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01 Dicembre
2009 |
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02 Dicembre
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Venerdì
04 Dicembre
2009 |
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Nessuno
può fermare i burattinai del credito
01 Dicembre 2009 22:06 MILANO -
di Giuseppe Turani
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La cosa più sconvolgente, arrivando a Dubai da un anno a
questa parte, è il parcheggio dell´aeroporto. Migliaia di
auto impolverate, sporche, che chiaramente sono lì,
abbandonate da molti mesi e che riempiono quasi tutti i
posti auto disponibili. Tanto alle migliaia di manager che
le hanno lasciate lì cosa importa più delle rate di leasing
ancora da pagare? E la finanza allegra parte dai leasing
sulle auto per finire ai grattacieli, alle centinaia di
palazzi nel deserto, spuntati come funghi negli ultimi dieci
anni e poi rivenduti ad investitori pollastri, in buona
parte cartolarizzati, impacchettati e finiti nelle mani di
chissà chi. Giovedì, con la dichiarazione di default della
principale holding di Dubai tre quarti del mondo è stato
preso alla sprovvista.
Ma dove erano prima? Dove erano in particolare le centinaia
di banchieri che hanno fatto prosperare quella che è stata
definita la bolla delle bolle? Lo capiva chiunque che una
cosa cosi artefatta e piena di sprechi sarebbe prima o poi
dovuta saltare per aria. Era più che evidente che i
finanziatori di quella follia avrebbero dovuto da tempo
correre a chiudere i rubinetti di quella follia. Ed invece
fino a tre giorni fa si faceva finta di nulla. Quando da
almeno un anno si sapeva che decine di palazzi erano vuoti,
che i mitici alberghi con le forme più strane erano vuoti.
Qui si potrebbe aprire una piccola parentesi sui mercati
finanziari che, di fronte alla notizia dei guai in arrivo da
Dubai, non trovano di meglio che precipitare del 3 per cento
(salvo Wall Street perché, per fortuna, stavano tutti a
mangiare il tacchino). Il giorno dopo tutto era già più
sereno. Ma la prova di isterismo che è stata data non può
certo contribuire al buon nome e alla rispettabilità delle
Borse mondiali, frequentate, oggi come un anno fa,
soprattutto da gente sempre sull´orlo di una crisi di nervi.
E quindi sempre sull´orlo di creare guai infiniti al
pianeta.
Ma qualcosa va detto anche sui banchieri, che avevano
finanziato l´operazione immobiliare andata in crisi in
Dubai. Probabilmente sono tornati ormai a essere talmente
ricchi (e quindi sicuri di se stessi) che non andavano in
Dubai da mesi, forse anni. Se ne stavano tutti quanti sui
campi da golf o in qualche suite d´hotel.
Non si spiega altrimenti quello che è successo. Avevano
finanziato una delle maggiori operazioni immobiliari del
mondo. L´immobiliare è in crisi nera da più di un anno e a
nessuno di loro viene in mente di chiedere qualche resoconto
laggiù a Dubai? E magari di preparare anche un piano di
allungamento del debito. Niente. Perché?
Londra e le altre capitali finanziarie sono tornate a essere
luoghi felici, in cui il denaro (nelle tasche dei banchieri)
scorre generoso, in cui le donne sono più belle di prima e
le banche luoghi assolutamente meravigliosi. A Londra i
prezzi delle case sono tornati a salire perché già si sente
odore di bonus natalizi (per i banchieri). E lo stesso sta
accadendo nelle altre capitali del denaro.
E allora perché perdere tempo a telefonare a quelli di
Dubai? Si faranno vivi loro. Ho chiesto a un banchiere
perché i suoi colleghi banchieri d´affari internazionali
sono così arroganti, sprezzanti, disinvolti, distratti al
limite del crimine. La risposta è stata semplice: perché
sono i padroni del mondo. Sono loro che decidono quale
azienda deve andare avanti e quale deve chiudere, sono loro
che indirizzano i governi su quel che c´è da fare (Goldman
Sachs nella City è chiamata «Government Sachs»), sono loro
che possono mettere sul tavolo milioni di dollari nel giro
di pochi minuti, in qualunque parte del pianeta. E quindi
fanno quello che vogliono.
Il problema, forse, non è più tanto quello di nuove regole
(che comunque alla fine non vengono rispettate) quanto
quello di spezzare questi colossi (che dalla crisi sono
usciti ancora più grossi e forti)di ridurli a una
dimensione più accettabile e meno pericolosa.
 |
Fonte -
La Repubblica |
REPORT DA ALLARME
ROSSO: MORGAN STANLEY PREVEDE CRISI DEBITO UK NEL
2010
01 Dicembre 2009 01:42 NEW YORK -
Telegraph online ______________________________________________
"La Gran Bretagna rischia di diventare il primo paese tra le
economie del G8 a rischiare una fuga di capitali e lo
scoppio fragoroso di una crisi sul debito sovrano nei
prossimi mesi" ha scritto ai clienti Morgan Stanley. Per la
banca americana c'e' il pericolo che un "miscela tossica di
problemi" arrivi al capolinea il prossimo anno, sull'onda
dei timori che Westminster non sia in grado di recuperare la
credibilita' fiscale.
Il rapporto di Morgan Stanley, intitolato "Tougher Times in
2010" (Tempi piu' duri nel 2010) reso pubblico ieri sera in
un articolo di Ambrose Evans-Pritchard pubblicato sul
Telegraph online, non e' legato in nessun modo alla debacle
del Dubai, ma e' un avvertimento sul fatto che le nazioni
hanno "semplicemente comprato tempo dutante la crisi,
ricorrendo agli stimoli fiscali e spostando le perdite
private sui bilanci pubblici".
"I salvataggi - per quanto necessari - non hanno risolto il
problema sottostante. Hanno fatto accumulare una seconda
serie di difficolta' degradando il debito sovrano dei paesi
di mezzo mondo", scrive Evans-Pritchard. Per quanto riguarda
Londra, si legge nel report di Morgan Stanley (preparato dal
team di investimento in Europa della banca composto da Ronan
Carr, Teun Draaisma e Graham Secker)
"i crescenti timori sul
Parlamento inglese spaccato a meta' peserebbero
negativamente sia sulla sterlina sia sul rendimento dei bond
UK, il che rappresenterebbe qualcosa di simile a un salto
nel buio, e aumenterebbe le probabilita' che qualcuna delle
agenzie di rating rimuova il rating AAA della Gran
Bretagna".
La Banca d'Inghilterra sarebbe costretta ad alzare i tassi,
mettendo a repentaglio la ripresa (UK e' l'unico paese
d'Europa ancora in recessione), la sterlina crollerebbe di
un altro 10% rispetto ad un paniere di valute ponderate in
termini di scambi commerciali, il che rappresenterebbe -
unito ai cali degli ultimi 2 anni - il peggior crollo del
pound dai tempi della rivoluzione industriale, superiore
perfino al -30% dai massimi, ai tempi in cui la Gran
Bretagna fu costretta a fuoriuscire dal Gold Standard
durante il caos economico del 1931.
Per Morgan Stanley, sempre secondo l'articolo del Telegraph,
questa catena di eventi farebbe schizzare i rendimenti sui
gilts UK di almeno 150 punti base. La borsa di Londra
andrebbe probabilmente bene, ma i costi dell'accesso al
credito salirebbero ben oltre il 5%, il livello che vediamo
oggi in Grecia e un livello ben piu' alto rispetto ad altri
paesi come Italia, Messico e Brasile (indicati - parrebbe -
come nazioni deboli della catena).
Nel rapporto Morgan Stanley scrive infine che i possibili
guai di Londra sono soltanto una delle tre "sorprese" che
gli ninvestitori si devono aspettare nel 2010. Le altre due
sono: 1) il rimbalzo del dollaro; 2) la buona performance in
borsa delle azioni del settore farmaceutico.
Fonte
-
Telegraph online
Banche, la crisi non
insegna: crescono le "too big to fail"
02 Dicembre 2009 13:05 MILANO -
di Andrea Franceschi – Il Sole
24 Ore ______________________________________________
Gli stati non potranno più andare
in soccorso delle banche. I soldi dei contribuenti non
dovranno più essere utilizzati per tappare i buchi della
finanza spericolata. Le banche dovranno subire una drastica
cura dimagrante. In modo che non ci siano più le cosiddette
«too big to fail», troppo grandi per fallire, a meno di
scatenare un gigantesco effetto domino, come è avvenuto dopo
il fallimento della Lehman Brothers. Questa è, o dovrebbe
essere, una delle principali lezioni della crisi dei
mercati, che ha avuto il suo epicentro proprio nel «chapter
eleven» della banca americana.
Ma a un anno dal crack delle borse non sembra che questa
lezione sia servita. Soprattutto in Europa dove il perimetro
di azione delle banche, invece di restringersi, si è
allargato. Dal 2007 le attività degli istituti di credito
sono cresciute del 25%. Negli Stati Uniti l'aumento è stato
del 20 per cento.
Secondo una ricerca dell'agenzia Bloomberg, negli ultimi due
anni, 353 istituti di credito hanno aumentato le loro
attività. Tra loro 15 hanno addirittura superato il prodotto
interno lordo nazionale (nel 2007 erano 10). Il valore degli
asset della francese Bnp Paribas, per esempio, dal 2007 a
oggi è cresciuto del 59%, raggiungendo l'astronomica quota
di 2 mila e 290 miliardi di euro (il 117% del Pil francese).
La britannica Barclays ha fatto segnare un +55% e ha
iscritti a bilancio asset per mille e 550 miliardi di
sterline (il 108% del Pil britannico). Quelli di Banco
Santander sono pari al prodotto interno lordo spagnolo a
quota 1,08 mila miliardi di euro.
Una riduzione delle dimensioni degli istituti di credito
viene auspicata da più parti. Dallo scoppio della crisi, i
governi europei hanno sborsato 5 mila e 300 miliardi di
dollari in aiuti di stato o salvataggi bancari. «Se ci fosse
un'altro grosso fallimento bancario, dubito che le finanze
di alcune piccole nazioni possano reggere il colpo» commenta
Tom Kirchmaier della London School of Economics. Ma
attualmente le autorità nazionali e comunitarie non hanno
alcun potere in questo senso. A meno che non si tratti di
istituti che hanno ricevuto aiuti pubblici. Recentemente per
esempio, in cambio del via libera al piano di
ristrutturazione, è stata imposta la vendita di asset al
gruppo olandese Ing, alla britannica Lloyds Bank e alla
belga Kbc.
