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Alert:
seconda crisi bancaria in vista
03 Maggio 2009 19:58 MILANO - di
*Alessandro
Fugnoli
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli,
strategist di Abaxbank
________________________________________
La Spagnola
uccise Max Weber nel giugno del 1920. Weber fu una delle ultime
vittime. La pandemia cessò infatti in agosto. Egon Schiele fu invece
tra i primi ad andarsene ventottenne, nell’ottobre del 1918, tre
giorni dopo la moglie Edith. La Spagnola era partita in marzo come
una normale influenza, ma all’improvviso in agosto varianti
estremamente aggressive del virus erano comparse simultaneamente in
Bretagna, in Africa e a Boston. Pochi giorni dopo Schiele se
ne andò Apollinaire e la settimana dopo toccò all’Edmond Rostand che
aveva messo in versi la vita di Cyrano de Bergerac.
Insieme a loro finirono i loro giorni per la Spagnola il presidente
del Brasile, il primo ministro del Sud Africa e la regina delle
isole Tonga. Roosevelt riuscì invece a guarire e a cambiare il corso
della storia negli anni Trenta e Quaranta.
Le pandemie, come le bolle
finanziarie, hanno tempi lunghi di formazione e, una volta
scoppiate, procedono a ondate e si dispiegano su tempi lunghi. La
Spagnola del 1918-1920 e la Grande Depressione del 1929-1932 sono i
perfetti benchmark della catastrofe sanitaria ed economica dell’era
contemporanea. Da decenni ogni crisi economica viene
paragonata al ’29 e ogni focolaio pandemico al ’18. Per 24 ore, tra
lunedì e martedì, il mondo ha pensato all’ipotesi di un ’29 e di un
’18 congiunti. Di per sé, scrive Willem Buiter, una pandemia
costituisce uno shock negativo da offerta (la forza lavoro si riduce
per malattia o morte) e da domanda (malati e morti consumano meno).
La depressione, dal canto suo, è uno shock da domanda.
L’ipotesi di un ’29 e di un ’18 congiunti ha fatto perdere alle
borse il 3 per cento, cioè niente. Il fatto è stato ancora più
notevole se si considera che i mercati venivano da sette settimane
di rialzo senza interruzioni e da un più 30 per cento dai minimi del
9 marzo. Se il profilarsi improvviso di una pandemia non viene preso
come pretesto per una correzione bisogna allora aspettare un
asteroide lanciato verso la Terra, ma ne è appena passato uno in
febbraio e se ne è andato.
L’impressionante robustezza
dei mercati si nutre ovviamente di sé stessa, ma non solo. Il Pil
americano del primo trimestre mostra che la recessione (o quanto
meno la sua parte successiva a novembre) non è colpa dei consumatori
(più 2.2 per cento i consumi) ma delle aziende che non producono
perché vogliono prima eliminare le scorte in eccesso, anche perché
le banche non gliele finanziano (meno 3 per cento il contributo
negativo delle scorte).
Oltre alla forza dei consumi
americani i mercati festeggiano il brusco rallentamento della
contrazione del Pil europeo che si profila per il secondo trimestre
e la brillante riaccelerazione cinese in corso da inizio marzo.
Oltre a questo,
naturalmente, ci sono gli utili sorprendentemente positivi del primo
trimestre, dovuti in parte a una contabilità con gli occhiali rosa
da parte delle banche ma anche ai risultati delle feroci
ristrutturazioni nel resto dell’economia. Aggiungiamo infine l’esito
non traumatico dello stress test sulle banche americane, severo quel
tanto che basta a non far sospettare la promozione politica per
tutti, e abbiamo gli ingredienti per indurre i mercati a
pensare che il peggio è veramente finito su tutta la linea e che da
qui in avanti si camminerà in un giardino fiorito e profumato.
Perfino i produttori di automobili, sgravati di debiti previdenziali
e obbligazionari e debitamente incentivati, sembrano avere davanti
un futuro luminoso.
C’è naturalmente una
versione più mesta di quanto sta accadendo. Quello che si profila è
semplicemente un miniciclo delle scorte. In questi quattro
mesi passati le si è ridotte con furore, ma da qui in avanti la
produzione dovrà riprendere non solo per soddisfare i consumi
rimasti stabili (o addirittura cresciuti come in America) ma anche
per ricostituire un minimo fisiologico di scorte. Attenzione, però.
A consumi stabili (e con la disoccupazione ancora in crescita per
qualche mese è difficile che risalgano molto) corrisponderà prima o
poi una produzione di nuovo stabile (dopo la ripresina da scorte).
Gli investimenti produttivi delle imprese, dal canto loro,
rimarranno a lungo depressi.
Quanto alla spesa pubblica,
fanno notare i più mesti, agli aumenti a livello federale (in
America) o statale (nel resto del mondo) corrisponderanno tagli
ulteriori nella spesa degli enti locali (State and Local Finances:
Delaying the Inevitable, Goldman Sachs, 17 aprile). Il
mercato immobiliare, d’altronde, sta vivendo una stabilizzazione più
apparente che reale dovuta alla moratoria sui pignoramenti, che sta
per scadere.
Di mestizia in mestizia si
può notare che il sentiment ormai compattamente rialzista non è di
per sé un elemento favorevole. Che il sentiment sia ormai tutto da
una parte lo prova clamorosamente la lettura che si dà dei movimenti
del petrolio. Quando scende ci si rallegra per lo stimolo che darà
ai consumi e quando sale ci si rallegra ancora di più perché è la
prova della ripresa della domanda.
Peccato che la domanda
mondiale finale di greggio stia continuando inesorabilmente a
scendere. In America, in Europa e in Asia. E non può che
essere così in un mondo che sta ancora contraendosi.
Se il prezzo del greggio (e
quello del rame) salgono è perché la Cina, intelligentemente, sta
usando una parte dei suoi dollari per accumulare scorte. Le
altre materie prime, quelle su cui la Cina non interviene, sono più
in basso che a inizio anno.
Tutti questi mesti
ragionamenti avranno un giorno il loro peso. Per il momento,
tuttavia, la carica dei bisonti che devono ricoprire gli short e
quella ancora più travolgente dei sottopesati che devono riportarsi
in pari si saldano con quella in partenza di quanti ritengono che
ora o mai più sia il momento per mettersi strategicamente lunghi per
i prossimi anni di bull market.
Fra qualche tempo, probabilmente presto, ai bisonti famelici di
azioni verranno date in pasto gigantesche razioni di aumenti di
capitale, in particolare da parte delle banche. La digestione di
questi aumenti (un trilione abbondante solo per le banche americane,
altrettanto per l’Europa) rallenterà la corsa, ma perché gli aumenti
abbiano inizio è bene che il recupero azionario faccia ancora un po’
di strada.
Nel breve solo un salto di
qualità della pandemia può arrestare le borse.
Quello che vediamo,
influenza a parte, è un movimento a w, con un rialzo ancora per
qualche settimana e un ritracciamento estivo, seguito da un rialzo
più lento più avanti. Questa w minuscola di borsa potrebbe essere
parte di una W maiuscola più ampia di ciclo economico. Con la tarda
estate 2009 come punto d’inversione, la crescita potrebbe assumere
segno positivo fino a tutto il 2010 (anche in vista delle
elezioni americane di mid term) con l’aiuto di un altro pacchetto
fiscale da varare a fine anno o, in sua assenza, di ulteriori
monetizzazioni di debito da parte della Fed.
Il 2011 o il 2012 potrebbero
invece vedere una nuova decelerazione. Le cause potrebbero essere
due. Della prima si parla molto, moltissimo
(iperventilazione, la chiama Jan Hatzius), ed è la possibile
impennata dell’inflazione,
unita magari a un impennata dei tassi reali, che costringerebbe la
Fed a una brusca frenata. Il tema, dicevamo, è già bollente
adesso, se si pensa che la Fed, nell'ultimo comunicato, ha dovuto
mandare un messaggio in codice ai mercati obbligazionari per
rassicurarli (il messaggio è che gli acquisti programmati di titoli
rimarranno quelli già annunciati, che in traduzione significa che la
Fed ha già finito di premere sempre di più sull’acceleratore ed è
anzi molto sensibile al grido di dolore che si leva dalla parte
lunga della curva governativa).
A noi sembra che al momento il problema sia sopravvalutato. La Fed
ogni tanto dà qualche soddisfazione ai bond vigilantes e mostra di
essere capace di frenare all’occorrenza. L’ha fatto in gennaio
vendendo la carta commerciale accumulata e contraendo il suo
bilancio (distruggendo base monetaria) e lo fa adesso. Saremo
maliziosi ma non possiamo fare a meno di notare che gennaio e aprile
sono stati periodi di bull market in cui i mercati hanno cominciato
a mettersi in testa che il peggio era alle spalle. Non appena questa
sensazione di euforia sarà svanita, dovesse occorrere, la Fed
riprenderà a creare moneta.
Il fatto che il problema sia sopravvalutato adesso non
significa comunque che non si porrà sul serio
fra un paio d’anni. Insieme a un altro, del
quale invece si parla pochissimo, se non per
niente. E’
l’ipotesi di una seconda crisi bancaria,
avanzata da Adam Posen. Posen non è uno
qualsiasi, è un’eminenza grigia ex Fed che fa da
consulente di molte tra le maggiori banche
centrali.
La sua
idea è che quello che si sta facendo è una
sistemazione raffazzonata dell’attivo tossico
delle banche, accompagnata (e qui viene il
peggio) da una giapponesizzazione dei
comportamenti per quanto riguarda gli impieghi
tradizionali. Le banche giapponesi, come
è noto, continuarono per anni a rifinanziare le
imprese malandate per non fare emergere perdite
a bilancio ed evitarono d’altra parte con cura
di erogare credito fresco alle imprese sane. Con
il risultato, alla fine, di un deterioramento
continuo dell’attivo, con necessità finale di
nazionalizzazioni complete.
Al di qua di queste sfide terribilmente
impegnative per i prossimi anni, suggeriamo di
godere di questa fase irripetibile in cui anche
le notizie macro negative, alla facile
condizione che non siano ancora più negative di
quelle dei mesi appena trascorsi, diventano
positive agli occhi dei mercati. Un giorno,
quando le valutazioni saranno più generose di
adesso, la vulnerabilità dei mercati sarà
maggiore, ma ai livelli attuali, rischiando, non
si rischia poi così tanto.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero
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Il
rally delle illusioni.
L'euforia non si deve fermare
Lunedì 4 Maggio 2009, 13:14 - di
Pierluigi Gerbino - Borsaprof
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I mercati azionari mondiali hanno archiviato il mese
di Aprile estendendo il rimbalzo iniziato il 10 marzo ben oltre le
legittime attese di correzione tecnica.
Ci ritroviamo ora a vivere un rimbalzo che sembra quasi invincibile:
quasi due mesi di salita che ha sostanzialmente riportato i
principali mercati ad un passo dai valori di inizio anno,
recuperando quasi tutta la devastazione provocata dal panico di
gennaio e febbraio.
Che quello di marzo sia stato un minimo di medio periodo è ormai
chiaro. Assai meno chiaro è quel che ora potrà succedere.
Insomma, molti investitori di medio periodo, che non hanno
approfittato del rimbalzo per prudenza, si stanno chiedendo: siamo
già al punto di svolta che ci permetta di ipotizzare la morte
dell'orso ed il ritorno stabile del ciclo rialzista? In tal caso che
Toro (NYSE: TTC - notizie) stiamo cavalcando? Un torello poco
muscoloso oppure un animale possente in grado di riportarci ai fasti
di due anni fa?
Qualcun altro si pone la domanda che ciclicamente sentiamo: come mai
le borse salgono anche quando arrivano dati brutti? Davvero possiamo
credere che la crisi, che due mesi fa sembrava apocalittica, ora sia
passata?
Non sono certo in grado di rispondere con certezze a tutto ciò, però
proverei a mettere un po' in ordine quel che si sta affastellando
sui media, ovviamente secondo il mio punto di vista.
Partiamo dal dato macroeconomico, dai fondamentali.
Anche io sono stupito dalla rapidità in cui le banche centrali (in
modo cauto), i governanti (in modo più convinto) e gli analisti
prezzolati delle banche d'affari (in modo spudorato) hanno mutato
opinione nel breve volgere di un mese.
Quella crisi che a marzo tutti paragonavano con la Grande
Depressione e che, secondo i più, avrebbe dovuto accompagnarci per
tutto il 2009 e forse anche per il 2010, sembra passata d'incanto.
Il drastico mutamento di opinioni non deriva da dati reali, ma da
alcuni miglioramenti che si intravvedono negli indicatori di
fiducia.
I dati reali pervenuti finora non lasciano spazio a grandi
illusioni: il PIL USA è stimato ad un tasso di caduta del 6,1%
annualizzato; la stima più recente fatta del PIL tedesco del 2009
parla anch'essa di un -6%. Nessun barlume di positività viene dal
mercato del lavoro USA, che continua a perdere ogni mese più di
600.000 posti di lavoro.
Gli unici dati migliori delle attese sono arrivati dagli indici di
fiducia dei consumatori e dagli indici dei manager (ISM e PMI), che
hanno fermato la caduta e sono rimbalzati. Va considerato comunque
che la fiducia registra comunque ancora valori intorno a 60, ben
lontani dai valori superiori a 100 che si vedevano nel 2007. Anche
ISM e PMI si sono riportati intorno a 40, che è ancora ben lontano
dal valore 50 che separa la recessione dalla crescita.
Sembra quindi corretto, come lucidamente ha fatto Draghi, parlare di
rallentamento della caduta delle economie più importanti, non di
ripresa. Un rallentamento della recessione potrebbe far ipotizzare
una futura stabilizzazione, ma pare prematuro già scommettere
sull'inversione congiunturale. Eppure sembra che i mercati lo
facciano.
O scambiano una rondine con la primavera, sbagliando, oppure stanno
correggendo l'eccessivo pessimismo che li ha colpiti ad inizio anno.
Insomma, stanno sbagliando oppure hanno sbagliato prima. Questo
perché le inversioni a V sono un evento molto raro e si giustificano
con qualche radicale mutamento di prospettiva, che dai dati attuali
non si vede. Non dimentichiamo che la caduta produttiva dell'ultimo
semestre (da ottobre 2008 a marzo 2009) ha avuto una portata
eccezionale, un'intensità mai vista nel dopoguerra. Pertanto una
stabilizzazione non è certo quel che basta per risollevare le sorti
dell'economia mondiale.
Gli ottimisti invece non mancano. Tutti però, non potendo affermare
che ci sono dati di ripresa, si aggrappano alle mutate aspettative.
Allora affermano che la crisi è finita poiché il G20 ha fatto vedere
che i governi vogliono agire per combattere la crisi, Obama nei suoi
100 giorni ha dato prova di coraggio ed abilità a stimolare i
consumi (unica voce che ha dato un contributo positivo al PIL USA
del 1° trimestre) e salvare le banche con massicci interventi. E
siccome stiamo vivendo prevalentemente una crisi di fiducia, tornata
la fiducia, finita la crisi.
A me pare che si voglia mettere il carro un po' troppo davanti ai
buoi.
Infatti, se andiamo a vedere bene, i risultati del G20 sono stati
sostanzialmente un elenco di pie intenzioni dei governi: stanziare
altri 1000 miliardi, combattere i paradisi fiscali, regolamentare i
fondi hedge, smetterla con i bonus ai manager bancari. Qualcuno ha
visto finora attuare anche solo una di queste buone intenzioni? Io
no. Anzi, il fatto che i mercati finanziari si siano un po' ripresi
sembra aver ringalluzzito le lobbies dello status quo ed accantonato
l'urgenza di provvedere, quasi che tutto si risolva da solo.
Obama poi si è rivelato maestro di illusionismo, dimostrando
un'inattesa (da me) capacità di prendere in giro l'America facendole
credere di salvarla.
