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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Crisi creditizia

Nessuno può fermare i burattinai del credito

Crisi creditizia/Macro mondo/mercati

Economia e finanza oggi: uno swap fra drogati

Crisi creditizia e riflessi inflazione/deflazione

Ben Bernanke e la macchina frigorifera

Crisi creditizia

Miliardi e miliardi di perdite occultate

Politica Internazionale USA

Lo stato di necessità di Obama

Bilancio vertice Copenhagen sul clima

Perchè Copenhagen ha fallito

   
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+++   ANSA   +++   Crisi: s&p, Nel 2010 Imprese Europee Insolventi Potranno Toccare l'11%   +++  Cina: Non Cambiera' Paniere Di Valute Per Fissare Cambio Yuan   +++ GRECIA SULL'ORLO DEL CRACK FINANZIARIO, SCONTRI IN PIAZZA AD ATENE   +++   BOND DUBAI A PICCO, MERCATO IN ALLARME   +++   ANSA   +++ 
 
  Martedì 01 Dicembre 2009   Mercoledì 02 Dicembre 2009   Venerdì 04 Dicembre 2009  
       
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  Nessuno può fermare i burattinai del credito

01 Dicembre 2009 22:06 MILANO - di Giuseppe Turani

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La cosa più sconvolgente, arrivando a Dubai da un anno a questa parte, è il parcheggio dell´aeroporto. Migliaia di auto impolverate, sporche, che chiaramente sono lì, abbandonate da molti mesi e che riempiono quasi tutti i posti auto disponibili. Tanto alle migliaia di manager che le hanno lasciate lì cosa importa più delle rate di leasing ancora da pagare? E la finanza allegra parte dai leasing sulle auto per finire ai grattacieli, alle centinaia di palazzi nel deserto, spuntati come funghi negli ultimi dieci anni e poi rivenduti ad investitori pollastri, in buona parte cartolarizzati, impacchettati e finiti nelle mani di chissà chi. Giovedì, con la dichiarazione di default della principale holding di Dubai tre quarti del mondo è stato preso alla sprovvista.

Ma dove erano prima? Dove erano in particolare le centinaia di banchieri che hanno fatto prosperare quella che è stata definita la bolla delle bolle? Lo capiva chiunque che una cosa cosi artefatta e piena di sprechi sarebbe prima o poi dovuta saltare per aria. Era più che evidente che i finanziatori di quella follia avrebbero dovuto da tempo correre a chiudere i rubinetti di quella follia. Ed invece fino a tre giorni fa si faceva finta di nulla. Quando da almeno un anno si sapeva che decine di palazzi erano vuoti, che i mitici alberghi con le forme più strane erano vuoti.

Qui si potrebbe aprire una piccola parentesi sui mercati finanziari che, di fronte alla notizia dei guai in arrivo da Dubai, non trovano di meglio che precipitare del 3 per cento (salvo Wall Street perché, per fortuna, stavano tutti a mangiare il tacchino). Il giorno dopo tutto era già più sereno. Ma la prova di isterismo che è stata data non può certo contribuire al buon nome e alla rispettabilità delle Borse mondiali, frequentate, oggi come un anno fa, soprattutto da gente sempre sull´orlo di una crisi di nervi. E quindi sempre sull´orlo di creare guai infiniti al pianeta.

Ma qualcosa va detto anche sui banchieri, che avevano finanziato l´operazione immobiliare andata in crisi in Dubai. Probabilmente sono tornati ormai a essere talmente ricchi (e quindi sicuri di se stessi) che non andavano in Dubai da mesi, forse anni. Se ne stavano tutti quanti sui campi da golf o in qualche suite d´hotel.

Non si spiega altrimenti quello che è successo. Avevano finanziato una delle maggiori operazioni immobiliari del mondo. L´immobiliare è in crisi nera da più di un anno e a nessuno di loro viene in mente di chiedere qualche resoconto laggiù a Dubai? E magari di preparare anche un piano di allungamento del debito. Niente. Perché?

Londra e le altre capitali finanziarie sono tornate a essere luoghi felici, in cui il denaro (nelle tasche dei banchieri) scorre generoso, in cui le donne sono più belle di prima e le banche luoghi assolutamente meravigliosi. A Londra i prezzi delle case sono tornati a salire perché già si sente odore di bonus natalizi (per i banchieri). E lo stesso sta accadendo nelle altre capitali del denaro.

E allora perché perdere tempo a telefonare a quelli di Dubai? Si faranno vivi loro. Ho chiesto a un banchiere perché i suoi colleghi banchieri d´affari internazionali sono così arroganti, sprezzanti, disinvolti, distratti al limite del crimine. La risposta è stata semplice: perché sono i padroni del mondo. Sono loro che decidono quale azienda deve andare avanti e quale deve chiudere, sono loro che indirizzano i governi su quel che c´è da fare (Goldman Sachs nella City è chiamata «Government Sachs»), sono loro che possono mettere sul tavolo milioni di dollari nel giro di pochi minuti, in qualunque parte del pianeta. E quindi fanno quello che vogliono.

Il problema, forse, non è più tanto quello di nuove regole (che comunque alla fine non vengono rispettate) quanto quello di spezzare questi colossi (che dalla crisi sono usciti ancora più grossi e forti)di ridurli a una dimensione più accettabile e meno pericolosa.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

REPORT DA ALLARME ROSSO: MORGAN STANLEY PREVEDE CRISI DEBITO UK NEL 2010

01 Dicembre 2009 01:42 NEW YORK - Telegraph online
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"La Gran Bretagna rischia di diventare il primo paese tra le economie del G8 a rischiare una fuga di capitali e lo scoppio fragoroso di una crisi sul debito sovrano nei prossimi mesi" ha scritto ai clienti Morgan Stanley. Per la banca americana c'e' il pericolo che un "miscela tossica di problemi" arrivi al capolinea il prossimo anno, sull'onda dei timori che Westminster non sia in grado di recuperare la credibilita' fiscale.

Il rapporto di Morgan Stanley, intitolato "Tougher Times in 2010" (Tempi piu' duri nel 2010) reso pubblico ieri sera in un articolo di Ambrose Evans-Pritchard pubblicato sul Telegraph online, non e' legato in nessun modo alla debacle del Dubai, ma e' un avvertimento sul fatto che le nazioni hanno "semplicemente comprato tempo dutante la crisi, ricorrendo agli stimoli fiscali e spostando le perdite private sui bilanci pubblici".

"I salvataggi - per quanto necessari - non hanno risolto il problema sottostante. Hanno fatto accumulare una seconda serie di difficolta' degradando il debito sovrano dei paesi di mezzo mondo", scrive Evans-Pritchard. Per quanto riguarda Londra, si legge nel report di Morgan Stanley (preparato dal team di investimento in Europa della banca composto da Ronan Carr, Teun Draaisma e Graham Secker) "i crescenti timori sul Parlamento inglese spaccato a meta' peserebbero negativamente sia sulla sterlina sia sul rendimento dei bond UK, il che rappresenterebbe qualcosa di simile a un salto nel buio, e aumenterebbe le probabilita' che qualcuna delle agenzie di rating rimuova il rating AAA della Gran Bretagna".

La Banca d'Inghilterra sarebbe costretta ad alzare i tassi, mettendo a repentaglio la ripresa (UK e' l'unico paese d'Europa ancora in recessione), la sterlina crollerebbe di un altro 10% rispetto ad un paniere di valute ponderate in termini di scambi commerciali, il che rappresenterebbe - unito ai cali degli ultimi 2 anni - il peggior crollo del pound dai tempi della rivoluzione industriale, superiore perfino al -30% dai massimi, ai tempi in cui la Gran Bretagna fu costretta a fuoriuscire dal Gold Standard durante il caos economico del 1931.
Per Morgan Stanley, sempre secondo l'articolo del Telegraph, questa catena di eventi farebbe schizzare i rendimenti sui gilts UK di almeno 150 punti base. La borsa di Londra andrebbe probabilmente bene, ma i costi dell'accesso al credito salirebbero ben oltre il 5%, il livello che vediamo oggi in Grecia e un livello ben piu' alto rispetto ad altri paesi come Italia, Messico e Brasile (indicati - parrebbe - come nazioni deboli della catena).

Nel rapporto Morgan Stanley scrive infine che i possibili guai di Londra sono soltanto una delle tre "sorprese" che gli ninvestitori si devono aspettare nel 2010. Le altre due sono: 1) il rimbalzo del dollaro; 2) la buona performance in borsa delle azioni del settore farmaceutico.
 

Fonte - Telegraph online

 

 

 

Banche, la crisi non insegna: crescono le "too big to fail"

02 Dicembre 2009 13:05 MILANO - di Andrea Franceschi – Il Sole 24 Ore
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Gli stati non potranno più andare in soccorso delle banche. I soldi dei contribuenti non dovranno più essere utilizzati per tappare i buchi della finanza spericolata. Le banche dovranno subire una drastica cura dimagrante. In modo che non ci siano più le cosiddette «too big to fail», troppo grandi per fallire, a meno di scatenare un gigantesco effetto domino, come è avvenuto dopo il fallimento della Lehman Brothers. Questa è, o dovrebbe essere, una delle principali lezioni della crisi dei mercati, che ha avuto il suo epicentro proprio nel «chapter eleven» della banca americana.

Ma a un anno dal crack delle borse non sembra che questa lezione sia servita. Soprattutto in Europa dove il perimetro di azione delle banche, invece di restringersi, si è allargato. Dal 2007 le attività degli istituti di credito sono cresciute del 25%. Negli Stati Uniti l'aumento è stato del 20 per cento.

Secondo una ricerca dell'agenzia Bloomberg, negli ultimi due anni, 353 istituti di credito hanno aumentato le loro attività. Tra loro 15 hanno addirittura superato il prodotto interno lordo nazionale (nel 2007 erano 10). Il valore degli asset della francese Bnp Paribas, per esempio, dal 2007 a oggi è cresciuto del 59%, raggiungendo l'astronomica quota di 2 mila e 290 miliardi di euro (il 117% del Pil francese). La britannica Barclays ha fatto segnare un +55% e ha iscritti a bilancio asset per mille e 550 miliardi di sterline (il 108% del Pil britannico). Quelli di Banco Santander sono pari al prodotto interno lordo spagnolo a quota 1,08 mila miliardi di euro.

Una riduzione delle dimensioni degli istituti di credito viene auspicata da più parti. Dallo scoppio della crisi, i governi europei hanno sborsato 5 mila e 300 miliardi di dollari in aiuti di stato o salvataggi bancari. «Se ci fosse un'altro grosso fallimento bancario, dubito che le finanze di alcune piccole nazioni possano reggere il colpo» commenta Tom Kirchmaier della London School of Economics. Ma attualmente le autorità nazionali e comunitarie non hanno alcun potere in questo senso. A meno che non si tratti di istituti che hanno ricevuto aiuti pubblici. Recentemente per esempio, in cambio del via libera al piano di ristrutturazione, è stata imposta la vendita di asset al gruppo olandese Ing, alla britannica Lloyds Bank e alla belga Kbc.

 

 

 

Alla Goldman Sachs hanno paura e i dipendenti chiedono porto d'armi

02 Dicembre 2009 13:20 MILANO – Il Sole 24 Ore
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Arrabbiati e' troppo poco. Forse i termini imbestialiti, furiosi, potrebbero calzare meglio per descrivere lo stato d'animo dei contribuenti americani dopo il crollo di Wall Street del 2008 e i bailout federali che sono conseguiti per risollevare le sorti dei grandi gruppi finanziari. A rimpolpare la rabbia e' ora pero' il veder finire le proprie tasse sottoforma di bonus aziendali destinati ai dipendenti degli stessi gruppi. E' una collera pubblica, quella che potrebbe scatenarsi contro i dipendenti del gruppo Goldman Sachs. Loro ne sono ben consapevoli, quindi a scopo precauzionale, si comprano le armi. Non e' la trama di un far west ambientato nel 2000 ma la storia raccontata dalla columnist di Bloomberg News, Alice Schroeder che racconta di un suo amico e dipendente della Goldman, che ha presentato richiesta alla polizia per la licenza del porto d'armi, utilizzando come credenziale il nome "Goldman Sachs". Sebbene non sia per nulla semplice e automatico nello stato di New York ottenere un permesso per acquistare un'arma, sembra che il caso non sia l'unico. L'amico che rivela questa informazione alla columnist racconta di diversi senior della Goldman che si stanno rifornendo di pistole per difendersi, "nel caso in cui qualche populista malintenzionato si azzardasse a fare irruzione nella loro sede". Alice Schroeder, autrice di "The Snowball: Warren Buffett and the Business of Life" , e fra l'altro ex manager della Morgan Stanley, ha contattato il portavoce della Goldman Sachs per chiedere spiegazioni ma non ha ricevuto risposta.