Alla Goldman Sachs
hanno paura e i dipendenti chiedono porto d'armi
02 Dicembre 2009 13:20 MILANO –
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Arrabbiati e' troppo poco. Forse
i termini imbestialiti, furiosi, potrebbero calzare meglio
per descrivere lo stato d'animo dei contribuenti americani
dopo il crollo di Wall Street del 2008 e i bailout federali
che sono conseguiti per risollevare le sorti dei grandi
gruppi finanziari. A rimpolpare la rabbia e' ora pero' il
veder finire le proprie tasse sottoforma di bonus aziendali
destinati ai dipendenti degli stessi gruppi. E' una collera
pubblica, quella che potrebbe scatenarsi contro i dipendenti
del gruppo Goldman Sachs. Loro ne sono ben consapevoli,
quindi a scopo precauzionale, si comprano le armi. Non e' la
trama di un far west ambientato nel 2000 ma la storia
raccontata dalla columnist di Bloomberg News, Alice
Schroeder che racconta di un suo amico e dipendente della
Goldman, che ha presentato richiesta alla polizia per la
licenza del porto d'armi, utilizzando come credenziale il
nome "Goldman Sachs". Sebbene non sia per nulla semplice e
automatico nello stato di New York ottenere un permesso per
acquistare un'arma, sembra che il caso non sia l'unico.
L'amico che rivela questa informazione alla columnist
racconta di diversi senior della Goldman che si stanno
rifornendo di pistole per difendersi, "nel caso in cui
qualche populista malintenzionato si azzardasse a fare
irruzione nella loro sede". Alice Schroeder, autrice di "The
Snowball: Warren Buffett and the Business of Life" , e fra
l'altro ex manager della Morgan Stanley, ha contattato il
portavoce della Goldman Sachs per chiedere spiegazioni ma
non ha ricevuto risposta.
Il dipartimento di polizia invece le ha detto: alcuni
dipendenti di Goldman Sachs hanno l'autorizzazione al porto
d'armi ma ci vorra' del tempo prima di sapere i loro nomi.
Possedere un'arma commenta la giornalista, non significa
necessariamente essere nelle condizioni di riuscire a
difendersi al momento dell'aggressione. Forse i dipendenti
di Goldman si stanno lasciando contagiare dalla stessa mania
di persecuzione che aveva colpito Lloyd Blankfein, chief
executive officer della banca il quale, alla vigilia del
collasso della Bear Stearns, aveva chiesto alle autorita'
locali l'autorizzazione per installare un cancello di
sicurezza nella sua villa.
Sebbene molti a Wall Street siano preoccupati per le
eccessive differenze di reddito e concordino nel ritenere
ingiusto l'attuale sistema finanziario, non significa
necessariamente che per solidarieta' nei confronti della
povera gente, si trasferiscano nelle roulotte. La storia
dell'acquisto di armi da parte dei dipendenti della Goldman,
incalza la columnist, e' l'emblema della mentalita' "wallstreetiana",
di coloro a cui piace pensare che sebbene siano stati
aiutati, rimangono dei veri duri, dei Clint Eastwoods della
finanza, con in una mano un pugno di dollari e nell'altra la
pistola "L'ultima cosa che vogliono" conclude la Schoreder,
"e' essere pagati equamente".
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Economia
e finanza oggi: uno
swap fra drogati
06 Dicembre 2009 16:08 MILANO -
di Alessandro Fugnoli
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Il primo dei due grandi swap di cui vogliamo parlare oggi è
quello tra debito privato e debito pubblico. Lo ricordiamo
solo brevemente, perché è storia nota.
Dalle recessioni degli anni Ottanta, Novanta e inizio dei
Duemila si è usciti molto bene anche perché ai sistemi
economici malati sono state somministrate quantità crescenti
di sostanze eccitanti, prima semplici anfetamine e poi, col
tempo, via via più pesanti. Queste droghe sono state
somministrate al settore privato, permettendogli di comprare
beni di consumo e case a debito.
Come l’eroina, il debito privato, oltre una certa soglia dà
assuefazione e produce instabilità. In situazioni di crisi,
come quella che abbiamo tutti vissuto un anno fa, provoca
stati di paranoia che possono mettere in pericolo la
sopravvivenza stessa del soggetto. L’illiquidità di
un’istituzione, in questi stati mentali alterati, viene
vista come insolvenza e la provoca. L’insolvenza conclamata,
a sua volta, fa partire la caccia al successivo debitore
illiquido, che diviene immediatamente insolvente e così via,
fino al collasso del sistema.
Il subentrare del debitore pubblico al debitore privato, il
grande swap di questi mesi, ha gli stessi effetti che il
metadone ha sull’eroinomane. Lo stabilizza e gli permette di
condurre di nuovo una vita normale. E’ infatti molto più
difficile dubitare del debitore pubblico che del debitore
privato. Un attacco speculativo contro una banca, in un
contesto già febbricitante, può essere condotto con successo
in poche ore.
Gli attacchi contro gli stati sono per definizione
impossibili se gli stati hanno la facoltà di creare la
moneta con cui ripagare il debito. I concetti di inondazione
di liquidità, di bolla e di inflazione inevitabile, ripetuti
un milione di volte al secondo in ogni angolo del mondo
poggiano su una lettura incompleta della situazione. E’ vero
(e scandaloso), il mondo è sotto metadone. Ma è altrettanto
vero che non consuma più nuova eroina.
Le emissioni di titoli cartolarizzati, quelli che per anni
sono stati spacciati agli angoli delle strade delle City e
il cui ricavato veniva riciclato dai pusher in mutui e
crediti al consumo, sono quasi sparite (negli Stati Uniti
sono meno di un terzo di prima della crisi). La vecchia
carta ancora circolante ha valore di rarità, si è già
apprezzata negli ultimi mesi e sarà con ogni probabilità
richiestissima l’anno prossimo dai cacciatori di occasioni.
Insomma, la liquidità apparsa da una parte è sparita
dall’altra. Grosso modo, tutta la moneta che la Fed ha
stampato è servita a finanziare l’acquisto di titoli tossici
o adulterati (i mutui delle agenzie) dalle banche. Le
banche, a loro volta, non hanno prestato il ricavato alle
imprese e ai consumatori, ma l’hanno tenuto e lo tengono o
in titoli di stato o a deposito presso la banca centrale. In
questo modo guadagnano un interesse e non impegnano
capitale.
Le presunte bolle sulle borse, sui corporate bond e sull’oro
non derivano quindi, se non in misura limitata, da
un’attività delle banche. Certo, in situazioni tra la morte
e la vita, c’è sempre qualche banca che gioca il tutto per
tutto sui mercati sperando di salvarsi. Come ha detto
Strauss-Kahn, per alcuni questo è il Mardi Gras della
dissolutezza che precede la quaresima che arriverà dopo il
2011 con le nuove regole sulla patrimonializzazione delle
banche.
La grande parte degli acquisti sui mercati, in ogni caso,
non viene dalle banche e non è a leva. Viene, come ha notato
Paul Kasriel di Northern Trust, da uno swap nei portafogli
privati, che vendono titoli pubblici alle banche e agli
stati sovrani (che li tengono a malincuore, come fa la Cina,
nelle loro riserve) e comprano asset di rischio. Lo
chiameremo il piccolo swap (contrapposto al grande swap
descritto sopra). Neanche poi tanto piccolo se si pensa alle
dimensioni della ricchezza privata nel mondo.
Non c’è quindi bisogno di stracciarsi le vesti sul ritorno
della leva (che non c’è) e sul conseguente stato di bolla in
cui si troverebbero già i mercati. Quelli che arrivano in
borsa o sull’oro sono soldi veri, che potrebbero anche, in
futuro, causare sul serio una bolla, ma che vanno comunque
distinti da quelli presi a prestito.
Bolla e leva sono cose diverse. I tulipani non ebbero
bisogno di leva per lievitare, nel Seicento non c’erano
ancora banche centrali creatrici di liquidità. Roubini e
molti altri invece inferiscono la leva dal fatto che c’è, ai
loro occhi, una bolla. D’altra parte non si può affermare
(correttamente) che le banche non fanno nuovi prestiti netti
e dire allo stesso tempo che c’è un massiccio e patologico
ricorso alla leva (ovvero a soldi presi a prestito, ma da
chi, se non dalle banche che abbiamo appena detto che non
prestano?).
La solidità sempre più sorprendente dei mercati si spiega
proprio con il fatto che è nutrita da denaro sonante. Quando
il mercato è a leva, una notizia negativa costringe i più
sbilanciati a chiudere precipitosamente le loro posizioni e
questo provoca cadute di prezzo che, a loro volta, inducono
altri a uscire. Se però parliamo di portafogli ancora
sottopesati di azionario e praticamente privi di oro, la
notizia negativa viene assorbita senza panico e induce anzi
all’acquisto chi non era ancora entrato.
Solo così si spiega l’effetto limitato ad appena 24 ore del
semidefault di Dubai. O l’effetto di meno di due minuti di
orologio del dato non brillante sull’occupazione americana
rilasciato oggi da Adp. O addirittura l’effetto immediato
praticamente inesistente del dato sulle scorte di greggio e
derivati (aumentate massicciamente e quindi teoricamente
negative per il prezzo) sul petrolio.
Di fronte a dati negativi si è sviluppato un modello di
comportamento raro a vedersi. Dopo qualche ora il mercato
effettivamente prende atto del dato, sia pure nel modo più
limitato possibile. Nell’immediato, però, riesce talvolta
addirittura a salire. Questo accade perché chi è fuori dal
mercato spera di entrarci, spera quindi in un dato negativo
che lo faccia scendere e, non appena questo succede, ma a
quel punto anche se non succede, si precipita a comprare.
Il mercato impara quindi a poco a poco da sé stesso a non
scendere mai. L’oro è, più di ogni altra cosa, in questa
situazione. E’ l’asset di quelli che più severamente
denunciano le bolle in casa d’altri ed è paradossalmente
l’unico asset in bolla. Si dice che serve a proteggersi
dalla caduta del dollaro.
Dall’inizio di ottobre il dollaro ha perso il 3 per cento
contro euro, ma l’oro si è apprezzato del 20. Sempre più
cara, come protezione.
Si dice anche che l’oro è quello che è, è una quantità data
e limitata e non può essere estratto se non con grande
fatica, mentre la moneta cartacea può essere creata a
volontà e decuplicata in una notte con l’aggiunta di uno
zero sulle banconote. Se è così, anche le uova di Fabergé
sono solo 57, così come sono limitati di numero i dipinti di
Raffaello e i 70mila Gronchi Rosa. Sono forse saliti tutti
quanti del 20 per cento da ottobre?
