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Scervellarsi
per capire
quando sarà toccato
il fondo
01 Aprile 2009 17:13 MILANO - di
*Alessandro Fugnoli
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
________________________________________
E’ cambiato davvero il mondo in queste ultime due settimane?
Sì, è cambiato e i mercati sono stati nel complesso efficienti nel
cogliere il nuovo. La difficoltà, adesso, sta nel capire la vera
dimensione delle novità da una parte e quanto tempo occorrerà per il
loro dispiegamento dall’altra.
Partiamo dalle novità macro. I consumi continuano a tenere,
soprattutto negli Stati Uniti. Naturalmente tengono sulle posizioni
basse che hanno seguito il crollo di ottobre e novembre, ma è meglio
di quello che ci si aspettava. C’è ancora l’effetto positivo della
benzina che costa la metà di un anno fa, ci sono gli sconti
ufficiali o sottobanco su qualsiasi cosa, dalle auto ai vestiti o ai
viaggi. Fra poco ci sarà l’effetto dei minori esborsi per i mutui,
perché i tassi stanno cominciando a calare sul serio.
Poco più in là si profilano gli sgravi fiscali. Non sono enormi, ma
tutto fa, al punto che un piccolo segno positivo, sui consumi
americani, potrebbe perfino restare per tutto il resto dell’anno.
Con i consumi che tengono e la produzione che continua a scendere,
le scorte stanno esaurendosi più rapidamente del previsto. Una volta
normalizzate le scorte, la produzione di beni di consumo si
stabilizzerà e, verso fine anno, potrebbe tornare a crescere. A non
dare ancora segni di stabilizzazione sono gli investimenti, che
rimarranno depressi anche l’anno prossimo.
Mettendo insieme il tutto, il Pil americano sembra destinato a una
rapida perdita di velocità della sua caduta da qui all’estate.
Toccato il fondo, nella seconda parte dell’anno potrebbe anche
registrare una debolissima ripresa. Dopo mesi di dati terribili
l’arrivo di qualche dato più normale va salutato con gioia, ma non
significa necessariamente un’inversione radicale di tendenza. Molto
più probabilmente è solo l’inizio di una fase di stabilizzazione,
che nel resto del mondo, in particolare in Europa e in Giappone, è
ancora di là da venire.
Sul piano dei provvedimenti di policy le novità sono importanti e
tutte di segno positivo. La ricapitalizzazione del Fondo Monetario
appare sicura. Ppif e Talf, fino a poco tempo fa ectoplasmi che non
scaldavano i cuori, prendono forma e corpo e si trasformano in un
trilione di dollari che possono comprare 1.5 trilioni di nominale di
asset tossici. Nel frattempo, il trilione e rotti di easing
quantitativo da parte della Fed si prepara a entrare gradualmente in
circolazione.
Nota Brad DeLong di Berkeley che dei 4 trilioni di asset tossici 2
sono già in via di sistemazione (almeno sulla carta, osserviamo).
DeLong, che è molto vicino all’amministrazione, aggiunge che in
settembre ci potrebbe essere un altro stimolo fiscale per il 2010,
mentre nel Tarp rimangono ancora 200 miliardi, su cui naturalmente
si può creare leva.
Il dibattito che infuria su piano Geithner e Talf, in particolare
sulla privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle
perdite che ne deriverebbero, è il segno che il mercato li sta ora
prendendo sul serio. Tesoro e Fed stanno marciando insieme. John
Berry, un influente columnist considerato molto vicino alla Fed, ha
attaccato negli ultimi giorni, in due articoli molto duri, i due
fronti che si oppongono in diverso modo ai piani di sistemazione
degli asset tossici, ovvero da una parte la destra congressuale
repubblicana (che vuole lasciare tutto al mercato) e dall’altra i
professori radicali (vengono in mente Roubini e Krugman) che
invocano estese nazionalizzazioni delle banche e punizioni esemplari
per i loro azionisti.
La posizione repubblicana è giudicata totalmente sterile e quella
dei nazionalizzatori, pregati senza mezzi termini di smetterla,
dannosa per i mercati. Nelle ultime ore, per inciso, tanto Roubini
quanto Krugman hanno ammorbidito parecchio le loro posizioni.
Nella polemica, il disegno complesso del piano Geithner è stato
oggetto di distorsioni. Non è vero, ad esempio, che il contribuente
non parteciperà alle rivalutazioni future degli asset tossici. Non è
vero che il contributo dei privati, essendo assimilabile
all’acquisto di una call su questi asset, sia in pratica
inesistente. Nessuno, normalmente, compra opzioni per passatempo
(come fossero biglietti della lotteria), tanto meno quando deve
metterci 30 miliardi di dollari. In più, senza l’intervento dei
privati in competizione tra loro, il vero prezzo di titoli che ora
sono completamente illiquidi resta impossibile da scoprire.
Infine, notiamo che i nazionalizzatori che favoleggiano di immensi
guadagni per i privati compratori di asset tossici sono spesso gli
stessi che affermano che questi asset sono praticamente carta
straccia.
Un timore diffuso nel mercato è che le banche non venderanno questi
titoli per non evidenziare minusvalenze ancora inespresse nei
bilanci. Si dimentica però che dopo lo stress test in corso, la Fed
obbligherà le banche poco patrimonializzate a liquidare titoli fino
a che non si saranno rimesse in regola. Il fatto che nel piano
Geithner ci siano incentivi ai privati non deve scandalizzare. E’
normale quando si vuole avviare un processo virtuoso. Quando ad
esempio si colloca la prima tranche di una privatizzazione a un
prezzo molto vantaggioso, si prepara il terreno per futuri
collocamenti a prezzi crescenti e alla fine il contribuente ne esce
bene.
Il piano Geithner, per inciso, appare timidissimo di fronte ad altre
idee circolate di recente. Ricardo Caballero del Mit, ad esempio,
suggerisce da qualche tempo un piano suggestivo per cui il governo,
invece di tirare fuori soldi per le banche, si impegna a comprare le
loro azioni fra cinque anni a un prezzo quadruplo rispetto a quello
corrente. In questo modo le azioni esistenti si rivalutano
immediatamente e le banche possono emetterne di nuove e
riequilibrare il loro bilancio. Dopo cinque anni il corso
dell’azione sarebbe con ogni probabilità al di sopra del prezzo
d’esercizio della put. In questo modo, alla fine, nessun capitale
pubblico verrebbe sborsato e nessuna nazionalizzazione sarebbe
necessaria.
Troppo bello per essere politicamente realizzabile. Forse nella
prossima grande crisi, fra qualche decennio. L’insieme di dati e di
misure di policy di cui abbiamo parlato rende il rialzo di borsa di
questi giorni qualcosa di più di un semplice rimbalzo tecnico.
Si diceva la settimana scorsa che l’essere definito dal mercato,
unanimemente, come bear market rally (e non come, incredibile a
dirsi, l’inizio di un bull market) rendeva il rialzo più solido.
Così è stato, finora. Oggi siamo però incappati in uno studio di
Barclays significativamente intitolato "Arrivano i primi germogli".
Una parte del mercato sta dunque cambiando le sue aspettative. Il
fenomeno è ancora poco esteso (in una tavola rotonda tra loro, tutti
gli strategist e gli economisti di Morgan Stanley si dicono certi
che questo è solo un bear market rally) ma merita attenzione.
L’azionario può difendersi bene fino a fine trimestre e poco oltre,
ma il graduale mutare delle aspettative lo rende più vulnerabile ai
dati di bilancio che le società cominceranno a pubblicare da metà
aprile. In generale, può essere giusto passare per i prossimi mesi
dalle strategia di vendere su rialzo a quella di comprare su
ribasso, ma ora siamo su rialzo e non è quindi il momento di
comprare.
Il fatto che ci siano in fioritura germogli primaverili non deve
indurre a sottovalutare la fragilità del quadro strutturale, non
solo per quest’annoma anche per i prossimi. Jan Hatzius di Goldman
prova a disegnare un percorso virtuoso (uno scenario best case) in
cui i redditi americani crescono del 3 per cento all’anno e i
consumi dell’uno per cento da qui al medio termine. In questa
ipotesi si riesce a conciliare un aumento graduale dei risparmi
verso il 10 per cento con una crescita del Pil, sia pure molto
bassa.
E’ chiaro che un mondo in cui l’America cresce così poco è fragile e
molto esposto a qualsiasi shock esogeno. Né c’è molto da aspettarsi
dal resto del mondo. Il rilancio dei consumi interni (per compensare
il calo strutturale delle esportazioni) sarà lento in Asia e
lentissimo in Europa. Le borse devono poi tenere conto degli utili.
Le attese sul 2009 e sul 2010 appaiono ancora troppo alte.
In pratica appare difficile, almeno al momento, ipotizzare che nei
prossimi due-tre anni parta il grande treno del bull market. Per
questo, ripetiamo, anche se l’aria è oggi più respirabile è meglio
evitare di rincorrere i rally e aspettare i momenti di debolezza.
Venendo ai bond, il mercato sta vivendo una fase decisamente più
nervosa rispetto all’azionario. Il quantitative easing crea un
profondo disagio in quella parte del mercato che si sente già
proiettata verso l’iperinflazione, ma il fatto di avere dall’altra
parte le banche centrali come soggetto compratore gela le pulsioni
allo short.
Continuiamo a pensare che il mercato sopravvaluti i rischi
d’inflazione, quanto meno per questo e per il prossimo anno. Lo
scenario di base indicherebbe semmai deflazione, anche se è sensato
ipotizzare per i prossimi mesi costanti ed energici interventi di
contrasto da parte delle banche centrali. Mettendo insieme lo
scenario di base con i probabili interventi, il risultato per il
2009 e per il 2010 dovrebbe essere un’inflazione con segno positivo
ma molto bassa.
L’impressione è che le banche centrali puntino ora a una curva con
moderata inclinazione positiva. Gli acquisti, soprattutto da parte
della Fed, saranno soprattutto nella parte tra i 2 e i 5 anni, anche
per evitare perdite nel momento in cui si profilerà una ripresa
economica e ci sarà da smontare le posizioni (la Fed si limiterà a
fare scadere i titoli senza rinnovarli).
Questo non significa che si voglia lasciare libero il decennale di
salire di rendimento. Una parte del mercato pensa che si punti a
ricreare la curva piuttosto ripida dei primi anni Novanta. In quel
periodo, successivo alla crisi delle Savings and Loans, le banche si
ricapitalizzarono lentamente indebitandosi a breve e tenendo titoli
lunghi. Questa volta si ha l’impressione che le banche centrali non
vogliano incentivare le banche a starsene pigramente adagiate in
posizioni di carry senza rischio. L’urgenza, adesso, è quella di
indurre le banche ad aumentare gli impieghi.
In generale, la Fed ci pare orientata verso una reflazione moderata
e ordinata, senza strafare. Anche l’indebolimento del dollaro, come
conseguenza, dovrebbe mantenersi modesto.
L’Europa non appare per nulla ansiosa di adottare il quantitative
easing. Ha del resto ancora mezzo punto da spendere sui tassi. Una
volta tagliato, secondo tradizione, vorrà aspettare qualche mese per
vedere gli effetti e solo allora, nel caso, si deciderà al grande
passo. In pratica l’Europa cercherà di mettersi sulla scia degli
Stati Uniti per sfruttare la loro reflazione. Pagando il prezzo di
sempre, ovvero un euro troppo forte.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero
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Il rally che non lo
era
01 April 2009, at 15:48
-
by phastidio ______________________________________________
Appunti della scorsa settimana di David Rosenberg, il bravo
chief economist di Merrill Lynch che sta per lasciare la
compagnia e tornare a casa, in Canada:
«L’indice S&P 500 è cresciuto del 7,1 per cento lunedì scorso.
Non avevamo un giorno così dal…24 novembre. E prima di
allora…dal 21 novembre! E prima di allora…dal 13 novembre! E
prima di allora…chi può scordarsi del 28 ottobre (ricordate quel
balzo del 10,8 per cento)? E prima di allora…il 13 ottobre! E
prima di allora…il 30 settembre. Questa è la quindicesima volta
negli ultimi sei decenni che abbiamo visto un rialzo di oltre il
5 per cento nello S&P500, e tutti si sono verificati in un bear
market (2007-09; 2001-02) o subito dopo il crash azionario
dell’ottobre 1987. In realtà, due terzi di quei rialzi superiori
al 5 per cento si sono verificati in questo bear market!»
«E sono sempre, sempre accaduti in coincidenza di qualche
importante annuncio o notizia. Ci sono state settanta sedute con
rialzi superiori al 5 per cento e ventinove con rialzi superiori
al 7 per cento negli Anni Venti. I migliori 45 giorni nella
storia del mercato si sono verificati nel mercato orso di inizio
Anni Trenta. Tornando indietro nel tempo di oltre 80 anni, è
dolorosamente ovvio che spasmi di questa magnitudine si
verificano nel contesto di mercati ribassisti.»
Un altro motivo per fare oh…
Fonte
-
Macromonitor
COME INVESTIRE? GLI
HI-YIELD VOLANO AL 18%
01 Aprile 2009 00:11 NEW YORK
-
di Corriere della Sera ______________________________________________
«Gli hi yield volano al 18% Per inseguirli serve l’air
bag» I rendimenti delle obbli¬gazioni societarie a bas¬so
rischio (investment grade) battono i titoli go¬vernativi di
almeno 3¬4 punti percentuali. Nel mondo delle emissioni ad alto
rischio (hi-yield) non è raro che la cedola raggiunga punte del
16-18%».
Il quadro del mercato del reddito fisso tratteg¬giato da Gibson
Smith , re¬sponsabile delle gestioni obbligazionarie e hi yield
(alto rischio e alto rendi¬mento) del gruppo ameri¬cano di asset
manage¬ment Janus Capital , ha colori rosa e oro.
E questo perché «per ef¬fetto della crisi finanzia¬ria che si
sta lentamente ri¬solvendo sul mercato del reddito fisso si sono
create occasioni di guadagno irri¬petibili, quasi mai
rintraccia¬bili in periodi di normalità».
Natural¬mente i titoli ad altissimo rendimento sono come
materiale radioattivo. E i piccoli risparmiatori pos¬sono
avvicinarsi a questo tipo di investimento uni¬camente attraverso
i fon¬di specializzati se non vo¬gliono correre il rischio di
vedere incenerito il capi¬tale. «Anche per noi gesto¬ri il
problema più delica-to consiste nell’evitare i ti¬toli di quelle
società che rischiano il default , quin¬di di non rimborsare il
de-bito », avverte. Ma con gli strumenti matematici e
previsionali di cui dispon¬gono gli specialisti questo pericolo
viene tenuto sot¬to ragionevole controllo.
Ma quali sono stati i principali effetti della cri¬si
finanziaria sul mercato del reddito fisso? «In que¬sti mesi sono
scomparse intere classi di investi¬mento, ad esempio le
ob¬bligazioni collegate ai mu¬tui ipotecari, che sono sta¬te al
centro del proble¬ma », dice Smith. «Ma le categorie
obbligazionarie sopravvissute, i corporate bond e le emissioni
hi yield, appunto, hanno mi¬gliorato notevolmente il loro grado
di convenien¬za.
Dal punto di vista geo¬grafico il gestore non ha dubbi: «le
migliori occa¬sioni di investimento si trovano in questo
mo¬mento sul mercato statu¬nitense ». Anche i paesi emergenti
offrono buone opportunità, «ma noi sce¬gliamo sem¬pre le singole
aziende, non facciamo scommes¬ se-paese», pre¬c isa. Se si
guarda invece ai settori indu¬striali il fund manager con¬ferma
grande cautela verso le obbligazioni bancarie.
Piacciono invece i titoli di debito emessi dalle azien¬de di
quei settori meno ci¬clici e parzialmente im-muni ai rischi di
crisi, co¬me l’alimentare. Seguono le obbligazioni emesse dalle
società specializzate nella logistica e nei tra¬sporti. Quindi
le telecom, la cui cedola non teme ce¬dimenti.
«Un suggerimento, per gli investitori in euro, è sempre quello
di sceglie¬re fondi specializzati co¬perti dal rischio di
cam¬bio », aggiunge Smith. Le onde prodotte dalle oscil¬lazioni
valutarie potrebbe¬ro infatti cancellare le per¬formance. (M.
SAB.)
Fonte
- Corriere della Sera
USA: BANCHE,
POLEMICHE SULLE REGOLE PIU' MORBIDE
03 Aprile 2009 17:10 NEW YORK
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Fa discutere la decisione della Fasb (il board della
contabilita' Usa), di varare nuove regole relative
all'applicazione del 'mark-to-market', ovvero la valutazione a
valori presunti di mercato per gli asset i cui scambi su mercati
si sono prosciugati.
Fa discutere la decisione della Fasb (Financial Accounting
Standards Board), il board della contabilità americana, di
varare nuove regole, più morbide, relative all'applicazione del
mark-to-market, ovvero la valutazione a valori presunti di
mercato per attività finanziarie i cui scambi su mercati
regolamentati si siano di fatto prosciugati. Insomma, la nuova
strada imboccata negli Stati Uniti ha come obiettivo la garanzia
per le banche di valutare con maggiore libertà gli asset
tossici. Ma per i critici questo è il sistema più sicuro per
invitare i banchieri a insabbiare le perdite.
Secondo quanto dichiarato dalla stessa Fasb, per la stragrande
parte delle società Usa i cambiamenti normativi (intervenuti sul
Financial Statement 157, principio contabile che regola il fair
value e l'applicazione del mark-to-market) dovrebbero essere
efficaci a partire dal secondo trimestre - ma in qualche caso
potrebbero iniziare ad essere applicate già per il primo
trimestre. Viene così ampliato il margine nella valutazione
degli attivi e delle perdite, fornendo una potenziale spinta ai
bilanci.