Le imponenti misure messe in campo, con la creazione di una montagna
di debito, che bloccherà le aspettative di crescita futura, porterà
inflazione e svuoterà le tasche delle future generazioni, sono state
destinate in gran parte a sostenere l'attuale establishment
bancario, che si cerca di far uscire indenne dalla colossale truffa
perpetrata ai danni del mondo.
Qualche esempio lo abbiamo già visto in precedenti articoli. Ricordo
soltanto il piano salvabanche di Geithner, che regala alle banche la
possibilità di disfarsi di titoli tossici vendendoli ad enti
pubblici-privati in cui i guadagni finiscono ai privati ed i rischi
al bilancio pubblico.
Non da meno è stata la modifica alle regole contabili che ha
permesso alle banche di valorizzare i titoli tossici a loro
piacimento. Questa chicca, a cui io attribuisco gran parte del
merito del rialzo borsistico, ha permesso a tutte le principali
banche di presentare utili fantascientifici nelle trimestrali
presentate, proprio nei giorni in cui il FMI rivedeva al rialzo
oltre i 4.000 miliardi di dollari la stima del buco originato dai
titoli tossici. Ricordo che finora le perdite emerse sono state di
circa 1.300 miliardi. Se il FMI non sbaglia restano 2.700 miliardi
di polvere che è stata nascosta sotto il tappeto ed emergerà in
futuro. Ma non ora! Questo è quel che conta. Magari il ritorno della
fiducia farà il miracolo di far sparire la tossicità. Questa è la
speranza dei furbetti. Ed il mercato ci sta credendo, lanciandosi
nella speculazione rialzista sui bancari. E' bastato truccare il
termometro e tutti cominciano a credere che la febbre sia sparita.
L'altra presa in giro è l'Araba Fenice degli Stress Test sulle 19
principali banche USA. Non si riesce più a capire quando avremo i
dati ufficiali, dato che i tempi di pubblicazione vengono
posticipati ogni settimana. Tuttavia le anticipazioni che sono state
pubblicate su importanti giornali americani fanno temere che quella
che venne presentata come “l'operazione verità” per togliere ogni
dubbio sul sistema bancario USA, sia in realtà un'altra operazione
di intossicazione della realtà.
Innanzitutto il metodo usato presta il fianco alla critica di
eccessiva accondiscendenza. Si è esaminata la solidità delle banche
utilizzando due ipotesi: l'ipotesi di base prevede il PIL 2009 a -2%
e tasso di disoccupazione a 8,5%, mentre per il 2010 il PIL è visto
a +2,1% (non è un errore di stampa) e la disoccupazione a 8,8%. Si è
poi esaminata anche l'ipotesi peggiore: nel 2009 PIL a -3,3% e
disoccupazione a 8,9%, nel 2010 PIL a +0,5% e disoccupazione al
10,3%.
Si noti che la realtà ha già superato l'ipotesi avversa utilizzata.
Infatti il PIL viaggia a velocità negativa doppia rispetto
all'ipotesi peggiore e la disoccupazione è già a 8,5% a marzo e
cresce di circa 0,3-0,4% al mese.
Ebbene, nonostante ciò, pare dalle ultime indiscrezioni che ben 14
banche su 19 escano dallo stress test con la necessità di
ricapitalizzare, cioè siano sostanzialmente insolventi anche con i
parametri compiacenti della Federal Reserve. Che sarebbe successo se
si fossero usati parametri più realistici?
Eppure Geithner si è potuto permettere l'affermazione che ha fatto
schizzare le borse, secondo cui “la maggior parte delle banche USA
ha capitale in eccesso” rispetto alle necessità. Mente? Formalmente
no, in sostanza sì. Infatti le banche USA sono 1700 ma le 10 più
grandi contano per il 60% circa degli assets. Come ha fatto
acutamente notare il Nobel Krugman, basta che alcune delle più
grandi siano sottocapitalizzate, ma non lo siano molte tra le
piccole, per consentire l'affermazione di Geithner che nega la
realtà della sostanziale insolvenza del sistema.
Questione di fiducia…
Ed infatti un'altra bella affermazione di “faccia d'angelo” Geithner
è stata: il Governo non consentirà il fallimento di alcuna delle 19
banche sottoposte allo stress test.
Il che significa, in altre parole, che la lobby del “too big to fail”
ha vinto un'altra battaglia e che possiamo prepararci ad un'altra
scorpacciata di soldi pubblici per tenerla in vita. Ma anche che
quelle piccole possono tranquillamente fallire, in barba al
principio dell'uguaglianza di fronte alla legge e della libera
concorrenza, capisaldi del capitalismo.
Intanto, nonostante le notizie così belle, pare che la Casa Bianca
sia preoccupata di come comunicare i risultati al mercato, temendo
che le 14 banche in difficoltà vengano massacrate. Per questo
continua a rinviarne la pubblicazione.
Mi sento quindi di affermare che le regole della finanza e della
decenza sono state pesantemente truccate per ottenere quel che si
voleva, ovviamente per “il bene dell'umanità”: i mercati non
potevano collassare, ed allora si è iniettata una colossale dose di
droga informativa, per tentare di convincere il popolo dei
risparmiatori che è tutto finito e si potrà ricominciare come prima
a creare una bolla speculativa dopo l'altra.
A chi giova questo bluff? Sicuramente alla lobby finanziaria
americana, così ben “ammanicata” con il governo Obama, nonostante le
apparenze retoriche del Presidente che asseconda la rabbia popolare
contro i bonus dei manager, ma in pratica fa tutto quel che può (ed
anche quel che non si dovrebbe) pur di salvare lo status quo del
sistema bancario americano. La possibilità di far vedere il bianco
per il nero è l'estremo tentativo per cambiare il meno possibile
questo mondo marcio e tentare di distribuire ad altri le perdite
occulte.
Conviene anche ai governi, in particolare a quello americano. Obama
si è già svenato (per la precisione ha svenato i contribuenti
americani dei prossimi anni per combattere la crisi ed ha già
buttato oltre 1000 miliardi nel pozzo senza fondo delle perdite
bancarie. La prospettiva di doverne buttare un altro bel gruzzolo
per ricapitalizzare le banche con danaro pubblico non lo entusiasma.
Per cui se si riesce a pompare un po' i titoli bancari è possibile
che i prossimi e cospicui aumenti di capitale “post stress test”
vengano almeno in parte sottoscritti dai privati.
Conviene all'industria del risparmio gestito, che ha subito in
questi mesi la fuga del popolo dei risparmiatori, mentre chi non è
scappato è stato trattenuto a stento con la solita favoletta che
“nel lungo periodo i mercati salgono sempre”. Magari un cospicuo
rimbalzo consentirebbe di distribuire al popolo degli speculatori
dilettanti un bel po' di titoli a prezzi assai migliori di due mesi
fa, consentendo di scaricare i portafogli per riaccumulare dopo la
correzione.
Insomma, ci sono troppi interessi occulti dietro questo rialzo e
troppo pochi elementi oggettivi.
Il problema però è che quando si illude la gente, la disillusione
può portare alla delusione. E la delusione di questi tempi può
essere molto pericolosa. Per questo i mercati stanno salendo senza
consentire mai nemmeno la minima correzione. Così si costringono gli
inseguitori a salire a prezzi crescenti, alimentando il rally.
Inoltre si possono raggiungere livelli che preservino dagli effetti
negativi della futura presa di beneficio. Se si riuscirà ad impedire
che la correzione di questo rally si avvicini troppo ai minimi di
marzo, si dovrebbe aver buon gioco a convincere a comprare anche
coloro che non si fidano ancora ad entrare.
Quante probabilità ha questo bluff di risultare vincente?
Personalmente ritengo che nel lungo periodo ne abbia poche, poiché
il marcio delle banche non può essere nascosto all'infinito. Inoltre
il crollo del settore dell'edilizia commerciale, appena iniziato,
del business delle carte di credito, prossimo venturo, e la continua
emorragia di posti di lavoro aggiungeranno altri problemi “reali” a
quelli finanziari.
Ma nell'arco di qualche mese, se non si frappongono “incidenti di
percorso”, ci sono ampie possibilità che il “rally delle illusioni”
trascini i mercati. Un imprevisto che potrebbe rovinare i piani è
l'influenza suina, se il livello di allerta dell'OMS dovesse passare
a 6 (pandemia in atto). Però finora gli allarmi ed il livello 5 di
allerta (pandemia imminente) hanno fatto solamente il solletico
all'euforia del mercato.
Pertanto il cammino verso “quota mille” di SP500, arrivato a 2/3,
potrà ancora proseguire, specie se sarà intervallato ora da una
rapida correzione. Poi in autunno tutti i nodi verranno al pettine e
sapremo se la recessione è veramente finita o se invece il rialzo è
servito solo alle mani forti a distribuire la spazzatura al popolo a
prezzi migliori.
 |
Fonte
- Borsaprof
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Usa, le banche
ancora nel mirino
04/05/2009
-
di Miaeconomia ______________________________________________
La tensione sul settore
finanziario negli Usa sembra ancora lontana dall'alleggerirsi.
Da una parte continua lo stillicidio di banche che chiudono i
battenti. Nella lista piu’ recente delle banche in fallimento,
si segnala anche la Citizens Community Bank del New Jersey e la
America West Bank dello Utah, cosi’ il totale e’ arrivato a
quota 32 nei soli primi 4 mesi del 2009. In tutto il 2008 il
numero delle banche che hanno chiuso negli Stati Uniti e’ stato
di 25, in tutto il 2007 solo 3.
Il caso piu’ pesante – tra gli ultimi - quello della chiusura
della Silverton Bank, anche in questo caso l'istituto e' passato
sotto il controllo della Fdic (ovvero la Federal Deposit
Insurance Corp, l'agenzia di assicurazione dei depositi).
Come al solito la Fdic mettera' in piedi una banca "ponte" per
rilevare le attivita' di Silverton Bank, una importante banca di
Atlanta che puo' contare su 4,1 miliardi di dollari di asset e
3,3 miliardi depositi. L'agenzia stima che la transazione
costera' 1,3 miliardi di dollari. Intanto l'amministrazione
Obama ha annunciato il secondo rinvio dei risultati del
cosiddetto "stress test", sui 19 big finanziari degli Stati
Uniti.
La data e' stata spostata da lunedi' 4 maggio al 7 maggio. Gli
analisti ormai si aspettano che i risultati del test mostreranno
come una larga parte delle maggiori banche abbiano bisogno di un
nuovo aumento di capitale, tra cui anche Citigroup e Bank of
America. Secondo quanto stabilito, le banche che saranno
invitate ad aumentare il capitale, avranno 6 mesi per chiudere
l'operazione prima di essere costrette a chiedere aiuti pubblici
dal governo federale.
Uno dei motivi per cui si e' arrivati al secondo rinvio e'
dovuto al fatto che i vertici delle banche, viste in difficolta'
dal test, contestano i risultati del governo. In particolare il
disaccordo e’ incentrato sulla ampiezza delle possibili perdite
delle banche americane e la loro capacita’ di aumentare gli
utili nei prossimi mesi.
Fonte
-
Miaeconomia
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Caccia
al tesoro
04 Maggio 2009 23:39 MILANO - di
Fabrizio Guidoni
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Caccia al tesoro. La «mappa» dei mercati azionari
parla chiaro: le maggiori soddisfazioni vanno cercate adesso in Cina
e Brasile. E anche in India. Tre emergenti doc, che permettono di
coniare un nuovo acronimo: il Bic (perchè la Russia sta maluccio).
Armandosi, ovviamente, della dovuta pazienza. Perchè l’uscita dalla
crisi non è poi così scontata, almeno a breve termine, nonostante la
cavalcata dei listini azionari dal 9 marzo scorso.
Dunque un Etf sulla Borsa cinese non può mancare. I listini di
Shanghai e Shenzhen, già in rialzo di oltre il 30% da inizio anno,
si cibano di un’economia dai numeri impressionanti. Il Pil del
Dragone saleal ritmo del 6,1 per cento. Del resto la produzione
industriale, dopo la flessione di fine 2008, è aumentata del 5,1%
nel primo trimestre. E il premier Wen Jiabao continua a ripetere che
l’obiettivo di un Pil all’8% nel 2009 è a portata di mano.
Merita una crocetta anche il Brasile, ben rappresentato all’Etfplus
di Piazza Affari dagli Etf Db x-trackers Msci Brazil, dallo iShares
Brazil e dal Lyxor Brazil Ibovespa. Il motivo? L’economia carioca
(+1,27% nel 2008) tiene botta alla crisi. Inoltre, il Bovespa (+25%
nel 2009) offre anche un ricco dividendo (??). poi c’è l’Elefante.
Già, l’India. Già, l’India: come pensare alle Borse senza mettere
sul piatto il subcontinente (+18% da gennaio)? Il vestito può essere
quello dell’Etf Db x-trackers S&P/Cnx Nifty o del Lyxor Msci India,
per un’economia che offre una crescita del pil al 5,3%. Niente male.
SELETTIVITÀ. Certo, in tempi
di forte rally delle Borse non è facile decrittare i listini
azionari. Come insegna il proverbio: la marea alza tutte le barche.
Il rischio è un grande abbaglio, come altre crisi storiche
insegnano, a partire da quella del 1929-1933. Anche allora ci furono
rally strepitosi, ma illusori. Per questo, una road map sugli indici
deve fondarsi su almeno quattro indicatori: 1) analisi macro; 2)
analisi tecnica; 3) analisi fondamentale; 4) merito di credito.
Ovviamente, volendo puntare sui listini Emerging va messa in conto
una volatilità accentuata. Oltre al rischio cambio.
I NUOVISSIMI. Si può anche
osare di più: c’è sempre un emergente più emergente di un altro.
Così, spostando un poco il tiro, dall’India si può atterrare nel
Sudest asiatico. E il Vietnam è senz’altro il maggiore protagonista
tra le «nuovissime» economie in forte sviluppo. Altrettanto non va
trascurata una delle ex tigri asiatiche . Diciamo ex perchè ormai
sempre più la nozioe di paese emergente va stretta alla Corea del
Sud. Il Pil mostra infatti dinamiche simili ai Paesi del G7, anche
quello pro-capite ha compiuto passi da gigante, mentre l’indice
Kospi viagga al +16% nel 2009 e il p/e oscilla su quota 14. Quindi,
semaforo verde anche al benchmark Msci Korea.
E il grande Giappone, seconda economia del pianeta, anche se non si
sa fino a quando? Troppe volte negli ultimi 20 anni il Sol Levante
ha illuso gli investiori. Secondo l’Fmi nel 2010 il Paese avrà un
rapporto debito/Pil al 227 per cento. Ne consegue che anche se non
c’è nulla di meccanico fra Borse e debito pubblico, occorre cautela.
Dunque, sì ad Asia senza Giappone. Come farlo? La scelta è ricca: Db
X-Trackers Msci Ac Asia ex Japan, iShares Msci Ac Far East ex Japan
o Lyxor Msci Ac Asia Pacific ex Japan.
TORELLO DOC. Che dire in
generale dei mercati azionari? Come già accennato dal 6 marzo scorso
le Borse hanno virato. E questo è un fatto. Un bel rimbalzo che,
visti i livelli raggiunti (ormai siamo a un +40% medio sui
principali listini europei), ha conquistato l’etichetta di Torello
doc. E ora? È ancora il momento di comprare? Inutile dire che i dati
macro sono tutti scoraggianti. Per dirne una il Pil degli Stati
Uniti nel primo trimestre 2009 ha registrato una contrazione del 6,1
per cento. Ma le Borse guardano sempre avanti. Così, la sola idea,
che nei prossimi trimestri andrà un po’ meno peggio fa rivivere i
listini. In più, dati dell’ultim’ora, i consumi Usa sono risaliti
del 2,2%, mentre le scorte si stanno azzerando, dunque occorrerà
ricostituirle. E solo questo contribuirà a restituire pil alla
superpotenza ammalata.