Ancora sull’oro, che ora vola libero e sganciato dal
petrolio, dal dollaro e da qualsiasi altra cosa. Per chi
crede veramente nell’oro, come nel caso della rosa
scespiriana, un’oncia è un’oncia è un’oncia. Chi aveva
un’oncia il due ottobre e ce l’ha ancora oggi dovrebbe
sentirsi ricco uguale ed essere sprezzantemente
indifferente, se è un true believer, al fatto che valeva
allora mille dollari e oggi 1215. L’oro è l’equivalente
dell’Essere parmenideo, splendente nella sua perfezione ed
eternamente uguale a sé stesso, in contrapposizione al
divenire del mondo, che nasce, muore e si corrompe.
Quasi tutti i cultori dell’oro sono invece euforici, in
questo periodo. Se lo sono, però, è segno che è il dollaro
misura di tutte le cose, non l’oro. Hanno lo stesso oro e
più dollari. Se sono contenti vuol dire che ragionano ancora
in dollari, i disprezzatissimi dollari. Finché è così,
l’alba della nuova Età dell’Oro è ancora lontana.
Lo stato di agitazione dell’oro (che non consigliamo in
nessun modo di combattere, anzi) si contrappone allo stato
di quiete del petrolio ed è un processo alle intenzioni dei
policy maker sull’exit strategy. Se si vuole, è una polizza
contro un’inflazione che un giorno del 2013, forse,
arriverà, sempre che i policy maker se ne stiano immobili
nel vederla arrivare, la accolgano con grandi saluti e le
affidino ogni speranza di riduzione del debito pubblico.
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Fonte -
Il Rosso e il Nero |
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Sabato 05 Dicembre
2009 |
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Domenica 06 Dicembre
2009 |
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Mercoledì
09 Dicembre
2009 |
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La mappa del rischio
paese. Attenti a Est Europa e Sudamerica
06 Dicembre 2009 16:21 -
di Morya Longo ______________________________________________
Il mercato dei credit default
swap, quelle speciali polizze assicurative che misurano il
rischio di crack in giro per il mondo, punta il dito su
Paesi come l'Ucraina, il Venezuela e la sempre traballante
Argentina. Le agenzie di rating, e in particolare Standard &
Poor's, assegnano altissimi rischi di insolvenza a Ucraina,
Jamaica ed Ecuador. Un recente indicatore del Credit Suisse
sulla vulnerabilità degli Stati sovrani mette invece al
primo posto l'Islanda, seguita da Ungheria, Grecia, Romania,
Bulgaria e – udite udite – Spagna. Benvenuti nel
toto-default. Dopo aver giocato per mesi a «chi è il
prossimo» sulle banche, ora gli economisti e i mercati
finanziari iniziano a fare lo stesso sui Paesi sovrani. E
purtroppo non hanno tutti i torti: due anni di crisi
finanziaria e due anni di maxi-interventi pubblici per
salvare banche e imprese hanno sconquassato i bilanci. Se le
banche ormai sono «too big to fail» (troppo grandi per
fallire), gli Stati rischiano quindi di essere «too big to
save» (troppo grandi da salvare). Ai primi posti tra le aree
geografiche vulnerabili c'è certamente l'Est Europa. L'Ucraina,
nonostante il debito pubblico fermo al 25% del Pil, è ritenuto
all'unanimità il Paese più a rischio: Standard & Poor's gli
assegna un rating di CCC+ (che significa alte probabilità di
insolvenza), mentre i credit default swap quotano a 1.304 punti
base. Questo significa che assicurare 100 milioni di euro contro
il default dell'Ucraina costa poco più di 13 milioni di euro.
Tantissimo: circa 3 volte più di Dubai. Questo significa che il
mercato assegna al Paese dell'Est alte probabilità di
insolvenza. Sorvegliata speciale anche la Lituania (che ha
rating BB con prospettive negative). Il Credit Suisse mette
invece al secondo posto dei Paesi più fragili l'Ungheria. Anche
alcuni Stati del Sud America, sebbene quell'area geografica
abbia dimostrato di reggere meglio di altre alle turbolenze
finanziarie, sono visti ad alto rischio. Non solo l'Argentina,
le cui polizze anti-insolvenza quotano a più di mille punti
base. Ma soprattutto il Venezuela, Paese che attualmente ha i
credit default swap più elevati al mondo: 1.437 punti base. Eppure, con gradazioni di rischio
ovviamente diverse, anche Paesi ben meno esotici non sono
immuni. Unione europea in primis. Royal Bank of Scotland ha
calcolato che l'Irlanda deve aumentare il bilancio primario
dell'8% per mantenere invariato il rapporto tra debito e Pil.
Per la Grecia e la Spagna lo sforzo per evitare che il debito
pubblico esploda è invece intorno al 5%. Questi sono dunque i
Paesi che maggiormente rischiano di vedere crescere in maniera
esponenziale il debito pubblico. In questo senso l'Italia appare
inevece più tranquilla: con la sua tradizione di super-debito,
secondo i calcoli di Rbs, non dovrebbe aumentare gli sforzi per
tenere il debito sui livelli attuali. Il mercato dei credit
default swap dice la stessa cosa. L'assicurazione
sull'insolvenza della Grecia costa 181 punti base, quella
sull'Irlanda 148 e quella sulla Spagna 83 (più o meno come
quella sull'Italia). Ma tanti economisti si spingono
oltre. E guardano con una certa apprensione anche ad alcuni big
mondiali: Stati Uniti e Gran Bretagna. Proprio tre giorni fa
Mark Field, deputato Conservatore inglese, ha affermato che la
Gran Bretagna rischia una crisi valutaria se le prossime
elezioni non mostrassero un vincitore netto. In tal caso –
afferma il deputato – l'Inghilterra potrebbe addirittura
chiedere un aiuto al Fondo monetario internazionale. Questa è
sicuramente una boutade da campagna elettorale, ma parte da una
situazione realmente difficile per la Corona. Il deficit di
bilancio è intorno al 15%, il debito pubblico è stimato in
crescita dagli analisti di Bnp Paribas fino al 160% del Pil
entro il 2020 e il settore su cui il Paese ha basato la sua
crescita negli anni passati – cioè quello finanziario – è in
crisi. Non a caso Standard & Poor's ha recentemente messo in
«prospettive negative» il suo rating, tutt'ora di «Tripla A».
Discorso non diverso per gli Stati Uniti. Il deficit di bilancio
è al 12% del Pil e il debito pubblico è stimato – sempre da Bnp
– al 150% nel 2020. Fonte
- Il Sole 24 Ore
Al via il vertice di
Copenhagen, Cina India e Brasile compatti
07 Dicembre 2009 16:08 –
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Le speranze dell'umanità guardano
a Copenaghen. Si è aperto ufficialmente il vertice storico
sul clima sotto l'egida dell'Onu. La 15/a Conferenza della
Convenzione Onu sui cambiamenti climatici (Cop15) riunita
per due settimane nella capitale danese ha la responsabilità
di arrivare, il 18 dicembre prossimo, a un accordo per
fermare la febbre del Pianeta. Due settimane di tempo in cui
i 192 paesi presenti dovranno trovare un'intesa. Vertice
storico proprio perchè alta è l'attenzione e la
partecipazione mondiale con 110 capi di stato e di governo
che confluiranno a Copenaghen gli ultimi due giorni di
vertice, al momento delle decisioni. Intanto novità per
possibili aperture arrivano da India, Cina e Brasile che
avrebbero raggiunto un accordo comune per lavorare a un
testo a Copenaghen mentre anche il Sudafrica si dà dei
limiti.
Ma oggi è il giorno degli appelli e dello sprint iniziale da
parte dei rappresentanti Onu e degli scienziati. Grande
anche l' impronta per i lavori dettata dai padroni di casa,
i danesi.
In particolare il premier danese Lars Loekke Rasmussen ha
detto che «possiamo cambiare e dobbiamo cambiare» chiamando
tutti a contribuire, a essere realistici e flessibili. In
ballo qui a Copenaghen, ci sono «le speranze dell'umanità».
«Il tempo è scaduto, è arrivato il momento di unirci», ha
detto il capo negoziatore per l'Onu, il segretario generale
della Convenzione sui cambiamenti climatici Yvo de Boer alla
cerimonia di apertura del maxi vertice sul clima a
Copenaghen. «Abbiamo 6 giorni per definire l'accordo prima
che arrivino i ministri e poi solo una manciata di ore prima
dell'arrivo dei capi di stato. Il tempo è finito. È ora di
essere uniti, di trasformare gli accordi in azioni reali e
pensare ai milioni di bambini nel mondo», ha sottolineato.
Da parte sua premio nobel Rajendra Pachauri, presidente del
panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), ha
respinto i tentativi di screditare il lavoro degli
scienziati Ipcc sul clima intervenendo in merito al
cosiddetto «climagate» sulle mail rubate in base alle quali
gli scienziati avrebbero «corretto» in peggio i dati sul
cambiamento climatico. Pachauri ha parlato di un tentativo
di screditare un lavoro «trasparente e obiettivo» svolto su
più di 21 anni con dati provenienti da tutto il pianeta e
registrati da tantissimi organismi scientifici indipendenti.
Pachauri ha quindi richiamato all' azione targando il
vertice come «storico» e ha ricordato la responsabilità
della comunità globale.
Intanto sul fronte dei paesi a economie emergenti, che
rappresentano l'osso duro da convincere, arrivano novità.
India, Cina e Brasile hanno infatti raggiunto un accordo di
massima per operare insieme nel negoziato sui tagli alle
emissioni di CO2 durante il Vertice di Copenaghen, ha
rivelato a New Delhi il ministro per l'Ambiente indiano,
Jairam Ramesh. Dal canto suo il Sudafrica ha dichiarato la
disponibilità a rallentare del 34% entro il 2020 e del 42%
entro il 2025 la crescita delle emissioni dei gas serra, a
patto che ciò avvenga nel quadro di un accordo
internazionale e di aiuti finanziari e tecnologici da parte
dei paesi più sviluppati.