Il dipartimento di polizia invece le ha detto: alcuni dipendenti di Goldman Sachs hanno l'autorizzazione al porto d'armi ma ci vorra' del tempo prima di sapere i loro nomi. Possedere un'arma commenta la giornalista, non significa necessariamente essere nelle condizioni di riuscire a difendersi al momento dell'aggressione. Forse i dipendenti di Goldman si stanno lasciando contagiare dalla stessa mania di persecuzione che aveva colpito Lloyd Blankfein, chief executive officer della banca il quale, alla vigilia del collasso della Bear Stearns, aveva chiesto alle autorita' locali l'autorizzazione per installare un cancello di sicurezza nella sua villa.

Sebbene molti a Wall Street siano preoccupati per le eccessive differenze di reddito e concordino nel ritenere ingiusto l'attuale sistema finanziario, non significa necessariamente che per solidarieta' nei confronti della povera gente, si trasferiscano nelle roulotte. La storia dell'acquisto di armi da parte dei dipendenti della Goldman, incalza la columnist, e' l'emblema della mentalita' "wallstreetiana", di coloro a cui piace pensare che sebbene siano stati aiutati, rimangono dei veri duri, dei Clint Eastwoods della finanza, con in una mano un pugno di dollari e nell'altra la pistola "L'ultima cosa che vogliono" conclude la Schoreder, "e' essere pagati equamente".
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Economia e finanza oggi: uno swap fra drogati

06 Dicembre 2009 16:08 MILANO - di Alessandro Fugnoli

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Il primo dei due grandi swap di cui vogliamo parlare oggi è quello tra debito privato e debito pubblico. Lo ricordiamo solo brevemente, perché è storia nota.

Dalle recessioni degli anni Ottanta, Novanta e inizio dei Duemila si è usciti molto bene anche perché ai sistemi economici malati sono state somministrate quantità crescenti di sostanze eccitanti, prima semplici anfetamine e poi, col tempo, via via più pesanti. Queste droghe sono state somministrate al settore privato, permettendogli di comprare beni di consumo e case a debito.

Come l’eroina, il debito privato, oltre una certa soglia dà assuefazione e produce instabilità. In situazioni di crisi, come quella che abbiamo tutti vissuto un anno fa, provoca stati di paranoia che possono mettere in pericolo la sopravvivenza stessa del soggetto. L’illiquidità di un’istituzione, in questi stati mentali alterati, viene vista come insolvenza e la provoca. L’insolvenza conclamata, a sua volta, fa partire la caccia al successivo debitore illiquido, che diviene immediatamente insolvente e così via, fino al collasso del sistema.

Il subentrare del debitore pubblico al debitore privato, il grande swap di questi mesi, ha gli stessi effetti che il metadone ha sull’eroinomane. Lo stabilizza e gli permette di condurre di nuovo una vita normale. E’ infatti molto più difficile dubitare del debitore pubblico che del debitore privato. Un attacco speculativo contro una banca, in un contesto già febbricitante, può essere condotto con successo in poche ore.

Gli attacchi contro gli stati sono per definizione impossibili se gli stati hanno la facoltà di creare la moneta con cui ripagare il debito. I concetti di inondazione di liquidità, di bolla e di inflazione inevitabile, ripetuti un milione di volte al secondo in ogni angolo del mondo poggiano su una lettura incompleta della situazione. E’ vero (e scandaloso), il mondo è sotto metadone. Ma è altrettanto vero che non consuma più nuova eroina.

Le emissioni di titoli cartolarizzati, quelli che per anni sono stati spacciati agli angoli delle strade delle City e il cui ricavato veniva riciclato dai pusher in mutui e crediti al consumo, sono quasi sparite (negli Stati Uniti sono meno di un terzo di prima della crisi). La vecchia carta ancora circolante ha valore di rarità, si è già apprezzata negli ultimi mesi e sarà con ogni probabilità richiestissima l’anno prossimo dai cacciatori di occasioni.

Insomma, la liquidità apparsa da una parte è sparita dall’altra. Grosso modo, tutta la moneta che la Fed ha stampato è servita a finanziare l’acquisto di titoli tossici o adulterati (i mutui delle agenzie) dalle banche. Le banche, a loro volta, non hanno prestato il ricavato alle imprese e ai consumatori, ma l’hanno tenuto e lo tengono o in titoli di stato o a deposito presso la banca centrale. In questo modo guadagnano un interesse e non impegnano capitale.

Le presunte bolle sulle borse, sui corporate bond e sull’oro non derivano quindi, se non in misura limitata, da un’attività delle banche. Certo, in situazioni tra la morte e la vita, c’è sempre qualche banca che gioca il tutto per tutto sui mercati sperando di salvarsi. Come ha detto Strauss-Kahn, per alcuni questo è il Mardi Gras della dissolutezza che precede la quaresima che arriverà dopo il 2011 con le nuove regole sulla patrimonializzazione delle banche.

La grande parte degli acquisti sui mercati, in ogni caso, non viene dalle banche e non è a leva. Viene, come ha notato Paul Kasriel di Northern Trust, da uno swap nei portafogli privati, che vendono titoli pubblici alle banche e agli stati sovrani (che li tengono a malincuore, come fa la Cina, nelle loro riserve) e comprano asset di rischio. Lo chiameremo il piccolo swap (contrapposto al grande swap descritto sopra). Neanche poi tanto piccolo se si pensa alle dimensioni della ricchezza privata nel mondo.

Non c’è quindi bisogno di stracciarsi le vesti sul ritorno della leva (che non c’è) e sul conseguente stato di bolla in cui si troverebbero già i mercati. Quelli che arrivano in borsa o sull’oro sono soldi veri, che potrebbero anche, in futuro, causare sul serio una bolla, ma che vanno comunque distinti da quelli presi a prestito.

Bolla e leva sono cose diverse. I tulipani non ebbero bisogno di leva per lievitare, nel Seicento non c’erano ancora banche centrali creatrici di liquidità. Roubini e molti altri invece inferiscono la leva dal fatto che c’è, ai loro occhi, una bolla. D’altra parte non si può affermare (correttamente) che le banche non fanno nuovi prestiti netti e dire allo stesso tempo che c’è un massiccio e patologico ricorso alla leva (ovvero a soldi presi a prestito, ma da chi, se non dalle banche che abbiamo appena detto che non prestano?).

La solidità sempre più sorprendente dei mercati si spiega proprio con il fatto che è nutrita da denaro sonante. Quando il mercato è a leva, una notizia negativa costringe i più sbilanciati a chiudere precipitosamente le loro posizioni e questo provoca cadute di prezzo che, a loro volta, inducono altri a uscire. Se però parliamo di portafogli ancora sottopesati di azionario e praticamente privi di oro, la notizia negativa viene assorbita senza panico e induce anzi all’acquisto chi non era ancora entrato.

Solo così si spiega l’effetto limitato ad appena 24 ore del semidefault di Dubai. O l’effetto di meno di due minuti di orologio del dato non brillante sull’occupazione americana rilasciato oggi da Adp. O addirittura l’effetto immediato praticamente inesistente del dato sulle scorte di greggio e derivati (aumentate massicciamente e quindi teoricamente negative per il prezzo) sul petrolio.

Di fronte a dati negativi si è sviluppato un modello di comportamento raro a vedersi. Dopo qualche ora il mercato effettivamente prende atto del dato, sia pure nel modo più limitato possibile. Nell’immediato, però, riesce talvolta addirittura a salire. Questo accade perché chi è fuori dal mercato spera di entrarci, spera quindi in un dato negativo che lo faccia scendere e, non appena questo succede, ma a quel punto anche se non succede, si precipita a comprare.

Il mercato impara quindi a poco a poco da sé stesso a non scendere mai. L’oro è, più di ogni altra cosa, in questa situazione. E’ l’asset di quelli che più severamente denunciano le bolle in casa d’altri ed è paradossalmente l’unico asset in bolla. Si dice che serve a proteggersi dalla caduta del dollaro.
Dall’inizio di ottobre il dollaro ha perso il 3 per cento contro euro, ma l’oro si è apprezzato del 20. Sempre più cara, come protezione.

Si dice anche che l’oro è quello che è, è una quantità data e limitata e non può essere estratto se non con grande fatica, mentre la moneta cartacea può essere creata a volontà e decuplicata in una notte con l’aggiunta di uno zero sulle banconote. Se è così, anche le uova di Fabergé sono solo 57, così come sono limitati di numero i dipinti di Raffaello e i 70mila Gronchi Rosa. Sono forse saliti tutti quanti del 20 per cento da ottobre?

Ancora sull’oro, che ora vola libero e sganciato dal petrolio, dal dollaro e da qualsiasi altra cosa. Per chi crede veramente nell’oro, come nel caso della rosa scespiriana, un’oncia è un’oncia è un’oncia. Chi aveva un’oncia il due ottobre e ce l’ha ancora oggi dovrebbe sentirsi ricco uguale ed essere sprezzantemente indifferente, se è un true believer, al fatto che valeva allora mille dollari e oggi 1215. L’oro è l’equivalente dell’Essere parmenideo, splendente nella sua perfezione ed eternamente uguale a sé stesso, in contrapposizione al divenire del mondo, che nasce, muore e si corrompe.

Quasi tutti i cultori dell’oro sono invece euforici, in questo periodo. Se lo sono, però, è segno che è il dollaro misura di tutte le cose, non l’oro. Hanno lo stesso oro e più dollari. Se sono contenti vuol dire che ragionano ancora in dollari, i disprezzatissimi dollari. Finché è così, l’alba della nuova Età dell’Oro è ancora lontana.

Lo stato di agitazione dell’oro (che non consigliamo in nessun modo di combattere, anzi) si contrappone allo stato di quiete del petrolio ed è un processo alle intenzioni dei policy maker sull’exit strategy. Se si vuole, è una polizza contro un’inflazione che un giorno del 2013, forse, arriverà, sempre che i policy maker se ne stiano immobili nel vederla arrivare, la accolgano con grandi saluti e le affidino ogni speranza di riduzione del debito pubblico.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Sabato 05 Dicembre 2009   Domenica 06 Dicembre 2009   Mercoledì 09 Dicembre 2009  
       
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La mappa del rischio paese. Attenti a Est Europa e Sudamerica

06 Dicembre 2009 16:21 - di Morya Longo
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Il mercato dei credit default swap, quelle speciali polizze assicurative che misurano il rischio di crack in giro per il mondo, punta il dito su Paesi come l'Ucraina, il Venezuela e la sempre traballante Argentina. Le agenzie di rating, e in particolare Standard & Poor's, assegnano altissimi rischi di insolvenza a Ucraina, Jamaica ed Ecuador. Un recente indicatore del Credit Suisse sulla vulnerabilità degli Stati sovrani mette invece al primo posto l'Islanda, seguita da Ungheria, Grecia, Romania, Bulgaria e – udite udite – Spagna. Benvenuti nel toto-default. Dopo aver giocato per mesi a «chi è il prossimo» sulle banche, ora gli economisti e i mercati finanziari iniziano a fare lo stesso sui Paesi sovrani. E purtroppo non hanno tutti i torti: due anni di crisi finanziaria e due anni di maxi-interventi pubblici per salvare banche e imprese hanno sconquassato i bilanci. Se le banche ormai sono «too big to fail» (troppo grandi per fallire), gli Stati rischiano quindi di essere «too big to save» (troppo grandi da salvare).

