ma recentemente si è parlato anche di Roberto Mazzotta,
presidente della Banca popolare di Milano, sul quale
punterebbero un gruppo di esponenti della finanza lombarda
vicini all´Università Cattolica; Giuseppe Profiti, direttore
amministrativo dell´ospedale vaticano Bambino Gesù, molto
stimato dal cardinale Bertone; Antonio Fazio, ex governatore
della Banca d´Italia, sponsorizzato dal cardinale Giovanni
Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi.
La decisione sarà presa nel cinquecentesco Torrione di
Niccolò V - sede della banca pontificia - dove la
Commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior presieduta
dal cardinale Bertone dovrebbe provvedere anche a snellire
il vertice della banca, annullando la figura del Prelato,
l´ecclesiastico a cui finora sono stati demandati i compiti
di collegamento tra il Consiglio di Sovrintendenza e la
stessa Commissione cardinalizia.
___________________________________________________________
"Stiamo attraversando una crisi dai molteplici risvolti" dai
quali emergeranno "nuovi assetti e inedite prospettive che
matureranno in questi mesi e in questi anni". E' quanto ha
detto questo pomeriggio monsignor Mariano Crociata,
segretario generale della Cei, intervenendo al seminario
nazionale su "Carità, Verità, Sviluppo integrale",
organizzato in questi giorni ad Assisi dal network di
associazioni cattoliche "Retinopera", sulla scorta della
terza enciclica del Papa, "Caritas in Veritate".
In questo frangente, ha aggiunto il prelato, sul versante
della carità, della verità e dello sviluppo integrale "i
cattolici sono chiamati a intervenire con particolare
urgenza". C'è la necessità, ha aggiunto, di sviluppare lo
"statuto di cittadinanza" del cristianesimo "nella vita e
nella cultura contemporanea", grazie a "uomini retti" che
provengono dal "vasto e complesso mondo cattolico", il cui
"contributo" è "importante e atteso per il bene comune nel
passaggio significativo e incerto di questi anni".
"Non spetta alla Chiesa prospettare soluzioni tecniche per
la politica degli Stati, ma le compete un irrinunciabile
dovere di annuncio, testimonianza e presenza", ha aggiunto
il segretario generale della Cei.
"Non ci è concesso oggi semplicemente un 'di più di etica',
un qualche discorso morale", ha proseguito monsignor
Crociata, secondo cui "siamo invece spronati a sviluppare,
in dialogo con tutte le persone di buona volontà, una nuova
ed approfondita riflessione sul senso e sui fini
dell'economia e della stessa vita sociale", a partire dalla
consapevolezza - come scrive Benedetto XVI - che "la
questione sociale è diventata radicalmente questione
antropologica" e che "ogni riflessione culturale diventa
feconda se ha il coraggio di mettere in campo e di
confrontarsi con la totalità dell'umano".
Fonte
- La Repubblica
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«Attenti,
la recessione può tornare»
20 Settembre 2009
14:37 NEW YORK - di Il sole 24 Ore
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«Se prima le prospettive mondiali erano
terribili, adesso sono "solo" deprimenti». Il premio Nobel
2008 per l'economia, Paul Krugman, liberal per eccellenza,
tira un sospiro di sollievo, ma rimane molto preoccupato.
«La temuta grande depressione non c'è stata e probabilmente
oggi ci troviamo in una situazione di nuova crescita. Ma c'è
una grande differenza tra lasciarsi una recessione alle
spalle e avviare una vera ripresa. Gli interventi statali
hanno evitato il peggio, hanno fermato la catastrofe, ma non
sono ancora sufficienti a rilanciare l'economia».
Professor Krugman, è possibile che torni la recessione?
Ci sono buone possibilità, inferiori al 50%, ma ci sono.
Questo perché la ripresa è fondamentalmente costruita sulle
scorte supplementari e sulle giacenze e storicamente questo
porta a una crescita molto lenta. Le misure di sostegno
all'economia varate dai governi nei prossimi mesi si
affievoliranno e temo che ci possa essere una recessione a
W.
I deficit quindi hanno salvato il mondo?