Ad aprire il vertice un video shock con protagonisti i
bambini mentre il Wwf ha allestito due porte, una rossa che
rappresenta la febbre del Pianeta e una verde, che significa
fuori dalla crisi e per tutti i delegati che passavano
ovviamente sotto la porta verde un timbro sulla mano per il
voto per la Terra.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Obama cambia la
strategia anti-crisi: i fondi per le banche destinati
al lavoro
07 Dicembre 2009 21:51 –
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Obama cambia la strategia
anti-crisi: i fondi per le banche destinati al lavoro
Da aiuti alle banche a fondi per il rilancio del mercato del
lavoro ancora sotto forte pressione. Il presidente americano
Barack Obama si preparerebbe ad annunciare - secondo
indiscrezioni - un'inversione di rotta per il Tarp (Troubled
Asset Relief Program): creato per salvare gli istituti di
credito dalla crisi subprime, il piano da 700 miliardi di
dollari varato dall'ex segretario al Tesoro Henry Paulson
cambia ora obiettivo. Le risorse disponibili nell'ambito del
progetto saranno probabilmente utilizzate per sostenere
l'occupazione. E questo a dispetto di molti parlamentari ed
economisti, convinti che i fondi risparmiati dovrebbero
essere utilizzati per affrontare l'altro nodo che affligge
l'economia americana: il debito. Intervenendo al Brooking
Institute domani in mattinata, Obama dovrebbe annunciare la
nuova strategia dell'amministrazione per il rilancio del mercato
del lavoro: nonostante il rallentamento della perdita di posti
di lavoro, il tasso di disoccupazione resta elevato, pari al
10%. Il segretario al Tesoro Timothy Geithner stima che circa
175 miliardi di dollari saranno restituiti entro la fine
dell'anno dalle banche che hanno ricevuto aiuti dal Tarp. La
cifra - riporta il Financial Times - include i 45 miliardi di
dollari di Bank of America. È possibile che anche Citigroup
riesca a restituire i 20 miliardi di dollari incassati: la banca
guidata da Vikram Pandit ha appena 10 giorni di tempo per varare
l'aumento di capitale necessario a ripagare gli aiuti ricevuti
dal governo statunitense. L'alternativa, per la banca di cui il
Tesoro ha in mano il 34%, è aspettare oltre un mese. Secondo
indiscrezioni, il Tesoro avrebbe deciso mantenere i propri 7,7
miliardi di azioni in Citigroup fino a che i 20 miliardi di
dollari non siano stati restituiti: una decisione dettata dalla
necessità di non indebolire la domanda di potenziali investitori
per portare a termine il necessario aumento di capitale per dare
indietro gli aiuti pubblici. La nuova destinazione dei fondi
sembrerebbe confermata dalla riduzione delle stime dei costi di
lungo termine del Tarp di circa 200 miliardi di dollari. Secondo
il Wall Street Journal, i costi in 10 anni del Tarp saranno pari
a 141 miliardi di dollari contro i 341 miliardi stimati
inizialmente e questo sarebbe dovuto al fatto che le banche
hanno restituito prima del previsto i fondi ricevuti. Dei 370
miliardi di dollari prestati alle banche dall'inizio della
crisi, il Dipartimento del Tesoro prevede perdite per soli 42
miliardi di dollari.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
A NOVEMBRE L'AMERICA
HA PERSO 255.000 POSTI, NON 11.000. QUALCUNO MENTE?
08 Dicembre 2009 00:10 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Dati del governo sballati? La
tendenza a stravolgere le letture preliminari ha visto un
picco a settembre e ottobre, con una revisione al ribasso di
203.000 posti di lavoro. Si tratta di un peggioramento del
45% rispetto ai risultati preliminari.
Dimenticatevi delle cifre ufficiali rese note dal governo,
una societa' di ricerca sostiene che i numeri di novembre
sono in realta' molto peggiori di quelli pubblicati sulle
pagine di tutti i giornali del mondo.
L'economia statunitense ha perso 255.000 posti di lavoro il
mese scorso, e non 11.000 come i dati ufficiali vogliono far
credere. Secondo gli analisti di TrimTabs, che basa i suoi
calcoli sulle tasse depositate quotidianamente dai
contribuenti americani, i risultati del mese passato
mostrano dunque un miglioramento di un misero 10.2% rispetto
ai 284.000 posti persi in ottobre.
Il Bureau of Labor Statistics (BLS) ha riportato invece che
l'economia americana ha perso 11.000 posti in novembre, una
cifra risultata decisamente migliore delle stime e che ha
innescato una corsa agli acquisti sul mercato azionario
venerdi' scorso. Inoltre il BLS ha rivisto i dati di
settembre e ottobre in ribasso, a quota 203.000 posti. Si
tratta di un peggioramento del 44.5% rispetto ai risultati
preliminari.
Qualcosa non torna. O i risultati di BLS sono sbagliati, o
lo sono quelli pubblicati sopra, o la verita' sta nel mezzo.
La cosa piu' probabile e' che il BLS stia sottostimando
colpevolmente le perdite di posti di lavoro, a causa di una
imperfetta metodologia per la raccolta dati.
Tra i difetti si possono citare diversi elementi, tra cui le
correzioni stagionali troppo rigide, un misterioso
aggiustamento basato sulle variazioni del rapporto tra
nascite e decessi e il fatto che solo il 40%-60% dei
sondaggi condotti dall'ufficio di statistica Usa sia
completato prima della presentazione dei primi dati
preliminari e che esso sia soggetto a successive revisioni.
A risultare particolarmente problematiche sono le correzioni
stagionali sotto il periodo delle festivita', a causa
dell'ampio numero di lavori temporanei che vengono aggiunti
alla lista ufficiale in ottobre e novembre e che sono spesso
destinati a scomparire in gennaio.
Negli ultimi due mesi le correzioni stagionali hanno
sottratto 2.4 milioni di posti ai risultati di partenza. In
gennaio, quando tali aggiustamenti sono solitamente i
maggiori dell'anno, l'ufficio di statistiche aggiungera' da
2 a 2.3 milioni di posti di lavoro.
Il tentativo di raccogliere i dati piu' accurati possibili e
tutte le indicazioni a disposizione, in modo tale da
misurare ogni mese le perdite di posti di lavoro nell'ordine
delle decine di migliaia o persino delle centinaia di
migliaia, non ha piu' valore se si perde nel mare di
correzioni stagionali, che finiscono per avere un impatto
eccessivo.
Nei dodici mesi conclusisi a ottobre, il BLS ha rivisto le
stime sui tagli al personale in rialzo o in calo di 679.000
posti, ovvero il 13%: una cifra enorme. Queste revisioni
hanno fatto si che la differenza rispetto alle stime di
TrimTabs si sia ristretta ad un paio di punti percentuali.
L'enorme divergenza tra i due risultati di novembre apre una
serie di quesiti, primo fra tutti: qual e' la causa a monte
di una tale disparita'. La risposta non e' facile da dare e
non puo' essere trovata subito con le informazioni a nostra
disposizione, ma raccoglieremo altri dati per fornirne una
valida. E' una promessa.
Fonte
-
www.wallstreetitalia.com
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Ben
Bernanke e la macchina
frigorifera
09 Dicembre 2009 01:38 MESSINA -
di Leon Zingales*
*Leon Zingales
e' collaboratore di WSI. PhD in Fisica, Dipartimento di
Matematica, Università di Messina, gestisce anche il bel
blog IlCignoNero e che ringraziamo.
________________________________________
In Fisica bisogna rispettare il principio di causalità: il
futuro non può influenzare il presente. In Economia il
vincolo della freccia del tempo scompare: il futuro
influenza il passato poiché è possibile creare un flusso
dell’energia monetaria attraverso la creazione del debito.
Mancando la comprensione di questo concetto base, vengono
fuori teorie macroeconomiche prive di ogni evidenza
sperimentale. La dinamica dei processi economici non può
essere compresa pensando che in ogni istante l’energia
monetaria deve essere costante.
Non è infatti un caso che
sovente si osserva un contemporaneo aumento (o analogamente
una sincrona diminuzione) di tutti gli asset e di
conseguenza viene a cadere il postulato della
diversificazione del portafoglio.
Mentre in Fisica il principio di conservazione dell’Energia
(ovviamente inteso in senso relativistico) deve essere
valido in ogni istante, in Economia il principio di
conservazione rimane valido soltanto integrando sulla
variabile tempo. In altre parole, in un certo istante si può
creare energia (prendendola in prestito dal futuro
indebitandosi) ma nel contempo in un altro istante la somma
dei contributi energetici dei processi economici deve essere
negativa come conseguenza della restituzione del debito. In
un sano sistema economico questa oscillazione tra presenza
di sorgenti (creazione di energia prendendo in prestito
energia monetaria dal futuro) e pozzi (restituzione del
debito) è foriera di sviluppo consentendo un processo di
creazione di ricchezza.
Il futuro in un dinamico gioco presta energia al passato per
poter essere realizzato in modo migliore; il dramma si ha
quando il passato, posseduto da un’insana avidità e
sguazzando in un’orgia di debiti, rifiuta di restituire
energia creando una bolla a spese di ulteriori prestiti dal
futuro.
Nella dinamica Hamiltoniana, energia e tempo sono variabili
coniugate. In virtù di tale relazione, dall’omogeneità del
tempo (invarianza per traslazione temporale) discende il
principio di conservazione dell’energia in un sistema
chiuso. Per analogia con la Fisica, la non conservazione
dell’energia monetaria è intrinsecamente connessa con la non
omogeneità del tempo in economia. Questo è il mutamento
epistemologico che consente di comprendere in una luce nuova
inflazione e deflazione.
L’inflazione è un fuoco distruttore (chiaramente quando
supera una soglia tollerata e forse anche necessaria) che
accelera il tempo, incrementa la velocità con cui avviene
qualsiasi processo economico. Viceversa la deflazione è
associata ad un rallentamento della scala temporale e come
conseguenza aumenta il valore del debito. L’inflazione
riscalda liquefando i debiti ma anche il potere d’acquisto
(e quindi distrugge i risparmi), la deflazione ghiaccia il
debito accumulandolo e condensa il risparmio in una
staticità mortale.
La politica di Bernanke di coniare moneta attraverso il
processo di Quantitative Easing evitando nel contempo
l’incremento della massa M1 presente nel mercato reale ha
effettuato una segregazione tra il sistema finanziario (in
iperinflazione) e l’economia reale (in deflazione). Le scale
temporali con cui si evolvono i due sistemi sono ormai
divergenti. Il sistema finanziario sta aumentando la
temperatura, mentre l’economia reale è in fase di
congelamento.
Il Quantitative Easing ha funzionato da macchina frigorifera
che sta raffreddando sempre più il sistema reale rubandogli
energia che procede a riscaldare ulteriormente il sistema
finanziario. I sistemi sono per ora tenuti incollati
dall’incremento del debito pubblico (malgrado consideri gli
USA come l’esempio più eclatante, con particolari
specificità la medesima situazione sta ormai avvenendo anche
in Europa e Giappone), ma ciò determina
un circolo vizioso
che aumenta la velocità con cui avviene lo spostamento di
energia dal sistema a scala temporale rallentata (l’economia
reale) verso il sistema con tempo accelerato (l’economia
finanziaria).