Ai primi posti tra le aree geografiche vulnerabili c'è certamente l'Est Europa. L'Ucraina, nonostante il debito pubblico fermo al 25% del Pil, è ritenuto all'unanimità il Paese più a rischio: Standard & Poor's gli assegna un rating di CCC+ (che significa alte probabilità di insolvenza), mentre i credit default swap quotano a 1.304 punti base. Questo significa che assicurare 100 milioni di euro contro il default dell'Ucraina costa poco più di 13 milioni di euro. Tantissimo: circa 3 volte più di Dubai. Questo significa che il mercato assegna al Paese dell'Est alte probabilità di insolvenza. Sorvegliata speciale anche la Lituania (che ha rating BB con prospettive negative). Il Credit Suisse mette invece al secondo posto dei Paesi più fragili l'Ungheria. Anche alcuni Stati del Sud America, sebbene quell'area geografica abbia dimostrato di reggere meglio di altre alle turbolenze finanziarie, sono visti ad alto rischio. Non solo l'Argentina, le cui polizze anti-insolvenza quotano a più di mille punti base. Ma soprattutto il Venezuela, Paese che attualmente ha i credit default swap più elevati al mondo: 1.437 punti base.

Eppure, con gradazioni di rischio ovviamente diverse, anche Paesi ben meno esotici non sono immuni. Unione europea in primis. Royal Bank of Scotland ha calcolato che l'Irlanda deve aumentare il bilancio primario dell'8% per mantenere invariato il rapporto tra debito e Pil. Per la Grecia e la Spagna lo sforzo per evitare che il debito pubblico esploda è invece intorno al 5%. Questi sono dunque i Paesi che maggiormente rischiano di vedere crescere in maniera esponenziale il debito pubblico. In questo senso l'Italia appare inevece più tranquilla: con la sua tradizione di super-debito, secondo i calcoli di Rbs, non dovrebbe aumentare gli sforzi per tenere il debito sui livelli attuali. Il mercato dei credit default swap dice la stessa cosa. L'assicurazione sull'insolvenza della Grecia costa 181 punti base, quella sull'Irlanda 148 e quella sulla Spagna 83 (più o meno come quella sull'Italia).

Ma tanti economisti si spingono oltre. E guardano con una certa apprensione anche ad alcuni big mondiali: Stati Uniti e Gran Bretagna. Proprio tre giorni fa Mark Field, deputato Conservatore inglese, ha affermato che la Gran Bretagna rischia una crisi valutaria se le prossime elezioni non mostrassero un vincitore netto. In tal caso – afferma il deputato – l'Inghilterra potrebbe addirittura chiedere un aiuto al Fondo monetario internazionale. Questa è sicuramente una boutade da campagna elettorale, ma parte da una situazione realmente difficile per la Corona. Il deficit di bilancio è intorno al 15%, il debito pubblico è stimato in crescita dagli analisti di Bnp Paribas fino al 160% del Pil entro il 2020 e il settore su cui il Paese ha basato la sua crescita negli anni passati – cioè quello finanziario – è in crisi. Non a caso Standard & Poor's ha recentemente messo in «prospettive negative» il suo rating, tutt'ora di «Tripla A». Discorso non diverso per gli Stati Uniti. Il deficit di bilancio è al 12% del Pil e il debito pubblico è stimato – sempre da Bnp – al 150% nel 2020.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Al via il vertice di Copenhagen, Cina India e Brasile compatti

07 Dicembre 2009 16:08 – Il Sole 24 Ore
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Le speranze dell'umanità guardano a Copenaghen. Si è aperto ufficialmente il vertice storico sul clima sotto l'egida dell'Onu. La 15/a Conferenza della Convenzione Onu sui cambiamenti climatici (Cop15) riunita per due settimane nella capitale danese ha la responsabilità di arrivare, il 18 dicembre prossimo, a un accordo per fermare la febbre del Pianeta. Due settimane di tempo in cui i 192 paesi presenti dovranno trovare un'intesa. Vertice storico proprio perchè alta è l'attenzione e la partecipazione mondiale con 110 capi di stato e di governo che confluiranno a Copenaghen gli ultimi due giorni di vertice, al momento delle decisioni. Intanto novità per possibili aperture arrivano da India, Cina e Brasile che avrebbero raggiunto un accordo comune per lavorare a un testo a Copenaghen mentre anche il Sudafrica si dà dei limiti.

Ma oggi è il giorno degli appelli e dello sprint iniziale da parte dei rappresentanti Onu e degli scienziati. Grande anche l' impronta per i lavori dettata dai padroni di casa, i danesi.
In particolare il premier danese Lars Loekke Rasmussen ha detto che «possiamo cambiare e dobbiamo cambiare» chiamando tutti a contribuire, a essere realistici e flessibili. In ballo qui a Copenaghen, ci sono «le speranze dell'umanità».

«Il tempo è scaduto, è arrivato il momento di unirci», ha detto il capo negoziatore per l'Onu, il segretario generale della Convenzione sui cambiamenti climatici Yvo de Boer alla cerimonia di apertura del maxi vertice sul clima a Copenaghen. «Abbiamo 6 giorni per definire l'accordo prima che arrivino i ministri e poi solo una manciata di ore prima dell'arrivo dei capi di stato. Il tempo è finito. È ora di essere uniti, di trasformare gli accordi in azioni reali e pensare ai milioni di bambini nel mondo», ha sottolineato.

Da parte sua premio nobel Rajendra Pachauri, presidente del panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), ha respinto i tentativi di screditare il lavoro degli scienziati Ipcc sul clima intervenendo in merito al cosiddetto «climagate» sulle mail rubate in base alle quali gli scienziati avrebbero «corretto» in peggio i dati sul cambiamento climatico. Pachauri ha parlato di un tentativo di screditare un lavoro «trasparente e obiettivo» svolto su più di 21 anni con dati provenienti da tutto il pianeta e registrati da tantissimi organismi scientifici indipendenti. Pachauri ha quindi richiamato all' azione targando il vertice come «storico» e ha ricordato la responsabilità della comunità globale.

Intanto sul fronte dei paesi a economie emergenti, che rappresentano l'osso duro da convincere, arrivano novità. India, Cina e Brasile hanno infatti raggiunto un accordo di massima per operare insieme nel negoziato sui tagli alle emissioni di CO2 durante il Vertice di Copenaghen, ha rivelato a New Delhi il ministro per l'Ambiente indiano, Jairam Ramesh. Dal canto suo il Sudafrica ha dichiarato la disponibilità a rallentare del 34% entro il 2020 e del 42% entro il 2025 la crescita delle emissioni dei gas serra, a patto che ciò avvenga nel quadro di un accordo internazionale e di aiuti finanziari e tecnologici da parte dei paesi più sviluppati.
Ad aprire il vertice un video shock con protagonisti i bambini mentre il Wwf ha allestito due porte, una rossa che rappresenta la febbre del Pianeta e una verde, che significa fuori dalla crisi e per tutti i delegati che passavano ovviamente sotto la porta verde un timbro sulla mano per il voto per la Terra.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Obama cambia la strategia anti-crisi: i fondi per le banche destinati al lavoro

07 Dicembre 2009 21:51 – Il Sole 24 Ore
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Obama cambia la strategia anti-crisi: i fondi per le banche destinati al lavoro
Da aiuti alle banche a fondi per il rilancio del mercato del lavoro ancora sotto forte pressione. Il presidente americano Barack Obama si preparerebbe ad annunciare - secondo indiscrezioni - un'inversione di rotta per il Tarp (Troubled Asset Relief Program): creato per salvare gli istituti di credito dalla crisi subprime, il piano da 700 miliardi di dollari varato dall'ex segretario al Tesoro Henry Paulson cambia ora obiettivo. Le risorse disponibili nell'ambito del progetto saranno probabilmente utilizzate per sostenere l'occupazione. E questo a dispetto di molti parlamentari ed economisti, convinti che i fondi risparmiati dovrebbero essere utilizzati per affrontare l'altro nodo che affligge l'economia americana: il debito.

Intervenendo al Brooking Institute domani in mattinata, Obama dovrebbe annunciare la nuova strategia dell'amministrazione per il rilancio del mercato del lavoro: nonostante il rallentamento della perdita di posti di lavoro, il tasso di disoccupazione resta elevato, pari al 10%. Il segretario al Tesoro Timothy Geithner stima che circa 175 miliardi di dollari saranno restituiti entro la fine dell'anno dalle banche che hanno ricevuto aiuti dal Tarp. La cifra - riporta il Financial Times - include i 45 miliardi di dollari di Bank of America. È possibile che anche Citigroup riesca a restituire i 20 miliardi di dollari incassati: la banca guidata da Vikram Pandit ha appena 10 giorni di tempo per varare l'aumento di capitale necessario a ripagare gli aiuti ricevuti dal governo statunitense. L'alternativa, per la banca di cui il Tesoro ha in mano il 34%, è aspettare oltre un mese. Secondo indiscrezioni, il Tesoro avrebbe deciso mantenere i propri 7,7 miliardi di azioni in Citigroup fino a che i 20 miliardi di dollari non siano stati restituiti: una decisione dettata dalla necessità di non indebolire la domanda di potenziali investitori per portare a termine il necessario aumento di capitale per dare indietro gli aiuti pubblici. La nuova destinazione dei fondi sembrerebbe confermata dalla riduzione delle stime dei costi di lungo termine del Tarp di circa 200 miliardi di dollari. Secondo il Wall Street Journal, i costi in 10 anni del Tarp saranno pari a 141 miliardi di dollari contro i 341 miliardi stimati inizialmente e questo sarebbe dovuto al fatto che le banche hanno restituito prima del previsto i fondi ricevuti. Dei 370 miliardi di dollari prestati alle banche dall'inizio della crisi, il Dipartimento del Tesoro prevede perdite per soli 42 miliardi di dollari.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

A NOVEMBRE L'AMERICA HA PERSO 255.000 POSTI, NON 11.000. QUALCUNO MENTE?

08 Dicembre 2009 00:10 NEW YORK - di WSI
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Dati del governo sballati? La tendenza a stravolgere le letture preliminari ha visto un picco a settembre e ottobre, con una revisione al ribasso di 203.000 posti di lavoro. Si tratta di un peggioramento del 45% rispetto ai risultati preliminari.
Dimenticatevi delle cifre ufficiali rese note dal governo, una societa' di ricerca sostiene che i numeri di novembre sono in realta' molto peggiori di quelli pubblicati sulle pagine di tutti i giornali del mondo.

L'economia statunitense ha perso 255.000 posti di lavoro il mese scorso, e non 11.000 come i dati ufficiali vogliono far credere. Secondo gli analisti di TrimTabs, che basa i suoi calcoli sulle tasse depositate quotidianamente dai contribuenti americani, i risultati del mese passato mostrano dunque un miglioramento di un misero 10.2% rispetto ai 284.000 posti persi in ottobre.

Il Bureau of Labor Statistics (BLS) ha riportato invece che l'economia americana ha perso 11.000 posti in novembre, una cifra risultata decisamente migliore delle stime e che ha innescato una corsa agli acquisti sul mercato azionario venerdi' scorso. Inoltre il BLS ha rivisto i dati di settembre e ottobre in ribasso, a quota 203.000 posti. Si tratta di un peggioramento del 44.5% rispetto ai risultati preliminari.
Qualcosa non torna. O i risultati di BLS sono sbagliati, o lo sono quelli pubblicati sopra, o la verita' sta nel mezzo. La cosa piu' probabile e' che il BLS stia sottostimando colpevolmente le perdite di posti di lavoro, a causa di una imperfetta metodologia per la raccolta dati.

Tra i difetti si possono citare diversi elementi, tra cui le correzioni stagionali troppo rigide, un misterioso aggiustamento basato sulle variazioni del rapporto tra nascite e decessi e il fatto che solo il 40%-60% dei sondaggi condotti dall'ufficio di statistica Usa sia completato prima della presentazione dei primi dati preliminari e che esso sia soggetto a successive revisioni.

A risultare particolarmente problematiche sono le correzioni stagionali sotto il periodo delle festivita', a causa dell'ampio numero di lavori temporanei che vengono aggiunti alla lista ufficiale in ottobre e novembre e che sono spesso destinati a scomparire in gennaio.

