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Giovedì
01 Aprile 2010 |
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Aprile
2010 |
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Sabato 03 Aprile 2010 |
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La
grande battaglia: l'asta dei
titoli sovrani
01 Aprile 2010 01:34 NEW YORK
– di Leon Zingales* e Carmen Vitanza**
Leon Zingales*
e Carmen Vitanza**, collaboratori di Wall Street Italia,
sono PhD in Fisica, Dipartimento di Matematica, Università
di Messina e Professore Ordinario di Analisi Matematica,
Dipartimento di Matematica, Università di Messina. Zingales
cura il blog ilcignonero.
________________________________________
La fase di apparente normalizzazione dei mercati finanziari
è semplicemente l’occhio del ciclone; una nuova crisi nel
giro di non molto tempo ci avvolgerà con conseguenze
economiche e geopolitiche imprevedibili: la crisi dei debiti
sovrani.
E’ partita una guerra all’accaparramento dell’ultimo
risparmio e gli stati stanno utilizzando tutte le armi a
disposizioni, convenzionali e non, per procurarsi l’ossigeno
necessario per continuare a respirare.
Il salvataggio del sistema finanziario boccheggiante ha
necessitato di uno sforzo immane: la nave dei debiti sovrani
è stata colmata all’inverosimile, ben oltre la capacità
della stiva, ed è in procinto di essere inghiottita dal mare
in tempesta. E’ una lotta all’ultimo sangue: come
prigionieri in un relitto i singoli contendenti si stanno
contendendo il poco cibo e la poca acqua a disposizione in
una guerra che non ammette prigionieri. Chi vi scrive ha più
volte espresso le proprie critiche su come è stato concepita
la moneta unica attaccandone la rigidità dogmatica e la
mortale staticità. Ma il repentino precipitarsi della crisi
del sistema Euro deve essere vista come conseguenza di
questa battaglia finale per la sopravvivenza.
Il Debito sovrano USA raggiunge i 12700 Miliardi di Dollari
(quasi il 90% del PIL) ed, aggiungendo i debiti delle
agenzie nazionalizzate (Fannie Mae e Freddie Mac) si
perviene a 18800 Miliardi (il 130% del PIL). Nel contempo le
entrate fiscali crollano e 48 dei 50 degli stati USA sono in
deficit (la California ha un budget gap del 56%, l’Arizona
del 51% e l’Illinois del 41%); il sistema USA divora il
proprio futuro in maniera sempre più vorace: un report della
Pension Modernization Task Force, commentando il buco
pensionistico dell’Illinois di 90 Miliardi di Dollari, ha
evidenziato come il sistema pensionistico sia ormai usato
come carta di credito per mantenere i servizi essenziali in
uno stato in cui si spendono 3$ per ogni 2$ effettivamente
incassati.
Il mercato immobiliare continua ad essere in profonda
sofferenza (considerando anche che le banche USA hanno messo
in vendita solo il 30% delle case pignorate onde evitare di
segnare subito le perdite nei rispettivi bilanci)
e la nuova
ondata di svalutazioni ARMS è in prossimo arrivo. Con questi
fondamentali si comprende come l’affidabilità finanziaria
degli USA sia sempre più minata e, pur di assicurarsi
l’ossigeno (gli USA hanno tra l’altro il respiro corto
perché la duration media del proprio debito è 4.5 anni, due
anni in meno della media europea) fornito dalla vendita dei
TBills, qualsiasi arma diviene lecita.
L’enfasi delle strutturali debolezze del Sistema Euro è
attualmente lo strumento più utile per consentire un
rafforzamento del Dollaro. Convincere dell’ineluttabilità
del fallimento della moneta unica (tra l’altro non mentendo
del tutto) è l’unico modo per continuare ad essere
attrattivi nei confronti dei risparmi stranieri.
Ma, malgrado tutto, l’ultima asta settennale da 32 Miliardi
di Dollari dei titoli USA ha evidenziato tempo nuvoloso e
nel contempo il titolo decennale ha raggiunto il massimo
rendimento dall’Ottobre 2008 (epoca preistorica nell’attuale
evoluzione della crisi sistemica), ossia il 3.89%.
Aspettiamoci dunque ulteriori scombussolamenti e tremende
sollecitazioni al rigido sistema Euro: gli USA non possono
permettersi di perdere la guerra dei titoli sovrani.
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Fonte -
WallStreetItalia.com - Blog Il Cigno Nero
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I
giorni delle banche centrali.
Tassi fermi, occhio alla liquidità
04 Aprile 2010 16:55 MILANO
– di Vittorio Carlini
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La settimana delle banche centrali. Quella che inizia domani
è un'ottava, come in gergo borsistico è chiamata il
susseguirsi delle cinque sedute di mercato, che vedrà il
riunirsi di tre istituti centrali. Inizia mercoledì 4 aprile
la Bank of Japan. Il costo del denaro nel Paese del Sol
levante è allo 0,1 per cento. Il consensus di mercato è per
il mantenimento del tasso di riferimento invariato.
La banca d'Inghilterra e la Bce
Poi arriverà il turno degli istituti centrali del vecchio
Continente, giovedì 5 aprile. Alistair Darling (AFP)Ad
aprire le danze, se così si può dire visto che il tempo
dovrebbe essere "andante senza alcuna sorpresa", è la Bank
of England. In inghilterra, si sa, il tasso di riferimento è
allo 0,5% e, secondo l'indicazione degli esperti di mercato,
dovrebbe rimanere tale. Così come non dovrebbero arrivare
sorprese poco dopo, alle 13.45 sempre di giovedì, quando la
Banca centrale europea dirà la sua sul Refi: anche qui
l'attesa è per un mantenimento del saggio principale di
rifinanziamento all1' per cento.
La prima mossa sarà della Fed
Com è noto, più volte gli esperti hanno sottolineato -salvo
cataclismi finanziari sempre possibili - che la prima mossa
spetterà alla Federal reserve americana. Un po' perché, di
fatto, Ben Bernanke "ha" i Fed fund target allo zero per
cento e, quindi, lui dovrà dare il «la» formale che porta ad
una politica monetaria più restrittiva. E un po' perché le
attese di crescita degli Stati Uniti, seppure sempre deboli
soprattuto a causa di un tasso di disoccupazione che rimane
al 9,7%, sono comunque migliori rispetto ad Eurolandia.
È ben vero che la Fed, a differenza della Bce, ha un mandato
che tiene anche conto del supporto Ben Bernanke (AFP) all'economia
e, quindi, c'è maggiore sensibilità rispetto ad una mossa
che potrebbe uccidere nella culla la debole ripresa a stelle
e strisce. E tuttavia, gli esperti pensano che Bernanke (c'è
chi indica già l'inizio dell'estate prossima chi, invece,
settembre) toccherà all'insù i Fed fund target; così, per
fine anno, potremmo avere un costo del denaro negli Usa
anche oltre l'1 per cento. Un appuntamento, comunque, per
ri-sentire la strategia della Fed è quello di mercoledì 4
aprile quando Bernanke terrà un pubblico discorso.
Un'inflazione che non preoccupa
Tornando su questa sponda dell'oceano Atlantico, il
mantenimento dei saggi all'1% non sembra essere intaccato
dalle fiammate inflazionistiche degli ultimi giorni: tasso
all'1,5% annuo, massimo dal dicembre 2008, dopo lo 0,9% in
febbraio. Il balzo, infatti, è legato soprattutto alla
componente energia ( il petrolio è salito, due giorni fa,
sopra gli 85 dollari in Asia) e all'alimentare (con i prezzi
delle commodity che sono cresciuti spinti dalla solita
speculazione). Al contrario, l'inflazione core non è in
aumento. Anzi, continua a rallentare risvegliando
timori di deflazione: in particolare pesano le difficoltà
sul settore edile. In questo scenario pensare ad un Jean
Claude Trichet che ripete il grave errore dell'estate 2008,
quando alzò i tassi dell'eurozona in piena deflagrazione
della crisi finanziaria, sarebbe pura follia. E poi c'è una
linea di pensiero che, seppure mai troppo esplicitata dagli
esperti, spesso rimbalza nelle sale operative e nei convegni
tra operator.
L'euro debole
Come sanno anche i sassi, il differenziale dei tassi
d'interesse tra Stati uniti e Eurolandia ha permesso, per
parecchio tempo, l'attività di carry trade. Cioè, il
prendere in prestito denaro negli Usa, ad un tasso più
basso, per comprare asset denominati in Euro, lucrando così
sul più alto rendimento di questi ultimi. Un'attività che ha
sostenuto, molto più che la forza dell'economia stessa di
Eurolandia, le quotazioni della divisa unica europea.
Un'operazione puramente finanziaria che così come appare poi
sparisce per lasciare il valore dell'euro legato ai
fondamentali macro economici, come testimoniato dal
caso-Grecia. Una situazione che, a livello formale, dà molto
fastidio a tutte le istituzioni europee ma che, alla fine,
ha una conseguenza: tenere un po' più bassa la quotazione
della divisa unica; un trend che non dispiace troppo, vista
la spinta che può dare all'export europeo, soprattutto
quello tedesco. Ora, immaginare la Bce paladina di una
divisa unica debole è fanta-finanza. Ma pensare che
Eurotower voglia dare di nuovo linfa al carry trade, oltre
che rischiare la ripresa europea con un anticipo di rialzo
del Refi, è altrettanto fanta-finanza.
La road-map di uscita dalle operazioni
straordinarie a sostegno della liquidità
Tuttavia non è solo tassi di riferimento. Il vero fronte
dove gli istituti centrali, peraltro già da tempo hanno
avviato l'exit strategy è quello del ritiro dell'enorme
massa di liquidità presente sui mercati. Proprio durante la
conferenza stampa, che Trichet terrà alle 14.30 di giovedì
prossimo, dovrebbero essere indicati maggiori dettagli sulla
tabella di marcia delle operazioni di rifinanziamento, in
particolare sul volume della prossima asta a tre mesi (prima
della crisi era all'incirca di 70 miliardi).
Una tappa importante nella strategia di uscita della Bce si
avrà, poi, in luglio, quando giungerà in scadenza la prima
asta a 12 mesi, condotta nel giugno scorso con un volume
record di 442 miliardi. L'Eurotower ha già interrotto le
aste a 12 e a 6 mesi e limita ormai le condizioni più
generose decise contro la crisi (tasso fisso dell'1% e
ammontare illimitato) alle sole aste settimanali. Nuovi
dettagli dovrebbero emergere inoltre sul collaterale
accettato dalla Bce, dopo che Trichet ha di recente indicato
di fronte al Parlamento europeo che no farà problemi, anche
dopo la scadenza prevista di fine 2010, di fronte ai titoli
con un rating minimo 'BBB-'. Si tratta di una scelta che va
incontro alla Grecia, impegnata nel difficile piano di
evitare il default delle finanze pubbliche. Ma che la dice
lunga su come l'abbandono dell'easy money non sarà
asolutamente una strada facile.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Occupazione Usa,
una rondine non fa primavera
05/04/2010
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di miaeconomia ______________________________________________
Il mercato del lavoro negli Usa
batte un colpo. Venerdi' a mercati chiusi per la festivita'
del venerdi' santo sono usciti i dati sull'occupazione
americana a marzo. Secondo il Dipartimento Usa del Lavoro
nel terzo mese dell'anno l'economia statunitense ha creato
162mila posti di lavoro in piu', segnando l'aumento piu'
forte mai registrato dall'inizio della recessione quasi tre
anni fa. Un dato che e' certamente positivo anche in
relazione al trend in crescendo degli ultimi mesi. Infatti
se a febbraio si sono perduti 14mila posti di lavoro questi
sono stati controbilanciati dalla creazione di posti nella
stessa misura a gennaio. E se a dicembre i posti persi sono
stati 109mila a novembre lo scarto e' stato positivo con
69mila nuovi contratti di lavoro.
Fin qui le buone notizie. L'aspetto negativo del dato e' che
nonostante il bilancio positivo, il tasso di disoccupazione
negli Stati Uniti e' rimasto fermo al 9,7%. Non solo. Di
questi 162mila posti 48mila sono dovuti al censimento
partito in questi giorni, quindi posti destinati a essere
temporanei. Inoltre altri 40mila sono posti, non legati al
censimento, sono ugualmnte di natura temporanea. Ecco
perche' gli analisti si sono apprestati a sottolineare che
nonstante il dato sia incoraggiante una rondine non fa
primavera.
La crescita dell'economia Usa e' legata al livello dei
consumi che rappresentano oltre il 60% del Pil. Senza una
ripresa dell'occupazione difficilmente i consumi
riprenderanno a salire. E senza consumi e senza domanda la
produttivita', l'altro grande pilasto fondamentale della
crescita, difficilmente tornera' a crescere. Perche'
l'economia americana esca definitivamente dalla recessione
occorre che il mercato produca posti di lavoro a un ritmo di
100mila al mese e finora solo marzo e' riuscito
nell'impresa, con la variabile, pero', dei 40mila temporanei
piu' i 48mila necessari al censimento. Per creare una
ripresa duratura occorre che la disoccupazione Usa scenda
almeno sotto il 7,5% e a questi ritmi il tasso di crescita
e' troppo lento perche' cio' avvenga entro quest'anno. La
prossima settimana vedremo cosa ne pensano i mercati
Fonte
-
miaeconomia.leonardo.it
Obama e le armi
nucleari: «Uso in circostanze estreme» Rischi veri
dal terrorismo
06 Aprile 2010 20:06 -
di Sole 24 ore ______________________________________________
Il presidente degli Stati Uniti
Barack Obama ha annunciato oggi la nuova linea americana
sulle armi nucleari, dicendo che il loro uso è ipotizzabile
solamente «in circostanze estreme».
Gli Stati Uniti «vogliono sottolineare che prenderebbero in
considerazione l'utilizzo di armi nucleari solamente in
circostanze estreme per difendere interessi vitali degli
Stati Uniti o dei loro alleati e partner», si legge in un
documento diffuso dalla Casa Bianca. La nuova politica
nucleare americana, sostiene Obama in una dichiarazione
diffusa dalla Casa Bianca, rappresenta «un significativo
passo avanti» nella riduzione del ruolo delle armi nucleari
nella sicurezza nazionale.
La nuova strategia Usa lascia comunque aperta la possibilità
dell'autodifesa dalle minacce nucleari rappresentate da Iran
o Corea del Nord. Il Nuclear Posture Review descrive anche
il rischio di «terrorismo nucleare» come una minaccia
immediata ed estrema, più pericolosa dei paesi dotati di
armi atomiche.
Intanto il presidente russo Dmitri Medvedev proprio alla
vigilia della firma (l'8 aprile a Praga) con il presidente
americano Barack Obama del nuovo trattato Start sul disarmo
nucleare lancia un aut aut sullo scudo antimissile Usa in
Europa. In realtà è stato il ministro degli esteri Serghiei
Lavrov a mettere nuovamente in guardia Washington: «La
Russia avrà il diritto di uscire dal trattato Start se lo
sviluppo quantitativo e qualitativo del potenziale della
difesa antimissile degli Usa comincerà a pesare
sull'efficacia delle forze nucleari strategiche».
Media ed esperti sembrano comunque d'accordo: un «buon
compromesso». Rispecchia l'equilibrio degli interessi di
entrambi i Paesi e ristabilisce una condizione di piena
parità, ribadisce il Cremlino, per il quale questo
«avvenimento di grandissimo rilievo» segna «il passaggio
della cooperazione tra i due Paesi ad un livello più alto» e
«getta le fondamenta di relazioni strategiche
qualitativamente nuove».
L'annuncio sulla postura nucleare degli Stati Uniti
rappresenta «un segnale estremamente importante anche per i
suoi risvolti internazionali», ha commentato il ministro
degli Esteri italiano Franco Frattini, ribadendo che
«l'Italia sostiene pienamente la scelta degli Stati Uniti
nel cammino per il disarmo e per un mondo senza armi
nucleari».
