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INDICE ARTICOLI di TESTA
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PARTE
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Giovedì
01 Aprile 2010 |
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Venerdì 02
Aprile
2010 |
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Sabato 03 Aprile 2010 |
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Grandi
obiettivi del bear market rally
01 Aprile 2010 11:03 BIELLA
– di Maurizio Milano
Questo
documento e' stato preparato da Maurizio Milano, resp.
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
________________________________________
Il rally prosegue. Dopo lo scivolone di metà gennaio, la
ripresa degli acquisti partita dai minimi toccati il 5
febbraio ha portato gli indici Usa su nuovi massimi di
periodo, con una perdita di spinta sul finale della scorsa
settimana.
Il Nasdaq Composite ha raggiunto e superato marginalmente
l’obiettivo indicato a 2415. Una chiusura settimanale al di
sopra di tale livello rimane necessaria per avere un segnale
di prosecuzione della salita verso quello che da molti mesi
indichiamo come l’obiettivo finale del grande movimento di
bear market rally iniziato un anno orsono, la resistenza
chiave a 2500 (dai minimi del 9 marzo 2009 a 1265,52
l’apprezzamento è stato finora del +92,1%). Un segnale di
perdita di spinta si avrebbe sotto 2325/45, con obiettivo
2250 e quindi il forte supporto in area 2200/20, la cui
tenuta è necessaria per mantenere una buona impostazione per
i prossimi mesi.
Nuovi massimi anche per il Dow Jones Industrial, che
raggiunge sostanzialmente l’obiettivo indicato, la
resistenza chiave a 11000. Sui livelli correnti l’indice
sembra sostanzialmente "arrivato", anche se un segnale di
perdita di spinta si avrebbe solo su discese al di sotto di
10400/500 ed un segnale di rinnovata debolezza solamente
alla rottura del forte supporto in area 10100/200 (ancora
poco probabile).
L’S&P500 tocca un nuovo massimo a 1180, non lontano dalla
resistenza chiave a 1200, che dovrebbe bloccare il rialzo
del mercato per molti mesi a venire. Un segnale di perdita
di spinta si avrebbe comunque solo sotto 1140: in tal caso
si proporrebbe il test dell’area 1105/15 e quindi (al
momento poco probabile) del forte supporto in area 1080/85,
la cui tenuta è necessaria per mantenere una buona
impostazione per i prossimi mesi.
Sul fronte volatilità, il Vix rimane sui minimi di periodo,
al di sotto della resistenza a quota 20. Il superamento di
tale livello darebbe un segnale di prima "allerta" anche se
solo sopra 22,75 si avrebbe conferma di rinnovato
nervosismo.
Il quadro tecnico rimane immutato: da un lato, non ci sono
segnali chiari di esaurimento del movimento rialzista;
dall’altro, il raggiungimento dei grandi obiettivi del bear
market rally vecchio ormai di 12 mesi deve consigliare
grande prudenza. Stiamo entrando in una fase di mercato
nuova, in cui la grande liquidità che ha trascinato al
rialzo i listini nell’anno passato non sembra più
sufficiente a spingere ancora all’insù con decisione i
mercati. Solo una ripresa dell’economia reale e
dell’occupazione consentirebbe l’avvio di un trend rialzista
sano. Al momento non sembrano esserci le condizioni e
quindi, nonostante non emergano ancora segnali critici,
l’attenzione deve rimanere focalizzata sulla protezione del
capitale, senza farsi prendere troppo dall’euforia.
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Fonte -
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
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I bond greci
battono quelli americani
01/04/2010 -
di ANSA ______________________________________________
Le turbolenze in Europa si stanno
lentamente calmando e anche l’euro si sta riprendendo. Ieri
la Grecia e’ tornata nuovamente sul mercato per finanziarsi
e la risposta degli operatori e’ stata molto positiva. Il
governo di Atene ha offerto un bond scadenza a sette anni
per un importo di 5 miliardi di euro ma la domanda e’ stata
decisamente superiore e ha superato i 7 miliardi. Il
successo deriva da due componenti, dalla credibilita’ del
piano greco di rientro dal debito, piu’ che dal
raggiungimento dell’accordo nell’Eurogruppo per aiutare la
Grecia in caso di necessita’, e dal fatto che i tassi
offerti sul bond hanno raggiunto quasi il 6%, oltre il
doppio dei rendimenti offerti dalle obbligazioni tedesche,
ritenute le piu’ sicure in Europa.
Il successo dell’emissione si affianca alla ripresa
dell’euro verso il dollaro e contro le altre principali
monete. Oggi la moneta unica e’ tornata a guadagnare contro
il biglietto verde riportandosi sopra quota 1,35, soglia
psicologica importante, risalendo da un minimo che la scorsa
settimana era andato sotto 1,32. Una rafforzamento che passa
anche attraverso la lo spostamento dei capitali sulle
obbligazioni europee a discapito di quelle Usa.
Infatti se nel Vecchio Continente le nubi si stanno
diradando, si addensano invece sull’altra sponda
dell’Oceano. La scorsa settimana le aste dei titoli di stato
statunitensi a 10 anni, i T- Bond, sono andate quasi
deserte. Il governo americano ha chiesto al mercato 118
miliardi di dollari, ma il rendimento offerto, sotto il 4%,
ha deluso il mercato, secondo gli analisti dovrebbe salire
sopra il 4,50% per attirare nuovamente la domanda. Anche
perche’ gli operatori hanno iniziato a farsi due conti sul
debito pubblico americano. Infatti, se e' vero che viaggia
appena sotto il 90% del pil, tuttavia se si considerano i
debiti per 6mila miliardi delle due banche statalizzate
Fannie Mae e Freddie Mac, il rapporto deficit/Pil sale al
130%.
Fonte
-
ANSA
Bond, il Fondo
monetario lancia l’allarme
01/04/2010 -
di MIAECONOMIA ______________________________________________
L’emissione di ieri
dell’obbligazione greca ha fatto storcere il naso a piu’ di
un economista e indirettamente anche all’economista degli
economisti, Dominique Strauss-Kahn, il Presidente del Fondo
monetario internazionale, ovvero colui che dovra’ mettere
mano al portafoglio per aiutare la Grecia ad uscire dalla
attuale crisi di liquidita’, con un contributo che potrebbe
variare tra 7 e 15 miliardi di euro (il resto sara’ a carico
della Ue).
Ieri la Grecia ha offerto sul mercato una obbligazione per 5
miliardi di euro, ricevendo una domanda di 7 miliardi di
euro. Una risposta che alcuni economisti hanno valutato
scarsina perche’ a fronte di un bond offerto con un
rendimento di quasi il 6%, la domanda del mercato sarebbe
dovuta essere molto maggiore. Lo dimostra per esempio la
risposta all’emissione da 300 milioni che ieri ha lanciato
Prysmian. In una sola ora gli investitori l'hanno inondata
di oltre 3 miliardi di euro di ordini d'acquisto, alla fine
la societa’ ha aumentato l'importo a 400 milioni. Due
settimane fa era stata Italcementi a ricevere domande per 4
miliardi a fronte di un emissione di 750 milioni.
Il primo segnale di preoccupazione quindi, e’ che
evidentemente in questo momento gli investitori valutano
piu’ a rischio la Grecia che Italcementi o Prysmian. Il
secondo riguarda il fiume di obbligazioni che sta inondando
il mercato. A fronte di mercati sempre piu’ assetati di
guadagni poco rischiosi rispondo aziende disposte a offrire
rendimenti allettanti per raccogliere oggi capitali. Solo in
Italia negli ultimi mesi abbiamo assistito alle emissioni di
Enel, Edison, Italcementi, ieri di Prysmian, nel pomeriggio
arrivera’ quella di Intesa Sanpaolo, e solo per citare le
principali e quelle a livello nazionale. Ma il fenomeno e’
europeo.
Un bond prima o poi va ripagato. E ne sa qualcosa la Grecia
che nei prossimi due mesi deve trovare tra i 20 e i 25
miliardi anche per ripagare cedole e titoli in scadenza. A
livello europeo nei prossimi 5 anni e stato calcolato dagli
analisti che giungeranno a scadenza corporate bond aziendali
per oltre mille miliardi di euro, il 40% in piu’ rispetto ai
5 anni passati. Questo potrebbe creare un ingorgo di
rifinanziamenti, soprattutto nel 2014. Ecco perche’
Dominique Strauss-Kahn ha ieri lanciato un allarme per tutta
l'Europa che rischia la serie B del credito e che per questo
nel giro di dieci anni potrebbe uscire dalle grandi partite
economiche mondiali.
Fonte
-
Miaeconomia.it
Commento mensile
obbligazionario governativo – Marzo
Thursday, 1 April, 2010 at 16:12 -
di phastidio ______________________________________________
Nel mese di marzo il mercato
obbligazionario governativo dell’Area Euro (a livello di
indice JPM EMU) è stato caratterizzato da una sostanziale
stabilità dei rendimenti, frutto di un lieve aumento nella
parte a scadenza inferiore all’anno, invarianza nel tratto
breve-intermedio e lieve riduzione nelle scadenze superiori
alla decennale. Questo movimento di lieve appiattimento
della curva ha prodotto una performance positiva di poco
superiore allo 0,6 per cento. L’andamento della curva di
Eurolandia è stato piuttosto differente dal generalizzato e
marcato aumento dei rendimenti che ha interessato la curva
governativa statunitense, conseguenza di timori dei mercati
per il crescente volume di emissioni pubbliche legate
all’ampio deficit (circostanza peraltro in opera anche nella
zona Euro), oltre che della scadenza del programma di
riacquisto da parte della Fed di mutui e cartolarizzazioni
su mutui. Sulla zona Euro continua a pesare
l’elevata incertezza che circonda il “salvataggio” della Grecia
da parte di Unione europea e Fondo Monetario Internazionale. Il
piano, annunciato il 25 marzo, prevede aiuti del Fondo e
prestiti bilaterali volontari da parte di singoli stati, a
condizioni di mercato ma solo nell’ipotesi che alla Grecia sia
precluso l’accesso ai mercati, ed appare solo un espediente
politico per prendere tempo. La Grecia continua a finanziarsi
sui mercati a condizioni proibitive, anche in relazione alla
crescita negativa del proprio Pil: nel corso del mese Atene ha
fatto ricorso ai mercati della syndication internazionale per
collocare titoli pubblici a 5, 7 e 10 anni, con risultati
modesti in termini di interesse degli investitori. La situazione
resta molto problematica ed i mercati lo hanno confermato: dopo
un iniziale restringimento degli spread sui credit default swap
e del differenziale con il governativo tedesco, successivi
all’annuncio dell’intervento, il pessimismo è tornato ad
affermarsi, ed il mese si è chiuso a 343 punti-base sul bund,
curiosamente lo stesso livello del Cds. I timori sul futuro fiscale e
politico di Eurolandia hanno contribuito all’ulteriore
deprezzamento dell’euro contro dollaro. Se da un lato ciò
fornirà ossigeno all’export europeo, dall’altro rischia di
ostacolare il processo di riequilibrio statunitense, che il
presidente Barack Obama vorrebbe centrato sulla crescita
dell’export. Si conferma quindi uno scenario in cui è verosimile
attendersi un mercato caratterizzato da volatilità, indotta dai
timori per lo stato delle finanze pubbliche, in un contesto di
crescita ancora esile, che impedisce quindi il recupero
significativo delle entrate fiscali e frena le ipotesi di taglio
di spese di welfare, ed in un quadro di elevati volumi di titoli
di debito pubblico offerti dai Tesori nazionali.
Altri timori, ad oggi più remoti, deriveranno dalla possibilità
che pressioni politiche possano determinare un’insufficiente
restrizione monetaria ed un aumento del rischio d’inflazione, al
momento del manifestarsi della ripresa. Il mese di marzo ha
visto una ripresa delle aspettative inflazionistiche, come
testimoniato dall’andamento dei breakeven inflation rates sui
titoli governativi indicizzati all’inflazione, cresciuti di 10
centesimi di punto percentuale sul quinquennale italiano e di
oltre 15 sul decennale francese, anche per reazione al dato
preliminare di marzo dei prezzi al consumo, in ripresa
soprattutto a causa dei rialzi nel comparti carburanti e
trasporti. Malgrado l’accresciuta volatilità
dei mercati e l’aumentata avversione al rischio, i titoli di
stato italiani hanno continuato a mostrare una buona capacità di
tenuta, mantenendo pressoché invariato il differenziale di
rendimento con il Bund, in un intorno di 85 punti-base sulla
scadenza decennale. E’ utile tuttavia ribadire che tali valori
restano significativamente superiori a quelli che venivano
registrati prima dello scoppio della crisi, nella seconda metà
del 2007; ciò segnala la persistente cautela dei mercati verso
quei paesi che hanno i maggiori rapporti debito-Pil e che
dall’inizio dell’euro hanno evidenziato limitate capacità di
crescita. L’attenta gestione del rischio creditizio sovrano nei
portafogli governativi appare un tema d’investimento centrale di
quest’anno.
Fonte
-
Macromonitor
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Mercati
& Borsa: non è un mondo per
pigri
01 Aprile 2010 14:49 MILANO
– di Alessandro Fugnoli*
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli,
strategist Kairos Partners SGR
________________________________________
Terminato il primo trimestre del 2010 si può fare qualche
bilancio. Tra le classi di asset finanziari la peggiore è
stata il cash. Il cash, inteso come titoli fino a 12 mesi,
ha la grande dote di non andare praticamente mai sotto zero
ma in una fase come questa (che si prolungherà per tutto
quest’anno e per il prossimo) ha anche il grande difetto di
non sollevarsi da zero nemmeno con la gru.
Dopo il cash la performance meno brillante in questi tre
mesi è stata quella dei bond governativi. Meglio sono andate
le obbligazioni corporate di buona qualità. Meglio ancora i
bond emergenti in valuta locale e poi, salendo ancora nei
risultati, le obbligazioni di bassa qualità. A battere tutti
è stata, tra le maggiori, la borsa americana, salita del 5
per cento nonostante l’ampia correzione tra gennaio e
febbraio.
Dai diamanti non nasce niente, cantava De André, dal letame
nascono i fior. La borsa ungherese da inizio anno sale del
14 per cento. L’Islanda che ripudia i tassi da usura che le
chiedono gli inglesi sale del 15. La Romania che secondo
alcuni era avviata verso anni e anni di stagnazione sale del
27. L’Estonia, smagrita dopo la feroce svalutazione interna
(cambio stabile e riduzione di tutti gli stipendi), invece
di trascinare nel baratro le banche
svedesi sale come borsa del 41 per cento. L’Ucraina, che
deve sempre fare default a giorni e non lo fa mai, sale del
64 per cento.
Cresce del 25 per cento la borsa nigeriana, dopo la radicale
operazione di pulizia del sistema bancario. 25 anche per il
Kenya. In Asia non sono i temi più ovvi a distribuire
soddisfazioni. La Cina, dove il governo usa la borsa come
strumento di politica monetaria, Shanghai scende del 5 per
cento mentre il Pil sta crescendo a una velocità
annualizzata del 13 per cento. La borsa cinese va comprata
quando l’economia va male e venduta quando cresce sopra la
velocità di crociera dell’8 per cento. L’eccezione, in
questo momento, sono i titoli delle grandi banche, che la
banca centrale, per bocca del vicegovernatore Zhu, definisce
sottovalutati.
Anche l’India smaltisce l’ipercomprato del 2009 e chiude il
trimestre esattamente dove l’aveva iniziato. Il Giappone
delude un’ennesima volta i cacciatori di outperformance e si
limita a concedere un 5 per cento. In compenso il Bangladesh
sale del 23 per cento, molto buono ma pur sempre la metà
della borsa di uno dei paesi più ricchi e meno popolati del
pianeta, la Mongolia (più 54 per cento).
Descritta così, sembra una trascrizione dal manuale della
ripresa ciclica perfetta, con le performance che migliorano
con il salire del livello di rischio. Questa però non è (o
meglio, non è solo) una normale ripresa ciclica. E’ qualcosa
a metà strada tra la normale ripresa ciclica e la New Normal
di Pimco, un mondo malaticcio che passa anni, non mesi, in
dolorosa disintossicazione.
Le materie prime si incaricano di stravolgere il pigro
schema della ripresa classica. Dovrebbero avere reso più di
tutto, più ancora delle azioni, e invece sono state la
classe di asset peggiore, l’unica con segno negativo, peggio
ancora del cash. Ma come, si dirà, con il greggio a 84
dollari e il rame di nuovo fortissimo? Sarà, ma l’indice Crb
delle materie prime, che il 31 dicembre stava a 283.38,
chiude il trimestre a 273.34. Non di solo greggio e rame
vive l’uomo, ma anche di gas e di carbone, in questa fase
abbondantissimi (si scoprono continuamente nuovi giacimenti
e l’estrazione viene effettuata con nuove tecnologie che
aumentano notevolmente la resa).
Non di soli minerali vive l’uomo, ma soprattutto di derrate
agricole abbondantissime grazie ai raccolti record di
cereali e al minore utilizzo del mais per produrre etanolo.
La bolla delle materie prime non si riesce a scorgerla
nemmeno con la lente d’ingrandimento. Il petrolio è agli
stessi livelli di inizio 2006, i cereali idem, il gas
naturale è sotto. Quanto all’inflazione salariale, per la
prima volta da trent’anni le retribuzioni nominali dei paesi
sviluppati hanno smesso completamente di crescere. Gli
aggregati monetari non salgono e le riserve in eccesso delle
banche continuano a essere depositate a tassi irrisori
presso le banche centrali. Nemmeno la caduta recente dei
corsi dei Treasuries induce le banche a comprarli. La Fed,
dal canto suo, chiude ufficialmente il capitolo del
quantitative easing e cessa di acquistare governativi e
agenzie.
In questo quadro di inflazione invisibile e in discesa il
dibattito sulla fine dell’età dell’oro dei bond è
paradossalmente più vivace che mai. Dopo tutto i bond
salgono di prezzo dal 1982 e i rendimenti sono ai minimi. E’
comprensibile che il tema del loro destino appassioni gli
animi.
La dispersione delle opinioni è impressionante. A un estremo
si dice che all’età dell’oro dei bond sta per seguire un’età
di orrori senza fine. Ogni uomo, donna e bambino sul pianeta
deve stare al ribasso sui titoli di stato, dice Nassim Taleb.