Negli ultimi due mesi le correzioni stagionali hanno sottratto 2.4 milioni di posti ai risultati di partenza. In gennaio, quando tali aggiustamenti sono solitamente i maggiori dell'anno, l'ufficio di statistiche aggiungera' da 2 a 2.3 milioni di posti di lavoro.

Il tentativo di raccogliere i dati piu' accurati possibili e tutte le indicazioni a disposizione, in modo tale da misurare ogni mese le perdite di posti di lavoro nell'ordine delle decine di migliaia o persino delle centinaia di migliaia, non ha piu' valore se si perde nel mare di correzioni stagionali, che finiscono per avere un impatto eccessivo.

Nei dodici mesi conclusisi a ottobre, il BLS ha rivisto le stime sui tagli al personale in rialzo o in calo di 679.000 posti, ovvero il 13%: una cifra enorme. Queste revisioni hanno fatto si che la differenza rispetto alle stime di TrimTabs si sia ristretta ad un paio di punti percentuali.

L'enorme divergenza tra i due risultati di novembre apre una serie di quesiti, primo fra tutti: qual e' la causa a monte di una tale disparita'. La risposta non e' facile da dare e non puo' essere trovata subito con le informazioni a nostra disposizione, ma raccoglieremo altri dati per fornirne una valida. E' una promessa.

 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

 

 

  Ben Bernanke e la macchina frigorifera

09 Dicembre 2009 01:38 MESSINA - di Leon Zingales*

*Leon Zingales e' collaboratore di WSI. PhD in Fisica, Dipartimento di Matematica, Università di Messina, gestisce anche il bel blog IlCignoNero e che ringraziamo.

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In Fisica bisogna rispettare il principio di causalità: il futuro non può influenzare il presente. In Economia il vincolo della freccia del tempo scompare: il futuro influenza il passato poiché è possibile creare un flusso dell’energia monetaria attraverso la creazione del debito.

Mancando la comprensione di questo concetto base, vengono fuori teorie macroeconomiche prive di ogni evidenza sperimentale. La dinamica dei processi economici non può essere compresa pensando che in ogni istante l’energia monetaria deve essere costante. Non è infatti un caso che sovente si osserva un contemporaneo aumento (o analogamente una sincrona diminuzione) di tutti gli asset e di conseguenza viene a cadere il postulato della diversificazione del portafoglio.

Mentre in Fisica il principio di conservazione dell’Energia (ovviamente inteso in senso relativistico) deve essere valido in ogni istante, in Economia il principio di conservazione rimane valido soltanto integrando sulla variabile tempo. In altre parole, in un certo istante si può creare energia (prendendola in prestito dal futuro indebitandosi) ma nel contempo in un altro istante la somma dei contributi energetici dei processi economici deve essere negativa come conseguenza della restituzione del debito. In un sano sistema economico questa oscillazione tra presenza di sorgenti (creazione di energia prendendo in prestito energia monetaria dal futuro) e pozzi (restituzione del debito) è foriera di sviluppo consentendo un processo di creazione di ricchezza.
Il futuro in un dinamico gioco presta energia al passato per poter essere realizzato in modo migliore; il dramma si ha quando il passato, posseduto da un’insana avidità e sguazzando in un’orgia di debiti, rifiuta di restituire energia creando una bolla a spese di ulteriori prestiti dal futuro.

Nella dinamica Hamiltoniana, energia e tempo sono variabili coniugate. In virtù di tale relazione, dall’omogeneità del tempo (invarianza per traslazione temporale) discende il principio di conservazione dell’energia in un sistema chiuso. Per analogia con la Fisica, la non conservazione dell’energia monetaria è intrinsecamente connessa con la non omogeneità del tempo in economia. Questo è il mutamento epistemologico che consente di comprendere in una luce nuova inflazione e deflazione.

L’inflazione è un fuoco distruttore (chiaramente quando supera una soglia tollerata e forse anche necessaria) che accelera il tempo, incrementa la velocità con cui avviene qualsiasi processo economico. Viceversa la deflazione è associata ad un rallentamento della scala temporale e come conseguenza aumenta il valore del debito. L’inflazione riscalda liquefando i debiti ma anche il potere d’acquisto (e quindi distrugge i risparmi), la deflazione ghiaccia il debito accumulandolo e condensa il risparmio in una staticità mortale.

La politica di Bernanke di coniare moneta attraverso il processo di Quantitative Easing evitando nel contempo l’incremento della massa M1 presente nel mercato reale ha effettuato una segregazione tra il sistema finanziario (in iperinflazione) e l’economia reale (in deflazione). Le scale temporali con cui si evolvono i due sistemi sono ormai divergenti. Il sistema finanziario sta aumentando la temperatura, mentre l’economia reale è in fase di congelamento.

Il Quantitative Easing ha funzionato da macchina frigorifera che sta raffreddando sempre più il sistema reale rubandogli energia che procede a riscaldare ulteriormente il sistema finanziario. I sistemi sono per ora tenuti incollati dall’incremento del debito pubblico (malgrado consideri gli USA come l’esempio più eclatante, con particolari specificità la medesima situazione sta ormai avvenendo anche in Europa e Giappone), ma ciò determina un circolo vizioso che aumenta la velocità con cui avviene lo spostamento di energia dal sistema a scala temporale rallentata (l’economia reale) verso il sistema con tempo accelerato (l’economia finanziaria).

Il crescente deficit pubblico sta solo temporaneamente rallentando gli effetti deflattivi, ma al più presto le ricadute saranno drammatiche. Il sistema nel suo complesso è entrato in una fase di assoluta instabilità. In tale ambito una qualsiasi perturbazione, seppur piccola, potrà avere effetti fortemente destabilizzanti.

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

  Sabato 12 Dicembre 2009   Lunedì 14 Dicembre 2009   Martedì 15 Dicembre 2009  
       
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Debito, Draghi: governi diano piani rientro credibili

mercoledì, 9 dicembre 2009 - 21:09 ROMA - ANSA
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I mercati rimangono "insolitamente" vulnerabili agli shock e i governi devono comunicare in modo "credibile" i propri programmi di medio termine per ristabilire la sostenibilità del debito.
Per quanto sia "troppo presto per ritirare il sostegno pubblico all'economia non è infatti troppo presto per progettare exit strategy".
E' quanto sostenuto da Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, membro del Consiglio Bce e presidente del Financial Stability Board, in un intervento a Bonn nell'ambito del congresso del Ppe, dopo il peggioramento del rating sul debito della Grecia da parte di Fitch e la revisione a negativo da stabile dell'outlook della Spagna da parte di S&P's.
"Le condizioni dei mercati sono migliorate considerevolmente ed è ritornata la fiducia nel sistema finanziario. Tuttavia la reazione dei mercati ai recenti problemi finanziari di Dubai ci rammenta che essi rstano insolitamente vulnerabili alle turbolenze", ha esordito Draghi.
I mercati dovranno rifinanziare nel prossimo futuro livelli più elevati di debito di minore qualità media e con una ridotta tolleranza alla leva finanziaria. Tale pressione di assorbimento potrebbe portare a costi di raccolta più elevati e accrescerne la volatilità.
"Pertanto è ormai ora che le istituzioni e le società finanziarie si impegnino attivamente ad allungare il proprio profilo di debito e a fare ricorso ai mercati globali in modo ordinato, visto il rischio che possano altrimenti essere costrette a farlo a condizioni meno attraenti".
I governi, in particolare, "devono comunicare in modo credibile i propri programmi di medio termine per ristabilire la sostenibilità del debito, al fine di limitare la pressione al rialzo dei costi di raccolta e mantenere il pronto accesso ai mercati globali", ha aggiunto Draghi sottolineando come questo sia importante anche per evitare effetti avversi di un contagio al resto del sistema finanziario visto "il loro cruciale ruolo di riferimento".
Per quanto sia troppo presto per ritirare il sostegno pubblico all'economia non è infatti troppo presto per progettare exit strategy, ha aggiunto il governatore al suo discorso a braccio, dopo che giovedì scorso la Bce ha esposto la prima fase del programma di graduale ritiro dei miliardi di euro di extra finanziamenti al sistema pur mantenendo i tassi al minimo dell'1%.

NON E' TROPPO PRESTO PER INIZIARE A PROGETTARE EXIT STRATEGY

"Al momento è troppo presto per iniziare a ritirare il sostegno pubblico. Ma non è però troppo presto per iniziare a progettare le nostre exit strategies. E estremamente importante rassicurare il pubblico che i governi e le banche centrali sono impegnate ad assicurare la stabilità dei prezzi e la sostenibilità delle finanze pubbliche, e che sono pronti ad agire con decisione appena le condizioni economiche lo permetteranno".
Per Draghi è fondamentale procedere alla riduzione del moral hazard posto dalle istituzioni troppo grandi per fallire e il Fsb sta valutando il modo per ridurre le probabilità e l'impatto del fallimento delle istituzioni sistemiche con l'obbiettivo di stabilire un più stretto legame tra requisiti patrimoniali e di liquidità e i costi e gli effetti di contagio al sistema.
Un secondo approccio riguarda il miglioramento della capacità di risoluzione attraverso lo sviluppo di schemi di riferimento credibili strutturati in modo da consentire la continuità operativa delle attività principali della banca fallita. Il terzo approccio è incentrato sul rafforzamento dei mecati e delle infrastrutture finanziarie al fine di ridurre i rischi di contagio. Tale approccio prevede anche il trasferimento dei derivati Otc (Bruxelles: OTCB.BR - notizie) su piattaforme di scambio o di compensazione centralizzate.
"Il moral hazard impone ai contribuenti pesanti oneri futuri e rappresenta una grave minaccia alla salvaguardia di un sistema basato sul mercato", ha ammonito il governatore.
Per quanto riguarda le remunerazioni dei manager "è fondamentale che le autorità agiscano collettivamente con determinazione se vogliono dissipare la speranza [dei manager] che tutto possa tornare come prima".

 

Fonte - ANSA

 

 

La settimana, 11/12/2009

Friday, 11 December, 2009 at 11:47 - by phastidio
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La settimana è stata caratterizzata dai timori sullo stato delle finanze pubbliche, e più in generale sui rischi di deterioramento dei conti pubblici nei paesi periferici dell’Unione europea. Lunedì 7 dicembre l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha posto in creditwatch negative, cioè sotto osservazione con implicazioni sfavorevoli, la qualità del debito sovrano della Grecia.
Entro i prossimi 60 giorni, in assenza di misure “sufficientemente aggressive” da parte del governo di Atene per assicurare la flessione del deficit, il rating potrebbe subire un downgrade di un livello, a BBB+, peraltro già adottato dall’agenzia Fitch. La criticità deriva dal fatto che attualmente la Banca centrale europea consente di utilizzare titoli di stato a garanzia di finanziamenti fino al limite di rating dell’investment grade, ma questa è misura temporanea da ricondurre alle iniziative straordinarie per contrastare la crisi. Se dovesse essere ripristinato il rating minimo precedentemente in vigore (singola A), le banche greche perderebbero l’accesso ai finanziamenti della Bce.
Anche la Spagna è stata posta da S&P in negative outlook; il Cancelliere dello Scacchiere britannico, Alistair Darling, che ha presentato un progetto di budget che rinvia la riduzione sostanziale del deficit dopo il 2010, anno in cui si svolgeranno le elezioni generali, ed il mercato ha punito pesantemente i Gilt, vendendoli. Mentre i timori sulle reali condizioni di indebitamento delle finanziarie del Dubai riaffiorano periodicamente, le banche britanniche coinvolte (in particolare Standard Chartered) ribadiscono di avere un’esposizione netta molto contenuta.