«Il segnale giusto al momento giusto - ha proseguito il
titolare della Farnesina in una nota - in vista della firma,
l'otto aprile prossimo, del nuovo Trattato per la Riduzione
delle Armi Strategiche tra Stati Uniti e Federazione Russa,
del Summit sulla Sicurezza Nucleare, del 12-13 aprile a
Washington e della Conferenza di riesame del Trattato di Non
Proliferazione, che si aprirà il 3 maggio prossimo a New
York».
«I principi contenuti nella nuova postura nucleare
statunitense, inclusa la circoscrizione delle condizioni per
l'uso dell'arma nucleare - ha rimarcato Frattini - creano
condizioni nuove e più favorevoli per il rafforzamento del
regime di non-proliferazione fondato sul Tnp, mantenendo al
contempo una credibile capacità di dissuasione tanto
necessaria fintantochè esisteranno armi nucleari».
Fonte
-
Sole 24 ore
BERNANKE:
STABILITA', MA NON SIAMO FUORI DA TUNNEL
07 Aprile 2010 20:12 NEW YORK -
di Agi ______________________________________________
Dopo aver sofferto la recessione
piu' grave dagli anni '30, l'economia americana si e'
stabilizzata ed e' tornata a crescere. I problemi del
mercato immobilare e del lavoro, tuttavia, sono tanti e
rappresentano la vera sfida per gli Stati Uniti.
L'artimetica parla chiaro: l'economia Usa "non e' ancora
uscita fuori dal tunnel". Lo ha detto il presidente della
Fed, Ben Bernanke, secondo il quale c'e' ancora vento
contrario: l'occupazione soffre e anche il settore
immobiliare deve avviare una ripresa convincente.
Nei commenti preparati per la comunita' industriale in un
intervento tenuto a Dallas, il numero uno della Banca
Centrale ha precisato di non vedere ancora segnali di una
"ripresa sostenuta" nel mercato immobiliare, aggiungendo che
i pignoramenti continuano a crescere. Anche il real estate
commerciale resta un punto debole.
Ma i problemi piu' gravi sono quelli del mercato del lavoro.
Anche se il numero di licenziamenti e' diminuito ultimamente
le assunzioni sono ancora poche. Bernanke ha fatto notare
che il tasso di disoccupazione, attualmente fermo al 9.7%,
e' ancora vicino ai livelli piu' alti dagli anni '80.
USA: TASSI BASSI A
LUNGO RISCHIANO DI CREARE BOLLE ______________________________________________
Il falco della Fed, Thomas
Hoening, lancia l'allarme: un periodo prolungato di tassi ai
minimi record e' il modo migliore per provocare la creazione
di un boom creditizio e inevitabilmente di un suo scoppio.
L'ideale e' alzare il benchmark all'1%.
Un periodo prolungato di tassi di interesse ai minimi record
e' il modo migliore per provocare la creazione di pericolose
bolle. Per questo l'ideale sarebbe alzare i tassi di
riferimento all'1%, il che avrebbe il doppio effetto
benefico di mantenere il costo del denaro su livelli
estremamente bassi e allo stesso tempo manderebbe un segnale
chiaro che la politica monetaria troppo accomodante per
rispondere alla crisi e' ormai acqua passata.
Lo ha detto Thomas Hoening, uno degli esponenti votanti del
comitato di politica monetaria della Federal Reserve,
precisando che se mantenuti su livelli cosi' bassi per tanto
tempo, i tassi di interesse incoraggiano la messa in atto di
operazioni finanziarie rischiose. Il consiglio e' quello di
alzare il costo del denaro per prevenire la creazione - e lo
scoppio - di un'altra bolla.
"Sono convinto che mantenere lo status quo sui tassi a
questi livelli cosi' bassi per un periodo prolungato
incoraggi la formazione di bolle, perche' privilegia il
debito sull'equilibrio e i consumi sui risparmi", ha
dichiarato ad una comunita' industriale il presidente della
Fed di Kansas City Thomas Hoenig, noto falco del FOMC.
"Anche se non si sa da dove la bolla potrebbe emergere, se
lasciate cosi' come sono le condizioni attuali invitano ad
un boom creditizio e, inevitabilmente, ad uno scoppio della
bolla".
Per due volte Hoening ha votato contro la decisione della
Fed di mantenere i tassi guida allo 0-0.25% per un periodo
di tempo prolungato, suggerendo che non e' piu' necessario
avere le mani legate in un contesto di ripresa economica.
Fonte
-
Agi
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Ankara
batte Atene tre a zero
07 Aprile 2010 08:20
– di Sole 24 ore
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Tra Grecia e Turchia c'è una rivalità che ha radici antiche
e coinvolge ogni aspetto della vita dei due paesi. Una
vicinanza difficile costellata da tensioni diplomatiche su
Cipro e Ue e da sconfinamenti aerei nell'Egeo. Ma che dopo
dieci anni Ankara potesse battere tre a zero Atene nella
partita dell'economia è stata una sorpresa per tutti gli
osservatori.
Nel 2001 la Turchia era nel pieno di una crisi finanziaria
che portò a un calo del 5,7% del Pil, a una svalutazione del
46%, con un sistema bancario al collasso salvato da un
provvidenziale prestito dell'Fmi da 25 miliardi di dollari e
da un piano di salvataggio pari al 30% del Pil,
un'inflazione al 54%, la fiducia nel paese ai minimi, i
capitali in fuga dal Bosforo e le elezioni anticipate
all'orizzonte che spazzarono via una classe dirigente inetta
e corrotta.
La Grecia, al contrario si stava preparando alla trionfale
entrata nell'euro, il Pil cresceva del 3,4%, la produttività
era migliorata del 4,2% e i capitali arrivavano copiosi sia
privati sia dai Fondi strutturali Ue, consentendo di avere
un'ampia liquidità e tassi reali in rapida discesa. Atene
aveva in tasca una valuta solida come il marco tedesco: un
traguardo storico.
Dopo quasi un decennio la situazione si è rovesciata. Atene
è nel pieno della peggiore crisi dal dopoguerra con un Pil
che quest'anno è previsto in calo del 2,25% (la Commissione
europea prevede -2%), un deficit stellare nel 2009 del
12,9%, debito al 115% (sempre nel 2009), 54 miliardi di euro
da rifinanziare in titoli di stato a un tasso attorno al 6%,
con un differenziale di oltre 300 punti base con i bund
tedeschi e i credit default swaps (Cds), l'indice che
calcola il rischio solvibilità di un paese, che ha toccato
il 27 gennaio il record di 400 punti. E con l'ipotesi di
dover ricorrere a un piano di salvataggio composto da
prestiti bilaterali europei e soccorso dell'Fmi. Una
situazione finanziaria disastrosa e un'immagine a pezzi.
Tutto questo mentre la Turchia ha deciso di non chiedere il
rinnovo del prestito del Fondo monetario, ha messo sotto
controllo l'inflazione (gli ultimi dati la indicano al
7,2%), i tassi sono stabili, il deficit 2009 è al 5,5%, il
debito al 50,8% del Pil, e sebbene la crisi abbia fatto
crollare l'economia del 4,9% quest'anno si stima un tasso di
crescita del 4,5 cento.
Cosa è successo in questo decennio per spiegare
l'incredibile sorpasso? «La Grecia - dice Tullia Bucco di
Unicredit - è un paese dell'Eurozona, ma non ha saputo
mettere a frutto i vantaggi derivanti dall'ingresso nella
moneta unica. Il governo Karamanlis di centrodestra
(all'opposizione da ottobre 2009, ndr) non ha saputo
adottare le riforme strutturali per frenare il
deterioramento della competitività del paese. Una politica
poco accorta ha indotto un aumento dei salari pubblici a un
tasso di crescita superiore a quello della produttività,
spingendo così al rialzo i costi unitari del lavoro».
Insomma si è dissipato, invece di investire.
Non solo. «La Grecia ha perso competitività rispetto ai
partners, ha attratto pochi capitali stranieri e quando la
crisi globale è scoppiata è rimasta più colpita rispetto
agli altri paesi», ha detto Angel Gurria, segretario
generale Ocse, pochi giorni fa in occasione della sua visita
ad Atene. «Ora la Grecia deve come prima cosa rimettere a
posto i suoi conti per rassicurare i mercati. Poi - ha
aggiunto - Atene dovrà mettere mano alla riduzione dei
salari pubblici, riformare il sistema fiscale, combattere
l'evasione e ridurre i costi del sistema pensionistico».
«La necessità delle riforma delle pensioni – dice Gikas
Hardouvellis, professore di finanza all'Università del Pireo
– è urgente. Il deficit di bilancio, combinato alla piaga
del lavoro nero, significa che finanziare il sistema
pensionistico diventerà insostenibile in pochi anni. Già
oggi alcuni fondi pensione riescono solo a far fronte al
finanziamento delle pensioni in atto. Per questo una
commissione di esperti di nomina governativa ha appena
consegnato un rapporto al ministero del Lavoro che a breve
presenterà una riforma».
Nell'impossibilità di utilizzare la leva del cambio per
riguadagnare competitività, il governo greco avrebbe dovuto
rispondere con riforme di stimolo della crescita. Ma la
litigiosità interna e il basso grado di concertazione
politica hanno rinviato il varo dei provvedimenti fino al
collasso.
«La Turchia invece, dopo il via libera per il negoziato alla
Ue nel 2005 ha ritrovato nuovo vigore per ristrutturare
l'economia - dice l'economista Matteo Ferrazzi - e avere
stabilità macroeconomica. Il debito pubblico (50,8%) e il
deficit turco (-5,5%) sono meno della metà dei corrispettivi
greci (115% e 12,9%), ed è questa l'anomalia più stridente
tra un mercato emergente, come la Turchia e un paese
dell'Eurozona che avrebbe dovuto avere una maggiore
stabilità».
Ma la vera differenza è stata la fiducia degli investitori
internazionali che hanno premiato Ankara con un flusso
incessante di capitali sia in Borsa che negli investimenti
diretti esteri rispetto ad Atene che ha visto assottigliarsi
i capitali. Ankara, tra il 2005 e il 2007, ha ottenuto 60
miliardi di dollari, tre volte il flusso ottenuto nei venti
anni precedenti.
E mentre il settore bancario greco, pur cauto, ha subìto gli
effetti della crisi (Moody's ha declassato recentemente le
cinque maggiori banche) il settore creditizio turco si è
mostrato uno dei più solidi tra i paesi emergenti, dopo la
crisi del 2001, con un ottimo rapporto tra prestiti e
depositi (80%), alta capitalizzazione e basso finanziamento
esterno.
Ora però la crisi può diventare un'occasione per Atene per
recuperare il decennio perduto a condizione di rimettere i
conti a posto, modernizzare il sistema impositivo, riformare
pensioni e istruzione, investire nell'economia verde,
combattere la corruzione. «L'economia greca - dice Yannis
Stournaras, economista di Atene – ha bisogno di una ventata
di liberalizzazioni». Ma nemmeno Ankara può dormire sonni
tranquilli. Sebbene il premier Tayyp Erdogan guidi dal 2002
il paese verso lo sviluppo in un quadro di stabilità
politica e macroeconomica, restano, secondo l'Ocse, alcune
priorità quali il miglioramento del sistema scolastico, la
riduzione del costo del lavoro, l'incremento del peso del
settore privato, il taglio della burocrazia per le Pmi.
La sfida, per entrambi i paesi, è di nuovo aperta in un
quadro di maggior collaborazione che permetta l'incremento
dei commerci bilaterali e la riduzione delle spese militari
(2,8% del Pil per Atene, 1,8% per Ankara secondo la Nato),
un fardello che secondo il ministro turco per i rapporti con
la Ue, Egemen Bagis, pesa troppo sui rispettivi bilanci.
Forse è tempo di ridurre la tensione politica su un confine
caldo che resta pur sempre quello tra due paesi appartenenti
all'Alleanza atlantica. A chi il primo passo?
 |
Fonte -
Sole 24 ore
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Grecia: a Un
Passo Dai Junk Bond. Europa Scioglie Nodo Tassi (Il Punto)
venerdì, 9 aprile 2010 - 20:01 -
di ASCA ______________________________________________
(ASCA) - Roma, 9 apr - Scende
ancora il merito di credito sul debito pubblico della
Grecia. Fitch ha portato il rating di Atene da BBB+ a BBB-,
l'Outlook e' negativo e su Atene pende la mannaia di un
nuovo declassamento. Con un rating a BBB-,i titoli di stato
della Grecia si trovano appena uno scalino sopra i ''junk
bond'' (bond spazzatura), se scendessero a tale livello ci
sarebbero due implicazioni di non poco conto. La prima e'
che i titoli di stato di Atene non sarebbero piu'
acquistabili dalle assicurazioni e dai fondi pensione che
escludono dalle loro politiche di investimento i titoli
spazzatura (non investe grade). La seconda riguarda la
stanziabilita' dei titoli di stato greci nelle operazioni di
pronti contro termine con cui le banche, in particolare
quelle elleniche ma non solo, si rifinanziano presso la Bce.
Ieri l'Eurotower ha prorogato oltre il 2010 la possibilita'
per le banche di offrire, in garanzia dei finanziamenti
ricevuti dalla Bce, titoli con rating da BBB+ a BBB-. Un
concreto aiuto alla Grecia, che potrebbe rilevarsi effimero
e di breve durata se il debito pubblico di Atene fosse
declassato sotto BBB-. Non vanno meglio le cose sul mercato
dei Cds, dove si quota il premio assicurativo da pagare per
proteggersi contro l'insolvenza di un emittente di
obbligazioni. Basta guardare i dati forniti dalla Cma sul
debito degli stati sovrani. La Grecia, da qualche settimana,
occupa tra la quinta e la settima posizione dei paesi
finanziariamente piu' rischiosi del pianeta. La probabilita'
di insolvenza di Atene e' del 29%, un livello persino
superiore a quello dell'Islanda (24%). In Europa, peggio
della Grecia sta solo l'Ucraina (35%). Oggi i titoli di
stato ellenici hanno segnato una modestissima rimonta, quasi
invisibile, tanto che il rendimento dei bond a dieci anni
viaggia a 7,40% dal record di 7,50% di ieri. Non puo' essere
altrimenti considerando il balletto delle cancellerie
europee. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha detto
che l'Europa e' pronta a intervenire. Sulla stessa onda il
presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy. E, come
sempre, il primo ministro greco, nonostante il costo del
debito stia toccando livelli insostenibili, ha fatto sapere
che per ora Atene puo' fare da sola. Insomma per ora i
prestiti bilaterali di ultima istanza che i paesi
dell'Eurozona sono disponibili a offrire ad Atene restano
''in standby''. L'impressione e' che proprio sui prestiti
bilaterali si nasconda un problema non di poco conto. Atene
avrebbe convenienza a ricorrere ai soldi dei partner dell'Euroclub
solo nel caso il tasso d'interesse fosse inferiore a quello
che deve pagare sul mercato. Il presidente della Bce,
Jean-Claude Trichet, ha chiarito che il tasso sara' deciso
dai paesi che forniranno i fondi, ''da osservatore esterno,
immagino che sara' almeno pari al costo che il paese
finanziatore paga sul mercato quando raccoglie capitali''.
Al momento, la Germania paga poco piu' del 3% per
finanziarsi a dieci anni, la Grecia il 7,50%. Quanto dovra'
pagare Atene? Questo il nodo che le cancellerie hanno appena
detto di aver sciolto. Se poi uscisse anche un numero,
4,50%, 5,50% o altro, la speculazione al ribasso avrebbe un
limite, sopra il quale comincerebbe a perdere soldi invece
di guadagnarli. Certo il terreno e' scivoloso. I paesi
dell'Eurozona, quando e se metteranno mano al portafoglio,
dovranno giustificare alla loro opinione pubblica che si
stanno indebitando per concedere delle agevolazioni alla
Grecia.
Fonte
-
ASCA
La settimana,
14/2010
Friday, 9 April, 2010 at 16:30 -
di phastidio ______________________________________________
Riesplode la crisi greca: nel
corso della settimana alcuni episodi hanno riacceso i
riflettori sull’”accordo” di salvataggio Ue-FMI della fine
di marzo. Dapprima un funzionario del governo greco ha
dichiarato che il ricorso al Fondo Monetario Internazionale
non risulterebbe gradito ad Atene, a causa di condizioni
particolarmente dure che ne deriverebbero.