Il pessimista più autorevole e articolato è Greenspan. La
montagna del debito sanitario e previdenziale è così
imponente che sarà impossibile non ricorrere all’inflazione.
In realtà Greenspan va ancora più in là e sostiene che
nemmeno stampando dollari giorno e notte si verrà a capo del
problema, semplicemente perché non ci sono i beni fisici che
sono stati promessi. Ai pensionati, infatti, si potranno in
futuro consegnare i dollari nominali promessi (freschi e
fruscianti di stampa), ma ai malati sarà materialmente
impossibile garantire le prestazioni sanitarie.
Greenspan non lo dice, ma è evidente che la soluzione
arriverà con il sistema delle code sempre più lunghe per le
prestazioni e con il mancato accesso ai nuovi farmaci,
tipicamente i più costosi. Si può allargare la copertura
sanitaria anche ai marziani, ma se le macchine per la
risonanza magnetica sono sempre le stesse (o vanno
addirittura tagliate) i tempi si allungano. Per fortuna nel
frattempo qualche paziente sarà così cortese da ritirarsi
dalla scena da solo.
Per Greenspan, quindi, i bond sono un incidente che aspetta
di accadere. La sua è però un’analisi strutturale, non
ciclica. La ripete infatti da più di un decennio, un po’
come un vulcanologo che consigli di non prendere casa sotto
il cratere perché sarà fra un anno o magari tra dieci, ma
finirà comunque malissimo.
Scendendo di intensità nel pessimismo troviamo varie scuole
di pensiero a sfondo più o meno ciclico. La scuola più
classica è formata da quelli che non appena sentono parlare
di ripresa ciclica portano automaticamente la mano ai bond
per spingerli fuori dal portafoglio. Ci sono qui due
sottoscuole. A quella ortodossa è sufficiente una ripresa
qualsiasi, a quella riformata per liquidare i bond occorre
una ripresa sostenibile. Poiché in questi giorni, in
previsione del primo dato positivo sull’occupazione, si
moltiplicano le voci (provenienti anche da dentro la Fed)
che parlano di sostenibilità (ovvero irreversibilità) della
ripresa, ortodossi e riformati si ritrovano uniti come
venditori.
Chi professa il credo della ripresa ciclica dovrebbe essere
per coerenza pieno di azioni per l’appunto cicliche e di
materie prime. Questa incombenza è invece risparmiata a
quanti motivano il loro rifiuto per i bond non con la
crescita economica ma con lo squilibrio tra un’offerta di
titoli in continuo aumento da parte dei governi e una
domanda che nella migliore delle ipotesi si può immaginare
stabile. Nelle versioni più radicali il rifiuto per i titoli
di stato viene motivato sulla base del deterioramento del
merito di credito del debitore. Qualcuno, sentendo questi
discorsi, passa dalle parole ai fatti e paga titoli
corporate (anche bancari e malmessi) più del debito sovrano
del loro paese (negli Stati Uniti il tasso swap a 10 anni
rende da giorni meno dei Treasuries di pari durata).
All’estremo opposto di quanti sostengono la fine dell’età
dell’oro per i bond (in particolare governativi) ci sono
pochi arditi che sostengono che l’età dell’oro è appena
cominciata e che potrà durare altri dieci anni e forse anche
di più. Viene in mente David Rosenberg, ma il più articolato
sostenitore di questa tesi è Richard Koo. Prima di passare a
Nomura, Koo ha lavorato alla Fed e ha studiato quella che ha
definito la crisi da stato patrimoniale del Giappone. Quando
c’è una massa enorme di debiti e quando su questa massa non
si fa un bel default risolutivo ma si cerca di ripagare
faticosamente e lentamente il creditore, la domanda privata
tende a implodere e va sostituita con spesa pubblica, pena
il collasso del sistema. Il debito pubblico sostituisce
quello privato e va considerato provvidenziale.
L’errore più grave, dice Koo, è quello di invocare la rapida
fine del sostegno pubblico richiedendo quanto meno una exit
strategy precisa nei tempi e nei modi. Il paziente è in
terapia intensiva e la peggiore cosa che si può fare a un
infartuato appena operato è parlargli di quando e quanto
dovrà pagare per le ingenti spese di ricovero. E’ il modo
migliore per deprimere e fare agitare il malato, prolungando
la convalescenza e alzando i costi per le cure.
Passate in rassegna alcune tra le posizioni più
significative, proviamo adesso a dire qualcosa di nostro.
E’ possibile che nei prossimi anni la crescita globale sia
buona, ma i paesi sviluppati sono e resteranno la componente
più fragile. La ripresa ciclica dura ormai da nove mesi ma è
solo buona in America (quando di solito è molto forte dopo
una caduta verticale) e mediocre in Europa.
Il fatto che si tratti comunque di una ripresa ciclica può
produrre legittimamente quello che qualcuno ha definito un
bear market a bassa intensità sui governativi lunghi. Il
fatto che si tratti di una ripresa fragile e che già nella
seconda parte dell’anno possa scendere di velocità rende
difficile il riproporsi di scenari di bear market duro, come
fu il caso ad esempio nel 1999 dopo la fine della crisi
asiatica. La fragilità, inoltre, rende reversibile
un’eventuale correzione dei bond.
I corporate di ogni ordine, grado e qualità (in particolare
con emittenti basati in paesi emergenti) assorbiranno meglio
dei governativi la ripresa ciclica e potranno perfino dare
vita a qualche piccolo ulteriore rialzo di prezzo. Niente di
paragonabile, in ogni caso, con l’erosione dello spread di
credito e con i recuperi di prezzo già avvenuti negli ultimi
dodici mesi.
L’età dell’oro è certamente finita, ma quella che si apre
potrebbe essere l’età dell’argento. Anche senza tracolli,
tuttavia, la pigra vita dell’obbligazionista con i suoi
rendimenti da qui in avanti modesti si dovrà confrontare non
tanto con chi ha azioni tout court ma con chi un paio di
volte all’anno cambia l’allocazione del suo portafoglio
comprando le correzioni di borsa e vendendo i rialzi.
Strategicamente continuiamo a preferire il merito di credito
dei titoli governativi rispetto a quello dei debitori
corporate. E’ vero che le imprese in questo momento sono
poco indebitate e hanno conti in ordine, ma nell’improbabile
caso (ma non impossibile) di un double dip gli stati possono
tassare e stampare denaro, le imprese no.
A proposito di tasse, il mercato le sottovaluta nei suoi
scenari. Abbiamo visto qualche settimana fa come si potrebbe
organizzare a tavolino un’uscita inflazionistica dalla crisi
fiscale. I mercati la temono molto e l’inflazione è
certamente la più iniqua delle imposte, ma proprio perché
iniqua qualche investitore più accorto e veloce degli altri
può riuscire a destreggiarsi tra oro e beni reali o
indicizzati. Nell’Italia degli anni Settanta o nel Brasile
degli anni Ottanta quasi tutti alla fine avevano imparato a
organizzarsi.
I mercati, a dire il vero, temono l’uscita finale
inflazionistica al punto da chiedere in certe fasi (come
questa negli Stati Uniti) un premio di extrarendimento per
comprare i titoli pubblici. Gli stati lo possono anche
concedere, questo extrarendimento, per riprenderselo poi
tranquillamente indietro sotto forma di un aumento delle
imposte sulle rendite. Più alti i tassi sui bond, più alte
le tasse sui bond.
Il Congresso e l’Amministrazione Obama sono già abbastanza
avanti nella definizione degli aumenti delle imposte. In
sintesi aumenterà l’aliquota sul quintile di reddito più
alto, crescerà la pressione sulle imprese, verrà introdotta
una carbon tax, verrà introdotta una sales tax federale in
aggiunta a quelle statali già esistenti. Per i redditi da
capitale, oltre al 3.9 per cento di maggiorazione già
introdotto per finanziare la riforma sanitaria, l’aliquota
attuale del 15 passerà molto probabilmente al 25 già l’anno
prossimo. Alec Phillips di Goldman Sachs ritiene che questo
sarà solo un primo passo in vista di un 29 per cento nel
2013.
Attenzione quindi a quello che si desidera. Chi reclama un
risanamento fiscale veloce per evitare l’uscita
inflazionistica chiede di pagare subito più tasse. L’ultima
parola, inflazione o tasse, spetta comunque ai governi.
E’ questione di gusti, naturalmente, e per questo lasciamo
aperta la questione se sia più divertente morire
d’inflazione o di tasse.
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Fonte -
Il Rosso e il Nero
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Martedì 06
Aprile
2010 |
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Mercoledì 07
Aprile
2010 |
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Giovedì 08
Aprile
2010 |
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La settimana,
13/2010
Friday, 2 April, 2010 at 15:26 -
di phastidio ______________________________________________
L’indice azionario mondiale MSCI
World ha toccato giovedì 1 aprile il massimo da 18 mesi,
mentre il petrolio ha chiuso sopra gli 85 dollari al barile
per la prima volta da ottobre 2008, sulla spinta
dell’andamento della manifattura globale, che mostra
continua espansione in Cina, Europa e Stati Uniti. L’indice
ISM manifatturiero statunitense è cresciuto in marzo al
livello di 59,6, massimo da luglio 2004 e meglio del
consenso.
In Europa, l’indice dei direttori acquisti di imprese
manifatturiere è passato in febbraio da 54,2 a 56,6 mentre
in Cina l’equivalente indice, elaborato da Hsbc, è cresciuto
da 55,8 a 57 in marzo. Positivi riscontri anche per la
manifattura britannica, con l’indice che in febbraio si è
portato al massimo dal 1984, al livello di 57,2 (valori
superiori a 50 indicano espansione). Si conferma quindi la
spinta globale esercitata dalla manifattura, sia per effetto
del brillante andamento congiunturale nei paesi emergenti
che per la presenza di evidenze di più generale
ricostituzione delle scorte.
Questi dati, oltre al ritorno di una lieve debolezza del
dollaro, hanno spinto al recupero le quotazioni delle
materie prime, in particolare del petrolio, mentre i
rendimenti dei Treasury hanno proseguito nella tendenza
rialzista, sulla spinta di rinnovati timori relativi alla
capacità di assorbimento degli enormi volumi di nuove
emissioni necessarie a finanziare il deficit del Tesoro. Il
31 marzo si è inoltre concluso il programma di riacquisto di
cartolarizzazioni da parte della Fed, e vi sono timori che
questo possa indurre un aumento dei costi dei mutui, che
causerebbe una nuova gelata all’immobiliare.
I dati dei prezzi al consumo dell’Area Euro relativi a marzo
mostrano un aumento degli indici tendenziali, causato
soprattutto dalla ripresa dei prezzi di carburanti e costi
di trasporto. Ciò ha causato una reazione dei titoli di
stato indicizzati all’inflazione, che hanno visto marcati
aumenti dei breakeven inflation rates.
Tornano timori anche sulla Grecia e sulla sua capacità di
uscire dalla grave crisi di finanza pubblica in cui si
trova. nel corso della settimana il governo di Atene ha
collocato titoli pubblici a scadenza 5,7 e 10 anni tramite
consorzio di collocamento internazionale. L’accoglienza
degli investitori è stata tiepida, ed il mercato è tornato a
far crescere (a nuovi massimi da quattro mesi) i
differenziali di rendimento tra titoli greci e tedeschi,
oltre al credit default swap sul paese ellenico. Appare
evidente che la Grecia continua a finanziarsi sul mercato a
condizioni proibitive, soprattutto considerando che la
contrazione della sua economia è destinata ad aggravarsi
dopo le misure di austerità fiscale decise dal governo
Papandreou il 3 marzo scorso, e vi sono quindi seri rischi
di un avvitamento della situazione. Sintomatico della
profondità della crisi è il dato sull’attività
manifatturiera in febbraio, il cui indice segnala un
incremento della contrazione, unico tra i maggiori paesi,
sviluppati ed emergenti.
Negli Stati Uniti nel mese di marzo sono stati creati
162.000 nuovi impieghi netti, massimo da tre anni, a fronte
di attese poste a 184.000. Il dato è inferiore alle prime
stime di consenso, che erano giunte a prevedere fin0 a
275.000 nuovi impieghi netti. Tali stime sono poi state
progressivamente ridimensionate. La revisoone del bimestre
precedente hainoltre aggiunto 62.000 impieghi netti. Il dato
di marzo include 48.000 lavoratori temporanei assunti dal
governo federale per aiutare a condurre il censimento 2010.
Il maggior impatto di queste
assunzioni è atteso tra aprile e giugno. Parte dell’incremento
complessivo di occupazione riflette verosimilmente la
normalizzazione delle condizioni meteorologiche, dopo le
tempeste di neve di febbraio. La settimana lavorativa media
aumenta a 34 ore, da 33,9. Il tasso di disoccupazione resta
fermo al 9,7 per cento, quello della sotto-occupazione, che
include i lavoratori part-time involontari (quelli cioè che
vorrebbero lavorare a tempo pieno) sale lievemente al 16,9 per
cento.
Fonte
-
Macromonitor
RALLY PETROLIO E
METALLI: SCATTA L'ALLARME
02 Aprile 2010 10:03 NEW YORK -
di IL SOLE 24 ORE ______________________________________________
Ieri i prezzi dell'oro nero del
Nymex hanno toccato punte superiori a 85 dollari al barile,
il massimo dall'ottobre del 2008. Mai così alti dall'estate
2008 anche i prezzi segnalati a Londra per rame, nickel e
platino. Ripresa economia a rischio?
«Un rialzo delle materie prime ucciderebbe in culla quel
poco di ripresa che comincia a vedersi. Rischiando di
accendere una pericolosa spirale inflazionistica». L'allarme
arriva dai comparti produttivi del sistema Italia, alle
prese con una difficile uscita dalla recessione.
Tutta colpa del nuovo "cartello" del ferro siglato dai big
minerari mondiali con i grandi consumatori, soprattutto le
acciaierie asiatiche, che supera il vecchio sistema degli
accordi annuali sulla determinazione del prezzo, aprendo
alla speculazione sulle fluttuazioni.
Al nuovo accordo si aggiunge poi «la pressione della
locomotiva cinese ormai uscita dalla crisi», spiega
Guidalberto Guidi, presidente di Anie, l'associazione di
Confindustria che raccoglie le imprese elettroniche ed
elettrotecniche. «Sono tornati a mangiarsi tutto quel che
viene prodotto nel mondo spingendo i prezzi di rame e
acciaio. Nel nostro comparto, ad esempio, stanno rincarando
anche i componenti di base».
Per alcuni è fisiologico. Nel corso del 2009 molti hanno
tagliato capacità produttiva. E insieme si sono ridotti i
prezzi su base annua: -3,7% l'acciaio, -19,5% il rame,
-22,8% lo zinco, -36,5% l'alluminio, -35,6 il nickel. Con i
primi refoli di ripresa la pressione sta aumentando.
Ieri il petrolio Wti al Nymex ha toccato punte superiori a
85 dollari al barile, il massimo dall'ottobre del 2008. Mai
così alti dall'estate 2008 anche i prezzi segnalati a Londra
per rame (7.881 dollari per tonnellata), nickel (25.475
dollari per tonnellata) e platino (1.660 dollari per oncia).
«La richiesta di rincari da parte dei nostri fornitori è
ormai quotidiana e annulla quasi completamente il vantaggio
monetario sul dollaro – prosegue Guidi – accendendo una
potenziale rincorsa prezzi/tassi che non possiamo certo
permetterci».
Il baco del contagio è certamente la siderurgia, con
ricadute immediate sulla meccanica e sull'automotive. Ma
anche chi utilizza come materia prima il rottame (gran parte
dell'industria italiana), è investita indirettamente dal
rimbalzo, influenzando il prezzo dei prodotti finiti.
«Abbiamo visto un forte rincaro del minerale ferroso
destinato alle acciaierie e anche delle lattine di acciaio o
alluminio da riciclare e fondere – spiega Rosolino Redaelli,
produttore di imballaggi di metallo e presidente dell'Anfima,
l'associazione di categoria – ed è prevedibile che a valle
rincarerà anche la banda stagnata, cioè la latta per
produrre barattoli, scatolette e bombolette. C'è
preoccupazione soprattutto per gli effetti che potranno
esserci sul confezionamento di pelati e conserve, visto che
si avvicina il periodo del raccolto del pomodoro».
Secondo i produttori di imballaggi metallici, infatti, con
ogni probabilità saranno ritoccate le forniture di latta e
alluminio, che in genere hanno contratti di lunga durata.
Anche la Federalimentare guidata da Giandomenico Auricchio
teme questo contagio, più che il rimbalzo delle materie
prime alimentari. «Il problema è l'acciaio, ingrediente
fondamentale nel nostro made in Italy», ammette Auricchio.
«I nostri processi di lavorazione – aggiunge – rispondono a
normative molto restrittive proprio a tutela della sicurezza
dei consumatori. Dunque se non ci sarà un impatto diretto,
certamente i rincari peseranno lungo la filiera».
Preoccupato per l'infiammata dei prezzi è anche Paolo
Culicchi, presidente di Assocarta, un settore che valeva
circa 22mila addetti per 10,1 milioni di tonnellate di
produzione negli anni d'oro (oggi dopo la crisi che ha
chiuso 20 cartiere vale 20mila lavoratori e 8,4 tonnellate).
«Le materie prime fibrose (le cellulose) e le carte da
macero nel primo trimestre 2009 erano scese a prezzi
bassissimi», ragiona Culicchi. «Cinquecentosessanta dollari
a tonnellata per la fibra lunga e 460 per quella corta».
I produttori sudamericani, tanta era la crisi, avevano
addirittura fermato gli stabilimenti. Oggi lo scenario è
diverso: la ripresa sta investendo il Far East trascinandosi
dietro la pressione sui prezzi. «Nell'ultimo trimestre –
prosegue il presidente di Assocarta – c'è stato un aumento
di 30 dollari/tonnellata. Siamo ormai a 880 per la fibra
lunga e 780 per quella corta».
Come uscirne? «Auspichiamo almeno una detassazione
sull'incremento di fatturato».
Meno lambita dal rimbalzo la filiera dell'edilizia.