SELL IN MAY. C’è un altro
aspetto che può rendere cauti gli investitori: è il noto refrain che
recita sell in may and go away. Ovvero «vendi a maggio», mese
canonico di debolezza e correzione dei listini. Le ragioni per una
sosta non mancano: dopo una corsa mozzafiato è sempre bene una pausa
di respiro. Ma appunto potrebbe una correzione da comprare. Se dal
punto di visto tecnico diversi quasi tutti i mercati, a partire da
Cina e America, hanno spazio per un ritracciamento, anche
consistente (10-15 punti percentuali), ciò non comprometterebbe il
Torello. Anzi. Tra l’altro le Borse hanno dimostrato finora
un’ottima «resilienza». Ovvero ogni volta che stornano un po’ si
presenta nuovo denaro. Basta osservare la facilità con cui
(incrociando le dita) i mercati hanno digerito i colpi inferti dalla
«febbre suina»: a parte un breve smottamento, la corsa è ripartita
più veloce di primo con l’S&P 500 che ha messo nel mirino quota
900-930.
Va detto che sul fronte macro qualche spiraglio si delinea. Diciamo
quei «barlumi di speranza» accennati dal presidente Obama. Basta
leggere anche l’ultimo Beige book della Federal reserve. Infine gli
stress test sulle banche Usa, nè troppo belli nè troppo brutti,
hanno confortato il mercato: un quadro troppo rosa avrebbe indotto
scetticismo, una quadro troppo nero avrebbe riproposto l’allarme
credit crunch. Infine non vanno dimenticate le trimestrali. Non
poche «corporate» hanno sorpreso in positivo. Il risultato? Anche i
ratio di Borsa, come price/earning e dividend yield (vedi tabella)
appaiono piuttosto attraenti.
WALL STREET. Vale perciò la
pena continuare la caccia al tesoro fra gli oltre cento Etf azionari
quotati a Piazza Affari. Sapendo che la campanella che decide tutto
sta sempre a Wall Street. E anche stavolta è così: in due mesi il
Dow Jones è salito del 22%, ma resta negativo del 6,73% da gennaio.
Il Nasdaq100 invece da gennaio mette a segno un +14%. Il p/e sembra
ora troppo elevato (18,2) ma è sotto la media storica e, fatto più
importante, è tra i più bassi di quelli in circolazione tra le Borse
Usa. Un assist per i due Etf Lyxor Nasdaq 100 e Powershares eqqq. Il
tutto sperando in un aiutino dal dollaro. Anche perché se l’America
uscirà prima dell’Europa dai guai, il biglietto verde farà la sua
parte.
Naturalmente anche la scelta del Nasdaq comporta l’assunzione di un
rischio cambio e una buona dose di volatilità. Per evitare entrambi
una soluzione esiste: rivolgere l’attenzione a panieri di azioni ad
alti dividendi, meno ballerini rispetto al resto del listini, anche
se meno brillanti in fasi di rimbalzo.
E veniamo così all’Europa. Basti dire che il Dj Eurostoxx50, su cui
sono costruiti diversi Etf, presenta un dividend yield del 6,40% a
fronte di un p/e di 10,5. Numeri affascinanti in un’ottica di lungo
periodo. E si può fare anche meglio puntando sul Dj Eurostoxx
Utility: finora è rimasto ai margini del grande rimbalzo di questi
mesi, ma il rendimento è di ben il 6,58%, il triplo del Bund
tedesco, con la convenienza data dal rapporto prezzo/utili scivolato
sotto 10. E l’ultima fiche? Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Anche un po’ di S&P/Mib può andar bene.
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Fonte
- Borsa&Finanza
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E’
troppo presto per parlare di
ripresa
May 5th, 2009 by editor - di
Mario Seminerio - Liberal Quotidiano
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Il forte rally delle quotazioni azionarie globali, in
atto da alcune settimane, ed alcuni dati macroeconomici meno
peggiori delle attese, stanno contribuendo alla formazione di
aspettative di stabilizzazione del quadro economico. Si tratta di
attese diffuse anche in Europa, dove fino a non molto tempo addietro
si riteneva che la congiuntura fosse destinata ad aggravarsi
significativamente rispetto agli Stati Uniti, essenzialmente per il
minore impiego di risorse fiscali nello stimolo della congiuntura,
per i limiti statutari e politici ai margini di manovra della Banca
Centrale Europea, oltre che per la prossimità con un’area (quella
dell’Europa Orientale) che rappresenta un fondamentale mercato per i
paesi Ue, e che sta vivendo una crisi drammatica causata dal
deflusso di capitali occidentali e da indebitamento di famiglie ed
imprese in valute forti (euro e franchi svizzeri).
Riguardo il nostro paese, l’ultimo bollettino
economico della Banca d’Italia ha evidenziato un
rallentamento della velocità di caduta congiunturale, ma
si è (ovviamente e correttamente) ben guardato dal
preconizzare una eventuale ripresa. Di fatto, quanto sta
accadendo sembra più il frutto di un orientamento
psicologico che di effettiva svolta di mercato. I
mercati azionari, come noto, tendono ad anticipare la
congiuntura, anche di parecchi mesi, e certamente il
recente rialzo è stato significativo, per vigore e
portata. Ma giova ricordare che anche durante la Grande
Depressione si verificarono alcuni vistosi recuperi,
all’interno di una tendenza di più lungo periodo che è
rimasta depressa. In altri termini, la volatilità resta
la caratteristica dominante dei mercati, e ciò
suggerisce immutata cautela.
Anche il recente violento rimbalzo delle quotazioni
azionarie delle banche statunitensi appare una reazione
a quotazioni storicamente depresse, oltre che la
probabile conseguenza di alcuni eventi, tra i quali gli
annunci di alcuni tra i maggiori istituti di una ripresa
di redditività operativa, o l’attenuazione delle regole
di mark-to-market, che consentiranno alle banche di
valutare secondo propri modelli (spesso fantasiosi) i
titoli iscritti all’attivo dei propri bilanci. Anche gli
ultimi dati macroeconomici appaiono caratterizzati da
una singolare particolarità: una forte correzione
statistica per la stagionalità che migliora dati grezzi
particolarmente negativi. Tra i dati di mercato che
sembrano giustificare maggiore ottimismo vi è invece
l’andamento degli indici delle materie prime,
segnatamente del rame, che appare aver ormai consolidato
i minimi ed avviato una visibile ripresa di prezzo.
Dietro questo fenomeno vi è la Cina, che da tempo sta
incettando materie prime, al punto da integrare
verticalmente il settore acquisendo quote di fornitori,
come suggerisce la ricapitalizzazione dell’australiana
Rio Tinto per opera di Chinalco. Malgrado dati sulla
crescita del credito bancario cinese in forte crescita
non è scontato che tali recuperi di prezzo delle materie
prime possano derivare da una effettiva svolta
congiunturale e non dalla ricostituzione del livello di
scorte.
In sintesi, e considerato che nessuna crisi può
indefinitamente produrre una costante caduta dei livelli
di attività, occorrono altre evidenze prima di poter
affermare che la congiuntura si è stabilizzata. Ed anche
in quel caso, data la necessità del consumatore
americano di risparmiare per rimborsare i propri debiti,
è difficile immaginare la ripresa di una crescita
robusta e durevole.
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Fonte
- Liberal Quotidiano
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Venerdì 08
Maggio
2009 |
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Domenica 10
Maggio
2009 |
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Giovedì 14
Maggio
2009 |
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TASSI: PEGGIO E'
PASSATO MA BCE SI PREPARA AL 7° TAGLIO
06 Maggio 2009 09:03 ROMA
-
di Beda Romano ______________________________________________
Da Washington e da Bruxelles i
segnali dell'establishment politico si vogliono ottimisti. La
caduta della produzione sembra in rallentamento e il peggio è
passato. Domani tuttavia la Banca centrale europea dovrebbe
tagliare nuovamente il costo del denaro e introdurre misure non
convenzionali per aiutare i mercati e l'economia.
Il tasso di riferimento dovrebbe scendere dall'1,25 all'1 per
cento: si tratterebbe del settimo allentamento in poco più di
sei mesi per un totale di 325 punti base. La scelta non
sorprende: le ultime previsioni economiche fanno temere la
peggiore recessione dagli anni Trenta.
Nelle loro previsioni di marzo, gli economisti della Bce
prevedono un calo del Pil del 2,7 per cento. Ma proprio nei
giorni scorsi sia la Commissione Europea che il governo tedesco
hanno ridotto drasticamente le loro stime per il 2009: le
autorità comunitarie si aspettano una contrazione dell'attività
del 4% nella zona euro, l'Esecutivo del 6% in Germania.
Il timore di molti osservatori è che la stima della Bce possa
essere stata superata dagli eventi, anche se la proiezione è in
realtà una forchetta piuttosto ampia che va da -3,2% a -2,2. Al
di là della nuova riduzione del costo del denaro, il consiglio
direttivo dovrebbe annunciare anche nuove misure per aiutare
mercati ed economia.
Il tema è stato discusso dai banchieri per settimane. Come ha
spiegato in un recente discorso a Ginevra Lorenzo Bini Smaghi,
membro del comitato esecutivo della Bce, l'istituto non vuole
prendere decisioni dalle quali è difficile tornare indietro.
Molti banchieri sostengono che le scelte inglesi o americane di
allentamento quantitativo sono rischiose. L'ipotesi più
accreditata è che la Bce annunci un allungamento delle
operazioni di rifinanziamento. Attualmente, l'istituto effettua
pronti contro termine della durata di sei mesi e ad ammontare
indefinito. La durata potrebbe essere portata a un anno o
addirittura a due anni. L'obiettivo è di offrire alle banche
massime garanzie sul fronte della liquidità.
Il consiglio direttivo potrebbe inoltre permettere alla Banca
europea degli investimenti (Bei) di partecipare anch'essa ai
pronti contro termine della Bce, in modo da facilitare il suo
rifinanziamento. Da un punto di vista politico questa decisione
potrebbe essere vista come un passo in avanti nella
collaborazione tra le istituzioni europee.
Infine, i banchieri dovranno decidere se e come acquistare
obbligazioni sul mercato. Il tema è controverso nel consiglio
direttivo. Non basta: c'è chi pensa che la Bce debba
concentrarsi sull'acquisto delle sole obbligazioni private e chi
invece non esclude l'acquisto di titoli pubblici.
A Francoforte l'acquisto di obbligazioni statali non piace,
meglio piuttosto quelle private, tanto che uno dei tanti piani
messi a punto dalla Bce prevede l'acquisto sul mercato per un
periodo di sei mesi di obbligazioni bancarie garantite e di
società non finanziarie con maturità relativamente brevi. Molti
banchieri nazionali hanno invece l'opinione contraria.
Il tema è argomento difficile, ma secondo alcuni osservatori
ormai urgente. I prezzi alla produzione nella zona euro sono
scesi del 3,1% annuo in marzo, un record negli ultimi 22 anni,
tanto che ieri il governatore austriaco Ewald Nowotny ha
spiegato che «nel futuro prevedibile i rischi sono di
deflazione, non di inflazione».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Raccolta,
l'emorragia rallenta
07/05/2009 14.52
-
di Marco Caprotti ______________________________________________
Rallenta la fuga dai fondi di
investimento. Ad aprile, secondo gli ultimi dati di Assogestioni,
i deflussi si sono fermati 826 milioni rispetto a un risultato
negativo per oltre 5 miliardi nel mese precedente. Nonostante i
riscatti, grazie all’attività di gestione e al favorevole
andamento dei mercati, il patrimonio è tornato a crescere
passando dai 386 miliardi dello scorso mese agli attuali 397
miliardi.
Da sottolineare il ritorno in territorio positivo dei prodotti
azionari e flessibili. Per i primi il saldo è pari a 373 milioni
(-490 milioni a marzo). La categoria si è presentata con una
crescita del patrimonio ancora più consistente, passando dai 64
miliardi di marzo agli attuali 73 miliardi di euro (18,3% degli
asset investiti in fondi aperti). Per i secondi la raccolta è
stata di 477 milioni (-701 milioni il mese precedente). Questo
dato ha contribuito alla crescita degli asset detenuti dalla
categoria che si posizionano nuovamente sopra quota 51 miliardi
(12,9% degli asset complessivi)
Prossimi alla parità anche i bilanciati che hanno comunque un
saldo negativo di 106 milioni rispetto ai -420 milioni di marzo.
Il patrimonio, il 4,2% del totale, è invece in crescita e si è
collocato poco sotto i 17 miliardi di euro.
I fondi di liquidità hanno registrato riscatti complessivi per
193 milioni (-139 milioni il mese prima). Sul fronte del
patrimonio la situazione è pressoché stabile: la categoria ha
chiuso il mese con 87 miliardi di euro, equivalenti al 22% del
patrimonio complessivo.
Netta la frenata dei deflussi dagli obbligazionari. La categoria
è passata dai -2,7 miliardi, rilevati a marzo, agli attuali -403
milioni. Variazione positiva invece per il patrimonio che, da
poco meno di 151 miliardi, è arrivato a oltre 152 miliardi. Una
quantità di denaro che ammonta al 38,3% degli asset totali.
La maglia nera va ai fondi hedge che hanno registrato riscatti
per 975 milioni (rispetto ai -592 milioni di marzo) e, al
termine del periodo di rilevazione, detengono asset, in
diminuzione, inferiori a 17 miliardi di euro, pari al 4,2% delle
masse complessive.
Anche ad aprile i maggiori deflussi sono stati registrati dai
fondi di diritto italiano promossi da gruppi italiani ed esteri
che hanno avuto riscatti per circa 2 miliardi.
Positiva, invece, la raccolta degli esteri. I sottoscrittori,
infatti, hanno fatto pervenire nelle casse di questi prodotti
somme per circa 1,2 miliardi di euro.
Fonte
-
MorningStar.it
Soldi (tanti) per le
banche Usa
08/05/2009
-
di MIAECONOMIA ______________________________________________
Alla fine e' arrivata la versione
ufficiale, dopo le anticipazioni da ambienti
dell'amministrazione Obama della mattina di ieri. Il tantissimo
atteso "stress test" sulle 19 maggiori banche statunitensi, ha
mostrato che nessuna di loro rischia la bancarotta ma che pr
rinforzarsi dovranno dotarsi di 74,6 miliardi di nuovo capitale.
Soldi che dovrebbero garantire una certa tranquillita' se la
tempesta economica e finanziaria dovesse di nuovo peggiorare,
anche se dai corridoi della Casa Bianca si guarda ai risultati
come una conferma di una svolta dalla crisi.
Tra le 19 banche sotto esame, dieci sono quelle che dovranno
darsi da fare per rastrellare capitali, anche se pochissime,
forse una sola, dovra’ chiedere un nuovo aiuto pubblico. Non a
caso, nel giro di pochi minuti dalla pubblicazione dei dati, le
banche in questione hanno fatto sapere subito come agiranno.
Ad esempio, Bank of America - che da sola dovra' raccogliere
33,9 miliardi di dollari in nuovi capitali, quasi la meta' del
totale - ha dichiarato che provvedera' a vendere asset, ad
aumentare il capitale con nuove azioni oridnarie per 17
miliardi, oltre ad altre azioni minori.
Cifre nettamente minori a carico di Citigroup (dovra' trovare
5,5 miliardi di nuovo capitale), di Fitfth Third Bank (1,1
miliardi), situazione piu' pesante per GMac (qui si tratta di
11,5 miliardi) che forse chiedera' un aiuto pubblico in questa
direzione ma sara' tra le pochissime a farlo.
E ancora Morgan Stanley, che dovra' raggranellare 1,8 miliardi
di dollari, altri 2,2 miliardi per SunTrust Banks. Infine
piuttosto gravoso anche il compito per Wells Fargo, secondo il
test dovra' cercare 13,7 miliardi di nuovo capitale.
Al contrario, tra le banche che si giudicano abbastanza a posto
e che non dovranno intervenire sul capitale, spiccano i nomi di
State Street, MetLife, JPMorgan Chase, Goldman Sachs, Capital
One, Bank of New York Mellon, American Express.
Qualche perplessita’ tra gli analisti, pero’. Qualcuno ha fatto
notare che lo stress test non e’ certo stata una vera revisione
contabile, altri avvertono che gli ultimi dati sul mercato del
lavoro e immobiliare spingono a uno scenario molto peggiore
rispetto a quello su cui e’ stato basato il test.