Meno male che c'è stata una decisa espansione della spesa
pubblica. Se i governi non avessero accettato di aumentare i
deficit, saremmo tornati agli anni 30. Ma ora i leader
mondiali devono fare di più.
Recentemente ha affermato che «se persino l'Italia può
gestire rapporti debito-Pil superiori al 100%, anche noi
americani dovremmo farcela».
In effetti utilizzo l'Italia, ma anche il Belgio, come
recenti esempi di paesi in cui è possibile avere un alto
livello di indebitamento, paragonabile a quello che può
attendere gli Stati Uniti in futuro. Due esempi di paesi che
nonostante il debito elevato, non sono falliti.
C'è il rischio che scoppi una nuova bolla?
Negli ultimi 25 anni siamo passati da una bolla all'altra e
nel contempo abbiamo sempre proclamato un ritorno alla
stabilizzazione. Ma in realtà si raggiungeva un'apparente
stabilità sostituendo una bolla con un'altra. È difficile
poter dire quale sarà la prossima, comunque temo che siamo
in una situazione di vulnerabilità. La domanda da farsi è:
ci sarà una riforma finanziaria sufficiente a evitare una new bubble?
Gli ultimi dati evidenziano una disoccupazione Usa in
aumento al 9,7%. Quali sono le sue previsioni?
Temo che dobbiamo accettare ancora un lungo periodo di
disoccupazione. Se osserviamo le recenti recessioni negli
Stati Uniti, nei primi anni 90 e nel 2002, in entrambi i
casi all'avvio della ripresa la situazione del mercato del
lavoro è continuata a peggiorare per un altro anno e mezzo.
La prospettiva adesso è che la disoccupazione continui a
crescere fino al 2012.
Molti lavoratori perderanno anche l'assicurazione per le
cure mediche. Da sempre lei è un forte sostenitore di una
riforma della sanità Usa. Quanto è soddisfatto del piano
presentato dal senatore Max Baucus?
Il nuovo piano è insufficiente. Se migliorato, forse, può
diventare accettabile. L'approccio giusto, secondo me, è
avere una maggiore erogazione dei servizi
assicurativi-sanitari di tipo governativo. Ci vorranno anni,
se non decenni, perché diventi possibile. Ma è anche vero
che alcuni paesi europei, fra cui la Svizzera, hanno una
copertura sanitaria universale con un sistema privato di
assicurazioni. Questo è possibile con il giusto sistema di
sussidi e regolamenti.
Come giudica le ultime decisioni americane di tassare le
importazioni di tubi di acciaio e pneumatici dalla Cina? Si
ritorna al protezionismo? Quanto è forte il rischio di
un'escalation?
Penso che si sia trattato di misure assolutamente calibrate
e ponderate, ci si è mossi all'interno di quanto stabilito
in sede Wto nei rapporti con la Cina. Si tratta di
protezioni safeguards che gli stati possono attivare per
proteggere l'industria da fenomeni eccessivamente avversi
per quanto riguarda le importazioni. D'altra parte il libero
commercio puro non è mai esistito; ha sempre bisogno di
cuscinetti per proteggere l'industria da shock eccessivi.
La Cina è il più grande creditore degli Stati Uniti. È
lecito attendersi ritorsioni? Le ultime flessioni del
dollaro sono state accompagnate da voci insistenti secondo
cui Pechino intende diversificare gli investimenti in
riserve valutarie, senza trascurare l'alternativa oro.
In questo gioco la Cina ha da perdere più di quanto possono
perdere gli Stati Uniti. E la recente caduta del dollaro, in
realtà, aiuta gli Usa. Questo può essere un problema per
l'Europa e per il Giappone, ma aiuta le esportazioni
statunitensi a essere più concorrenziali. Non vedo una
minaccia.
Lei ha anche avanzato l'ipotesi che l'Europa abbia commesso
un errore dieci anni fa nell'adottare l'euro, più che altro
perché per reagire alle crisi è meglio avere una sola entità
decisionale. Ma la più devastante decisione di lasciar
fallire Lehman, è stata presa proprio da un'autorità
finanziaria unica, quella americana?