Banalmente perché «il comparto resta immerso in una crisi
profonda, sia sul lato immobiliare che nelle infrastrutture
che negli appalti pubblici», commenta il presidente
dell'Ance, Paolo Buzzetti.
«Già nel 2005 ci fu un'impennata dei prezzi del 108% dopata
proprio dalla rincorsa cinese. Ricordo che i container pieni
di acciaio venivano tenuti fermi nei porti per far salire i
prezzi. Il rischio vero, piuttosto – conclude il leader
dell'Ance – è di restare in balia di congiunture
internazionali volatili».
Fonte
-
IL SOLE 24 ORE
Universo bond
7 aprile 2010 - 15:28 -
di Sara Silano ______________________________________________
Bund, BTp e Treasury sono solo
uno dei pianeti del vasto universo obbligazionario, che è
popolato da titoli dei mercati emergenti, corporate bond e
high yield (emissioni ad alto rendimento e di minor
qualità). Questi ultimi hanno assunto un ruolo da
protagonisti negli ultimi anni, sia perché il prolungato
periodo di bassi tassi di interesse nei Paesi occidentali ha
indotto gli investitori a ricercare opportunità altrove, sia
perché l’alto debito pubblico e la crisi economica hanno
reso l’Europa e gli Stati Uniti un porto un po’ meno sicuro.
Una montagna di debiti “Ci troviamo di fronte a una montagna
di debiti che sono serviti a non dichiarare un default
sistemico”, dice Filippo Biagini, responsabile delle
Gestioni patrimoniali di Abbacus sim. Ma per Luca Simoncelli,
membro del team BlackRock Multi-asset client solutions, nel
breve, le probabilità di fallimento o di una crisi di
liquidità sono minime. Un caso a parte è rappresentato dalla
Grecia, per la quale il rischio rimane nel medio termine,
anche a causa della diminuzione della competitività del
Paese, conseguente alla necessità di implementare misure
fiscali drastiche. “Prevediamo che i premi per il rischio
sui titoli greci continueranno ad essere alti”, dice,
“generando un aumento della volatilità sul mercato
obbligazionario europeo”.
Nonostante le probabilità di fallimento per i Paesi di
Eurolandia e per gli Stati Uniti siano basse, è chiaro che
per uscire dalla situazione attuale, senza incorrere in
un’inflazione galoppante, l’unica via è l’attuazione di una
rigida politica fiscale abbinata a tagli alla spesa
pubblica. Gli Stati Uniti avrebbero un’arma ulteriore, ossia
l’indebolimento del dollaro, ma questa opzione appare ancora
piuttosto remota.
La riuscita di questa strategia, però, non è scontata. Come
osserva Nicolò Piotti, executive director di Morgan Stanley
investment management, gli investitori potrebbero decidere
di non sottoscrivere i titoli emessi dagli Stati più a
rischio, impedendogli di rifinanziare il debito. Inoltre,
non è del tutto fugato il rischio di un ritorno della
recessione, se non ci sarà una ripresa dei consumi privati e
la disoccupazione continuerà a crescere.
Fuori dalla crisi con gli emergenti Le previsioni di
crescita dei Paesi sviluppati per il 2010 sono contenute,
per cui le Banche centrali dovrebbero lasciare i tassi bassi
ancora per un po’. In questo contesto, gli investitori si
sono riversati sulle obbligazioni emergenti e societarie,
che, secondo i gestori, offrono ancora buone opportunità
nonostante il rally del 2009.
“Le economie emergenti porteranno il mondo fuori dalla
crisi”, dice Mark Pearce, investment specialist di
Threadneedle. “Si stima una crescita media del 6% per questi
Paesi nel 2010, mentre quelli sviluppati dovrebbero
assestarsi intorno a un anemico 2%”. I flussi di
investimento verso i titoli obbligazionari emergenti
dovrebbero, dunque, continuare e in particolare dirigersi
verso le emissioni in valuta locale. “Quelle in dollari
potrebbero generare rendimenti tra il 5 e il 10%”, dice
Piotti, “mentre quelle in local currency tra il 10 e il 15%.
Metà della performance ipotizzabile deriverebbe comunque
dalle cedole”. Attenzione, però, che l’espansione
determinerà un aumento dei tassi che potrebbe penalizzare i
titoli già in circolazione, ma nello stesso tempo rafforzerà
le divise locali e determinerà un miglioramento della
bilancia commerciale.
Corporate, rischio default sopravvalutato Per quanto
riguarda i corporate bond, non sono da escludere default nei
prossimi anni, tuttavia per Diego Cereda, gestore del fondo
UBI Pramerica Euro corporate, “i timori di un’implosione del
sistema non sono giustificati se si guarda al mercato
investment grade ”. Il suo suggerimento è quello di adottare
un’adeguata diversificazione a livello di settori, emissioni
e tratti della curva. Per Pearce, il mercato sconta tassi di
default maggiori di quelli che realmente ci saranno, per cui
i differenziali (spread) rispetto ai titoli di Stato
potrebbero restringersi. Inoltre, la domanda di corporate
bond è cresciuta notevolmente, per cui gli investitori che
hanno bond in scadenza dovranno reinvestire la liquidità,
alimentando la domanda.
Portafogli obbligazionari Cosa suggeriscono i gestori agli
investitori che vogliono costruire un portafoglio
obbligazionario diversificato (fatto 100 il totale)? Per
Biagini, se ipotizziamo uno stile totalmente flessibile, il
30% dovrebbe andare in titoli governativi, il 40% in
coporate bond con elevato merito creditizio e duration alta,
il 15% in high yield e il rimanente 15% in titoli dei
mercati emergenti. Simoncelli, invece, destina il 35% alle
emissioni governative, il 45% a quelle societarie investment
grade , il 5% agli high yield (statunitensi) e il 15% ai
bond emergenti in valuta locale. Cereda, infine, ragiona in
termini di sovra/sottopeso rispetto al benchmark. “Sui
portafogli investiti in emissioni statali, abbiamo un
sovrappeso sull’Eurozona core (Germania) e sull’Italia
(unico periferico in nostro possesso)”, dice, “Risultano in
marcato sottopeso Grecia e Spagna. Abbiamo una view neutrale
sui titoli corporate, con preferenza sull’area breve della
curva e focus su quelli con alto rating”.
“2010, ancora anno del credito? Un’analisi delle strategie e
delle principali asset class: governativi vs corporate, high
yield ed emergenti” è il tema di un convegno che si terrà
all’ITForum di Rimini il prossimo 13 maggio, nell’ambito del
quale interverranno i gestori intervistati in questo
articolo. Per leggere il programma completo, clicca qui.
Fonte
-
morningstar
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Proteggere
il mercato, non le imprese
April 7th, 2010
– di Epistems.org
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Una storia di ordinario turbocapitalismo globalizzato del
Ventunesimo secolo. E’ quella dell’acquisizione della
britannica Cadbury da parte della statunitense Kraft. Lo
schema è sempre quello, logoro ma ancora efficace: il CEO di
Kraft, Irene Rosenfeld, porta a casa un aumento del 41 per
cento della compensation, che tocca i 26 milioni di dollari,
per aver compiuto l’acquisizione di Cadbury. E’ importante
sottolineare che noi non sappiamo, oggi, se questa
operazione produrrà valore per gli azionisti. In passato
spesso è accaduto l’opposto: sinergie inesistenti, taglio di
costi fantasioso.
Ma nel breve periodo la bottom line viene di solito
preservata, magari spingendo la capacità d’indebitamento
dell’acquisita e realizzando dei riacquisti di azioni
proprie. Poi la preda viene rivenduta con margine, ed il
gioco ricomincia. Ma ci sono anche altri modi per fare
cassa, dopo l’acquisizione. Nel caso Kraft, la società
americana ha deciso di bloccare per tre anni gli stipendi
dei dipendenti di Cadbury perché ha scoperto che il loro
fondo pensione presenta oneri non individuati nella fase di
due diligence che ne rendono impossibile la
“ristrutturazione”, cioè lo smantellamento. Questo è un caso
da manuale di malafede.
Il fondo pensione di Cadbury è vecchio di 30 anni, e i
contabili di Kraft non si sarebbero accorti della criticità?
Se le cose stanno in questi termini, non si capisce perché
la Rosenfeld debba essere premiata, visto che ha mancato ai
suoi compiti, tra i quali rientra la meticolosa verifica
contabile delle società-target. Ma non c’è problema,
pagheranno i dipendenti di Cadbury, secondo un
collaudatissimo schema. Questa è l’evoluzione del
capitalismo globale, nella sua versione ormai degenerata: è
diventato un’oligarchia arrogante ed autoreferenziale. Vive
immerso nei suoi conflitti d’interesse, con i suoi
compensation committee, che stabiliscono la retribuzione dei
top manager, in palese collusione con questi ultimi. La
finanza “cattiva”, cioè quella non al servizio della
produzione, fa il resto.
Qui risiede anche la radice della tendenza globale alla
crescente diseguaglianza reddituale tra vertici d’impresa e
dipendenti, anche quelli con funzioni di middle management,
e non solo rispetto alla “base”. Le imprese diventano troppo
grandi, tendono a sfruttare condizioni di “arbitraggio
multiplo” (della forza lavoro, dei mercati finanziari, della
regolazione) scegliendosi anche la piazza ove operare.
Spesso, sui mercati dei paesi di origine, contano sulla
“difesa della nazionalità” da parte di un legislatore miope
e attento al solito alle ricadute di consenso di breve
periodo, che inevitabilmente finisce col sacrificare la
difesa del mercato a quella delle imprese incumbent. Accade
anche in Italia, come efficacemente documentato da Gianni
Dragoni e Giorgio Meletti nel libro “La paga dei padroni“.
E’ quello che vediamo anche oggi, nell’ambito delle società
quotate e del loro sottoinsieme rappresentato dalle banche,
con dirigenti apicali che si aumentano gli emolumenti in
media del 25 per cento a fronte di un crollo dei profitti
del 41 per cento, magari dopo aver inviato una letterina “a
cuore aperto” ai dipendenti, in cui promettono sangue,
sudore e lacrime. Ma Nimpo: not in my pockets.
Fuori dal caso settoriale specifico, resta il problema di
come rendere più trasparente e puntuale il legame tra
remunerazione dei top manager e risultati aziendali, anche
nella ridotta scala di un paese ad oligarchizzazione
fallita, quale l’Italia. E’ un problema di rapporto tra
principale ed agente, a ben vedere. Il primo sono gli
azionisti, il secondo il management. Non si risolve facendo
accedere i dipendenti (ed i loro rappresentanti sindacali)
al consiglio di amministrazione, perché ciò finirebbe con il
frenare la residua propensione all’innovazione da parte
dell’impresa. Ai dipendenti dovrebbe invece andare una quota
di retribuzione variabile legata a risultati “industriali”,
di gestione caratteristica, cioè quelli riferiti all’ambito
da essi presidiato e controllabile, escludendo quindi forme
di retribuzione azionaria, che è legata a funzioni
strategiche tipiche del top management, come le politiche
finanziarie.
In questo senso appare estemporanea e non razionale la
proposta lanciata tempo addietro dal ministro del Lavoro,
Maurizio Sacconi, probabilmente solo per alimentare il
circuito della dichiarazia italiana e spostare la
discussione da riforme di struttura autentiche ed orientate
alla crescita della produttività. Dovrebbe inoltre essere
potenziato il ruolo di controllo dell’assemblea dei soci,
che oggi è chiamata solo a ratificare le scelte del
management. Quello che possiamo fare in casa nostra è solo
limitare i fenomeni più eclatanti e perversi di
pietrificazione dei gruppi di controllo aziendale (l’opposto
di quanto fatto da questo governo, con l’alibi della crisi
globale, con l’intervento sulla passivity rule e la
ridefinizione delle condizioni di opa obbligatoria),
favorendone il ricambio anche attraverso la progressiva
ridefinizione del ruolo dello stato, che dovrebbe ad esempio
diventare l’erogatore di sussidi universali ai lavoratori e
non proteggere staticamente i lavori, in un infinito suk con
gli imprenditori assistiti.
Non dobbiamo farci illusioni, purtroppo: è il sistema
capitalistico occidentale che si trova in una fase storica
di profonda involuzione, causata dal suo gigantismo e da una
sterile finanziarizzazione, cioè non al servizio della
produzione. Non possiamo attenderci alcun miracolo né alcuna
“rivoluzione in un solo paese”, persistendo l’attuale
paradigma. Ma noi italiani dovremmo almeno tentare di non
rinchiuderci nel nostro angusto recinto, fatto di
“italianità” asfittica, furbetti del consiglio di
amministrazione, cattura regolatoria e palese disprezzo del
consumatore, travestito da paternalismo “protettivo”. Anzi,
spesso è proprio la turbolenza in atto sui mercati globali
ad innescare una pericolosa retorica localistica che sfocia
nella imbalsamazione di oligarchie fallite e delle loro
rendite di posizione. Visto quello che (non) è accaduto
finora, malgrado il cicaleccio retorico-riformistico da cui
siamo avvolti, c’è motivo per essere pessimisti sul
sistema-paese. E’ il “primato della politica”, bellezza.
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Fonte -
Epistems.org
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Venerdì 09
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2010 |
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Sabato
10 Aprile 2010 |
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Martedì 13
Aprile
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La
"volata" della Borsa cinese
e l'incognita bolla immobiliare
07 Aprile 2010 09:20 - Sole 24
ore
– di RADIOCOR
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Se la sfera di cristallo fosse uno strumento di lavoro,
l'analista trascorrerebbe il tempo di fronte al computer per
scambiare titoli in Borsa e lucrare sui pronostici. La
finanza è, invece, una materia complessa, imprevedibile e la
Cina non fa eccezione. Con un ragionevole margine di
incertezza, si può tuttavia immaginare una crescita
dell'indice di Shanghai e Shenzhen per quest'anno
nell'ordine del 20%. Se la prudenza non impedisce dunque
previsioni, l'incrocio di una serie di fattori supporta le
stime di crescita. Dalla loro fondazione nei primi anni '90,
le capitalizzazioni delle Borse cinesi sono cresciute di
1.800 volte; il valore congiunto, il terzo al mondo, é pari
al 95% del Pil cinese.
I listini hanno iniziato con 13 società quotate e ora ne
contano 1.638. Shanghai e Shenzhen sono ora rispettivamente
la sesta e la sedicesima Borsa al mondo per valore. La prima
ha raccolto nel 2009 il maggior numero di Ipo dopo Hong
Kong. Al di là di questi aspetti, esistono anche analisi
positive. Anche se la ripercussione tra crescita del Pil e
valore dei listini non è automatica, l'incremento cinese non
potrà non farsi sentire nel medio periodo. La ricchezza del
paese, ormai fuori dalla crisi, crescerà nel 2009 almeno del
9%, ma più probabilmente oltre il 10%, riprendendo un
percorso tanto regolare quanto eclatante.
L'aumento sarà dovuto a una differente composizione delle
variabili macroeconomiche, con un ruolo sempre più
importante assunto dai consumi privati (+25%). La spia del
«price earning (Pe) ratio», intorno a 25, potrebbe indurre a
prudenza, essendo infatti più alto rispetto alla media
mondiale. Non sembra tuttavia ridurre le aspettative perché
appare compatibile con la crescita robusta attesa del Pil. È
anche probabile una progressiva rivalutazione dello yuan, se
le minacce di guerra commerciale con gli Stati Uniti
verranno riconsiderate. Ne conseguirà un aumento del valore
dei titoli espressi in dollari Usa o in euro. Anche se gli
interessi bancari dovessero alzarsi, come previsto, la borsa
ha già ampiamente scontato nei mesi scorsi questo evento con
un leggero ribasso da inizio anno, e non si prevede che ciò
possa spostare i risparmiatori verso impieghi diversi dalla
Borsa, considerato l'alto flusso di investimenti immobiliari
già avvenuto nel 2009-2010.
Sta infine rafforzandosi la maturità strutturale delle
Borse, in uscita da una fase pioneristica. Dopo un percorso
di molti anni, secondo una prassi cinese consolidata, sono
state adottate nuove misure che consentono un maggiore
leverage e possibilità di profitti anche quando gli indici
scendono permettendo ai listini un riequilibrio più rapido
in caso di fibrillazioni. In sintonia con gli altri mercati,
sono consentiti ora il «margin trading», lo «short selling»
e la compravendita di «financial future». Sono misure in
vista del prossimo lancio dell'International Board dello
Shanghai Stock Exchange.
Le incertezze che rimangono sulle Borse sono legate
all'inflazione e al settore immobiliare. L'aumento dei
prezzi potrebbe raggiungere nel 2010 il 5%, contro un 3%
previsto dal programma di governo. È una soglia pericolosa.
Se fosse necessario, il Governo potrebbe intervenire con una
stretta monetaria più forte del previsto.
Un altro rischio di stampo negativo proviene dalle
costruzioni. Il comparto è cresciuto a dismisura e gli
intenti speculativi, soprattutto nelle grandi città, stanno
interrompendo il sogno delle famiglie cinesi di acquistare
un appartamento.
La crescita dei valori al metro quadro degli appartamenti,
che è stata fino al 50% annuo dal 2008 a oggi, ha riproposto
il pericolo dello scoppio della bolla immobiliare.
L'esecutivo é impegnato in una battaglia, poco analizzata in
Occidente, con un nemico interno. Esistono infatti interessi
forti che premono per attrarre sempre nuova finanza per
cantieri edilizi. È il collante tra investitori, costruttori
e amministrazioni locali che dalla vendita dei terreni
ricavano profitti e la maggior parte delle entrate fiscali.
Rispetto al pericolo di una fragorosa caduta dei prezzi
immobiliari, che penalizzerebbe a loro volta le banche, gli
investimenti finanziari in Borsa, una volta considerata una
rischiosa deviazione dall'economia reale, rappresentano ora
un motivo di equilibrio e solidità per il paese. di Alberto
Forchielli Presidente di Osservatorio Asia.
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Fonte -
RADIOCOR
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BUY E HOLD: NON
PER LE AZIONI, BENSI' PER I BOND
08 Aprile 2010 22:48 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La strategia che prevede
l'acquisto di asset per poi mantenerli in portafoglio e'
passata di moda per l'azionario, ma sta prendendo sempre
piu' piede nell'obbligazionario. Con rendimenti record e
incertezza sull'economia, dinamiche ribaltate.