In seguito sono stati diffusi i dati sull’andamento dei
depositi del sistema bancario ellenico, da cui si ricava una
non trascurabile fuoriuscita di capitali. In precedenza si
erano registrate prese di posizione del governo tedesco in
cui veniva ribadito che l’accesso della Grecia ai
finanziamenti di emergenza sarebbe avvenuto a “condizioni di
mercato”, cioè senza sussidi impliciti. Infine, il 7 aprile,
il governo greco ha autorizzato le quattro maggiori banche
del paese ad utilizzare fondi e garanzie pubblici per 17
miliardi di euro, rafforzando sospetti e timori di crescenti
tensioni di liquidità, incluse voci incontrollate di tagli
di linee di credito da parte di banche estere.
Appare di giorno in giorno più evidente che l’annuncio del
salvataggio rappresentava solo un espediente politico per
prendere tempo, forse con la speranza che la presa di
posizione sarebbe stata di per sé sufficiente a determinare
la riduzione del differenziale del costo del debito tra
Grecia e gli altri paesi europei in condizioni finanziarie
precarie, come il Portogallo. Nella giornata di giovedì 8
aprile il credit default swap sulla Grecia ha toccato il
nuovo massimo, sfiorando i 440 punti-base, mentre il
differenziale con la Germania, sul titolo di stato
decennale, si è portato a circa 427 punti-base.
Si ha la sensazione che per la Grecia il tempo stia per
esaurirsi. Il fortissimo rialzo dei rendimenti anche sulla
parte a brevissimo termine della curva mette a rischio il
rinnovo dei t-bill di Atene (equivalenti ai nostri Bot),
anche se le casse del Tesoro greco sono verosimilmente
dotate, in questo momento, di un temporaneo surplus di
liquidità (derivante dalle emissioni internazionali del mese
scorso), col quale fare fronte ad eventuali fallimenti delle
aste dei titoli corti. La situazione potrebbe precipitare
intorno al 20 aprile, quando giungerà a scadenza un titolo
di stato da 8,2 miliardi di euro.
Tra i dati macro della settimana, gli indici dei direttori
acquisti di imprese manifatturiere e di servizi in Area Euro
raggiungono a marzo livelli di espansione confortante,
mentre l’andamento delle vendite al dettaglio in febbraio
mostra una contrazione dello 0,6 per cento. Negli Stati
Uniti, in febbraio è ripreso il processo di riduzione
dell’indebitamento delle famiglie, in particolare dal
versante delle carte di credito, come suggerito dai dati
relativi al credito al consumo. L’Australia ha aumentato i
tassi ufficiali d’interesse, per contrastare il
surriscaldamento della propria economia, la più esposta alla
locomotiva cinese.
Sui mercati finanziari, la crisi greca torna ad indebolire
l’euro e le borse europee (segnatamente le banche), mentre
l’azionario statunitense continua a mostrare capacità di
recupero, pur con le abituali dinamiche di volumi piuttosto
ridotti sul rialzo. La correlazione negativa tra materie
prime e dollaro sembra essere stata per il momento
archiviata: nel corso della settimana si è avuto un
apprezzamento della divisa statunitense ed un contemporaneo
rialzo di oro e petrolio, probabilmente frutto di
accresciuta avversione al rischio dei flussi internazionali
di portafoglio e di attese di più rapido recupero
congiunturale per gli Stati Uniti.
Fonte
-
Macromonitor
ECONOMIA: SCORTE
USA, NO A DOPPIA RECESSIONE
12 Aprile 2010 16:20 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Le aziende americane tornano a
riempire i magazzini, fiduciose sulla ripresa economica.
Effetti: piu' produzione e maggiori assunzioni. Non manca
pero' qualche pessimista: la domanda potrebbe non centrare
le attese innescando una nuova frenata.
Da Tiffany a Home Depot, sono molte le societa' americane
che sono convinte che la crescita economica sia una realta'
e che sia debba mantenere il passo della ripresa per tutto
il 2010.
Il colosso dei gioielli sta mettendo in conto un incremento
a singola cifra delle proprie scorte per quest'anno, merito
anche dell'apertura di nuovi negozi. Il piu' grande retailer
a stelle e strisce di articoli per la casa, dal canto suo, "ricostituira'
le proprie scorte di magazzino" per supportare le vendite,
ha riferito Carol Tome, direttore finanziario del gruppo.
"Ci stiamo muovendo in una fase caratterizzata dalla
ricostituzione delle scorte", ha spiegato David Hensley,
direttore del coordinamento economico globale di JpMorgan
Chase. "Dopo quella del primo trimestre, vedremo una
crescita anche nel secondo e terzo".
La casa d'affari con sede a New York lo scorso 2 aprile ha
consigliato alla propria clientela di preferire l'azionario
all'obbligazionario sovrappesando i titoli ciclici pronti a
correre non appena la ripresa economica si fara' evidente.
Un esempio per tutti: il Consumer Discretionary Select
Sector SPDR Fund (l'Etf che traccia l'andamento del settore
dei consumi discrezionali) e' rimbalzato del 112% rispetto
ai minimi del 9 marzo 2009.
"L'aspetto su cui le persone non stanno ponendo sufficiente
attenzione e' l'importanza che la ricostituzione delle
scorte sta per assumere", aveva detto soltanto lo scorso 4
aprile l'ex numero uno della Fed Alan Greenspan in un
intervista alla Abc all'interno del programma "This Week".
Secondo il predecessore di Ben Bernanke le probabilita' di
una doppia recessione "sono calate in modo significativo
negli ultimi due mesi".
Stando a una ricerca targata Bloomberg, le possibilita' di
una ricaduta dell'economia per quest'anno sono pari al 15%,
in calo rispetto al 25% rilevato a settembre. L'economia e'
cresciuta del 5.6% su base annua nell'ultimo trimestre del
2009, il miglior dato da sei anni, con le scorte che hanno
registrato il maggior incremento contribuendo per il 3.8%
del Pil.
Le previsioni per il secondo trimestre in corso parlano di
un Pil in crescita del 4.5% e di un contributo in arrivo
dalle scorte del 2%. Almeno secondo Joseph LaVorgna, capo
economista per l'America di Deutsche Bank con sede a New
York. La media di 60 esperti interpellati da Bloomberg e'
invece di un +2.8%.
E' il comparto manifatturiero ad aver invertito rotta
tornando a riempire i propri magazzini dopo 46 mesi di
contrazione. Il motivo della riduzione delle merci sugli
scaffali era legato al calo della domanda. Le scorte di
magazzino hanno registrato una flessione di $1.3 mila
miliardi a settembre dal record di $1.51 mila miliardi
nell'agosto del 2008. Secondo i dati forniti dal
Dipartimento del Commercio, a Gennaio hanno raggiunto i $1.3
mila miliardi e sono pronti a guadagnare un altro 0.4% a
febbraio (il dato verra' pubblicato il prossimo 14 aprile).
"Se le vendite riprendono quota, le aziende hanno tutte le
ragioni per rifornirsi", ha riferito Stephen Stanley, capo
economnista in Pierpont Securities. Tutto cio' si potrebbe
tradurre anche in un ritorno alle assunzioni, effetto di un
aumento della produzione.
Il punto piu' rischioso e' rappresentato dal ritmo della
ripresa della domanda. "C'e' il rischio significativo" che
si assisti a una doppia recessione, ha ammonito Martin
Feldstein, professore alla Harvard University. L'idea e' che
le vendite non saranno sostenute come ci si aspetta e dunque
le aziende si troveranno a gestire piu' lavoratori del
necessario e merce invenduta. "I consumatori stanno
attraversando tempi difficili. La disoccupazione resta molto
alta", ha concluso.
Gli fa eco Jan Hatzius, capo economista per gli Stati uniti
di Goldman Sachs, che si aspetta una crescita del 2% nel
secondo trimestre e dell'1.5% nella seconda parte dell'anno.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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La
Grecia, l’Unione Europea e
il dilemma del prigioniero
April 12th, 2010
– di Mario Seminerio
________________________________________
Dopo una fase di calma apparente, più mediatica che reale,
seguita all’annuncio dell’accordo tra Unione europea e Fondo
Monetario Internazionale sulla predisposizione di un
intervento di sostegno finanziario per la Grecia, la scorsa
settimana il problema è riesploso in tutta la sua gravità,
innescato da una serie di circostanze, dichiarazioni ed
eventi.
Ad esempio alcune dichiarazioni di funzionari governativi
greci, non è chiaro in che misura ispirate da fonti
ufficiali, sull’eccessiva onerosità di un intervento di
quello stesso FMI a cui il governo di George Papandreou
minacciava di ricorrere se la Ue non avesse accettato di
soccorrere Atene. Poi, il dato sui deflussi di depositi
bancari dalla Grecia, in quella che sembra essere una fuga
di capitali neppure troppo al rallentatore. Ancora, la
richiesta delle quattro maggiori banche del paese di
utilizzare il sistema di garanzie pubbliche per 18 miliardi
di euro, ed i conseguenti boatos su tagli di linee di
credito da parte di altre banche europee. Nella mattinata di
venerdì 9 aprile lo spread tra titoli greci e tedeschi,
sulla scadenza decennale, ha toccato livelli mai visti dal
debutto della moneta unica europea, in un climax che pareva
preludere ad una imminente dichiarazione di insolvenza da
parte del governo di Atene.
Nel pomeriggio dello stesso giorno sono giunte le
“provvidenziali” dichiarazioni di anonime fonti della Ue,
secondo le quali sarebbe stato raggiunto un accordo sul
livello di tasso al quale la Grecia potrà accedere al
finanziamento di emergenza erogato dal FMI e, in via
concorrente, da paesi dell’Ue. Questa notizia, ed il
particolare momento in cui essa è giunta (imminenza del fine
settimana, con liquidità rarefatta sui mercati) hanno
innescato frenetiche ricoperture e chiusure di posizioni.
L’oggetto del contendere è noto: la Grecia intende fruire di
fondi di emergenza ad un costo “non superiore” a quello
medio di altri paesi europei, mentre i tedeschi esigono che
gli aiuti siano erogati “a tassi di mercato”. Domenica 11
aprile è giunto l’annuncio dell’Eurogruppo, un compromesso
che prevede la messa a disposizione del governo greco, per
quest’anno, di un massimo di 30 miliardi di euro a un tasso
che dovrebbe situarsi intorno al 5 per cento, a cui si
aggiungerebbero i fondi del FMI.
Il costo del salvataggio è l’essenza della partita tra greci
e tedeschi. Sul piano logico, il “principio” dell’intervento
di salvataggio enunciato il 25 marzo era un non senso
assoluto. Secondo i tedeschi, la Grecia poteva accedere ai
fondi di emergenza solo in caso di impossibilità di accesso
ai mercati, ma facendolo “a condizioni di mercato”. Come sia
possibile pagare il “costo di mercato” (qualunque cosa ciò
significhi) quando il medesimo non intende più prestarti
denaro lo sanno solo a Berlino, evidentemente. Nella Ue vi è
soprattutto un problema di coordinamento che deriva da
differenti funzioni di utilità di breve termine dei paesi
membri. I tedeschi e gli altri paesi “rigoristi” vogliono
impedire qualsiasi forma di moral hazard futuro, derivante
da un salvataggio “a bassa condizionalità” della Grecia.
Altri paesi, da sempre europeisti a parole, come l’Italia,
vorrebbero invece evitare di dover sborsare alcuni miliardi
di euro di prestiti più o meno agevolati alla Grecia. Il
punto della questione è che Atene non sarà in grado in alcun
modo di tagliare in tre anni il rapporto deficit-Pil di
dieci punti percentuali (anche se ottenesse il costo del
debito della Germania), neppure se riducesse il paese un
cumulo di macerie fumanti.
Per questo motivo sul tavolo vi sono due opzioni: o
finanziamenti a tassi sussidiati, oppure la ristrutturazione
del debito greco, cioè il default. Vediamo separatamente le
due ipotesi. Nel primo caso, resta da definire il quantum
del tasso d’interesse del sussidio. L’ipotesi
dell’Eurogruppo di un tasso intorno al 5 per cento (ammesso
che riesca a superare le fortissime resistenze della
Bundesbank), pur rappresentando un parziale cedimento
tedesco, resta proibitivo per le condizioni dell’economia
greca, che si trova in un infernale circolo vizioso in cui
la stretta fiscale deprime il Pil che a sua volta fa
crollare il gettito ed impone nuove manovre correttive. Nei
giorni scorsi sono stati pubblicati due dati macroeconomici
greci più eloquenti di qualsiasi paper o convegno: in
febbraio la produzione industriale si è contratta del 9,2
per cento sullo stesso mese dell’anno precedente, ed in
marzo l’indice tendenziale dei prezzi al consumo è schizzato
dal 2,8 al 3,9 per cento. La prognosi è infausta e pare
rafforzare la seconda opzione, la ristrutturazione del
debito-default, ad esempio ipotizzando un taglio del valore
nominale dei debiti greci del 30-40 per cento.
In questi casi il paese che dichiara il default diventa il
paria dei mercati, e può tornare ad indebitarsi solo con
differenziali punitivi rispetto ai paesi solvibili. Ma la
storia ha anche dimostrato che i mercati possono avere la
memoria corta, se solo il reo si incammina su un sentiero
virtuoso di crescita, che di solito inizia con una robusta
svalutazione della moneta. Ma nel caso greco ciò è
ovviamente precluso dall’adesione all’euro, e ad oggi
nessuno pensa ad un’uscita della Grecia dalla moneta unica;
meno che mai Atene, che in questa permanenza ha il proprio
maggiore asset negoziale verso l’Ue. In caso di default,
inoltre, le banche creditrici (in prima fila quelle tedesche
e francesi) sarebbero costrette ad incassare pesanti
perdite, con ovvie ridondanze sul sistema finanziario
europeo, visto che il dissesto greco innescherebbe un
effetto-contagio sugli anelli deboli della catena che
andrebbe a sommarsi all’effetto sistemico: banche tedesche
che posseggono titoli greci si indeboliscono e contagiano
banche italiane, che “non parlano inglese” e neppure greco,
ma in compenso posseggono titoli di banche tedesche, e così
via. In breve, rischieremmo di finire con un sistema
bancario europeo schiantato e devastanti impatti
sull’economia reale, causati dall’inevitabile stretta
creditizia che da questo evento deriverebbe.
Come uscirne? Questa vicenda, oltre che della storia
dell’Unione europea, diverrà anche un capitolo dei manuali
di teoria dei giochi. Quello che oggi sembra evidente è che
la scelta è tra un danno ed una catastrofe, ma non
scommetteremmo sulla capacità della politica di approdare al
primo esito.
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Fonte -
Epistems.org
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Venerdì 09
Aprile
2010 |
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Lunedì 12 Aprile 2010 |
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Martedì 13
Aprile
2010 |
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La
Grecia contro tutti e tutto
mercoledì 14 aprile 2010
– di Giuseppe Sottile*
Giuseppe
Sottile è curatore del sito http://www.countdownnet.info/
che si occupa di economia nell’ambito della teoria Marxiana.
________________________________________
“Greeks have been living beyond their means”. Sono oramai
trent’anni che governi e istituzioni economico-finanziarie
ripetono questo motivetto per ogni Paese. L’Europa si dotò
di strumenti finalizzati a far fronte a questa presunta
opulenza con il trattato di Maastricht, il quale ebbe come
scopo principale quello di giustificare tagli alla spesa
sociale in ragione di una crisi fiscale sorta a partire da
un declino economico che ha la sua origine nei primi anni
’70. E’ chiaro che presunti “eccessi” di spesa hanno senso
solo in ragione d’una riduzione relativa delle entrate
fiscali. Negli ormai lontani anni ’50 e ’60 nessuno si
lamentava della crescita della spesa pubblica e dunque del
ruolo dello Stato nel computo del PIL, nel mentre le
lamentele iniziano a fare la loro comparsa proprio quando
questa crescita rallenta ed addirittura si riduce (esclusa
la parte di spesa pubblica che sempre più in forma diretta o
indiretta – ossia in uscita o entrata - si è rivolta al
sostegno del settore privato).