Il crescente deficit pubblico sta solo temporaneamente
rallentando gli effetti deflattivi, ma al più presto le
ricadute saranno drammatiche. Il sistema nel suo complesso è
entrato in una fase di assoluta instabilità. In tale ambito
una qualsiasi perturbazione, seppur piccola, potrà avere
effetti fortemente destabilizzanti.
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Fonte -
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Sabato 12 Dicembre
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Debito, Draghi:
governi diano piani rientro credibili
mercoledì, 9 dicembre 2009 -
21:09 ROMA -
ANSA ______________________________________________
I mercati rimangono
"insolitamente" vulnerabili agli shock e i governi devono
comunicare in modo "credibile" i propri programmi di medio
termine per ristabilire la sostenibilità del debito.
Per quanto sia "troppo presto per ritirare il sostegno
pubblico all'economia non è infatti troppo presto per
progettare exit strategy".
E' quanto sostenuto da Mario Draghi, governatore della Banca
d'Italia, membro del Consiglio Bce e presidente del
Financial Stability Board, in un intervento a Bonn
nell'ambito del congresso del Ppe, dopo il peggioramento del
rating sul debito della Grecia da parte di Fitch e la
revisione a negativo da stabile dell'outlook della Spagna da
parte di S&P's.
"Le condizioni dei mercati sono migliorate considerevolmente
ed è ritornata la fiducia nel sistema finanziario. Tuttavia
la reazione dei mercati ai recenti problemi finanziari di
Dubai ci rammenta che essi rstano insolitamente vulnerabili
alle turbolenze", ha esordito Draghi.
I mercati dovranno rifinanziare nel prossimo futuro livelli
più elevati di debito di minore qualità media e con una
ridotta tolleranza alla leva finanziaria. Tale pressione di
assorbimento potrebbe portare a costi di raccolta più
elevati e accrescerne la volatilità.
"Pertanto è ormai ora che le istituzioni e le società
finanziarie si impegnino attivamente ad allungare il proprio
profilo di debito e a fare ricorso ai mercati globali in
modo ordinato, visto il rischio che possano altrimenti
essere costrette a farlo a condizioni meno attraenti".
I governi, in particolare, "devono comunicare in modo
credibile i propri programmi di medio termine per
ristabilire la sostenibilità del debito, al fine di limitare
la pressione al rialzo dei costi di raccolta e mantenere il
pronto accesso ai mercati globali", ha aggiunto Draghi
sottolineando come questo sia importante anche per evitare
effetti avversi di un contagio al resto del sistema
finanziario visto "il loro cruciale ruolo di riferimento".
Per quanto sia troppo presto per ritirare il sostegno
pubblico all'economia non è infatti troppo presto per
progettare exit strategy, ha aggiunto il governatore al suo
discorso a braccio, dopo che giovedì scorso la Bce ha
esposto la prima fase del programma di graduale ritiro dei
miliardi di euro di extra finanziamenti al sistema pur
mantenendo i tassi al minimo dell'1%.
NON E' TROPPO PRESTO PER INIZIARE A PROGETTARE EXIT STRATEGY
"Al momento è troppo presto per iniziare a ritirare il
sostegno pubblico. Ma non è però troppo presto per iniziare
a progettare le nostre exit strategies. E estremamente
importante rassicurare il pubblico che i governi e le banche
centrali sono impegnate ad assicurare la stabilità dei
prezzi e la sostenibilità delle finanze pubbliche, e che
sono pronti ad agire con decisione appena le condizioni
economiche lo permetteranno".
Per Draghi è fondamentale procedere alla riduzione del moral
hazard posto dalle istituzioni troppo grandi per fallire e
il Fsb sta valutando il modo per ridurre le probabilità e
l'impatto del fallimento delle istituzioni sistemiche con
l'obbiettivo di stabilire un più stretto legame tra
requisiti patrimoniali e di liquidità e i costi e gli
effetti di contagio al sistema.
Un secondo approccio riguarda il miglioramento della
capacità di risoluzione attraverso lo sviluppo di schemi di
riferimento credibili strutturati in modo da consentire la
continuità operativa delle attività principali della banca
fallita. Il terzo approccio è incentrato sul rafforzamento
dei mecati e delle infrastrutture finanziarie al fine di
ridurre i rischi di contagio. Tale approccio prevede anche
il trasferimento dei derivati Otc (Bruxelles: OTCB.BR -
notizie) su piattaforme di scambio o di compensazione
centralizzate.
"Il moral hazard impone ai contribuenti pesanti oneri futuri
e rappresenta una grave minaccia alla salvaguardia di un
sistema basato sul mercato", ha ammonito il governatore.
Per quanto riguarda le remunerazioni dei manager "è
fondamentale che le autorità agiscano collettivamente con
determinazione se vogliono dissipare la speranza [dei
manager] che tutto possa tornare come prima".
Fonte
- ANSA
La settimana,
11/12/2009
Friday, 11 December, 2009 at
11:47 -
by phastidio ______________________________________________
La settimana è stata
caratterizzata dai timori sullo stato delle finanze
pubbliche, e più in generale sui rischi di deterioramento
dei conti pubblici nei paesi periferici dell’Unione europea.
Lunedì 7 dicembre l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha
posto in creditwatch negative, cioè sotto osservazione con
implicazioni sfavorevoli, la qualità del debito sovrano
della Grecia.
Entro i prossimi 60 giorni, in assenza di misure
“sufficientemente aggressive” da parte del governo di Atene
per assicurare la flessione del deficit, il rating potrebbe
subire un downgrade di un livello, a BBB+, peraltro già
adottato dall’agenzia Fitch. La criticità deriva dal fatto
che attualmente la Banca centrale europea consente di
utilizzare titoli di stato a garanzia di finanziamenti fino
al limite di rating dell’investment grade, ma questa è
misura temporanea da ricondurre alle iniziative
straordinarie per contrastare la crisi. Se dovesse essere
ripristinato il rating minimo precedentemente in vigore
(singola A), le banche greche perderebbero l’accesso ai
finanziamenti della Bce.
Anche la Spagna è stata posta da S&P in negative outlook; il
Cancelliere dello Scacchiere britannico, Alistair Darling,
che ha presentato un progetto di budget che rinvia la
riduzione sostanziale del deficit dopo il 2010, anno in cui
si svolgeranno le elezioni generali, ed il mercato ha punito
pesantemente i Gilt, vendendoli. Mentre i timori sulle reali
condizioni di indebitamento delle finanziarie del Dubai
riaffiorano periodicamente, le banche britanniche coinvolte
(in particolare Standard Chartered) ribadiscono di avere
un’esposizione netta molto contenuta. Sul mercato dei cambi, yen e
dollaro hanno recuperato contro euro, vuoi per la ripresa di
avversione al rischio che sta caratterizzando il recente periodo
(pur in assenza di segnali concordanti in tal senso da parte di
indici di volatilità come il VIX), sia per i timori sulle
condizioni dei paesi periferici dell’Euro Area, che pesano sulla
valuta unica europea. Nel periodo si è poi assistito ad un
ripiegamento delle quotazioni di oro e petrolio. Se nel caso del
petrolio l’indebolimento appariva già in atto anche durante il
periodo di maggior debolezza del dollaro, nel caso dell’oro
sembra suggerire un temporaneo disimpegno da alcune posizioni di
carry trade, nelle quali cioè ci si indebita in dollari per
acquistare oro.
Dal versante degli interventi pubblici globali a sostegno della
congiuntura il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha
annunciato misure di stimolo alle piccole e medie imprese e la
creazione di un programma di sussidi pubblici per la
ristrutturazione a risparmio energetico delle abitazioni, già
ribattezzato “cash for caulkers“. In Giappone il governo ha
annunciato l’ennesimo pacchetto di stimolo, mentre la stima
finale del Pil del terzo trimestre è stata fortemente
ridimensionata (da 4,8 a 1,3 per cento annualizzato), con una
forte revisione al ribasso dell’investimento aziendale ed
un’aggravamento delle condizioni di deflazione del paese. Tra i principali dati macro,
deludono ordini di fabbrica e produzione industriale tedesca di
ottobre, entrambi in contrazione mensile a fronte di attese di
variazioni positive, mentre il dato di bilancia commerciale
statunitense di ottobre ha evidenziato una riduzione del
deficit, grazie all’espansione delle esportazioni e ad
importazioni la cui crescita complessiva è stata frenata dalla
riduzione dei volumi di greggio importato. Al termine della
settimana i mercati hanno ritrovato positività anche da una
serie di dati cinesi, che mostrano un andamento ancora sostenuto
della produzione industriale ed una riduzione del surplus di
bilancia commerciale, che confermerebbe lo sforzo di conversione
del sistema economico cinese verso lo stimolo della domanda
interna. Particolarmente robusto anche il dato relativo alle
vendite al dettaglio statunitensi di novembre, che ha riacceso
la speranza che la Christmas shopping season possa essere
salvata.
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Fonte
- www.macromonitor.it
Dopo la crisi:
per la sostenibilità fiscale serviranno comunque più tasse?
December 11th
-
di Mario Seminerio ______________________________________________
Mercoledì il governo irlandese ha
presentato la manovra di bilancio per il 2010 del paese
europeo finora più colpito dalla crisi finanziaria globale.
E’ utile analizzare da vicino gli interventi previsti dal
governo di Dublino perché il prossimo anno si presenta come
particolarmente impegnativo per i governi, che dovranno
tentare di recuperare un sentiero di disciplina fiscale in
un contesto di crescita economica che, pur se in ripresa,
non appare particolarmente vigorosa, e renderà quindi tutto
più difficile.
Inoltre, la difficile situazione economica della Grecia e di
altri paesi periferici dell’Unione europea, potrebbe
innescare un effetto-contagio di cui anche l’Italia
finirebbe col fare le spese, in quanto anello debole della
catena europea, per l’elevata incidenza del debito sul Pil e
l’assai ridotta capacità di sviluppare crescita economica
mostrata nel recente passato. In questo senso l’Irlanda, che
finora ha mostrato grande determinazione e sorprendente
accettazione sociale delle misure di austerità intraprese,
potrebbe essere il precursore di ciò che ci aspetta.