La strategia del "Buy and Hold", che prevede l'acquisto di
un asset per poi tenerlo in portafoglio, potrebbe essere
passata di moda per il mercato azionario, ma sta prendendo
sempre piu' piede tra gli investitori nell'obbligazionario.
Con gli Stati Uniti che si trovano a fare i conti con un
futuro incerto dal punto di vista economico e i rendimenti
che sono su livelli molto attraenti - solo qualche seduta fa
quello per il decennale ha toccato i livelli record del 4% -
alcuni manager hanno iniziato a suggerire ai propri clienti
di tenere in portafoglio piu' a lungo i bond e fare profitti
piuttosto che avere fretta di cercare guadagni sul breve
termine.
Qualche giorno fa, Barclays Wealth ha consigliato vivamente
ai propri clienti di cambiare, gia' a partire da questa
settimana, l'approccio al mercato dei bond e di iniziare
invece a tenere i titoli in portafoglio per un periodo piu'
lungo. Il consiglio si basa in gran parte sul fatto che il
rendimento sul benchmark del Tesoro Usa rimane vicino ai
livelli del 4%, mentre il trentennale si aggira in
prossimita' del 4.75%.
Barclays considera che una crescita lenta, fase tipica da
post-recessione, che infatti si e' gia' vista nel periodo
successivo alla Seconda Guerra Mondiale, sia lo scenario
piu' probabile.
Ma bisogna prepararsi alla possibilita' che quando il
pacchetto di misure di rilancio economico varato dal governo
terminera', visto anche che la Federal Reserve non ha piu'
spazio di manovra in fatto di politica monetaria dei tassi
di interesse, le finanze a disposizione dei consumatori non
saranno tali da poter consentire loro di continuare ad
alimentare la crescita dell'economia, che potrebbe pertanto
entrare in una seconda fase di rallentamento.
Di solito la strategia in questi casi prevede una tecnica di
portafoglio battezzata "laddering", in cui nel portfolio e'
presente una miscela di bond con scadenze diversificate, in
modo tale da trarre profitti dagli eventuali cambiamenti dei
tassi di interesse.
Comprare titoli a lungo termine presenta i suoi rischi e
pertanto i detrattori non mancano. Con la prova stellare dei
bond ad alto rendimento l'anno scorso e il calo dei tassi di
default, le dinamiche del mondo del reddito fisso sono poi
inevitabilmente cambiate.
"Continuo a vedere investitori che hanno in portafoglio
asset senza sapere il perche'", ha dichiarato Dennis P.
Barba Jr., professore presso la Weatherhead School of
Management della Case Western University. "Quando i tassi di
interesse salgono, questi titoli a reddito fisso e a lungo
termine finiscono ovviamente per perdere valore".
L'opposizione piu' netta viene da quelli che pensano che gli
Stati Uniti stiano per entrare in una fase di tassi di
interesse alti, provocata dall'inflazione e dal continuo
bisogno del governo di finanziare il suo debito. In un
contesto di questo tipo, i prezzi dei bond finiranno per
scendere, con l'inflazione che erodera' il valore degli
investimenti nel reddito fisso.
UTILI IN CORSA? LA
BORSA GIA' SCONTA L'OTTIMISMO
12 Aprile 2010 22:24 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Alcoa da' il via alla stagione
delle trimestrali. Attesi numeri sorprendenti per le
societa' dell'S&P 500. Ma le stime sono gia' incluse nei
prezzi di borsa. Alert: non e' escluso un generalizzato
sell-off.
Per un altro trimestre, i conti delle societa' americane
potrebbero centrare le stime degli analisti. I profitti dei
gruppi quotati sull'S&P 500 sono visti in crescita del 36.8%
rispetto un anno fa. Si tratterebbe del secondo trimestre
consecutivo (su base annuale) con il segno piu'. Per la
prima volta dal secondo trimestre del 2007, la performance
e' tornata ad essere positiva negli ultimi tre mesi del
2009.
"Stiamo per assistere a numeri sorprendenti", ha detto Fred
Dickson, capo strategist di mercato in D.A. Davidson & Co.
con sede in Oregon. Il punto e' che "dati macroeconomici
superiori alle stime si tradurranno in ricavi altrettanto
migliori del previsto", ha concluso.
Ma le trimestrali saranno cosi' belle da spingere al rialzo
i titoli? L'S&P 500 viaggia in rialzo del 75.4% rispetto ai
minimi del marzo 2009. Il punto e' che sono in molti a
credere che l'entusiasmo sui conti in arrivo a partire dalla
settimana prossima e' gia' incluso nei prezzi di borsa. Non
e' affatto escluso, dunque, che tutto cio' si traduca in un
generalizzato sell-off. Durante la passata stagione delle
trimestrali il principale benchmark di Wall Street ha perso
il 3%.
"Non penso che la pubblicazione degli utili muovera'
qualcosa", ha spiegato Joseph Battipaglia, market strategist
di Stifel Nicolaus a Yardley, Pennsylvania. "Non si tratta
di una brutta notizia. Si tratta semplicemente di capire che
abbiamo abbandonato il peggiore degli scenari possibili per
sposare quello che viene considerato come il migliore. E ora
e' piu' difficile giustificare prezzi delle azioni ancora
piu' alti".
Storicamente, il mercato mette a segno migliori performance
al di fuori della stagione dei conti. L'S&P 500 ha
guadagnato il 6.8% da quando le societa' americane hanno
finito di comunicare i loro risultati.
I settori destinati a vincere sono i finanziari (+205.2%
sugli utili rispetto a un anno fa), materie prime (+176.4),
beni discrezionali (+114.8%). "Non ci dovrebbero essere
profit warning", ha riferito Nick Kaliva, vicepresidente
della ricerca finanziaria e analista azionario in MF Global
a Chicago.
Si ricorda che, per quanto riguarda gli utili delle societa'
dell'S&P 500, il primo trimestre del 2009 e' stato il
peggiore da inizio 2008 mentre il quarto ha registrato la
piu' brutta performance dal 1998.
Negli ultimi tre mesi dell'anno scorso, le societa'
dell'indice hanno battuto le stime sui ricavi nel 70% dei
casi, su rispetto al 59% del terzo trimestre. Per quanto
riguarda gli utili, invece, hanno fatto meglio del previsto
il 72% dei gruppi contro il 79% del terzo trimestre ma
ancora sopra il 61% che generalmente viene messo a segno nel
periodo.
GREGGIO: DOMANDA
GLOBALE VERSO NUOVO RECORD
13 Aprile 2010 17:00 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Riviste al rialzo le stime da
parte dell'AIE, previsti oltre 86 milioni di barili al
giorno su scala mondiale. Il maggior contributo ai consumi
di greggio arrivera' dai paesi al di fuori dell'Opec, tra
cui Cina e Brasile.
La domanda mondiale di petrolio potrebbe toccare un record
quest'anno. Lo ha riferito l'Agenzia internazionale
dell'energia, che ha ancora una volta alzato le stime sui
consumi alla luce della ripresa dell'economia su scala
mondiale.
Secondo l'istituzione la richiesta di oro nero potrebbe
crescere ogni giorno di 1.6 milioni di barili raggiungendo
una media di 86.60 milioni di barili al giorno su scala
mondiale, in rialzo rispetto agli 84.93 milioni registrati
nel 2009.
L'ultimo record risale al 2007, prima dello scoppio della
crisi finanziaria e della recessione economica. "Ci sono
segnali di migliormanento nella domanda in Nord America e
Pacifico, Asia e Medio Oriente mentre i consumi in Europa
sembrano ancora deboli", ha riferito David Fyfe, capo della
divisione dedicata al settore petroliferi dell'Aie.
Gran parte della domanda verra' soddisfatta dalla produzione
al di fuori dell'Opec. L'Agenzia ha infatti rivisto all'insu'
le stime di produzione ex-Opec per il 2010 di 220000 barili
al giorno per un totale di 52 milioni di barili al giorno.
Cina, Arabia Saudita, Russia, Brasile, Iran e India
contribuiranno per tre quarti a sostenere la domanda globale
per l'anno in corso.
Tuttavia, le scorte sempre al di fuori del cartello sono
viste in crescita di 500000 barili al giorno. Come
conseguenza, l'Aie stima che la domanda per il petrolio dei
principali paesi produttori possa scendere di 200000 barili
al giorno a 29.1 milioni.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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Borsa:
sconfitti tutti i pessimisti a tempo pieno
13 Aprile 2010 01:31 MILANO
– di Alessandro Fugnoli*
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli,
strategist Kairos Partners SGR.
________________________________________
Prima domanda. Perché non si parla più di double dip? Che
cosa è andato storto nelle previsioni di quanti ipotizzavano
la crisi a W? C’è per loro qualche speranza di tornare ad
essere ascoltati con il rispetto che si deve a chi detiene
la verità e con la voluttà di sofferenza che caratterizza in
certi momenti la maggioranza degli umani quando si trovano
lunghi di rischio e corti di speranze?
Il grande Feldstein, ad esempio, l’uomo tenace e paziente
che da più di un decennio aspetta il cadavere dell’unione
monetaria europea seduto sulla riva del fiume, l’uomo lucido
e profondo che ha capito la gravità della crisi già
all’inizio del 2008, il primo a definirla la più grave dai
tempi della Depressione, nel settembre del 2009 disse che
già nel quarto trimestre che stava per iniziare i germogli
di crescita che i mercati celebravano tra mille paure da sei
mesi sarebbero sfioriti.
Il ragionamento di Feldstein si basava sul carattere
effimero degli incentivi per l’acquisto di auto, sul venir
meno degli effetti dei pacchetti fiscali e su una
ricostituzione delle scorte che stava per finire. Tutti e
tre i temi avevano dignità, ma tutti e tre, da settembre a
oggi, hanno prodotto effetti molto diversi da quelli
ipotizzati da Feldstein e dai molti altri che si sono messi
sulla sua scia.
Ad agosto-settembre, grazie agli incentivi per la
rottamazione delle vecchie auto, le vendite si impennarono
improvvisamente dai tristissimi 8-9 milioni annualizzati dei
nove mesi precedenti e balzarono a 11 milioni. Che gran
trovata, dissero molti economisti, così non si fa altro che
rubare vendite al futuro. I concessionari di auto, privi di
PhD ma dotati di fiuto ed esperienza, dissero che non
sarebbe stato così. Bene, quante sono state le vendite
annualizzate in marzo? Quasi 12 milioni, e i mercati sono
stati pure delusi perché si aspettavano qualcosa di meglio.
La ragione? Ai tempi della crisi avevano giustamente smesso
di comprare un’auto quelli che non potevano più
permetterselo. Il fatto però sottovalutato dagli economisti,
ma non dai concessionari, è che avevano smesso di comprare
anche quelli che se lo potevano permettere.
Quanto ai pacchetti fiscali, più che lo sparo di sostanze
dubbie iniettato in vena con la siringa, sono stati una
flebo che ha continuato e continuerà ancora per qualche
tempo a centellinare acqua zuccherata. L’errore è stato
quello di pensare di avere raschiato il fondo del barile
fiscale, sottovalutando la capacità dei politici di chiamare
le cose con un nome diverso da quello abituale. Si è anche
sottovalutata l’inefficienza della macchina pubblica nello
spendere i soldi. Eolico, rinnovamento della rete elettrica,
alta velocità, tutto è ancora sulla carta.
Le scorte, infine, hanno un ciclo lungo e diversificato per
settore e per area geografica. Globalizzazione e Just in
Time non hanno ancora sincronizzato tutto (per fortuna). La
ricostituzione delle scorte è iniziata a Taiwan con i
semiconduttori un anno fa esatto e sta ancora girando il
mondo. In America è un poco più avanti, in Europa è ancora
indietro. Quanto alla Cina, buona parte del riaccumulo è
strategica, non ciclica, e non sembra ancora terminata. Per
la Cina è del resto razionale, avendo i soldi per farlo,
mettere da parte materie prime in una fase iniziale del
ciclo, quando costano meno.
Seconda domanda. Perché non si parla più di bolle? Molte
classi di asset sono oggi più care di quando se ne parlava,
eppure oggi si tace. Le ragioni sono varie.
La prima, psicologica, è che i più feroci censori di bolle
sono stati a loro tempo proprio i teorici del double dip. Se
i mercati non tornavano depressi
come da loro indicato, allora erano in bolla. Prima ti dico
che la tua vita sarà una valle di lacrime, ma se poi capita
che sia passabile o piacevole ti colpevolizzo subito, ti
faccio sentire frivolo e sciocco, così non hai scampo. I
Savonarola e i Robespierre hanno la loro stagione, ma quando
il vento cambia fanno presto una brutta fine.
La seconda ragione è che il carry trading, causa tecnica di
molte bolle, ha avuto e mantiene tuttora dimensioni molto
ragionevoli. Le banche non vogliono guai e noie con le
vigilanze e approfittano senza strafare dei mesi che restano
prima che la Volcker Rule, Basilea 3 e le tasse studiate
apposta per loro comincino a farsi soffocanti. I fondi hedge
hanno ridotto tutti la leva in modo strutturale. Le valute
di finanziamento a tasso zero abbondano, ma si muovono molto
tra loro e se si sbaglia a scegliere tra euro, dollaro e yen
la pena è severa.
Il carry di curva è ormai vissuto come pericoloso, le valute
emergenti sono già salite molto, le borse hanno le loro
correzioni come in gennaio. Non c’è in giro quell’illusione
di progresso lineare e inarrestabile che stimola l’avidità e
poi c’è sempre una Grecia che incombe. Il carry trader, in
questa fase, non ha da temere troppo inversioni di ciclo, ma
deve stare molto all’erta rispetto a quelle cadute
improvvise anche se temporanee che per lui possono essere
devastanti.
La terza ragione è che le valutazioni hanno una certa
logica. Le borse sono salite anticipando gli utili, ma gli
utili non hanno deluso, anzi. David Rosenberg, sempre
piacevole da leggere, si affanna ogni giorno a trovare
paragoni tra dati meravigliosi del 2007 e orrori odierni (si
pensi alle case, al numero dei disoccupati, alla produzione
industriale ancora ben al di sotto del livello di tre anni
fa), ma trascura il fatto che le borse sono nel business dei
margini, dei Roe e degli utili delle società quotate (non
delle altre).
Se si escludono le banche, i profitti dell’SP 500 saranno
quest’anno gli stessi del 2007 e nel 2011 saranno del 17 per
cento superiori e quindi al massimo storico. Jason Todd di
Morgan Stanley trova le stime di consenso sul 2011
esagerate, ma che la crisi sia perfettamente superata non lo
contesta neanche lui. Ricordate quando si diceva che una
volta tagliati gli utili all’osso non c’era più niente da
fare, perché la top line sarebbe rimasta in eterno depressa?
Erano discorsi che si facevano con l’S&P500 a 900 e ora
siamo in vista di 1200. Quanto alla finanza il recupero è
più lento, ma certe tesi che circolavano molto l’anno scorso
sulle banche utility che avranno per sempre un Roe da
utility si sentono già meno.
Terza domanda. Perché non si parla più dell’imminente crisi
cinese, della manipolazione delle statistiche cinesi, della
crisi bancaria inevitabile? Perché sono tutti tornati a
raccomandare la borsa cinese? Noi non pensiamo che la Cina
sia invulnerabile e che non avrà mai una crisi, ma è
evidente che il mercato sottovaluta strutturalmente la
solidità finanziaria di quel paese, l’efficienza dei canali
di trasmissione della volontà politica, la velocità degli
aggiustamenti. La ricapitalizzazione delle banche, per
esempio, è stata completata in tre mesi. Ancora di più si
sottovaluta la volontà politica di crescere a ogni costo.
Certo, un giorno i mercati si convinceranno di queste cose e
passeranno da un eccesso di scetticismo a un eccesso di
fiducia, ma siamo ancora lontani da quel momento.
Provando a sintetizzare, la ripresa ciclica globale più
solida delle previsioni è dovuta a quattro fattori. Di tre
abbiamo parlato (il buon andamento dei mercati finanziari,
la determinazione delle grandi imprese a difendere i
margini, il forte impegno cinese), ma è il quarto che sembra
sorprendere di più molti osservatori.
Parliamo della ripresa dei consumi in America. Abbiamo
passato un anno a dirci che l’America, volente o nolente,
era avviata a un tasso di risparmio delle famiglie del 10
per cento. Si era partiti dal risparmio zero degli anni
d’oro e si era rapidamente saliti, a un certo punto, al 6
per cento. Oggi, invece di essere al 10, siamo tornati al 3.
E’ anche per questo potente fattore che le cose vanno
meglio. L’America ha un Pil di 15 trilioni e consumi di 10,
la Cina ha un Pil di 5 e consumi di poco più di 2. Sui
consumi, tra America e Cina non c’è gara.
Vuole questo dire che l’architetto della ripresa, Larry
Summers, vuole riproporre per l’ennesima volta il modello
della crescita drogata? E’ presto per dirlo, ma è molto
probabile che Summers abbia cercato fin dall’inizio una
via intermedia tra la disintossicazione drastica e la
reintossicazione pura e semplice, magari con dosi ancora
maggiori.
Un tasso di risparmio del tre, invece che del sei, comporta
ovviamente un riequilibrio più lento tra America e resto del
mondo, ma permette di accorciare i tempi della quaresima, di
creare più crescita e più entrate fiscali e soprattutto di
evitare di camminare sempre sull’orlo dell’abisso della
ricaduta.
Se dal tre torneremo di nuovo a zero anche noi grideremo
alla bolla, ma il tre non è lo zero e finché rimarremo a
questi livelli saremo più compiaciuti che preoccupati.
Questo spirito, questo provare a godere un minimo della vita
anche nelle fasi difficili di aggiustamento senza
allontanarsi troppo dall’obiettivo, è consigliabile anche
agli investitori. Chi è rimasto ai margini del rialzo delle
borse, delle valute emergenti e degli asset di rischio in
generale non deve capitolare proprio adesso e comperare
massicciamente. Può però entrare con qualcosa, vendere
qualche put, fare qualche assaggio e soprattutto stare
pronto a sfruttare qualsiasi crisi greca, da Treasuries o di
altra origine per ingrandire la sua posizione. Il rialzo ha
buone motivazioni, ma da qui in avanti sarà difficile avere
tante sorprese positive quante ne abbiamo avute in questi
mesi.