Dall’altra viene visto bene il fatto che i nuovi capitali
verranno cercati tra i privati e che, anzi, parecchie banche
stanno iniziando a voler restituire i fondi pubblici avuti dal
governo Usa per fronteggiare il disastro economico negli scorsi
mesi.
Fonte
-
MIAECONOMIA
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Ripresa:
non fatevi prendere in giro
10 Maggio 2009 15:50 MILANO - di
Giuseppe Turani
________________________________________
L´ottimismo, comprensibilmente, trionfa in Borsa e nei
discorsi delle Autorità. I mercati stanno dimostrando una voglia
incontenibile di andare su, dopo tanto andare giù, che si stanno
prendendo in giro da soli. Ogni notizia è buona per mettere a segno
un altro due per cento di aumento. E se poi la notizia è un po´
taroccata, va bene lo stesso. L´importante è andare su, poi si
troverà anche il modo di rimanerci. O di cadere con un bel tonfo.
Fra le opinioni delle Autorità spicca quella di Ben Bernanke, il
capo della Federal Reserve, cioè della banca centrale americana.
Quello di Bernanke è un curioso destino. Come professore ha studiato
per decenni le crisi finanziarie, arrivato poi alla testa della Fed
gli è toccato gestire la più grande crisi finanziaria mai
verificatasi.
All´inizio, dicono i suoi critici, non ha capito niente. Pensava di
trovarsi di fronte solo allo scoppio della bolla immobiliare. E
aveva anche calcolato che si sarebbero rovesciate sul mercato
perdite per un centinaio di miliardi di dollari. Cifra che il
mercato avrebbe potuto assorbire senza troppe scosse. Quando poi
capi che di ben altro si trattava, si è mosso con tutta la velocità
possibile, ma ormai, come direbbero a Tortona, i buoi erano scappati
dalla stalla e siamo finiti nei guai che sappiamo.
Adesso Bernanke tenta, come tutte le altre Autorità, di produrre un
po´ di ottimismo. E quindi spiega che la ripresa è ormai alle porte
e che gli Stati Uniti (la più grande economia del mondo) cresceranno
del 2,5 per cento nel 2010 e addirittura del 4 per cento nel 2011.
Insomma, l´anno prossimo cominciamo a sentire il sapore del ritorno
al futuro (a prima della Grande Crisi) e poi nel 2011 facciamo festa
davvero. Con gli Stati Uniti che corrono al ritmo del 4 per cento,
il resto del mondo non potrà che gettare la parola crisi nel cestino
e mettersi a volare. Boom di Borsa, boom dei consumi, boom di tutto.
Ma sarà davvero così?
C´è da dubitarne, e molto seriamente. Intanto, se si vuole, per una
ragione molto semplice. Il potenziale di crescita degli Stati Uniti
(in condizioni normali e di pieno impiego dei fattori) è di poco
superiore al 3 per cento. E quindi che nel 2011 si possa arrivare al
4 per cento, con ancora milioni di disoccupati in giro, con il
sistema bancario, forse risanato, ma certo non a posto, pieno di
veleni e di diffidenze reciproche, appare un po´ strano.
A questo si aggiunga che a quel punto tutti gli stati (dall´America
in giù) dovranno cominciare a fare i conti con i loro bilanci, che
sono stati disastrati da questa crisi a causa delle spese fatte per
sostenere le banche e le altre situazioni di difficoltà. Per cui da
un certo momento in avanti, tutti gli stati dovranno chiudere la
fase delle politiche super-espansive (come è stato fino a oggi),
fatte di sconti fiscali e di aiuti a chiunque ne avesse bisogno, per
passare a una fase di politiche molto restrittive per cercare di
mettere in salvo i loro stessi bilanci.
In sostanza, oggi dentro l´economia mondiale romba il motore della
finanza pubblica (fatto di risorse quasi illimitate), ma è un motore
che presto dovrà essere spento.
L´Italia, che ha fatto poco, sta andando ad esempio verso un debito
pari al 120 per cento del Pil: è ovvio che si dovrà rientrare.
Una volta spento il motore della finanza pubblica, le economie
dovranno viaggiare con i soli propri mezzi. E quindi quella
americana non volerà al 4 per cento, ma farà molto meno.
In sostanza, dalla crisi stiamo per uscire, forse alla fine di
quest´anno o forse all´inizio del 2010. Ma non si uscirà
proiettandosi nell´iper-spazio della crescita come in Star Trek e
raggiungendo in pochi istanti livelli di attività che erano già
eccezionali prima della crisi (quando c´era, fra l´altro, molta
finanza facile). Si uscirà pedalando molto e sudando anche un po´.
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Fonte
- La Repubblica
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GM: SEMPRE PIU'
PROBABILE IL FALLIMENTO
11 Maggio 2009 20:05 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
Quando mancano poco piu' di due
settimane alla scadenza dell'ultimatum imposto dal governo Usa,
la soluzione della bancarotta si fa sempre piu' vicina per il
colosso dell'auto. Azienda aggrappata ad un filo di speranza.
Quando mancano poco piu' di due settimane alla scadenza
dell'ultimatum imposto dal governo degli Stati Uniti, la
soluzione del fallimento si fa sempre piu' probabile per General
Motors, la maggiore casa automobilistica del Paese.
Lo ha riconosciuto oggi l'amministratore delegato dell'azienda,
Fritz Henderson, precisando che il compito che si trova davanti
la societa' e' certamente difficile. Ciononostante l'AD non ha
abbandonato ogni speranza di poter presentare, entro il primo
giugno, un piano di ristrutturazione che soddisfi le richieste
della task force dell'auto scelta dall'amministrazione Obama.
La casa di Detroit, ha spiegato sempre Fritz Henderson, sta
valutando le operazioni Paese per Paese, nel tentativo di
stabilire dove poter presentare istanza fallimentare e dove
invece non ce ne sara' bisogno. Fare ricorso a tale soluzione
negli Stati Uniti non significa infatti necessariamente che la
societa' seguira' la stessa procedura in altre regioni.
"Sicuramente il compito che abbiamo davanti e' grande", ha detto
Henderson nel corso di una conference call. "Ma c'e' ancora l'opportunita'
e la possibilita' di portare a termine tale compito fuori da
un'aula di tribunale".
General Motors ha ottenuto un prestito federale da 15,4 miliardi
di dollari e ha tempo fino al primo giugno per presentare un
piano di ristrutturazione completo, altrimenti dovra' fare
ricorso al Chapter 11 di protezione dai creditori.
Tuttavia la societa' deve ancora tagliare migliaia di
concessionarie auto, chiudere stabilimenti, tagliare altri posti
di lavoro, raggiungere un accordo con i sindacati, convincere
migliaia di creditori ad accettare l'offerta che prevede la
conversione in azioni del debito complessivo da 27 miliardi di
dollari. Un'operazione di questo tipo consentirebbe agli
obbligazionisti di entrare in possesso di una quota del 10%
della societa'.
Henderson non ha escluso l'eventualita' che la societa' sposti
di citta' la sua sede, ma ha precisato che "non e' in cima alla
lista delle preoccupazioni", aggiungendo che molti dipendenti di
GM sono a Detroit e che la societa' e' orgogliosa di risiedere
in quella citta'.
Henderson ha preferito non commentare le notizie secondo cui la
quota dell'80% delle operazioni europee di Opel che fa capo a GM
sarebbe finita nel mirino di Fiat. L'AD si e' limitato a
precisare che qualsiasi accordo deve soddisfare le necessita' di
entrambe le parti.
Il manager ha fatto sapere che GM ha un urgente bisogno di
ricevere un prestito dal governo tedesco per quanto riguarda le
operazioni in Europa, di conseguenza qualsiasi partner scelto in
futuro dovra' rispettare le esigenze del governo.
"Al momento abbiamo bisogno di finanziamenti nelle nostre
attivita' in Europa. Un tale sostegno economico e' fondamentale
e di massima urgenza e il governo tedesco non ha espresso la
volonta' di gestire le nostre attivita'", ha puntualizzato
Henderson. "Pertanto ci assicureremo che tutti i partner scelti
in questo business incontrino il parere favorevole del governo.
Ovviamente se abbiamo bisogno del loro appoggio, vogliamo che
reputino ragionevole e accettabile la scelta di qualsiasi
partner".
Henderson ha inoltre smentito le notizie che danno per imminente
la cessione delle operazioni in America Latina, rendendo noto
che hanno sempre offerto ingenti ritorni all'azienda. "Questo e'
un business che conosciamo bene e che ci piace molto", ha detto
il manager.
Fonte
-
Macromonitor
Il futuro di GMAC
Monday, 11 May, 2009 at 10:49
-
by phastidio - Macromonitor ______________________________________________
Gli esiti dello stress test
condotto dal Tesoro degli Stati Uniti sulle holding bancarie con
attivi superiori a 100 miliardi di dollari, comunicati giovedì 7
maggio, hanno evidenziato la condizione di particolare debolezza
di GMAC. Mentre le grandi banche avrebbero bisogno di capitale
aggiuntivo compreso tra zero e l’1,4 per cento in percentuale
degli attivi ponderati per il rischio, GMAC, con 189 miliardi di
dollari di attivi necessita di ben 11,5 miliardi di dollari di
nuovo capitale, circa la metà dei suoi attuali mezzi propri. Ciò
a causa di perdite attese nell’ordine di 9,2 miliardi di dollari
nel biennio 2009-2010, sotto lo scenario più sfavorevole
previsto dallo stress test, di cui ben 4 miliardi ricadono nella
categoria “altro”, che comprende “altri prestiti a consumatori e
non consumatori”.
La fragilità di GMAC risiede negli scarsi livelli di
accantonamento a perdite ma soprattutto nella sostanziale
assenza di linee di business profittevoli, a differenza delle
altre holding bancarie. Ciò determina, nell’attuale congiuntura,
la progressiva erosione dei mezzi propri della società, malgrado
dati del primo trimestre apparentemente confortanti (liquidità a
13,3 miliardi di dollari, capitale azionario ordinario a 15,7
miliardi, un quoziente di tangible common equity su tangible
assets dell’8 per cento). GMAC dovrà quindi presentare entro l’8
giugno un piano che indichi come raccogliere gli 11,5 miliardi
di dollari.
Per quasi 90 anni della propria storia, GMAC è stata la
finanziaria di General Motors, fornendo credito ad acquirenti di
auto e concessionari. Ma al momento della vendita da parte di GM
del pacchetto di maggioranza di GMAC a Cerberus (all’epoca
controllante di Chrysler), la divisione Residential Capital di
GMAC deteneva anche miliardi di dollari di mutui subprime. Tra
il collasso del mercato immobiliare e il crollo delle vendite di
auto, GMAC ha iniziato ad accumulare perdite, inclusi i 675
milioni di dollari nel primo trimestre di quest’anno. L’azienda
è stata costretta a tagliare il credito erogato, perdendo quote
di mercato nel proprio core business, i prestiti auto di GM.
La crisi di credito in azioni ha minacciato di tagliare la
capacità di GMAC di finanziarsi, forzandola ad assumere lo
status di holding bancaria per poter accedere all’indebitamento
a basso costo presso la Federal Reserve. Cerberus e GM hanno
quindi dovuto accettare di veder diluire le proprie quote
azionarie. Nell’ambito di questa trasformazione, all’azienda è
stato imposto di convertire in azioni il 75 per cento dei suoi
38 miliardi di dollari di obbligazioni. Nel tentativo di
persuadere gli obbligazionisti, tra i quali Pimco riveste un
ruolo di rilievo, a consegnare i titoli per la conversione, GMAC
ha ripetutamente posposto la scadenza dei termini di esercizio
della conversione. L’operazione è riuscita solo in parte, pari a
21,2 miliardi di dollari (il 52 per cento), ma la Fed ne ha
accettato comunque l’esito, votando 4 a 1 nel proprio board a
favore della trasformazione in holding bancaria.
Scenari per gli obbligazionisti GMAC – Oggi, dopo che
l’Amministrazione Obama ha designato GMAC come prestatore di
riferimento per Chrysler, molti analisti si dicono convinti che
all’azienda non verrà consentito di fallire, anche se ciò
dovesse determinarne la nazionalizzazione più o meno
surrettizia. Anche l’ipotesi di conversione in azioni di
ulteriore debito obbligazionario, che sarebbe necessaria per
ridurre ulteriormente la leva finanziaria, ad oggi pare avere
poche possibilità di realizzarsi, visto l’atteggiamento negativo
di Casa Bianca e Tesoro verso questa forma di interventi di
ricapitalizzazione delle aziende di credito. Il rischio per gli
obbligazionisti resta quello di riorganizzazione di GMAC in
nuova entità aziendale, perché ciò potrebbe determinare evento
di default.
Fonte
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Macromonitor
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Analisti pessimisti.
Il rally non può continuare
11 Maggio 2009 16:40 NEW
YORK - di
Bloomberg
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Un terzo delle azioni dell'S&P scambia sopra il target
price. Dal 7 aprile l'indice ha guadagnato il 14%, mentre nelle
ultime nove settimane si e' visto il rally piu' ampio dal 1930. Ma
il mercato e' destinato a prendersi una pausa.
Un rally cosi' durante la stagione delle trimestrali non si vedeva
dal 2002. L'accelerazione dell'S&P 500 e' stata tale da spingere il
34% delle societa' componenti il paniere allargato oltre i prezzi
obiettivi fissati dagli analisti per il prossimo anno, alimentando
di conseguenza le preoccupazioni circa la durata e la consistenza
del recupero.
Dopo aver guadagnato il 14% da quando il 7 aprile scorso Alcoa ha
riportato i conti fiscali, l'S&P 500 si e' portato la settimana
passata al 5% di distanza dalla quota prevista in media da oltre
1.700 analisti di borsa (970.21). Caterpillar, principale produttore
mondiale di macchine movimento terra, e Citigroup, la banca salvata
dal governo con un intervento da 45 miliardi di dollari, figurano
tra le 170 societa' che scambiano su livelli superiori alla media
dei target price fissati dagli esperti.
Tuttavia per il momento gli analisti hanno scelto di non aumentare i
prezzi obiettivo e le stime sugli utili fiscali, dopo che l'S&P 500
ha accumulato guadagni pari a +37% dalla prima settimana di marzo,
quando era scivolato sui minimi di 12 anni. Cio' ha alimentato le
preoccupazioni degli investitori circa la durata e la consistenza
del rally, con molti operatori che ritengono che sia andato troppo
lontano e sia stato troppo veloce.
"Sarebbe irrealistico aspettarsi che il mercato continui a salire da
questi livelli", sostiene Leo Grohowski, chief investment officer di
Bank of New York Mellon Wealth Management. "Per il mercato sarebbe
salutare prendersi una pausa e permettere ai fondamentali di
assestarsi".
Oltre un terzo delle aziende che compongono il benchmark
dell'azionario americano sono sopravvalutate rispetto al prezzo
obiettivo di riferimento. Questo fa si che il valore di mercato
dell'S&P 500 sia pari a 970.21 punti, cifra che si confronta con i
929.23 punti della chiusura dell'8 maggio.
Nella sola settimana conclusasi venerdi' scorso, l'S&P 500 ha
guadagnato il 5.9%, cancellando le perdite accumulate sino a quel
momento dall'inizio dell'anno. A sostenere il listino sono stati i
risultati degli stress test condotti sulle 19 banche principali del
Paese, che hanno rassicurato gli investitori circa lo stato di
salute del sistema finanziario. Ha contribuito a rasserenare gli
animi anche il rapporto del Dipartimento di lavoro sulla situazione
occupazionale, da cui e' emerso che le perdite di posti di lavoro
hanno sono diminuite in aprile. Guardando all'andamento settoriale,
a guidare i rialzi sono stati ancora una volta i finanziari, con un
balzo del 23%.
Oltre 200 aziende hanno guadagnato almeno il 50% dai minimi toccati
il 9 marzo scorso. I prezzi di quasi la meta' delle societa' si
trovano a meno del 5% di distanza dal loro obiettivo per quanto
riguarda il valore di mercato.