È vero. Però è altrettanto vero che la crisi è stata
profonda anche in Europa, quindi non è chiaro quanta
differenza abbia fatto la decisione di lasciar cadere Lehman.
L'Europa pur avendo dei punti di forza, ha un problema
strutturale: avete un'unica valuta, però non c'è un'unica
autorità finanziaria. Un'altra problematica è la bassa
mobilità del mercato del lavoro. L'Eurozona, quindi, ha più
problemi di quelli dell'area dollaro, che invece, ha
funzionato bene a confronto.
Le responsabilità della crisi a suo giudizio sono da
attribuire, in buona parte, all'ex presidente della Fed Alan
Greenspan e alle sue politiche monetarie durante la
presidenza Bush. Ma certe patologie del sistema - il degrado
etico, i buchi nella rete dei controlli - erano già presenti
negli anni di Clinton: le bancherotte Worldcom ed Enron
insegnano. Mi perdoni, ma lei non era un consigliere di
Enron?
No, facevo solo parte di un comitato consultivo
dell'azienda. Ero stato chiamato come consulente per
informarli sulla crisi finanziaria mondiale. Non avevo
alcuna conoscenza di quello che avveniva nell'azienda.
Professore, per concludere, dove sta andando l'economia?
Ci sono stati cambiamenti nella giusta direzione e l'abbiamo
visto negli Stati Uniti. Un cambiamento magari un po' troppo
prudente, ma c'è motivo di sperare che continui. Siamo
riusciti a venir fuori dagli orribili anni 30 più forti, con
una migliore giustizia sociale. Voglio sperare che la stessa
cosa si verifichi ora.
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Fonte -
Il sole 24 Ore |
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Sabato
26 Settembre
2009 |
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Lunedì
28 Settembre
2009 |
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Mercoledì
30 Settembre
2009 |
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Trappola
liquidità, alert
ennesima bolla
21 Settembre 2009
01:23 MILANO - di IlSussidiario.net
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Il default del secolo? «Stiamo pagando lo scotto
non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come
la crisi è stata gestita». È severo con Barack Obama, Franco
Debenedetti: come può il presidente sostenere in modo
credibile che non ci saranno più salvataggi da parte dello
stato, quando l’amministrazione ha fatto scelte
contraddittorie, salvando e non salvando gli istituti a
rischio? Non solo: facendo come ha fatto il governo ha dato
una grossa mano alla crisi, legittimando prassi di moral
hazard. Il buon proposito di evitare nuovi rischi sistemici
c’è, ma non basta: tutto sta nel capire come fare e le
proposte, per ora, sul piatto non ci sono.
A un anno dal default di Lehman Brothers, ha detto Obama nel
suo discorso alla Federal Hall, «non torneremo ai giorni
delle azioni sconsiderate e degli eccessi incontrollati alla
base della crisi». Ci vogliono le riforme, ha detto, per
impedire a una crisi come questa di ripetersi.
Credo che Obama abbia ragione. Non per i motivi che ha
detto, però. Il discorso riduce tutto ai rapporti tra Wall
Street e Washington. Servirebbe invece adottare una logica
più sistemica, e riconoscere che stiamo pagando lo scotto
non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come
la crisi è stata gestita.
Che cosa intende dire?
C’erano due soluzioni "pulite". Una era quella del
fallimento: gli azionisti perdono i loro soldi, il
management viene cacciato, i bilanci vengono puliti. Questa
è la soluzione di mercato. L’altra soluzione era quella di
governo, che consiste nella nazionalizzazione delle banche:
anche lì gli azionisti perdono, il management viene
sostituito, si decide se e in che misura rimborsare gli
obbligazionisti, e poi, rapidamente, il governo rivende le
banche ripulite al mercato. È la soluzione svedese.