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Fonte - Il Rosso
e il Nero
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Mercoledì 14
Aprile
2010 |
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Venerdì 16
Aprile
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Sabato 17 Aprile 2010 |
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La
Sec accusa Goldman di
frode
17 Aprile 2010 09:38 NEW YORK
– dal nostro corrispondente Mario
Plater
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NEW YORK. Dal nostro corrispondente - È stato un terremoto
improvviso: la Sec ha accusato ieri mattina Goldman Sachs in
procedura civile di aver truffato i suoi clienti con
operazioni speculative sul mercato subprime nel 2007, quando
stava per esplodere la crisi finanziaria. La storia di
quelle operazioni era conosciuta e dibattuta da tempo: si
diceva che la banca dopo aver venduto pacchetti di mutui ai
suoi clienti andava sul mercato per giocare al ribasso su
quegli stessi titoli. Goldman ha sempre respinto con
indignazione le accuse emerse sul mercato e sulla stampa,
persino un paio di settimane fa in una incomprensibile
lettera agli azionisti.
Il problema per la banca è che ieri la Sec non ha soltanto
formalizzato i capi d'accusa, ha anche rivelato particolari
sconosciuti, e cioè che la banca aveva organizzato le
operazioni per conto di una parte interessata, il grande
gestore di fondi hedge John Paulson senza informare il
mercato di questo dettaglio, come richiede la legge. Il
fondo di Paulson, Paulson and Co, aveva anche pagato 15
milioni di dollari alla banca per creare lo strumento,
chiamato in gergo Cdo (collateralized debt obligation). La
Sec inoltre ha menzionato anche il nome di una persona
fisica responsabile delle operazioni, Fabrice Tourre, un
"vice president" della banca che aveva concepito e
realizzato le operazioni. Ma John Paulson o il suo fondo non
sono stati per ora chiamati in causa.
È stato un uragano. Il titolo Goldman ha perso il 12,64% in
poche ore, scendendo a quota 160,4 dollari per azione. E
visto che la Sec sta conducendo inchieste parallele su
veicoli di investimento collocati da altre banche, simili a
quelli messi a punto da Goldman, Wall Street teme che altre
istituzioni possano cadere nella stessa rete. O che,
comunque, il settore uscirà destabilizzato da questa
vicenda. Come si è detto, per ora la causa ha natura civile,
ma i danni possibili che Goldman potrebbe essere chiamata a
rimborsare sono stimati in oltre un miliardo di dollari,
senza contare le multe possibili.
«Il prodotto realizzato da Goldman era nuovo e complesso, ma
il metodo di occultamento e i conflitti sono antichi e
semplici», ha dichiarato Robert Khuzami, il responsabile
della divisione coercitiva della Sec. La risposta di Goldman
all'azione della Sec è stata di nuovo ferma e aggressiva:
«le accuse sono prive di fondamento sia nei fatti che nelle
componenti giuridiche» ha detto la banca in un comunicato.
La vicenda riguarda genericamente un veicolo di investimento
controverso, di cui abbiamo riferito più volte su queste
pagine, il cosiddetto "collateralized debt obligations"
sintetico, che raggruppava diversi portafogli mutui, molti
dei quali rappresentativi del mercato subprime. La tesi era
che uno strumento formato da più portafogli ad alto reddito
aveva una forte diversificazioen del rischio e consentiva
ritorni medi anche di molto superiori al mercato. Questi
strumenti venivano poi collocati sul mercato con il marchio
dell'istituzione che li vendeva. Il marchio Goldman, forse
il più prestigioso a Wall Street era sinonimo di garanzia
per chi cercava un investimento a basso rischio. Le accuse
generiche di cui si è parlato finora a Wall Street
affermavano che le banche cercavano in realtà di scaricare
dai loro portafogli strumenti che apparivano sempre più
fragili. E, nel caso di Goldman, l'accusa è quella di aver
poi giocato contro quegli stessi strumenti vendendoli a
breve sul mercato.
Nel caso specifico la Sec menziona in particolare uno
strumento, l'Abacus 2007-AC1, costruito a tavolino su
specifica richiesta di un importante hedge fund, Paulson and
Co. L'investitore aveva scommesso sul fatto che il mercato
immobiliare sarebbe caduto. Aveva però bisogno di uno
strumento attraverso il quale veicolare le sue operazioni
ribassiste. Goldman accettò di costruire lo strumento e
Paulson, che aveva identificato titoli immobiliari secondo
lui molto fragili e destinati all'inevitabile collasso,
indicò i titoli da impacchettare nello strumento. Goldman
vendette poi lo strumento a banche e istituzioni oltre che a
clienti privati riferendo che il portafoglio era stato
creato da una terza parte indipendente. Non rivelò mai che
il pacchetto era stato invece scelto da Paulson per la sua
connotazione di fragilità. Ne che Paulson avrebbe subito
venduto a breve i titoli rappresentativi di quel pacchetto.
È questo dunque il punto debole di Goldman. E pare difficile
che «fattualmente e giuridicamente» almeno in questo caso
riesca a dimostrare il contrario.
Tutte le polemiche sul «big»
Goldman Sachs è la più celebre fra le grandi «firm»
statunitensi. Come le altre banche è stata duramente colpita
dalla crisi finanziaria. ha ricevuto aiuti pubblici dal
governo per 7,8 miliardi di dollari. Molte le polemiche che
hanno seguito la misura: il ceo Lloyd Blankfein ha ricevuto
negli ultimi anni compensi record (nel 2007 ben 68 milioni).
La banca ha restituito lo scorso giugno tutti gli aiuti
ricevuti. Per placare le polemiche ha inoltre varato una
politica di restrizione dei bonus : a dicembre il management
ha deliberato una distribuzione di bonus solo in azioni.
La lettera agli azionisti
Con una mossa inusuale pochi giorni fa Goldman ha pubblicato
una lettera agli azionisti nella quale afferma con forza di
non aver «mai penalizzato i propri clienti».
L'accusa
Ieri la nuova svolta: la Sec guidata da Mary Schapiro (nella
foto) ha accusato Goldman di truffa: secondo l'authority la
banca ha ingannato gli investitori confezionando e vendendo
prodotti derivati legati ai mutui subprime senza comunicare
cruciali informazioni ai clienti.
La difesa
Goldman ha respinto le accuse: «Sono completamente
infondate. Ci difenderemo e difenderemo la reputazione della
banca». Ma la notizia ha creato un vero e proprio terremoto
finanziario: i titoli bancari sono stati sotto pressione per
tutta la seduta e le azioni di Goldman hanno perso il
12,64%.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Gestori, azioni
Usa e titoli di Stato europei
17 aprile 2010 - 13:47 -
di Sara Silano ______________________________________________
I gestori continuano a preferire
le azioni alle obbligazioni, ma la predominanza non è
assoluta. Nei portafogli bilanciati, l’equity pesa tra il 50
e il 60%, mentre i bond rappresentano in media il 42% del
totale. Gli ultimi mesi, dicono i fund manager interpellati
nell’ultimo sondaggio mensile di Morningstar, sono stati
volatili e alcuni hanno attribuito questo trend ai timori
relativi alla fine delle politiche di stimolo all’economia;
altri ai livelli record raggiunti dal debito sovrano in
molti Paesi occidentali; altri ancora alla fine della corsa
ai cosiddetti “titoli spazzatura” e al rinnovato interesse
per quelli di qualità.
Europa, nel breve prese di profitto I gestori non escludono
qualche presa di profitto sulle Borse del Vecchio continente
nel breve, mentre nel lungo periodo dovrebbero prevalere gli
acquisti, grazie alla ripresa economica e all’aumento degli
utili. La debolezza dell’euro, infatti, favorisce le
esportazioni, con riflessi positivi sui bilanci aziendali.
Come sottolinea in una nota Ing Investment management,
esistono tuttavia tre ordini di rischi: l’esito non scontato
delle elezioni in alcuni Paesi come Grecia, Spagna e Regno
Unito, l’estensione della crisi da Atene ai cosiddetti Piigs
(Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), l’incertezza
sulla politica monetaria cinese, i piani di Barack Obama sul
sistema bancario e la riduzione del debito pubblico e
privato. Poco più di un gestore su due prevede un rialzo dei
listini nei prossimi sei mesi, in aumento rispetto al 45%
del mese scorso.
Wall Street vede la ripresa Per i gestori, negli Stati Uniti
sono tangibili i segnali di ripresa sia nel settore
manifatturiero sia nel terziario. Inoltre, il tasso di
disoccupazione è fermo al 9,7% da tre mesi consecutivi e
l’inflazione non desta preoccupazioni. Le aziende sono
tornate a fare utili e hanno 1,8 mila miliardi di dollari di
liquidità da investire, impiegare per acquisizioni o
distribuzione di dividendi. Per queste ragioni, è
leggermente aumentato il numero di gestori ottimisti: quasi
il 62% contro il 59% di marzo.
Tokyo corre sulla domanda asiatica L’indice Msci Giappone ha
guadagnato il 15% da inizio anno (in euro al 14 aprile),
facendo meglio delle Borse internazionali. Il risultato è da
attribuire alla domanda asiatica, che sostiene le
esportazioni, e all’indebolimento dello yen, che influirà
positivamente sugli utili. Il Sol Levante, però, continua a
fare i conti con i problemi strutturali che limitano la
crescita interna. Sul listino nipponico, i gestori scelgono
la prudenza: solo il 38% si aspetta un rialzo nei prossimi
sei mesi (era il 50% a marzo), contro il 52,4% che prevede
una stabilità intorno agli attuali livelli.
L’Asia scaccia le paure Dai minimi di marzo 2009, l’indice
Msci Asia-Pacifico (escluso il Giappone) ha raddoppiato il
proprio valore, perché le economie dell’area hanno
dimostrato di saper resistere alla crisi di quelle
occidentali, a dispetto delle preoccupazioni degli
investitori. Oggi le valutazioni azionarie non sono più a
sconto, ma i gestori continuano ad essere ottimisti sulle
prospettive dell’Asia. I tassi di crescita sono superiori al
5% e le esportazioni sono in aumento. Inoltre, le società
sono impegnate a raggiungere migliori livelli di governo
societario. I gestori, però, ricordano che questo tipo di
investimenti deve avere un orizzonte di lungo periodo. La
loro previsione è per un rialzo nei prossimi sei mesi (quasi
62% degli intervistati), anche se il 9,5% dei manager non
esclude una possibile pausa.
Convivere con tassi bassi I rendimenti dei titoli
governativi sono bassi sia negli Stati Uniti sia in Europa,
ma quest’ultima è ritenuta più interessante dai gestori, i
quali, però, non sottovalutano i rischi specifici dei
singoli Paesi (ad esempio la Grecia). E’ convinzione diffusa
che le Banche centrali continuino l’opera di contenimento
del rialzo dei tassi sui tratti medio e lungo della curva
dei rendimenti. Per questa ragione i prezzi non dovrebbero
subire sostanziali oscillazioni. Nel dettaglio, il 47,6% dei
gestori stima una stabilità dei prezzi dei titoli europei e
il 33% di quelli americani.
Tempi duri per l’euro La moneta unica continua a soffrire
l’eterogeneo panorama economico e le fratture interne ad
Eurolandia. La maggior parte dei gestori, però, è convinta
che il dollaro abbia già corso molto e che potrebbe
rallentare il passo o mantenersi attorno agli attuali
livelli. In particolare, il 38% prevede oscillazioni intorno
ai valori odierni e il 42,9% un ulteriore indebolimento
dell’euro (erano il 63,7% a marzo).
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 6 e il 13
aprile, 21 delle principali società di diritto italiano ed
estero operanti sul territorio, che contano per circa il 90%
degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Asset
Managers, Albemarle Asset Management, Aletti Gestielle,
Allianz Global Investors Italia, Axa IM, Banca Profilo, Bnp
Paribas Am Sgr, Clariden Leu, Eurizon Capital, Fideuram
Investimenti, Ing IM, Investitori Sgr, MC Gestioni, M&G
Investments, Nemesis Asset Management, Norvega Sgr, Pioneer
Im, Sella Gestioni, Swiss&Global AM Sgr, Threadneedle, VG.SA.
Fonte
-
MorningStar.it
GOLDMAN: CRISI O
TEMPESTA IN UN BICCHIER D'ACQUA?
19 Aprile 2010 14:20 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Secondo molti analisti la
reazione del mercato avra' vita breve, ma non per Jim Rogers,
convinto che lo scandalo che vede coinvolta la piovra della
finanza verra' usato come scusa per vendere. Vista
correzione del 15-20%.
Questa volta Goldman Sachs potrebbe svolgere il ruolo di
Lucifero, piuttosto che quello di Dio dei mercati.
Se e' vero che molti analisti sono convinti che la reazione
del mercato allo scandalo Goldman Sachs sia come una
tempesta in un bicchier d'acqua e pertanto presentera' delle
opportunita' di guadagno, l'investitore miliardario Jim
Rogers non e' affatto dello stesso avviso.
Il presidente di Rogers Holdings sostiene che i mercati
siano destinati ad attraversare una fase di correzione. In
un'intervista con l'emittente Usa CNBC, l'influente
investitore ha detto che "un mercato che va su cosi' tanto e
lo fa senza correzione non e' normale. Quando una cosa del
genere succede, il mercato e' facile che sia destinato ad
accusare una correzione del 15-20%".
Rogers pensa che le accuse di frode mosse dalla SEC contro
l'istituto finanziario non provocheranno una correzione,
bensi' fungeranno da catalizzatrici. "Quando i mercati sono
pronti per una correzione, un evento di questo tipo e' la
goccia che fa traboccare il vaso".
L'investitore guru non sembra sorpreso delle misure
intraprese dall'autorita' di controllo dei mercati Usa.
Rogers ha infatti sottolineato che questo tipo di indagini
sono molto comuni dopo una crisi finanziaria, citando il
caso dello scoppio della bolla Internet.
PERCHE' NON SI PUO'
PARLARE DI UNA BOLLA DEI MERCATI EMERGENTI
19 Aprile 2010 02:34 MILANO -
di Legg Mason*
*Questo
documento e' stato preparato da Batterymarch Financial
Management, una società affiliata interamente posseduta da Legg
Mason ______________________________________________
I mercati emergenti stanno
mostrano una eccellente capacita' di tenuta economica su
livelli di valutazione non indicativi di una bolla
informazione. I rischi sono nettamente inferiori al passato
e...
Secondo Batterymarch Financial Management, società
d’investimento del gruppo Legg Mason, i mercati emergenti
stanno dimostrando una eccellente capacità di tenuta
economica e i livelli a cui sono valutati non sono
indicativi di una bolla in formazione in questi mercati.
Ray Prasad, gestore senior del portfolio e responsabile del
team di Batterymarch per i mercati emergenti, spiega che
"verso la fine di una recessione e davanti alla prospettiva
di una ripresa, i prezzi dei titoli azionari spesso tendono
a salire. Ciò non vuol dire però che il mercato sia
sopravvalutato. In effetti, a nostro avviso, i mercati
emergenti attualmente sono valutati in maniera equilibrata o
addirittura leggermente per difetto. Inoltre, la nostra
previsione è che l'abbondante liquidità disponibile sui
mercati del capitale nazionali e globale, continuerà a
fornire ai mercati emergenti un buon supporto ".
"Le bolle precedenti si sono caratterizzati per valutazioni
eccessive e per un rapporto prezzo /libro quintuplo. La
situazione attuale è molto differente: nei mercati
emergenti, il comparto azionario è valutato due volte il
rapporto prezzo/libro con l'aspettativa di un tasso di
crescita a due anni del 25%. Sono parametri in linea con le
valutazioni storiche che includono semmai ancora un leggero
sconto rispetto ai mercati avanzati".
Il team di Batterymarch è convinto che i mercati emergenti
presentino attualmente molto meno rischi che nel passato e
che a livello di debito sovrano siano fondamentalmente più
forti dei paesi sviluppati. Diversamente da questi ultimi, i
mercati emergenti contano su bilanci fiscali migliori e su
consistenti surplus dei conti correnti, mentre detengono la
maggior parte delle riserve di valute estere del mondo.
Prasad fa notare che "nei mercati emergenti si assiste anche
a una maggiore solidità a livello aziendale. Per tutti gli
ultimi anni, i mercati emergenti hanno continuato a generare
un ROE più alto a fronte di un livello d’indebitamento ben
più basso di quello che si riscontra nei paesi sviluppati.
Le attuali stime per il 2010 e per gli anni successivi
appaiono molto forti. Dai nostri dati rileviamo che, stando
alle previsioni attuali, la crescita dell’utile per azione
nei mercati emergenti per i prossimi due anni tocca il 24%.
Questi elementi sono segno di una forte capacità di tenuta
economica e sempre più numerose ed eccellenti opportunità di
crescita economica nel lungo periodo".
Secondo l'analisi di Batterymarch, in Cina, il processo di
restrizione della politica monetaria si protrarrà per i
prossimi 12-18 mesi, mentre è improbabile che le autorità
alzino i tassi di interesse nel breve termine". Inoltre,
aggiunge Prasad, "questa politica monetaria rigorosa ha come
obiettivo rallentare la crescita del paese senza fermarla.
Dal momento che la Cina è una locomotiva dell'espansione
economica anche per altri mercati emergenti, la crescita in
questi ultimi perderà inevitabilmente un pò di spinta, ma
questo non sarà evidente prima di altri sei-nove mesi.
Indipendentemente da questi cambiamenti, i mercati emergenti
dovrebbero continuare a crescere a un ritmo molto più
accelerato di quello del mondo avanzato e i prezzi delle
azioni dovrebbero continuare a beneficiarne a mano a mano
che si rafforzano gli utili delle imprese".
"I mercati emergenti, conclude Prasad, "sono ben posizionati
per beneficiare nel lungo termine dai volani su cui poggia
questa crescita secolare, quali lo sviluppo
dell'infrastruttura e il rafforzarsi della domanda locale.
La correzione dell'inizio del 2010 ha fornito delle
opportunità eccellenti per costruire un'esposizione verso
questi mercati".