Sul mercato dei cambi, yen e dollaro hanno recuperato contro euro, vuoi per la ripresa di avversione al rischio che sta caratterizzando il recente periodo (pur in assenza di segnali concordanti in tal senso da parte di indici di volatilità come il VIX), sia per i timori sulle condizioni dei paesi periferici dell’Euro Area, che pesano sulla valuta unica europea. Nel periodo si è poi assistito ad un ripiegamento delle quotazioni di oro e petrolio. Se nel caso del petrolio l’indebolimento appariva già in atto anche durante il periodo di maggior debolezza del dollaro, nel caso dell’oro sembra suggerire un temporaneo disimpegno da alcune posizioni di carry trade, nelle quali cioè ci si indebita in dollari per acquistare oro.
Dal versante degli interventi pubblici globali a sostegno della congiuntura il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha annunciato misure di stimolo alle piccole e medie imprese e la creazione di un programma di sussidi pubblici per la ristrutturazione a risparmio energetico delle abitazioni, già ribattezzato “cash for caulkers“. In Giappone il governo ha annunciato l’ennesimo pacchetto di stimolo, mentre la stima finale del Pil del terzo trimestre è stata fortemente ridimensionata (da 4,8 a 1,3 per cento annualizzato), con una forte revisione al ribasso dell’investimento aziendale ed un’aggravamento delle condizioni di deflazione del paese.

Tra i principali dati macro, deludono ordini di fabbrica e produzione industriale tedesca di ottobre, entrambi in contrazione mensile a fronte di attese di variazioni positive, mentre il dato di bilancia commerciale statunitense di ottobre ha evidenziato una riduzione del deficit, grazie all’espansione delle esportazioni e ad importazioni la cui crescita complessiva è stata frenata dalla riduzione dei volumi di greggio importato. Al termine della settimana i mercati hanno ritrovato positività anche da una serie di dati cinesi, che mostrano un andamento ancora sostenuto della produzione industriale ed una riduzione del surplus di bilancia commerciale, che confermerebbe lo sforzo di conversione del sistema economico cinese verso lo stimolo della domanda interna. Particolarmente robusto anche il dato relativo alle vendite al dettaglio statunitensi di novembre, che ha riacceso la speranza che la Christmas shopping season possa essere salvata.
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Fonte - www.macromonitor.it

 

 

 

Dopo la crisi: per la sostenibilità fiscale serviranno comunque più tasse?

December 11th - di Mario Seminerio
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Mercoledì il governo irlandese ha presentato la manovra di bilancio per il 2010 del paese europeo finora più colpito dalla crisi finanziaria globale. E’ utile analizzare da vicino gli interventi previsti dal governo di Dublino perché il prossimo anno si presenta come particolarmente impegnativo per i governi, che dovranno tentare di recuperare un sentiero di disciplina fiscale in un contesto di crescita economica che, pur se in ripresa, non appare particolarmente vigorosa, e renderà quindi tutto più difficile.

Inoltre, la difficile situazione economica della Grecia e di altri paesi periferici dell’Unione europea, potrebbe innescare un effetto-contagio di cui anche l’Italia finirebbe col fare le spese, in quanto anello debole della catena europea, per l’elevata incidenza del debito sul Pil e l’assai ridotta capacità di sviluppare crescita economica mostrata nel recente passato. In questo senso l’Irlanda, che finora ha mostrato grande determinazione e sorprendente accettazione sociale delle misure di austerità intraprese, potrebbe essere il precursore di ciò che ci aspetta.

Il governo di Dublino, nella manovra approvata ieri (la terza in 14 mesi), ha scelto di focalizzarsi più sui tagli di spesa che sugli incrementi di entrate, peraltro già adottati nei mesi scorsi attraverso una serie di aumenti d’imposta sul reddito delle persone fisiche. Tra i tagli, spicca la riduzione delle retribuzioni nominali dei pubblici dipendenti, calibrati in funzione del reddito. Gli stipendi saranno ridotti del 7,5 per cento sui primi 40.000 euro, del 10 per cento sui successivi 55.000 euro. Oltre i 95.000 euro di retribuzione il taglio sarà del 15 per cento. Questa marcata progressività servirà in parte a ridurre il malcontento per una manovra che non esenta dai sacrifici neppure i redditi più bassi, visto che sotto i 30.000 euro il taglio sarà comunque del 5 per cento.

Previsti anche tagli al generoso sistema irlandese di welfare, con riduzioni del 4 per cento ai trasferimenti, e di 16 euro al mese per i figli a carico e tagliato il sussidio destinato ai giovani di meno di 25 anni che cercano impiego. I non residenti di passaporto irlandese dovranno comunque pagare una sovraimposta di 200.000 euro annui sui redditi superiori ad 1 milione di euro, misura subito ribattezzata Bono Tax, dal nome del leader degli U2. Sul versante fiscale, dopo che negli scorsi mesi sono state aumentate le imposte sulle proprietà immobiliari (un po’ tardivamente, come sempre quando i governi si compiacciono troppo della crescita causata da bolle), un po’ di stimolo al prostrato settore delle costruzioni verrà dall’introduzione degli acquirenti della prima casa, che avranno una scadenza per poter beneficiare delle deduzioni d’imposta sugli interessi sui mutui. Si è inoltre deciso di ridurre l’Iva al 21 per cento, e di tagliare le accise sugli alcoolici. Introdotta anche l’ormai classica rottamazione delle auto, con un beneficio fiscale di 1500 euro. Per fare cassa dal versante delle entrate verrà poi introdotta una carbon tax sui carburanti che aumenterà il prezzo di benzina e diesel ripettivamente di 4 e 5 centesimi il litro.

Nel complesso si tratta di misure piuttosto severe, quelle stesse che ad esempio la Grecia non è mai riuscita ad introdurre, a causa di crescenti tensioni sociali. Al momento neppure l’Irlanda è riuscita a toccare le pensioni, non tanto in termini di requisiti di pensionabilità quanto di indicizzazione ai salari dei lavoratori in attività, che quindi richiederebbero un taglio delle pensioni dei pubblici dipendenti che non è avvenuta.

Ci attendono mesi difficili: il perseguimento di condizioni di stabilizzazione fiscale richiederà manovre molto pesanti. Il ricorso alla leva fiscale punitiva per alcune categorie di lavoratori colpiti da forte riprovazione sociale (come i bankers, che vedranno i loro bonus falcidiati da sovrattasse dichiarate una tantum), pur trovando giustificazione nel determinante sostegno pubblico alle banche, è destinato a raccogliere relativamente poco gettito. Se poi pensiamo alla situazione di un paese come l’Italia, appare evidente che gran parte delle misure irlandesi sono impraticabili, non solo e non tanto per le resistenze che ne scaturirebbero, quanto per il fatto che il nostro welfare, dopo lustri di crisi fiscale, è già ridotto ai minimi termini.

Ma a qualcosa occorrerà pensare, soprattutto se il nostro paese, al momento della ripresa, confermerà di avere una crescita potenziale estremamente ridotta, a causa della rigidità del mercato del lavoro e dell’assenza di liberalizzazioni nel mercato dei servizi e delle professioni.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

Quella sovranità della moneta in mani private

12 Dicembre 2009 01:14 MILANO - Il Giornale
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Abbiamo ricominciato a tremare per le banche. Abbiamo ricominciato a tremare addirittura per gli Stati, a rischio di fallimento attraverso i debiti delle banche. Si è alzata anche, in questi frangenti, la voce di Mario Draghi con il suo memento ai governanti: attenzione al debito pubblico e a quello privato; dovete a tutti i costi farli diminuire. Giusto. Ma l’unico modo efficace per farli diminuire è finalmente riappropriarsene. Non è forse giunta l’ora, dopo tutto quanto abbiamo dovuto soffrire a causa delle incredibili malversazioni dei banchieri, di sottrarci al loro macroscopico potere?

Per prima cosa informando con correttezza i cittadini di ciò che in grande maggioranza non sanno, ossia che non sono gli Stati i padroni del denaro che viene messo in circolazione in quanto hanno delegato pochi privati, azionisti delle banche centrali, a crearlo. Sì, sembra perfino grottesca una cosa simile; uno scherzo surreale del quale ridere; ma è realtà. C’è stato un momento in cui alcuni ricchissimi banchieri hanno convinto gli Stati a cedere loro il diritto di fabbricare la moneta per poi prestargliela con tanto di interesse. È così che si è formato il debito pubblico: sono i soldi che ogni cittadino deve alla banca centrale del suo paese per ogni moneta che adopera.

La Banca d’Italia non è per nulla la «Banca d’Italia», ossia la nostra, degli italiani, ma una banca privata, così come le altre Banche centrali inclusa quella Europea, che sono proprietà di grandi istituti di credito, pur traendo volutamente i popoli in inganno fregiandosi del nome dello Stato per il quale fabbricano il denaro.

Ha cominciato la Federal Reserve (che si chiama così ma che non ha nulla di «federale»), banca centrale americana, i cui azionisti sono alcune delle più famose banche del mondo quali la Rothschild Bank di Londra, la Warburg Bank di Berlino, la Goldman Sachs di New York e poche altre. Queste a loro volta sono anche azioniste di molte delle Banche centrali degli Stati europei e queste infine, con il sistema delle scatole cinesi, sono proprietarie della Banca centrale europea.

Insomma il patrimonio finanziario del mondo è nelle mani di pochissimi privati ai quali è stato conferito per legge un potere sovranazionale, cosa di per sé illegittima negli Stati democratici ove la Costituzione afferma, come in quella italiana, che la sovranità appartiene al popolo.

Niente è segreto di quanto detto finora, anzi: è sufficiente cercare le voci adatte in internet per ottenere senza difficoltà le informazioni fondamentali sulla fabbricazione bancaria delle monete, sul cosiddetto «signoraggio», ossia sull’interesse che gli Stati pagano per avere «in prestito» dalle banche il denaro che adoperiamo e sulla sua assurda conseguenza: l’accumulo sempre crescente del debito pubblico dei singoli Stati.

Anche la bibliografia è abbastanza nutrita e sono facilmente reperibili sia le traduzioni in italiano che i volumi specialistici di nostri autori. Tuttavia queste informazioni non circolano e sembra quasi che si sia formata, senza uno specifico divieto, una specie di congiura del silenzio. È vero che le decisioni dei banchieri hanno per statuto diritto alla segretezza; ma sappiamo bene quale forza pubblicitaria di diffusione la segretezza aggiunga alle notizie. Probabilmente si tratta del timore per le terribili rappresaglie cui sono andati incontro in America quegli eroici politici che hanno tentato di far saltare l’accordo con le banche e di cui si parla come dei «caduti» per la moneta.

Abraham Lincoln, John F. Kennedy, Robert Kennedy sono stati uccisi, infatti (questo collegamento causale naturalmente è senza prove) subito dopo aver firmato la legge che autorizzava lo Stato a produrre il dollaro in proprio.

Oggi, però, è indispensabile che i popoli guardino con determinazione e consapevolezza alla realtà del debito pubblico nelle sue vere cause in modo da indurre i governanti a riappropriarsi della sovranità monetaria prima che esso diventi inestinguibile. È questo il momento.

Proprio perché i banchieri ci avvertono che il debito pubblico è troppo alto e deve rientrare, ma non è possibile farlo senza aumentare ancora le tasse oppure eliminare alcune delle più preziose garanzie sociali; proprio perché le banche hanno ricominciato a fallire (anche se in realtà non avevano affatto smesso) e ci portano al disastro; proprio perché è evidente che il sistema, così dichiaratamente patologico, è giunto alle sue estreme conseguenze, dobbiamo mettervi fine. In Italia non sarà difficile convincerne i governanti, visto che più volte è apparso chiaramente che la loro insofferenza per la situazione è quasi pari alla nostra.

 

Fonte - Il Giornale

 

 

 

 

 

  Miliardi e miliardi di perdite occultate

13 Dicembre 2009 23:22 LUGANO - di Alfonso Tuor

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Sta affondando (in alcuni punti di ben un centimetro l’anno) l’isola di Dubai a forma di palma, ossia l’ultimo simbolo dell’enorme bolla creditizia che ha scatenato l’attuale crisi economica. Lo sprofondamento di Palm Jumeirah, destinata ad essere «riconquistata» dal mare, può essere considerata una metafora dell’attuale situazione economica. Il crack dell’Emirato ha infatti rammentato che l’enorme volume di indebitamento accumulato negli anni non ha subito erosioni. Anzi, in questi ultimi mesi è fortemente aumentato soprattutto come debito pubblico statale.