Il governo Usa però non ha seguito né l’una né l’altra stada…
Infatti. Mi rendo perfettamente conto che sono soluzioni
limite, in qualche misura astratte. Le procedure
fallimentari, anche negli Stati Uniti, hanno tempi
incompatibili con la necessità di fermare la frana in tempi
di giorni se non di ore; e i governi non hanno le risorse
umane e le competenze per gestire banche, e quindi devono
per forza ricorrere ai medesimi manager. Inoltre la
nazionalizzazione presenta il pericolo che ci sia qualcuno
che ci pigli gusto, che le banche non vengano più restituite
al sistema privato e che quindi si finisca in un sistema di
banche pubbliche. Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Si é
inondato il mercato di liquidità: l’incendio è stato spento,
le banche ricominciano a guadagnare, ma la qualità degli
attivi dei loro bilanci è in buona parte quella di prima.
Abbiamo visto pesi e misure differenti: Lehman è stata
lasciata fallire, mentre il colosso delle assicurazioni Aig,
per esempio, è stato salvato.
Obama, quando dice che nessuno dovrà più illudersi che ci
siano salvataggi da parte dello stato, come può pretendere
di essere creduto? Con l’eccezione di Lehman,
l’amministrazione Usa non ha fatto mancare a nessuno il
sostegno diretto o indiretto, esplicito o implicito. Ha
legittimato l’azzardo morale: e adesso dice che non lo farà
più? Eliminare il problema alla radice, impedendo sul
nascere che si formino situazioni che presentano rischi
sistemici é un buon proposito, ma chi vigilerà e lancerà
l’allarme? Avrà la visione per individuarli, e i poteri per
smontarli?
Il presidente ha garantito una svolta. «Il lavoro di
recupero prosegue - ha detto - le tempeste dei due anni
passati stanno iniziando a calmarsi».
Sarebbe masochista non riconoscerlo. Ma sarebbe compiacente
non essere avvertiti dei pericoli che hanno prodotto proprio
le misure di contrasto della crisi, cioè la massa di danaro
con cui si è inondato il mercato. Quanto alle misure per
"non tornare alle misure sconsiderate", per citare la fase
di Obama, le proposte che si fanno sono anche giuste, ma o
non sono molto efficaci, o sono difficili da applicare. Ad
esempio: chi devono essere i nuovi supervisori? Una sola o
più autorità?
Joseph Stiglitz ha detto che Wall Street è ancor più
fragile, perché le banche sono più grosse di un anno fa e le
regole ancora non ci sono. È così?
Ha ragione anche lui: se ci sono banche "too big to fail"
nessuno crederà che lo stato non interverrà a salvarle. E
poi, quando é che una banca diventa troppo grossa? Lehman
non era tra le più grosse, e Aig non era neppure una banca.
Cosa vuol dire che non ci deve essere un rischio sistemico?
Giustissimo, ma in base a che cosa si valuta se c’è un
rischio sistemico oppure no? Ci vuole una strategia per
gestire le emergenze, dice il governo. Benissimo. Quale?
Anche perché le emergenze hanno la pessima abitudine di non
presentarsi due volte nello stesso modo.
Esiste un provvedimento per ridurre i rischi sul quale c’è
un consenso unanime: quello di aumentare i requisiti
patrimoniali delle banche.
Ottimo, ma intanto diamo alle banche dei messaggi
contraddittori: da un lato diciamo loro di aumentare gli
impieghi, di prestare più soldi, dall’altro di ridurre la
leva. Diciamo che devono rafforzarsi e le rimproveriamo se
ricominciano a guadagnare. Il Fmi ha calcolato che per
arrivare ai rapporti di patrimonializzazione di metà anni
’90 ci vorrebbero a livello mondiale 1700 miliardi di
dollari. Alla fine l’unica cosa sulla quale ci si trova
facilmente d’accordo è di mettere un tetto agli stipendi dei
banchieri.
Lasciamo tutto così com’è, compresi i superbonus?
Alcuni bonus erano e sono scandalosi, l’indignazione è
giustificata. Riportarli alla decenza è legittimo, anche se
non lo sono tutti i mezzi proposti. L’importante è non
pensare che siano stati i bonus la causa della crisi, e che
quindi ridurli serva a evitare crisi future. Un discorso
analogo vale per gli impieghi: vogliamo che Passera guadagni
di meno o che vengano dati prestiti alle aziende che lo
meritano e che possono restituirli?