La rimonta di cui l'S&P 500 si e' reso protagonista di recente e'
anche il rally piu' consistente mai registrato nell'arco di nove
settimane dagli anni trenta. Tutto e' cominciato quando alcune delle
principali banche del Paese in difficolta', tra cui Citigroup e Bank
of America, hanno annunciato il ritorno alla redditivita' nel primo
trimestre. A contribuire alla corsa agli acquisti sono stati inoltre
il piano complessivo da $787 miliardi tra spese e tagli fiscali
annunciato dal Presidente Obama e il programma da $1.000 miliardi
messo a punto dal Tesoro con l'obiettivo di rilevare gli asset
tossici degli istituti finanziari.
"Le stime suggeriscono che non c'e' la forza sufficiente per
proseguire oltre, perche' le azioni scambiano ormai sui valori di
mercato", dice Hayes iller di Baring Asset Management. "La crescita
degli utili nel 2009 e 2010 non puo' sostenere prezzi molto piu'
elevati di quelli attuali".
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Fonte
- Bloomberg
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Maggio
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Giovedì 21
Maggio
2009 |
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Venerdì 22
Maggio
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Le
borse e il segreto di Star Trek
13 Maggio 2009 09:29 ROMA - di
*Robert J. Shiller
*L'autore è
professore di economia all'Università di Yale.
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Dopo i minimi
toccati ai primi di marzo, tutti i principali mercati azionari del
pianeta hanno risalito prepotentemente la china. In alcuni casi, in
Cina e in Brasile in particolare, hanno toccato il fondo lo scorso
autunno e poi di nuovo a marzo, prima di realizzare un rimbalzo
spettacolare, con il Bovespa brasiliano in crescita del 75%
rispetto a fine ottobre 2008 e lo Shanghai Composite cinese su del
54% più o meno nello stesso periodo. Ma praticamente ovunque, da
marzo a oggi, il mercato azionario ha riservato buone notizie.
È un segnale della fine imminente della crisi economica mondiale?
Tutti stanno ridiventando ottimisti nello stesso momento,
accelerando la fine dei nostri problemi?
I boom speculativi sono
alimentati da una retroazione psicologica. Il rialzo dei prezzi
delle azioni crea storie d'investitori abili che riescono a
diventare ricchi. La gente, guardando con invidia ai successi
altrui, comincia a domandarsi se questo rialzo non ne preannunci
altri in futuro ed è tentata di mettersi a giocare in Borsa, anche
quelli che in fondo non credono che il boom continuerà. E
dunque il rialzo delle azioni produce a sua volta altri rialzi, e il
ciclo va avanti così per un po' di tempo.
Durante un periodo di boom delle azioni, chi è tentato dall'idea di
giocare in Borsa mette su un piatto della bilancia la paura di
pentirsene se non lo fa, e sull'altro la sofferenza di una possibile
perdita economica se lo fa. Non esiste una risposta affidabile su
quale sia la decisione "giusta", e non c'è unanimità tra gli esperti
su quale sia un adeguato livello d'esposizione rispetto ai mercati
azionari. Trenta per cento di azioni e 70% di immobili? O il
contrario? Nessuno lo sa. E pertanto la decisione ultima deve
dipendere dal peso relativo di questi fattori emotivi discordanti.
In una situazione di boom, i fattori emotivi pendono dalla parte del
giocare in Borsa.
In questo momento, però, è
il caso di chiedersi che cosa vi sia alla base di questa tendenza.
Non sembra che da marzo a oggi vi sia stata nessuna notizia
significativa che la giustifichi, se non il rialzo stesso. La
tendenza umana a reagire agli incrementi dei prezzi è sempre in
agguato, pronta a generare bolle speculative e crescite improvvise.
La retroazione è solo un meccanismo d'amplificazione per altri
fattori che predispongono la gente a lanciarsi nel gioco di Borsa.
Il mondo non riuscirà a
recuperare tutto l'entusiasmo di qualche anno fa solo con la
retroazione, perché siamo di fronte a un colossale problema di
coordinamento: non siamo tutti ricettivi agli incrementi dei
prezzi nello stesso momento, e dunque prendiamo le nostre decisioni
d'acquisto in momenti molto diversi. Il risultato è che le cose
succedono lentamente e nel frattempo possono venir fuori altre
cattive notizie.
La fiducia il mondo potrà recuperarla appieno solo se avrà modo di
prendere ispirazione da qualche storia che non sia il semplice
incremento dei prezzi delle azioni.
Nel libro che ho scritto insieme a George Akerlof, Animal spirits,
sono descritti i pregi e i difetti di una macroeconomia trainata
sostanzialmente dalle storie. Simili narrazioni, in particolare le
storie di persone concrete, storie con cui ci si può relazionare,
sono i virus intellettuali che stimolano l'economia attraverso il
contagio. Il tasso di contagio delle storie dipende dal loro
rapporto con la retroazione, ma le storie devono essere plausibili
fin dall'inizio. La forza delle narrazioni deriva dalla loro
capacità d'influenzare il nostro modo di vedere le cose.
La storia che ha gonfiato la
bolla azionaria che ha raggiunto il suo picco nel 2000 era una
storia complessa, ma ridotta in termini grossolani suonava così: una
serie d'individui brillanti e aggressivi ci stanno guidando verso
una nuova era di gloria capitalistica, in un'economia in rapida
globalizzazione. Queste persone diventavano i nuovi
imprenditori che viaggiavano da un capo all'altro del mondo sulla
via della prosperità. Era una narrazione che appariva plausibile
all'osservatore occasionale, perché era legata a milioni di piccole
storie di persone concrete, storie dei successi evidenti di amici,
vicini e parenti che avevano la capacità di visione necessaria per
prendere parte con slancio al contesto nuovo.
Ma oggi è difficile ricreare
una narrazione del genere di fronte a tutte queste storie
d'insuccessi e fallimenti. Il rimbalzo dei mercati azionari da marzo
a oggi non sembra costruito intorno a storie edificanti come quelle
prima descritte, semmai intorno alla pura e semplice assenza di
notizie più cattive, e intorno alla consapevolezza che tutte le
recessioni del passato prima o poi sono giunte a termine.
In un'epoca in cui i
quotidiani traboccano di foto di case pignorate in vendita, e
addirittura di case in eccedenza demolite, è difficile vedere dietro
al rimbalzo dei mercati motivazioni che non siano la storia del
"tutte le recessioni presto o tardi hanno fine".
Anzi, la storia dei
"capitalisti trionfanti" ormai è screditata, e così la nostra
fiducia negli scambi internazionali. E dunque ecco il problema: non
c'è nessun fattore trainante plausibile in grado di alimentare una
ripresa degna di questo nome.
Mettere in moto una ripresa economica è come lanciare un nuovo film:
nessuno sa come reagirà il pubblico fino a quando il pubblico non ha
effettivamente modo di andare a vedere il film e discuterne. Il
nuovo Star Trek, basato sull'ennesimo remake di un telefilm di oltre
quarant'anni fa, ha sorpreso tutti portando a casa 76,5 milioni di
dollari nel suo primo week end.
Una vecchia storia che grazie a questo nuovo film è tornata a far
parlare di sé. Allo stesso modo dobbiamo sperare che alcune di
quelle vecchie storie che in passato ci hanno proiettato in avanti -
l'ascesa del capitalismo e la sua internazionalizzazione fino ad
abbracciare l'intera economia mondiale - possono essere rispolverate
e riportate in vita per rinvigorire gli spiriti animali che sono
alla base della ripresa economica. I nostri sforzi per stimolare
l'economia dovrebbero tendere a migliorare il copione di quelle
storie, a renderle di nuovo credibili.
E questo significa far funzionare meglio il capitalismo e mettere in
chiaro che non esiste nessun rischio di protezionismo. Ma lo scopo
dev'essere tirar fuori l'economia mondiale dall'attuale situazione
di rischio, non catapultarci in un'altra bolla speculativa.
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Fonte
originale
- Project Syndicate
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Traduzione
- Fabio Galimberti
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Finanza sostenibile
per ricostruire la fiducia
13/05/2009 11.57
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di Valerio Baselli ______________________________________________
Non solo questione di cuore.
Ormai appare chiaro che etica e finanza possono convivere senza
doversi snaturare l’una con l’altra. Anzi, con l’aggravarsi
della crisi finanziaria, che ha messo in discussione tanti
assiomi e certezze sul libero mercato e su una certa maniera di
fare finanza, il tema dello sviluppo sostenibile torna più che
mai alla ribalta.
Di questi temi (e di molto altro) si parlerà giovedì 21 maggio
al convegno “Finanza responsabile per ricostruire il ciclo della
fiducia” e il giorno successivo all’incontro dal titolo “Gli
aspetti sociali, ambientali e di governance che entrano nelle
valutazioni degli investimenti socialmente responsabili:
protagonisti, prodotti e trend prospettici” che si terranno all’ITForum
di Rimini, la fiera sugli investimenti e il trading promossa da
Morningstar, Traderlink e Trading Library.
I due convegni, spiega Davide Dal Maso, amministratore delegato
Vigeo Italia, hanno obiettivi diversi. Il primo è di carattere
introduttivo e generale; punta ad esporre l’importanza del tema
nel contesto attuale. Il secondo ha un taglio più tecnico e
presenta dei casi concreti.
Lo svuluppo sostenibile, definito dalle Nazioni Unite come “uno
sviluppo in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni
presenti senza compromettere la capacità delle generazioni
future di soddisfare i propri”, è un concetto applicabile (ma
poco applicato) al mondo delle imprese, in particolare a quelle
che operano nei settori industriali. Invece, l'adozione
esplicita dello sviluppo sostenibile come obiettivo strategico
per le imprese che operano nel settore dei servizi, di cui le
istituzioni finanziarie fanno parte, è relativamente più
recente. Questo è dovuto alla crescente importanza che il
settore finanziario ha acquisito nei Paesi occidentali, dove
l’economia reale è ormai strettamente legata alle politiche
creditizie.
In questo senso, i temi di cui si occupa la finanza responsabile
sono la relazione tra attività finanziaria e sviluppo locale, la
lotta alla disoccupazione, l’integrazione degli immigrati, la
protezione dell'ambiente e soprattutto la ricerca di un sistema
adeguato di corporate governance. Quando si parla di governance
adeguata, commenta Dal Maso, si fa riferimento ad una serie di
analisi che riguardano la composizione del board direttivo, il
grado d’indipendenza dei sindaci e amministratori, l’esistenza
di obiettivi sostenibili, la trasparenza informativa e l’assenza
di conflitti d’interesse. Ecco quindi che l'esercizio
dell'attività finanziaria è legato a doppio filo con il
dibattito sullo sviluppo sostenibile.
Qualcuno potrebbe però chiedersi chi possa stabilire quali siano
le imprese veramente etiche su cui investire ed in base a quali
parametri possano essere definite sostenibili. Ebbene la
garanzia che un impresa sia veramente quello che dice di essere
o un fondo investa con certezza in attività sociali ed
eticamente compatibili, viene data da alcuni Istituti
internazionali che svolgono attività di analisi, verifica e
certificazione etica.
Ma a quale grado di sviluppo e penetrazione è arrivata la
cultura di una finanza sostenibile in Europa e in Italia in
particolare? Il nostro Paese è tuttora indietro rispetto
all’Europa, afferma l’ad di Vigeo Italia, ma esistono le
condizioni per lavorarci. L’ostacolo principale è nella
struttura dell’industria del risparmio gestito italiano.
Infatti, uno sforzo delle società di gestione è necessario, ma
le Sgr di piccole dimensioni si trovano in difficoltà di fronte
a questo tipo d’investimento. Sono i grandi gruppi che
dovrebbero trainare.
Ma l’investimento etico può davvero farci uscire dalla crisi?
Beh, se si parla di sistemi finanziari e prodotti d’investimento
che hanno bisogno di maggiore trasparenza, di fiducia collassata
tra risparmiatori, banche e mercati finanziari. Se si parla di
necessità di controllo e si ipotizzano nuove autorità
sovranazionali, se si parla di stretta ai paradisi fiscali (per
adesso solo annunciata durante l’ultimo G20 a Londra), se si
parla di nuove regole per le agenzie di rating. Se si parla,
come ha fatto l’Abi (Associazione bancaria italiana), di
reputazione come asset fondamentale per creare valore, allora la
finanza responsabile sembra essere una delle vie (non certo
l’unica) da percorrere per rivedere e ripensare in che modo
cercare la crescita economica e per non commettere gli stessi
errori del passato.
Fonte
-
Morningstar.it
MUTUI: TASSI GIU', E' L'ORA DEL VARIABILE
13 Maggio 2009 17:06 NEW YORK
-
di Marco
Letizia ______________________________________________
Per ora, è l'unico effetto
positivo della crisi. Accendere un mutuo infatti non è mai stato
così conveniente come oggi. Lo certificano i continui record al
ribasso dell'Euribor a tre mesi, il tasso a cui generalmente
vengono indicizzati i mutui (oggi sceso all'1,281%). E anche la
Banca d'Italia che nel suo ultimo Bollettino ufficiale
sottolinea che il tasso medio su un mutuo di durata superiore ai
10 anni, è sceso a marzo al 5,01% (contro il 5,13% a febbraio)
confermando la flessione iniziata dall'agosto scorso quando i
valori si aggiravano intorno al 6,10%. Anche il Taeg (tasso
annuo effettivo globale) su tutti i nuovi mutui accesi a marzo
scende al 4,42%, rispetto al 4,70% di febbraio ed al 6,11% di
agosto 2008.
CRESCE LA VOGLIA DI VARIABILE - Indebitarsi per l'acquisto di un
immobile oggi conviene, visto che le ultime rilevazione di
Mutuionline, uno dei principali operatori nel mercato italiano
della distribuzione di mutui ed altri prodotti di credito,
evidenziano come sia in ripresa soprattutto la domanda di mutui
a tasso variabile. Nei primi 4 mesi del 2009 infatti le domande
di mutui a tasso variabile in Italia sono salite dal 17,2% del
secondo trimestre 2008 al 44,8% dei primi 4 mesi del 2009.
Merito di offerte in alcuni casi decisamente convenienti: in
questo momento un mutuo variabile ventennale di 100mila euro per
l'acquisto di una prima casa del valore di 200mila euro a Milano
da parte di un lavoratore dipendente di 35 anni si può trovare
anche al tasso variabile del 2,10%, che si traduce in una rata
mensile di 511 euro.
SERVE PRUDENZA - Ma attenzione. I provvedimenti varati prima dal
governo Prodi e poi da quello Berlusconi su portabilità dei
mutui e surroga, culminati con il celebre tetto del 4% alla
crescita dei mutui a tasso variabile, in momenti in cui la
crescita dell'importo delle rate sembrava inarrestabile, devono
far riflettere che la scelta di accendere un mutuo a tasso
variabile deve essere sempre vista in una prospettiva di lungo
termine e non solo guardando alle condizioni attuali.
«Per chi vuole accendere un mutuo a tasso variabile - spiega
Roberto Anedda direttore marketing di Mutuionline - è necessario
tenere conto che come nel giro di pochi mesi i tassi sono scesi,
in un tempo altrettanto breve possono risalire. Il potenziale
acquirente farà bene quindi a concentrarsi non solo sul tasso di
riferimento, ad esempio, l'Euribor, ma sullo spread (si tratta
del ricarico che ogni banca decide di aggiungere al tasso di
base quale proprio ricavo ndr) praticato dalle banche. Tra la
fine del 2008 e l'inizio del 2009 gli spread sono aumentati e
ciò ha ridotto il risparmio complessivo per chi possiede un
mutuo. Per lo più gli aggiustamenti sono stati di alcuni decimi
di punto, ma in alcuni casi sono raddoppiati o hanno toccato
anche il punto percentuale». Ma di cosa altro deve tenere conto
il potenziale acquirente? «Premesso innanzitutto - continua
Anedda - che è bene confrontare via web o di persona le
condizioni praticate da diverse banche prima di scegliere quella
che fa per noi, è bene saper che difficilmente ci troveremo in
crisi per altri 20 o 30 anni e che quindi la situazione attuale
, che vede un forte gap tra fisso e variabile, è decisamente
atipica. Chi accende un mutuo a tasso variabile deve quindi
pensare che si troverà a fronteggiare un aumento del tasso di 2
o 3 punti percentuali nel giro di pochi anni. Quindi, pensando a
quella che è la rata massima che siamo in grado di pagare, non
dobbiamo soffermarci sulla rata attuale, ma piuttosto guardare a
quella che si paga ora per un tasso fisso, perché è quella che
probabilmente ci troveremo a pagare nel giro di qualche anno».