Positiva la reazione dei titoli bancari (giovedì in rally - ben
oltre le ragioni dell'ottimismo di facciata emerso dalle
conclusioni del G-20 a Londra -, oggi in tenuta), anche se per
alcuni operatori il cambiamento è stato varato con notevole
ritardo, dopo che lo shock finanziario ha prosciugato il mercato
delle collateralized debt obligations e di tutte le obbligazioni
con sottostanti mutui. Frittata fatta, quindi, anche se qualche
beneficio dovrebbe arrivare: tra gli operatori c'è chi calcola
un possibile rialzo degli utili del 20%, altri smorzano gli
entusiasmi e parlano di «un penny o due».
A favore dei cambiamenti c'è chi sostiene che aver forzato le
banche a svalutare a prezzi di saldo questi asset in un mercato
in stallo abbia esacerbato la crisi finanziaria con
svalutazioni, crollo di utili, penalizzazione dei coefficienti
patrimoniali e una limitata capacità di credito. Le autorità
hanno dato ancora una volta più credito ai banchieri che a Main
Street.
Se la boccata di ossigeno accordata alle banche può sembrare una
decisione deprecabile ma tutto sommato saggia (un male minore,
di questi tempi: potrebbero esserci meno alibi sul stretta del
credito), resta da vedere come una gestione più lassista dei
bilanci possa riportare la fiducia sui mercati e tra gli
investitori. E con che bilanci "reali" ci si sveglierà dopo che
sarà finito il lungo incubo della recessione.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Borse:
il guadagno è già +25% dai minimi
05 Aprile 2009 22:34 BIELLA - di
*Maurizio Milano
*Maurizio Milano e'
responsabile dell'Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
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I mercati azionari archiviano la quarta settimana
consecutiva di sostenuti rialzi, come non capitava più dalla scorsa
estate. Le prese di beneficio ad inizio di ottava non hanno
incrinato il sentiment decisamente positivo degli operatori. Il
rally in essere dai minimi del 6 marzo gode di ottima salute,
archiviando guadagni di oltre il 25% sui principali indici azionari
mondiali. L’S&P500 supera marginalmente la forte resistenza a 835;
il Dow Jones Industrial si porta al test della resistenza in area
8000/300; il Nasdaq raggiunge la forte resistenza in area 1600/50;
il DJEurostoxx50 raggiunge la forte resistenza in area 2200/50; l’S&PMib
si porta con uno strappo rialzista in direzione della resistenza a
17300; il Nikkei225 si riporta al test della resistenza in area
8750/850.
Il rally in essere dal 6 marzo ha determinato il raggiungimento dei
primi obiettivi indicati nelle rubriche a partire dal 9 marzo, ma ha
ancora davanti a sé spazi di salita importanti. Anche se ci troviamo
di fronte ad un bear-market rally, una risalita sui livelli di fine
settembre 2008, precedenti il crash di ottobre-novembre, vorrebbe
dire un recupero di un ulteriore 30% dai livelli correnti.
Confermiamo quindi gli obiettivi indicati, e cioè: 935/45 per lo
S&P500, 9000/100 per il Dow Jones Industrial, 1900 per il Nasdaq
Composite, 2360-2400 per l’Eurostoxx50, 9600 per il Nikkei225, 21000
per l’S&PMib. Gli obiettivi "ultimi" del bear market rally in essere
rimangono i livelli precedenti al crash di ottobre-novembre, che
rappresenteranno un "muro" difficilmente superabile per molti mesi a
venire.
Prima che possa iniziare un bull market vero e proprio dovranno
verosimilmente passare molti mesi di riaccumulazione. Nel frattempo,
se il rally proseguirà, cavalchiamo l’onda pronti ad alleggerire al
raggiungimento degli obiettivi. Per mantenere un’impostazione tonica
è necessario che eventuali correzioni non si discostino troppo dai
livelli correnti. Un calo della volatilità implicita (Vix sotto
40-41) farebbe scattare il semaforo verde per la partenza di questa
ipotizzata seconda gamba del rally. I settori che dovrebbero
trainare il rialzo rimangono il bancario e l’automobilistico, ma
ottimi segnali arrivano anche dai semiconduttori (indice Sox), dai
trasporti e dia consumi durevoli. Meno sensibili dovrebbero essere
invece i rialzi dei settori meno volatili e più difensivi, come
utilities ed alimentare.
Sul fronte valutario, dopo l’accelerazione rialzista con il picco
del 19 marzo a 1,3738 (successiva alla fuoriuscita dalla parte alta
della banda laterale tra 1,2330-1,2450 e 1,3000-1,3300 in cui il
cambio si era mosso negli 2 mesi precedenti), l’euro/dollaro è
ripiegato verso 1,3115 per poi riportarsi verso 1,3500. Prevedere
l’andamento del dollaro per le prossime settimane rimane
particolarmente difficile, perché molto dipenderà da come la Fed
scaglionerà i propri interventi di quantitative easing (stampa di
banconote e acquisto di titoli obbligazionari, sia governativi che
societari). Il "quando e quanto" di tali interventi "non
convenzionali" di politica monetaria – e la misura in cui anche la
BCE vorrà o potrà imitarli – determineranno l’evoluzione del cambio
euro/dollaro. Sembra comunque da escludere un dollaro in caduta
libera, perché non sarebbe funzionale agli interessi Usa, e lo
scenario più probabile rimane quello di un dollaro debole/laterale.
Sul comparto obbligazionario, dovrebbe proseguire la fase laterale
del Treasury e del Bund. Finché le Banche centrali stamperanno
banconote per acquistare titoli obbligazionari, governativi e
corporate, i tassi di interesse a lunga rimarranno schiacciati, e di
conseguenza i corsi dei titoli rimarranno elevati: l’impressione che
si stia formando una bolla, tuttavia, rimane (anche se potrebbe
continuare per molti mesi a venire).
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di
positività in essere da fine dicembre – che interrompe una forte
discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per
le prossime settimane. Apprezzamenti marcati del petrolio (il crude
quota a ridosso di 52 $/barile) e delle altre materie prime
(l’indice CRB quota a ridosso di 223) scatterebbero solo nel caso
prosegua con forza il rimbalzo dell’azionario. Il forte rialzo
dell’oro, sostenuto dal clima di generale incertezza, ha portato al
test dei massimi del marzo 2008 a ridosso dell’area 1000-1033, per
poi ripiegare verso 884-900. La perforazione di tale supporto
segnalerebbe una diminuzione delle tensioni, con possibili
correzioni verso 845: solo un assestamento al di sotto di tale
supporto (prematuro) fornirebbe però un segnale distensivo
affidabile. Nuove tensioni al di sopra di quota 1000 (poco
probabile). Un rimbalzo dell’azionario dovrebbe comunque togliere
interesse agli investimenti in oro, per lo meno per i prossimi mesi.
 |
Fonte
- Gruppo Banca Sella
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Mercoledì
08
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Con
le commodity
torna la speranza
09 Aprile 2009 11:56 ROMA - di
Arturo Zampaglione
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Mentre il presidente cinese Hu Jintao partecipava a Londra
ai lavori del G20 e mentre, proprio alla vigilia del vertice di
Londra, incontrava per la prima volta Obama, Pechino continuava a
fare incetta di metalli non preziosi, a cominciare dal rame, di cui
è già il maggiore acquirente mondiale. Sempre la settimana scorsa la
China Minmetals ha raggiunto un accordo per rilevare, sborsando 1,2
miliardi di dollari, le operazioni della società mineraria
australiana Oz Minerals, seconda produttrice mondiale di zinco. E
altre acquisizioni del genere dovrebbero essere annunciate tra breve. L’attivismo cinese ha contribuito a una sorprendente ripresa
delle commodities, a cominciare dai metalli industriali. I prezzi
del rame, sono saliti del 31% dall’inizio dell’anno, quelli dello
zinco del 9,3 e del piombo del 27. La fiammata si è riflessa nelle
quotazioni azionarie. Nel primo trimestre del 2009, mentre il Dow
Jones faceva le bizze e toccava i minimi degli ultimi 12 anni, le
società che operano nei metalli non ferrosi hanno registrato sulla
piazza americana una crescita del 16,1%, e il comparto minerario è
aumentato del 9,8. Qualche analista ha interpretato questi movimenti
come segnali di una svolta nella crisi.
Non c’è dubbio che gli investitori aspettino con ansia, dopo una
tempesta economica così lunga che i mercati raggiungano il bottom da
cui ripartire. E se Obama ha accennato i "primi dati incoraggianti",
il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia ha dichiarato la
settimana scorsa che un miglioramento della situazione globale è
possibile sin dalla fine di quest’anno.
In questo contesto i
movimenti in atto nelle commodity offrono uno scorcio interessante.
E’ un mercato che funge da barometro non solo delle aspettative del
mondo delle imprese, ma di giochi strategici a livello di grandi
investitori e di governi, come quello cinese, per meglio
posizionarsi nei nuovi equilibri che verranno a determinarsi con la
ripresa. I metalli potrebbero diventare uno strumento privilegiato
per chi vuole difendersi – comprando futures, etf, etc dai pericoli
di una inflazione provocata dalle maximanovre di stimolo economico e
dall’alto indebitamento pubblico. E potrebbero essere un modo per la
Cina e altri paesi di diversificare le loro riserve valutarie.
Il campo delle commodity è ampio. Vi figurano comparti che
rispondono a logiche diverse: com’è il caso del petrolio, dominato
dall’Opec, da interessi politici e dalle decisioni, a volte
bizzarre, di qualche dittatore; o dei metalli preziosi, a cominciare
dall’oro, che è il bene rifugio per eccellenza; o anche delle
derrate agricole. Per il settore dei metalli di base, cioè quelli
industriali, il boom è cominciato relativamente tardi. All’inizio
del millennio, in coincidenza con l’esplosione industriale asiatica,
e in particolare della Cina, si è vista una domanda crescente di
queste materie prime che si è poi intrecciata con la progressiva
"finanziarizzazione"
delle commodity". Pechino, che fino alla fine degli anni ‘90 era un
esportatore di metalli, ne ha fatto incetta in Africa e in
Australia. Ha superato gli Usa come importatore di rame cileno.
Intanto, facendo leva sui futures scambiati a Chicago, gli hedge
fund e le banche di Wall Street come la Goldman Sachs, hanno avviato
operazioni speculative in grande stile. Investitori minori,
spaventati dalla volatilità dei futures, si sono invece serviti
negli Usa degli Etf (Exchange traded funds) e in Europa dei Etc
(Exchange traded commodities) per diversificare il loro portafoglio
con fondi specializzati in singole commodity.
Tutto questo ha portato a una crescita impetuosa delle quotazioni.
«Alla fine del 2007 c’è stata una tragica inversione di tendenza»,
ricorda Mario Quarti, excountry manager per l’Italia della Bank of
America e conoscitore del mercato delle materie prime. «La
consapevolezza che i prezzi dei metalli industriali erano legati a
proiezioni irrealistiche di crescita economica ha portato a un
crollo delle quotazioni». Mentre le industrie riducevano le scorte,
la bolla si è sgonfiata: alcuni metalli hanno perso tre quarti del
prezzo, altri addirittura due terzi. Il fondo, è stato toccato tra
novembre e dicembre 2008. A differenza però di tutte le altre
categorie di asset, che ancora languono, i metalli di base stanno
registrando nel 2009, dopo due trimestri di flessioni sensibili (25
e 35%), un inaspettato risveglio. Come interpretarlo?
La prima spiegazione può essere che, a dispetto degli allarmi sulla
disoccupazione, della stasi dei consumi e delle difficoltà nel
credito, gli operatori vedono le prime speranze di una ripresa e
vogliono approfittare dei bassi prezzi.
Una seconda ragione
coinvolge il mondo della finanza che vede i metalli come una delle
poche opportunità di investimento. Il paladino di questo indirizzo è
Jim Rogers, 56 anni, cofondatore insieme a George Soros del celebre
Quantum Fund: Rogers ha sempre avuto il pallino delle commodity,
guadagnando miliardi e creando un suo indice (Rogers international
commodities index). In questa fase è uno strenuo difensore degli
investimenti nei metalli e continua a fare proseliti, anche per il
timore di un risveglio dell’inflazione.
Per il momento i prezzi non accennano a salire. Ma a dispetto delle
analisi tranquillizzanti di molti economisti, tra cui Luca Paolazzi
della Confindustria, che vedono il permanere di un clima
deflazionistico, c’è inquietudine tra gli investitori sui rischi
delle misure per stimolare la ripresa economica. Gli Usa, oltre a
varare la legge da 787 miliardi per difendere l’occupazione,
proseguono nel quantitative easing, lo stampare soldi aumentando la
circolazione della moneta. Ciò aumenta il debito pubblico americano,
che è già di 11mila miliardi di dollari. Il rischio? Che inneschi la
spirale inflazionistica. Di qui la maggiore attenzione con cui gli
investitori, anche piccoli, guardano ai metalli come difesa,
garanzia e opportunità di profitto.
Il terzo elemento per qualcuno
il più importante che spinge in alto i prezzi dei metalli è la
strategia della Cina. Pechino, che potenzia a ritmi sostenuti gli
stock strategici di rame e altri minerali, ha due obiettivi:
garantirsi canali di approvvigionamento stabili (e a lungo termine)
per le sue industrie e per il fabbisogno interno (il rame è molto
importante nelle nuove costruzioni).
Il secondo obiettivo cinese
riguarda il futuro del dollaro. La Cina ha accumulato, grazie ai
surplus commerciali, certificati del tesoro americano per mille
miliardi di dollari e guarda con preoccupazione alle prospettive
delle valute e dell’inflazione. Prima del G20 aveva lanciato
l’ipotesi di usare i diritti speciali di prelievo dell’Fmi come base
di una nuova valuta per le riserve mondiali. Molti osservatori
ritengono che Pechino stia ora perseguendo una diversificazione
rispetto ai titoli del Tesoro americani rame e altri metalli alle
sue riserve valutarie.
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Fonte
- La Repubblica
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Prossima fermata, le
assicurazioni vita?
Monday, 13 April, 2009 at 12:49
-
by phastidio ______________________________________________
Nei giorni scorsi il Tesoro statunitense ha annunciato
l’intenzione di utilizzare una frazione degli ormai esigui fondi
rimasti al TARP per infusioni di capitale alle assicurazioni
vita, perlomeno a quelle che possono ricevere tali fondi, ad
esempio perché controllano un istituto di credito. L’importo a
cui pensa il governo è molto esiguo, dell’ordine di 1-3 miliardi
di dollari, ma i problemi dei life insurers potrebbero essere
ben maggiori. E’ noto che le assicurazioni vita sono state, nel
recente passato, avide acquirenti di prodotti strutturati, tali
da garantire significative maggiorazioni di rendimento “senza
rischio”. Questa descrizione, fino a non molto tempo fa,
corrispondeva ai Collateralized Debt Obligation (CDO), agli Abs
e a tutte le strutture beneficiate dal rating massimo. Come
purtroppo abbiamo appreso, nel mondo della finanza strutturata
la tripla A non è garanzia di alcunché. E’ quindi lecito
sospettare che le assicurazioni vita abbiano fatto il pieno di
carta tossica o perlomeno problematica. Solo che, a differenza
delle banche, gli assicuratori non hanno alcun obbligo di
mark-to-market, limitandosi a contabilizzare le perdite sui
propri investimenti solo al momento in cui si verifica un
default.
Immaginate cosa accadrebbe se, soprattutto negli Stati Uniti,
gli assicurati maturassero il convicimento (non necessariamente
fondato) che i loro premi assicurativi sono finiti in carta
straccia. Partirebbero massicce richieste di rimborso delle
polizze, che costringerebbero le assicurazioni a liquidare il
proprio portafoglio di attivi, con una grave sfasatura temporale
tra passività a breve (le richieste di rimborso) ed investimenti
a lungo termine, non prontamente liquidabili. Anche in questo
caso, ci troveremmo di fronte all’amletico dubbio: è una crisi
di liquidità o di solvibilità? Se valesse la prima ipotesi (cioè
gli strutturati in cui le assicurazioni-vita hanno investito
sono solidi e pagheranno regolarmente interessi e capitale), il
Tesoro potrebbe intervenire come fornitore di liquidità, ad
esempio riassicurando le polizze-vita. In quel caso, il ricorso
ai fondi del TARP per emettere le solite azioni privilegiate non
avrebbe molto senso. Se invece gli attivi delle assicurazioni
sono effettivamente finiti in CDO e Abs con speranze di recupero
prossime allo zero, ci sarà bisogno di ben altro che una
iniezione di capitale per 1-3 miliardi di dollari, ed anche le
eventuali garanzie pubbliche sulle polizze non sarebbero delle
passività non troppo contingenti ma maledettamente tangibili. Il
tempo dirà, ma fin d’ora possiamo trarre la conclusione che, se
i flussi di cassa sottostanti ad un titolo non esistono, non
attuare il mark-to-market serve solo a rinviare la resa dei
conti.
Fonte
-
Macromonitor
GM, bancarotta
vicina?
14/04/2009
-
di MIAECONOMIA ______________________________________________
Secondo quanto riportato dal New York Times di ieri il governo
statunitense ha detto al colosso auto di prepararsi a essere
dichiarata in fallimento, una mossa che dovrebbe pilotare il
gruppo fuori dai debiti, nonostante GM abbia dichiarato di
essere in grado di portare avanti e concludere una sua
ristrutturazione.
Istruzioni in tal senso sarebbero state trasmesse dall'unità di
crisi dell'amministrazione Obama, avviata per seguire il
collasso dei big statunitensi del settore auto. I responsabili
dell'unità avrebbero avuto ripetuti incontri con i vertici della
GM a Detroit la scorsa settimana, sottolinea il New York Times,
che cita come fonti persone vicine al caso, mentre non hanno
rilasciato commenti né i vertici GM né gli esponenti del governo
Usa.