A un anno dal crack secondo lei prevalgono i fattori di
sofferenza - i fallimenti che continuano per le banche
regionali più piccole, o i titoli tossici ancora in possesso
della Fed per esempio - o i segnali positivi?
Sicuramente ci sono segnali positivi. Ma i problemi non sono
stati risolti. E il pericolo che con l’inondazione di
capitale immesso nel sistema si crei un’altra bolla è reale.
 |
Fonte -
IlSussidiario.net |
Al Congresso Usa fronda
anti-Obama per la riforma dei mercati finanziari
20 Settembre 2009 20:13
WASHINGTON -
Il sole 24 Ore ______________________________________________
A pochi giorni dal G-20 di
Pittsburgh è giunta ieri dal Senato, fin troppo pubblica, una
sfida politica alla Casa Bianca in materia di riforma per la
supervisione del settore finanziario. La sfida, che ribalta i
programmi dell'amministrazione, è tanto più delicata in quanto
giunge da un compagno di partito di Barack Obama, il potente
senatore democratico del Connecticut, Christopher Dodd, capo
della commissione bancaria al Senato, determinato a non lasciare
al potere esecutivo il monopolio per una delle riforme più
importanti di questo mandato legislativo e forse dell'intero
decennio.
Il senatore democratico ha annunciato di aver messo a punto un
progetto di riforma che prevede la nascita di una superagenzia
per il controllo del settore bancario e finanziario americano
che assorbirà le quattro grandi agenzie di controllo attuali, la
Federal Deposit Insurance Corporation, (Fdic, che assicura i
depositi), l'Office of Thrift Supervision, il Comptroller of the
Currency e appunto la Fed, sotto l'ombrello di un'unica
superagenzia di controllo.
Dodd è un senatore autorevole, ma in difficoltà politiche nel
suo stato dove è stato accusato di rapporti troppo "vicini" con
alcuni protagonisti del settore finanziario. Anche per questo
sono in molti a Washington a dire che è motivato a intraprendere
iniziative di rottura per dimostrare la sua indipendenza dal
settore bancario e finanziario. Comunque sia il suo piano è un
attacco alla Casa Bianca perché prevede un ridimensionamento dei
poteri acquisiti dalla Banca Centrale americana in questa crisi
in materia di supervisione sistemica per il settore finanziario
e comunque un ridimensionamento del suo ruolo, guardando in
avanti. Un approccio dunque diametralmente opposto a quello
della Casa Bianca che vuole invece mettere la Federal Reserve al
centro dei controlli per rischi sistemici nella finanza e
nell'economia. Obama e la sua squadra economica vogliono anche
mantenere intatte molte funzioni delle altre agenzie che
resterebbero indipendenti, con il Comptroller of the Currency e
l'Office of Thrifts, riunite in un'unica organizzazione.
La scelta della Casa Bianca è ovvia: cambiare radicalmente il
sistema di controllo avrebbe comportato forti resistenze di
potenti lobby di settore, ritardi per l'iter legislativo e
aumentato il rischio di disfuzioni impreviste, ma potenzialmente
implicite in un passaggio radicale che la Casa Bianca aveva
considerato e poi escluso. La Casa Bianca inoltre può contare
sull'appoggio di un alleato in Congresso, potente quanto Dodd,
il deputato democratico Barney Frank, capo della Commissione
Finanza, anch'essa preposta alla formulazione di un prgoetto di
riforma, che anticipano le indiscrezioni è più simile a quello
dell'amministrazione.
Resta il fatto che Obama si presenterà al G-20 senza un fronte
unito in Congresso dietro le sue proposte. Anche per questo, per
giocare d'anticipo sulle iniziative di Dodd, la Casa Bianca
aveva scatenato un'offensiva di comunicazione preventiva. Il
Presidente in un solenne discorso lunedì scorso a Federal Hall a
New York, in occasione dell'anniversario della caduta di Lehman
Brothers, aveva offerto la sua visione di riforma, identificando
nella Fed la nuova autorità di controllo del settore finanziario
necessaria per impedire il rischio di un vuoto di potere o di
responsabilità per gli stessi regolatori.