La questione non riguarda solo l’Emirato di Dubai o le finanze statali della Grecia (il cui debito è stato declassato dalle agenzie di rating), ma Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che quest’anno registreranno un deficit pubblico superiore al 10% del PIL, e persino il Giappone, dove per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale l’emissione di obbligazioni statali supererà l’intero gettito fiscale del Paese del Sol Levante.
Non sorprende che il rischio del debito torni ad pesare sui mercati finanziari, i quali si stanno lentamente risvegliando dal sogno nel quale tutto si sarebbe presto rimesso a posto. Non sorprende nemmeno che queste preoccupazioni non vengano più occultate dalle autorità monetarie. Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial Stability Board, ha infatti dichiarato che vi è un’enorme quantità di debito pubblico e privato destinata a venire a maturazione nei prossimi anni. Ad esempio – ha spiegato – «vi sono 4mila miliardi di dollari di debito privato di bassa qualità garantito da proprietà immobiliari; vi è poi l’enorme quantità di debito pubblico degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, dell’Italia, della Grecia, della Spagna, della Germania e così via». E ha concluso: «Considerando le migliaia di miliardi di debiti bancari, cui bisogna aggiungere il debito pubblico, se per varie ragioni i tassi di interesse dovessero salire, potrebbe materializzarsi un rischio per i debiti sovrani».

Tradotto in parole povere, se il costo del denaro dovesse cominciare a salire vi sarebbero rischi di nuovi fallimenti bancari e pure il rischio di insolvenza di alcuni Stati con conseguenti crisi valutarie. La montagna di migliaia di miliardi di debito, esorcizzata a partire dall’inizio di marzo dalle immissioni di liquidità delle banche centrali e dal rally delle borse, non è miracolosamente scomparsa (né del resto avrebbe potuto scomparire): oggi incombe non più solo sul sistema finanziario, ma sulle obbligazioni statali e sulla solidità delle valute. Dunque l’enorme dispendio di risorse pubbliche per salvare il sistema bancario, ossia il trasferimento ai contribuenti delle ingenti perdite accumulate dal sistema finanziario, potrebbe avere come risultato solo quello di aver fatto guadagnare un po’ di tempo.

Anche la tanto decantata ripresa dell’economia assomiglia più ad un’illusione che alla realtà. Gli interventi di Governi e banche centrali hanno frenato il ritmo di contrazione dell’economia e hanno permesso una stabilizzazione a bassi livelli dell’attività produttiva. Ma ora emergono i primi segnali di una possibile ricaduta in recessione. Essi provengono dal Giappone, dove il Governo ha dovuto varare un nuovo piano di stimolo fiscale da 83 miliardi di dollari; dagli Stati Uniti, dove l’indice del settore più importante dell’economia, quello dei servizi, segnala una contrazione dell’attività e dove il presidente Obama ha annunciato un piano da 200 miliardi per la creazione di nuovi posti di lavoro, al fine di combattere una disoccupazione che ufficialmente si aggira attorno al 10%, ma che in realtà supera il 16%.

Anche in Europa vi sono segnali non incoraggianti. Ad esempio, in ottobre è diminuita la produzione industriale tedesca, un dato che non parla certamente a favore di una solida ripresa. Il numero delle persone senza lavoro è destinato purtroppo a salire ulteriormente, poiché, come è accaduto in molti altri Paesi europei, il ricorso al lavoro ridotto ha rinviato le decisioni di licenziamento.

Dunque, come abbiamo sempre sostenuto, le misure di Governi e banche centrali non erano adeguate all’entità di questa crisi. Si è ipotizzato che ricreando la fiducia nel settore finanziario si sarebbero create le premesse per smaltire i miliardi e miliardi di perdite ancora nascosti nei bilanci delle banche (secondo il Fondo Monetario Internazionale le banche hanno finora denunciato solo la metà delle loro perdite), per ridurre l’enorme indebitamento che grava su famiglie, imprese e Stati e quindi per rilanciare l’economia. Invece dalla crisi è improbabile che si esca se non si affronta alla radice la realtà dell’enorme quantità di debiti inesigibili e delle perdite ancora nascoste nel sistema finanziario.

Non è quanto è stato fatto finora né quello che è prevedibile si faccia nel prossimo futuro, poiché l’opzione di ripartire dal rilancio dell’economia reale continua ad essere fortemente avversata dal sistema finanziario internazionale, il cui potere di influenza sulle scelte politiche non è affatto scemato, nonostante abbia contribuito a creare questa crisi.
 

Fonte - Il Fatto Quotidiano

 

 

 

 

  Venerdì 18 Dicembre 2009   Lunedì 21 Dicembre 2009   Giovedì 24 Dicembre 2009  
       
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  Lo stato di necessità di Obama

December 13th - di Mario Seminerio

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In un recente editoriale sul Washington Post, scritto con Dan Blumenthal, Robert Kagan assume una posizione critica verso l’atteggiamento di Barack Obama nei confronti delle potenze regionali (o aspiranti globali) della zona eurasiatica, Russia e Cina. In entrambi i casi, Kagan denuncia l’esistenza di una politica obamiana di accommodation (per non definirla più esplicitamente appeasement). Nei confronti della Russia, tale accomodamento si sarebbe realizzato nella accettazione della presenza di truppe di Mosca sul suolo georgiano e, soprattutto, nell’aver in qualche modo “tradito” le attese dei paesi dell’ex Patto di Varsavia, rinunciando al dispiegamento di postazioni fisse di missili intercettori.
Riguardo il rapporto con la Cina, Kagan è particolarmente indispettito dall’utilizzo, da parte di Obama, dell’espressione strategic reassurance. Secondo Kagan, questi annunci segnerebbero la fine dell’era della competizione tra grandi potenze. Lo stesso Obama, lo scorso luglio, ha dichiarato rispetto alla Cina che il perseguimento del potere non deve più essere “un gioco a somma zero”. Parole che coincidono con la teoria del mondo multipolare di Fareed Zakaria e che ben si prestano ad una lettura in chiave di accommodation. A nostro giudizio, questa posizione di Obama è più necessaria e necessitata che frutto di una reale scelta tra opzioni strategiche, e ciò a causa dell’indebolimento geostrategico che gli Stati Uniti hanno subito nell’ultimo decennio, a seguito dell’avventura irachena.

In Medio Oriente Washington necessita della cooperazione di Mosca per contenere l’Iran, pur continuando a non essere chiaro quanto durerà un regime come quello degli ajatollah, minato dalle fondamenta dalle proprie contraddizioni e da una crisi economica sempre più grave. Ma pur se su una parabola già discendente, il regime di Tehran ha trovato nuova linfa, nazionalistica e di leverage regionale, dal collasso iracheno provocato dagli stessi Stati Uniti. Analogo discorso per la Russia, che non ha più le risorse economiche e (soprattutto) demografiche per giocare un ruolo di potenza globale, ma può mettersi di traverso sul piano multiregionale in Europa ed Asia, e sta giocando le proprie carte nell’unico modo che le è consentito.

Tornando alla Cina, Kagan ritiene nell’ordine naturale delle cose che Pechino voglia assurgere al ruolo di dominus asiatico, e la sua crescita economica le fornisce carburante per alimentare questa aspirazione. Qui entra in gioco una valutazione di ordine soprattutto economico. Dalla grave crisi finanziaria che ha avuto il proprio epicentro negli Stati Uniti, la Cina ha appreso di dover cambiare il proprio modello di sviluppo, passando dall’export alla domanda interna. In coerenza con ciò, Pechino si muove per stimolare la domanda interna e divenire il traino della crescita economia della regione asiatica. Dietro la asettica categoria di “stimolo della domanda interna” si cela anche l’ammodernamento e l’ampliamento delle forze armate che Kagan denuncia con preoccupazione. Non vi è nulla di realmente nuovo nell’ascesa di una potenza economica, e la Cina sta seguendo quanto fatto nel Diciannovesimo e Ventesimo secolo dagli Stati Uniti.
Non vi è nulla che Washington possa realisticamente fare per invertire questo corso della storia, se non ricorrere alla tradizionale strategia duale di engagement e balancing. Kagan, che proprio sprovveduto non è, lo sa perfettamente, e cita gli esempi dell’ingresso della Cina nella WTO bilanciato dal rafforzamento della cooperazione militare col Giappone. Oppure lo sviluppo (anch’esso necessario e necessitato) della cooperazione economica e strategica con Pechino, promossa e perseguita dall’Amministrazione Bush, bilanciato dalla partnership strategica con l’India ed i rafforzati legami con Giappone, Singapore e Vietnam.

Non c’è nulla di realmente nuovo, se non il timore, di Kagan ed altri, che dietro la “dottrina” della strategic reassurance obamiana si celi il disimpegno e l’arretramento americano dal teatro asiatico, il baricentro mondiale del Ventunesimo secolo. Una simile accommodation si verificò nel Diciannovesimo secolo, quando la Gran Bretagna cedette agli americani l’egemonia sull’emisfero occidentale. Secondo Kagan, però, quella cessione di potere non era disfunzionale agli interessi del mondo libero. Per Kagan, “i leader britannici riconobbero gli Stati Uniti come un alleato strategico in un mondo pericoloso – come si è dimostrato vero nel corso del Ventesimo secolo”. Posizione piuttosto naïf, a nostro giudizio, perché sembra sottintendere che i britannici avrebbero ceduto di buon grado ricchezza e potere ad un soggetto emergente ideologicamente a loro affine. In realtà, quella cessione avvenne obtorto collo, per presa d’atto dello sfiancamento dell’Impero britannico, che era ormai overstrechted, e in quell’accomodation si celava il tentativo di ridurre i danni, fingendo una cooptazione che era una resa.

La Cina del Ventunesimo secolo non sarà il Regno Unito del Diciannovesimo, ma l’Impero americano è overstretched, indebolito da gravi errori strategico-militari e da una crisi finanziaria che sarebbero piaciuti a Edward Gibbon. Obama dovrà rimediare a queste debolezze, per poter recuperare leverage strategico nei teatri mondiali, segnatamente in Asia. Per farlo, è scontato e razionale che debba consentire (o meglio, che non possa impedire) alla Cina di aumentare la propria influenza, regionale e globale, senza che ciò significhi disarmo unilaterale ma anche senza pensare ad improbabili confrontation muscolari. Ma ad oggi, e dopo il discorso di accettazione del controverso premio Nobel per la pace (come in parte lo stesso Kagan riconosce), non c’è nulla che ci consenta di inferire che Obama sarà il commissario liquidatore del “benevolo” Impero americano del Ventesimo secolo.
Tutte le analisi che vanno in questa direzione, o che assimilano Obama ad un Re Tentenna che oscillerebbe tra irresolutezza declamatoria e scimmiottatura delle “eterne leggi” del neconservatorismo sono solo parte di una pubblicistica dozzinale che ammorba il nostro tempo.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

Il consumatore americano, nella corretta prospettiva

Sunday, 13 December, 2009 at 12:05 - by phastidio
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Venerdì 11 dicembre è stato pubblicato il dato di dicembre della survey sulla fiducia dei consumatori (consumer sentiment), elaborato dalla University of Michigan. La prima stima riporta un valore dell’indice di 73,4, a fronte di stime poste a 68,8 e di un dato di novembre pari a 67,4. Il miglior risultato da gennaio 2008, guidato dalla componente delle condizioni correnti, passata da 68,8 a 79,1, mentre l’indicatore delle condizioni future è cresciuto meno, da 66,5 a 69,7.
I mercati si sono sentiti rinfrancati dal dato, soprattutto rispetto alle prospettive dello shopping natalizio, ma qualche cautela è d’obbligo. In primo luogo, non esiste una traslazione automatica della fiducia dei consumatori in effettivi acquisti. Secondariamente, il balzo delle condizioni correnti sembra, analogamente allo scorso anno, in qualche modo legato agli sconti aggressivi praticati dei negozianti a partire dal Black Friday, che ha consentito anche di ridurre le aspettative di inflazione tendenziale tra un anno, da 2,7 a 2,1 per cento.