Fonte
-
Batterymarch Financial Management
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Borsa
e nuovi target, il Nasdaq già a
2500
20 Aprile 2010 15:21 BIELLA
– di Banca Sella
________________________________________
La scorsa settimana è proseguito il rialzo dell’azionario,
trascinato dal balzo del Nasdaq Composite che ha superato
marginalmente la resistenza chiave a 2500, per poi
ripiegare. L’indice tecnologico dai minimi di marzo 2009 è
raddoppiato: la forza del trend rialzista ha trovato
conferma nell’apertura in gap-up di mercoledì scorso, per
poi però venire subito messa in dubbio dal veloce
ripiegamento della seduta di venerdì. D’altra parte, quota
2500 è un livello davvero importante, quello che da molti
mesi indichiamo come l’obiettivo finale del bear market
rally in essere dal marzo 2009. Che si vada ancora più su
rimane ovviamente possibile – un trend si deve infatti
considerare in essere fintantoché non emerga un segnale
convincente di esaurimento – ma ci troviamo comunque su
livelli tecnici che devono suggerire grande prudenza.
Ogniqualvolta il quadro tecnico appare contrastato, di
difficile lettura, l’unica cosa da farsi è ragionare in
termini di gestione del rischio. La forte asimmetria della
volatilità – molto più elevata nelle discese che non nelle
salite – rende poco attraente, in termini di prospettive di
rischio-rendimento, entrare lunghi sui livelli correnti.
Anzi, sarebbe opportuno preoccuparsi soprattutto di portare
a casa i forti utili messi a segno nei mesi passati. Per chi
vuole proprio rimanere investito sarà comunque necessario
mettersi degli stop di protezione nel caso le quotazioni
dovessero invertire tendenza.
Discese sotto 2395-2430 confermerebbero i segnali di perdita
di spinta della seduta di venerdì scorso. Il tono del
mercato, tuttavia, si indebolirebbe chiaramente solo al di
sotto del forte supporto in area 2325/45 (ancora prematuro).
L’area 2500-2550 deve comunque considerarsi come
un’occasione per ridurre, in ottica tattica, l’esposizione
sul mercato, per poi incrementare nuovamente le posizioni
sfruttando periodi di debolezza nei mesi a venire.
Nuovi massimi anche per il Dow Jones Industrial che riesce a
superare marginalmente la resistenza chiave a quota 11000
(nuovo massimo a ridosso di 11150). Valgono le stesse
considerazioni fatte per il Nasdaq: da un lato, il trend
rialzista rimane solido, nonostante la scivolata di venerdì;
dall’altro, siamo su livelli in cui le quotazioni appaiono
"tirate". L’area compresa tra 11000 e 12000 rappresenta una
sorta di "tetto" per il grande movimento di bear market
rally iniziato nel marzo 2009, e dovrebbe quindi arrestarne
il rialzo per molti mesi a venire. Per le prossime sedute è
importante la tenuta del supporto in area 10700/900, pena
una correzione verso 10400/500.
Nuovi top anche per l’indice S&P500 che supera marginalmente
l’obiettivo indicato, la resistenza chiave a 1200, per poi
riscendere velocemente sotto 1200. Un segnale chiaro di
perdita di spinta si avrebbe solo sotto 1160/75 per un test
del supporto in area 1105/15. Gli acquisti riprenderebbero
sopra 1215, con obiettivo la resistenza in area 1255/65,
sopra cui (prematuro) si avrebbe un’estensione verso la
resistenza chiave a 1315, che dovrebbe comunque arrestare il
rialzo dell’indice per molti mesi a venire: in altri
termini, tra 1200/15 e 1315 si dovrebbe esaurire il bear
market rally.
I primi segnali di tensione sono arrivati dall’impennata
della volatilità implicita. Dopo settimane di continui nuovi
minimi, che l’avevano riportata sui livelli del luglio 2007
– quando la crisi dei mutui subprime non si era ancora
allargata a macchia d’olio – nella seduta di venerdì scorso
il Vix ha infatti registrato un forte incremento, pur
rimanendo ancora al di sotto dei livelli di guardia (prima
resistenza a quota 20, poi 22,75 e quindi, critica, 25).
Qualora il Vix dovesse superare i livelli indicati sarebbe
opportuno ridurre sensibilmente – e velocemente –
l’esposizione sull’azionario. In caso contrario, si può
anche lasciare correre, nella consapevolezza però che il
mercato rimane sulla "coda" del bear market rally e che la
"Fase 1" della ripresa – spinta dalla liquidità e
focalizzata sul sistema finanziario, sugli attivi
patrimoniali e sugli asset tossici – dovrà progressivamente
lasciare il passo alla "Fase 2" – centrata invece
sull’economia reale e sugli utili aziendali, con un occhio
molto attento alle dinamiche occupazionali e ai consumi. In
altri termini, rasserenati dalla tenuta del sistema
finanziario iniziamo ora a guardare sempre meno alla "carta"
e sempre più alla realtà, in uno scenario economico che si
preannuncia ancora molto confuso. Occorre quindi prudenza, e
molta pazienza.
 |
Fonte -
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
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Domenica 18
Aprile
2010 |
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Mercoledì 21
Aprile
2010 |
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Sabato
24 Aprile 2010 |
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Il destino di
Goldman
Tuesday, 20 April, 2010 by
phastidio -
di XXX ______________________________________________
Venerdì 16 aprile la SEC ha
aperto una procedura civile contro Goldman Sachs ed uno dei
suoi vice presidenti, Fabrice Tourre, per frode ai danni
degli investitori per non aver svelato informazioni
fondamentali riguardo un prodotto finanziario legato a mutui
subprime, nel momento in cui il mercato immobiliare
americano iniziava a deteriorarsi visibilmente. Il titolo
Goldman ha accusato una forte contrazione, trascinando al
ribasso i mercati azionari.
Lo strumento in questione, costruito e commercializzato da
Goldman, era un collateralised bond obligation (CDO)
sintetico, la cui performance era legata a quella di
cartolarizzazioni su mutui residenziali. Goldman ha detto ai
propri investitori che i titoli inseriti nel CDO erano stati
scelti da una terza parte indipendente, ACA Management. La
SEC sostiene invece che Goldman non avrebbe rivelato che
un’altra società, Paulson & Co., un grande hedge fund, aveva
in realtà avuto un ruolo nella scelta dei titoli inseriti
nel CDO.
Questa è stata un’omissione cruciale perché Paulson & Co.,
gestita da John Paulson, che nel 2007-2008 ha fatto enormi
guadagni scommettendo contro il mercato immobiliare, aveva
preso una posizione corta contro il CDO. In altre parole, il
suo hedge fund avrebbe tratto profitto da un cattivo
andamento dello strumento.
Goldman ha definito le accuse “totalmente infondate”, e ha
detto che le contesterà vigorosamente. Paulson & Co. non è
finora stato accusato dalla SEC. Il fondo ha emesso un
comunicato affermando che ACA, in quanto gestore terza parte
del collaterale, era l’unico responsabile della selezione
dei titoli da introdurre nel CDO. Goldman ha in seguito
dichiarato di avere perso denaro dalla transazione, ed ha
insistito di avere fornito “informazioni estensive” sul
portafoglio agli acquirenti, che peraltro erano investitori
istituzionali, quindi qualificati e non al dettaglio, per
ciò stesso consapevoli dei rischi.
La SEC sostiene che Paulson aveva un incentivo a scegliere
titoli ipotecari che sarebbero andati in dissesto. Secondo
l’accusa, Paulson ha venduto allo scoperto titoli del
portafoglio che ha contribuito a scegliere, comprando
protezione contro il default di alcune tranche del CDO
attraverso credit default swaps (CDS), in contropartita con
Goldman. La SEC sostiene che questi derivati avrebbero
fornito all’hedge fund l’incentivo a scegliere titoli
destinati al dissesto. E così è andata. L’operazione è stata
lanciata ad aprile 2007; entro la fine di gennaio 2008 il
99% del portafoglio aveva subito downgrades da parte delle
agenzie di rating.
Fabrice Tourre era responsabile del CDO, chiamato Abacus.
Secondo l’accusa, non solo egli sarebbe stato a conoscenza
delle posizioni corte di Paulson, ma anche di aver fuorviato
ACA, facendo credere che Paulson & Co. aveva investito 200
milioni di dollari nella tranche più rischiosa del CDO.
Le accuse non potevano giungere in un momento peggiore per
Goldman, sotto accusa da tempo su molti fronti; incluso il
rimborso integrale ottenuto, per disposizione della Fed di
New York, come controparte sui derivati di American
International Group (AIG), l’assicuratore quasi fallito nel
2008. Goldman ha scelto una posizione pubblica in cui
giustifica il proprio successo non come conseguenza dei
rapporti con il potere politico ed i regolatori, ma come
frutto dell’eccellenza del proprio sistema di risk
management.
Goldman è accusata da tempo di anteporre i propri interessi,
e quelli dei propri maggiori clienti, al resto dei rapporti
d’affari intrattenuti. Le accuse della SEC potrebbero
segnare una escalation contro il sistema-Goldman, oltre che
accelerare il percorso al Congresso del disegno di legge di
riforma del settore finanziario, una parte fondamentale del
quale copre i derivati non quotati su borse regolamentate.
Il presidente della commissione Agricoltura del Senato ha
proposto che le banche siano obbligate a scorporare le unità
di trading sui derivati. Le recenti vicende potrebbero
rendere più difficile per Goldman ed il sistema finanziario
disinnescare questa minaccia.
Il costo per Goldman, se trovata colpevole, potrebbe essere
nell’ordine delle decine o più probabilmente delle centinaia
di milioni di dollari. La SEC chiederà, come prassi, la
restituzione dei guadagni illeciti maggiorati da una
penalizzazione. Gli investitori nel CDO Abacus hanno
affermato di aver perso oltre un miliardo di dollari. Ma il
danno potrebbe essere molto maggiore, con la compromissione
della già fragile reputazione di Goldman. Altri organi di
controllo dei mercati finanziari stanno muovendosi
autonomamente aprendo inchieste, come la FSA nel Regno
Unito.
Negli Stati Uniti, si è saputo che la SEC ha votato di
misura (3 contro 2), e secondo linee partitiche, per aprire
la procedura contro Goldman: la presidente, Mary Schapiro,
indipendente, ha votato con i due esponenti Democratici,
mentre i due Repubblicani si sono opposti. Questa
rivelazione ha dato forza al titolo, perché suggerisce che
il partito Repubblicano potrebbe assumere atteggiamenti più
favorevoli a Goldman, in caso di vittoria alle elezioni di
mid term, a novembre.
Nel complesso, sul destino della società e del settore
bancario (statunitense ma non solo) grava un elevato event
risk, legato all’evoluzione della vicenda in relazione, ad
esempio, al suo eventuale passaggio dall’ambito
amministrativo-regolatorio (della SEC) a quello penale,
oppure all’estensione delle indagini della SEC a tutti i
prodotti simili collocati negli ultimi anni dall’intero
sistema delle banche d’investimento.
Posted in: Credito, Mercati, Stati Uniti.
Fonte
-
Macromonitor
UBS, DEUTSCHE BANK E
MERRILL: ANCHE LORO COME GOLDMAN? LA SEC INDAGA
20 Aprile 2010 10:40 NEW YORK -
di LA REPUBBLICA ______________________________________________
Intanto, in un editoriale che
rispecchia bene gli stati d'animo della comunità degli
investitori, il Wall Street Journal minimizza:"Le accuse
sembrano una pistola ad acqua e non permetteranno certo di
scoprire le ragioni della crisi...",
Dopo aver turbato i mercati finanziari di mezzo mondo, con
perdite pesanti da Shanghai (-4%) a Milano (-0,99), l'onda
dello scandalo Goldman Sachs si è smorzata ieri poco prima
di sommergere Wall Street. Risultato: il Dow Jones a fine
giornata ha guadagnato e persino i titoli della Goldman
hanno ottenuto un +1,5%.
A questa "tenuta" della Borsa americana hanno contribuito
gli ottimi risultati trimestrali del Citigroup (4,4 miliardi
di dollari di utili: a conferma della ripresa del settore
bancario) e i dati del superindice economico, cresciuto il
mese scorso del 1,4%.
Ma il vero motivo della reazione composta di Wall Street -
spiegano gli analisti - è la convinzione sempre più diffusa
tra gli investitori che la vicenda giudiziaria della Goldman
Sachs sia destinata ad afflosciarsi, nonostante la discesa
in campo di Barack Obama che andrà a Wall Street per
sostenere la sua riforma contro gli eccessi della finanza.
Allo stesso tempo tuttavia lo scandalo sembra allargarsi ad
altre banche.
Ma andiamo con ordine. Venerdì scorso la banca più ricca (e
odiata) di New York è stata accusata di frode dalla Sec.
Secondo l'incriminazione, negli anni della finanza allegra
la Goldman ha favorito la creazione di un Cdo, uno strumento
ad hoc per speculare sui mutui subprime, offrendolo a grandi
investitori, ma senza avvertirli che l'hegde fund di John
Paulson aveva contribuito a selezionare una parte dei titoli
inclusi nel pacchetto, né che lo stesso Paulson avrebbe
scommesso sul collasso del Cdo.
Un altro caso di doppio gioco da parte della Goldman?
Paulson ci ha guadagnato miliardi di dollari, mentre il suo
ex-braccio destro, e vero ispiratore della manovra sui mutui
subprime, il milanese Paolo Pellegrini, ha incassato 175
milioni di dollari: ma nessuno dei due è stato incriminato
dalla Sec. "Io personalmente non ho mai contattato la Sec,
ma sono stato chiamato a testimoniare dopo che la Sec ha
parlato con Paulson", chiarisce a Repubblica lo stesso
Pellegrini.
La Sec intanto sta cercando le prove di frodi compiute da
altre banche attraverso la vendita di titoli analoghi. Altri
grandi istituti infatti - Deutsche Bank, Ubs, Merrill Lynch
- hanno creato strumenti finanziari come "Abacus", il
pacchetto di obbligazioni garantite da mutui subprime.
Per il momento però è la Goldman nell'occhio del ciclone: la
banca, che oggi diffonderà i propri dati trimestrali, ha
promesso di battersi in tribunale contro accuse che
considera ingiuste e ha lanciato una controffensiva a tutto
campo, ottenendo già i primi risultati.
"Le accuse sembrano una pistola ad acqua e non permetteranno
certo di scoprire le ragioni della crisi finanziaria",
minimizza il Wall Street Journal in un editoriale che
rispecchia bene gli stati d'animo della comunità
finanziaria. Il quotidiano ritiene che gli addebiti della
Sec siano destinati a sgonfiarsi: come è possibile che la
banca abbia fatto il doppio gioco se poi ha perso in quella
operazione 90 milioni di dollari e ne ha guadagnati solo 15
di commissioni?
La parziale assoluzione di Wall Street non basterà a
risolvere i problemi della Goldman. L'iter giudiziario
finirà per costarle almeno 700 milioni di dollari, cui si
aggiungeranno una perdita di immagine e di credibilità,
specie dopo la scoperta che i massimi vertici della banca
erano al corrente delle operazioni contestate. E Londra e
Berlino promettono di aprire inchieste giudiziarie
parallele.
Fonte
-
LA REPUBBLICA
CARRY TRADE:
POCHE CERTEZZE, GRAN POTENZIALE
20 Aprile 2010 22:40 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Con lo scoppio della crisi il
dollaro ha preso il posto dello yen come valuta preferita.
Ma ora il biglietto verde e' minacciato da euro, sterlina e
dalla stessa valuta giapponese. Quali fattori determineranno
il delinearsi dello scenario futuro?
La giuria si ritira per deliberare. Al momento sono poche le
certezze sul carry trade: il dollaro ha guadagnato terreno,
ma lo yen, l'euro e la sterlina potrebbero minacciare la sua
posizione. Come si delineera' il futuro del valutario e
quali posizioni prendere?
Prima della crisi finanziaria lo yen era utilizzato come il
principale asset per portare avanti operazioni di carry
trade. La moneta giapponese offre ancora un'attraente
opportunita' di scambio, consentendo di fare leva sui tassi
di interesse molto bassi, ma la valuta americana ultimamente
e' diventata la scelta numero uno di molte operazioni di
carry trade - la pratica che prevede prendere a prestito
valute a basso rendimento per poi investire il ricavato in
asset ad alto rendimento.
E' difficile dire quanto sia cambiato lo scenario del carry
trade per effetto di questo passaggio di consegne e quale
futuro aspetta il panorama del valutario. Provando a dare
una misura di cosa e' cambiato nel passaggio da yen a
dollaro, si scopre una solo punto fermo: il potenziale di
guadagno da investimenti speculativi di questo tipo e' ora
enorme.
Risulta complicato fare una valutazione accurata perche' e'
difficile separare le attivita' di carry trade dalla
categoria degli investimenti non speculativi, o per meglio
dire gli investimenti che si basano sulle possibilita' di
crescita dei fondamentali da quelle offerte invece dagli
scambi tecnici sul breve termine.
E' difficile giudicare inoltre quando l'economia finanziaria
nel suo complesso si distacca dall'economia reale. Che e'
poi quello che e' successo durante la crisi dei mutui
subprime. A ogni problema c'e' pero' una soluzione.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
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Deja-vu:
crisi greca come, e peggio dell'Argentina
28 Aprile 2010 12:40 NEW YORK
– di Daniele Chicca
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Tante analogie tra la crisi del default argentino (2002) e
quella greca di oggi. Solo che adesso gli effetti potrebbero
essere piu' deleteri. La differenza? Per Atene, c'e'
l'Europa e l'euro. Il cui futuro per la prima volta e' in
dubbio.
Nessuno dimentichera' mai il giorno in cui venne dichiarato
il default dell'Argentina. Era il 2002 e Buenos Aires venne
scaricata da tutti. Gli investimenti stranieri abbandonarono
letteralmente il Paese e i flussi di capitale nelle casse
argentine hanno cessato di esistere. Il governo ha dovuto
fare i conti con ostacoli insormontabili per provare a
rifinanziare il debito. Lo stato si e' visto allora
costretto a privarsi di denaro e le riserve della Banca
Centrale in valute straniere sono andate utilizzate quasi
interamente.