Il quotidiano dice che si tratterebbe di un fallimento
chirurgico e veloce, nel caso in cui GM non sia in grado di
trovare una solida via d'uscita da qui ai primi di giugno.
L'ipotesi che si fa strada - riporta la stampa americana - è di
dividere in due il colosso di Detroit, riversando in uno le
parti che non funzionano e in un altro le attività ancora in
salute.
A quel punto la parte sana di GM non resterebbe che appena un
paio di settimane sotto la protezione della legge federale sui
fallimenti, anche perché riceverebbe una nuova iniezione da 5-7
miliardi di dollari da parte del governo, mentre le altre
società verrebbero liquidate in tempi successivi, operazione che
potrebbe costare allo Stato americano sui 70 miliardi.
Va ricordato del resto che GM ha già incassato 13,4 miliardi di
aiuti pubblici, mentre solo le pressioni dello staff di Obama
hanno convinto Rick Wagoner, lo storico leader del gruppo auto,
a levare le tende e lasciare la poltrona di ad. Sullo sfondo,
però, ci sono anche altre tensioni, perché gli obbligazionisti
che hanno sottoscritto bond di GM si troverebbe con più classico
dei cerini accesi in mano, per questo si stanno pronunciando
contro una operazione di questo tipo.
Non è per niente escluso che, a mali estremi, possano arrivare a
lanciare una causa legale per tutelarsi contro possibili
perdite, alleandosi in questo senso ai creditori che bussano
alla porta del gruppo.
Fonte
-
MIAECONOMIA
BANCHE: GOLDMAN
SACHS TORNA ALL'UTILE
14 Aprile 2009 09:47 ROMA
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
A Wall Street c'è una banca che inizia a vedere la luce in
fondo al tunnel della crisi. Si tratta della blasonatissima ex
banca d'affari Goldman Sachs che ha archiviato il primo
trimestre 2009 con utili per 1,81 miliardi di dollari o 3,39
dollari per azione, decisamente al di sopra delle attese degli
analisti. L'ultimo trimestre del 2008 aveva registrato perdite
per 2,12 miliardi.
Decisivo l'incremento del 13,1% del giro d'affari che ha
raggiunto quota 9,43 miliardi. Forte di questi buoni risultati
Goldman Sachs ha annunciato un aumento di capitale con un nuovo
collocamento di titoli per 5 miliardi di dollari per restituire
più facilmente i 10 miliardi di aiuti ricevuti nell'ambito del
Tesoro tramite il Tarp (Troubled Asset Relief Program). Lo
scorso settembre Goldman Sachs, fondata nel 1869, ottenne
assieme a Morgan Stanley di mutare natura da banca d'affari a
istituto tradizionale per salvarsi dalla bancarotta.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
David Copperfield è
un dilettante
Tuesday, 14 April, 2009 at 14:44
-
di Macromonitor
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Stellare performance del primo trimestre per Goldman Sachs, che
ha letteralmente stracciato le stime di consenso sugli utili
attesi. Con un impressionante contributo del trading su reddito
fisso, materie prime e valute, l’utile netto del trimestre tocca
1,8 miliardi di dollari, più 20 per cento sullo stesso trimestre
dello scorso anno: il doppio delle stime di consenso, pari a
3,39 dollari per azione, contrio attese per 1,59 dollari. Occhio
a questo numero, ci servirà tra poco. La società procede ad un
aumento di capitale per 5 miliardi di dollari, che contribuirà
al rimborso dei 10 miliardi ottenuti dal TARP (l’altra metà
verrà presumibilmente da utili non distribuiti). Tutto bene,
quindi? Quasi, perché il diavolo si nasconde nei particolari.
Abbiamo detto di utili doppi rispetto al primo trimestre 2008.
Peccato che quel primo trimestre corrisponda a mesi differenti:
fino allo scorso esercizio, infatti, Goldman chiudeva i conti a
novembre, pertanto il primo trimestre dell’anno era quello
dicembre-febbraio. Da quest’anno primo quarto coincide col primo
trimestre solare. Già questo indica che il confronto non è
limpidissimo. Soprattutto considerando che il mese “orfano”
(dicembre 2008) è stato il peggiore per entità delle perdite
operative, pur considerando i pagamenti miliardari ricevuti da
AIG sui contratti di credit default swap in essere. La nota al
bilancio del primo trimestre 2009 segnala un dato inclusivo del
mese orfano, e realizza un assai meno eclatante utile per azione
di 1,24 dollari sul quadrimestre, frutto di una perdita di 2,15
dollari ad azione in dicembre, per complessivi 1,3 miliardi di
dollari ante-imposte.
In pratica, il primo quadrimestre dell’esercizio è stato
spostato in avanti di un mese, il confronto col primo trimestre
dell’anno precedente è “strabico”, e il mese di maggiori perdite
(dicembre 2008) è stato annegato nell’eccellente trimestre
successivo. E la società è pure riuscita ad aumentare il monte
retribuzioni e bonus, sottraendo 20 centesimi per azione
rispetto alle stime di consenso! Ora manca solo l’assenso del
Tesoro per il rimborso dei 10 miliardi del TARP. In astratto
Geithner potrebbe cavillare e sostenere che tutti i dieci
miliardi devono venire da mezzi propri freschi, soprattutto per
un’azienda che riesce ad emettere debito solo ed esclusivamente
grazie alle garanzie federali. Ma questi sono sofismi: il futuro
è così luminoso che dobbiamo mettere gli occhiali da sole.
Fonte
- Macromonitor
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Auto:
Fiat può aspettare, subito
GM-Chrysler
15 Aprile 2009 20:21 MILANO - di
Elysa Fazzino
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Invece di favorire l'ingresso di Fiat come azionista di
minoranza di Chrysler, il governo Usa farebbe meglio a incoraggiare
una fusione tra Chrysler e General Motors: è quanto suggerisce
un'analisi di "Breakingviews", cuore dei commenti finanziari del New
York Times. In un pezzo intitolato «Una fusione automobilistica
potrebbe dare frutti», Rob Cox e Antony Currie sostengono che una
fusione tra le due case automobilistiche americane, accompagnata da
un taglio dei costi, rafforzerebbe in modo significativo il loro
potenziale valore patrimoniale, con maggiore soddisfazione per i
creditori.
Per Fiat «non tutto sarebbe perduto»: potrebbe prendersi qualche
fabbrica Chrysler e un po' di lavoratori licenziati per costruire
Alfa Romeo e Cinquecento, scrive il New York Times. «E non c'è
ragione per cui l'ad di Fiat, Sergio Marchionne, non possa fare
un'alleanza con la società nata dalla fusione Gm-Chrysler. Chissà?
Potrebbe perfino avere una chance di fare il capo».
L'analisi di "Breakingviews" parte dalla constatazione che il
governo Usa sta facendo pressione sui creditori di Gm e Chrysler
perché aiutino a risanare i due produttori scambiando debito contro
azioni. «Potrebbe funzionare se i creditori pensassero che le azioni
valessero qualcosa. E così potrebbe essere – se le due aziende si
fondessero ed eliminassero costi sostanziali».
«Il problema è che il governo sembra favorire l'ingresso di Fiat» in
Chrysler. L'opzione è allettante perché lascerebbe Chrysler come
un'azienda a sé, «in teoria preservando molti più posti di lavoro».
«Ma nonostante i punti di forza di Fiat, che comprendono la
competenza del management, c'è un modo migliore per arrivare a
un'industria automobilistica americana» che sia in grado di operare
in maniera soddisfacente. «Invece di prolungare il dubbio futuro di
Chrysler come impresa indipendente, il governo dovrebbe fare il suo
meglio per unire Gm e Chrysler». Nonostante i tagli compiuti finora,
scrive il New York Times, resta il problema che i produttori
automobilistici Usa producono troppe auto, ne vendono troppo poche e
continuano a perdere quote di mercato. Una partnership tra Chrysler
e Fiat, «non cambierebbe» questa situazione. Secondo il New York
Times, mettere insieme Chrysler con Gm potrebbe invece cambiare le
cose, con un risparmio di circa 30 miliardi di dollari, ben più dei
23 miliardi che Chrysler deve ai creditori di primo grado, governo e
dipendenti.
Contrariamente al New York Times, il Washington Post sembra
appoggiare l'orientamento dell'amministrazione Obama: «Gli Stati
Uniti sperano che la rinascita Fiat possa essere un modello per
Chrysler e contano sull'aiuto del Ceo italiano», ha titolato ieri il
quotidiano della capitale Usa, che ha dedicato un ampio articolo a
Marchionne. Il Washington Post cita una fonte dell'amministrazione,
secondo cui l'ad di Fiat è un manager «non convenzionale, ma
funziona»; «crediamo che sia l'uomo giusto in questo momento» per
Chrysler. La Casa Bianca «è convinta che Marchionne possa fare per
Chrysler quello che ha già fatto per Fiat».
«Raggiungere l'accordo entro la fine del mese è uno sforzo
sovrumano», prosegue sul Washington Post Maryann Keller. «Le
necessità finanziarie di Chrysler sono immediate, mentre
l'introduzione di auto Fiat richiederà tempo». Le auto Fiat infatti
dovranno essere riviste per rispettare le normative americane e gli
stabilimenti Chrysler dovranno essere modificati. Le auto Fiat
potrebbero non arrivare negli showroom americani prima del 2011.
Secondo alcuni analisti, scrive ancora il Washington Post,
«Marchionne sta posizionando la Fiat per farle rilevare asset di
Chrysler nel caso in cui la società finisse in bancarotta».
Gli ostacoli del negoziato in corso con i creditori di Chrysler sono
da giorni alla ribalta sui siti della stampa statunitense. «Il
debito Chrysler potrebbe far deragliare l'accordo con Fiat, i fondi
di salvataggio», titola oggi UsaToday. Il tempo stringe: Chrysler si
sforza dir convincere i creditori a convertire la maggior parte del
debito in azioni. E' un grosso ostacolo, che potrebbe far «ritardare
o deragliare la partnership proposta», che il governo Usa ha
ordinato sia completata per il 1.mo maggio. Il Chicago Tribune e
altri media americani riportano sui loro siti il susseguirsi di
titoli Ap: i colloqui con i creditori accelerano, in stallo Gm; i
creditori di Chrysler preparano una controfferta dopo avere
rifiutato l'offerta iniziale di tagliare il debito. Sulle
controproposte attese questa settimana da parte dei creditori di
Chrysler avevano scritto ampiamente ieri il Wall Street Journal e il
New York Times. Quest'ultimo – e molti altri - ha registrato anche
le indiscrezioni di Automotive News secondo cui, tra le opzioni in
discussione tra Chrysler e Fiat, ci sarebbe la designazione di
Marchionne come Ceo di Chrysler.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Immobili
a Manhattan:
un'opportunità che non si verificava da anni
16 Aprile 2009 22:19 NEW YORK - di
*Andrea Danese
*Andrea Danese e'
Managing Partner di Fifth Avenue Advisors LLC.
________________________________________
Dopo alcuni anni di rapida crescita a ritmi del 10%-20%
all’anno, il mercato residenziale di Manhattan e’ entrato in una
nuova fase ricca di opportunita’. A fronte di uno sviluppo edilizio
basato su proiezioni di crescita elaborate negli anni del boom ci si
e’ trovati in un mercato che non ha mantenuto le aspettative
entrando in un periodo recessivo con un significativo ribasso dei
prezzi.
Analisi del Mercato
Al fine di comprendere il mercato immobiliare di Manhattan, vanno
tenuti presenti alcuni fattori che ne differenziano il comportamento
rispetto al mercato del resto degli Stati Uniti. La insularita’ di
Manhattan e la conseguente mancanza di siti atti alla costruzione di
nuovi edifici fa si’ che la domanda tenda ad eccedere l’offerta. Il
limitato stock di investment properties (Condo), il grande afflusso
di capitali dovuto alla presenza di professionisti altamente
retribuiti, i tassi di interesse particolarmente bassi, fanno
comprendere le ragioni del boom immobiliare degli ultimi anni.
Alcuni elementi hanno pero’ frenato la crescita dei prezzi e
successivamente dato vita ad una crisi del mercato di ampie
proporzioni. La crisi del credito e l’impossibilita’ di finanziare
l’acquisizione di assets di qualsivoglia natura (inclusi quelli
immobiliari) ha creato grossi problemi per un mercato abituato ad un
uso della leva finanziaria fino al 90% del valore dell’immobile. La
stretta creditizia (le banche ormai rararmente prestano piu’ del 65%
del valore dell’immobile e per ammontari relativamente modesti) ha
reso estremamente complesso l’acquisto di immobili per investitori
che richiedono il finanziamento di una parte del prezzo di acquisto.
Un ulteriore elemento di preoccupazione e’ il numero di nuove unita’
abitative in costruzione (circa 35.000 tra il 2008 ed il 2010) e che
non riescono ad essere assorbite da una domanda che negli anni del
boom era pari a circa 12.000 unita’ all’anno e che oggi e’ scesa a
circa 7.000 unita’. Questi fattori formano un quadro negativo
dell’andamento dei prezzi a breve (6–12 mesi) e fanno prevedere un
periodo di 3-4 anni prima che la domanda possa eccedere nuovamente
l’offerta esaurendo l’inventario esistente.
Nel quarto trimestre del 2008 in numero di compravendite e’ sceso
del 10% rispetto a quarto trimestre del 2007 ed il numero di
immobili sul mercato e’ salito del 40%.
E’ importante chiarire che il mercato immobiliare di Manhattan resta
isolato da quello che e’ l’andamento dei mercati suburban degli
Stati Uniti. I pignoramenti di immobili e le vendite fallimentari
sono praticamente inesistenti nell’area di Manhattan. Qui
l’investitore acquista in un mercato che e’ in difficolta’ ma che al
tempo stesso gode di un livello di ricchezza nettamente superiore a
quello delle grandi citta’ come Miami o Las Vegas (mercati in larga
parte fatti di seconde o terze case) o di zone prevalentemente
abitate da ceti sociali medio bassi.
Questo deve rassicurare ulteriormente l’investitore che acquista in
un mercato che sia dal punto di vista economico che da quello
geografico (un isola con limitate opportunita’ di ulteriore sviluppo
immobiliare), offre un limitato downside e speranze di ripresa.
Opportunita’ di Investimento
La significativa discesa dei prezzi degli ultimi 12 mesi (ormai le
transazioni su immobili residenziali avvengono ad uno sconto del 30%
rispetto ai picchi del mercato del 2006–2007) offre un’opportunita’
di investimento che non si presentava da parecchio. Il crollo dei
prezzi ed una sostanziale tenuta degli affitti offrono una
combinazione estremamente interessante per l’investitore di
medio–lungo termine.
Sia nel caso di acquisto di immobili rivenduti da privati sia nel
caso di immobili di nuova costruzione i parametri da utilizzare per
determinare la validita’dell’investimento sono molto simili. Si
tenga conto che il compratore beneficia da un lato della debolezza
negoziale di venditori in difficolta’ e dall’altro di costruttori
con inventario invenduto (in quest’ultimo caso acquisti in blocco di
2 o piu’ appartamenti posso essere fatti a prezzi molto
vantaggiosi).
Elementi di valutazione dell’opportunita’ di investimento
1) Possibilita’ di acquistare al di sotto del valore medio per piede
quadrato (ad oggi circa $1.250 per il mercato in generale e $1.900
per il mercato luxury) (11 piedi quadri equivalgono ad 1 metro
quadro).
2) Stabilita’ del mercato degli affitti (i rendimenti lordi si
aggirano intorno al 6%).
3) Possibilita’ di crescita di aree specifiche rispetto
all’andamento generale del mercato immobiliare.
4) Durata dell’investimento (dai 5 ai 7 anni).
5) Finestra di opportunita’ tra i 12 ed i 18 mesi.
Conclusioni
Il congelamento del mercato con la marcata diminuzione del numero di
transazioni offre una opportunita’ di investimento che non si
verificava da anni. L’orizzonte temporale per gli investitori e’ di
medio-lungo termine con aspettative di un recupero a partire dal
2011 e di un significativo upside in particolare per immobili in
aree con un potenziale di crescita indipendente dall’andamento
generale del mercato. All’apprezzamento del mercato si aggiunga
l’attuale cambio Euro/Dollaro che ancora mantiene l’investitore in
Euro in una posizione di favore.
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Fonte
- La
Borsa & Finanza
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Sabato
11
Aprile
2009 |
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Martedì
14
Aprile
2009 |
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Venerdì
17
Aprile
2009 |
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Il mercato dei cambi
è influenzato dai fondamentali
Venerdì 17 Aprile 2009, 16:44
-
di Giuseppe
Ficara ______________________________________________
Il mercato dei cambi, ora come
non mai, è influenzato dai fondamentali e quindi dalla
condizione dell'economia a stelle e strisce e dalle decisioni
future dei vertici della BcE per far fronte alla crisi
nell'Unione Europea.
La conclusione a cui si arriva guardando gli eventi di questa
settimana vede un mercato che non riesce ancora a prendere una
direzione precisa e che resta in balia dei dati macroeconomici
giorno per giorno; dopo il discorso del capo della BcE
riguardante le prossime decisioni da prendere nel meeting di
maggio.
Trichet ha confermato che al meeting del prossimo mese la Bce
annuncerà le proprie decisioni in materia di "misure non
standard" per rilanciare l'economia europea; queste le parole
del numero uno della BcE “è importante non creare o incoraggiare
aspettative, ma siate sicuri - ha aggiunto - che le nostre
decisioni prenderanno pienamente in considerazione la struttura
di finanziamento dell'economia della zona dell'euro e sarà
pienamente in linea con la nostra strategia a medio termine”.