Il governo di Dublino, nella manovra approvata ieri (la
terza in 14 mesi), ha scelto di focalizzarsi più sui tagli
di spesa che sugli incrementi di entrate, peraltro già
adottati nei mesi scorsi attraverso una serie di aumenti
d’imposta sul reddito delle persone fisiche. Tra i tagli,
spicca la riduzione delle retribuzioni nominali dei pubblici
dipendenti, calibrati in funzione del reddito. Gli stipendi
saranno ridotti del 7,5 per cento sui primi 40.000 euro, del
10 per cento sui successivi 55.000 euro. Oltre i 95.000 euro
di retribuzione il taglio sarà del 15 per cento. Questa
marcata progressività servirà in parte a ridurre il
malcontento per una manovra che non esenta dai sacrifici
neppure i redditi più bassi, visto che sotto i 30.000 euro
il taglio sarà comunque del 5 per cento.
Previsti anche tagli al generoso sistema irlandese di
welfare, con riduzioni del 4 per cento ai trasferimenti, e
di 16 euro al mese per i figli a carico e tagliato il
sussidio destinato ai giovani di meno di 25 anni che cercano
impiego. I non residenti di passaporto irlandese dovranno
comunque pagare una sovraimposta di 200.000 euro annui sui
redditi superiori ad 1 milione di euro, misura subito
ribattezzata Bono Tax, dal nome del leader degli U2. Sul
versante fiscale, dopo che negli scorsi mesi sono state
aumentate le imposte sulle proprietà immobiliari (un po’
tardivamente, come sempre quando i governi si compiacciono
troppo della crescita causata da bolle), un po’ di stimolo
al prostrato settore delle costruzioni verrà
dall’introduzione degli acquirenti della prima casa, che
avranno una scadenza per poter beneficiare delle deduzioni
d’imposta sugli interessi sui mutui. Si è inoltre deciso di
ridurre l’Iva al 21 per cento, e di tagliare le accise sugli
alcoolici. Introdotta anche l’ormai classica rottamazione
delle auto, con un beneficio fiscale di 1500 euro. Per fare
cassa dal versante delle entrate verrà poi introdotta una
carbon tax sui carburanti che aumenterà il prezzo di benzina
e diesel ripettivamente di 4 e 5 centesimi il litro.
Nel complesso si tratta di misure piuttosto severe, quelle
stesse che ad esempio la Grecia non è mai riuscita ad
introdurre, a causa di crescenti tensioni sociali. Al
momento neppure l’Irlanda è riuscita a toccare le pensioni,
non tanto in termini di requisiti di pensionabilità quanto
di indicizzazione ai salari dei lavoratori in attività, che
quindi richiederebbero un taglio delle pensioni dei pubblici
dipendenti che non è avvenuta.
Ci attendono mesi difficili: il perseguimento di condizioni
di stabilizzazione fiscale richiederà manovre molto pesanti.
Il ricorso alla leva fiscale punitiva per alcune categorie
di lavoratori colpiti da forte riprovazione sociale (come i
bankers, che vedranno i loro bonus falcidiati da sovrattasse
dichiarate una tantum), pur trovando giustificazione nel
determinante sostegno pubblico alle banche, è destinato a
raccogliere relativamente poco gettito. Se poi pensiamo alla
situazione di un paese come l’Italia, appare evidente che
gran parte delle misure irlandesi sono impraticabili, non
solo e non tanto per le resistenze che ne scaturirebbero,
quanto per il fatto che il nostro welfare, dopo lustri di
crisi fiscale, è già ridotto ai minimi termini.
Ma a qualcosa occorrerà pensare, soprattutto se il nostro
paese, al momento della ripresa, confermerà di avere una
crescita potenziale estremamente ridotta, a causa della
rigidità del mercato del lavoro e dell’assenza di
liberalizzazioni nel mercato dei servizi e delle
professioni.
Fonte
-
Epistemes.org
Quella sovranità
della moneta in mani private
12 Dicembre 2009 01:14
MILANO - Il Giornale ______________________________________________
Abbiamo ricominciato a tremare
per le banche. Abbiamo ricominciato a tremare addirittura
per gli Stati, a rischio di fallimento attraverso i debiti
delle banche. Si è alzata anche, in questi frangenti, la
voce di Mario Draghi con il suo memento ai governanti:
attenzione al debito pubblico e a quello privato; dovete a
tutti i costi farli diminuire. Giusto. Ma l’unico modo
efficace per farli diminuire è finalmente riappropriarsene.
Non è forse giunta l’ora, dopo tutto quanto abbiamo dovuto
soffrire a causa delle incredibili malversazioni dei
banchieri, di sottrarci al loro macroscopico potere?
Per prima cosa informando con correttezza i cittadini di ciò
che in grande maggioranza non sanno, ossia che non sono gli
Stati i padroni del denaro che viene messo in circolazione
in quanto hanno delegato pochi privati, azionisti delle
banche centrali, a crearlo. Sì, sembra perfino grottesca una
cosa simile; uno scherzo surreale del quale ridere; ma è
realtà. C’è stato un momento in cui alcuni ricchissimi
banchieri hanno convinto gli Stati a cedere loro il diritto
di fabbricare la moneta per poi prestargliela con tanto di
interesse. È così che si è formato il debito pubblico: sono
i soldi che ogni cittadino deve alla banca centrale del suo
paese per ogni moneta che adopera.
La Banca d’Italia non è per nulla la «Banca d’Italia», ossia
la nostra, degli italiani, ma una banca privata, così come
le altre Banche centrali inclusa quella Europea, che sono
proprietà di grandi istituti di credito, pur traendo
volutamente i popoli in inganno fregiandosi del nome dello
Stato per il quale fabbricano il denaro.
Ha cominciato la Federal Reserve (che si chiama così ma che
non ha nulla di «federale»), banca centrale americana, i cui
azionisti sono alcune delle più famose banche del mondo
quali la Rothschild Bank di Londra, la Warburg Bank di
Berlino, la Goldman Sachs di New York e poche altre. Queste
a loro volta sono anche azioniste di molte delle Banche
centrali degli Stati europei e queste infine, con il sistema
delle scatole cinesi, sono proprietarie della Banca centrale
europea.
Insomma il patrimonio finanziario del mondo è nelle mani di
pochissimi privati ai quali è stato conferito per legge un
potere sovranazionale, cosa di per sé illegittima negli
Stati democratici ove la Costituzione afferma, come in
quella italiana, che la sovranità appartiene al popolo.
Niente è segreto di quanto detto finora, anzi: è sufficiente
cercare le voci adatte in internet per ottenere senza
difficoltà le informazioni fondamentali sulla fabbricazione
bancaria delle monete, sul cosiddetto «signoraggio», ossia
sull’interesse che gli Stati pagano per avere «in prestito»
dalle banche il denaro che adoperiamo e sulla sua assurda
conseguenza: l’accumulo sempre crescente del debito pubblico
dei singoli Stati.
Anche la bibliografia è abbastanza nutrita e sono facilmente
reperibili sia le traduzioni in italiano che i volumi
specialistici di nostri autori. Tuttavia queste informazioni
non circolano e sembra quasi che si sia formata, senza uno
specifico divieto, una specie di congiura del silenzio. È
vero che le decisioni dei banchieri hanno per statuto
diritto alla segretezza; ma sappiamo bene quale forza
pubblicitaria di diffusione la segretezza aggiunga alle
notizie. Probabilmente si tratta del timore per le terribili
rappresaglie cui sono andati incontro in America quegli
eroici politici che hanno tentato di far saltare l’accordo
con le banche e di cui si parla come dei «caduti» per la
moneta.
Abraham Lincoln, John F. Kennedy, Robert Kennedy sono stati
uccisi, infatti (questo collegamento causale naturalmente è
senza prove) subito dopo aver firmato la legge che
autorizzava lo Stato a produrre il dollaro in proprio.
Oggi, però, è indispensabile che i popoli guardino con
determinazione e consapevolezza alla realtà del debito
pubblico nelle sue vere cause in modo da indurre i
governanti a riappropriarsi della sovranità monetaria prima
che esso diventi inestinguibile. È questo il momento.
Proprio perché i banchieri ci avvertono che il debito
pubblico è troppo alto e deve rientrare, ma non è possibile
farlo senza aumentare ancora le tasse oppure eliminare
alcune delle più preziose garanzie sociali; proprio perché
le banche hanno ricominciato a fallire (anche se in realtà
non avevano affatto smesso) e ci portano al disastro;
proprio perché è evidente che il sistema, così
dichiaratamente patologico, è giunto alle sue estreme
conseguenze, dobbiamo mettervi fine. In Italia non sarà
difficile convincerne i governanti, visto che più volte è
apparso chiaramente che la loro insofferenza per la
situazione è quasi pari alla nostra.
Fonte
- Il Giornale
|
Miliardi
e miliardi di perdite occultate
13 Dicembre 2009 23:22 LUGANO -
di Alfonso Tuor
________________________________________
Sta affondando (in alcuni punti di ben un centimetro l’anno)
l’isola di Dubai a forma di palma, ossia l’ultimo simbolo
dell’enorme bolla creditizia che ha scatenato l’attuale
crisi economica. Lo sprofondamento di Palm Jumeirah,
destinata ad essere «riconquistata» dal mare, può essere
considerata una metafora dell’attuale situazione economica.
Il crack dell’Emirato ha infatti rammentato che l’enorme
volume di indebitamento accumulato negli anni non ha subito
erosioni. Anzi, in questi ultimi mesi è fortemente aumentato
soprattutto come debito pubblico statale.
La questione non riguarda solo l’Emirato di Dubai o le
finanze statali della Grecia (il cui debito è stato
declassato dalle agenzie di rating), ma Paesi come gli Stati
Uniti e la Gran Bretagna, che quest’anno registreranno un
deficit pubblico superiore al 10% del PIL, e persino il
Giappone, dove per la prima volta dalla fine della Seconda
guerra mondiale l’emissione di obbligazioni statali supererà
l’intero gettito fiscale del Paese del Sol Levante.
Non sorprende che il rischio del debito torni ad pesare sui
mercati finanziari, i quali si stanno lentamente
risvegliando dal sogno nel quale tutto si sarebbe presto
rimesso a posto. Non sorprende nemmeno che queste
preoccupazioni non vengano più occultate dalle autorità
monetarie. Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e
presidente del Financial Stability Board, ha infatti
dichiarato che vi è un’enorme quantità di debito pubblico e
privato destinata a venire a maturazione nei prossimi anni.
Ad esempio – ha spiegato – «vi sono 4mila miliardi di
dollari di debito privato di bassa qualità garantito da
proprietà immobiliari; vi è poi l’enorme quantità di debito
pubblico degli Stati Uniti, della Gran Bretagna,
dell’Italia, della Grecia, della Spagna, della Germania e
così via». E ha concluso: «Considerando le migliaia di
miliardi di debiti bancari, cui bisogna aggiungere il debito
pubblico, se per varie ragioni i tassi di interesse
dovessero salire, potrebbe materializzarsi un rischio per i
debiti sovrani».