Il Presidente ha anche proposto nuove regole per proteggere il
consumatore attraverso una nuova agenzia, la Financial
Protection Agency. Infine si è impegnato a chiudere i gap che
esistono a livello internazionale fra i diversi paesi e questo,
ha detto «sarà il compito principale del prossimo G-20 di
Pittsburgh». Pochi giorni la Fed aveva illustrato il suo
progetto di controllo degli stipendi dei banchieri e venerdì
infine è intervenuto di peso Larry Summers, il principale
consigliere di Obama in materia economica: «Chi attacca le
nostre idee e quella in particolare per proteggere il
consumatore dicendo che i fiorai non potranno più concedere
crediti, usa tattiche del terrore simili a quelli che dicono che
la riforma sanitaria creerà "commissioni per la morte"...».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
E' ORA DI
RINNOVARE IL G-20
21 Settembre 2009 16:44 NEW YORK -
di Mario Platero ______________________________________________
Proposta della Casa Bianca per
l'incontro di Pittsburgh. Obiettivo: raddrizzare gli
squilibri strutturali delle grandi economie e lanciare un
nuovo modello di crescita. Il documento e' gia' in
circolazione ma...
C'e' una proposta per il G20 di Pittsburgh, anzi, una
megaproposta per raddrizzare gli squilibri strutturali delle
grandi economie e lanciare un nuovo modello di crescita su
basi piu' solide. La proposta ha anche un nome, si chiama
Framework for Sustainable Economic Growth, (Quadro per una
Crescita Economica Sostenibile), viene dagli Stati Uniti,
anzi dalla Casa Bianca, e chiede a ciascuna delle grandi
aree economiche di passare all'azione nei rispettivi
comparti piu' fragili: gli Stati Uniti dovranno impegnarsi a
ridurre il loro disvanzo pubblico e il debito e a
risparmiare di piu'; la Cina si impegnera' e ridurre le
proprie esportazioni e l'Europa dovra' varare nuove misure
per liberarsi una volta per tutte delle vecchie
immarciscibili rigidita' strutturali. Una megariforma
economica insomma. Il documento messo a punto
dall'amministrazione americana circola gia' nelle capitali
dei 20 grandi, ma non avra' necessariamente facile
applicazione.
Al di la' degli intenti generici, condivisibili e
apprezzabili da tutti, quando poi si scende nei dettagli, ad
esempio come limitare le esportazioni cinesi, le vedute
divergono immeditamente. Indiscrezioni raccolte a Washington
e riprese dalla stampa americana incluso il Wall Street
Journal di questa mattina confermano che all'ordine del
giorno, sul piano piu' tecnico, vi saranno anche le ipotesi
di armonizzare le regole di controllo sul piano
internazionale, aumentare i livelli minimi nei rapporti
capitale attivo di bilancio per le banche e le grandi
istituzioni finanziarie, controllare gli stipendi e ,
soprattutto, i bonus de banchieri con l'obiettivo di
limitare incentivi che premiano il rischio a scapito della
severita' dei controlli. Di questo per oraa Washington si
sta occupando direttamente la Federal Reserve.
Le proposte dell'amministrazione tuttavia sono sotto attacco
dallo stesso Congresso a Washington, soprattutto per le
riforme interne che, sul piano dell'armonizzazione delle
regole, avranno un impatto non da poco sulle azioni degli
altri paesi membri del G20. E' di ieri la notizia di un
attacco durissimo del senatore Christopher Dodd, il potente
capo della commissione bancaria al Senato, al progetto di
riforma interna per il settore finanziario messo a punto
dalla Casa Bianca. Dodd ha annunciato di aver messo a punto
un disegno di riforma indipendente e chiede sia varata una
nuova superagenzia per il controllo del settore bancario e
finanziario americano.
La nuova agenzia assorbira' le quattro grandi agenzie di
controllo attuali, la Federal Deposit Insurance Corporaiton,
(FDIC, che assicura i depositi), l'Office of Thrift
Supervision, il Comptroller of the Currency e appunto la
Fed, sotto l'ombrello di un'unica superagenzia di controllo.