QUALE TASSO - Quindi adesso è meglio optare ancora per un tasso
fisso o riscoprire il variabile? Prendendo ad esempio il caso
citato precedentemente infatti, un mutuo equivalente a tasso
fisso per lo stesso tipo di acquirente viene a costare 655 euro
al mese , 144 euro al mese in più rispetto al variabile.
«Dipende - spiega ancora Anedda - se la rata prospettica, quella
che mi troverò a pagare in futuro, per me è sostenibile. Se sì
posso scegliere il variabile. Se invece voglio la tranquillità
futura posso approfittare di tassi fissi come quelli attuali che
offrono un'opportunità irripetibile. Senza contare i prodotti
atipici come ad esempio quello offerti dal Monte dei Paschi
Siena che ha un'offerta di un variabile il cui tasso non può
salire oltre ad un tetto prefissato pari al 5,5%, un livello
quest'ultimo vicino a quello dei migliori tassi fissi attuali».
LE CONDIZIONI - La crisi però nel settore dei mutui qualche
effetto negativo per il consumatore lo ha prodotto. Le banche
sono diventate infatti ancora più attente a chi e quali
condizioni concedere l'accensione di un mutuo. «C'è
un'attenzione molto maggiore da parte degli istituti per quanto
riguarda l'istruttoria - spiega Anedda -. Si fanno delle perizie
dell'immobile più conservative in quanto non si pensa ad un
incremento a breve dell'immobile come nel recente passato in cui
il mercato immobiliare cresceva vorticosamente. Ci sono anche
dei limiti più stringenti nei confronti delle somme prestate.
Sono sempre meno gli istituti che finanziano il 100% del valore
dell'immobile. Inoltre i lavoratori atipici trovano più
difficoltà ad accedere un mutuo, anche se a dire il vero nel
loro caso il problema principale è costituito da un reddito
troppo basso».
CAMBIARE MUTUO - I tassi bassi però possono fornire anche
l'occasione per cambiare il proprio mutuo. Ma conviene? «Occorre
sapere - sottolinea Anedda - che su un mutuo tipo da 100mila
euro ogni punto percentuale in meno sul tasso applicato implica
una rata più bassa di 70 euro al mese. Inoltre la pratica della
portabilità del mutuo sta diventando meno complessa e con
procedure più chiare anche se permangono sicuramente delle
vischiosità del sistema da parte di banche che non vogliono
perdere il cliente».
Fonte
-
Corriere della Sera
Gestori, il rally
arriverà nella 2° metà dell’anno
13/05/2009 16.26 -
di Sara Silano
________________________________________ Il mercato non è completamente
guarito. E’ debole, di conseguenza soggetto a ricadute. È la
diagnosi dei gestori interpellati da Morningstar nell’ultimo
sondaggio condotto tra 20 delle principali case di investimento
che operano in Italia. Colpa dell’economia, che fatica a
rimettersi in marcia e difficilmente riuscirà a disegnare una
ripresa a V, cioè molto rapida. I fund manager pensano ci sia
stata troppa euforia negli ultimi due mesi, ma sono anche
convinti che nella seconda parte dell’anno partirà un rally più
duraturo.
Europa, in calo i pessimisti
Da alcuni mesi, il numero di gestori che prevedono una discesa
delle Borse europee nel prossimo semestre è in calo. Dopo il
picco di pessimismo toccato a marzo, la percentuale si è
attestata al 20% in maggio. I mercati hanno reagito bene ai
piani di aiuto all’economia varati dai governi e a livello
sovranazionale. Tuttavia, il quadro macroeconomico è ancora
debole e i segnali di miglioramento difficilmente arriveranno
prima della fine del 2009. Di conseguenza, il 40% dei fund
manager prevede un trend laterale nel breve. Esiste però un
altro 40% che è più ottimista, dal momento che considera le
valutazioni azionarie più attraenti di altri tipi di
investimento.
Consumi, spina nel fianco di Wall Street
Negli Stati Uniti, le vendite al dettaglio sono in calo e
l’aumento della disoccupazione non favorisce la ripresa.
Inoltre, il sistema finanziario non è ancora del tutto guarito e
continua a destare preoccupazione tra gli operatori di mercato.
I gestori, comunque, sono convinti che Wall Street stia
scaldando i motori per il rally. Il 45% stima un apprezzamento
nei prossimi sei mesi, mentre il 40% prevede un’oscillazione
attorno agli attuali livelli. Solo il 15% si attende un ribasso,
contro il 20% del mese scorso.
Il Far East aiuterà il Giappone?
L’economia del Sol Levante continua a deludere a causa anche
della recessione che ha colpito i principali mercati di sbocco.
Le esportazioni sono scese e i consumi interni rimangono
stagnanti. La maggior parte dei gestori è convinta che la
ripresa arriverà dopo rispetto all’Europa e agli Stati Uniti.
Nonostante il debole quadro macro, l’indice Nikkei ha guadagnato
oltre il 5% da inizio anno e per il 45% dei gestori potrebbe
continuare a salire nei prossimi mesi, grazie in particolare
alla domanda asiatica. Il Far East, infatti, ha un potenziale di
crescita economica migliore rispetto ad altre aree.
Ancora tagli dei tassi nell’Ue
Gran parte dei gestori prevede ulteriori riduzioni dei tassi di
interesse da parte della Banca centrale europea nei prossimi
mesi. I titoli governativi possono trarre beneficio da questa
situazione, soprattutto se continuerà la ricerca di qualità e
sicurezza da parte degli investitori. Le parti lunghe della
curva dei rendimenti, tuttavia, potrebbero essere penalizzate da
politiche di emissione aggressive.
Forze opposte sui bond Usa
I titoli di Stato statunitensi hanno rendimenti prossimi allo
zero, di conseguenza sono poco remunerativi. Essi sono mossi da
due forze opposte, la spinta a salire dovuta all’aumento
dell’offerta e le pressioni al ribasso dovute alla scarsa
crescita economica. Per il 60% dei gestori i prezzi rimarranno
stabili nel breve. Inoltre, finché l’economia americana non
migliorerà visibilmente l’abbondanza di emissioni non dovrebbe
generare problemi.
Fine corsa per il dollaro
Molti gestori sono convinti che il rally del dollaro sia
terminato. Il graduale ritorno dell’appetito per il rischio
dovrebbe favorire l’euro. Inoltre, si sono attenuati i timori
legati alle economie emergenti dell’est Europa. Infine, il
biglietto verde è penalizzato dalla massiccia emissione di
titoli governativi americani. Di conseguenza, il 35% dei fund
manager prevede un apprezzamento della divisa comunitaria contro
il 25% che è positivo sul dollaro.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 4 e l’11
maggio, 20 delle principali società di diritto italiano ed
estero operanti sul territorio, che contano per circa il 85%
degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti
Gestielle, Banca Ifigest, Banca Profilo, Bipiemme Gestioni, Bnp
Paribas Am Sgr, Credit Suisse Am, Ersel Sgr, Eurizon Capital,
Euromobilare Sgr, Fideuram Investimenti, Ing IM, Investitori Sgr,
JC&Associati, Julius Baer, Mps Am, Pioneer Im, Soprarno Sgr,
Standard Chartered Bank, Vontobel.
Fonte
-
Morningstar.it
ASSICURAZIONI:
TESORO USA INTERVIENE PER EVITARE ONDATA PANICO
15 Maggio 2009 10:07 NEW YORK
-
di MPS Capital Services ______________________________________________
Il Wsj scrive che, secondo fonti
vicine all’operazione, il Tesoro starebbe preparandosi ad
iniettare fino a 22Mld$ di fondi del Tarp (Troubled Asset Relief
Program) nelle assicurazioni vita. Il Tesoro ha annunciato di
avere raggiunto un accordo già con sei assicurazioni (tra cui
una è Prudential Financial). Un deterioramento delle condizioni
finanziarie delle assicurazioni vita potrebbe provocare un’altra
ondata di panico, così il Tesoro ha deciso di intervenire per
prevenire l’eventualità. Sul fronte macro la giornata odierna è
ricchissima di dati, tra i quali segnaliamo la produzione
industriale di aprile attesa in calo su base mensile, il Cpi di
aprile atteso negativo per il secondo mese consecutivo e la
fiducia dei consumatori del Michigan attesa in rialzo a maggio.
Sul decennale i supporti si collocano a 3,07% e successivamente
al 3%.
Fonte
- MPS
Capital Services
LONDRA, NELLA CITY I
PREZZI TORNANO INDIETRO DI 18 ANNI
15 Maggio 2009 20:20 LONDRA
-
di Bloomberg ______________________________________________
Mercato immobiliare colpito dalle
massicce perdite di posti di lavoro e da un boom edilizio
intempestivo, che hanno depresso il valore degli affiti degli
uffici. Enormi spazi rimangono vuoti nell'area finanziaria della
capitale.
I prezzi per affittare un ufficio nel quartiere finanziario
della capitale britannica non sono mai stati cosi' bassi dal
1991, dopo che le ingenti perdite di posti di lavoro e un boom
edilizio intempestivo hanno depresso il valore degli immobili.
Al momento nella City sono disponibili circa 855 mila metri
quadrati di aree edificabili e tale cifra potrebbe aumentare di
un terzo entro la fine del 2009, stando al broker immobiliare CB
Richard Ellis Group. L'anno prossimo quasi il 19% degli uffici
londinesi potrebbero essere vacanti, sempre secondo gli analisti
della societa' CB Richard Ellis.
"Siamo nell'occhio del ciclone", ha detto Bryan Higgins, chief
investment officer della societa' irlandese di costruzioni
immobiliari Menolly Group, che per 150 milioni di sterline,
equivalenti all'incirca a $227 milioni, ha comprato l'edificio
107 Cheapside nella capitale britannica. Ma il palazzo non ha
inquilini. "L'offerta supera nettamente la domanda", ha
sintetizzato Higgings.
Gli affitti scivoleranno a 40 sterline per piede quadrato entro
la fine dell'anno, il livello esatto in cui si trovavano nel
1991, stando alle stime diffuse dagli analisti dalla societa'
londinese King Sturge International LLP. Nel corso del primo
trimestre dell'anno i prezzi nella City sono gia' scesi a 46.50
sterline per piede quadrato, in netto calo dai massimi di 65
sterline toccati a meta' del 2007.
La zona della City si trova in cattive acque dopo il boom che si
e' verificato in seguito alla costruzione di oltre 10
grattacieli nell'area da 97 acri di Canary Wharf, lungo il fiume
Tamigi. La City, anche nota come "il miglio quadrato" (the
Square Mile) in riferimento alle sue dimensioni, ospita piu'
banche, compagnie assicurative e altre aziende di servizi
finanziari di qualunque altra citta' in Europa. Sono circa 300
mila le persone che lavorano nell'area.
Canary Wharf e' stata fin dall'inizio percepita come una
minaccia, secondo Colin Hargreaves, che affita uffici a Londra
per Jones Lang LaSalle, il secondo broker nel settore
immobiliare commerciale del Paese. "Si sentiva il bisogno di
avere una alternativa credibile a Canary Wharf", ha detto Martin
Jepson, numero uno delle attivita' londinesi di Hammerson Plc.
Di questi tempi "c'erano problemi fondamentali enormi per le
banche", ha proseguito Jepson, facendo riferimento alle perdite
creditizie record che il settore ha subito dal 2007 a oggi.
"C'e' cosi' tanto spazio nell'area da non crederci", ha
commentato Alex Wilson, che ha lavorato come guardiano degli
uffici del distretto finanziario per sei anni.
Il primo grattacielo costruito nell'area, Tower 42 al numero 25
di Old Broad Street, ha aperto i battenti nel 1980. Dieci anni
piu' tardi ha visto la luce il palazzo da 50 piani di One Canada
Square, nell'area di Canary Wharf. La City ora conta circa 115
milioni di piedi quadrati di spazio libero per gli uffici,
paragonato ai 15 milioni del celebre complesso finanziario di
Canary Wharf, secondo Jones Lang LaSalle.
La crisi del credito ha provocato diversi ritardi nei progetti
di costruzione edilizia. Esemplificativo a questo proposito il
caso del "Cheesegrater", che British Land doveva far sorgere al
numero 122 di Leadenhall e che sarebbe dovuto diventare
l'edificio piu' alto dell'area, con i suoi 738 piedi di
estensione. Da parte sua Land Securities Group Plc ha
posticipato la costruzione della torre "Walkie Talkie", al
numero 20 di Fenchurch Street.
Ad agosto dell'anno scorso British Land, la seconda societa' di
investimento immobiliare della Gran Bretagna, ha completato la
costruzione della Broadgate Tower, un grattacielo che sorge sul
margine orientale della City. Ma meta' dei 30 piani
dell'edificio sono vuoti. Alla porta accanto si puo' vedere il
201 Bishopsgate: British Land ha affittato l'85% degli uffici
del palazzo, quasi interamente al gruppo attivo nella gestione
di fondi Henderson Group Plc.
British Land conta di completare la torre da 586 mila piedi
quadrati Ropemaker nel terzo trimestre di quest'anno. Circa il
38% del progetto e' stato prenotato dall'istituto Bank of
Tokyo-Mitsubishi UFJ, che pero' non paghera' l'affitto per i
primi quattro anni.
"Ora la domanda da porsi e' quando l'economia della City
riemergera' dai livelli attuali, con le persone che torneranno
ad occupare gli spazi vacanti", osserva Peter Damesick, capo
delle ricerche in Gran Bretagna per CB Richard Ellis. "Non credo
che nessuno abbia pronta una risposta a quella domanda", ha
chiosato Damesick.
Fonte
-
Bloomberg
|
«Con
le nuove regole
un mercato più piccolo e
operatori meno avidi»
16 Maggio 2009 11:52 MILANO - di
Mario Margiocco
________________________________________
La finanza
aveva più glamour prima del settembre 2008. Capire che cosa sta
maturando sui mercati finanziari resta comunque di vitale
importanza, soprattutto ora che c'è grande attesa per due fenomeni
convergenti: una graduale riduzione della volatilità, e il varo di
nuove regole per i mercati.
Robert F.
Engle, 66 anni, Nobel 2003, ha legato il suo nome al
modello statistico Arch (Autoregressive conditional
heteroskedasticity), ampiamente utilizzato per misurare
la volatilità a breve sui mercati, e che è in grado
d'indicare l'aumento del nervosismo e delle
oscillazioni, non la portata del fenomeno. Molto
usati dagli operatori, questo e analoghi modelli si sono
rivelati utili come "bandierine" che segnalano il
livello di pericolosità della spiaggia - bandiera
azzurra, gialla, o rossa – ma non possono prevedere le
condizioni del mare nei prossimi giorni, né fornire una
previsione meteo completa.
Nel dibattito che si tiene in molte sedi accademiche e
politiche al momento, in America in Europa e nel mondo,
e che sul Sole24 Ore è stato definito dalle due tesi
presentate da Guido Tabellini e da Luigi Zingales,
il professor
Engle è più vicino alle posizioni di Tabellini,
editorialista del Sole e rettore della Bocconi: quanto
accaduto in autunno e inverno sui mercati è un grave
incidente di percorso, ma recuperabile, del sistema
finanziario. Per Zingales invece, docente alla Business
School dell'Università di Chicago, il 2008-inizio 2009 è
qualcosa di più. Ci sarà la ripresa, ci sono già
segnali, ma non sarà più come prima.