Dello stesso avviso il numero uno di Bundesbank Weber, che ha
dichiarato che in Germania il primo trimestre potrebbe essere
peggiore del quarto trimestre 2008, andamento che dovrebbe
continuare per tutto l'anno, per poi tornare a crescere nel
corso del 2010 confermando la sua posizione sul tema tassi e
manovre non convenzionali: la Bce dovrebbe fissare una sorta di
livello di medio termine del tasso di riferimento e
contestualmente annunciare (già nel prossimo meeting di maggio)
un pacchetto di manovre non convenzionali che includerebbero le
modalità di funzionamento delle operazioni di rifinanziamento
oltre all'allungamento delle relative scadenze.
La reazione del mercato valutario non si è fatta attendere e le
parole di Trichet hanno dato una forte spinta a ribasso alla
valuta unica europea che ha perso posizioni in tutti i cross più
importanti; non ha fatto eccezione a questa tendenza neanche
l'Eur/Usd che ha testato quota 1,3065 confermando il
rafforzamento della valuta statunitense che da fine marzo ha
cominciato un ritracciamento che potrebbe arrivare nei prossimi
giorni a testare le resistenze poste a 1,2980.
Dando una rapida occhiata alle altre valute conferma il proprio
periodo di recupero la Sterlina che, soprattutto contro Euro e
Franco Svizzera ha continuato a guadagnare posizioni, portandosi
rispettivamente a 0.8795 e 1,7301.
Se dovessero essere rotti i supporti a 0,8792 e 1,7347 allora
potremmo assistere ad un movimento fortemente ribassista; per
quel che riguarda lo Yen gli ultimi giorni sono stati abbastanza
interlocutori ed i cross interessati non sembrano voler prendere
una direzione precisa, emblematico il caso del cross Eur/Jpy che
si trova di fronte ad un possibile scenario ribassista nel
breve-medio periodo con un forte tendenza rialzista invece in un
orizzonte temporale più lungo.
Nonostante la volatilità sul mercato sia diminuita nelle ultime
settimane rimangono comunque molte occasioni per aprire
posizioni intra-day grazie alla grande quantità di dati
macroeconomici in agenda; per la prossima settimana segnaliamo
la pubblicazione dell'indice ZEW tedesco e il CPI britannico
martedì, la disoccupazione ed il settore immobiliare
statunitense giovedì e l'indice IFO europeo venerdì.
Fonte
- Il Sole24Ore
Bernanke:
«Supervisionare i prodotti finanziari complessi»
18 aprile 2009
-
di Il Sole24Ore ______________________________________________
Gli effetti dello scoppio della
"bolla" del credito, conseguenza della crisi dei subprime, «si
faranno sentire a lungo» negli Stati Uniti a livello di minor
benessere delle famiglie, peggioramento della solvibilità e
perdita della proprietà immobiliare. Lo ha detto il presidente
della Riserva Federale Usa, Ben Bernanke, in un discorso
concentrato sulla tutela dei consumatori. Il presidente della
Fed sostiene che occorre supervisionare quei prodotti finanziari
che sono diventati troppo complessi. «La sfida per le autorità
di regolamentazione - dice - è quella di trovare il giusto
equilibrio: sforzarsi di ottenere il più alto standard di
protezione dei consumatori senza eliminare i benefici effetti di
una responsabile innovazione nelle scelte dei consumatori e
nell'accesso al credito». «In certi casi - aggiunge - una
regolamentazione diretta, inclusa la proibizione di certe
pratiche potrebbe essere la sola strada percorribile per fornire
un'appropriata protezione».
In pratica Bernanke difende l'innovazione in campo finanziario,
ma condanna e invita a regolare quelle prassi che mirano a
confondere i consumatori e a creare ad arte una confusione che
in realtà serve solo a mascherare le alte parcelle di chi emette
i prodotti finanziari. Tra prodotti iniqui ed ingannevoli
Bernanke cita alcune pratiche adottate sul mercato dei subprime
e quelle carte di credito che prolungano deliberatamente alti
tassi d'interesse. «La regolamentazione - dice - non deve
impedire l'innovazione ma deve assicurare che l'innovazione sia
sufficientemente trasparente e comprensibile per consentire ai
consumatori di scegliere buone rendite di mercato». In sostanza
la regolamentazione va introdotta «quando la complessità arriva
al punto di ridurre la trasparenza, di impedire la concorrenza e
di indurre i consumatori a scelte sbagliate. E anche, in alcuni
casi, quando la complessità serve solo a nascondere pratiche che
sono inique ed ingannevoli». «Il danno - conclude Bernanke - in
termini di perdita di benessere, perdita di abitazioni e perdita
di credibilità per le istituzioni creditizie è destinato a
durare a lungo».
Fonte
- Il Sole24Ore
CARTE DI CREDITO,
CASA BIANCA CONTRO OGNI ABUSO
20 Aprile 2009 16:39 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Il presidente degli Stati Uniti
Barack Obama rivolgera' presto la sua attenzione agli alti tassi
di interesse delle carte di credito, aumentando gli sforzi del
Congresso diretti a imporre dei limiti all'industria.
Obama "si concentrera' molto, nel brevissimo termine, su tutte
le questioni che riguardano gli abusi legati alle carte di
credito", ha dichiarato domenica in un'intervista alla NBC il
consulente economico Larry Summers. Per abusi, Summers ha
precisato di riferirsi, tra gli altri, all'applicazione di
"interessi straordinariamente alti, che i consumatori non
avrebbero pagato se solo avessero saputo in cosa andavano
incontro". Giovedi' Summers e' atteso ad un incontro alla Casa
Bianca con i capi di una serie di societa' statunitensi delle
carte di credito.
I deputati Democratici hanno gia' iniziato a mettere a punto una
legge per porre delle restrizioni ad alcune delle tariffe sulle
carte di credito e ad altre pratiche. Non e' pero' ancora chiaro
se e come gli sforzi compiuti dalla Casa Bianca potrebbero
differenziarsi da quelle misure proposte dal Repubblicano
Carolyn Maloney dello stato di New York e dal senatore
Christopher Dodd del Connecticut.
La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki si e' rifiutata di
entrare nel dettaglio, evitando di segnalare quali iniziative
specifiche potrebbero essere prese dall'amministrazione.
"Combattere gli abusi che avvengono nell'industria delle carte
di credito e schierarsi in difesa dei consumatori e' una
priorita' del presidente e del suo team di economisti, e non
vediamo l'ora di lavorare con il Congresso su questi temi".
Nelle ultime settimane le banche sono state sottoposte ad un
numero sempre maggiore di pressioni per interrompere i
progressivi aumenti degli interessi sulle carte di credito. I
gruppi in difesa dei consumatori hanno chiesto che la legge
limiti gli incrementi dei tassi di interesse sui bilanci
esistenti e che obblighi le societa' ad offrire informazioni
piu' dettagliate sui loro tassi.
Fonte
- WallStreetItalia.com
Effetto "maquillage"
sui bilanci bancari
18 aprile 2009 -
di Morya Longo ______________________________________________
Se esistessero chirurghi estetici
per bilanci bancari, quest'anno avrebbero certamente fatto
fortuna. Dall'America all'Europa, alcuni big del credito hanno
infatti cercato di abbellire i conti di questo anno di crisi.
Goldman Sachs ha fatto miracolosamente "sparire" il disastroso
mese di dicembre (che ha registrato 780 milioni di perdite) sia
dal bilancio 2008, sia dalla prima trimestrale 2009. Una magia?
No: è bastato cambiare l'anno fiscale di riferimento. Deutsche
Bank, come d'incanto, ha invece ridotto la leva finanziaria da
69 a 28 volte nei conti 2008. Un'altra magia? No: è bastato
passare dai principi contabili europei, con cui è redatto il
bilancio, a quelli Usa. Jp Morgan e Wells Fargo hanno invece
inventato – e messo in bella mostra – gli utili «prima delle
tasse e prima degli accantonamenti»: indicatore mai divulgato
prima e non previsto dai principi contabili. Piccoli trucchi,
potrebbe pensare qualcuno. Informazioni aggiuntive date in modo
trasparente, replicano le banche. Tutto lecito, certo. Ma di
fatto nei bilanci 2008 e nei conti trimestrali 2009 alcune
banche hanno mostrato il più possibile il famoso «bicchiere
mezzo pieno». Che dire: nei mesi in cui i manager sono messi
sotto tiro per i loro lauti compensi, un po' di sano lifting non
fa male.
Il caso più eclatante è quello di Goldman Sachs. Se si legge il
comunicato stampa sui conti, si scopre che la banca ha chiuso il
primo trimestre del 2009 (cioè il periodo gennaio-marzo) con
1,81 miliardi di dollari di utili. Il quarto trimestre 2008 (che
la banca chiude il 28 novembre) era invece terminato con una
perdita di 2,1 miliardi. Una domanda sorge spontanea: se il
quarto trimestre 2008 è terminato a novembre e il primo del 2009
è iniziato a gennaio, che fine ha fatto dicembre? Sparito. Anzi:
relegato nelle tabelle a pagina 10 del comunicato, in cui si
scopre che in un solo mese Goldman Sachs ha perso 780 milioni di
dollari. Ecco cosa è successo. La banca americana ha sempre
chiuso i bilanci a novembre, perché aveva un anno fiscale
sfasato rispetto all'anno solare. Proprio quest'anno, dopo aver
terminato l'esercizio 2008 regolarmente a novembre, ha però
pensato di cambiare. Il calcolo della trimestrale è dunque
ripartito da gennaio. Così i 780 milioni di dollari persi a
dicembre sono usciti sia dal bilancio, sia dalla trimestrale. Ma
sono entrati in un mini-bilancio di un solo mese, passato
probabilmente inosservato al mercato. Insomma: Goldman ha creato
una sorta di «bad bank» per il mese di dicembre. «Il Sole-24
Ore» ha contattato la banca, nella sua sede americana. Ma la
portavoce non ha dato spiegazioni. Al «Wall Street Journal»
qualche giorno fa aveva però detto che il cambio di anno fiscale
è legato alla trasformazione da investment bank a banca
commerciale.
Deutsche Bank il bicchiere mezzo pieno è andata a cercarlo in
America. A febbraio il gruppo tedesco ha comunicato i conti di
fine 2008, redatti con i principi contabili europei. Ovvio, si
dirà: Deutsche Bank è una banca europea. Peccato, però, che la
leva finanziaria – un importante indicatore per capire la
solidità di una banca – l'ha calcolato con i ben più favorevoli
principi americani. Morale: la leva, che sarebbe stata di 69
volte, è calata a 28. Ma nel comunicato stampa sui conti, questo
cambio di principi contabili non è evidenziato. Anzi: il numero
uno di Deutsche Bank, Joseph Ackermann, si vanta di aver ridotto
la leva «ben oltre gli obiettivi preventivati».
Diverso ancora il caso di Jp Morgan e Wells Fargo. I due
istituti hanno inserito nel comunicato sui conti – oltre ai
tradizionali utili netti – anche i profitti «prima delle tasse e
degli accantonamenti». Peccato che gli accantonamenti, nell'anno
della crisi dei mutui subprime, siano il peso principale per i
bilanci bancari: comunicare gli utili prima delle rettifiche,
insomma, è un po' come definire un uomo obeso «un magro prima di
ingrassare di 100 chili». Ma il portavoce di Jp Morgan spiega il
motivo: «L'idea è di essere più trasparenti sulla capacità di
generare utili della banca». Insomma: Jp Morgan vuole dare
un'informazione in più al mercato, per far vedere quanti utili è
effettivamente riuscita a generare. E in effetti non aveva
bisogno di "abbellire" il bilancio trimestrale, chiuso con 2,1
miliardi di dollari di utili netti. Come, in fondo, non ne aveva
bisogno Goldman Sachs. Forse, dunque, questi "aggiustamenti"
sono solo casuali. Certo è che, per gli investitori, sono
difficili da scovare.
Fonte
- Il Sole24Ore
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La
riscossa delle Borse é ancora lontana
20 Aprile 2009 01:45 MILANO - di
La Repubblica
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Quando nel 1919 Charlie Chaplin e alcuni suoi amici
fondarono la United Artists per fare in proprio i film a cui
tenevano, i capi delle case di produzione commentarono acidi:
«Poveri noi, i matti si sono impossessati del manicomio». Qualcosa
del genere si potrebbe dire, oggi, a proposito dell´attuale rally di
Borsa: i matti si sono impadroniti del mercato.
Per rendersene conto, bastano poche riflessioni. Fra i protagonisti
più accesi del rialzo ci sono tutti i vecchi shortisti di ieri.
Presi in contropiede (perché pensavano che i listini sprofondassero
sottoterra), adesso sono costretti a ricomprare in fretta i titoli
che avevano venduto per ricoprirsi: in caso contrario rischiano di
saltare per aria (ma forse qualcuno salterà lo stesso). E´ tutta
gente, insomma, che sta lì in un equilibrio abbastanza instabile e
che quindi, non appena se ne presentasse l´occasione, regolerebbe i
conti con questo mercato che li ha traditi, mandandolo a picco nel
giro di appena un paio di sedute. Questo rialzo, cioè, è un po´ come
quel tale che attraversava il fiume su una barca, ma in compagnia
dell´elefante: non è detto che arrivi dall´altra parte.
La seconda categoria di persone (e istituzioni) che si distingue in
questo rialzo è quella fatta dai soggetti che, avendo perso tutto
quello che potevano perdere nel ribasso precedente, adesso hanno
paura di arrivare troppo tardi sul rialzo e quindi si affrettano a
comprare qualsiasi cosa.
Il tutto, infine, sta appoggiato su mezze verità e palesi bugie.
Queste ultime sono rappresentate dai bilanci delle grandi banche
americane (protagoniste, a suo tempo, del crac). Banche che oggi si
presentano (miracolosamente) con bilanci in utile e in qualche caso
addirittura smaglianti, cosa che ha fatto da carburante
all´ottimismo dei mercati (e che ha preso in contropiede gli
shortisti). Peccato che quei bilanci così fascinosi siano tutti
falsi, dal primo all´ultimo. Frutto non tanto di una buona e
rinnovata gestione, ma semplicemente di nuove regole contabili.
Regole fatte apposta per consentire ai banchieri di chiudere un
occhio sulle loro recenti malefatte.
In realtà, le grandi banche americane non si sono affatto risanate,
fa solo comodo dire che è così. E sembra che dentro abbiano ancora
tonnellate di roba marcia, di titoli tossici. Inoltre, continua il
traffico sui tanto deprecati titoli derivati: insomma, più o meno
come «prima» dello scoppio del caos. Infine, si dice che la Grande
Crisi ha ormai i giorni contati. E questa è un´altra mezza bugia. La
recessione non durerà ancora dieci anni, questo no. Ma parecchi mesi
sì. Per l´Italia, ad esempio, è quasi certo che la produzione
industriale continuerà a calare almeno fino a agosto. Dopo, forse,
arriveranno piccoli segnali di inversione di rotta, ma niente di
clamoroso. La disoccupazione rimarrà alta (e i consumi bassi).
E l´economia italiana, invece, volerà bassa per anni. E questo
perché il nostro principale partner in affari (la Germania) crescerà
molto poco per un certo numero di anni, grosso modo sotto la linea
del 2 per cento. Insomma, è vero che stiamo uscendo dalla crisi, ma
non lo stiamo facendo puliti e lindi come si dovrebbe. Ci
trasciniamo dietro un bel po´ dello sporco accumulato negli anni
passati e non stiamo correndo verso un nuovo Eldorado, ma verso una
stagione che nei primi anni sarà difficile e faticosa, deludente. E,
dietro le quinte, ci sono gli shortisti di ieri, sempre pronti a
dare una botta in testa a questo mercato e a sistemare i conti una
volta per tutte. C´è chi dice che il momento buono arriverà verso
maggio-giugno, e c´è chi sostiene che lo stop è ancora più vicino.
I mercati sono bizzarri e imprevedibili per loro natura, e quindi
non resta che stare a vedere. Ma questi non sembrano proprio tempi
per una lunga e orgogliosa riscossa dei listini.
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Fonte
- La Repubblica
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Come
si possono conciliare
Borse in rialzo e PIL striminziti?
20 Aprile 2009 02:06 MILANO - di
*Alessandro Fugnoli
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di
Abaxbank
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Se è lecita la festa del Rallentamento (della caduta), lo
saranno ancora di più la festa della Stabilità e quella della
Ripresina. Se la festa del Rallentamento in corso da otto settimane
fa un altro piccolo sforzo le borse si riportano al livello di
inizio anno.
Se la festa del Rallentamento si salda senza soluzione di continuità
con la festa della Stabilità (che quest’anno cadrà d’estate) e
questa a sua volta prosegue in fase rave nel party della Ripresina
le borse chiudono il 2009 in forte rialzo.
Il Pil mondiale, però, a fine anno sarà più piccolo in quasi tutto
il mondo rispetto a inizio 2009, anche se il secondo semestre avrà
segno positivo. Si possono avere insieme un Pil rimpicciolito e
borse in forte rialzo? Tutto è possibile, naturalmente, ma sembra
più ragionevole ipotizzare che il recupero delle borse si fermi a un
10-15 per cento dicembre su gennaio.
Perché un rialzo se il Pil va nel senso opposto?
Per due motivi. Il
primo è il venire meno di quell’enorme premio per l’incertezza
richiesto dai mercati nei mesi più bui della crisi. Ci si dimentica
in fretta delle cose, ma una ventina di settimane si riteneva
possibile non rivedere mai più i soldi depositati in banca. Una
quindicina di settimane fa si pensava impossibile riuscire a
rifinanziare l’enorme montagna di debiti in scadenza delle banche e
delle grandi imprese. Una decina di settimane fa si discuteva del
possibile tracollo del sistema, del default dell’Est Europeo e di
metà degli stati dell’Europa occidentale.