Sono ormai trent’anni, appunto, che sono in voga e vanno di
moda presso i governi e le istituzioni “scientifiche” che li
supportano in veste di apparati economico-finanziari
politiche economiche (monetarismo deflazionistico) e
legislazioni sul lavoro che, tentando inutilmente di creare
condizioni adatte alla ripresa della crescita economica
(ossia dell’accumulazione), hanno aggravato le condizioni di
vita dei salariati. Una ripresa in verità v’è stata,
consistente nella nascita di una nuova dinamica economica:
lo speculative capital, che da tempo impedisce una
espansione dell’accumulazione in forma classica, ossia
sottrae reddito monetario dalla cosiddetta economia reale,
grazie soprattutto ad uno sfruttamento intensivo di una
forza-lavoro in permanente diminuzione. Esso così svolge de
facto un ruolo rivoluzionario poiché genera tutte le
condizioni necessarie al superamento della barbarie che il
capitalismo ci sta consegnando.
E tuttavia v’è da precisare come quelle politiche economiche
sono state sostenute e continuano ad esserlo nei fatti dai
salariati, i quali identificando la ricchezza prodotta con
la sua forma monetaria hanno anch’essi creduto, e sembrano
ancora credere, che siano necessarie “politiche dei
sacrifici”. Incremento della tassazione indiretta (e anche
in diversa misura sul lavoro dipendente), tagli alla spesa
pubblica in specie sociale (si vedano ad es. le modifiche
nei regimi pensionistici), incremento dell’età pensionabile,
detassazione dei redditi da capitale, deregulation,
riduzione del sostegno all’occupazione ecc, ecc, ecc, tali
misure hanno prodotto un peggioramento della qualità
(capitalistica) della vita e null’altro.
La novità di questi ultimi mesi è che per la prima volta in
trentacinque anni di declino economico (non crisi, termine
ideologico usato nella bagarre politica) i lavoratori d’un
paese marginale della UE stanno dicendo a gran voce: Basta!
E per giunta in forma relativamente organizzata, contro i
sindacati di regime ed un governo di sinistra che vorrebbe
propinare politiche volte all’incremento della barbarie
sociale con i soliti, monotoni e criminali argomenti.
I lavoratori greci si trovano al momento contro tutti poiché
in Europa non si è ancora formato un movimento che sostenga
la loro lotta. Tuttavia la situazione è assai interessante e
direi rivoluzionaria giacché ciò che sta accadendo in Grecia
sarà la condizione che si troveranno di fronte anche i
lavoratori di ogni altro Paese. La situazione di default
della Grecia, infatti, è quella che tutti affrontano e
affronteranno nei prossimi anni per via dell’indefinito
acuirsi del declino economico. Ai lavoratori greci non resta
al momento che continuare nella resistenza o subire le
conseguenze di un ulteriore riduzione del deficit pubblico
dal 12 al 3 % per il 2012 ed il pagamento di miliardi di
nuovo indebitamento pubblico via emissione di nuovi bond. In
aggiunta a ciò, va rilevato che governi ed istituzioni
finanziare UE si troveranno costretti a soccorrere i vari
Paesi per impegni finanziari in scadenza di vario tipo
(bond, deficit fiscali dei degli stati membri etc.) e
sistemi bancari, con una previsione di spesa stimata più di
€1,5 trilioni, che ricadrà sui conti pubblici con ulteriori
tagli. In realtà si tratta di un indebitamento che si
autoalimenta fagocitando il sistema economico, in analogia a
quanto succede tra questo e la dinamica della speculazione.
La ciliegina sulla torta viene offerta dai Cds (le scommesse
sui default di vari Paesi), che concorrono grandemente ad
aggravare il quadro della situazione finanziaria della
Grecia.
Di là dalle cifre sul debito pubblico greco, sullo stato
comatoso del welfare state, sulla situazione fortemente
critica del sistema bancario, sullo stato della performance
economica nel suo complesso e sullo stato della “lotta di
classe” dei lavoratori greci, che non ha impedito loro nel
corso degli ultimi decenni di darsi governi caratterizzati
da una diarchia politica, questi ultimi si trovano per
necessità costretti o a subire un ulteriore imbarbarimento
sociale, che è quanto un capitalismo morente e non più in
grado di riprodursi può esprimere, o tentare di sperimentare
un sistema sociale che non faccia più della merce “la forma
generale della ricchezza” (mercato capitalistico, ma mercato
tout court giacché quella forma generale si presentata solo
con il capitalismo), cercando di trainarsi dietro altri
settori del lavoro salariato nel resto d’Europa. Il sentore
di una via verso un socialismo tutto da inventare in ciò che
si produce e nel come si distribuisce è presente in
parecchia pubblicistica, ma solo individui che vivono di
lavoro salariato, un lavoro che non garantisce più gli
standard di vita conosciuti, possono mettere fine a questa
esperienza storica di riproduzione della specie in direzione
di una superiore.
Tutti coloro che dall’alto dei loro troni al momento
inneggiano alle politiche di austerità in Grecia potranno
così essere messi nel posto in cui la Storia potrebbe
destinarli.
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Fonte -
www.countdownnet.info
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PIIGS, DEBITI E
DEFICIT: E ORA SCATTA L'ALLARME PER LA SPAGNA?
15 Aprile 2010 10:00 NEW YORK -
di IL SOLE 24 ORE ______________________________________________
Se la sfiducia dei mercati
dovesse abbattersi su Madrid (un assaggio c'è stato lo
scorso 4 febbraio quando la Borsa è crollata in una sola
seduta del 6%) con la stessa intensità con cui ha colpito
ultimamente altri paesi della...
José Luis Zapatero in una recente intervista ha detto che
adotterà qualsiasi misura pur di rilanciare l'economia
spagnola e pur di riordinare i conti pubblici entro il 2013
così come promesso a Bruxelles e ai partner europei.
La dichiarazione è importante perché la Spagna è la quarta
economia nella Ue e ha quindi un peso specifico ben
superiore a quella di altri "pigs" come Grecia e Portogallo.
Se la sfiducia dei mercati dovesse abbattersi su Madrid (un
assaggio c'è stato lo scorso 4 febbraio quando la Borsa è
crollata in una sola seduta del 6%) con la stessa intensità
con cui ha colpito ultimamente altri paesi della zona euro,
per la moneta europea sarebbe un vero disastro.
La domanda è dunque se la Spagna sia realmente una nazione a
rischio come di volta in volta sembrano indicare le analisi
delle principali agenzie di rating internazionali (il debito
a lungo termine è sotto osservazione con possibili
implicazioni negative ed è stata tagliata la notazione ad
alcune casse di risparmio) o di alcune banche.
Tanto più che il Tesoro dovrà emettere quest'anno debito per
oltre 210 miliardi di euro per far fronte al rimborso di
quello in scadenza e per finanziare gli interventi varati a
sostegno dell'economia.
«Il peggio - dichiara Juan Ignacio Crespo, responsabile di
Thomson-Reuters - è ormai alle spalle e non vedo
all'orizzonte alcun default. Le ultime emissioni sono andate
bene e sui Cds il differenziale con la Germania si sta
gradualmente riducendo. Pur nelle difficoltà contingenti,
sulla Spagna non ci sono mai stati grandi problemi di
fiducia. Il paese è solvibile, paga con puntualità e
continuerà a farlo anche in futuro, tant'è vero che il
debito in scadenza (90 miliardi di euro restano da
rimborsare nel 2010) viene continuamente rinnovato senza
sforzo e così quello addizionale che corrisponde
all'incremento del disavanzo pubblico».
Secondo l'analista di Thomson l'economia spagnola ha sì 6-9
mesi di ritardo rispetto alla ripresa degli Stati Uniti, ma
ci sono segnali che la situazione stia gradualmente
migliorando.
In particolare, secondo Juan Ignacio Crespo è importante il
fatto che il tasso di risparmio degli spagnoli non sia stato
mai così elevato (18%) come negli ultimi mesi. Ma anche che
l'inflazione sia contenuta. Due fattori, che permettono di
guardare all'aumento dell'indebitamento spagnolo
(dall'attuale 55% all'80% circa del Pil in 3 anni) e al
deficit (che verrà ridotto dall'attuale 11,4% al 3% nel
2013), con relativa tranquillità.
In realtà i rischi non mancano. La crisi provocata dallo
scoppio della bolla immobiliare, che è stata lenta e non
improvvisa come quella sui prodotti tossici di altri paesi,
è entrata nel profondo del tessuto economico del paese e si
è allargata ad altri settori come l'auto e il turismo, ma
anche a quello bancario.
Le cifre che danno un quadro della realtà quotidiana sono
quindi il milione di case invendute; gli oltre 4 milioni di
disoccupati (20% del totale); le sofferenze bancarie che
crescono di mese in mese; l'indebitamento delle famiglie
(176% del Pil, secondo McKinsey) che porta il totale
dell'esposizione del paese (pubblico e privato congiunti) al
400% del Pil circa; il calo della produzione industriale
(-2,5% a gennaio).
Il tutto mentre i conti pubblici sono fuori controllo e c'è
chi dubita che possano essere rimmessi in ordine entro il
2013.
La Spagna è passata in 5 anni dall'essere un paese virtuoso,
in forte crescita, a una nazione con uno dei maggiori
disavanzi nella Ue e una delle recessioni più marcate.
Qualcuno dice che il paese ha fatto il passo più lungo della
gamba e che sarebbe stato meglio restare fuori dall'euro:
sarebbe bastata infatti una modesta svalutazione della
"peseta" per superare la crisi.
Invece questa crisi ha messo a nudo i limiti di un modello
basato sulla "old economy" fortemente "labour intensive".
Per questo, per superare la cultura conservatrice del paese,
urgono riforme strutturali a tutti i livelli: sociale,
economico-produttivo, educativo.
Riforme che il paese ha i mezzi per varare, potendo contare
sulle basi di un sistema sanitario e di un sistema
pensionistico solidi, garanti del benessere sociale.
Zapatero ha intuito che la fase di stallo non può continuare
e che è urgente rimodernare il paese. I tempi sono però
lunghi: c'è bisogno infatti di ripianare l'attuale
situazione, che prenderà i prossimi due anni di quel che
resta della legioslatura, ma anche e soprattutto del
consenso politico. E questo è lo scoglio principale da
superare.
Fonte
-
IL SOLE 24 ORE
LA CINA CORRE:
ALLE PRESE CON POSSIBILI BOLLE
15 Aprile 2010 18:45 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Il ritmo di crescita e' il
migliore da tre anni. Yuan destinato ad apprezzarsi. La
banca centrale temporeggia sui tassi. Preoccupa di piu' il
rialzo dei prezzi nel real estate. Gli analisti ritoccano
all'insu i target sul Pil di fine anno.
Il ritmo di crescita piu' veloce da almeno tre anni. E'
quello registrato dal Pil cinese nei primi tre mesi
dell'anno. Si alimentano gli interrogativi su se e quando il
governo locale possa cambiare la propria politica valutaria
che ha tenuto a freno lo yuan a quota $6.83 negli ultimi 21
mesi.
Il prodotto interno lordo e' cresciuto dell'11.9% rispetto a
un anno prima. Si tratta di un risultato superiore all'11.7%
atteso dagli analisti interpellati da Bloomberg.
Un rialzo piu' ristretto del previsto sui prezzi al consumo
(+2.4% a marzo su base annuale contro un +2.6% atteso e un
+2.7% registrato a febbraio)riaccende il dibattito in corso
a Pechino sulla tempistica da adottare per rialzare i tassi
di interesse, tagliati nel 2008 per rispondere alla crisi
finanziaria globale. Australia e India si sono gia' mosse in
questo senso mentre Singapore ieri ha permesso una
rivalutazione della sua valuta con la fine degli stimoli a
sostegno dell'economia, volendo evitare rischi inflativi e
bolle speculative.
"La prossima mossa sembra orientata a una rivalutazione
dello yuan", ha detto Glenn Maguire, capo economista per
l'area Asia-Pacifico di Societe Generale con sede a Hong
Kong. Secondo l'esperto, l'andamento dell'inflazione
potrebbe portare la banca centrale a ritardare il rialzo del
costo del denaro fino alla seconda parte dell'anno.
In seguito alla pubblicazione dei dati sul Pil e al rialzo
record dei prezzi nel comparto immobiliare, il governo
cinese ha oggi annunciato misure idonee a raffreddare la
situazione. Allo studio nuove tasse, incluse quelle sui
profitti derivanti dalla vendita di immobili. A marzo i
prezzi rilevati in 70 citta' sono cresciuti dell'11,7%
rispetto allo stesso mese del 2009. A preoccupare e'
soprattutto il trend crescente: a gennaio l'aumento era
stato del 9,5% e a febbraio del 10,7%.
Sono molti gli investitori, incluso Jim Chanos (operante nel
settore degli hedge funds) a scommettere su una bolla
riguardante case ed edifici a uso commerciale. Se
esplodesse, le conseguenze sarebbero devastanti per tutto il
mondo. "Le misure annunciate quest'oggi fanno capire quanto
il governo sia riluttante ad alzare i tassi di interesse ma
sembra molto improbabile che nuove tasse siano sufficienti a
frenare il mercato immobiliare", ha osservato Brian Jackson,
strategist con sede a Hong Kong di Royal Bank of Canada.
A tutto cio' si aggiungono le pressioni inflazionistiche. I
dati odierni fanno pensare che il target previsto dal
governo per fine anno del 3% potrebbe non esser raggiunto.
Per meta' anno dovrebbe attestarsi al 2.5%. Intanto c'e' chi
vede un apprezzamento della valuta di oltre il 3% nei
prossimi 12 mesi.
D'altra parte, invece che guardare a un rialzo del costo del
denaro, la Cina ha pianificato una riduzione del 22%
sull'accensione di nuovi prestiti rispetto al record di $1.4
mila miliardi registrati l'anno scorso. Gli analisti sono
divisi su quando potrebbe aumentare il costo del denaro
preso in prestito. Royal Bank of Canada si aspetta una mossa
entro il mese in corso mentre Bank of America - Merrill
Lynch guarda al quarto trimestre. Si ricordi che l'ultima
volta che la Cina ha registrato una crescita dell'economia
superiore all'11% (era il primo trimestre del 2006), la
banca centrale ha alzato i tassi entro il mese successivo.
I policy makers, dal canto loro, hanno tenuto a precisare
che la crescita messa a segno da gennaio a marzo e' legata
alle misure di stimolo fiscale. Il rialzo, poi, sembra
notevole perche' confrontato con i bassi livelli del 2009.
se le esportazioni sono rimbalzate, le importazioni sono
cresciute a un passo piu' veloce.
Quanto al Pil odierno, Royal Bank of Scotland si aspettava
un +14.5%, piu' del consensus. La reazione delle case
d'affari e' stata comunque immediata. Citigroup ha alzato il
target per fine anno al 10.5% dal 9.8%. JPMorgan Chase & Co.
si spinge un pochino piu' in alto, al 10.8 per cento dal 10%
mentre RBS risulta la piu' ottimista: +11% da +10%.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
«La bolla sul mattone
cinese non sarà il nuovo subprime»
16 Aprile 2010 08:24 NEW YORK -
di Vittorio Carlini ______________________________________________
«Lo yuan verrà rivaluto? Credo di
sì e sarà un bene per l'economia mondiale». C'è una bolla
sulle banche cinesi che rischia di scoppiare? «Non credo.
L'unica bubble che vedo è quella sul mercato immobiliare
commerciale delle grandi città cinesi della costa». Creerà
problemi sistemici? «No, la situazione è ben diversa da
quella dei subprime americani». Jim Rogers, noto investitore
americano, da tempo trasferitosi nel Far East, è un fiume in
piena. Raggiunto al telefono dal sole24ore.com, in una pausa
dei suoi continui viaggi, spazia da un argomento all'altro.
Non rimane, quindi, che estrapolare alcune delle indicazioni
per definire i punti essenziali del suo pensiero.