Tradotto in parole povere, se il costo del denaro dovesse
cominciare a salire vi sarebbero rischi di nuovi fallimenti
bancari e pure il rischio di insolvenza di alcuni Stati con
conseguenti crisi valutarie. La montagna di migliaia di
miliardi di debito, esorcizzata a partire dall’inizio di
marzo dalle immissioni di liquidità delle banche centrali e
dal rally delle borse, non è miracolosamente scomparsa (né
del resto avrebbe potuto scomparire): oggi incombe non più
solo sul sistema finanziario, ma sulle obbligazioni statali
e sulla solidità delle valute.
Dunque l’enorme dispendio di
risorse pubbliche per salvare il sistema bancario, ossia il
trasferimento ai contribuenti delle ingenti perdite
accumulate dal sistema finanziario, potrebbe avere come
risultato solo quello di aver fatto guadagnare un po’ di
tempo.
Anche la tanto decantata ripresa dell’economia assomiglia
più ad un’illusione che alla realtà. Gli interventi di
Governi e banche centrali hanno frenato il ritmo di
contrazione dell’economia e hanno permesso una
stabilizzazione a bassi livelli dell’attività produttiva. Ma
ora emergono i primi segnali di una possibile ricaduta in
recessione. Essi provengono dal Giappone, dove il Governo ha
dovuto varare un nuovo piano di stimolo fiscale da 83
miliardi di dollari; dagli Stati Uniti, dove l’indice del
settore più importante dell’economia, quello dei servizi,
segnala una contrazione dell’attività e dove il presidente
Obama ha annunciato un piano da 200 miliardi per la
creazione di nuovi posti di lavoro, al fine di combattere
una disoccupazione che ufficialmente si aggira attorno al
10%, ma che in realtà supera il 16%.
Anche in Europa vi sono segnali non incoraggianti. Ad
esempio, in ottobre è diminuita la produzione industriale
tedesca, un dato che non parla certamente a favore di una
solida ripresa. Il numero delle persone senza lavoro è
destinato purtroppo a salire ulteriormente, poiché, come è
accaduto in molti altri Paesi europei, il ricorso al lavoro
ridotto ha rinviato le decisioni di licenziamento.
Dunque, come abbiamo sempre sostenuto, le misure di Governi
e banche centrali non erano adeguate all’entità di questa
crisi. Si è ipotizzato che ricreando la fiducia nel settore
finanziario si sarebbero create le premesse per smaltire i
miliardi e miliardi di perdite ancora nascosti nei bilanci
delle banche (secondo il Fondo Monetario Internazionale le
banche hanno finora denunciato solo la metà delle loro
perdite), per ridurre l’enorme indebitamento che grava su
famiglie, imprese e Stati e quindi per rilanciare
l’economia. Invece dalla crisi è improbabile che si esca se
non si affronta alla radice la realtà dell’enorme quantità
di debiti inesigibili e delle perdite ancora nascoste nel
sistema finanziario.
Non è quanto è stato fatto finora né quello che è
prevedibile si faccia nel prossimo futuro, poiché l’opzione
di ripartire dal rilancio dell’economia reale continua ad
essere fortemente avversata dal sistema finanziario
internazionale, il cui potere di influenza sulle scelte
politiche non è affatto scemato, nonostante abbia
contribuito a creare questa crisi.
 |
Fonte -
Il Fatto Quotidiano |
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Venerdì
18 Dicembre
2009 |
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Lunedì
21 Dicembre
2009 |
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Giovedì
24 Dicembre
2009 |
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Lo
stato di necessità di
Obama
December 13th -
di Mario Seminerio
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In un recente editoriale sul Washington Post, scritto con
Dan Blumenthal, Robert Kagan assume una posizione critica
verso l’atteggiamento di Barack Obama nei confronti delle
potenze regionali (o aspiranti globali) della zona
eurasiatica, Russia e Cina. In entrambi i casi, Kagan
denuncia l’esistenza di una politica obamiana di
accommodation (per non definirla più esplicitamente
appeasement). Nei confronti della Russia, tale accomodamento
si sarebbe realizzato nella accettazione della presenza di
truppe di Mosca sul suolo georgiano e, soprattutto,
nell’aver in qualche modo “tradito” le attese dei paesi
dell’ex Patto di Varsavia, rinunciando al dispiegamento di
postazioni fisse di missili intercettori.
Riguardo il rapporto con la Cina, Kagan è particolarmente
indispettito dall’utilizzo, da parte di Obama,
dell’espressione strategic reassurance. Secondo Kagan,
questi annunci segnerebbero la fine dell’era della
competizione tra grandi potenze. Lo stesso Obama, lo scorso
luglio, ha dichiarato rispetto alla Cina che il
perseguimento del potere non deve più essere “un gioco a
somma zero”. Parole che coincidono con la teoria del mondo
multipolare di Fareed Zakaria e che ben si prestano ad una
lettura in chiave di accommodation. A nostro giudizio,
questa posizione di Obama è più necessaria e necessitata che
frutto di una reale scelta tra opzioni strategiche, e ciò a
causa dell’indebolimento geostrategico che gli Stati Uniti
hanno subito nell’ultimo decennio, a seguito dell’avventura
irachena.
In Medio Oriente Washington necessita della cooperazione di
Mosca per contenere l’Iran, pur continuando a non essere
chiaro quanto durerà un regime come quello degli ajatollah,
minato dalle fondamenta dalle proprie contraddizioni e da
una crisi economica sempre più grave. Ma pur se su una
parabola già discendente, il regime di Tehran ha trovato
nuova linfa, nazionalistica e di leverage regionale, dal
collasso iracheno provocato dagli stessi Stati Uniti.
Analogo discorso per la Russia, che non ha più le risorse
economiche e (soprattutto) demografiche per giocare un ruolo
di potenza globale, ma può mettersi di traverso sul piano
multiregionale in Europa ed Asia, e sta giocando le proprie
carte nell’unico modo che le è consentito.
Tornando alla Cina, Kagan ritiene nell’ordine naturale delle
cose che Pechino voglia assurgere al ruolo di dominus
asiatico, e la sua crescita economica le fornisce carburante
per alimentare questa aspirazione. Qui entra in gioco una
valutazione di ordine soprattutto economico. Dalla grave
crisi finanziaria che ha avuto il proprio epicentro negli
Stati Uniti, la Cina ha appreso di dover cambiare il proprio
modello di sviluppo, passando dall’export alla domanda
interna. In coerenza con ciò, Pechino si muove per stimolare
la domanda interna e divenire il traino della crescita
economia della regione asiatica. Dietro la asettica
categoria di “stimolo della domanda interna” si cela anche
l’ammodernamento e l’ampliamento delle forze armate che Kagan denuncia con preoccupazione. Non vi è nulla di
realmente nuovo nell’ascesa di una potenza economica, e la
Cina sta seguendo quanto fatto nel Diciannovesimo e
Ventesimo secolo dagli Stati Uniti.
Non vi è nulla che Washington possa realisticamente fare per
invertire questo corso della storia, se non ricorrere alla
tradizionale strategia duale di engagement e balancing.
Kagan, che proprio sprovveduto non è, lo sa perfettamente, e
cita gli esempi dell’ingresso della Cina nella WTO
bilanciato dal rafforzamento della cooperazione militare col
Giappone. Oppure lo sviluppo (anch’esso necessario e
necessitato) della cooperazione economica e strategica con
Pechino, promossa e perseguita dall’Amministrazione Bush,
bilanciato dalla partnership strategica con l’India ed i
rafforzati legami con Giappone, Singapore e Vietnam.
Non c’è nulla di realmente nuovo, se non il timore, di Kagan
ed altri, che dietro la “dottrina” della strategic
reassurance obamiana si celi il disimpegno e l’arretramento
americano dal teatro asiatico, il baricentro mondiale del
Ventunesimo secolo. Una simile accommodation si verificò nel
Diciannovesimo secolo, quando la Gran Bretagna cedette agli
americani l’egemonia sull’emisfero occidentale. Secondo
Kagan, però, quella cessione di potere non era disfunzionale
agli interessi del mondo libero.
Per Kagan, “i leader
britannici riconobbero gli Stati Uniti come un alleato
strategico in un mondo pericoloso – come si è dimostrato
vero nel corso del Ventesimo secolo”. Posizione piuttosto
naïf, a nostro giudizio, perché sembra sottintendere che i
britannici avrebbero ceduto di buon grado ricchezza e potere
ad un soggetto emergente ideologicamente a loro affine. In
realtà, quella cessione avvenne obtorto collo, per presa
d’atto dello sfiancamento dell’Impero britannico, che era
ormai overstrechted, e in quell’accomodation si celava il
tentativo di ridurre i danni, fingendo una cooptazione che
era una resa.
La Cina del Ventunesimo secolo non sarà il Regno Unito del
Diciannovesimo, ma l’Impero americano è overstretched,
indebolito da gravi errori strategico-militari e da una
crisi finanziaria che sarebbero piaciuti a Edward Gibbon.
Obama dovrà rimediare a queste debolezze, per poter
recuperare leverage strategico nei teatri mondiali,
segnatamente in Asia. Per farlo, è scontato e razionale che
debba consentire (o meglio, che non possa impedire) alla
Cina di aumentare la propria influenza, regionale e globale,
senza che ciò significhi disarmo unilaterale ma anche senza
pensare ad improbabili confrontation muscolari. Ma ad oggi,
e dopo il discorso di accettazione del controverso premio
Nobel per la pace (come in parte lo stesso Kagan riconosce),
non c’è nulla che ci consenta di inferire che Obama sarà il
commissario liquidatore del “benevolo” Impero americano del
Ventesimo secolo.
Tutte le analisi che vanno in questa direzione, o che
assimilano Obama ad un Re Tentenna che oscillerebbe tra
irresolutezza declamatoria e scimmiottatura delle “eterne
leggi” del neconservatorismo sono solo parte di una
pubblicistica dozzinale che ammorba il nostro tempo.
 |
Fonte -
Epistemes.org |
Il consumatore
americano, nella corretta prospettiva
Sunday, 13 December, 2009 at
12:05 -
by phastidio ______________________________________________
Venerdì 11 dicembre è stato
pubblicato il dato di dicembre della survey sulla fiducia
dei consumatori (consumer sentiment), elaborato dalla
University of Michigan. La prima stima riporta un valore
dell’indice di 73,4, a fronte di stime poste a 68,8 e di un
dato di novembre pari a 67,4. Il miglior risultato da
gennaio 2008, guidato dalla componente delle condizioni
correnti, passata da 68,8 a 79,1, mentre l’indicatore delle
condizioni future è cresciuto meno, da 66,5 a 69,7.