 

 

  Daily Trading Net Revenuens  
     
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  Daily Trading Net Revenuens  

 


Non si deve inoltre dimenticare che il crash del mercato immobiliare ha prodotto un “effetto-ricchezza” negativo sul consumatore, sia perché non è più possibile estrarre liquidità dal valore della proprietà immobiliare per mezzo dell’indebitamento, sia per l’innegabile percezione di impoverimento legata al crollo dei prezzi delle abitazioni. Da ultimo, ma forse è la motivazione più importante, con una condizione così difficile dell’occupazione (che non cresce, ma sta semplicemente riducendo di contrarsi, e viaggia verso la stazionarietà), è molto difficile immaginare il consumatore americano come abituale protagonista della ripresa.
Può essere quindi utile, per mostrare le cose nella corretta prospettiva, mostrare dove si trova oggi il consumer sentiment rispetto alla condizione attesa delle finanze personali, confrontandolo ad un orizzonte temporale decennale e cinquantennale. C’è inequivocabilmente ancora molta strada da percorrere.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

AMERICA: ARRIVERA' UNA GRANDE DEPRESSIONE IPER-INFLAZIONISTICA

15 Dicembre 2009 02:30 NEW YORK - WSI
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"Cio' che e' accaduto negli ultimi due anni, per colpa della Fed, fa da preliminare a un Grande Collasso, una Grande Depressione iper-inflazionistica" scrive John Williams di ShadowStats. Nulla sara' come prima.
WSI riporta parola per parola - senza commentare ne' avallarne le tesi, aspettando che lo facciano i lettori - quel che John Williams, gestore del popolare sito di contro-informazione economico-finanziaria ShadowStats, ha scritto nel suo ultimo rapporto pubblicato negli Stati Uniti.

Per via della politica della Federal Reserve messa in atto da Ben Bernanke (eredita' diretta dei molti anni di denaro a costo infimo decisa da Alan Greenspan) l'America si avvia verso un pauroso periodo di iper-inflazione.

"Le crisi in via di intensificazione, quella economica e quella di solvibilita', e le risposte negli ultimi due anni sia del'amministrazione Usa sia della Federal Reserve - scrive Williams - hanno esarcebato le questioni relative alla solvibilita' del governo e portato ai prossimi 5 anni la mia stima temporale relativa all'iper-inflazione, rispetto al range 2010-2018 stimato in un mio precedente rapporto. La Casa Bianca e la Federal Reserve hanno ormai scelto di impegnare il sistema in questa direzione, tramite la politica del denaro facile prestato a niente, tramite il servilismo nei confronti di poteri forti e denaro per interessi speciali, una grossolana cattiva gestione, e un deliberato continuo sforzo per minare il valore del dollaro. Di conseguenza, i rischi che la crisi da iper-inflazione scoppi entro il prossimo anno sono particolarmente alti".
"Quel che e' accaduto negli ultimi due anni fa da preliminare ad un Grande Collasso, una Grande Depressione iper-inflazionistica", continua Williams. "Cio' provochera' un collasso totale del potere di acquisto del dollaro, un collasso del normale flusso di attivita' economica e commerciale degli Stati Uniti, il collasso del sistema finanziario come lo conosciamo oggi, e un riallineameneto dello scenario politico americano. L'attuale situazione dei mercati finanziari, del sistema finanziario e dell'economia rimangono altamente instabili e vulnerabili a shock inaspettati".
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

La Cina è metà della crescita ma teme la grande bolla

18 Dicembre 2009 11:27 MILANO - a cura di Alberto Annicchiarico
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La Cina contribuirà per oltre la metà della crescita del Pil mondiale nel 2009 e continuerà ad essere il motore dell'economia mondiale anche nei prossimi anni. Lo ha detto il vice governatore della Banca del popolo di Cina, Zhu Min. L'economia dovrebbe crescere almeno dell'8% quest'anno, secondo le stime, dopo l'incremento del 7,7% registrato nei primi nove mesi e i successivi segnali di ulteriore miglioramento.
«Per la prima volta negli ultimi 50 anni, la crescita mondiale sarà trainata da un paese in via di sviluppo», ha detto Zhu ad una conferenza. «Il trend che vede l'Asia, in particolare la Cina, agire da motore dello sviluppo invece degli Stati Uniti e dell'Europa, continuerà», ha aggiunto, anche se «aumenterà la pressione dei paesi sviluppati per riguadagnare terreno e creare più occupazione nel settore manifatturiero avanzato. Sarà una grande sfida per l'industria cinese».
Ma non è tutto oro quel che luccica. Secondo l'ex chief economist di Morgan Stanley per l'Asia, Andy Xie, oggi analista indipendente, l'immobiliare e i mercati azionari in Cina sono una nuova grande bolla che scoppierà quando l'inflazione tornerà a correre nel 2011. In attesa di quel giorno gli indici sono scesi per il quarto giorno consecutivo (oggi -2,1% per il composite index di Shanghai), con uno scivolone per i titoli del mattone, provocato dai timori che il governo di Pechino stia per varare misure anti-speculazione.
L'indice composite di Shanghai quest'anno ha guadagnato il 71% mentre il 15 maggiori titoli sull'indice Msci China sono andati letteralmente in orbita: +90 per cento. «Siamo a una versione meno glamorous della bolla innescata dall'ex governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, e la storia finirà con la risalita dei prezzi», avverte Xie, secondo cui, tra l'altro, i prezzi delle azioni a Hong Kong sono sopravvalutati di circa il 30 per cento.
Quanto ai prezzi dell'edilizia residenziale sono reduci dalla maggior crescita mensile da luglio 2008: il carburante è stato gentilmente offerto dal pacchetto di stimoli governativi all'economia da 586 miliardi di dollari (in yuan fa più impressione ed è anche cifra tonda: 4mila miliardi).
La conferma arriva anche da altri addetti ai lavori: «Certo, l'inflazione preoccupa - ha spiegato a Bloomberg Mark Konyn, gestore di masse pari a circa 12 miliardi di dollari come Ceo di Rcm Asia Pacific - e sarà un tema forte nel 2010». Particolarmente preoccupata Zhang Xin, ceo di Soho China (proprietà disponibili per la vendità per un valore di 50 miliardi di yuan), secondo la quale il decollo dei prezzi nell'immobiliare è insostenibile, tranne che in grandi città come Pechino e Shanghai, dove la domanda giustifica le quotazioni. «Il governo - ha spiegato Zhang a Reuters - deve capire quanto sia grave la situazione, non può limitarsi a intervenire a parole. L'unica strada è una stretta del credito».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Martedì 29 Dicembre 2009   Mercoledì 30 Dicembre 2009   Giovedì 31 Dicembre 2009  
       
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  Perchè Copenhagen ha fallito

20 Dicembre 2009 15:19 Copenhagen - di Gianni Riotta

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Per capire davvero perché la Conferenza sul clima di Copenhagen è finita in un mesto zero a zero dovreste chiedere al presidente Bush padre quanto è difficile mettere d'accordo il mondo. Parlare di surriscaldamento del pianeta mentre gran parte dell'Italia e degli Stati Uniti sono sotto la neve e il gelo sembra bizzarro, ma è doveroso. Che l'inquinamento sia un pericolo è chiaro: dove ci dividiamo è sul che fare?

Copenhagen è fallita perché tutti i suoi attori hanno fallito. Gli scienziati per primi: anziché discutere e ragionare, con umiltà, sul rischio dei gas serra, si sono lasciati andare a trucchetti da propagandisti, rubacchiando e mail e dati, con il goffo risultato di rendere ancora più scettica la già cinica opinione pubblica. Né i negazionisti dell'effetto serra escono meglio, non guardano neppure la roccia dove un giorno c'erano i ghiacciai e sfuggono al dato del buon senso: nel dubbio è bene limitare i rischi.
Quando la parola, dagli attivisti che ormai, pro o contro, fanno caciara e non battaglia di idee, è passata ai leader politici, il circo Copenhagen ha dato il peggio. Tra riunioni, steering committes, caucuses, commissioni, pranzi e colazioni di «lavoro», s'è deciso di nulla decidere e di rinviare tutto al 2010, sperando in chissà che cosa.

E cosa c'entra il presidente Bush padre, il vecchio George Herbert Walker, direte voi? Fu lui il primo, caduto il muro di Berlino 20 anni or sono, a capire quanto è difficile il multilateralismo, mettere insieme la volontà di paesi grandi e piccoli, poveri e ricchi, di varie fedi, latitudini e interessi. Ci provò con la I guerra del Golfo, convocata con egida Onu per sloggiare Saddam Hussein dal Kuwait nel 1990-91, e vide la sua armata, davvero internazionale, europei (compresi italiani e tedeschi ritornati alle armi dopo il 1945), arabi, africani, vincere senza poter raccogliere i frutti della vittoria e il suo Nuovo Ordine Mondiale, venne irriso dai no global e detestato dalla destra Usa, fino all'attentato devastante di Oklahoma City 1995.

Clinton vagheggiò una «terza via» negli anni del boom, l'11 settembre costrinse Bush figlio all'unilateralismo che aveva fatto denunciare alla Rice sulla rivista Foreign Affairs solo nella primavera 2000. Ma l'America sola contro tutti, fallì a sua volta. Una serie di mediocri segretari all'Onu, Boutros Boutros Ghali, Kofi Annan e ora l'esangue Ban Ki Moon, hanno tolto al Palazzo di Vetro sull'East River rigore e autorità. Putin governa a Mosca con molto petrolio e scarsa forza morale. I cinesi hanno peso economico e crescente armatura militare ma non creano consenso. Noi europei parliamo con troppe voci e siamo al tempo stesso egoisti e «politically correct», diciamo no agli Ogm che servirebbero in Asia e Africa , ma non sappiamo rinunciare ai sussidi e ai dazi che tengono sotto i poveri. I nuovi bulli del quartiere Terra, i Chavez, gli Ahmadinejad, i caudillos dell'America Latina, il Sudan, e i loro cicisbei d'Occidente hanno un solo obiettivo, far sfigurare Washington, Israele e le democrazie, il resto non conta.

In questo caos sperare in un piano da tutti condiviso che limitasse a due gradi Celsius (è il livello proposto dagli scienziati seri, fidatevi ne esistono ancora) l'effetto serra non era generoso, era infantile. Che Copenhagen non andasse da nessuna parte era scontato - per chi si occupa di queste vicende senza propaganda né egoismo – dall'inizio. Ora gli europei si lamentano (come quasi sempre...), Obama si dice deluso ma non troppo, la Cina non permetterà a nessuno di controllare le sue emissioni (forse che a Manchester, durante la rivoluzione industriale inglese, qualcuno monitorava l'inquinamento? si chiedono ironici a Pechino). Il presidente americano ha snobbato l'Unione Europea e provato a metter d'accordo il club dei nuovi potenti, il presidente sudafricano Zuma, il premier indiano Singh, il premier cinese Wen Jiabao e il presidente brasiliano Lula. Non ce l'ha fatta.

Il dilemma del pianeta Terra che Copenhagen non ha saputo risolvere è semplice ma irriducibile. I paesi ricchi non sanno come mantenere il proprio standard di vita senza petrolio, i poveri non vogliono rinunciare alla crescita quando - dopo secoli di fame - è finalmente arrivato il loro turno.
Solo un ritorno al buon senso potrebbe rimettere d'accordo tutti. Dimettere le ipocrisie ricchi-poveri (ne parla Moises Naim a pagina 15), puntare sulle nuove tecnologie (tema affrontato da Gabriele Galateri sempre a pagina 15), investire nell'innovazione, capire che il prezzo del non fare sarà superiore a qualunque investimento. Puntare sulla tecnologia verde, sull'eco business, sul nucleare soft, su motori a petrolio con meno impatto ambientale può comprare tempo alla scienza per nuove direzioni di crescita.

Può darsi che abbia ragione il Nobel Stiglitz, convocato dal presidente Sarkozy un tempo super industrialista ma forse ammorbidito dalla bellissima signora Carla, e che il Pil e la ricchezza, non siano i soli segnali di felicità. Di certo la miseria resta segnale certissimo di infelicità, il Pil non basterà a tutto, ma dove langue ci sono più lacrime che sorrisi. Quanto al clima, scettici e creduloni, verdi e cinici, ricchi e poveri dovrebbero pensare a che cosa comporterà una migrazione di massa Sud-Nord dovuta a carestia e cambi climatici anche minimi: per esempio nel Sud del Mediterraneo.