La Cina e le bolle
Dal paese del Dragone non si contano le mille voci su
possibili scoppi di bolle pronte a seminare il panico sui
mercati: dalle quotazioni delle banche al mondo immobiliare.
In un recente report Citigroup, per esempio, pur non
indicando un imminente pericolo, ha sottolineato che la
capitalizzazione dei grandi istituti finanziari è pari circa
al 30% del Pil cinese. Un livello, tra i paesi emergenti, (o
presunti tali) che è avvicinato solo dal Brasile (poco meno
del 25%). «Non credo ad una bolla sulle banche di Pechino -
afferma Rogers -. I titoli non sono sottovalutati e, quindi,
io me ne sto ben alla larga; tuttavia, non penso che non ci
sia pericolo sul fronte bubble». La stessa Citi sottolinea
che un supporto al sistema bancario è la crescita degli
utili. Un incremento sostenuto dalla «forte espansione
economica - dicono gli esperti della banca- , da bassi
rapporti di cost/income e da un mercato contraddistinto
dell'oligopolio». Anche se, va detto, l'opacità del sistema
non induce certo a traquillizzare gli animi. Cui deve
aggiungersi un'ulteriore considerazione: nel report di
Citigroup si fa notare che, nel 2006, il rapporto maggiore
tra market cap e Pil si aveva in Spagna (quasi il 40%), dove
poi la bolla è scoppiata.
«Al contrario - aggiunge il guru delle commodity - il
rischio è concreto e reale nel real estate commerciale delle
grandi metropoli lungo la costa». Insomma, è il famoso tema
della speculazione immobiliare del Dragone che impensierisce
molto gli investitori occidentali: si teme un nuovo tsunami
subprime. «Non facciamo confusione - dice Rogers con forza
-. Si tratta di un mondo completamente diverso. La
speculazione sta già scoppiando ma non avrà delle
conseguenze sistemiche: ci saranno persone che perderanno i
loro soldi, altri ne guadagneranno. Come sempre accade nel
mondo degli investimenti. Ma il fenomeno dei subprime» è
stato un'altra cosa. Per quale motivo? «Negli Usa è saltato
un sistema basato su un eccesso di debito e su prestiti
erogati a chi non aveva alcuna garanzia. In Cina, invece, i
mutui sono dati solo dietro garanzia di depositi». E,
comunque, il livello di risparmio è molto più alto che negli
Stati Uniti. Quindi, sembra dire Rogers: non parliamo a
vanvera...
La rivalutazione dello yuan Rispetto, invece, alla questione
della svalutazone del dollaro contro la divisa cinese Rogers non
si appassiona troppo. «Sarà rivalutato lo yuan- dice-. Credo che
avverà e sarà un bene per le economie. L'america riuscirà a
migliorare le esportazioni verso le aree dell'Estremo Oriente».
Ma, come dire: non prevedo chissà quali rivoluzioni.
Attenzione alle obbligazioni governative Usa
Dove, al contrario, Rogers insiste nel mettere in allerta gli
investitori è sul fronte dei titoli governativi americani a
lunga scadenza. «Lì c'è una "new bubble"- dice- . A fronte di
una montagna di debito emesso dal governo di Washington il
rendimento di emissioni, come quella trentennale, è troppo
basso». Non viene prezzato il rischio di credito, insomma. E
questo è la conseguenza di massicci acquisti dei bond, spesso da
parte di quelle banche che li usano come collaterale per
incamerare liquidità dalla Fed e quindi dallo stesso governo. Un
meccanismo che fa alzare i prezzi, schiacciando lo yield. «Entro
la fine dell'anno la bolla può scoppiare - afferma Rogers -. Ci
sarà la necessità di una stretta della politica monetaria con le
note conseguenze, per esempio, sui mercati azionari». Quindi
prevede una recessione a doppia «W»? «Ma cosa vuol dire doppia
"W"? La crisi l'abbiamo superata, lo dicono tutti - risponde
Rogers, con un tono che si fa sarcastico -. Come sempre nei
sistemi capitalistici ci sarà un'altra recessione, prima o poi.
È il sistema che funziona così. Ne abbiamo viste tante. Ne
vedremo tante altre. Certo, con il peso degli interventi già
realizzati sarà più dura dell'ultima. Quando accadrà? Chi può
dirlo: tra un anno, tra due..ma ci sarà».
Fonte
-
Sole 24 ore
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Su
Obama l'ombra di 13 uomini
d'oro
18 Aprile 2010 15:32 WASHINGTON
– di Enrico Brivio
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«La mia amministrazione è l'unica cosa che ancora rimane tra
voi e le forche popolari». A parlare, con tono fermo, è
Barack Obama, di fronte a 13 banchieri convocati alla Casa
Bianca. Sono gli amministratori delegati dei più importanti
gruppi di Wall Street, da Lloyd Blankfein di Goldman Sachs a
Jamie Dimon di JP Morgan. È una gradevole giornata di sole,
quel 27 marzo 2009, per chi passeggia negli ariosi parchi di
Washington. Meno propizia per l'economia globale, ricordano
l'ex capoeconomista del Fondo monetario internazionale,
Simon Johnson, e il consulente di McKinsey, James Kwak, in
13 bankers: the Wall street takeover and the next financial
meltdown (13 banchieri: la conquista di Wall Street e il
prossimo collasso finanziario) libro fresco di stampa negli
Stati Uniti.
Un giorno poco felice - secondo gli autori - non solo perché
a quel punto la borsa americana è arrivata a perdere il 40%
nel giro di sette mesi, l'economia statunitense ha subìto
un'emorragia di 4,1 milioni di posti di lavoro e il Pil
mondiale per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale
si trova in fase di contrazione.
Ma perché quell'incontro
primaverile simbolizza, più di altri, il "patto scellerato"
stretto dall'amministrazione Obama con i big di Wall Street.
La scelta di proteggere in qualche modo i grandi banchieri
dall'ira popolare, di condividere il destino con i manager
che avevano generato il disastro, di sentirsi tutti su una
stessa barca. «L'amministrazione Obama decise, come
precedentemente quelle di George W. Bush e di Bill Clinton,
che aveva bisogno di questo sistema finanziario, dominato da
tredici banchieri», chiosano gli autori.
La tesi di Johnson, brillante docente alla Sloan School of
Management del Mit e co-autore con Kwak anche del
cliccatissimo blog Baseline Scenario, è che Wall Street da
vent'anni ha assunto un indebito potere su Washington. E il
frutto avvelenato di questo "takeover" del potere economico
su quello politico è che non si è colta l'occasione del
crack del 2008 per effettuare una vera riforma del sistema
finanziario.
A Obama i due economisti riconoscono di aver tentato di
ottenere concessioni dai banchieri, per attuare una profonda
revisione delle regole dell'economia e arginare
stratosferici bonus, che fanno infuriare la gente. E a onor
del vero proprio ieri, nel discorso radiofonico settimanale,
il presidente ha affermato che se il Congresso non approverà
la legge di riforma dei mercati finanziari gli Usa vivranno
presto una nuova crisi che graverà sui contribuenti.«Ogni
giorno di inattività - ha detto, riferendosi alle lungaggini
dell'iter parlamentare - significa che lo stesso sistema che
ha dovuto portare ai salvataggi rimane al suo posto, con gli
stessi difetti».
Ma il risultato appare per ora deludente a Johnson. Anche il
progetto di riforma presentato dal senatore democratico
Chris Dodd non viene considerato sufficiente, in quanto si
limita a delegare più potere alle autorità di controllo,
invece d'istituire tetti alle dimensioni delle banche,
ritenuti indispensabili. «Obama ha chiamato i 13 banchieri
per salvarli nel modo più generoso mai immaginabile nella
storia finanziaria - ribadisce Johnson, parlando di fronte a
un annacquato cappuccino nel refettorio del King's College
di Cambridge - nessuna condizione, nessuna ripercussione
negativa per le banche e per i manager che avevano portato
al disastro. Il sistema di incentivi non è stato cambiato e
la situazione è addirittura peggiorata negli ultimi due
anni». Apre il suo libro a pagina 203 per additare un
grafico che dimostra come le sei più grandi banche
d'investimento (Morgan Stanley, Goldman Sachs, Wells Fargo,
Citigroup, Jp Morgan Chase e Bank of America) abbiano
aumentato le proprie attività in relazione al Pil americano,
anche dopo la crisi. «Prima del settembre 2008 si poteva
dibattere se esistessero banche troppo grandi per fallire -
osserva Johnson - dopo quell'incontro alla Casa Bianca i
partecipanti hanno saputo di esserlo. E così hanno
continuato a ragionare all'insegna dell'adagio: meglio vanno
le cose, più grandi dobbiamo diventare».
Il co-autore Kwak, commentando dal suo blog le ultime
inchieste su Goldman Sachs, precisa che «la crisi
finanziaria non è stata creata da comportamenti criminali» e
che, se anche ce ne sono stati, non hanno rappresentato
l'elemento determinante di un crack, che sarebbe avvenuto
anche senza alcuna palese infrazione della legge. Ma grazie
a un'arrendevole compiacenza di Washington nei confronti del
rampante clima di laissez faire voluto da Wall Street.
Per questo Johnson e Kwak non ritengono che sia sufficiente
reintrodurre la suddivisione tra banche di raccolta dei
depositi e commerciali o di investimento, come previsto dal
progetto Dodd, riecheggiando il Glass Steagall Act,
approvato dopo la crisi del '29 e abolito ai tempi di
Clinton. «Ci dovrebbero essere dei tetti sulle dimensioni -
sostiene Johnson - più alti per le banche che svolgono
attività tradizionali e più restrittivi per chi opera come
Goldman Sachs». Nel libro si specifica che sarebbe utile
limitare a non oltre il 4% del Pil americano (circa 570
miliardi di dollari) il tetto delle attività di ogni
istituto finanziario operante negli Stati Uniti, mentre per
le banche d'investimento come Goldman Sachs il limite
dovrebbe scendere al 2% del Pil Usa, (circa 285 miliardi di
dollari). Limiti che imporrebbero riduzioni delle attività
proprio delle sei banche citate precedentemente, che vanno
da Bank of America con attività pari al 16% del Pil Usa a
Morgan Stanley con il 5 per cento.
Fondamentale è per Johnson e Kwak scolpire questi interventi
nell'ordinamento giuridico e non limitarsi a migliorare la
supervisione finanziaria. «Anche se il governatore Ben
Bernanke e i suoi colleghi sono diventati più sensibili ai
problemi dei rischi finanziari - afferma l'economista del
Mit - se non ci saranno regole chiare, la prossima volta che
ci sarà un'amministrazione repubblicana si ritornerà a
lasciare totale libertà alle grandi banche».
Il rischio? Ritrovarsi nell'abisso di una crisi ancor più
nera. Ma dov'è la prossima bolla? «Non credo sarà nei
subprime o nei mutui - risponde Johnson - perché lì ora si
fa più attenzione. Potrebbe essere provocata dagli
investimenti nei mercati emergenti. Ogni consulente
finanziario che incontro mi dice: i mercati emergenti
andranno benissimo, negli ultimi due anni sono andati meglio
del resto, la Cina può solo salire».
Per l'economista c'è il rischio che si crei una spirale
vorticosa con investitori asiatici che convogliano i
guadagni in banche too big to fail negli Stati Uniti e in
Europa, che a loro volta prestano i soldi ad altri operatori
probabilmente anche nei mercati emergenti. «È un po' come
riciclare petrodollari negli anni 70, è un ciclo che andrà
bene per un po' di anni e poi salterà per aria di nuovo -
prevede Johnson - e quando salterà le conseguenze saranno
ancor più dure per gli Stati Uniti». Per esorcizzare questi
problemi, Johnson e Kwak si augurano che Obama e il
Congresso dimostrino il coraggio di Theodore Roosevelt
quando, nel nome della concorrenza, nel 1902 attaccò
Northern securities, sfidando l'idea comune del tempo che i
trust industriali fossero naturali. E che, per il bene del
mercato, s'imponga una cura dimagrante all'oligarchia
finanziaria delle grandi banche di Wall Street.
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Fonte -
Sole 24 ore
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Obama
e i mercati: quattro parti di
realismo e una di idealismo
22 Aprile 2010 12:08 MILANO
– di *Alessandro Fugnoli
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli,
strategist Kairos Partners SGR.
________________________________________
Il fisico può contare su una costante ripetibilità dei
risultati di un esperimento o quanto meno su una
prevedibilità statistica. Per contro, lo scienziato sociale
non può fare esperimenti e, anche se li potesse fare, non
potrebbe contare sulla ripetibilità dei risultati in
contesti storici differenti. Al fisico che studia come cade
un sasso non interessa se il sasso, soggettivamente,
attribuisca un significato al suo cadere per terra, mentre
lo scienziato sociale deve indagare la soggettività e
interpretarla se vuole capire qualcosa di quello che studia.
Proviamo allora a utilizzare questo metodo per capire ad
esempio che cosa si propone l’Amministrazione Obama quando
attacca Goldman Sachs, o il governo cinese quando aziona i
freni sulle case e sul credito o, ancora, che cosa possono
avere in mente la Bundesbank e la classe politica tedesca
quando pensano alla Grecia.
Obama non è un idealista alla Woodrow Wilson. Ha
probabilmente quattro quinti di realismo e un quinto di
idealismo. Se non fosse così, difficilmente avrebbe potuto
emergere nella Chicago politica, uno dei mondi più duri e
spietati che si possano immaginare in un contesto
democratico. Possiamo quindi supporre che il suo imperativo
darwiniano sia, come per quasi tutti i politici, quello di
sopravvivere (ovvero avere consenso ed essere rieletti)
facendo in più qualcosa, se possibile, che vada nella
direzione della componente ideale.
Come dice giustamente Simon Johnson, ex capo economista del
Fondo Monetario, i presidenti sono ricordati (ed
eventualmente rieletti) per un massimo di due o tre scelte
politiche o eventi che hanno caratterizzato il loro primo
mandato (nel secondo fanno in genere ben poco). Obama ha
incassato la riforma sanitaria, ma dovrà rinunciare
all’ecologia, se non nella forma di una carbon tax sulla
benzina. Il secondo e il terzo punto della sua eredità
saranno quindi, probabilmente, la ripresa economica e la
riforma della finanza.
La ripresa economica è molto più importante della riforma
della finanza. Lo è oggettivamente, ma lo è anche e
soprattutto dal punto di vista soggettivo di qualcuno che
vuole essere rieletto. L’opinione pubblica notoriamente non
ama le grandi banche e in periodi di crisi detesta qualsiasi
figura o atteggiamento che le ricordino Gordon Gekko. I
mercati finanziari, tuttavia, seguono un’altra logica.
Accettano una volontà riformatrice prudente e gradualista ma
si rivoltano immediatamente se colgono nell’aria un
atteggiamento punitivo.
E’ stato così in gennaio dopo che la sbandata psicologica
seguita alla sconfitta elettorale in Massachusetts ha
risvegliato velleità populiste, subito rientrate quando si è
visto che le borse cominciavano a pensare al peggio.
Come dice Greenspan, il rialzo delle borse non ha seguito e
nemmeno anticipato la ripresa, l’ha trainata. Questa
funzione di traino verso l’alto puo' in un attimo
trasformarsi in un traino verso il basso. Un politico
accorto come Obama sa fare i suoi conti. Una borsa
spaventata può indebolire la ripresa e accrescere il senso
di insicurezza in chi è disoccupato e in chi ha un lavoro ma
non è più tanto sicuro di poterlo conservare. Gli elettori
americani non perdonerebbero in nessun modo un presidente
che non li facesse uscire dalla crisi.
Quanto all’attacco alle banche, può certamente portare
consenso, ma i repubblicani sono abbastanza accorti da non
lasciare questa bandiera ai democratici e seguono un doppio
binario. Alla Sec votano contro la messa in accusa di
Goldman Sachs, ma in Congresso e in televisione criticano le
banche tanto quanto i democratici.