«Avremo ancora
volatilità sui mercati, anche parecchia, sia pure meno
di quanto successo in autunno. Ma la crisi sta
gradualmente rientrando - dice Engle -. Siamo fuori
dalla rianimazione». Da alcuni anni professore
alla Stern school of business della New York University,
Engle dà un giudizio sostanzialmente positivo sulla
linea adottata dal ministro del Tesoro, Timothy Geithner.
Ma insiste sul fatto che le nuove regole dovranno essere
scritte e coordinate con grande attenzione, insieme
severe ed elastiche, per evitare che i grossi
protagonisti che non possono fallire facciano danni, e
per lasciare che i piccoli, che invece possono fallire,
possano anche innovare.
A che punto siamo nella crisi: banche meno insolventi,
nuove regole in arrivo, governi meno attivi, oppure no?
Sono stati fatti passi avanti. Il paziente è fuori dal
reparto di cure intensive.
Possiamo avere nuove regole e mercati grandi ed
efficienti?
È un passaggio delicato. Le regole vanno concordate e
formulate bene. Si è visto che il mercato non si
autoregola. Ma occorre fare appello anche a incentivi,
non solo a divieti.
C'è un nuovo business model per le banche?
La crisi
finanziaria ha messo in evidenza due realtà nefaste. Da
un lato una valutazione inadeguata del rischio,
praticamente da parte di tutti: management, regolatori,
banche centrali, agenzie di rating e altri. Dall'altro,
molti, troppi incentivi nel sistema bancario ad ignorare
una corretta valutazione del rischio. Occorre
ricordare che ci sarà sempre la spinta all'innovazione
finanziaria, e che le banche avranno personale meglio
addestrato e meglio pagato di chi dovrà controllarle, e
quindi occorre costruire un insieme di regole che
servano non solo a evitare gli errori del passato, ma
anche a imbrigliare le spinte nuovamente rischiose del
futuro.
Ci sono molte banche a rischio insolvenza?
Lo stress test dell'amministrazione Obama dice che fra
le grandi ve ne sono due, negli Stati Uniti. Non so la
situazione fra le banche minori. Ma qui la Federal
deposit insurance corporation (Fdic) ha metodi
collaudati d'intervento e ripulitura. Per l'Europa penso
vi sia maggiore incertezza, perché non è stata fatta
ancora una valutazione chiara delle perdite. E quindi se
la crisi dei mercati finanziari continua, potrebbero
esservi effetti. Magari anche la necessità d'iscrivere
fra le ammalate qualche banca che tutti ritenevano sana.
Lei è per un
ritorno a qualche forma del vecchio Glass-Steagall Act?
No, non credo
sarebbe efficace. Quella legge degli anni 30 era, al
nocciolo, una separazione fra banca commerciale e banca
d'affari. Ma il problema oggi non è di separare le due
entità. Sono state le banche d'affari di Wall Street a
diventare too big to fail, a gonfiarsi a dismisura.
Quindi un qualche ritorno allo Glass-Steagall non
risolverebbe il problema.
Come
dovrebbero essere le nuove regole?
Prima di tutto
frutto della cooperazione internazionale. Globali.
Comprensive di tutte le istituzioni finanziarie, quindi
anche degli hedge fund, oltre una certa dimensione.
Dovrebbero avere una metodologia chiara su come ci si
coordina a livello internazionale. E su come
s'identifica un rischio sistemico. C'è poi al momento un
flusso di ricerche molto interessanti che indicano come
le regole andrebbero usate in modo nuovo, ad esempio
sposandosi alla fiscalità, per cui le banche maggiori
dovrebbero essere in proporzione più tassate perché più
rischiose per il sistema, e dovrebbero contribuire di
più in proporzione a un fondo di garanzia, come avviene
adesso per quello gestito dalla Fdic. Poi la logica
dovrebbe essere anticiclica, stringere cioè le viti e le
regole e i controlli quando le cose vanno bene,
allentarli quando vanno peggio. Un po' il modello
spagnolo, che a qualcosa è servito.
Ci sarà meno
finanza?
Credo di sì. Le
nuove regole imporranno degli incentivi negativi. Il
mercato sarà più piccolo. E attirerà meno giovani
ambiziosi. Ma certi passaggi sono inevitabili. In questi
giorni Geithner ha annunciato ad esempio che ci saranno
nuove regole per il mercato Otc (Over the counter), con
l'obiettivo di centralizzare i contratti fra due
controparti, come avviene per i futures, in modo che vi
sia trasparenza su chi ad esempio vende un servizio -
penso ai cds ad esempio - e che, si deve sapere, è in
grado di far fronte all'impegno che si assume. Il
meccanismo di prezzo servirà a riflettere la
solvibilità.
È d'accordo con chi dice che oggi Washington è la vera
capitale finanziaria d'America, e del mondo?
No, ma la trovo un'immagine suggestiva.
Quando Wall
Street avrà ritrovato il suo equilibrio?
Quando la volatilità sarà rientrata nella norma. Adesso
è dimezzata rispetto ai momenti critici d'autunno. Ha
incominciato a declinare in dicembre. Ma è sempre alta.
Poi penso nasceranno altri protagonisti del credito,
attraverso fusioni e acquisizioni. Questo aiuterà Wall
Street.
Ci saranno
ancora balzi di volatilità?
È molto probabile. Vari mercati nazionali danno segni di
nervosismo, penso al Messico in questo periodo. La
volatilità diminuisce quando diminuisce l'incertezza
macroeconomica, quando c'è sufficiente consenso e
sicurezza su come sarà il quadro nel futuro.
Lei ha appena pubblicato uno studio sulle correlazioni.
Fino all'estate scorsa i mercati non erano correlati,
l'immobiliare era in crisi negli Usa ma l'export andava
bene, ad esempio. Poi, improvvisamente, tutto al
ribasso.
Volatilità e correlazioni sono direttamente
proporzionali. Fino a questa crisi, ad esempio, non si
era capito bene che la correlazione tocca anche le
senior tranche dei titoli cartolarizzati, quelle che
dovrebbero essere più protette. E difatti non lo sono
state. Non si era capito bene come funziona la
cartolarizzazione.
IL GURU DELLA VOLATILITÀ
Robert F. Engle
Premio Nobel nel 2003 per l'economia
Il Volatility Institute della New York University
diretto da Robert F. Engle (nella foto) studia analisi e
previsioni per i mercati. Il suo modello misura quanto
la volatità a un tempo "t" dipenda da quella passato.
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Fonte
- ILSOLE24ORE.COM
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Moody’s declassa il
Giappone: e gli USA?
Tuesday, 20 May, 2009 at 7:08
-
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Moody’s declassa il Giappone: e
gli USA?
leave a comment »
L’agenzia di rating Moody’s ha declassato il debito giapponese
in divisa estera di due notch, da AAA ad Aa2. Preparazione per
un downgrade degli USA o favore fatto all’amministrazione Obama?
Il Giappone ha pochissimo debito estero e quindi la mossa ha un
impatto minimo dal punto di vista degli oneri per il Tesoro
giapponese o per il suo impatto diretto sul mercato del reddito
fisso; non si vedrebbe neppure l’urgenza di un’azione del
genere: le motivazioni addotte per il declassamento riguardano
la pessima performance macroeconomica, i cambiamenti demografici
e l’andamento del debito pubblico, ma esistono da anni e sono
sicuramente più acute in altri crediti tripla A (come gli USA).
Ad essere maliziosi, si potrebbe intravedere un favore fatto al
governo, che si ritrova un potenziale concorrente in meno per il
piazzamento di bond AAA in un momento in cui ha bisogno di
emettere cifre colossali. Ad essere ancora più maliziosi, visi
potrebbe leggere un segnale in codice per l’amministrazione
Obama: i prossimi siete voi, quindi state attenti.
via Zero Hedge
Fonte
- Macromonitor
Il piano inclinato
Thursday, 21 May, 2009 at 12:25
-
by phastidio ______________________________________________
Il piano inclinato
leave a comment »
L’agenzia di rating Standard&Poor’s ha oggi confermato il rating
sovrano del Regno Unito al livello massimo di AAA, ma ha ridotto
l’outlook a negativo, da stabile, a causa del crescente peso del
debito che grava sul paese, ed ha affermato che vi è una
probabilità su tre che il merito di credito venga ridotto. In
conseguenza, la sterlina ha subito la maggior perdita contro
dollaro da quasi un mese, azioni e obbligazioni sono arretrate,
e il costo di assicurarsi contro il default è cresciuto. Se il
negative outlook venisse risolto in un effettivo declassamento,
il Regno Unito diverrebbe il quinto paese europeo occidentale a
subire un downgrade a causa della crisi economica, dopo Irlanda,
Grecia, Portogallo e Spagna. Nell’anno fiscale, che termina a
marzo 2010, il Regno Unito prevede di emettere 220 miliardi di
sterline in titoli di stato, a causa del crollo di gettito e
dell’aumento di spesa pubblica indotti dalla recessione. S&P
afferma di aver rivisto l’outlook del Regno Unito a negativo
ritenendo che, anche assumendo un’ulteriore stretta fiscale, il
peso del debito pubblico sul prodotto interno lordo potrebbe
toccare il 100 per cento e restare nel medio termine prossimo a
quel livello. Il governo ha già assunto iniziative di
consolidamento fiscale, che tuttavia appaiono piuttosto timide,
anche per la relativa imminenza delle elezioni generali che
dovrebbero tenersi al più tardi nel giugno 2010. Un’eternità,
per i mercati e l’evoluzione della congiuntura. Poco dopo il
comunicato di Standard&Poor’s, sia Moody’s che Fitch hanno
confermato rating ed outlook sovrano del Regno Unito.
Fonte
- Macromonitor
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Fondi
sovrani, pirati e
regole
23 Maggio 2009 10:13 MILANO - di
*Lamberto Cardia
*L'autore è presidente
della Consob
________________________________________
L'insolvenza di Lehman Brothers, nel settembre 2008,
ha segnato una cesura nel mondo finanziario. La deflagrazione della
crisi subprime che ne è scaturita ha posto all'attenzione delle
autorità di vigilanza, dei governi e dei parlamenti problemi che i
gruppi dirigenti di oggi non avevano mai dovuto affrontare prima:
sfiducia generalizzata, Borse in caduta libera. Chi ha
responsabilità di governo o di vigilanza ha dovuto approntare
qualcosa che nella vecchia cassetta degli attrezzi non c'era, nel
tentativo di padroneggiare una situazione che rischiava di sfuggire
di mano.
L'emergenza ha sgretolato certezze che sembravano granitiche.
Governi ultra-liberisti hanno ammainato la bandiera del liberismo,
per issare quella del dirigismo statalista. Autorità di vigilanza
che avevano fatto del "tocco leggero" il loro credo hanno compiuto
un'inversione a U, recitando il "mea culpa".
Da più parti sono comparsi programmi d'interventi pubblici, con
connotazioni protezionistiche, finanziati dai contribuenti. Concetti
caduti in disgrazia - le nazionalizzazioni o gli aiuti di Stato -
sono tornati in auge. I valori della libera concorrenza e della
trasparenza delle informazioni sono stati a volte sacrificati in
nome della stabilità, posta come obiettivo prioritario.
In questo contesto l'Italia - in posizione periferica rispetto
all'epicentro della crisi a New York e a Londra - ha dovuto
affrontare le sue emergenze. La Borsa di Milano è stata penalizzata,
specie nei primi mesi, assai più che non Wall Street o la Borsa di
Londra, dove la crisi si è generata.
Dopo lo scossone Lehman Brothers, lo scenario che si è presentato da
noi è analogo a quello che si è presentato altrove: indici di Borsa
ai minimi; economia in recessione. Ma nel nostro paese questo
scenario si è sovrapposto a un paesaggio preesistente, segnato da
debolezze storiche. Da una parte un tessuto sociale sfilacciato,
caratterizzato in aree del territorio da fenomeni d'illegalità
diffusa, cui si contrappone una presenza delle istituzioni e dello
Stato che, sia pure attiva, non sempre si dimostra adeguata;
dall'altra un sistema economico-finanziario articolato su tre
pilastri: il capitalismo familiare, con strutture finanziarie
talvolta fragili; una mano pubblica un tempo onni-pervasiva e oggi
più circoscritta; l'universo polverizzato delle piccole e medie
imprese.
Sono questioni vecchie, che nel contesto post-Lehman Brothers
pongono problemi nuovi. Il sistema istituzionale ne è consapevole al
massimo livello. Nelle settimane scorse il presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, ha levato un grido d'allarme sul
rischio che la criminalità organizzata approfitti delle attuali
eccezionali opportunità d'investimento per acquisire in tutto il
Paese il controllo d'imprese in difficoltà. Alte cariche della
magistratura condividono queste preoccupazioni. Il procuratore
nazionale anti-mafia, Piero Grasso, va da tempo segnalando questo
pericolo. La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha
rilanciato l'allarme. Prendo atto di non essere il solo nel paese a
nutrire questi timori. Il senso dei contributi di pensiero che ho
avanzato nei mesi scorsi per modificare il Testo unico della finanza
va cercato anche in questa preoccupazione di fondo.
Quando, nell'ottobre scorso, ho rappresentato al Parlamento
l'ipotesi di conferire alla Consob il potere d'abbassare
temporaneamente e in circostanze d'emergenza la soglia delle
comunicazioni obbligatorie in materia di partecipazioni rilevanti,
intendevo dotare il sistema di un meccanismo di rilevazione dei
movimenti nell'azionariato delle società quotate più sensibile di
quello che avevamo. Abbassare la soglia dal 2% fino all'1% consente
un monitoraggio più tempestivo dei movimenti di Borsa e può fornire
indicazioni utili anche nell'azione di contrasto delle infiltrazioni
criminali nella finanza "pulita". Questa era l'idea a monte della
mia richiesta, come ho anche esplicitato in vari interventi sulla
stampa. Era e resta un contributo a titolo personale sulla base
delle mie esperienze passate e presenti, espresso non a nome
dell'Istituto.
Governo e Parlamento hanno ritenuto di accogliere quel suggerimento
e di trasformarlo in norma di legge. Di questo sono loro grato.
Hanno dato ascolto, in parte, anche ad altri miei contributi:
l'innalzamento dal 10% al 20% del limite posto per legge
all'acquisto di azioni proprie in società quotate; l'innalzamento
dal 3% al 5% della soglia massima per l'acquisto di azioni rilevanti
ai fini della cosiddetta "Opa incrementale". Sono due provvedimenti
tecnici, che favoriscono il rafforzamento degli azionisti di
controllo o di riferimento. Su questi ultimi due punti è andata
persa, nel recepimento in legge, l'ipotizzata temporaneità delle
misure che in più occasioni avevo indicato. Governo e Parlamento
potranno, se lo riterranno, introdurre anche per questi
provvedimenti lo stesso carattere temporaneo previsto per
l'abbassamento della soglia sulle partecipazioni rilevanti. Nel
dibattito pubblico questo pacchetto di misure ha trovato fredda
accoglienza. Tuttavia il senso di questi provvedimenti va cercato
nel contesto di crisi post-Lehman Brothers. Oggi più che mai le
debolezze strutturali che caratterizzano il sistema del governo
societario nel nostro paese possono esporre diverse imprese
italiane, anche di rilievo, al rischio di scalate ostili da parte di
soggetti istituzionali. Penso al fenomeno dei fondi sovrani che, a
mio parere, va monitorato con attenzione. Con le loro scorte di
liquidità, i fondi sovrani possono svolgere una funzione di
stabilizzazione in fasi in cui la liquidità scarseggia. Ma il loro
intervento può assumere forme diverse, amichevoli o anche ostili e
aggressive. In un sistema storicamente vulnerabile come il nostro, è
utile un meccanismo di difese da attivare all'occorrenza per la
salvaguardia degli interessi strategici nazionali. Il cosiddetto
"pacchetto anti-scalate" va in questa direzione.