Dodd e' un senatore autorevole, ma in difficolta' politiche
nel suo stato dove e' stato accusato di rapporti troppo
"vicini" con alcuni protagonisti del settore finanziario.
Anche per questo sono in molti a Washington a dire che il
Senatore e' motivato a intraprendere iniziative di rottura
per dimostrare la sua indipendenza dal settore bancario e
finanziario. Comunque sia il suo piano e' un attacco alla
Casa Bianca perche' prevede in particolare un
ridimensionamento dei poteri acquisiti dalla Banca Centrale
americana in questa crisi in materia di supervisione
sistemica per il settore finanziario e comunque un
ridimensionamento del suo ruolo guardando in avanti. Un
approccio dunque diametralmente opposto a quello della Casa
Bianca che vuole invece mettere la Federal Reserve al centro
dei controlli per rischi sistemici nella finanza e
nell'economia.
Obama e la sua squadra economica vogliono anche mantenere
intatte molte funzioni delle altre agenzie che resterebbero
indipendenti, con il comptroller of the Currency e l'Office
for Thrifts, riunite in un'unica organizzazione. La scelta
della Casa Bianca e' ovvia: cambiare radicalmente il sistema
di controllo avrebbe comportato forti resistenze di potenti
lobby di settore, ritardi per l'iter legislativo e aumentato
il rischio di disfuzioni impreviste, ma potenzialmente
implicite in un passaggio radicale che la Casa Bianca aveva
considerato e poi escluso. La Casa Bianca inoltre puo'
contare sull'appoggio di un alleato in Congresso, potente
quanto Dodd, il deputato democratico Barney Frank, capo
della Commissione Finanza, anch'essa preposta alla
formulazione di un prgoetto di riforma, che anticipano le
indiscrezioni e' piu' simile a quello dell'amministrazione.
Comunque sia, per il Presidente, che ieri ha fatto una
controversa apparizione su cinque reti televisive con
altrettante interviste si apre una settimana decisiva, sia
sul piano politico, con l'Assemblea Generale delle Nazioni
Unite e le sfide sull'Iran e sul processo di pace in Medio
Oriente che sul quello economico, con il vertice di
Pittsburgh convocato a partire da gioved' 24 in serata per
poi proseguire nella giornata di venerdi'. Dopo la grzande
visibilita' di domenica per Obama la sfida e' cruciale per
il futuro della sua amministrazione: se non portera' a casa
dei risultatoi questa settimana le ambizioni politiche e di
riforma politica potrebbero emergere di molto
ridimensionate.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
TASSI USA: LA
FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%
23 Settembre 2009 20:16 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La Banca Centrale Americana ha
mantenuto invariata la forchetta sui fed funds. L’economia
ha accelerato ad agosto, ma restera’ ancora debole per
diverso tempo. I tassi continueranno a rimanere
"eccezionalmente bassi". Rallenta l'acquisto di asset MBS.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse
ad un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. I tassi sono
fermi all’attuale livello dal 16 dicembre dello scorso anno.
Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha
accompagnato la decisione; confermato il programma di
riacquisto di Treasury fino a $300 miliardi entro ottobre,
esteso quello sugli asset MBS.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Le informazioni ricevute dall’incontro del FOMC svoltosi ad
agosto suggeriscono che l’attivita’ economica si e’ ripresa
dopo la severa contrazione. Le condizioni all’interno dei
mercati finanziari sono ulteriormente migliorate, si e’
intensificata l’attivita’ nel comparto immobiliare. La spesa
delle famiglie sembra essere entrata in una fase di
stabilizzazione ma resta limitata dalla continua perdita di
posti di lavoro, dalla debole crescita dei salari, dalla
ridotta ricchezza e dal limitato accesso al credito. Le
aziende stanno continuando a ridurre investimenti e
personale sebbene ad un tasso inferiore; ma continuano a
registrare progressi verso un migliore allineamento tra
scorte e vendite. Sebbene l’attivita’ economica restera’
probabilmente debole ancora per diverso tempo, il Comitato
ritiene che le azioni mirate alla stabilizzazione dei
mercati e degli istituti finanziari, gli stimoli fiscali e
monetari e le forze di mercato supporteranno un
rafforzamento della crescita economica ed un graduale
ritorno a maggiori livelli di utilizzazione delle risorse in
un contesto di stabilita’ dei prezzi.