Simon Johnson e molti liberal invocano la dissoluzione di
Goldman. E’ più probabile però che ci si limiti a mantenere
una certa pressione e che si provi a indurre qualche
cambiamento ai vertici. Un attacco duro può essere tenuto
nel cassetto per un momento successivo nel caso drammatico
di una ricaduta del ciclo economico. Il populismo aggressivo
è l’ultima spiaggia cui si ricorre se non si possono vantare
successi economici. Anche Roosevelt divenne quasi
anticapitalista solo quando il ciclo tornò a volgere al
peggio nel 1937.
Solo con le spalle al muro, quindi, la classe politica si
rivolgerà contro una delle poche industrie, la finanza, in
cui l’America ancora primeggia. Simon Johnson cita la
dissoluzione della Standard Oil nel 1911 e quella della Att
nel 1982 per dire che l’attacco ai monopoli può non essere
devastante.
Dimentica però di dire che l’America di quei tempi era più
forte e non considera che le banche non sono un settore
qualsiasi, ma un ganglio vitale del sistema. Obama quindi
cercherà di arrivare a una riforma moderata e bipartisan.
Dopo la lacerazione politica prodotta dalle forzature sulla
riforma sanitaria, una riforma più tranquilla e consensuale
gli darà modo di ribadire uno dei tratti che lo hanno
portato alla Casa Bianca, quello di essere un unificatore.
Veniamo ora alla Cina, dove il crescendo di misure
restrittive sul credito (in particolare immobiliare) ha
rimesso in circolazione i timori di gennaio su una brusca
caduta della crescita con effetti negativi a cascata sulle
materie prime.
Se ci mettiamo nei panni dei governanti cinesi vediamo che
la percezione che hanno della solidità del loro potere è
corretta. In altre parole sanno che il loro grande potere
non è assoluto come appare ma è il risultato di un patto
implicito che li impegna ad assicurare ai governati crescita
e posti di lavoro. Da un punto di vista soggettivo, dunque,
una frenata brusca o addirittura una crisi immobiliare e
bancaria sono semplicemente impensabili e irricevibili.
Alla bolla immobiliare cinese vanno poi prese le misure
correttamente prima di proclamare crolli imminenti e
inevitabili. Nel lungo termine i prezzi delle case sono
funzione del Pil nominale e della sua crescita. Come nota
Capital Economics, il Pil nominale cinese è cresciuto dal
2005 del 15 per cento l’anno. Questo significa, aggiungiamo
noi, che il prezzo delle case ha diritto di crescere del 15
per cento l’anno senza violare nessuna legge anti-bolle.
Nell’ultimo anno i prezzi sono saliti del 19 per cento e il
governo sta già intervenendo.
Molti commentatori sopravvalutano la bolla perché vivono o
guardano a Pechino e a Shanghai, dove effettivamente i
prezzi (in particolare a Pechino) sono saliti di molto. A
Pechino (dati di Morgan Stanley) il prezzo di un metro
quadro ha raggiunto i 25mila renminbi, circa 2700 euro. A
Shanghai siamo sui 1850 euro e la salita è stata meno
impressionante. La Cina però ospita 1300 milioni di persone
e solo 36 vivono nelle aree metropolitane di Pechino e
Shanghai. Nel resto del paese i prezzi sono molto più bassi
e soprattutto si sono mossi poco.
Nessun occidentale vive a Chongquing e nessun turista va a
visitarla perché è brutta e inquinata, ma Chongquing è pur
sempra la più grande metropoli cinese (35 milioni di
abitanti) e le case costano 445 euro al metro e salgono
molto lentamente. Non a caso, se si leggono con attenzione
le misure di questi giorni, si nota un’enfasi sulla
selettività regionale. Solo nelle aree surriscaldate si
interviene con energia.
Quanto alle materie prime, la Cina continuerà a comprarle.
Il ritmo di crescita rallenterà, ma va ricordato che la Cina
accumula materie prime non solo per usarle ma anche come
riserve. C’è poi una motivazione cosmetica. Comprare rame o
qualsiasi altro metallo fa diminuire il surplus commerciale
e può alleggerire (così almeno sperano i cinesi) le
pressioni per una rivalutazione del renminbi.
Indossiamo ora panni tedeschi e proviamo a guardare la
Grecia da Berlino. Il Wall Street Journal riporta di una
riunione a porte chiuse in cui il presidente della
Bundesbank Axel Weber ha presentato al governo il vero costo
finale di un salvataggio della Grecia. La cifra indicata da
Weber è di 80 miliardi di euro, ovvero 35 in più dei 45 già
messi a disposizione (30 dai paesi europei e 15 dal Fondo
Monetario).
Facciamo ora l’ipotesi che i 35 miliardi in più siano tutti
a carico dei paesi europei e facciamo i conti in tasca alla
Germania. La quota tedesca, stabilita con il bilancino
utilizzato nella linea di credito già annunciata, sarebbe di
ulteriori 9.78 miliardi, facciamo 10.
Dieci miliardi sono dunque il prezzo tedesco per risolvere
in modo radicale e credibile la crisi greca, evitare il
contagio a Spagna e Portogallo, impedire che un euro del
nord schizzi verso l’alto e tolga competitività
all’industria tedesca, risparmiarsi l’ennesimo salvataggio
delle banche che sono piene di titoli greci e spagnoli (e
che costerebbe ben più di 10 miliardi) ed evitare il
naufragio politico dell’Europa.
Che cosa sono 10 miliardi (prestati, si noti, non regalati)
per la Germania? Sono 30 giorni di surplus commerciale. Può
la Germania fare a meno per 30 giorni del suo surplus con
l’estero e accontentarsi di un pareggio per il quale gli
Stati Uniti metterebbero cento firme? Fate voi.
In conclusione, abbiamo provato a soppesare i tre problemi
che hanno procurato ansia ai mercati negli ultimi sette
giorni, Goldman Sachs, la Cina e di nuovo la Grecia, e ne
abbiamo ricavato l’idea che non sono insormontabili,
soprattutto in una fase di crescita globale senza inflazione
e con alti margini di profitto. I mercati sono arrivati alla
stessa conclusione e la correzione, in sette giorni, è stata
dello 0.93 per cento sull’S&P 500. In compenso il long bond
è salito dell’1.29 per cento. Rimanere investiti.
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Fonte -
Il Rosso e il Nero
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IMMOBILIARE USA:
A MIAMI TORNA A SPLENDERE IL SOLE
22 Aprile 2010 22:40 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Posizione attraente e grandi
affari. Prezzi in ripresa (era sotto -51%). Vendite e
affitti di condomini aumentano a South Beach. Chi visiono'
ma poi preferi' non comprare il complesso Caribbean
sull'Oceano Atlantico ora si morde le mani.
Nonostante offra una vista unica sull'Oceano Atlantico e una
serie di strutture extra di lusso come una cantina di vini e
un umidificatore per sigari, il complesso di condonomi
Caribbean a Miami Beach fino all'estate scorsa sembrava solo
una delle tante vittime della crisi che ha colpito il
mercato immobiliare del sud della Florida.
Ci sono state persone interessate a tutte e 103 le unita'
abitative del complesso, che comprende un piccolo edificio
Art Deco completamente rinnovato e una nuova torre di vetro,
ma solo 14 di loro hanno espresso l'intenzione di chiudere
l'operazione. Gli altri alla fine se ne sono andati via con
la caparra e la coda tra le gambe.
Il Caribbean, all'angolo tra la 37ma strada e Collins
Avenue, ha portato ingenti perdite ai suoi creatori, Christa
Development of Victor e Bluerock Real Estate, e al suo
mutuante, Corus Bankshares di Chicago.
Allo stesso tempo, tuttavia, ha significato un buon profitto
per un altro investitore nel real estate Melohn Properties,
che ha assunto il controllo della proprieta' dopo aver
comprato il mutuo da Corus per $127.7 milioni, ad agosto
dell'anno scorso. Melohn ha dovuto sborsare meno della meta'
del valore di facciata del mutuo, secondo quanto si legge
sul New York Times.
Ci sono solo 15 unita' immobiliari rimaste al Caribbean,
Originariamente al prezzo di circa $1100 per piede quadrato,
i condomini del complesso ora costano in media $600 per
piede quadrato, con quelli al piano piu' alto con terrazze
da sogno che valgono $750. La maggior parte degli acquirenti
ha pagato la quota in contanti e tutti hanno intenzione di
utilizzare i condomini per se'.
Peter Zalewski, proprietario di Condo Vultures, una societa'
di brokeraggio specializzata nella vendita di unita' in
blocco, ha riferito al quotidiano che una decina di altri
investitori hanno chiesto informazioni sul complesso
immobiliare di Caribbean, ma che avrebbero poi preferito
soprassedere. "Ora hanno tutti dei rimpianti".
Anche se il mercato del mattone a Miami continua a navigare
in acque agitate, non e' piu' moribondo. Stando a quanto
riferito al New York Times dagli specialisti del settore, l'attivita'
e' in ripresa, anche se gli acquirenti che hanno intenzione
di vivere nelle abitazioni sono per lo piu' interessati alle
proprieta' di lusso situate nelle localita' migliori.
Robert Kaplan, dell'Olympian Capital Group, una banca di
investimento nel real estate di Miami, fa sapere che
nonostante il complesso Caribbean sia a nord della localita'
balneare di South Beach, la sua vista sull'oceano e la
costruzione molto solida e affascinante lo rendono
attraente.
Jack McCabe, consulente immobiliare della Florida, ha reso
noto che gli affitti sono calati cosi' tanto che un nuovo
condominio da 1200 piedi quadrati potrebbe essere preso in
prestito per soli $1200 al mese, meno di quanto costi ai
proprietari coprire tutte le spese.
Il mini-boom non e' molto salutare per il mercato in
generale, ma il flusso in entrata di affittuari significa
che downtown Miami non e' piu' una citta' fantasma. Ci sono
sempre piu' luci e nuovi bar e ristoranti stanno sorgendo.
Tra i motivi della ripresa anche il fatto che sia Fannie Mae
che Freddie Mac, due agenzie governative che erogano mutui,
hanno allentato le restrizioni imposte, che complicava,
limitandole, le attivita' di prestito e le operazioni di
acquisto.
PAULSON CAMBIA IDEA,
E' BULLISH SULL'IMMOBILIARE
22 Aprile 2010 22:49 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Colui che ha fatto soldi
scommettendo contro titoli legati ai mutui subprime e'
ottimista sul settore residenziale. Chi ha sofferto di piu'
(la California) si riprendera' piu' in fretta. Invariata la
strategia sull'oro.
Nel 2007, subito prima dell'inizio della crisi, aveva fatto
(probabilmente) carte false per scommettere contro titoli
strutturati legati ai mutui subprime. Adesso il famoso
manager nell'industria degli hedge fund John Paulson sembra
aver cambiato idea dicendosi bullish, ossia molto ottimisita,
sul settore immobiliare a stelle e strisce e sull'economia
in generale.
Il timing dell'annuncio, dato nel corso di una conference
call con gli investitori, e' quanto mai curioso, visto che
arriva nel bel mezzo delle indagini avviate dalla Sec, che
ha accusato di frode Goldman Sachs per aver ingannato grandi
operatori su derivati collegati proprio ai mutui subprime.
Vicenda in cui lo stesso Paulson sembra aver avuto un ruolo
chiave.
Saranno le indagini a portare a galla la verita' sul
passato. Nel frattempo meglio guardare al futuro. Il famoso
money manager soltanto tre mesi fa si era detto preoccupato
di una possibile doppia recessione ma ora non c'e' piu' da
temere. "Al giorno d'oggi non sono piu' preoccupato. La
forma della ripresa potrebbe essere a V", ha detto l'esperto
aggiungendo che i prezzi delle case si sono stabilizzati e
potrebbero crescere dell'8-10% in media negli States nel
2011.
Gli utili societari si stanno rivelando in generale al di
sopra delle stime, l'azionario e' ben impostato e c'e' un
mercato del credito che mostra segni di "vitalita'". L'outlook
per il settore residenziale "nel 2011 potrebbe essere
davvero molto solido", ha spiegato.
Paulson gestisce masse per $32 miliardi, cifra che pone la
sua societa' al terzo posto tra gli hedge fund mondiali
dietro a JP Morgan Chase e Bridgewater Associates. Il gruppo
e' cresciuto rapidamente macinando miliardi. Come?
Scommettendo contro prodotti legati ai mutui prima che il
settore immobiliare andasse a gambe all'aria nel 2007. E
guarda caso, una di queste scommesse era proprio contro un
cdo (collateralized debt obligation) chiamato Abacus
2007-AC1 confezionato da Goldman Sachs. Lo stesso diventato
famoso da venerdi' scorso, da quando l'autorita' della borsa
americana l'ha messo sotto la lente.
L'accusa, ormai lo sanno tutti, e' di frode. L'istituto
avrebbe omesso informazioni rilevanti che avrebbero potuto
evitare grandi perdite a chi aveva scelto di investirci
mentre lo stesso cdo avrebbe garantito lauti guadagni a chi
lo aveva voluto (Paulson) per scommetterci, ma in modo
contrario a quanto stava facendo la clientela.
Ma torniamo alle prospettive future. Paulson si dice molto
piu' rassicurato sul fronte di doppia recessione e
bancarotta di un paese dell'Europa del sud. "Attualmente
sono molto meno preoccupato delle probabilita' che una di
queste due eventualita' possa realizzarsi", ha ribadito. I
problemi della Grecia, ha spiegato, ora sono molto chiari e
compresi e ci si sta lavorando su.
Tornando al comparto immboliare, per il gestore del fondo
hedge, la caduta dei prezzi si sta per arrestare. E gli
ultimi saranno i primi: la California, la prima ad aver
sofferto, sara' la prima a risollevarsi, ha sostenuto. I
prezzi nello stato governato da Arnold Schwarzenegger hanno
fermano la loro discesa oltre sei mesi fa e i dati piu'
recenti dimostrano che ora sono in crescita dell'8-10%. A
livello nazionale, ha ricordato Paulson, un simile
incremento e' atteso l'anno prossimo.
Paulson non vede rosa solo sul settore case. Siete
preoccupati della montagna di debito che le aziende hanno
accumulato e che deve essere rifinanziato a partire dai
prossimi tre anni? Non serve, ha detto Paulson. Lui si dice
tranquillo a tal proposito liquidando coloro che ne sono
preoccupati dicendo "c'e' cosi' tanta domanda di debito...".
"La fame di credito e' simile a quella di chi e' ingordo",
ha aggiunto facendo notare che l'offerta supera "ampiamente
la domanda".
Cosa dire sul bene rifugio per eccellenza? Paulson e' stato
recentemente il piu' grande investitore in SPDR Gold Trust e
possiede importanti quote in almeno una miniera d'oro.
All'inizio dell'anno, inoltre, ha dato il via a un hedge
fund dedicato al trading del metallo prezioso che pero' ha
perso il 14% nel primo mese con la ritirata dei prezzi
dell'oro. Ma la sua strategia non cambia: l'oro e' visto
come un buon modo per contrastare un'inflazione galoppante.
La corsa dei prezzi al consumo pero' non ci sara' fino ai
prossimi 3-7 anni, ha anticipato.
RIPRESA A V,
PAROLA DI GOLDMAN SACHS
22 Aprile 2010 23:34 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Sfatati i timori di una doppia
recessione. La Cina, dove le importazioni cresceranno,
fungera' da traino. Il fair value del cross euro/dollaro
visto a $1.22. Comprare la sterlina nella seconda meta'
dell'anno, a patto che...
Altro che doppia recessione. L’economia mondiale si trova
chiaramente lungo la strada della ripresa, la cui forma e’
quella a V. A sostenerlo e’ il capo della ricerca economica
globale di Goldman Sachs, Jim O’Neill.
Le azioni offrono un "valore rispettabile", l’unica minaccia
del recente rally e’ il rischio di un rialzo significativo
dei tassi di interesse, ha aggiunto l’esperto parlando ai
microfoni di Cnbc. Questo scenario non e’ ancora chiaro in
generale nel breve termine visto che politici e addetti ai
lavori temono il ritorno di una recessione che metta
nuovamente a tappeto tutto il mondo.