Sotto il profilo macroeconomico, tutto e' iniziato con la
diminuzione del PIL nel 1999 e finito nel 2002 con il
ritorno alla crescita economica, ma le origini del collasso
dell'economia argentina e gli effetti sulla popolazione
risalgono a molto tempo addietro. Lo stesso si puo' dire
della situazione greca.
Come otto anni fa, non saranno solo i cittadini greci a
pagare per la crisi di Atene, bensi' tutto il mondo e tutti
i possessori dei famigerati tango-bond. Il rischio di un
contagio e' reale e correre in soccorso di una nazione non
sara cosi' semplice come offrire un piano di aiuti alle
banche (crisi subprime docet).
Anche allora le politiche del presidente Carlos Menem prima
(il peronista arrivo' al potere in un contesto
iperi-nflazionistico collegato al tentativo del presidente
radicale Alfonsin di applicare un programma neoliberale di
svalutazione della moenta) e Fernando De La Rua poi, a
cavallo tra fine anni '80 e primi anni '90, non sono state
le sole responsabili del caos, ma sono state utilizzate come
un capro espiatorio politico conveniente. Lo stesso vale per
Atene, dove a causa dello scontento generale, le proteste
popolari sono dilagate come un fiume in piena.
Sia analizzando l'uragano dei CDS, che il debito, la
politica e i disordini vari, si scopre che le analogie sono
tantissime: la crisi del debito sovrano, un tasso di cambio
sopravvalutato, e anche l'appartenza ad un blocco:
L'Argentina faceva parte di un'unione monetaria di cui non
e' riuscita a rispettare i criteri fondamentali.
Cosi' come la Grecia, l'Argentina ha tentato di tagliare gli
stipendi e i prezzi, ma la deflazione si e' rivelata un
ostacolo troppo grande. Come e' finita lo sappiamo tutti,
con un default del debito sovrano nel 2001 (dopo che gli
argentini sono corsi in massa a ritirare i soldi dalle
banche per convertirli in dollari) e con i legami tra peso e
dollaro interrotti, anche se avevano solo dieci anni di vita
ed erano considerati un rapporto importante. Non solo la
Grecia, ma anche gli altri PIIGS ora sembra che potrebbero
fare la stessa fine.
Il PIL greco rappresenta solo il 2.5% della crescita
economica complessiva dell'UE, ma se il sistema bancario
greco dovesse lasciare la zona euro, il conto da pagare
sarebbe salato. Tuttavia se si guarda al caso argentino,
Buenos Aires ha dovuto vedersela con problemi simili ed ha
finito per abbandonare il dollaro, percio' mai dire mai. La
crisi greca sottolinea quanto sia importante che tutti
rispettino i criteri stabiliti dall'unione monetaria.
Per quanto riguarda la situazione dei mercati, i punti di
incontro diventano addirittura impressionanti. Il CDS (credit
default swaps) sui titoli di stato di Atene avevano
registrato un minimo assoluto il 4 agosto 2009 a quota 100,
prima del downgrade di S&P di martedi' quotavano 710 e
subito dopo sono saliti di 104 punti base a un massimo di
814. Mercoledi' il livello e' arrivato sino a 900 punti.
Livelli simili furono toccati dai CDS (il costo per
assicurarsi contro il rischio di bancarotta del paese, con
riferimento ai tioli di Stato emssi sul mercato finanziario,
cioe' all'indebitamento complessivo del paese) sui
tango-bond prima del default.
Ma a livello di rapporto tra debito e Pil e tra deficit e
Pil la Grecia e' messa molto peggio. Nel 2001 il rapporto in
Argentina’ era rispettivamente del 62% e del 6.4%. Alla fine
dell'anno scorso, quelli greci sono al 114% e al 12.7%,
praticamente il doppio. L'Argentina usci' dai circuiti della
finanza mondiale con un buco da 95 miliardi di dollari. Ad
oggi il deficit di bilancio della Grecia e' pari a 32.34
miliardi di euro, il 13.6% del PIL.
Lo swap offerto agli argentini e alle altre persone in
possesso di tango-bond e' stato del 35%, il peggior "recovery
rate" nella storia del debito sovrano. Solo il 76% accetto'
i termini, gli altri si rifiutarono. Ma il triste record e'
destinato ad essere presto superato. Con oltre meta' dei
bond greci circolanti che scambiano ad un prezzo in contanti
degli anni 90, se la Grecia dovesse fallire (il rischio
implicito dal mercato dei CDS e' di oltre il 30% nei
prossimi cinque anni) allora gli investitori perderanno
meta' dei loro soldi.
Per arginare la crisi il messaggio di Bruxelles continua a
essere quello di lasciare risolvere il problema Grecia
all'interno della mura di casa. Ma la realta' e' molto piu'
complessa. Una crisi innescata dalle decisioni
dell'amministrazione greca e' poi finita per svilupparsi in
tre temi portanti: la riluttanza di Atene a ingoiare la
pillola dal cattivo sapore dei tagli di bilancio prescritta
loro dalla Ue, l'outolook a medio termine della moneta unica
e il ruolo a lungo termine che avra' l'Europa nello scenario
in rapido cambiamento dell'economia mondiale.
Come ha detto bene Nouriel Roubini, il professore di
economia della New York University che previde la scorsa
crisi finanziaria: "Se la Grecia va a picco per la Zona Euro
e' un problema, se va giu' la Spagna e' un disastro".
La differenza e' che la Grecia ha l'euro e fa parte di un
blocco mai prima d'ora cosi' in crisi. Il caso dei PIIGS e'
emblematico del problema che Bruxelles si trova a dover
risolvere. I Paesi non sono dotati delle infrastrutture
umane e fisiche necessarie per essere piu' competitivi,
tuttavia e' proprio in quelle aree – investire nella
costruzione di strade, universita' e capacita' personali -
che la scure si abbattera'.
Cio' presenta un problema che non riguarda solo il presente,
ma anche il futuro e pertanto va affrontato subito, prima
che l'invecchiamento della generazione dei baby boomer non
riempia troppo le mani dei governi nazionali. L'Europa
rischia di accusare un netto calo della popolazione
lavorativa.
Nel caso dell'Argentina allora la medicina somministrata dal
FMI non fu sufficiente. Difficilmente lo saranno i 135
miliardi di euro promessi da Ue e Fondo ad Atene.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore
|
Goldman Sachs si
difende di fronte al Senato americano
27 Aprile 2010 18:22 -
di
Sole 24 ore ______________________________________________
Dopo il primo stop imposto dai
repubblicani al Senato alla riforma della finanza voluta dai
democratici e in particolare dall'Amministrazione Obama,
l'attenzione di Wall Street si concentra sulle audizioni al
Senato dei vertici di Goldman Sachs e delle persone
coinvolte nell'inchiesta per frode della Sec.
Goldman Sachs ha cominciato a scommettere contro il mercato
dei mutui nel 2007 tramite il trading "short" (al ribasso
attraverso vendite alle scoperto), in modo da bilanciare le
perdite della società in quel settore. E' quello che ha
detto durante la propria testimonianza alla sottocommissione
di indagine permanente del Senato il direttore finanziario
David Viniar, sentito durante le audizioni al Senato assieme
all'amministratore delegato Lloyd Blankfein. Nel dicembre
2006 «abbiamo cominciato a registrare perdite su base
quotidiana nei prodotti collegati ai mutui» e nella società
regnava «crescente preoccupazione» a causa della «maggiore
volatilità e del calo dei prezzi degli asset collegati ai
subprime». Il risultato è stato il passaggio allo short
trading, ma «nel 2008 si è tornati alle scommesse al
rialzo». L'obiettivo della società «era ridurre il rischio e
in questo senso abbiamo avuto discreto successo», dirà
invece Craig Broderick, responsabile della gestione del
rischio dal 2007. Mentre il settore immobiliare
colava a picco, infatti, Goldman Sachs riuscì nel 2007 a
generare «ampi profitti» scommettendo contro il mercato.
«Goldman dice che queste scommesse sono state ragionevoli, ma i
documenti interni mostrano che non si é trattato di una cosa
ragionevole, anzi uno dei dirigenti ha descritto la situazione
come 'the big short'», ha detto il presidente della
sottocommissione di indagine permamente del Senato Carl Levin,
che sente oggi i vertici di Goldman Sachs, a partire
dall'amministratore delegato Lloyd Blankfein e il direttore
finanziario David Viniar. La sottocommissione indaga da 18 mesi
sul Goldman, accusata di avere scommesso contro il mercato dei
mutui nel 2007 tramite il trading "short" (al ribasso attraverso
vendite alle scoperto). I «conflitti di interesse» citati dalla
Securities and Exchange Commission, la Consob americana,
«potrebbero non essere illegali, ma sicuramente sembrano
eticamente discutibili», ha detto la repubblicana del Maine
Susan Collins, uno dei più agguerriti membri della commissione.
Fabrice Tourre, il trader di Goldman Sachs al centro delle
accuse di frode della Sec alla banca d'affari newyorkese, si è
difeso oggi di fronte al Congresso americano. Il 31enne
francese, un "enfant prodige" della finanza, ha negato
«categoricamente le accuse della Sec. E mi difenderò in
tribunale contro queste falsità». Tourre ha partecipato a
un'operazione in cui Goldman ha venduto agli investitori Aca
Management e Ikb Deutsche Industriebank uno strumento
finanziario chiamato Abacus 07AC-1 legato ai mutui subprime e
rivelatosi fallimentare. Secondo le autorita di Borsa agli
investitori sarebbero state date informazioni fuorvianti sulla
composizione di quello strumento. Tourre, oltre che per il suo
ruolo, è stato criticato anche per una serie di e-mail rese
pubbliche in cui si commentava con soddisfazione alcuni guadagni
fatti scommettendo sul fallimento di alcuni mutui. La Sec infatti sostiene che
Goldman avrebbe venduto Abacus alla società Aca non rivelando la
posizione dell'hedge fund Paulson &Co., coinvolto nella
creazione di Abacus e con una visione ribassista sul mercato
immobiliare. «Sebbene non mi ricordi le parole esatte che ho
utilizzato, mi ricordo di aver informato Aca che il fondo di
Paulson avrebbe assunto delle protezioni di credito sulla
transazione AC-1. Questo significava necessariamente che Paulson
avrebbe anche scommesso al ribasso», ha detto Tourre. Il manager
ha concluso che la transazione «non è stata pensata per
fallire», anche perché Aca e Ikb «erano due dei miei clienti più
importanti».
Questa sera il presidente Barack Obama parlerà dell'economia
americana e del debito degli Stati Uniti. Non è previsto che
riparli della riforma finanziaria fino a domani. Ma non è detto
che lo stop al Senato, dove i democratici non sono riusciti per
ora a stoppare la minaccia di filibustering, ostruzionismo, dei
repubblicani, non riaccenda il dibattito. Non è ancora chiaro
quale effetto produrrà nell'elettorato americano l'intreccio tra
l'inchiesta Goldman e le negoziazioni a Capitol Hill tra
democratici e repubblicani. E' certo però che Obama è
determinato ad andare avanti con una riforma di Wall Street,
come ha spiegato di recente dal blog della Casa Bianca.
Fonte
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Sole 24 ore
Europa, i danni
non li fanno solo i Pigs
mercoledì, 28 aprile 2010 - 13:35 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
I Pigs tornano a fare danni in
Europa. Il ministro delle Finanze della Grecia, George
Papaconstantinou, ha annunciato che il Paese non riesce più
a collocare i titoli del debito pubblico e, dunque, non
potrà fare a meno degli aiuti di Fmi e Ue. L’agenzia di
rating Standard & Poor’s, intanto, ha tagliato a livello
junk (spazzatura) il merito di credito di dei bond di Atene
che rischiano di diventare inutili come merce di scambio con
la Bce per ottenere liquidità. Perché ciò avvenga, comunque,
anche le altre agenzie di rating dovrebbero ridurre il voto
sul debito sovrano di Atene. Il differenziale di rendimento
rispetto al Bund decennale tedesco, nel frattempo si è
ampliato, raggiungendo i 682 punti base.
L’Unione europea si riunirà il 10 maggio a Bruxelles per
affrontare la situazione greca. L’incontro avverrà il giorno
dopo le elezioni regionali in Nord Reno Vestfalia. La
chiamata al voto è la principale ragione per cui la Germania
sta mostrando intransigenza nella concessione degli aiuti
alla Grecia. Gli ultimi sondaggi, infatti, indicano che i
tedeschi sono contrari a dare una mano ad Atene e i politici
non vogliono inimicarsi l’elettorato. Sul piano di soccorso,
peraltro, l’Unione Europea ha posizioni diverse e questo, ha
detto Papaconstantinou parlando ai deputati socialisti in
vista della scadenza cruciale del 19 maggio quando dovranno
essere ripagati 9 miliardi di euro di debito pubblico, non
sta aiutando.
La situazione nel resto dell’Europa, nel frattempo si sta
deteriorando: S&P ha annunciato il taglio del rating del
Portogallo e ha espresso outlook negativo. “Gli investitori
hanno sempre più l’idea che la crisi possa espandersi ad
altri Stati dell’Unione”, spiega in un’intervista Jeremy
Glaser, analista di Morningstar (per vedere l’intervento
completo Clicca qui ). “A questo punto ci sono due
possibilità. Il mercato può avere la percezione che
Eurolandia sia instabile e quindi gli operatori possono
decidere di spostare i loro investimenti verso altre aree.
Se, invece, la Ue si muoverà compatta nel fronteggiare la
crisi, si potrebbe arrivare a un livello maggiore di
coesione fra gli Stati e a politiche fiscali più omogenee”
Ma non ci sono solo i Pigs a preoccupare gli investitori.
L’indice Msci Europe nell’ultimo mese (fino al 27 aprile e
calcolato in euro) ha perso lo 0,8%, anche se la maggior
parte del calo è stata registrata negli ultimi giorni. “I
dati resi noti da Eurostat, indicano che la zona è a rischio
di stagnazione e corre il pericolo di un’altra frenata”,
spiega una nota di Morningstar. L’ufficio statistico
dell’Unione europea ha abbassato le stime riguardanti il Pil
dei 16 Paesi che condividono la moneta unica per i prossimi
trimestri: se prima si parlava di una crescita dello 0,1%
ogni tre mesi, oggi si parla di andamento laterale (un
termine tecnico che indica l’assenza di crescita).
Le notizie che arrivano dai singoli Stati di Eurolandia, del
resto, non invitano a vedere rosa. La Germania ha registrato
una crescita dello 0,4% nel secondo trimestre e una frenata
della produzione industriale, mentre l’Italia ha subito una
contrazione del Pil dello 0,3%. “Questo è uno scenario poco
incoraggiante per l’Europa”, spiega uno studio di Howard
Archer, economista della società di analisi IHS Global
Insight. “La domanda domestica della regione è scesa dello
0,2%, i consumi non si riprendono mentre gli investimenti,
da un trimestre all’altro, sono scesi dell’1,3%”, recita lo
studio. “Insomma, l’area è ancora in una situazione
economica e finanziaria difficile. I segnali di ripresa sono
stati momentanei. E i pericoli di una contrazione sono
decisamente forti”.
Non tutte le letture sono così negative. L’Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha
portato le stime sulla crescita delle sette maggiori
economie della zona dall’1,5% all’1,9%. Non tutte
viaggeranno, comunque alla stessa velocità. Se l’Inghilterra
avrà un’accelerazione del 2%, la Francia crescerà del 2,3%
(dato peraltro rivisto al ribasso dal precedente 2,7%). Con
questo scenario l’Ocse ha raccomandato alla Banca centrale
europea di non alzare i tassi di interesse mentre ai governi
ha suggerito di ridurre i deficit di bilancio entro il 2011.
Fonte
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MorningStar.it
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Alcune mosse per
difendere i risparmi
dallo tsunami-Grecia
28 Aprile 2010 16:01 MILANO -
di Vittorio Carlini ______________________________________________
Come difendere i propri risparmi
in questi momenti di turbolenza? È una domanda, da molti di
voi posta tramite e-mail, che non ha una risposta facile. I
mercati, sia quello azionario sia quello delle commity sia
quello del reddito fisso, si trovano in un momento delicato.
Il sole24ore.com, senza alcuna pretesa di completezza, ha
girato ad alcuni esperti i vostri dubbi e quesiti.
Come capire se ho titoli greci in
portafoglio? «C'è la possibilità - spiega
Maila Bozzetto, consulente indipendente e massima esperta di
reddito fisso- che diversi fondi abbiano in portafoglio titoli
di stato di Atene. Utilizzando il codice Isin, un primo
approccio è quello di guardare a sito di Morningstar. Lì è
possibile vedere i principali investimenti del fondo». «È vero -
specifica Angelo Drusiani, di Albertini Syz -. Tuttavia ricordo
che gli aggiornamenti indicati dai fondi spesso arrivano in
ritardo. Un altro modo, seppure indiretto, per capire se il
prodotto finanziario ha in pancia titoli a rischio è guardare la
quotazione del fondo stesso». Vale a dire? «In questo momento i
fondi obbligazionari, seppur di poco, salgono. Al contario se la
quotazione scende vuol dire che possono esserci dei bond i cui
prezzi crollano». Ciò detto, «per avere un quadro completo -
aggiunge Bozzetto - il risparmiatore deve recarsi dalla banca o
della Sgr che gli ha venduto il fondo e farsi dare l'indicazione
esatta della composizione del fondo».
Cosa fare se si hanno dei titoli greci in
portafoglio? «Dipende dalla propensione al
rischio del risparmiatore e dall'esposizione sulla Grecia, o su
altri paesi periferici, del fondo stesso». Vale a dire?
«Facciamo l'ipotesi più favorevole. Se una persona ha investito
solo il 10% dei propri soldi in un prodotto che, per esempio, ha
un'esposizione del 5% sulla Grecia l'indicazione è di tenere il
fondo. Aspettare, anche se si ha una propensione al rischio
bassa, e monitorare attentamente la situazione. Una qualche
"toppa", nel brevissimo periodo, dovrebbe essere messa con il
programma di aiuti dell'Ue o dell'Fmi. Poi, successivamente si
deciderà se smobilizzare il fondo».