Oggi non tutto è risolto, molte cose sono anche più fragili di come
appaiono (con il perfido Buiter che insinua che gli swap valutari
tra banche centrali d’inizio aprile sono serviti a salvare
dall’insolvenza il Regno Unito), ma i mercati adesso sono angosciati
per l’inflazione prossima ventura.
Come dire che chi si vedeva sul punto di morire di fame è ora
preoccupatissimo di doversi mettere a dieta. E chiede ansiosamente
titoli rigorosamente indicizzati all’inflazione anche su scadenze di
12-18 mesi, quando dell’inflazione non si vedrà neanche l’ombra e
quando i trentennali se ne stanno tranquillissimi con i loro alti
rendimenti e il sostegno esplicito delle banche centrali.
C’è angoscia e angoscia, insomma. Quella di oggi è un’angoscia poco
angosciosa. La seconda ragione per cui borse in rialzo sono
conciliabili con un Pil più piccolo è che gli utili (o quanto meno i
margini) potrebbero non essere così orribili come si era pensato.
Si dice sempre che i tagli di occupazione, di produzione, di scorte
e di investimenti da parte delle imprese (così come i tagli di
consumi decisi dai privati) hanno conseguenze drammatiche a livello
di sistema. Si è però detto di meno che questi tagli, per le singole
imprese, significano difesa dei margini. Ricordiamo quello che
successe dopo l’11 settembre. Le imprese, sotto shock per il
terribile nuovo mondo che sembrava profilarsi, cessarono
istantaneamente di assumere e di investire e licenziarono parecchio.
La produttività esplose e i margini si difesero meglio che nelle
crisi precedenti. Quando iniziò la ripresa, le imprese assunsero
pochissimo. Fu la seconda jobless recovery (la prima fu quella che
costò la rielezione a Bush padre e la terza sarà la prossima). Il
risultato della ripresa senza nuovi posti di lavoro fu un nuovo
massimo dei margini di profitto.
Negli anni del dopobolla, 2001 e 2002, era diventato un luogo comune
dire che mai più si sarebbero rivisti gli alti margini di fine anni
Novanta (così come qualsiasi persona civile doveva affermare che le
borse non avrebbero rivisto i massimi per moltissimi anni). In
realtà i margini negli anni successivi risalirono verso i massimi
molto velocemente.
Nella crisi attuale la reazione delle imprese è stata ancora più
violenta che all’indomani dell’11 settembre. Il motivo non è stato
filosofico (l’adozione generalizzata del divieto di produrre per il
magazzino), ma il fatto terribilmente concreto che qualunque
direttore finanziario abbia provato in questi mesi a chiedere alle
banche qualche soldo in più per finanziare le scorte si è sentito
rispondere che i soldi, semmai, doveva restituirli lui. Il credit
crunch ha costretto le imprese a una reazione fulminea che da una
parte ha fatto precipitare la crisi economica, ma dall’altra ha
salvato il conto economico.
Molti economisti e strategist sostengono che il fatto che i margini
siano oggi più alti rispetto alla media di lungo periodo (in tempi
di crisi sono simili ai margini in tempi di espansione di gran parte
del dopoguerra) significa che non potranno che scendere. A noi
sembra invece che, con punti di pareggio abbassati drasticamente
grazie alle ristrutturazioni, alla prossima ripresa potremo vedere
di nuovo, tra le imprese sopravissute alla crisi, livelli di
marginalità molto buoni.
Molti dicono che senza leva questo sarà impossibile. Dopo tutto,
sostengono, il miglioramento dei margini degli ultimi 15 anni non è
stato dovuto alla particolare abilità dei manager ma al banale fatto
che hanno usato più leva. Senza leva non c’è Mba a Harvard che tenga
e i grandi manager tornano comuni mortali.
Ora non è vero che le grandi imprese tradizionali abbiano tutte
usato leve lunghissime. Qualcuna l’ha fatto, molte no. Guardando ai
colossi per capitalizzazione (nella tecnologia e nell’energia, ad
esempio) si scopre che quasi tutti hanno sempre tenuto molta cassa,
non molto debito. Quanti bond Microsoft ci sono in giro?
Chi ha usato e abusato della leva del debito sono come è ben noto le
banche. Da qui il discorso che ogni persona per bene deve fare di
questi tempi e cioè che il Roe delle banche mai e poi mai ritornerà
ai livelli gonfiati dagli steroidi degli anni scorsi. In realtà il
caso vuole che tra le grandi banche che hanno già riportato gli
utili ve ne siano di quelle che hanno oggi una leva ridotta a un
terzo rispetto agli anni scorsi e un Roe di 14, non lontano da
quello dei tempi d’oro. Volendo si può.
Venendo ora ai limiti che conterranno il rialzo di borsa in
proporzioni contenute, il primo, già citato, è il Pil.
La festa del
Rallentamento celebra il passaggio dal meno 5 per cento annualizzato
del primo trimestre (America ed Europa, in Giappone è molto peggio)
al meno 3 del secondo. La festa della Stabilità celebrerà la
crescita zero del terzo trimestre e la festa della Ripresina canterà
il più uno o più due del quarto.
Di per sé non è materiale euforizzante. Le feste, quindi, dovranno
essere intervallate tra loro con periodi di consolidamento. Con un
Pil a meno tre la festa del Rallentamento non può proseguire a
lungo. Potremo vedere i mercati restare per qualche tempo ai livelli
attuali, ma il flusso di dati (come le vendite al dettaglio di ieri
o la produzione industriale di oggi) riporterà tutti con i piedi per
terra e prima o poi produrrà una correzione. Molto probabilmente non
vedremo più nuovi minimi e nemmeno testeremo quelli di marzo. Un ritracciamento di un terzo del rally di queste settimane potrebbe
essere sufficiente.
A fine anno, poi, gli ardori saranno contenuti da un 2010 che
partirà più debole dell’ultima fase del 2009. Lo stimolo fiscale,
infatti, a un certo punto verrà meno. C’è però una speranza. Nuovi
ulteriori pacchetti fiscali potrebbero essere varati in autunno a
valere sull’anno prossimo. Non sarà facile, in un clima di
ripresina, convincere opinioni pubbliche e classi politiche già oggi
spaventate dai disavanzi pubblici in crescita veloce a decidere
altre spese, ma da qui ad allora il vento populista (niente soldi ai
banchieri e alle imprese) e virtuoso (torniamo al rigore fiscale)
sarà forse calato.
Operativamente continuiamo a confidare nella possibilità di comprare
azioni a un prezzo più basso dell’attuale. Ma non molto più basso.
 |
Fonte
- Il Rosso e il Nero
|
Mercati:
ancora un +25% per ammazzare l'orso
20 Aprile 2009 20:02 BIELLA - di
*Maurizio Milano
*Maurizio Milano e'
il responsabile dell'Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella.
________________________________________
I mercati azionari archiviano la sesta settimana consecutiva
di sostenuti rialzi. Dai minimi del 6-9 marzo, i recuperi messi a
segno dai principali indici azionari mondiali sono stati superiori
al 30%, con picchi per alcuni indici – come l’italiano S&PMib –
attorno al +50%. Il calo della volatilità implicita, ridiscesa sui
livelli di fine settembre 2008, precedenti al crash di
ottobre-novembre, conferma il sentiment positivo del mercato. Va
sottolineato, oltre al calo del Vix (volatilità S&P500) sotto il
supporto critico in area 35-37 (a fine ottobre aveva toccato un
massimo storico a 89,53), sia l’assestamento in atto da inizio
aprile del Vix stesso al di sotto del Vxn (volatilità Nasdaq). Ciò
conferma il rasserenamento del settore finanziario – le cui
difficoltà sono all’origine della crisi in atto – condizione
essenziale per un recupero stabile anche del resto del listino.
I rialzi da record dei settori che erano stati più penalizzati, come
l’auto ed il bancario (negli Usa rispettivamente +118% e +126% dai
minimi) confermano il miglioramento del quadro tecnico, almeno in
ottica tattica. Dopo rialzi così forti, sembra probabile l’inizio di
una fase di consolidamento/riaccumulazione, che le prese di
beneficio in apertura di ottava lasciano intravedere. Anche se è
prematuro affermare che i minimi di inizio marzo sono stati "il"
minimo del bear market, il rally in corso sembra comunque non avere
ancora espresso pienamente tutte le proprie potenzialità. Terminata
la pausa di assestamento in corso, gli acquisti dovrebbero poi
riprendere, verso i livelli di fine settembre 2008, cioè un 25-30%
al di sopra dei livelli correnti. Solo il superamento di tali
livelli chiave di resistenza consentirà poi di dire che l’orso è
davvero morto.
Al momento l’ottimismo in ottica tattica si inserisce infatti in un
quadro tecnico ancora fragile ed incerto in ottica strategica. A
breve, per le prossime settimane, c’è ancora spazio di salita, ma al
raggiungimento degli obiettivi sarà quindi opportuno tener conto del
quadro tecnico più ampio e prendere beneficio degli utili
realizzati. Finché gli indici continuano a sviluppare massimi e
minimi crescenti, il rimbalzo continuerà comunque ad
auto-alimentarsi: prezzi via via crescenti "costringono" i gestori,
anche quelli più prudenti o scettici, a ridurre la sottoesposizione
rispetto al benchmark di riferimento ed a comprare.
Fino a quando? Non è possibile indicare un limite di tempo, ma è
ragionevole pensare che i livelli di fine settembre rappresenteranno
un muro difficilmente superabile dal mercato per molti mesi a
venire. Se però da quei livelli le prese di beneficio non
riporteranno gli indici al di sotto dei prezzi raggiunti nell’ultima
ottava – corrispondenti alla prima "gamba" del rally – potremo poi
affermare che i minimi di inizio marzo sono davvero da considerarsi
come "il" minimo del mercato azionario.
Per le prossime sedute, al fine di mantenere un’impostazione tonica,
gli indici azionari devono mantenersi sopra i seguenti supporti:
1600 (estensioni 1550) per il Nasdaq Composite; 7750 (estensioni
7500) per il Dow Jones Industrial; 840 (estensioni 800/15) per
l’S&P500; 2200/50 per il DJEurostoxx50; 17000/200 per l’S&PMib. Gli
obiettivi della seconda "gamba" del rally, nelle settimane a venire,
sono individuabili a: 1900, 9650/800, 935/45, 2500-2625 e 21000,
rispettivamente.
Se il rally azionario proseguirà nelle prossime settimane, è
probabile che sarà accompagnato da prese di beneficio sul comparto
obbligazionario. Sul decennale, sia in Europa che negli Usa,
esauritasi la fase di consolidamento in atto sull’azionario potremmo
poi assistere ad un calo dei corsi obbligazionari di un 2-3% dai
livelli correnti, e tale flusso in uscita potrebbe alimentare il
rimbalzo azionario. Correzioni più marcate sono però improbabili,
visto il supporto ai corsi fornito dalle politiche di quantitative
easing perseguite dalle principali Banche centrali.
A livello valutario, per le prossime settimane il dollaro dovrebbe
rimanere in una situazione laterale/moderatamente positiva, con
possibili movimenti, contro euro, verso la parte bassa
dell’intervallo 1,2700 – 1,3400. Contro yen, l’apprezzamento del
dollaro in atto da circa 3 mesi incontra una prima resistenza a
101,50 e quindi una forte resistenza in area 103,75-104.
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di
stabilizzazione/moderata positività in essere da fine dicembre – che
interrompe una forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008
– prosegua anche per le prossime settimane. Apprezzamenti marcati
del petrolio (prezzo corrente crude: 48; forte resistenza a 55) e
delle altre materie prime (prezzo corrente indice CRB: 225;
resistenza 246) scatterebbero solo nel caso riprenda il rally
dell’azionario. Uno storno dell’azionario potrebbe invece portare a
prese di beneficio, che non dovrebbero comunque essere marcate. Per
l’oro (prezzo corrente oro spot 877), uno storno dell’azionario
potrebbe consentire un rimbalzo verso 930/40, ma un segnale di
maggiori apprezzamenti si avrebbe solo sopra 960/67 (poco
probabile); al di sotto di 860 continuerebbe la correzione in atto,
con obiettivo 845 ed estensioni verso il supporto critico ad 800.
 |
Fonte
- Gruppo Banca Sella
|
Metà
bond e metà azioni. Finché la nebbia non si
dirada
20 Aprile 2009 22:42 NEW YORK - di
*David Kotok
*David Kotok e'
stato tra i fondatori, nel 1973, della società
Cumberland Advisor, dove dall’inizio ricopre il
ruolo di responsabile degli investimenti. I suoi
articoli e commenti sono apparsi su «The New
York Times», «The Wall Street Journal» e «Barron’s».
Cumberland Advisor (www.cumber.com) ha sede a
Vineland, New Jersey (Usa).
________________________________________
Ci sono diversi segnali favorevoli per giustificare la
tenuta del rally: alcuni settori del mercato del credito (i tassi
dei commercial paper piuttosto che l’andamento dei fondi monetari)
stanno migliorando. E quando la politica della Fed è stata applicata
con la dovuta precisione, i risultati sono stati molto efficaci. C’è
ragione di credere che Ben Bernanke, con la stessa strategia, si
concentri sul credito al consumo e sui mutui.
Non mancano nemmeno le
note negative. Il Libor a tre mesi resta 100 punti base sopra l’Ois
(Overnight Index Swaps). Ovvero le banche continuano a non fidarsi
l’una dell’altra, al punto che molti istituti preferiscono
posteggiare la liquidità presso la Fed allo 0,25% piuttosto che
prestarla ad altre banche all’1,25 per cento.
Un altro segnale negativo riguarda la forbice tra i prestiti
corporate. Gli spread nei tassi dei corporate bond sono un
termometro molto sensibile, che ha anticipato tra l’altro la crisi
del 2007-08. Ora lo spread segnala l’aumento della disoccupazione.
In effetti, le previsioni ci dicono che, prima della fine della
recessione, si perderanno altri sette milioni di posti, oltre ai
cinque milioni già sfumati. È quanto sostiene un eccellente lavoro
di Simon Gilchrist e Vladimir Yankov pubblicato sul Journal of
Monetary Economics.
È un testo che mi ha molto preoccupato. Di solito, le statistiche
sul lavoro sono considerate un «indicatore ritardato»: la
disoccupazione cresce anche dopo che è stato toccato il fondo e che
la ripresa è partita. Allo stesso modo, il numero dei senza lavoro
tocca il suo minimo dopo che l’economia ha già perso velocità.
Qualcosa del genere capita ai profitti: la crescita più rapida si
verifica al momento dell’uscita dalla recessione e all’avvio della
ripresa: le aziende sopravvissute sono più snelle e flessibili,
pronte a sfruttare le opportunità del mercato.
Ma prima di riassumere i lavoratori allontanati, le società puntano
a investire per aumentare la produttività dei dipendenti rimasti. È
il motivo per cui la tecnologia emerge così bene in tempo di
recessione. Ed è il motivo per cui noi di Cumberland puntiamo sul
settore tech, con un occhio di riguardo particolare al software.
La storia ci dirà se quello del 9 marzo è stato proprio il minimo
assoluto. E se il termometro dei posti di lavoro è un indicatore
tardivo o meno. La mia impressione, però, è che la situazione sia
ben diversa. Noi stiamo investendo come se questo rally fosse solido
e capace di correre sulle proprie gambe: una ripresa a V, insomma,
in cui il punto più basso è stato toccato il 9 marzo. Ma il timore è
che si stia piuttosto vivendo un movimento a W. Insomma, la gamba
ascendente della V può essere la seconda discendente della W. Per
questo motivo è di rigore stare molto attenti, pronti a cambiar
strategia se dai dati lanceranno l’allarme.
Il tasso di disoccupazione in Usa è oggi dell’8,5%. E sta salendo.
La maggior parte delle previsioni indicano che crescerà ancora fino
al 9,5-10%, tra sei mesi o un anno. Dopo, il numero dei senza lavoro
comincerà a scendere lentamente. Non dimenticate che questi dati
sono raddoppiati in un anno solo.
Non molto tempo fa il tasso di
disoccupazione Usa era del 4%. Lo shock, insomma, è stato violento,
ed è quel che mi preoccupa di più. Anche perché se l’indicazione
degli spread dei corporate bond è corretta, la disoccupazione
dovrebbe salire oltre il 10%.
Certo, esiste il lavoro nero. Si parla di una cifra tra i 7 e i 12
milioni di occupati clandestini nell’edilizia o nei servizi.
Sappiamo dei trucchi per aggirare le norme sull’occupazione, sia nei
momenti di boom che di depressione, cosa che toglie parte del valore
alle statistiche. Ma, anche a tener conto dei vari correttivi (tipo
quelli adottati da Ned Davis Research) emerge una situazione molto
difficile.
Il tasso reale di sottoccupazione, poi, si aggira sul 16%, un record
assoluto. C’è una bella differenza tra un posto di manager di medio
livello, a 80mila dollari e un impiego in un ufficio da 15 dollari
l’ora. È un fenomeno, questo, che sta avendo un forte impatto sui
redditi familiari.
Insomma, a tirar le somme emerge che il rally iniziato il 9 marzo
può essere sia a V sia a doppia W. Non saprei dire: ci sono segnali
a favore sia dell’una che dell’altra tesi. Perciò resto bilanciato a
metà: 50% azioni, 50% in bond. Nel breve l’umore è a favore delle
azioni. E i T-bond, a questi prezzi vanno venduti. Meglio i
corporate a rating elevato e i bond municipali.
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Fonte
- La
Borsa & Finanza
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Sabato 18
Aprile
2009 |
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Lunedì
20
Aprile
2009 |
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Giovedì
23
Aprile
2009 |
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FREDDIE MAC: IL CFO
SI E' IMPICCATO
22 Aprile 2009 16:27 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
David Kellerman, a capo del settore finanze della societa'
americana di mutui ipotecari Freddie Mac, e' stato trovato morto
nella sua abitazione, in quello che secondo la polizia sarebbe
stato un suicidio. Stando alle ultime indiscrezioni, riportate
dall'emittente statunitense Cnbc, l'uomo si sarebbe ammazzato
impiccandosi.