"Gli stessi indicatori che indicavano una frenata
dell’economia ora suggeriscono una ripresa nei paesi
sviluppati cosi’ come in quelli in via di sviluppo" ha
spiegato colui che e’ diventato famoso per aver coniato il
termine BRIC, riferito alle economie emergenti di Brasile,
Russia, India e Cina.
Intervenendo a una conferenza a Londra (dove si e’ rifiutato
di rispondere alle domande riguardanti l’accusa di frode
arrivata dalla Sec alla banca per cui lavora) O’Neill si e’
detto preoccupato soltanto della debolezza della spesa da
parte dei consumatori a stelle e strisce. Una solida spesa
da parte delle aziende americane sta compensando la
reticenza dei cittadini statunitensi a spendere di piu’.
Una cosa e’ certa: per l’analista il traino della crescita
globale sara’ la Cina. E proprio su questo punto O’Neill
lancia un messaggio alla classe politica americana:
continuare a parlare di una guerra giocata sul piano
commerciale e’ sbagliato. "La leadership politica qui a
Ovest e’ debole e non comprende che il surplus commerciale
cinese sta calando", ha continuato.
Il vero punto e’ che la domanda interna in Cina sta
crescendo del 15% o piu’ e anche le importazioni stanno
accelerando. "Basta guardare alla Germania, che presto
esportera’ piu’ beni verso l'impero del Dragone che non
verso la Francia", ha riferito. Secondo O’Neill, le
esportazioni europee stanno andando molto bene, la domanda
da parte di Cina e India sta crescendo e in generale i
manager tedeschi non sono preoccupati della crisi greca.
Su Atene sono puntati i fari di tutto il mondo, visto che ha
iniziato i colloquio con Fmi e Ue sui dettagli del piano di
aiuti ma per la Germania, che di fatto fornira’ la maggior
parte dei fondi, quella greca e’ una storia positiva.
Cosi’ ha continuato O’Neill sostenendo che gli esportatori
tedeschi stanno registrando buone performance nonostante il
rafforzamento dell’euro negli ultimi anni. L’esperto vede il
fair value per il cross euro/dollaro a $1.22 e crede che la
Germania possa spingere la valuta verso tale livello. Come?
Essendo pessimista sul salvataggio della Grecia.
Con la sterlina in difficolta’ in vista delle elezioni del
prossimo 6 maggio, O’Neill si dice convinto che la valuta di
Sua Maesta’ rappresenta un’opportunita’ d’acquisto per la
seconda parte dell’anno.
Quanto ai conti della Gran Bretagna, il deficit di bilancio
deve esser tenuto sotto controllo, ma nel breve termine non
c’e’ bisogno di correre ai ripari con tagli alle spese,
almeno fino a quando sara’ chiaro che la ripresa economica
e’ sostenibile. Se cosi’ non sara’ il mercato vendera’ i
titoli di stato inglesi e la sterlina in modo aggressivo.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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Domenica 18
Aprile
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Mercoledì 21
Aprile
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Sabato
24 Aprile 2010 |
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Obama pronto
all'affondo sulla riforma della finanza
Corrado Poggi -
di Il Sole 24 Ore - Radiocor ______________________________________________
Senza riforma finanziaria, gli Stati Uniti «rischiano una
nuova crisi». E' quanto dirà oggi il presidente Barack Obama
nel discorso che pronuncerà nel pomeriggio al Cooper Union
College di New York. «E' essenziale imparare le lezioni di
questa crisi - dirà Obama secondo le anticipazioni del
discorso diffuse dalla Casa Bianca - in modo da non
condannarci a ripeterle». «E non fatevi illusioni -
aggiungerà - questo è esattamente quello che succederà se
lasceremo passare questo momento, un risultato che sarebbe
inaccettabile per me e per l'intero popolo americano».
Obama approfitterà del discorso
per rimettere sotto pressione il Congresso affinché vari in
tempi rapidi la riforma del sistema finanziario. La scelta di
New York non è casuale: il presidente, libero ora delle
preoccupazioni legate alla riforma sanitaria, intende lanciare
un messaggio deciso al mondo delle finanza andando a pochi passi
da Wall Street, dove la crisi attuale ha avuto luogo ormai tre
anni fa. «Uno dei fattori che più hanno contribuito a questa
recessione - dirà Obama - è stata una delle peggiori crisi
finanziarie mai viste in generazioni. E questa crisi è stata il
prodotto di un fallimento di responsabilità, da Wall Street a
Washington, che ha abbattuto molti dei principali istituti
finanziari del mondo e ha quasi trascinato la nostra economia
nella seconda Grande Depressione».
Obama rivolgerà un invito direttamente alle grandi banche, e al
partito repubblicano, affinché sostengano il programma di
riforme varato dal partito democratico e che verrà messo al voto
al Senato la prossima settimana. La riforma del sistema
finanziario è un tema di grande interesse per un'opinione
pubblica irritata per il salvataggio delle grandi banche con
soldi pubblici e preoccupata dalla prolungata paralisi del
mercato del Lavoro. Per gli strateghi della Casa Bianca potrebbe
anche essere il tema su cui organizzare la campagna elettorale
in vista delle elezioni di metà mandato di metà novembre e non a
caso nei giorni scorsi la Sec ha sferrato la prima offensiva
aprendo un'indagine per frode nei confronti di Goldman Sachs.
Nel discorso che pronuncerà di fronte a una platea di circa 700
figure di primo piano del mondo finanziario, Obama indicherà
alcune misure concrete. In primo luogo il presidente
sosterrà l'importanza di votare a legge il piano di riforma
preparato dal senatore democratico Christopher Dodd che vuole
sottoporre a maggiore scrutinio gli hedge fund e i prodotti
derivati riducendo le operazioni di trading rischiose e
aumentando le protezioni a favore dei cittadini che acquistano
prodotti finanziari. La legge prevede inoltre un sistema per
liquidare in maniera indolore le grandi istituzioni finanziarie
in crisi evitando al tempo stesso le catastrofi provocate da
debacle del passato come quella di Lehman Brothers nel 2008. In
cima agli obiettivi rimane inoltre la "Volcker rule", cioè il
divieto per le banche di fare trading per proprio tornaconto
oltre che per quello dei clienti. Attualmente i democratici
possono contare al Senato su 59 voti contro 41 dei repubblicani:
per passare la legge serve il 60esimo cruciale voto e Obama
spera, aumentando oggi il livello della pressione sui
repubblicani, di trovare un senatore dell'opposizione disposto a
votare a favore. Un risultato che alla Casa Bianca appare ormai
a portata di mano anche perché per i repubblicani potrebbe
diventare molto difficile presentarsi alle elezioni di novembre
esponendosi all'accusa di aver salvato le banche dalla resa dei
conti con il paese.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore - Radiocor
Ecco la riforma
finanziaria anti-crisi di Obama
Marco Valsania -
di Sole 24 ore ______________________________________________
La grande riforma finanziaria di
Barack Obama, quella che dovrebbe prevenire il ripetersi di
nuove catastrofi finanziarie e dare al governo più efficaci
strumenti per risolverle, è in dirittura d'arrivo. I segnali
di un superamento dell'impasse tra la maggioranza
democratica e la minoranza repubblicana in Congresso, che
aveva tenuto il progetto ostaggio dell'ostruzionismo, si
sono moltiplicati: Obama raccoglie oggi il messaggio di
disgelo in un discorso a New York a Cooper Union, a due
passi da Wall Street, invocando il rapido passaggio della
legge e chiedendo alle banche di richiamare i loro lobbisti
e accettare l'inevitabilità della riforma. Mentre dal
Congresso è già giunta la prima approvazione "bipartisan" di
un capitolo chiave, la più stretta regolamentazione dei
derivati.
La svolta potrebbe portare fin dalla prossima settimana
all'apertura del dibattito in aula e ai primi voti
sull'intero progetto, il più ambizioso dell'amministrazione
Obama dopo la sanità. "Non sono mai stato così ottimista -
ha detto l'influente senatore repubblicano dell'Alabama
Richard Shelby - credo che sapremo mettere assieme una legge
molto rapidamente". Qualche tensione, certo, resta: i
democratici affermano che gli avversari hanno ceduto. I
repubblicani rispondono di aver costretto la maggioranza a
trattare. Quel che è certo, però, è quanto il clima politico
sia mutato profondamente a favore della riforma, che
potrebbe ora avere vita più facile in Parlamento della
sanità, varata tra intense polemiche con i soli consensi
democratici. Allo sprint ha contribuito il continuo
risentimento politico e popolare contro gli eccessi
dell'alta finanza e la nuova offensiva a Wall Street della
Securities and Exchange Commission, che ha accusato la
regina dell'investment banking e del trading Goldman Sachs
di frode ai danni degli investitori. Almeno un alto
dirigente di Goldman, forse l'amministratore delegato Lloyd
Blankfein o il direttore generale Gary Cohn, secondo
indiscrezioni potrebbe trovarsi nel pubblico di circa 700
persone al quale Obama intende rivolgersi con toni duri. "Il
libero mercato - afferma il presidente - non era mai stato
inteso come una licenza a prendere tutto ciò che si può in
qualunque momento. Invece è successo troppo spesso durante
gli anni che ci hanno portato alla crisi. Qualcuno a Wall
Street ha dimenticato che dietro ogni dollaro c'è una
famiglia che cerca di comprare una casa, di pagare per
l'istruzione, di aprire un'azienda, di risparmiare per la
pensione".
La prova legislativa dei passi avanti della riforma è
arrivata da una Commissione parlamentare, la Commissione
Agricoltura, sullo scottante tema dei derivati, al cuore
della bufera finanziaria del 2008. Il voto, 13 a otto, ha
visto il cruciale sostegno del senatore repubblicano Charles
Grassley dell'Iowa. Stato agricolo, l'Iowa è particolarmente
sensibile alle speculazioni sui prezzi delle commodities. La
normativa, proposta dal senatore democratico Blanche Lincoln
dell'Arkansas, prevede che gran parte dei derivati sia in
futuro trattata in modo più trasparente su veri e propri
exchange, con una terza parte che garantisca la transazione
(clearing). L'unica eccezione sarebbero i derivati sulle
valute, grazie a un'esenzione dal Tesoro. Il piano richiede
anche che le grandi banche scorporino le divisioni impegnate
in queste attività, ma la misura è invisa alla stessa Casa
Bianca e potrebbe decadere nei futuri negoziati.
Alla Commissione Bancaria, nel frattempo, sono scattate
serrate trattative tra i due partiti sull'insieme della
legge di riforma. I punti chiave su cui avanza l'intesa
prescrivono maggiori poteri di controllo sul sistema
finanziario alla Federal Reserve e alle autorità dei
regolamentazione, con la possibilità di intervenire su
colossi non bancari in crisi e di smembrarli. La legge
darebbe inoltre vita a un'authority in difesa dei
risparmiatori e garantirebbe maggiori risorse alla Sec per
operazioni di polizia sui mercati. I protagonisti della
discussione sono il senatore democratico Christopher Dodd
del Connecticut e il suo collega repubblicano Shelby. Il
compromesso cruciale tra i due riguarderebbe la nascita di
un fondo speciale da 50 miliardi, finanziato direttamente
dalle banche, da usare per interventi in caso di crisi. I
democratici sarebbero disposti a rinunciare all'idea,
criticata dall'opposizione come un permanente strumento di
salvataggio di società in difficoltà.
Al G 20 dei ministri
finanziari exit strategy e nuove regole
23 Aprile 2010 12:13 -
di Sole 24 ore ______________________________________________
Le incognite della ripresa
economica in atto, insieme allo stato di avanzamento della
riforma del sistema finanziario e alla proposta del Fondo
Monetario Internazionale di tassare le banche per coprire i
costi di un'eventuale nuova tempesta sono al centro del
vertice dei ministri delle finanze e dei banchieri centrali
del G20 che si incontreranno oggi a Washington, con sul
tavolo anche il nodo degli squilibri valutari e della
situazione greca.
A rappresentare l'Italia saranno il ministro dell'economia
Giulio Tremonti e il governatore della Banca d'Italia Mario
Draghi, presente anche in qualità di numero uno del
Financial Stability Board.
L'incontro avviene all'indomani della cena informale dei
ministri finanziari del G7: una formazione quest'ultima il
cui status sta perdendo peso a favore del più ampio
raggruppamento dei Venti, che include anche le principali
potenze emergenti del pianeta.
Il dibattito si preannuncia particolarmente acceso
soprattutto sulla proposta del Fmi, una bozza di 57 pagine
che arriverà alla forma finale in tempo per il G20 di luglio
in Canada: se gli Stati Uniti e vari paesi europei hanno
accolto con favore le idee avanzate dall'istituto di
Washington, alcuni governi, tra cui quello canadese, hanno
opposto resistenza bollando la regolamentazione come
"eccessiva".
Il direttore del Fmi Dominique Strauss-Kahn alla luce di
tali contrasti ha affermato l'importanza di un movimento
comune di tutti i Paesi del gruppo nella stessa direzione di
riforma delle regolamentazioni allo scopo di raggiungere
l'obiettivo di eliminare quei comportamenti delle banche che
hanno innescato l'ultima crisi. "La nostra principale
preoccupazione - ha detto - è che tutti lavorino insieme per
mantenere l'impulso alla cooperazione".
Tra le questioni in discussione ci sarà anche la situazione
economica globale e la lenta ripresa, alla luce dell'allarme
lanciato mercoledì dal Fmi, secondo cui "i problemi di
liquidità e solvibilità della Grecia potrebbe trasformarsi
una contagiosa crisi del debito sovrano" se i paesi avanzati
non metteranno a punto piani credibili per rimettere a posto
i propri conti. Su questo punto nella giornata di ieri
Strauss Kahn ha usato toni particolarmente stringenti,
sollecitando i Paesi del G20 a mettere in atto misure per
riequilibrare l'economia mondiale in modo che gli enormi
avanzi commerciali come quello della Cina e i corrispondenti
deficit di altri Paesi non tronchino la ripresa.
I tassi di cambio, in particolare l'apprezzamento dello yuan
e la necessità di correggere gli squilibri globali, come il
deficit in continua crescita degli Stati Uniti, saranno
anch'essi sul tavolo dei Venti. Il direttore del Fmi ha
spiegato che anche se è nell'interesse della Cina di far
rivalutare la sua moneta, tale cambiamento non potrà
avvenire rapidamente. La previsione è dunque che il Paese
del Dragone "preveda nel tempo una certa rivalutazione della
sua moneta". Sul vertice incombe, infine, il
pericoloso dipanarsi della crisi greca all'indomani della
'doppia tegola' in testa al governo di Atene, sempre più nel
mirino dei mercati a causa delle difficoltà sui conti pubblici.
Eurostat ha nuovamente rivisto in peggio le stime sul deficit di
bilancio del paese sul 2009, e avvertito che potrebbe subire
altri ritocchi, mentre Moody's ha nuovamente declassato il
rating che assegna ai suoi titoli di Stato, anche in questo caso
avvertendo di possibili altri peggioramenti con cui la Grecia
perderebbe l'ultima 'A' che vanta sui voti delle agenzie. Atene
ha assicurato che questo non modifica la portata del risanamento
programmato su quest'anno, ma la vicenda ha esacerbato le
tensioni che da giorni si sono riaccese sui titoli di Stato del
paese, e che si riflettono nei forti rendimenti che devono
offrire. Strauss Kahn ieri non ha nascosto la sua
preoccupazione: "E' chiaro - ha detto - che la situazione greca
è molto seria e che non esiste un solo modo e nessuna
'pallottola d'argento' per risolverla". Sabato è previsto,
sempre qui a Washington, un suo incontro con il ministro delle
finanze greco George Papaconstantinou.
Fonte
-
Il Sole 24 Ore - Radiocor
Crisi: La
Recessione Ha Ridisegnato Mappa Del Rischio Paese (Analisi)
sabato, 24 aprile 2010 - 16:44 -
di ASCA ______________________________________________
ASCA) - Roma, 24 apr - L'eredita'
della recessione e' la nuova mappa del rischio sul debito
pubblico sovrano. L'aumento di deficit/debiti pubblici nei
paesi avanzati ha fatti esplodere l'offerta di titoli di
stato. I paesi, in concorrenza tra loro sul mercato dei
capitali, dovranno offrire programmi credibili di
risanamento delle finanze pubbliche. E' il prezzo per
ricevere la fiducia degli investitori. La crisi di
credibilita' della Grecia rappresenta un monito importante.