E se invece l'esposizione è alta? «Nel caso di scuola teorico,
ma utile per comprendere la strategia da seguire, in cui il
fondo sia esposto, per esempio, al 40% su Atene o su altri paesi
periferici e il risparmiatore abbia una quota importante,
diciamo del 30%, su questo prodotto il consiglio è di vendere
subito. Una scelta che vale sia per chi ha una propensione al
rischio bassa, ma anche per chi ha voglia di rischiare un po'».
«Sono daccordo -fa da eco Drusiani - Su queste tipologie di bond
l'esposizione, anche per chi ha una alta propensione al rischio,
non deve superare il 10 per cento . La diversificazione nell'asset
allocation è sempre fondamentale».
E poi «sul medio periodo - aggiunge l'analista indipendente -
gli interventi all'orizzonte non sono convincenti». Per quanto
il presidente della Commissione Ue Manuel Barroso ha detto che
la «ristrutturazione del debito non è un'opzione», la Bozzetto
non se la sente «di escluderla. Noi da tempo consigliamo di
stare alla larga da simili investimenti: il messaggio è uscire
da queste posizioni».
Se ho della liquidità posso investirla su titoli sicuri?
«Chi cerca tranquilità assoluta -risponde Drusiani - può tenere
i soldi sul conto corrente, sapendo però che la banca carica sul
correntista stesso i costi di gestione». Quindi, si perdono
soldi in conto capitale e non si difende il patrimonio
dall'inflazione, seppure bassa, di questi tempi. «Se, invece -
dice la Bozzetto -, si cerca un minimo di remunerazione può
essere interessante guardare a titoli di stato di paesi del
centro Europa: gli Oat francesi e i TBund tedeschi. Penso alle
emissioni tedesche 2,25% aprile 2015, il 3,5% aprile 2013 e il
3,25% aprile 2014; oppure quelle francesi: il 4,5% luglio 2013,
il 3% luglio 2014 e il 2,5% gennio 2015». «Io sono per duration
più brevi - ribatte Drusiani -. Bisogna stare attenti
all'eventuale rialzo dei tassi».
E riguardo ai titoli di stato italiano? «Certamente rimangono
un'opzione interessante: non sono tra quelli che credono ci
possano essere problemi per questo tipo di emissioni». «Penso
che un'emissione come Btp, 1,7% settembre 2011 - aggiunge
Drusiani - possa guardarsi». Seppure, in questi momenti di
continui declassamenti da parte di S&P's sui debiti sovrani dei
paesi cosiddetti periferici non si possono escludere possibili
turbolenze. Peraltro, Drusiani aggiunge: «Chi va in cerca di
qualche occasione in più può optare per l'equity. Le condizioni
macro-economiche sono tali per cui potrebbe esserci un
miglioramento della situazione nell'azionario».
I dubbi sull'azionario «Non sono tanto daccordo -
ribatte Sergio Pigoli, presidente di Pigoli consulenza-. Lo
scenario rimane molto confuso. Diversi tasselli non sono al loro
posto: penso, per esempio, alle azioni volte al contenimento
della liquidità in Cina. E si sa, queste politiche smorzano gli
entusiami sull'equity. Fino a 15 anni fa si viveva in un mondo a
compartimenti stagni e, quindi, non dovevamo troppo preoccuparci
di ciò che accadeva a Pechino. Adesso non è più così». Di
conseguenza? «Non credo sia questo il momento di entrare
sull'azionario, per chi ne è fuori. Assisteremo, penso, ad una
correzione attorno al 15-20% e solo allora ci saranno occasioni
giuste». E anche in quel caso, si tratta di occasioni da
investitori abbastanza esperti, che fanno stock-picking.
L'impostazione è condivisa da Maurizio Milano, responsabile
analisi tecnica del gruppo Banca Sella: «Proprio ieri è
aumentata la volatilità implicita dei mercati. Fino a lunedì, il
Vix si muoveva in un range tra 15,2 e 20: nella scorsa seduta è
balzato a 23. È un segnale di nervosimo del mercato in un
momento in cui prevale la debolezza. Il Ftse Mib ieri ha chiuso
a 22.036 punti, oggi come minimo intraday ha toccato 21.281. Fin
quando stiamo sotto la soglia dei 23.000 l'impostazione è al
ribasso». E di conseguenza? «Bisogna lasciare che il mercato si
"sfoghi" e ceda ancora un 10 per cento. Adesso non è il momento,
per chi è fuori dall'azionario e non è un trader, di entrare».
E riguardo l'oro: può essere visto come un
porto sicuro?
«Anche qui sono abbastanza scettico - risponde Pigoli -. Lo
scenario in cui il metallo giallo ha maggiore appeal è quello in
cui c'è inflazione. Una condizione che, allo stato attuale, non
è soddisfatta. Inoltre, le quotazioni sono già molto alte. Poi,
si tratta di una asset class su cui la liquidità in giro entra,
ed esce, con finalità speculative. Infine, quando si compra oro
bisogna ricordardi che si compra, non solo una commodity, ma
anche il dollaro. Con tutto ciò che ne consegue». Di diversa
opinione Adrian Ash, capo della ricerca di BullionVault.com,
mercato dove viene scambiato oro via Internet: «Durantele crisi
valutarie, come quella che sta colpendo l'Euro, l'oro è un bene
rifugio. Certo, i prezzi non sono scontati ma non credo ci sia
una bolla sul metallo giallo. Inoltre voglio ricordare che, come
asset fisico, l'oro non ha il rischio di fallimento di
controparte. E a differenza, per esempio, dell'immobiliare è
scambiato in un mercato internazionale e liquido».
L'Euro rimane una moneta di cui fidarsi? A ben vedere anche l'euro non se
la passa bene in questo momento. La divisa europea ha chiuso in
Europa a quota 1,3147 dollari . Un valore che, a molti, fa
chiedere se sia necessario rifugiarsi in asset denominati in
altre valute. «Non la vedo così tragica - dice Mario Spreafico,
responsabile investimenti di Schroder Italia -. Premesso che la
"stella polare" di ogni asset class è la diversificazione,
l'Euro è espressione di un'area economica che già esisteva e
rappresenta la seconda economia del pianeta. Quindi, pur avendo
ben presente le attuali difficoltà strutturali dell'Unione
europea, non credo si possa pensare ad una "deflagrazione" del
sistema».
Fonte
-
Sole 24 ore
Grecia in
portafoglio
giovedì, 29 aprile 2010 - 16:19 -
di Dario Portioli ______________________________________________
Il team editoriale e di analisi
di Morningstar ha ricevuto in questi giorni numerose
richieste di informazioni da parte di risparmiatori
interessati a capire quali effetti potrebbe avere un
eventuale default della Grecia. Sebbene molti operatori del
mercato ritengano che lo scenario peggiore, ovvero
l’insolvenza del governo ellenico, sia poco probabile nel
breve termine, nell’ultima settimana i prezzi delle
obbligazioni greche hanno subito un deciso calo. A tale
risultato hanno contribuito i ritardi con cui l’Unione
europea ha concordato un efficace piano di aiuti e il
downgrading da parte dell’agenzia di rating Standard&Poor’s.
Questi eventi hanno alimentato una vendita generalizzata dei
titoli greci, che in verità era già iniziata da tempo, come
dimostra l’andamento dello spread nei confronti dei Bund
tedeschi, arrivato a superare i 1000 punti base.
Non riteniamo che coloro che investono in obbligazioni
governative europee attraverso i fondi di investimento e gli
Etf debbano allarmarsi in modo eccessivo. Le obbligazioni
emesse dalla Grecia rappresentano una porzione modesta
dell’intero universo di titoli governativi europei. Ad
esempio, se prendiamo in considerazione alcuni indici del
mercato obbligazionario europeo (come l'EuroMTS Global o il
Barclays Euro Treasury Bond), è possibile constatare che il
peso della Grecia è prossimo al 4%. Per coloro che investono
in Etf che replicano questi indici (come il Lyxor ETF
EuroMTS Global o l’iShares Barclays Euro Treasury Bond),
l’esposizione al debito ellenico, quindi, è vicina a tale
percentuale. Discorso in parte diverso vale per i fondi
comuni di investimento.
L’esposizione media alla Grecia dei fondi obbligazionari
Europa distribuiti in Italia è vicina al 3%. D’altra parte,
come è legittimo attendersi in presenza di gestioni attive,
le strategie dei singoli fondi variano all’interno di questo
insieme. Così, troviamo alcuni fondi che hanno deciso già da
tempo di ridurre o addirittura azzerare l’esposizione
obbligazionaria verso la Grecia (come Fideuram Euro Bond Low
Risk o Leonardo Obbligazionario). Altri, invece, hanno
puntato al possibile recupero della nazione ellenica (come
Alpi Obbligazionario Internazionale o Fondersel Reddito),
superando così l’esposizione media di categoria.
Chiaramente, questi due approcci, l’uno più conservativo,
l’altro più audace, hanno determinato risultati diversi nel
breve termine.
Le ricerche di Morningstar testimoniano che reagire alle
notizie e ai singoli eventi, nel tentativo di ottimizzare il
market timing , porta spesso a risultati deludenti. Questo,
però, non vuol dire che non sia importante monitorare con
attenzione le principali dinamiche dei mercati che possono
avere effetti sul valore dei propri investimenti. Se i
titoli di Stato che un tempo venivano ritenuti “tranquilli”
assumono un profilo di rischio più elevato, simile a quello
delle azioni, è opportuno verificare che il risultato in
termini complessivi sul portafoglio sia ancora coerente con
i propri obiettivi finanziari.
Haibao e i fondi
Cina
giovedì, 29 aprile 2010 - 16:23 -
di Sara Silano ______________________________________________
Haibao significa “tesoro del
mare” ed è un tipico nome cinese portafortuna. E’ stato
scelto come mascotte dell’Expo Universale che si aprirà il
1° maggio a Shanghai e durerà fino al 31 ottobre 2010.
Parteciperanno 194 nazioni, che per la prima volta si sono
date appuntamento in un Paese emergente, con un unico tema
comune “ Better city, better life ” (città migliore, vita
migliore). Il personaggio di Haibao si ispira all’ideogramma
cinese che vuol dire “gente” e simboleggia la vitalità e le
potenzialità dell’ex celeste impero e di quella che una
volta era considerata la Parigi dell’est.
L’Esposizione universale cade in un momento di forte
espansione economica. Gli ultimi dati dell’ufficio di
statistica indicano un incremento del Prodotto interno lordo
dell’11,9% nel primo trimestre (su base annua). E negli
ultimi anni, la crescita è sempre stata elevata, rendendo il
Paese uno di quelli con il maggior tasso di sviluppo a
livello mondiale. La Cina è anche la nazione più popolata al
mondo, 1,3 miliardi di persone che sempre più acquistano
beni e servizi. Molte aziende sono cresciute, diventando
leader nel continente asiatico o su scala globale. La Borsa
di Shanghai ha guadagnato quasi il 40% negli ultimi tredici
mesi e aveva corso molto anche tra il 2006 e 2007, ossia
prima dello scoppio della crisi.
Lo sviluppo ha favorito la nascita di molti fondi
specializzati sull’area. In Italia, tra il 2006 e il 2007
hanno debuttato una quindicina di prodotti, tutti di società
di gestione estere, eccetto uno, che oggi hanno un
patrimonio di circa 10 miliardi di euro (gli asset totali
dei comparti Cina distribuiti nel nostro Paese ammontano a
17,2 miliardi). A questi si aggiungono sette Exchange traded
fund quotati a Piazza Affari.
Uno studio di Morningstar rivela che questi fondi sono molto
più complessi degli altri specializzati su singoli Paesi. Il
loro portafoglio non è composto solo da titoli quotati a
Shanghai, le cosiddette azioni “B”, ma anche da quelle
negoziate ad Hong Kong o su altre Borse internazionali.
Possono esserci inoltre società di Hong Kong, che realizzano
la maggior parte degli affari in Cina, e di Taiwan. Il
mercato domestico, infatti, è relativamente giovane e
illiquido, mentre l’ex colonia britannica ha una storia
finanziaria più lunga e consolidata. Taiwan è legata
all’area da motivi storici ed economici.
Nel scegliere un fondo Cina, gli investitori devono
considerare alcuni fattori. Il primo è la maggior volatilità
rispetto ai mercati sviluppati, che è la caratteristica
tipica di tutti gli emergenti. Il secondo è
politico-economico ed è legato alle relazioni tra Pechino, i
Paesi vicini e gli Stati Uniti (si pensi ad esempio alle
proposte avanzate di tanto in tanto di porre dei limiti alle
esportazioni). Il terzo, infine, è la maggior concentrazione
del portafoglio (sia settoriale, sia di numero di titoli)
rispetto ai comparti azionari internazionali.
“L’insieme di questi fattori fa sì che la Borsa cinese
soffra di più in condizioni di mercato difficili a livello
globale”, dice William Samuel Rocco, fund analyst di
Morningstar. Infatti, durante l’ultima crisi finanziaria
(tra giugno 2007 e marzo 2009), i fondi hanno perso in media
il 60% del loro valore e il comportamento era stato analogo
durante la crisi asiatica del 1997-’98. Nel corso degli
ultimi 13 mesi, la categoria ha guadagnato oltre il 60%, una
performance che per l’analista “non è sostenibile nel
tempo”. Su un orizzonte di lungo periodo (10 anni), il
rendimento medio annaulizzato è stato dell’11%, più degli
Azionari internazionali large cap, che hanno registrato una
perdita media annua del 3%, e degli emergenti (+5,5%). Un
bel risultato, al quale però possono ambire solo gli
investitori che hanno i nervi saldi per resistere alla
tentazione di vendere di fronte a un -60%.
Fonte
-
MorningStar.it
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Le
banche tedesche e francesi
rischiano il contagio dei PIIGS
28 Aprile 2010 15:19
– di Nicola Borzi
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La Germania e la Francia non hanno alcuna convenienza a
restare alla finestra mentre la crisi finanziaria rischia di
mandare in default la Grecia. Il sistema bancario tedesco
infatti è esposto direttamente al debito dei PIIGS
(l'acronimo – offensivo – che indica Portogallo, Italia,
Irlanda, Grecia e Spagna, i paesi a maggior rischio
dell'eurozona) per una percentuale stimata tra il 20 e il
23% del Pil tedesco (che è stato pari a 2.496 miliardi di
euro nel 2008), dunque tra i 500 e i 575 miliardi di euro
circa, mentre quello francese è esposto addirittura per il
27 - 30% del Pil (1.950 miliardi di euro), quindi per
530-590 miliardi di euro.
Le stime emergono da un report del desk newyorkese di
analisi dei mercati obbligazionari di Deutsche Bank. Il
rapporto, intitolato "Il rischio di credito sovrano in
Europa: una nuova fase della crisi finanziaria globale
2007-2010" è stato pubblicato a febbraio e alcune delle sue
osservazioni (ad esempio quelle sul servizio del debito
pubblico della Grecia) sono ormai datate, a causa
dell'andamento dei mercati che hanno allargato a dismisura
gli spread sugli interessi pagati dal debito pubblico greco.
Altre, però, restano molto attuali. E allarmanti.
I timori sono accentuati dal rischio di contagio in caso di
default di un paese membro dell'eurozona, rischio che
secondo gli autori del rapporto è molto elevato anche a
causa dell'esposizione incrociata tra gli stessi PIIGS. I
legami finanziari tra i cinque paesi più esposti sono
eccezionalmente alti: in Portogallo "valgono" il 24% del Pil
(40 miliardi di euro circa), in Irlanda il 34% (oltre 60
miliardi di euro). Solo l'Italia fa eccezione con "appena"
il 3% del Pil, che nel 2008 era stato di 1.572 miliardi di
euro, dunque 47 miliardi di euro, collegato agli altri
quattro PIGS.
La Grecia malato d'Europa
È vero che si tratta di un paese minuscolo, che incide per
il 2,7% sul Pil dell'eurozona, ma il suo debito pubblico
"pesa" per il 4% del totale dell'area euro. Atene, ricordano
gli autori dello studio di Deutsche Bank, Tom Joyce e Stefan
Auer, ha un serio problema di credibilità sui dati pubblici.
Il deficit fiscale del governo di George Papandreou è il
dilemma: è il più alto in Europa (rivisto al 13,6% nei
giorni scorsi da Eurostat, contro il 12,7% stimato in
precedenza) e si associa a un elevato deficit delle partite
correnti (11,9%). Da febbre alta anche il rapporto
debito/Pil che la Ue stima al 115,1%, tra i più alti
dell'eurozona. Al contrario, le banche greche non sembrano
soffrire di problemi di patrimonializzazione, grazie a una
solida base di depositi e a una dipendenza ridotta dal
mercato della liquidità della Banca centrale europea.
Il fatto è che i 240 miliardi di euro di debito pubblico
sono molto esposti nel breve termine (nel solo 2010 ne
scadranno una cinquantina, di cui 8,5 il 19 maggio). Il
costo del debito, con gli spread ai massimi storici, è ormai
insostenibile.
Ma sbaglierebbe chi nell'eurozona restasse alla finestra. Le
banche europee, secondo gli analisti di DB, rappresentano
infatti un canale di contagio "significativo" attraverso il
quale un eventuale default di Atene potrebbe scatenare un
effetto domino devastante prima all'interno dei PIIGS e poi
nel resto dell'eurozona. La ridotta capacità del sistema
immunitario delle banche europee è dovuta agli effetti
debilitanti già subiti con la crisi finanziaria, che ne ha
appesantito gli stati patrimoniali per l'aumento dei crediti
a rischio e ne ha ridotto gli utili di conto economico
aumentando i costi di funding e del capitale in generale.
A nessuno quindi converrebbe un peccato di omissione nei
confronti di Atene. La Banca centrale europea lo sa, lo
sanno anche gli analisti finanziari e lo sanno pure gli
speculatori che stanno scommettendo sul piano di
salvataggio. Qualcuno, come il ministro delle Finanze Giulio
Tremonti lo ha ricordato ai colleghi di Berlino e di Parigi.
Il problema è spiegarlo ai contribuenti. Ma la comunicazione
dovrà essere fatta e in fretta. E questo è il dilemma di
Angela Merkel: la scadenza del 19 maggio per la prossima
asta di titoli di stato greci è sempre più vicina, ma prima
ci sono le elezioni in Nord Reno - Vestfalia e il
cancelliere non vuole perderle.
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