Freddie Mac e' una società a controllo governativo che insieme a
Fannie Mae elargisce la maggior parte dei mutui per la casa
delle famiglie americane, pari in totale a oltre 5.000 miliardi
di dollari. Le due societa' sono considerate l'epicentro della
crisi immobiliare e finanziaria che ha provocato la recessione
negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Mary Ann Jennings, direttore delle relazioni con il pubblico del
Dipartimento di polizia di Fairfax County, in Virginia, ha reso
noto che il manager e' stato trovato morto nella sua casa nello
stato del Virginia. La polizia non ha fatto sapere se Kellerman
ha lasciato un messaggio prima di togliersi la vita.
Kellerman, 41 anni, viveva a Hunter Mill Estates, un quartiere
periferico caratterizzato da grandi case familiari dotate di
ampio giardino interno. La casa di proprieta' del manager vale
900 mila dollari. L'uomo, alla guida di Freddie Mac da
settembre, quando il governo ha assunto il controllo
dell'azienda finanziaria per salvarla dal fallimento, lavorava
nella societa' da 16 anni.
Freddie Mac ha perso oltre 50 miliardi di dollari l'anno scorso,
e Washington ha versato nelle sue casse 45 miliardi di dollari
di aiuti per mantenerla a galla. La societa' controllata dal
governo, che gestisce circa 3 milioni di mutui, e' stata
criticata per i suoi affari nei mutui ad alto rischio, alla base
della bolla immobiliare scoppiata nel 2007.
La notizia della morte di Kellerman giunge come uno shock per i
dipendenti della societa' dello stato del Virginia, con quelli
che conoscevano personalmente l'uomo che sono a pezzi.
Stamattina, Sharon McHale, portavoce di Freddie Mac, ha riferito
che i top manager dell'azienda sono venuti a conoscenza della
notizia dalla radio locale prima di recarsi al lavoro. "E' tutto
semplicemente terribile", ha commentato la donna.
John Koskinen, amministratore delegato ad interim, ha dichiarato
in un comunicato che Kellermann "era un uomo dal grande
talento... La sua straordinaria etica lavorativa e integrita'
sono state fonti di ispirazione per tutte le persone che hanno
collaborato con lui".
Freddie Mac e la societa' gemella Fannie Mae sono finite
entrambe nell'occhio del ciclone dopo che hanno espresso
l'intenzione di pagare oltre 210 milioni di dollari di bonus da
qui al prossimo anno ai propri dipendenti, in modo da dare loro
un incentivo per continuare a mantenere il proprio posto di
lavoro in seno all'azienda. Se da un lato Fannie Mae ha reso
noto i nomi dei manager che avranno diritto ai compensi, Freddie
Mac non lo ha ancora fatto.
Fonte
- APCOM
Metalli preziosi
contro la crisi
22/04/2009 10.52
-
di Valerio Baselli ______________________________________________
La crisi finanziaria fa ancora male e la tentazione di
rifugiarsi nell'oro è forte. Secondo un’analisi di Etf
Securities, i flussi diretti agli Etc (Exchange traded
commodities) sul metallo prezioso hanno registrato un andamento
record. A livello mondiale, l’aumento è stato pari a 1,3 milioni
di dollari (3,7 volte in più rispetto all’ultimo trimestre
2008). Sono andati bene anche gli Etc petroliferi che hanno
segnato un incremento di 916 milioni (2,6 volte in più in
confronto con gli ultimi tre mesi dell’anno passato).
Gli Etc (Exchange traded commodities) sui metalli preziosi sono
stati i top performer, in termini di rendimento, nei primi 3
mesi dell’anno, seguiti a ruota dagli Etc sui metalli
industriali. Il paniere relativo alle materie prime DJ AIG
Commodity Index, ha segnato un rendimento trimestrale pari al
-4%, contro il -12% dell’indice Msci World e il -14% del Msci
Europe (elaborazione Morningstar Direct, dal 1º gennaio al 31
marzo 2009, in dollari). Scendendo nel dettaglio delle
commodity, i comparti positivi sono stati i metalli industriali
(+5%) e soprattutto quelli preziosi (+7%), mentre i settori
energetico e agricolo hanno performato negativamente
(rispettivamente -19% e -4%).
Il trend positivo delle commodity dura da anni. Secondo i dati
elaborati da Etf Securities, nell’ultima decade (dal 31 marzo
1999 al 31 marzo 2009, in dollari) l’indice DJ-AIG-F3
Commodities Index ha avuto un rendimento del 239%, con una
volatilità del 15%. All’interno delle varie materie prime, sono
stati proprio i metalli preziosi a performare meglio (201%, con
una volatilità del 19%, sempre in dollari). Nello stesso periodo
temporale, invece, l’indice azionario MSCI AC World ha ottenuto
un risultato pari al -16% (17% di deviazione standard), il DJ
Euro Stoxx 50 del -35% (22% la volatilità) e l’indice
obbligazionario Barclays Capital Bond Composite Global ha
performato positivamente di 72 punti percentuali (in dollari),
registrando un 4% di rischiosità.
I numeri riflettono l’esigenza degli investitori di abbandonare
in periodi di crisi la sponda equity per navigare verso lidi più
sicuri. Infatti, la forte domanda per Etc che hanno come
sottostante il metallo fisico (e non il derivato) sembra essere
stata guidata dalla richiesta degli investitori di asset liquidi
e di rifugio, senza rischio di credito e per investimenti che
difendano in generale dall’inflazione nel lungo periodo.
Fonte
-
MorningStar.it
ASTE DI ARTE,
SVENDITA E STRESS TEST
22 Aprile 2009 13:31 MILANO
-
di Paolo Manazza ______________________________________________
Nei cataloghi di arte moder¬na, impressionista e contem¬poranea
di Christie's e Sotheby’s del 5 e 6 maggio a New York alcune
opere a stime inferiori anche del 50% rispetto a due anni fa.
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore
e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall
Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Ha il sapore anacroni¬stico di una svendita per nababbi.
Due Pi¬casso a soli 24 milio¬ni. E per giunta di dollari non
euro. L'offerta — reclamizza¬ta da Christie's e Sotheby’s —
riguarda opere presenti nelle aste di «Impressionist & Mo¬dern »
in calendario a New York il 5 e il 6 di maggio.
Mancano pochi giorni al¬le attesissime e consuete auc¬tion
primaverili della Big Ap¬ple. E l’atmosfera che circola riporta
alla memoria il titolo del pamphlet di Kierkegaard: «Timore e
tremore». Se è vero che il mercato dell’arte sem¬bra in qualche
modo eccitarsi per la spasmodica ricerca di asset alternativi da
parte di in¬vestitori depressi e sfiduciati, all’orizzonte
aleggia il fanta¬sma di cattivi ricordi.
Ottant’anni or sono, duran¬te il tracollo del ’29, il mercato
dell’arte sembrò per alcuni mesi presentarsi come un’iso¬la
felice. Tanto che nel mag¬gio del ’30 un Matisse — paga¬to 20
mila franchi francesi nel 1926 — fu aggiudicato a 165 mila. Ma
poi cominciò un lun¬ga e verticale caduta delle quotazioni.
Nel ’28 a Parigi un capolavo¬ro di Monet valeva anche 481 mila
franchi. Mentre nel 1934 «Le Parlament de Londre au crépuscole»
fu battuto a 35 mi¬la. Nel ’37 un Picasso che die¬ci anni prima
costava quasi 10 mila sterline, venne battu¬to a 157. Anche
Braque, De¬gas e perfino Turner passaro¬no di mano a cifre
ridicole e decapitate. Certo allora non c’era la
globalizzazione. Ma la paura rimane.
La strategia che le due major dell’arte stanno metten¬do in
campo è fortemente con¬servativa.
Ma anche di stimo¬lo per rinnovare la fiducia. Nei cataloghi di
arte moder¬na, impressionista e contem-poranea vengono
presentate poche opere a stime inferiori anche del 50% rispetto
a due anni fa. Mentre crescono di volume le aste che presenta¬no
Old Master e alto antiqua¬riato.
Claudia Dweek, co-Chair¬man di Sotheby’s Italia è di po¬che ma
sintetiche parole: «Questa è una crisi strutturale che va ben
oltre l’arte. Noi cer¬chiamo di affrontare il nostro mercato in
modo realista e mi-surato. C’è da dire che forse proprio a causa
delle turbo¬lenze finanziarie oggi molti os¬servano con più
interesse e fi¬ducia gli investimenti in arte, rispetto a dieci
anni fa».
Il Picasso in asta da Chri¬stie’s, il prossimo 6 maggio, ha una
storia curiosa. Collega¬ta direttamente alla débacle
fi¬nanziaria vissuta negli States.
Viene dalla collezione del ric¬co e famoso artista
contempo¬raneo Julian Schnabel. Il qua¬le, pressato dai debiti,
ha pu¬re ipotecato alcune sue opere all’Art Capital Group (una
sor¬ta di moderno «Monte di pie¬tà ») in cambio di 8 milioni di
dollari. In America la moda di ipotecare opere d’arte sta
ri¬scuotendo successo. A San Francisco un’altra società del
genere, la ArtLoan, chiede si¬no al 24% di interessi prestan¬do
per soli diciotto mesi un terzo del valore stimato del be¬ne.
Chi non rientra perde il quadro. In asta l’unico rischio
ovviamente è che vada inven¬duto e torni a casa.
Il quadro di Schnabel si inti¬tola «Femme au chapeau» ed è stato
dipinto da Picasso nel¬l’agosto del 1971, due anni pri¬ma della
sua morte. Gli esper¬ti di Christie’s l’hanno stima¬to tra 8 e
12 milioni di dollari.
Per la cronaca, nel maggio del 1990 una versione simile (ese¬guita
nel luglio dello stesso an¬no) fu venduta per 3,2 milio¬ni.
Quest’anno il catalogo di Sotheby’s presenta 36 capola¬vori. Tra
cui un bellissimo Pi¬casso del 1938, «La fille de l’ar¬tiste à
deux ans et demi avec un bateau», stimato tra i 16 e i 24
milioni. Mentre una «Natu¬ra morta» sempre di Picasso, del 1944,
è valutata 5-7 milio¬ni.
Che accadrà? Molti scom¬mettono sulla capacità media¬tica di
Picasso, sul low profile delle case d’asta e sul ritorno
all’ordine dei prezzi per attrar¬re investitori allo sbando. Ora
nel valore di un dipinto conta solo la massima qualità e la
storia.
Fonte
-
Corriere della Sera
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Mercati
e trucchi contabili, lo
scandalo continua
22 Aprile 2009 13:48 TORINO - di
Alberto Bisin
________________________________________
Molti osservatori economici tirano il fiato in questi
giorni: il peggio della crisi finanziaria sembra finito, le maggiori
banche americane addirittura segnano profitti per il primo
trimestre. Alcuni si estendono fino a prevedere una ripresa
economica a partire dall’estate.
In verità previsioni di questo tipo sono statisticamente così
imprecise da essere poco più di un esercizio divinatorio. Possiamo
però analizzare una delle ragioni principali di tale ottimismo: i
risultati positivi delle banche, Citigroup e Bank of America in
particolare. Purtroppo, così facendo, ci accorgiamo che i loro
risultati trimestrali positivi sono in parte fittizi, dovuti a
trucchi contabili.
Le nuove norme istituite dall’istituto preposto alla definizione
delle regole contabili delle società (il Financial Accounting
Standards Board) hanno permesso alle banche di contabilizzare le
attività «tossiche» ancora nei propri bilanci, non al valore di
mercato, ma ad un valore che le banche stesse ritengono accurato in
presenza di una crisi di liquidità. In sostanza le banche hanno una
certa libertà nel sopravvalutare rispetto al mercato le proprie
attività.
Un altro trucco contabile permette alle banche di sottovalutare le
proprie passività, come il debito obbligazionario. Il valore di
mercato delle obbligazioni di una società in crisi, a rischio di
fallimento, è basso - proprio perché il mercato attualizza il
rischio di fallimento. Permettere alle banche di contabilizzare il
proprio debito al valore di mercato, come accade in questi giorni,
significa in un certo senso permettere loro di cancellare buona
parte dei propri debiti dal bilancio con un tratto di penna. In
altre parole, nel caso estremo di una società in fallimento non ci
sono debiti, ma questo ovviamente non significa che la società sia
in buona salute. Insomma, non è difficile segnare profitti se le
regole contabili permettono di sopravvalutare le attività e
sottovalutare le passività.
Questi trucchi sono purtroppo parte di una generale tendenza alla
mancanza di trasparenza del governo americano in materia
finanziaria. Il Tesoro ha infatti direttamente favorito, se non
richiesto, l’istituzione di queste nuove norme contabili. Esso
sembra inoltre intenzionato addirittura a cambiare le condizioni del
proprio intervento nei mercati finanziari, da azioni privilegiate a
ordinarie, per manipolare i risultati dello stress test delle banche
che esso stesso sta conducendo. La misura del capitale delle banche
utilizzata nello stress test infatti include azioni ordinarie ma non
azioni privilegiate. Il Tesoro finirà quindi per addossare ai
contribuenti un’altra significativa frazione di rischio del sistema
finanziario e finirà per sottomettere l’attività delle banche a
maggiore controllo politico (le azioni ordinarie, a differenza di
quelle privilegiate, hanno diritto di voto). Tutto questo solo per
manipolare un indice contabile e controllare l’informazione
finanziaria da rendere pubblica?
Questa mancanza di trasparenza è estremamente deleteria per
l’andamento dei mercati finanziari. I risparmiatori e gli
investitori non hanno modo di distinguere chiaramente le buone
notizie dalle cattive. Alcune banche infatti hanno certamente
migliorato la propria situazione, ad esempio approfittando della
liquidità iniettata dalla Fed nel sistema, ma in queste condizioni è
difficile se non impossibile capire quali di esse lo abbiano fatto.
La volatilità del mercato riflette anche e soprattutto questa
incertezza di fondo.
A questo proposito gravissima è anche la versione italiana dei
trucchi contabili americani, insita nelle recenti norme che
permettono alle società quotate di riacquistare fino al 20 per cento
delle proprie azioni e che esentano dall’Offerta Pubblica di
Acquisto l’azionariato di controllo (che passasse dal 30 al 35 per
cento). L’unica funzione di queste norme è quella di mantener saldi
i gruppi di controllo delle imprese quotate ad azionariato diffuso.
In un mercato azionario come quello italiano, già caratterizzato
dalla concentrazione del controllo e da un certo sprezzo per gli
interessi degli azionisti di minoranza, queste norme vanno nella
direzione opposta a quella desiderabile. Tendono infatti ad inibire
quello sviluppo e quella competizione nei mercati dei capitali che
sono necessari per sostenere una duratura crescita dell’economia
italiana una volta che quella mondiale sia ripartita.
 |
Fonte
- La Stampa
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BANK OF AMERICA:
PRESSIONI DAL TESORO PER L'OPERAZIONE MERRILL
23 Aprile 2009 17:18 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
Bernanke e Paulson non volevano che l'accordo fallisse. A
dichiararlo e' l'amministratore delegato di BofA, Kenneth Lewis,
al procuratore generale dello Stato di New York, Andrew Cuomo.
L'amministratore delegato di Bank of America Kenneth Lewis ha
detto al procuratore generale dello Stato di New York di avere
buoni motivi per credere che l'ex segretario del Tesoro Henry
Paulson e il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke non
volevano che trapelassero tutti i termini dell'accordo per
l'acquisto di Merrill Lynch da parte della banca, altrimenti,
secondo quanto riportato oggi dal Wall Street Journal, il deal
avrebbe rischiato di saltare.
L'ufficio della procura dello Stato di New York conta di
consegnare oggi l'udienza alle autorita' federali e ai
sovrintendenti responsabili di monitorare le banche e il piano
di salvataggio, secondo quanto si apprende dal testo
dell'udienza, ottenuto in anteprima dal quotidiano.
L'udienza di Lewis si e' tenuta in febbraio, nell'ufficio di
Andrew Cuomo, che sta tentando di determinare se Merrill e BofA
hanno intenzionalmente evitato di fornire informazioni corrette
ed esaustive agli azionisti sulle perdite superiori a 15
miliardi di dollari registrate da Merrill nel quarto trimestre
del 2008 e sui bonus previsti per i top manager. Nel caso
fossero venuti in possesso di tali informazioni, i soci
azionisti di BofA avrebbero con tutta probabilita' votato contro
l'accordo.
Secondo quanto si legge nell'edizione odierna del quotidiano
finanziario, Lewis non sarebbe stato intimato direttamente di
tralasciare alcuni dei problemi di Merril. Ma nella sua
audizione Lewis avrebbe precisato che "non spettava a me"
riferire tali informazioni, aggiungendo di essere stato
avvertito da Paulson e Bernanke che il fallimento
dell'operazione di acquisto di Merrill avrebbe "rappresentato un
fattore di rischio enorme per il sistema finanziario".
Citando una persona vicina ai fatti, il giornale fa sapere che
il mese scorso Paulson avrebbe detto all'ufficio della procura
che Lewis, anziche' attenersi semplicemente agli obblighi della
sua banca, ha interpretato male una parte delle richieste del
Tesoro.
Nello stesso fine settimana di settembre che ha visto la banca
d'affari Lehman Brothers fallire e il gigante assicurativo AIG
ricevere il suo primo aiuto governativo, Washington ha
contribuito a orchestrare l'acquisto di Merrill da parte di BofA.
in un momento critico sia per il governo che per Wall Street,
impegnati a fare tutto il possibile per scongiurare il collasso
finanziario.