Copenhagen ha fallito. In attesa del 2010 occorre continuare a lavorare per lo sviluppo, l'ambiente e un pianeta dove ci siano cibo, lavoro e ricchezza per tutti, dove le Maldive non siano sott'acqua e tonni, capodogli e calamari continuino a nuotare negli oceani mentre i bambini vanno a scuola e i genitori hanno un lavoro. Senza illusioni, senza disperare. 
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

LA CINA HA DETTO BASTA

lunedì 21 dicembre 2009 - Miaeconomia

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A prescindere dal considerare la moneta debito in sé o energia monetaria che si può prendere in prestito dal futuro (come credo io), tutti ormai concordiamo che il debito accumulato ha superato la soglia del non ritorno. L’aver accoppiato i bilanci pubblici con il sistema finanziario ha semplicemente ritardato la resa dei conti aggravandone la drammaticità nel momento in cui bisognerà onorare (o meglio non onorare) i debiti accumulati.
L’emissione dei nuovi debiti da parte degli stati nel 2009 (fonte Phoenix Project) è complessivamente stata di 5300 Miliardi di Dollari, l’80% dei quali concentrati nei tre paesi di cui più volte abbiamo parlato (USA,UK, Giappone). Non credo che nel 2010 la situazione potrà migliorare.
Paesi che uniscono al debito pubblico un enorme debito privato (soprattutto USA e UK) come rivela un report di Credit Suisse:
Finora la Cina ha messo una toppa alle falle che progressivamente si sono determinate (basti pensare la recente promessa d’acquisto del debito greco) ma ora si è stancata, soprattutto non vuole più comprare debito USA. Zhu Min, che non è un pinco pallino qualsiasi, ma deputy governor of the People's Bank of China ha ditto "The United States cannot force foreign governments to increase their holdings of Treasuries…Double the holdings? It is definitely impossible…The US current account deficit is falling as residents' savings increase, so its trade turnover is falling, which means the US is supplying fewer dollars to the rest of the world…The world does not have so much money to buy more US Treasuries." In parole povere, d’ora in poi scordatevi che aumentiamo la nostra esposizione nella vostra spazzatura (pardon, titoli di stato).
Tutti sanno, in un simile contesto, che continuare ad assegnare da parte di Moody’s la AAA (massimo rating) per il debito sovrano di USA ed UK ha la medesima credibilità dell’esistenza di Babbo Natale.
Pertanto chi pensa di poter valutare la solvibilità dei paesi più grandi in virtù dell’andamento dei CDS è un illuso. Un anno fa, il 31-12-2008, i CDS (costo annuo per assicurare un debito di 10000 Dollari) relativi ad USA, UK e Giappone erano rispettivamente 67,107 e 44. Oggi i CDS sono divenuti rispettivamente 34,80,66. Insomma, rispetto ad un anno fa, il debito sovrano USA è più sicuro (a prescindere dai 3000 Miliardi di Dollari di nuova emissione)
E’ eufemistico dire che l’andamento dei CDS è edulcorato ed è ormai divenuto indipendente dalla valutazione del rischio reale. Ormai i CDS in qualche modo rappresentano una speranza. In fondo è assolutamente comprensibile..passi per Grecia e Dubai, ma chi mai potrebbe assicurarsi contro il fallimento di USA, UK e Giappone? Un simile atto avrebbe il medesimo significato di puntare sulla propria morte (tra l’altro non avendo alcun erede).
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

Maxi fondo di emergenza per le economie asiatiche

27 Dicembre 2009 19:49 - ANSA
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Maxi fondo di emergenza per le economie asiatiche
Quattordici Paesi dell'Est e Sud-Est asiatico hanno firmato un programma per costituire un fondo di emergenza di 120 miliardi di dollari. Il piano è chiamato Chiang Mai Iniziative e il suo principale scopo è quello di dare vita a una rete di sicurezza che protegga da una crisi finanziaria. Giappone, Cina, Sud Corea, Hong Kong e i 10 membri dell'Associazione Paesi asiatici sud-orientali (Asean) saranno autorizzati a scambiare le rispettive valute in dollari Usa fino a un importo prestabilito.
«Gli obiettivi fondamentali del fondo Chiamg Mai sono di fronteggiare squilibri di bilancia dei pagamenti e di liquidità a breve nella regione e integrare gli attuali accordi finanziari internazionali», spiega un comunicato ufficiale. In pratica tamponare eventuali emergenze di liquidità in modo da prevenire lo scoppio di crisi finanziarie (come ad esempio quella che colpì l'area nel 1997-98). .
Il fondo dovrebbe entrare in funzione nel marzo 2010. Ma non si tratta di una versione locale del Fondo monetario internazionale. Nè tantomeno rappresenta il primo passo verso una forma di unione monteraria stile Ue. Tuttavia, come segnala il ministero delle finanze coreano, rappresenta un salto di qualità sul fronte della cooperazione internazionale nell'area. Un'area il cui sviluppo, condividono in molti, sarà cruciale nel trainare l'economia mondiale fuori dalla crisi.
 

Fonte - ANSA

 

 

 

Credito/2009: Banche e Governi a Caccia Di Capitali. Pmi Al Palo

giovedì, 31 dicembre 2009 - 11:41 - di ASCA
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L'anno 2009 si chiude con concreti segnali di ripresa del settore finanziario. Netto il miglioramento delle condizioni di salute delle banche Usa, vero epicentro della peggiore crisi finanziaria dal 1929. Proprio il mese di dicembre ha visto i big del settore, da Bank of America (NYSE: IKJ - notizie) a Citi, passando per Wells Fargo, annunciare il rimborso dei fondi pubblici ricevuti dal Tesoro per evitare la bancarotta. Nel complesso sui 245 miliardi di dollari che l'amministrazione Usa ha investito direttamente nel capitale delle banche ne sono rientrati gia' 90 miliardi. Lo stesso segretario Usa al Tesoro (NYSE: TSO - notizie) , Timothy Geithner ha spiegato che, in breve tempo, i rimborsi saliranno a 145 miliardi. Anche in Europa pieno successo degli aumenti di capitale delle banche con i quali sono stati restituiti i fondi ricevuti dai governi. Ne sono state protagoniste in primis le banche francesi, poi quelle britanniche, le piu' colpite dalla crisi e dove la presenza delle Stato resta rilevante anche dopo gli aumenti di capitale. In Italia, le banche hanno scelto tre strade: Tremonti Bond, aumenti di capitale, dismissioni. Dei Tremonti Bond, stanziamento iniziale 10-12 miliardi, ne hanno beneficiato Banco Popolare (Milano: BP.MI - notizie) (1,95 miliardi di euro), Monte dei Paschi (Milano: BMPS.MI - notizie) (1,9 miliardi), Banca Popolare di Milano (Milano: PMI.MI - notizie) (500 milioni), Creval (200 milioni). Hanno optato per gli aumenti di capitale Banca Carige (Milano: CRG.MI - notizie) (prestito convertibile da 400 milioni) ed Unicredit (Milano: UCG.MI - notizie) (4 miliardi di aumento di capitale). Sulle dismissioni ha invece puntat0 Intesa SanPaolo (Milano: ISP.MI - notizie) ( 1,75 miliardi gia incassati con la cessione del ''global custodian'' a State Street (NYSE: STT - notizie) , oltre all'emissione di 1,5 miliardi di bond assimilati a capitale). Piu' in generale, le ricapitalizzazioni bancarie hanno trovato terreno fertile grazie al ritorno del nero nell'ultima riga del conto economico. Profitti giunti soprattutto dal trading di tesoreria e del portafoglio di proprieta', dai prodotti strutturati (ex tossici) che hanno recuperato valore, dalle operazioni a leva. Bene (Vienna: BENE.VI - notizie) anche la voce commissioni alimentata proprio dagli aumenti di capitale, che spesso hanno visto la banca emittente anche nel consorzio di collocamento, un modo per pagare se stessi. Infine, un contributo e' giunto anche dal lato del taglio dei costi. Il rafforzamento del conto econonomico e' avvenuto di pari passo ai primi segnali di inversione positiva del ciclo economico. Nel 3* trimestre il Pil degli Usa e' salito del 2,2% su base annuale grazie al contributo di consumi interni ed exportazioni. Buone nuove anche dall'Eurozon dove, sempre nel 3* trimestre, il Pil e' salito dello 0,4% grazie al contributo dell'export e delle scorte. E per il 2010 si prevede crescita positiva sulle due sponde dell'Atlantico. Nonostante gli sforzi gia' compiuti e il miglioramento del quadro macroeconomico , il capitolo del rafforzamento del patrimonio bancario resta ancora aperto, nei fatti siamo a meta' del guado. Lo dicono i numeri della Bce, che ha aumentato le stime sulle svalutazioni del settore bancario dell'Eurozona per il periodo 2007-10. La nuova previsione porta il totale a 553 miliardi ( 198 miliardi in capo al portafoglio titoli e 355 miliardi in capo ai prestiti) di cui 187 miliardi ancora da contabilizzare. E lo continuano a ripetere Mario Draghi, presidente del Financial Stability Board, Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, Ben Bernanke, presidente della Fed. Molto dipendera' dagli sbocchi del dibattito in corso alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Da Basilea potrebbe uscire una definizione di capitale Tier 1 (patrimonio di primo livello) piu' stringente di quella attuale. Verrebbero esclusi gli strumenti ibridi (bond convertibili) limitandosi a considerare solo i mezzi propri in senso stretto (capitale azionario). Si discute poi di fissare livelli di capitale per ogni tipologia di business bancario: retail, investment banking, trading. Infine si lavora a mettere dei limiti all'aumento delle leva finanziaria. Tra i grandi ''cacciatori'' di capitali non solo banche ma ma anche stati sovrani. Negli Usa il deficit pubblico, per le misure anticicliche (700 miliardi a favore del sistema finanziario, 787 miliardi di stimoli economici), e' balzato ad oltre 1.400 miliardi constringendo il Tesoro ad emettere ben 2.100 miliardi di titoli di stato. Stessa musica nell'Eurozona dove, quest'anno, sono stati collocati titoli di stato per 951 miliardi di euro, il massimo storico dall'introduzione della moneta unica. Solo Italia, Francia e Germania hanno raccolto su mercato 600 miliardi di euro.Un fenomeno chiaramente alimentato dalla necessita' di mantenere la coesione sociale in tempi di vacche magre. Con la disoccupazione che viaggia a ridosso del 10%, non e' irrealistico pensare che anche il 2010 sara' caratterizzato da massicci collocamenti di titoli pubblici. Ci si chiede se resteranno risorse disponibili per finanziare le piccole e medie imprese, un importante universo economico del comparto manifatturiero, vera spina dorsale dell'economia dell'Eurozona. Si tratta di una moltitudine di operatori alle prese con cali a due cifre del fatturato e impellenti necessita' di finanziamento del capitale circolante. Al momento, gli ultimi numeri disponibili relativi al mese di novembre non sono incoraggianti. Rispetto al 2008, i prestiti alle imprese sono scesi dell'1,9%, una flessione tutta sulle spalle di quelle piccole e medie. Le grandi ''corporate'' non hanno sofferto alcun razionamento del credito, nel 2009 le emissioni di bond societari sono cresciute del 12,6%. Stesso copione per gli stati che hanno aumentato la raccolta di capitali del 13%. Nei fatti, il mercato del credito comincia a soffrire di un classico ''effetto spiazzamento'', dove le necessita' di finanziamento dei debiti pubblici riducono l'offerta di credito a disposizione delle Pmi. Cosi' lo Stato si presenta come un sorta di Giano Bifronte. Da una parte raccoglie capitali per mantenere la coesione sociale ma, nel fare questo,favorisce involontariamente la rendita finanziaria a scapito dell'economia reale.
 

Fonte - ASCA

 

 

 

 

 
 

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