Con il significativo rallentamento dell’utilizzazione delle
risorse che continuera’ a limitare le pressioni sui costi,
in un contesto inflativo di lungo termine stabile, il
Comitato si aspetta che l’inflazione restera’ contenuta per
diverso tempo.
In tali circostanze, la Federal Reserve continuera' ad
impiegare un ampia varieta' di strumenti per promuovere il
recupero economico e preservare la stabilita’ dei prezzi. Il
Comitato manterra’ il target sui fed funds nel range
0.00%-0.25% e continua ad anticipare che le condizioni
economiche probabilmente contribuiranno a mantenere i tassi
a livelli eccezionalmente bassi per un lungo periodo. Per
fornire supporto alle attivita’ di prestito mutui ed al
mercato immobiliare e per migliorare le condizioni generali
all’interno dei mercati del credito privati, la Federal
Reserve acquistera’ $1.25 mila miliardi in asset MBS (Mortgage-Backed
Securities) e fino a $200 miliardi in debito. Il Comitato
rallentera’ gradualmente l’attivita’ di acquisto di tali
strumenti per promuovere una piu’ semplice transizione sui
mercati ed anticipa che saranno eseguiti entro la fine del
primo trimestre 2010. Come annunciato in precedenza, il
programma di acquisto di Treasury fino ad un valore di $300
miliardi sara’ completato entro la fine di ottobre 2009. Il
Comitato continuera’ a valutare la tempistica e l’ammontare
generale degli acquisti alla luce dello sviluppo dell’outlook
economico e delle condizioni dei mercati finanziari. La
Federal Reserve sta monitorando la dimensione e la
composizione del proprio stato patrimoniale ed apportera’
delle modifiche ai programmi di credito e liquidita’ cosi’
come garantito.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley,
Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald
L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K.
Tarullo; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di confermare il tasso
interbancario in un range di 0.0%-0.25%:
Information received since the Federal Open Market Committee
met in August suggests that economic activity has picked up
following its severe downturn. Conditions in financial
markets have improved further, and activity in the housing
sector has increased. Household spending seems to be
stabilizing, but remains constrained by ongoing job losses,
sluggish income growth, lower housing wealth, and tight
credit. Businesses are still cutting back on fixed
investment and staffing, though at a slower pace; they
continue to make progress in bringing inventory stocks into
better alignment with sales. Although economic activity is
likely to remain weak for a time, the Committee anticipates
that policy actions to stabilize financial markets and
institutions, fiscal and monetary stimulus, and market
forces will support a strengthening of economic growth and a
gradual return to higher levels of resource utilization in a
context of price stability.
With substantial resource slack likely to continue to dampen
cost pressures and with longer-term inflation expectations
stable, the Committee expects that inflation will remain
subdued for some time.
In these circumstances, the Federal Reserve will continue to
employ a wide range of tools to promote economic recovery
and to preserve price stability. The Committee will maintain
the target range for the federal funds rate at 0 to 1/4
percent and continues to anticipate that economic conditions
are likely to warrant exceptionally low levels of the
federal funds rate for an extended period. To provide
support to mortgage lending and housing markets and to
improve overall conditions in private credit markets, the
Federal Reserve will purchase a total of $1.25 trillion of
agency mortgage-backed securities and up to $200 billion of
agency debt. The Committee will gradually slow the pace of
these purchases in order to promote a smooth transition in
markets and anticipates that they will be executed by the
end of the first quarter of 2010. As previously announced,
the Federal Reserve’s purchases of $300 billion of Treasury
securities will be completed by the end of October 2009. The
Committee will continue to evaluate the timing and overall
amounts of its purchases of securities in light of the
evolving economic outlook and conditions in financial
markets. The Federal Reserve is monitoring the size and
composition of its balance sheet and will make adjustments
to its credit and liquidity programs as warranted.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S.
Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman;
Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey
M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M.
Warsh; and Janet L. Yellen.
Fonte
- WallStreetItalia
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