Fonte
- APCOM
Fmi, Strauss-Kahn:
«Niente ripresa senza bilanci puliti»
23 Aprile 2009 18:21 WASHINGTON
-
di Sole 24 Ore ______________________________________________
«Senza una pulizia dei bilanci non ci sarà una ripresa». Lo ha
detto a Washington il direttore generale del Fondo monetario
internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ribadendo l'invito ad
agire rapidamente per pulire i bilanci delle banche, condizione
essenziale per una ripresa.
«La ripresa nel 2010 - ha spiegato Strauss-Kahn - è legata a
questo: chiedo ancora ai governi maggiori sforzi in questa
direzione. Non sottovaluto la difficoltà di assumere decisioni
in questo senso. Ma il fatto che sia difficile non significa che
sia meno necessario».
Il direttore generale dell'Fmi ha poi sottolineato la
«contraddizione» nell'atteggiamento dei leader mondiali sulla
necessità di rafforzare le capacità di "early warning" del Fondo
monetario internazionale, ovvero la capacità di individuare in
anticipo i fattori di criticità di un singolo paese rilevanti
per tutto il sistema internazionale. «Tutti ci chiedono un
migliore early warning - ha aggiunto ancora Strauss Kahn - ma
poi alle autorità non piacciono i nostri controlli».
«Su questo punto c'è una contraddizione dei leader mondiali - ha
proseguito Strauss Kahn - tuttavia quello di provvedere a
fornire un sistema di early warning è il nostro ruolo, ed è
quello che faremo nei prossimi mesi».
Fonte
- Sole 24 Ore
FMI: LA CRISI NON E'
FINITA MA LA RIPRESA E' POSSIBILE
23 Aprile 2009 19:58 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
C'è qualche spiraglio, c'è una possibile ripresa il prossimo
anno, ma al momento il quadro dell'economia resta negativo: "La
crisi è lungi dall'esser finita". E' con questo messaggio che il
direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique
Strauss-Kahn, ha aperto la conferenza stampa di presentazione
dei consueti incontri primaverili a Washington con la Banca
Mondiale. "Iniziamo a vedere alcune luci - ha detto - alcuni
dati stanno mostrando miglioramenti, ma sono veramente pochi".
"Abbiamo ancora lunghi mesi di tensioni davanti a noi. La buona
notizia - ha proseguito - è che continuano a prevedere che nel
2010 ci possa essere la ripresa".
Ma è una previsione su cui gravano "alcuni se", ha sottolineato
Strauss-Kahn, che individua due grandi questioni. La prima
riguarda le contromisure messe in campo dai governi; per
quest'anno sono di una portata in linea con quanto richiesto
dallo stesso Fmi, circa il 2 per cento del Pil, ma bisognerà
fare di più per sostenere la domanda nel prossimo anno. L'altra
questione è sul settore finanziario, dove bisognerà "completare
la pulizia dei bilanci delle banche", specialmente negli Usa e
in Europa, ha detto, e in misura minore in Giappone.
Intanto la Banca Mondiale annuncia un rafforzamento dei suoi
programmi di investimento a favore dei paesi poveri, stanziando
45 miliardi di dollari per strade e infrastrutture sul prossimo
triennio. Sono 15 miliardi in più rispetto a quanto speso nei
passati tre anni e con il contributo dei finanziamenti privati
l'ammontare totale potrà salire a 55 miliardi, secondo quanto
spiegato dal presidente della World Bank, Robert Zoellick. Ma
intanto le previsioni delle istituzioni internazionali
continuano a peggiorare. Le ultime, diffuse ieri dall'Fmi con il
World Economic Outlook, indicano ora una recessione dell'1,3 per
cento del Pil mondiale nel 2009.
Solo lo scorso gennaio stimavano un andamento comunque positivo,
sebbene limitato allo 0,5 per cento. "Non è che le stime non
siano abbastanza accurate - ha spiegato Strauss-Kahn- è che
l'economia globale si sta evolvendo molto rapidamente". Il
commercio internazionale ha subito una pesante contrazione e
questo pesa al ribasso sulle prospettive, ma allo stesso tempo
sono stati lanciati molti interventi e questo pesa in positivo.
Strauss-Kahn ha invece rilevato una "contraddizione"
nell'atteggiamento dei leader mondiali sulla necessità di
rafforzare le capacità di 'early warning' dell'Fmi, ovvero la
capacità di individuare in anticipo i fattori di criticità di un
singolo paese rilevanti per tutto il sistema internazionale.
"Tutti ci chiedono un migliore early warning, ma poi alle
autorità non piacciono i nostri controlli".
Ma quello di provvedere a fornire un sistema di early warning "è
il nostro ruolo - ha detto - ed è quello che faremo nei prossimi
mesi". Intanto dall'area dell'euro oggi sono giunti dati
contrastanti. Da un lato, per tutta l'Ue-16 i valori preliminari
dell'indice dei responsabili per gli acquisti delle imprese (Pmi)
ha segnato ad aprile un nuovo miglioramento. E' risalito a 40,5
punti dai 38,3 del mese precedente, secondo quanto riferisce il
centro studi Markit Economics.
Ma intanto i maggiori centri studi della Germania, prima
economia dell'area, sfornano nuove previsioni secondo cui
quest'anno il Pil teutonico crollerà del 6 per cento: la
peggiore caduta dal 1949. Nelle stime pubblicate ieri, per
l'area euro l'Fmi prevede un generale meno 4,2 per cento nel
2009 per il Pil, e un ulteriore meno 0,4 per cento nel 2010.
Fonte
- APCOM
STRESS TEST: BANCHE
"BEN CAPITALIZZATE", NON SARA' PERMESSO FALLIMENTO
24 Aprile 2009 20:19 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
La Federal Reserve ha rilasciato alcuni dettagli sui criteri
secondo cui sono stati condotti gli "stress test" sui 19
principali istituti finanziari statunitensi.
Dall'analisi del governo e' emerso che le banche sotto
osservazione godono di riserve "in eccesso" o di "buoni livelli
di capitalizzazione". Alcune misure potrebbero comunque essere
necessarie per coprire le perdite previste per il 2011. Non e'
stata rilasciata alcuna indicazione sul valore di riferimento.
La Federal Reserve ha affermato che il governo americano e’
pronto al salvataggio di qualsiasi istituto sottoposto agli
"stress test", dichiarato "vulnerabile" nel caso di un forte
inasprimento della recessione.
La Banca Centrale americana ha aggiunto che le 19 societa’ che
detengono circa la meta’ dei prestiti totali del sistema
bancario statunitense non saranno lasciate fallire, anche nel
caso di un esito particolarmente negativo emerso dall’esame.
Gli "stress test" sono stati voluti dall’amministraizone Obama
per identificare gli istituti a rischio nel caso di un’ulteriore
contrazione dell’economia.
Fonte
- APCOM
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Sono
titolini,
ma vanno come
razzi
28 Aprile 2009 11:19 NEW YORK - di
Gianluigi Raimondi
________________________________________
Tempi difficili, anzi duri. Ma le occasioni non mancano:
«Alle quotazioni attuali - dice Rory Hammerson - il mercato sconta
uno scenario macroeconomico a dir poco depressivo, almeno nei
prossimi 18 mesi». E proprio il pericolo di nuove e pesanti
correzioni dei listini tiene gli investitori sottopesati sulle big
cap. «Il mercato sta premiando le piccole storie e anche noi
riteniamo si debba puntare sui titoli a bassa capitalizzazione. Del
resto lo insegna la storia». Hammerson è il direttore responsabile
del settore azionario europeo per Scottish Widows Investment
Partnership (le famose Vedove Scozzesi) e gestore del fondo Pan
European Smaller Companies, che recentemente ha ottenuto un rating
AA da Standard & Poor’s. In particolare, il gestore rientra nelle
prime posizioni della classifica di Citywire dei migliori 100 asset
manager europei e ha conquistato il primo posto in Svezia.
Si aspettava il forte recupero messo a segno dai listini azionari
mondiali? A suo avviso può ancora proseguire?
L’ultimo rally non ha certo colto di sorpresa gli investitori
istituzionali. Dall’analisi delle serie storiche risulta che durante
il crollo di Wall Street, negli anni Trenta, la tendenza ribassista
di fondo è stata interrotta da ben cinque trend rialzisti. Anche se
poi nel medio-lungo termine si sono rivelati dei meri falsi segnali.
Tra l’altro, come nel biennio 1932-1933, anche allora con l’economia
in piena recessione, il neo-eletto presidente Usa, Franklin D.
Roosevelt, aveva proposto un pacchetto di stimoli e incentivi
fiscali. Una situazione che aveva spinto gli indici al rialzo di
circa il 50 per cento. Il vero denaro, in quell’occasione, si
riversò sulle small cap, che in media raddoppiarono il loro valore.
Guarda caso, anche ora i cosiddetti titolini stanno sovraperformando
le blue chip.
Secondo lei, chi ha più benzina: i listini europei o quelli
statunitensi?
Ritengo estremamente improbabile che i mercati europei possano
anticipare quello statunitense, caratterizzato da uno scenario
economico molto più dinamico e flessibile. Nell’area euro ci sono
alcuni Paesi con profili e situazioni economico-finanziarie
specifiche, legati solo dalla moneta unica e da un’unica Banca
centrale che decide per tutti sul costo del denaro. Ma, per il
resto, tende a prevalere la disomogeneità del trattamento fiscale e
dell’indebitamento tra i diversi Stati dell’Ue. Perciò risulta piu
difficoltoso che negli Stati Uniti adottare politiche economiche
realmente efficaci a livello comunitario.
Un quadro che molto probabilmente si rifletterà anche in futuro,
provocando performance differenti tra i diversi listini dei singoli
Paesi.
Su quali metodi di analisi si fondano le vostre scelte di asset
allocation? Ci sono interi settori su cui preferite puntare in
Europa oppure solo singoli titoli?
Il nostro processo di selezione che determina i titoli da inserire
in portafoglio si basa su un approccio di tipo «bottom up», legato
cioè ai fondamentali delle società sulle quali si decide di
investire. Così, oltre i due terzi del rischio di ogni stock picking
dipende dalla situazione della specifica azienda. Nel processo
decisionale viene ovviamente analizzata la situazione delle singole
società rispetto ai loro competitor.
Quali sono, in base alle sue analisi, i titoli al momento trattati
con uno sconto più elevato?
Per procedure di policy aziendale, non possiamo rendere noti i
risultati dei nostri processi di selezione dei titoli. Posso
tuttavia affermare che attualmente abbiamo scovato diverse «buone
occasioni», soprattutto tra le mid e le small cap e qualcuna anche
tra le blue chip.
Quali sono le performance del fondo da lei gestito?
Da inizio anno il fondo Swip Pan European Smaller Companies ha
accusato un ribasso del 6,5%, pertanto è rimasto leggermente
indietro rispetto all’indice di riferimento. Nonostante ciò, tutto
il nostro team resta fermamente convinto che i titoli messi in
portafoglio sono proprio quelli che ancora oggi consiglieremmo ai
nostri clienti. Inoltre, confido nel fatto che i fattori esogeni che
hanno influito negativamente sul recente andamento di questi titoli
cesseranno molto presto di pesare sulle loro performance di Borsa.
In altre parole, il nostro stile di gestione è molto orientato verso
i titoli growth. Il mercato ha però ultimamente premiato
maggiormente le società value, una situazione che, di conseguenza,
non ha certo aiutato le performance del fondo.
Rimaniamo perciò fedeli alle tecniche adottate per il nostro
processo di selezione, che individua titoli in ottica di
investimento superiore ai tre anni. E sebbene i risultati ottenuti
in passato non rappresentino necessariamente una garanzia per il
futuro, siamo convinti della bontà delle nostre metodologie e
confidiamo nell’esperienza maturata dal nostro team di analisti.
 |
Fonte
- La Repubblica
|
Il
toro
ha
traslocato in Medio Oriente
28 Aprile 2009 13:34 NEW YORK - di
Borsa&Finanza
________________________________________
Si è già aperta la corsa a chi potrà dichiarare, per primo,
di essere uscito dalla crisi globale più lunga ed estenuante dai
tempi della Seconda guerra mondiale. Sempre che non abbiano ragione
coloro che intravedono per le maggiori economie ancora una lunga
traversata nel deserto, tutta da percorrere.
Il settore finanziario resta in crisi d’identità, zeppo di asset
illiquidi, anche se vi è qualche piccola schiarita sul fronte degli
utili. Ma, ancora una volta, sono i governi a dover far la parte del
leone, dopo essere stati protagonisti, a fianco delle banche
centrali, di un’opera di salvataggio all’ultimo respiro delle
istituzioni di credito impantanatesi nelle sabbie mobili dei
subprime loan e dei titoli di tutta la finanza derivata. La Cina è
sicura di farcela, gli Stati Uniti giocano la carta cubana, ma
inciampano nella questione iraniana, salvo attendere con la
clessidra il conto alla rovescia degli stress test sulle banche.
Ed ecco che quindi, a sorpresa, sono i Paesi del Medio Oriente che
rivendicano il diritto di un primato, riorganizzando i mercati
finanziari, investendo pesantemente sui loro mercati domestici e
stringendo nuove alleanze per consolidare il ruolo geopolitico dopo
la recente ospitata alla riunione del G20. Ma è tuttavia una
rincorsa fatta di luce e di ombre, come tutto lo scenario
mediorientale. A dimostrarlo anche l’ennesima esternazione
«inqualificabile» del presidente iraniano al Congresso Onu sul
Razzismo, Durban II. Attacco del resto prevedibile e subdolo contro
l’Occidente, e per questo da non sottovalutare per gli effetti di
discredito che getta sulla stessa Onu. Ma il Medio Oriente non è
l’Iran e vive di realtà eterogenee e che si affacciano ai mercati
finanziari con grande entusiasmo.
VOLTARE PAGINA. L’Iraq, ad esempio, ha appena inaugurato un nuovo
sistema di trading elettronico in Borsa, per ora soltanto su 5 delle
91 società quotate. Dopo tre anni dedicati al rafforzamento
dell’impianto tecnologico, è finalmente così arrivato il debutto con
i nuovi terminali e l’opportunità in tempi molto brevi a essere
collegati ai circuiti internazionali, visto che a oggi gli
investitori esteri sono presenti per una quota assai ridotta dei
volumi.
Chi invece deve ringraziare un impianto organizzativo già ben rodato
è la Borsa pakistana , al quarto posto nella classifica delle Top10
tra le principali Borse mondiali, che sfiora un 30% di performance
da inizio anno e riprende la corsa verso i massimi toccati proprio
un anno fa. Gli aiuti del Fondo monetario internazionale per 7,6
miliardi di dollari, unitamente a quelli dei «donors», per circa 15
miliardi di dollari, per la lotta contro Al Qaeda e gli altri gruppi
militanti fondamentalisti operanti nel Paese sono ingenti, ma il
governo di Islamabad deve ancora dimostrare il giusto impegno nelle
riforme strutturali e nella lotta al terrorismo che si richiede. Si
tratta in ogni caso di una montagna di soldi per arrivare a
ricostruirsi un ruolo cruciale nell’area, forte ovviamente delle
dotazioni belliche e del supporto americano.
A completare il quadro troviamo gli Emirati, che serrano le fila
recuperando credito dopo i tentennamenti di Dubai sulla bolla
immobiliare locale, rientrata grazie all’intervento di Abu Dhabi.
Così gli investimenti della Dubai World, la General Electric del
Medio Oriente, sono ripresi e adesso si estendono a livello globale,
mentre in generale gli investitori del Golfo Persico si organizzano
raccogliendo oltre 10 miliardi di dollari per lanciare una nuova
banca islamica, la Istikhlaf Bank, che verrà quotata prossimamente
alla Borsa di Bahrain.
D’altronde, in soli tre mesi, il boom delle Ipo in Medio Oriente ha
raggiunto il totale dei volumi di tutto il 2008. In particolare,
l’Arabia Saudita torna a cavalcare il potenziamento della finanza
islamica a fianco degli altri Paesi islamici e lanciando un ponte
verso l’Asia, in specifico verso Indonesia e Malesia, come ha
dimostrato il successo della recente emissione sovrana «sukuk».
Insomma, la rincorsa al sorpasso asiatico è iniziata ma nel prossimo
meeting della Lega araba un monito severo all’Iran diventerà
cruciale per gli equilibri dell’intera area mediorientale. Anche
perché la differenza di razza è diventata la nuova arma politica,
dopo le armi e il petrolio, sicuramente la più subdola e
inaccettabile in quanto mina le fondamenta della convivenza civile e
poco ha a che fare con un sano e virtuoso sviluppo economico sociale
che dovrebbe guidare l’uscita dalla crisi.
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Fonte
- Borsa&Finanza
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Winterkorn (Vw):
«Resteranno solo 10 grandi case automobilistiche. Spero che Fiat
sopravviverà»
29 aprile 2009
-
di Il
Sole24Ore ______________________________________________
Per il numero uno del gruppo
Volkswagen Martin Winterkorn tra 5-10 anni sopravvivranno nel
mondo più o meno una decina di gruppi automobilistici.
Globalmente, secondo Winterkorn, tra i produttori che resteranno
in vita nei prossimi 5-10 anni «avremo sicuramente un gruppo
francese, forse due, 2-3 gruppi di tedeschi, in Giappone
sicuramente ci saranno Toyota e la Honda e altri in Corea e
Stati Uniti». E tra i sopravvissuti l'amministratore delegato
della casa di Wolfsburg si augura che ci sia anche il gruppo
Fiat.
«Spero che anche l'Italia continui ad avere un gruppo. Sarebbe
un peccato per l'Europa - ha detto in occasione della consegna
del premio 'World Top Manager 2008' di InterAutoNews - se la
nazione automobilistica Italia non avesse un gruppo proprio. Io
ne sarei veramente colpito perché in Italia si costruiscono
ancora oggi molte bellissime automobili».