Per comprare titoli di stato decennali di Atene il mercato
e' arrivato a chiedere il 9% all'anno. Costi impossibili da
sostenere, cosi' la Grecia ha chiesto l'attivazione dei
prestiti (fino a 45 milardi) del Fondo Monetario
Internazionale e ai paesi dell'Eurozona. In questo modo
spuntera' condizioni migliori, probabilmente un tasso
d'interesse mediamente inferiore al 4%. Ma il caso della
Grecia ha dimostrato come le porte del mercato si possano
chiudere anche per le economie avanzate. Cosi' rendimenti
sul debito pubblico della Grecia (9%) si sono avvicinati
pericolosamente a quelli di paesi emergenti come il
Venezuela (12%) e l'Argentina (10%), sebbene il loro debito
sia denominato in dollari. Nella mappa del rischio espresso
dai tassi di interesse, la Grecia figura al terzo posto.
Seguono poi una pattuglia di emergenti, anche di peso, come
la Russia che paga il 5,35%. Lontanissimi da Atene gli altri
partner dell'eurozona, il Portogallo intorno al 4,70%,
Irlanda intorno al 4,50%, Italia e Spagna intorno al 4%. La
Germania, il paese piu' virtuoso, paga il 3%. Discorso
diverso se si guardano le probabilita' di insolvenza
negoziate sul mercato dei Cds, dove ci si assicura contro il
rischio del fallimento dei debitori. Nel segmento che
riguarda gli stati sovrani, al top del rischio Venezuela,
Argentina, Pakistan, Grecia, Ucraina, Iraq, Dubai, Islanda,
Portogallo, Lettonia. Piu' lontane Spagna, Irlanda e Italia.
Per avere una idea di prezzi, assicurare 10 milioni di euro
di titoli di stato della Grecia costa 632 mila euro, 144
mila per l'Italia. Per la Germania, paese piu' virtuoso
dell'Eurozona si pagano solo 43 mila euro. Ma tassi di
interesse e probabilita' di insolvenza disegnano fotografie
differenti della mappa del rischio di sovrano. Ne' e' un
esempio il Portogallo, la cui probabilita' di ''default'' e'
molto maggiore del rischio espresso dal tasso di interesse.
Una situazione simile per la Spagna, che paga interessi di
poco inferiori all'Italia ma presenta una maggiore
probabilita' di insolvenza. Al momento, il rischio di
contagio sembra interessare sopratutto i paesi con mercati
del debito pubblico relativamente piccoli, servono infatti
meno risorse per gli attacchi speculativi che determinano il
vuoto di domanda. Altri fattori scatenanti sembrano la bassa
propensione al risparmio e la concentrazione di buona parte
del debito in mano estera. E' il caso della Grecia, ma anche
di Portogallo e Spagna. Non dell'Italia, per il momento. Ne'
del Giappone che convive con un debito/pil al 200%, si
tratta del record mondiale, ma Tokyo non figura mai tra i
paesi con elevata probabilita' di insolvenza. Certo anche
negli Usa la propensione al risparmio e' bassa, ma
Washington ha il paracadute dei massicci acquisti di titoli
di stato da parte della Cina, oltre alla possibilita' di
stampare dollari.
Fonte
-
ASCA
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Perché
Atene spaventa gli Stati Uniti
26 Aprile 2010 04:03 WASHINGTON
– di Federico Rampini
________________________________________
C´è bisogno di esorcismi, a giudicare dallo spazio che la
crisi greca ha occupato in questo weekend di vertici
globali. Tra G-20 e assemblea del Fondo monetario
internazionale, è la microscopica Grecia che ha calamitato
l´attenzione. Tim Geithner, il segretario al Tesoro Usa, ha
esortato l´Eurozona e il Fmi a «muoversi rapidamente».
Il direttore generale del Fondo gli ha risposto, gettando la
palla nel campo europeo: «Noi siamo pronti, il Fmi riconosce
che c´è urgenza». Il cancelliere dello Schacchiere
britannico, Alistair Darling, pur non appartenendo
all´Eurozona: «Più si prolunga questa situazione più farà
danni». Perfino il ministro dell´Economia canadese è apparso
turbato: «Non si sta facendo abbastanza».
L´agitazione di questo week-end a Washington poteva sembrare
esagerata. Dopotutto il piano di aiuti necessario alla
Grecia (45 miliardi di euro) è appena un quarto di quel che
gli Stati Uniti hanno speso per il salvataggio della
compagnia assicurativa Aig, travolta dai mutui subprime. La
spiegazione dell´ipersensibilità sul caso greco l´ha data il
presidente della banca centrale del Brasile, Henrique
Meirelles: «Il mondo intero dovrà fronteggiare il problema
dei debiti pubblici, comprese le nazioni maggiori. La Grecia
è il campanello d´allarme che segnala problemi più grossi».
Il Fondo monetario aveva accolto i leader a Washington con
un rapporto che dice proprio questo: «La crisi greca può
essere l´inizio della prossima fase di turbolenze». Un
indizio viene dai mercati finanziari. Lo «spread», cioè la
forbice dei rendimenti, che separa i titoli più scadenti dai
titoli considerati più sicuri, è tornato ai livelli molto
elevati che ebbe nell´estate del 2007. Cioè all´epoca in cui
la Bnp Paribas fu costretta a congelare per insolvenza due
dei suoi hedge fund che investivano nei mutui americani.
Quel che successe dopo, lo ricordiamo. Una forbice larga è
un termometro della paura.
«Non siamo ancora una nuova Atene-sul-Potomac», è vero
perché nei momenti in cui la fiducia traballa, gli
investitori mondiali tendono a ripiegare sul dollaro.
Moneta-rifugio non per meriti suoi ma per l´effetto della
debolezza dell´euro. Vista dagli Stati Uniti, dalla Cina e
dal Brasile, la confusione con cui l´Eurozona affronta il
problema del debito greco, conferma una diagnosi pessimista
sul Vecchio continente: è in coda al resto del mondo per la
ripresa economica. Non a caso questo week-end di vertici
globali a Washington ha dato il via a un´operazione che
sancisce il declino d´influenza dell´Europa: è iniziata la
redistribuzione delle quote di capitali (e diritti di voto)
all´interno della Banca mondiale.
Seguirà un analogo ribilanciamento dentro il Fmi. Il saldo
netto: retrocedono gli europei, avanzano la Cina e le altre
potenze emergenti, l´America mantiene le sue posizioni. E´
solo una coincidenza, ma la ratifica dei nuovi pesi relativi
avviene mentre l´Eurozona offre uno spettacolo di paralisi.
«Ma davvero bisogna aspettare che votino nella
Renania-Vestaflia?» chiedevano esterrefatti gli sherpa
dell´Amministrazione Obama, cercando sulle carte geografiche
l´ubicazione del Land tedesco. Con tempi di reazione simili,
il collasso finanziario che colpì Wall Street nel 2008
sarebbe stato fatale.
Questo rafforza tra gli americani la convinzione che l´euro
è una gabbia troppo stretta, disegnata su misura per la
disciplina germanica. Anche al Fmi c´è chi pensa che senza
l´uscita dall´euro e una svalutazione competitiva Atene non
ce la farà mai a riprendersi.
Ma il nervosismo americano ha anche ragioni domestiche.
Quella tabellina-scenario con cui Giulio Tremonti da
Washington ha cercato di rassicurare gli italiani («in
proiezione sul futuro il nostro debito pubblico non è
peggiore di quello americano») si può leggere al contrario.
Il Fmi prevede che l´insieme dei paesi ricchi, il cui debito
pubblico in media pesava il 75% del Pil alla fine del 2007,
avrà raggiunto il 110% entro quattro anni.
Non siamo noi che stiamo meglio, ma gli Stati Uniti che
scivolano verso livelli d´indebitamento di tipo
«mediterraneo». Tanto che i Treasury Bond americani
potrebbero perdere il rating «tripla A» - l´etichetta di
massima solvibilità - per la prima volta nella storia (cioè
da quando furono creati i rating, nel 1949).
Per adesso i tremori dei mercati sulla Grecia non si sono
dilatati fino a raggiungere le economie più ricche.
L´America si ripara, finché può, dietro due scudi. Da una
parte il ruolo del dollaro, tuttora l´unica moneta
imperiale, con uno status globale. La seconda protezione è
l´effetto anestetizzante del «tasso zero» che la Federal
Reserve continua a mantenere sui rendimenti a breve. Ma
sulla sindrome greca quel titolo del New York Times si
limita a constatare «Non ci siamo ancora...».
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Fonte -
La Repubblica
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Grecia:
comunque vada, niente lieto fine
April 26th, 2010
– di Mario Seminerio
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Nella tarda mattinata di venerdì 23 aprile il premier greco,
George Papandreou, ha attivato le procedure per ottenere la
linea di credito di emergenza di Unione europea e Fondo
Monetario Internazionale, così come concordata nella
dichiarazione d’intenti comunitaria del 25 marzo. La
richiesta fa seguito ad una drammatica giornata sui mercati,
in cui la curva dei rendimenti sui titoli di stato greci è
schizzata al rialzo anche di due punti percentuali e si è
invertita, con i rendimenti a breve superiori a quelli a
lungo termine, segno inequivocabile di accresciuto rischio
di dissesto.
Il problema immediato della Grecia è quello di passare
indenne la scadenza del 19 maggio, quando dovrà essere
rimborsato un titolo di stato per oltre 8 miliardi di euro.
Il governo greco non avrà necessità di emettere per un
importo equivalente, disponendo di risorse temporaneamente
eccedenti, frutto di precedenti collocamenti di titoli
pubblici. Ma il livello raggiunto dal costo del debito (che
sulle scadenze a due anni ha superato il 10 per cento) è del
tutto incompatibile con la profonda recessione che il paese
attraversa, anche per effetto delle misure di austerità,
mentre si rincorrono voci di una “ristrutturazione” del
debito greco su base volontaria, cioè da parte di alcuni
creditori, in modo da non azionare il regolamento dei credit
default swap. Fuori dalle tecnicalità (per quanto è
possibile, in questa vicenda), vi sono numerose criticità da
analizzare. Andiamo per ordine, senza pretesa di
esaustività.
In primo luogo, l’intervento servirà? Abbiamo seri dubbi.
L’erogazione servirà a mantenere la Grecia in condizioni di
liquidità di breve (o brevissimo) termine, ma la solvibilità
del paese è sempre più a rischio. Un disavanzo previsto
quest’anno al 13,6 per cento, e che appare destinato ad
ulteriore peggioramento, per le note carenze di trasparenza
del governo greco nella contabilizzazione dei surplus della
sicurezza sociale e, soprattutto, delle operazioni di swap
“fuori mercato”, quelle cioè in cui i flussi reddituali
vengono scambiati a condizioni che consentono al debitore di
incamerare subito (upfront) un illusorio beneficio
contabile.
Altra incognita è la tenuta sociale del paese, sempre più
precaria. La notizia della richiesta della linea di credito
straordinaria ha causato nuove manifestazioni di piazza,
perché tra la popolazione c’è consapevolezza che il FMI
richiederà nuovi profondi tagli di spesa ed aumenti di
entrate, in un paese che non può ricorrere all’aggiustamento
strutturale attraverso la svalutazione del cambio. L’azione
del FMI sarà verosimilmente modellata sul caso della
Lettonia, paese candidato all’euro che ha preferito
affrontare una violentissima deflazione ed un crollo del Pil
di 20 punti percentuali pur di mantenere l’aggancio stretto
della propria valuta nazionale all’euro. Ad oggi, pensare
che i cittadini greci possano accettare lo “scenario
lettone” è puro esercizio di fantasia. Il nostro timore è
che lo stesso Papandreou stia tentando un bluff, richiedendo
l’erogazione dei fondi senza accettare ulteriori misure. Un
timore che, è bene precisarlo, riguarda il futuro dell’euro
e dell’Unione europea, e tra poco spiegheremo il motivo.
Poi abbiamo la posizione tedesca. Straordinariamente
ondivaga a livello governativo, ma risolutamente contraria
al salvataggio tra l’opinione pubblica. Anche il governo di
Angela Merkel ha a sua volta una data critica, in maggio: il
9, quando si terranno le elezioni nel Nord-Reno Westfalia,
ma la posta in gioco va molto oltre. Il ministro delle
Finanze, Wolfgang Schaeuble, ha tentato di inserire il
finanziamento della quota tedesca del prestito alla Grecia
(oltre 8 miliardi di euro) in una “corsia preferenziale”
legislativa, ma il suo tentativo è stato frustrato, e si
dovrà ricorrere ad un provvedimento separato, che porterà la
Germania ad erogare i fondi solo tra alcune settimane.
Quanto al nostro paese, la nostra quota è pari all’incasso
dello scudo fiscale. Che farà Giulio Tremonti? Una manovra
finanziaria aggiuntiva, con passaggio parlamentare (la
soluzione più trasparente), oppure troverà quei fondi tra le
pieghe del bilancio, magari drenando ulteriori risorse
destinabili ad investimenti pubblici ed aree depresse?
Riguardo l’euro-prestito, vi è un aspetto tecnico
particolarmente importante: la posizione dei nuovi creditori
rispetto a quelli esistenti. Sappiamo che i crediti del FMI
hanno lo stato di “super-senior” rispetto a tutti gli altri,
cioè il Fondo è creditore privilegiato a priorità massima
sui rimborsi. Ma quale sarà lo status dei fondi erogati dai
paesi europei? I tedeschi vorrebbero lo stesso status del
FMI, ma questa mossa equivarrebbe a scaricare il rischio del
default (che è molto alto, giova ripeterlo) sui creditori
esistenti. Si otterrebbe l’effetto di accelerare la
liquidazione di posizioni sui titoli di stato greci da parte
degli investitori, e con essa il dissesto. All’opposto, se
gli euro-creditori fossero equiparati ai creditori
preesistenti e la Grecia dichiarasse default, i governi
europei avrebbero immolato svariati miliardi di euro, e
dovrebbero risponderne ai propri elettori.
Come si può agevolmente constatare, la partita in corso è
complessa e dagli esiti potenzialmente distruttivi. Non solo
e non tanto per la Grecia, quanto per la Ue. Se il prestito
non sarà assoggettato a condizioni rigorose al limite della
ferocia, il mercato sarà indotto a pensare che la Ue ha
deciso di salvare tutti i propri membri in condizioni
fiscali compromesse. Ciò è evidentemente impossibile, non
foss’altro che per gli importi coinvolti lungo un arco di
tempo pluriennale. Ma nel breve termine avremmo attacchi
speculativi sui candidati a nuovi salvataggi (Portogallo e
Spagna su tutti), con un verosimile aumento dei rendimenti
anche sui titoli di stato tedeschi. Il maggiore onere sul
servizio del debito che ne deriverebbe metterebbe in serie
difficoltà quei paesi, come il nostro, che hanno un elevato
peso del debito sul Pil, in una spirale perversa.
Che accadrà? In molti, soprattutto in Germania, si augurano
a gran voce che la Grecia esca dall’euro, per poter
recuperare margini di manovra sul cambio e recidere il
potenziale sistemico del paese ellenico. Sfortunatamente, le
procedure di fuoriuscita dalla moneta unica non esistono, e
parimenti non è giuridicamente possibile pensare ad
un’espulsione. Il governo di Papandreou sta tentando di
massimizzare questo suo leverage negoziale, che però è tutto
fuorché un “pasto gratis”, e potrebbe essere travolto dalle
proteste di piazza, secondo una traiettoria “argentina”. In
quest’ultimo caso, ipotizzando una decurtazione del valore
di rimborso dei debito greco tra il 30 ed il 50 per cento,
resterà da valutare quale sarà l’impatto sistemico del
default sul sistema finanziario europeo, e sui paesi che
rappresentano gli anelli più deboli della catena. Ma per
l’analisi di scenario, ad oggi non riusciamo a scorgere un
lieto fine.
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