Rispetto alla metà degli anni 90 del secolo scorso, in cui si
colloca la genesi del Testo unico della finanza, tante cose sono
cambiate. Il Tuf ha il merito di aver svecchiato il nostro sistema
finanziario. I principi cardine del Tuf - contendibilità delle
imprese, ricambio del controllo societario, tutela delle minoranze -
sono un patrimonio che ha arricchito la cultura finanziaria
italiana. Il Tuf resta un saldo punto di riferimento, in base al
quale orientarsi anche in mezzo alla tempesta. Tuttavia non si può
non tener conto del fatto che nel frattempo il mondo è cambiato. La
direttiva comunitaria in materia di Opa (2004) ha di fatto aperto la
strada in Europa a tendenze protezionistiche. La crisi dei mutui
subprime ha accelerato questo processo. Benché condannato a parole,
il protezionismo è oggi la cifra caratterizzante delle politiche
economiche di paesi con cui ci dobbiamo confrontare.
Può piacere o non piacere. Ma questo è il mondo in cui viviamo.
Dobbiamo prenderne atto. E affrontare il mondo di oggi andando a
frugare nella cassetta degli attrezzi di ieri potrebbe rivelarsi
penalizzante per chi non sa adeguarsi ai segni del proprio tempo. In
nome di valori che gli altri si sono buttati alle spalle, l'Italia
potrebbe trovarsi a fare il vaso di coccio tra i vasi di ferro.
Fermi restando i valori fondamentali del Tuf come stella polare, una
correzione di rotta, almeno temporanea, può dare utili risultati.
Non è in discussione il bene prezioso, cioè la trasparenza
necessaria. Ma solo regole certe, chiare e da tutti in ugual modo
applicate costituiscono il presupposto di un mercato effettivamente
libero.
 |
Fonte
- SOLE24ORE
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Trovate
un Marchionne
per le banche
25 Maggio 2009 15:50 ROMA - di
Luigi Zingales
________________________________________
Questo processo di 'distruzione creatrice' - scrive
l'economista austriaco J. A. Schumpeter - è la vera essenza del
capitalismo.Questa distruzione creatrice è certamente all'opera nel
settore automobilistico. Dalle ceneri della bancarotta di Chrysler e
della crisi finanziaria di General Motors nascono nuove opportunità
per consolidare un'industria malata di eccesso di capacità
produttiva.
In genere io non sono un grosso sostenitore delle grandi fusioni. Le
uniche vere 'sinergie' derivanti dalla stragrande maggioranza delle
fusioni vengono dall'aumento del potere di mercato (a danno dei
consumatori) o del potere politico (a danno dei contribuenti). A
fronte di queste, ci sono enormi costi di integrazione: dai sistemi
informativi alla cultura manageriale. Ma l'ardita operazione
progettata da Sergio Marchionne sembra essere un'eccezione.
L'accordo con Chrysler permette alla Fiat di entrare sul mercato
americano con una struttura capillare di distribuzione. L'acquisto
della Opel facilita il consolidamento del settore auto in Europa.
Entrambe queste operazioni consentono alla Fiat di ammortizzare i
costi di ricerca e sviluppo su una produzione molto maggiore. Non
ultimo, questa espansione avviene a prezzi stracciati. Anche se il
successo non è garantito, questa operazione di sicuro ridisegna
l'industria dell'auto nel mondo, creando importanti guadagni di
efficienza. E non sarebbe mai avvenuta se l'industria
automobilistica americana fosse state tenuta in vita artificialmente
dai sussidi statali.
A fronte di queste profonde ristrutturazioni nel mondo dell'auto,
nel settore del credito prevale l'immobilismo. Abbiamo assistito, è
vero, a delle fusioni (JP Morgan ha comprato Bear Stearns, Wells
Fargo si è presa Wachovia, Bank of America ha messo le mani su
Merrill Lynch). Ma si è trattato di matrimoni di convenienza,
forzati o favoriti da una Federal Reserve ansiosa di stabilizzare il
settore, anche a costo di renderlo meno efficiente.
Basti pensare all'acquisto di Merrill Lynch da parte di Bank of
America. Non solo quest'ultima ha strapagato, ma ora si trova a
perdere la maggior parte dei migliori talenti della banca
d'investimento, non abituati a operare all'interno della burocrazia
di una banca commerciale.
Come è possibile che nulla si muova proprio nel settore che ha
innescato la crisi? Forse non abbiamo realizzato l'inettitudine dei
sistemi di controllo del rischio delle principali banche?
L'inefficienza delle procedure di concessione del credito? Le
sinergie negative tra l'attività di trading e quella di raccolta di
depositi? L'incapacità della maggior parte dei sistemi informativi
bancari di incrociare le informazioni sui depositi con quelle sui
prestiti dello stesso cliente? Non è un caso che Citigroup sia stata
sull'orlo della bancarotta in tre delle ultime quattro recessioni:
il modello del supermercato finanziario non funziona. Ma allora
perché non assistiamo a una profonda trasformazione?
A ostacolare questo processo di 'creazione' nel settore bancario è
proprio l'intervento statale. Non esiste creazione senza
distruzione. Fermando con i suoi sussidi il processo di distruzione,
lo Stato inevitabilmente ostacola anche il processo di ricerca di
alternative: il processo creativo. Parafrasando Schumpeter, è
proprio dal 'trial and error' che nascono i nuovi modelli
organizzativi, perché nessuno sa oggi con certezza quale sia la
ricetta giusta per il futuro. Di sicuro sappiamo solo che,
mantenendo artificialmente in vita le imprese esistenti, il supporto
statale ostacola la ricerca di alternative migliori.
Questo è vero in generale, ma è maggiormente vero nel settore
bancario, dove la protezione offerta dallo Stato alle istituzioni
considerate 'troppo grosse per fallire' non solo ostacola la ricerca
di alternative, ma va nella direzione opposta, sussidiando la
creazione di giganti del credito che sappiamo essere inefficienti.
Tanto negli Stati Uniti come in Italia, se vogliamo l'emergere di un
Marchionne del credito dobbiamo porre fine ai sussidi a favore della
Geronzocrazia.
 |
Fonte
- L'espresso
|
G8 Energia,
preoccupa il prezzo troppo basso del petrolio
25 Maggio 2009 16:21 MILANO
-
di Federico Rendina ______________________________________________
Il prezzo del petrolio? E' tutto
un problema di "equilibrio". Guai se è troppo basso, come nelle
scorse settimane. Deprime gli investimenti energetici, già
frenati dalla recessione, e rischia di creare un effetto
boomerang, con prezzi altissimi e fonti insufficienti, una volta
riagganciata la ripresa mondiale che stimolerà di nuovo i
consumi. Ed è questo l'allarme con il quale l'Agenzia
Internazionale per l'energia (IEA) ha accompagnato qui a Roma
l'apertura del G8 energia, che tra oggi e domani dovrebbe
delineare una nuova strategia comune dei grandi. Guai, dunque,
se il greggio comincerà di nuovo a decollare senza controllo. Ed
ecco, intanto, il grande desiderio dei manovratori dei paesi
sviluppati ma anche di quelli poveri. Un "equilibrio" valutato
dal presidente dell'Eni Roberto Poli "tra i 60 e i 70 dollari al
barile". La lavorazione del petrolio "difficile", come le sabbie
bituminose del Canada, tornerà ad essere plausibile. I comunque
costosi incentivi alla rinnovabili non saranno oltremodo
dolorosi. Il nucleare non rischierà (come sta accadendo, avverte
la IEA) di vedere bloccare le sue ambizioni di nuovo rilancio.
Poli ammette che "mantenere il prezzo a questo intervallo non è
un compito né semplice né immediato". Ma se non esercitiamo il
massimo impegno molti obiettivi di politica energetica e
ambientale nell'agenda del G8 in corso a Roma rischiano di
diventare - avverte il Presidente dell'Eni - solo un inutile
esercizio di pensieri e auspici.
Preoccupa davvero il rapporto dell'AIE sulla contrazione degli
investimenti energetici conseguente alla crisi, anticipato
sabato scorso nelle pagine del Sole 24 Ore (e che ora
pubblichiamo integralmente). Incalza Nobuo Tanaka, direttore
esecutivo della IEA: al trend attuale il 2009 potrebbe
registrare una riduzione del 21% degli investimenti globali
nella capacità estrattiva (upstream) e addirittura del 38% sul
fronte delle rinnovabili.
Elementi che, secondo Tanaka, rischiano di mettere a rischio gli
obiettivi internazionali sul taglio delle emissioni.
Dall'Italia, che ha problemi di squilibrio energetico
particolarmente pressanti, viene però un segnale meno
drammatico. I nostri operatori giurano che nonostante la crisi
globale i loro investimenti non stanno, almeno per ora,
rallentando. «L'Eni non riduce i suoi investimenti. Stiamo agli
stessi livelli dell'anno precedente» dice Poli. E non frena
l'Enel, neanche sugli impegnativi piani di sviluppo del nucleare
che il nostro operatore elettrico è costretto per ora a
esercitare al'estero. il gruppo ha mantenuto inalterato i suoi
programmi e «sta costruendo due centrali (una in Slovacchia
l'altra in Francia con Edf) e sta per costruirne altre due in
Romania e sempre in Francia» rimarca l'amministratore delegato
Fulvio Conti, augurandosi (e augurando alla politica) di
consentire la partenza delle macchine nucleari al più presto
anche in Italia.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
BANCHE USA: IN ROSSO
PER LA PRIMA VOLTA DAL 1990
27 Maggio 2009 16:47 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
E' accaduto negli ultimi tre mesi
del 2008. Riscontrate difficolta' enormi, utili aziendali ai
minimi di 18 anni. Il numero degli istituti presenti nella
"lista nera" della Fdic sale del 47%.
Il settore bancario statunitense ha registrato la prima perdita
trimestrale dai tempi della crisi degli anni novanta, con gli
utili aziendali che sono sprofondati sui minimi di 18 anni.
Stando ai dati di un rapporto sullo stato di salute del sistema
finanziario a cura della Federal Deposit Insurance (FDIC), le
banche hanno perso 26,2 miliardi di dollari negli ultimi tre
mesi dell'anno scorso. Si tratta del primo rosso trimestrale dal
quarto trimestre del 1990.
Il numero di banche facenti parte della "lista nera" e'
aumentate del 47% a 252 unita' nel periodo preso in esame,
conclusosi il 31 dicembre scorso.
Nel primo trimestre 2009 tale cifra e' salita ancora,
registrando un incremento del 21% a quota 305 dai 252
precedenti. Si tratta del numero piu' alto degli ultimi 15 anni.
"Non c'e' dubbio che questo sia uno dei periodi piu' difficili
che abbiamo mai visto nel corso dei 75 anni di storia della Fdic",
ha dichiarato nel corso di una conferenza stampa Sheila Bair,
presidente dell'agenzia federale americana di garanzia dei
depositi bancari.
Alle prese con la peggiore crisi finanziaria dalla Grande
Depressione, dal 2007 le banche statunitensi hanno annunciato
oltre 762 miliardi di dollari di svalutazioni da perdite
creditizie.
Il tracollo senza precedenti dei profitti aziendali e' l'effetto
delle "massicce perdite di alcuni istituti" e dell'incremento
dei costi per via dei prestiti risultati insolventi, ha spiegato
la Bair. "Il fatto che quasi un istituto su tre abbia archiviato
il trimestre in perdita, da' la misura delle enormi difficolta'
che il settore si trova a dover affrontare".
Con le banche impegnate a risanare i propri bilanci, sui conti
ha gravato il contemporaneo incremento degli accontonamenti e
delle svalutazioni derivanti dalle perdite creditizie, oltre
alle ingenti somme perse nel settore degli investimenti
finanziari.
Fonte
- WallStreetItalia.com
Est Europa, una
storia per i più audaci
27/05/2009 11.06 MILANO
-
di Marco Caprotti ______________________________________________
Nonostante le speranze che
sembravano emerse all’inizio dell’anno, l’Europa dell’est resta
una storia per i forti di cuore. La crescita dell’indice Msci
dell’area, che nell’ultimo mese (fino al 27 maggio e calcolato
in euro) ha guadagnato il 12,4%, secondo gli operatori in questo
momento è legata al generale clima di fiducia che, nonostante la
volatilità, si respira sui mercati mondiali e sui Paesi in via
di sviluppo in genere. A livello regionale, infatti, ci sono
ancora troppe incognite: sia di carattere economico-finanziario,
sia politico. Per quanto riguarda la congiuntura, la situazione
resta difficile. Gli uffici studi delle maggiori banche
internazionali, ad esempio, stanno abbassando le loro stime
sull’andamento della Russia (la maggiore economia della regione)
per quest’anno. Se prima si parlava di una contrazione del 2,1%,
ora si prevede una frenata che potrebbe avvicinarsi al 5%. Colpa
della recessione globale che ha tagliato la domanda di energia
(di cui è il maggior esportatore mondiale), contribuendo al calo
del Pil del Paese del 9,8% nei primi tre mesi del 2009 (il dato
peggiore degli ultimi 15 anni). L’andamento viene anche
confermato dalla diminuzione delle importazioni di auto che, da
gennaio a marzo, sono scese del 74% circa.
Gli altri Paesi dell’area non stanno meglio. In Romania, ad
esempio, la vendita di case nuove, ad aprile, è scesa del 6,7%
rispetto al mese precedente. Anche in questo caso la colpa è
della crisi economica mondiale che ha lasciato meno soldi nelle
tasche delle famiglie. A questo si aggiunge il crollo costante
dei prezzi che fa vedere il comparto immobiliare come un cattivo
investimento. A niente peraltro sono serviti gli incentivi del
governo, che ha messo sul tavolo un pacchetto da 1 miliardo di
euro per aiutare la sottoscrizione di mutui. Il Pil, intanto,
nel primo trimestre ha registrato una contrazione del 6,4%.
Stesso risultato per l’Ungheria, dove però a maggio l’indice
sulla fiducia economica è salito per la prima volta dal 2006.
La trama si complica quando entrano in scena le banche. Gli
istituti di credito che lavorano nella regione hanno detto
ufficialmente (durante l’ultima riunione della Banca europea per
la ricostruzione) che non forniranno prestiti fino a quando
anche la Bce non metterà mano al portafoglio. In pratica,
vogliono soldi dall’istituto centrale in cambio dei loro bond.
Un diktat che non piace all’autorità monetaria guidata da
Jean-Claude Trichet. “Sarà molto difficile rimettere in moto la
macchina senza l’intervento della Bce”, ha detto senza mezzi
termini Herbert Stepic, amministratore delegato di Raiffeisen
International, una delle banche più attive in Europa dell’est.
In compenso, ha però aggiunto di non aver ritirato un singolo
centesimo dall’area.
L’ultimo elemento è la questione politica. Il presidente russo
Dimitri Medvedev ha avvertito ufficialmente l’Unione europea di
non stringere legami troppo stretti con i Paesi dell’ex Unione
Sovietica. “In alcuni stati dell’ex Urss le iniziative di
avvicinamento dell’Ue vengono interpretate come partnership
contro la Russia”, ha detto durante una riunione ufficiale. “E
questo per noi è inaccettabile”. A nulla sono valse le
rassicurazioni del numero uno dell’Unione Manuel Barroso che ha
parlato di “iniziative contro nessuno e tese a migliorare la
prosperità e la stabilità della regione”. Il pericolo è che si
arrivi a una situazione di tensione simile a quella che ha
portato alla guerra fra Russia e Georgia nel 2008 e alla crisi
del gas con l’Ucraina all’inizio di quest’anno.
In ogni caso, secondo alcuni analisti, resta inalterato il
processo di avvicinamento fra i vari Paesi dell’area. “Nel lungo
termine ci aspettiamo che il processo di convergenza e
l’avvicinamento economico nell’Europa Orientale, nonostante le
attuali difficoltà, continuino il loro percorso”, dice una nota
di Raiffeisen Capital Management. “Tenendo questo in mente, bond
e azioni dell’est Europa dovrebbero rimanere un investimento
interessante anche per il futuro”.
Fonte
-
MorningStar.it
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