«Se Marchionne – ha proseguito il numero uno di Vw - si unirà
con Chrysler e forse con Opel gli auguro buona fortuna, però non
sarà un compito facile. Non so se riuscirà. Credo che con questa
operazione Marchionne - ha proseguito il numero uno della casa
di Wolfsburg - stia cercando di assicurare un futuro alla Fiat
e, tramite una crescita dei volumi, ottenere un taglio dei
costi. Strategia in linea con la sua analisi, che io condivido,
che un'azienda automobilistica non potrà sopravvivere nei
prossimi anni se non produrrà almeno 5 milioni di veicoli. Ma
posso dire per esperienza - ha precisato Winterkorn - che
gestire e guidare con successo più marchi e ottenere sinergie è
una cosa veramente difficile».
Non basta la condivisione delle piattaforme o di componenti ma,
«per trovare le sinergie è molto importante che i marchi abbiano
anche la possibilità di svolgere una propria vita. Ecco perché -
ha spiegato il numero uno della casa di Wolfsburg - da noi ogni
marchio ha un proprio reparto di ricerca e sviluppo e un proprio
reparto di marketing, a cominciare dalla Lamborghini».
Martin Winterkorn, sempre nell'ambito della consegna del premio
World Top Manager 2008 del mensile InterAutoNews, ha
puntualizzato anche sulla questione Opel. «La Opel per
sopravvivere ha urgenza di un partner industriale che investa,
che potrebbe essere la Fiat o la Magna, ma sicuramente avrà
bisogno anche di continuare ad avere accesso alla tecnologia Gm».
Lo ha detto in occasione l'amministratore delegato del gruppo
Volkswagen Martin Winterkorn. Il numero uno della casa di
Wolfsburg ha spiegato che «i veicoli venduti da Opel si basano
su tecnologie sviluppate sì in Opel ma anche sviluppate
all'interno di altre aziende che fanno parte del gruppo Gm.
Quindi - ha proseguito Winterkorn - tagliando questo cordone
ombelicale sicuramente Opel avrà difficoltà nel sopravvivere».
Infine, il numero uno del gruppo tedesco ha confermato che Luca
De Meo, ex Marchionne Boys responsabile marketing del gruppo
Fiat e responsabile di Alfa Romeo e Abarth, uscito dal Lingotto
lo scorso gennaio, approderà nel gruppo Volkswagen. «Luca De Meo,
con cui abbiamo avuto colloqui intensi anche alla presenza di
Walter De Silva (direttore design del gruppo Volkswagen),
approderà in Volkswagen - ha precisato ai giurati Winterkorn -
perché riteniamo che sia uno dei migliori products marketing
manager del mondo e quindi è perfettamente calzante per
Volkswagen».
Fonte
- Il Sole24Ore
Con Bank of America
arriva il conto della crisi bancaria
29 aprile 2009
-
di Mario Margiocco ______________________________________________
Oggi gli azionisti di Bank of
America decidono la sorte dell'amministratore delegato.
Costretto ad avallare a fine 2008 l'acquisto della disastrata
Merrill Lynch in nome dei superiori interessi della nazione, Ken
Lewis potrebbe perdere il posto. Saggiamente condotta al tempo
dell'orgia da derivati, abs e cdo, Bank of America è il gigante
di Charlotte, North Carolina, sorto nel 98 quando la Nations
Bank acquistò Bank of America - base storica a San Francisco - e
ne assunse il nome. Purtroppo due acquisizioni legate alla
crisi, quella del gigante dei mutui Countrywide ad agosto e
quella, molto sollecitata dalla Fed e dal Tesoro, di Merrill
Lynch a settembre, hanno messo BoA nei guai. I 45 miliardi già
versati di aiuti da parte di Washington non bastano a ridurre le
perdite a dimensioni accettabili, perdite causate soprattutto da
una Merrill Lynch più disastrata di quanto si pensasse.
Andrew Cuomo, il procuratore generale dello Stato di New York,
ha costretto Lewis a raccontare come andarono le cose a fine
2008, quando il passaggio di Merrill Lynch, annunciato a
settembre e che sarà formalizzato a gennaio, divenne chiaramente
troppo oneroso, date le perdite molto più alte del previsto. Una
clausola contrattuale poteva consentire di tirarsi indietro.
Lewis ha raccontato che Henry Paulson, ministro del Tesoro di
George W. Bush ancora in carica, gli annunciò che in caso di
rifiuto sarebbe stato licenziato da Ben Bernanke, presidente
della Federal reserve. e gli ordinò di stare zitto. Quella che
era la migliore grande banca americana si trova così ora nella
stessa categoria di Citigroup, il gigante disastrato.
Gli azionisti sono furibondi per le perdite subite sui mercati e
per non essere stati informati del disastro che l'operazione
Merrill Lynch avrebbe causato. Il caso BofA tuttavia è
interessante perché pone ormai sul tavolo, e molto chiaramente,
il nodo del "chi paga" nella crisi bancaria e finanziaria
americana, un nodo che anche in Europa non sarà eludibile. È
chiaro infatti che addossare tutti i costi al contribuente sarà
impossibile. Gli azionisti sono già di fatto azzerati, e lo
saranno definitivamente quando arriveranno gli aumenti di
capitale, con la distribuzione di azioni ordinarie
presumibilmente al Tesoro. Ma anche gli obbligazionisti saranno
chiamati a sopportare parte delle pardite. Le teste di Ken Lewis
e dei suoi colleghi del consiglio di amministrazione, se
finiranno sotto la ghigliottina dell'azionariato furente, sono
solo le prime a cadere.
Fonte
- Il Sole24Ore
STRESS TEST:
ALERT, 6 BANCHE USA DEVONO ESSERE RICAPITALIZZATE
29 Aprile 2009 16:09 NEW YORK
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di APCOM ______________________________________________
In una lista totale di 19 grandi
istituti di credito a rischio ci sono Bank of America e
Citigroup. Atteso un incontro in settimana tra Bernanke (Fed),
Geithner (Tesoro) e gli esponenti delle autorita' di controllo.
Almeno sei delle 19 principali banche statunitensi avrebbero
bisogno di un aumento di capitale, secondo i risultati
preliminari degli stress test condotti dal governo. Lo
riferiscono a Bloomberg persone informate sui fatti. Se e' vero
che alcuni degli istituti potrebbero aver bisogno di iniezioni
di capitale da parte del governo, fanno sapere sempre le fonti,
la maggior parte dei finanziamenti dovrebbe tuttavia arrivare
dalla conversione di azioni privilegiate in azioni comuni.
La Federal Reserve al momento sta ricevendo le obiezioni delle
banche interessate, tra le quali figurano Citigroup e Bank of
America, i due istituti che secondo le autorita' di controllo
più avrebbero bisogno di un cuscinetto contro eventuali perdite.
Optando per la soluzione della conversione di azioni, piuttosto
che per il ricorso all'assistenza federale, il governo
consentira' alle banche di aumentare le risorse di capitale
senza rischiare di attirarsi critiche simili a quelle che sono
piovute addosso a Wall Street e al Congresso dopo i dispendiosi
piani di salvataggio del passato.
Il rischio è però che, oltre alla diluizione delle quote dei
soci azionisti, le misure intraprese dal governo non appaiano
abbastanza decise. I risultati definitivi dei test dovrebbero
essere pubblicati la prossima settimana. Il Tesoro e le agenzie
che stanno conducendo le analisi continuano a studiare quali e
quante informazioni rendere pubbliche.
Il presidente della Fed Ben Bernanke, il segretario del Tesoro
Timothy Geithner e altri esponenti delle autorità di controllo
dovrebbero tenere un incontro in settimana per discutere proprio
degli stress test. Oltre a Bank of America e Citigroup, anche
alcune banche regionali potrebbero aver bisogno di un aumento di
capitale, secondo quanto riferito da alcuni analisti. Tra
queste, secondo uno studio di Morgan Stanley del 24 aprile
scorso, le piu' papabili sarebbero SunTrust Banks, KeyCorp e
Regions Financial.
Fonte
- APCOM
La Ue fissa i paletti
contro gli hedge fund
30 Aprile 2009 13:01
-
di Miaeconomia ______________________________________________
SVOLTA ATTESA - Dopo una lunga
maratona negoziale, Bruxelles ha trovato l'intesa anche sulla
regolamentazione dei bonus e dei «paracadute»
BRUXELLES - «È il primo tentativo al mondo di creare una cornice
giuridica complessiva per la regolamentazione diretta e la
supervisione del settore dei fondi alternativi». Così, con una
punta di enfasi, il commissario Ue al Mercato interno, Charlie
Mc Creevy, ha presentato ieri la proposta di direttiva per
vigilare in Europa sulla gestione degli hedge fund con oltre 100
milioni di portafoglio, presentata assieme a una raccomandazione
per limitare bonus eccessivi e paracadute dorati ai manager.
E così proprio McCreevy, che in passato si era espresso contro
la regolamentazione degli hedge fund, considerandoli non
all'origine dell'attuale crisi, si è trovato a fare da
battistrada sulle piste indicate dal G-20 per aumentare la
vigilanza sulla gestione dei fondi speculativi. «Tutti i membri
del G-20 – ha riconosciuto McCreevy – si sono espressi a favore
di sottoporre tutti gli elementi dei mercati finanziari ad
appropriata regolamentazione». Lo stesso commissario ha ammesso
la difficoltà di muoversi su questo terreno, visto che c'è già
«chi ci dice che ci siamo spinti troppo in là e chi ritiene che
non ci stiamo muovendo abbastanza». In ogni caso spetterà a
Consiglio Ue ed Europarlamento trovare un punto d'equilibrio nei
prossimi mesi.
Dopo un acceso dibattito, prolungatosi per ore tra i capi di
gabinetto della Commissione europea, nella proposta finale è
stata abbassata la soglia per l'obbligo di vigilanza sui gestori
di hedge funds, facendola scattare sui fondi con 100 milioni di
portafoglio, rispetto ai 250 milioni della bozza iniziale (vedi
Il Sole 24 Ore di martedì 28 aprile), e includendo tutti i fondi
che facciano uso di leverage. In base alle stime di Bruxelles,
rientrano nel raggio d'azione della direttiva circa il 30% dei
manager di hedge fund, che gestiscono circa il 90% delle
attività di fondi domiciliati in Europa. Una soglia più elevata,
di 500 milioni, sarà applicata ai fondi di private equity che
vincolano gli investitori per cinque anni.
Al di sotto delle soglie, Mc Creevy ha spiegato che le regole
imporranno che «tutti i gestori, così come i fondi da loro
gestiti, vengano notificati alle autorità», che «controlli
stretti vengano attuati sui depositari di asset e sugli agenti
che fanno valutazioni». Inoltre ai gestori verrà chiesto di dare
regolarmente informazioni complete ai supervisori. Al bastone
verrà accompagnata la "carota" di un passaporto europeo che
permetterà agli hedge fund domiciliati in Paesi terzi anche off
shore che si registrano e si adeguano agli standard europei di
operare in tutto il Vecchio Continente. Le regole sui fondi
extra-Ue scatteranno però tre anni dopo l'entrata in vigore del
resto della direttiva (prevista nel 2011), perciò verosimilmente
nel 2014. Diverse le prime valutazioni dei maggiori gruppi all'Eruoparlamento:
la proposta sugli hedge fund «va nella giusta direzione» secondo
il popolare francese Jean Paul Gauzés, mentre «manca
d'ambizione» per il tedesco Martin Schulz, capogruppo dei
socialisti. «Preoccupazione» è stata espressa anche dall'Aifi,
associazione italiana del private equity, per una normativa che
«potrebbe danneggiare gravemente lo sviluppo competitivo di
lungo termine del settore».
La Commissione Ue ha dato anche il via libera alla
raccomandazione che invita gli Stati europei a dare l'atteso
giro di vite sui cosiddetti "paracadute dorati" dei manager
delle società quotate. Il testo varato da Bruxelles prevede di
fissare un tetto alle liquidazioni dei manager (massimo di due
anni della parte fissa della retribuzione), negando il diritto
alla buonuscita in caso di fallimento della società. Nella
raccomandazione si suggerisce anche di legare la parte variabile
della retribuzione ai risultati effettivamente conseguiti. «La
remunerazione dei manager deve essere necessariamente legata ai
risultati conseguiti, e non un premio al fallimento» ha
osservato McCreevy, per il quale nel campo delle politiche
retributive è più che mai necessario «promuovere una sana
gestione del rischio». Evitando quei tipi di retribuzione che
incentivano strategie miopi da parte dei manager orientate sul
breve periodo, a scapito delle prospettive di lunga durata delle
aziende.
LA PROPOSTA
Sugli hedge
La proposta di direttiva prevede una vigilanza in Europa sulla
gestione degli hedge fund con oltre 100 milioni in portafoglio.
La bozza iniziale aveva fissato il paletto a 250 milioni, ma poi
la soglia è stata abbassata: secondo le stime di Bruxelles
rientrano nel raggio d'azione della direttiva circa il 30% dei
manager di hedge fund che gestiscono il 90% delle attività di
fondi domiciliati in Europa.
I paracadute dorati
La Commissione ha dato via libera a una raccomandazione che
invita gli Stati europei a un giro di vite sulla remunerazione
dei manager.
Fonte
- Miaeconomia
FIAT: MARCHIONNE,
MOMENTO STORICO PER L'INDUSTRIA ITALIANA
30 Aprile 2009 20:03 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
Dopo la firma sull'accordo con
Chrysler, "il Lingotto sara' piu' forte e internazionale, in
grado di competere sui mercati di tutto il mondo". "Un
importante passo avanti per il futuro".
"Credo che l`operazione appena conclusa rappresenti per la Fiat
e per tutta l`industria italiana un momento storico". Così
l'amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne commenta
l'alleanza con Crhysler.
"E` un importante passo avanti nell`impegno di gettare nuove e
solide basi per il futuro. Oggi è anche un giorno di grande
soddisfazione per tutte le donne e gli uomini della Fiat. Il
fatto che il know-how della nostra azienda sia stato apprezzato
dai più alti livelli dei Governi americano e canadese - che
desidero ringraziare a nome dell`intero management del nostro
Gruppo - è per tutti noi un forte stimolo per il lavoro che ci
attende. Siamo certi che da questa alleanza uscirà una Fiat più
forte e più internazionale, con maggiore capacità di competere
sui mercati di tutto il mondo".
"Quest`operazione - ha commentato Marchionne - rappresenta una
soluzione costruttiva e importante ai problemi che da alcuni
anni affliggono non soltanto Chrysler ma l'intera industria
automobilistica mondiale. L`alleanza permetterà di mettere
insieme la tecnologia Fiat, che è tra le più innovative e
avanzate al mondo, le sue piattaforme e i suoi propulsori per
vetture piccole e medie nonché la sua vasta rete di
distribuzione in America Latina e in Europa con il grande
patrimonio della Chrysler, che ha una forte presenza in Nord
America e lavoratori pieni di talento e di impegno".
Tutto ciò - ha osservato Marchionne - darà vita ad "una nuova
forte casa automobilistica e aiuterà a preservare, insieme ai
posti di lavoro, un`industria manifatturiera di importanza
cruciale per le economie statunitense e canadese".
"Da quando abbiamo iniziato le trattative con Chrysler quasi un
anno fa, il nostro obiettivo è sempre stato quello di
valorizzare i punti forti di entrambe le aziende per ottenere i
volumi, le efficienze e i risparmi necessari per creare due
costruttori più forti, in grado di competere in modo più
efficace a livello globale.
Quest'operazione - ha aggiunto - è un passo importante verso il
raggiungimento di questo traguardo. Il nostro lavoro è appena
iniziato. Insieme ai nostri nuovi partner della Chrysler
lavoreremo per valorizzare l`enorme potenziale di quest'alleanza
e per reintrodurre sul mercato nordamericano alcuni dei nostri
marchi più famosi, inclusa l'Alfa Romeo e la Cinquecento, che ha
vinto numerosi premi".
Non saremmo qui oggi ad annunciare quest'accordo - ha osservato
Marchionne - se non fosse stato per la costante dedizione,
l'impegno e la creatività della Task Force automobilistica
statunitense e dei loro colleghi canadesi. Mentre cercavamo di
risolvere le difficoltà e superare gli innumerevoli ostacoli
tipici di operazioni di questo genere, non hanno mai smesso di
avere fiducia nel progetto".
Grazie a quest'operazione, "hanno posto le basi per il ritorno
sul mercato automobilistico di una Chrysler forte e stabile".
Anche le organizzazioni sindacali di entrambi i Paesi "hanno
dato un apporto significativo, accettando una riduzione dei loro
benefit e una partecipazione azionaria in cambio di alcune delle
loro richieste. Vorrei ringraziare - ha detto l'ad della Fiat -
i responsabili della United Auto Workers e della Canadian Auto
Workers per tutto quello che hanno fatto e per la loro
costruttiva partecipazione alla nostra sfida comune, che è
quella di ricreare una grande Chrysler".
"Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, passerò molto
tempo ad incontrare i lavoratori della Chrysler e visitare i
suoi stabilimenti. Il nostro accordo è necessariamente soggetto
alle procedure legali statunitensi che dureranno alcune
settimane; nel frattempo Chrysler - ha aggiunto - si preparerà a
ritornare in tempi brevi un costruttore affidabile e
competitivo. Sono convinto che la società sia in grado di
affrontare le sfide che le attuali difficili condizioni di
mercato pongono ricorrendo al proprio spirito innovativo,
facendo della qualità il punto di forza della propria gamma di
prodotto e ascoltando i propri clienti per dar loro le
automobili che desiderano.
Questo è il modello che abbiamo rigorosamente seguito in Fiat
negli ultimi anni e sono convinto che possa essere adottato
anche in questo caso per scrivere un nuovo capitolo nella storia
della Chrysler".
Fonte
- APCOM
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