I mercati si sono sentiti rinfrancati dal dato, soprattutto
rispetto alle prospettive dello shopping natalizio, ma
qualche cautela è d’obbligo. In primo luogo, non esiste una
traslazione automatica della fiducia dei consumatori in
effettivi acquisti. Secondariamente, il balzo delle
condizioni correnti sembra, analogamente allo scorso anno,
in qualche modo legato agli sconti aggressivi praticati dei
negozianti a partire dal Black Friday, che ha consentito
anche di ridurre le aspettative di inflazione tendenziale
tra un anno, da 2,7 a 2,1 per cento.
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Daily Trading Net
Revenuens |
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Daily Trading Net
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Non si deve inoltre dimenticare che il crash del mercato
immobiliare ha prodotto un “effetto-ricchezza” negativo sul
consumatore, sia perché non è più possibile estrarre liquidità
dal valore della proprietà immobiliare per mezzo
dell’indebitamento, sia per l’innegabile percezione di
impoverimento legata al crollo dei prezzi delle abitazioni. Da
ultimo, ma forse è la motivazione più importante, con una
condizione così difficile dell’occupazione (che non cresce, ma
sta semplicemente riducendo di contrarsi, e viaggia verso la
stazionarietà), è molto difficile immaginare il consumatore
americano come abituale protagonista della ripresa.
Può essere quindi utile, per mostrare le cose nella corretta
prospettiva, mostrare dove si trova oggi il consumer sentiment
rispetto alla condizione attesa delle finanze personali,
confrontandolo ad un orizzonte temporale decennale e
cinquantennale. C’è inequivocabilmente ancora molta strada da
percorrere.
Fonte
- Macromonitor
AMERICA: ARRIVERA'
UNA GRANDE DEPRESSIONE IPER-INFLAZIONISTICA
15 Dicembre 2009 02:30 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
"Cio' che e' accaduto negli
ultimi due anni, per colpa della Fed, fa da preliminare a un
Grande Collasso, una Grande Depressione iper-inflazionistica"
scrive John Williams di ShadowStats. Nulla sara' come prima.
WSI riporta parola per parola - senza commentare ne'
avallarne le tesi, aspettando che lo facciano i lettori -
quel che John Williams, gestore del popolare sito di
contro-informazione economico-finanziaria ShadowStats, ha
scritto nel suo ultimo rapporto pubblicato negli Stati
Uniti.
Per via della politica della Federal Reserve messa in atto
da Ben Bernanke (eredita' diretta dei molti anni di denaro a
costo infimo decisa da Alan Greenspan) l'America si avvia
verso un pauroso periodo di iper-inflazione.
"Le crisi in via di intensificazione, quella economica e
quella di solvibilita', e le risposte negli ultimi due anni
sia del'amministrazione Usa sia della Federal Reserve -
scrive Williams - hanno esarcebato le questioni relative
alla solvibilita' del governo e portato ai prossimi 5 anni
la mia stima temporale relativa all'iper-inflazione,
rispetto al range 2010-2018 stimato in un mio precedente
rapporto. La Casa Bianca e la Federal Reserve hanno ormai
scelto di impegnare il sistema in questa direzione, tramite
la politica del denaro facile prestato a niente, tramite il
servilismo nei confronti di poteri forti e denaro per
interessi speciali, una grossolana cattiva gestione, e un
deliberato continuo sforzo per minare il valore del dollaro.
Di conseguenza, i rischi che la crisi da iper-inflazione
scoppi entro il prossimo anno sono particolarmente alti".
"Quel che e' accaduto negli ultimi due anni fa da
preliminare ad un Grande Collasso, una Grande Depressione
iper-inflazionistica", continua Williams. "Cio' provochera'
un collasso totale del potere di acquisto del dollaro, un
collasso del normale flusso di attivita' economica e
commerciale degli Stati Uniti, il collasso del sistema
finanziario come lo conosciamo oggi, e un riallineameneto
dello scenario politico americano. L'attuale situazione dei
mercati finanziari, del sistema finanziario e dell'economia
rimangono altamente instabili e vulnerabili a shock
inaspettati".
Fonte
- www.wallstreetitalia.com
La Cina è metà della
crescita ma teme la grande bolla
18 Dicembre 2009 11:27 MILANO -
a cura di Alberto Annicchiarico ______________________________________________
La Cina contribuirà per oltre la
metà della crescita del Pil mondiale nel 2009 e continuerà
ad essere il motore dell'economia mondiale anche nei
prossimi anni. Lo ha detto il vice governatore della Banca
del popolo di Cina, Zhu Min. L'economia dovrebbe crescere
almeno dell'8% quest'anno, secondo le stime, dopo
l'incremento del 7,7% registrato nei primi nove mesi e i
successivi segnali di ulteriore miglioramento.
«Per la prima volta negli ultimi 50 anni, la crescita
mondiale sarà trainata da un paese in via di sviluppo», ha
detto Zhu ad una conferenza. «Il trend che vede l'Asia, in
particolare la Cina, agire da motore dello sviluppo invece
degli Stati Uniti e dell'Europa, continuerà», ha aggiunto,
anche se «aumenterà la pressione dei paesi sviluppati per
riguadagnare terreno e creare più occupazione nel settore
manifatturiero avanzato. Sarà una grande sfida per
l'industria cinese».
Ma non è tutto oro quel che luccica. Secondo l'ex chief
economist di Morgan Stanley per l'Asia, Andy Xie, oggi
analista indipendente, l'immobiliare e i mercati azionari in
Cina sono una nuova grande bolla che scoppierà quando
l'inflazione tornerà a correre nel 2011. In attesa di quel
giorno gli indici sono scesi per il quarto giorno
consecutivo (oggi -2,1% per il composite index di Shanghai),
con uno scivolone per i titoli del mattone, provocato dai
timori che il governo di Pechino stia per varare misure
anti-speculazione.
L'indice composite di Shanghai quest'anno ha guadagnato il
71% mentre il 15 maggiori titoli sull'indice Msci China sono
andati letteralmente in orbita: +90 per cento. «Siamo a una
versione meno glamorous della bolla innescata dall'ex
governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, e la
storia finirà con la risalita dei prezzi», avverte Xie,
secondo cui, tra l'altro, i prezzi delle azioni a Hong Kong
sono sopravvalutati di circa il 30 per cento.
Quanto ai prezzi dell'edilizia residenziale sono reduci
dalla maggior crescita mensile da luglio 2008: il carburante
è stato gentilmente offerto dal pacchetto di stimoli
governativi all'economia da 586 miliardi di dollari (in yuan
fa più impressione ed è anche cifra tonda: 4mila miliardi).
La conferma arriva anche da altri addetti ai lavori: «Certo,
l'inflazione preoccupa - ha spiegato a Bloomberg Mark Konyn,
gestore di masse pari a circa 12 miliardi di dollari come
Ceo di Rcm Asia Pacific - e sarà un tema forte nel 2010».
Particolarmente preoccupata Zhang Xin, ceo di Soho China
(proprietà disponibili per la vendità per un valore di 50
miliardi di yuan), secondo la quale il decollo dei prezzi
nell'immobiliare è insostenibile, tranne che in grandi città
come Pechino e Shanghai, dove la domanda giustifica le
quotazioni. «Il governo - ha spiegato Zhang a Reuters - deve
capire quanto sia grave la situazione, non può limitarsi a
intervenire a parole. L'unica strada è una stretta del
credito».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Martedì
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Mercoledì
30 Dicembre
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Giovedì
31 Dicembre
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Perchè
Copenhagen ha fallito
20 Dicembre 2009 15:19 Copenhagen
- di Gianni Riotta
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Per capire davvero perché la Conferenza sul clima di
Copenhagen è finita in un mesto zero a zero dovreste
chiedere al presidente Bush padre quanto è difficile mettere
d'accordo il mondo. Parlare di surriscaldamento del pianeta
mentre gran parte dell'Italia e degli Stati Uniti sono sotto
la neve e il gelo sembra bizzarro, ma è doveroso. Che
l'inquinamento sia un pericolo è chiaro: dove ci dividiamo è
sul che fare?
Copenhagen è fallita perché tutti i suoi attori hanno
fallito. Gli scienziati per primi: anziché discutere e
ragionare, con umiltà, sul rischio dei gas serra, si sono
lasciati andare a trucchetti da propagandisti, rubacchiando
e mail e dati, con il goffo risultato di rendere ancora più
scettica la già cinica opinione pubblica. Né i negazionisti
dell'effetto serra escono meglio, non guardano neppure la
roccia dove un giorno c'erano i ghiacciai e sfuggono al dato
del buon senso: nel dubbio è bene limitare i rischi.
Quando la parola, dagli attivisti che ormai, pro o contro,
fanno caciara e non battaglia di idee, è passata ai leader
politici, il circo Copenhagen ha dato il peggio. Tra
riunioni, steering committes, caucuses, commissioni, pranzi
e colazioni di «lavoro», s'è deciso di nulla decidere e di
rinviare tutto al 2010, sperando in chissà che cosa.
E cosa c'entra il presidente Bush padre, il vecchio George
Herbert Walker, direte voi? Fu lui il primo, caduto il muro
di Berlino 20 anni or sono, a capire quanto è difficile il
multilateralismo, mettere insieme la volontà di paesi grandi
e piccoli, poveri e ricchi, di varie fedi, latitudini e
interessi. Ci provò con la I guerra del Golfo, convocata con
egida Onu per sloggiare Saddam Hussein dal Kuwait nel
1990-91, e vide la sua armata, davvero internazionale,
europei (compresi italiani e tedeschi ritornati alle armi
dopo il 1945), arabi, africani, vincere senza poter
raccogliere i frutti della vittoria e il suo Nuovo Ordine
Mondiale, venne irriso dai no global e detestato dalla
destra Usa, fino all'attentato devastante di Oklahoma City
1995.
Clinton vagheggiò una «terza via» negli anni del boom, l'11
settembre costrinse Bush figlio all'unilateralismo che aveva
fatto denunciare alla Rice sulla rivista Foreign Affairs
solo nella primavera 2000. Ma l'America sola contro tutti,
fallì a sua volta. Una serie di mediocri segretari all'Onu,
Boutros Boutros Ghali, Kofi Annan e ora l'esangue Ban Ki
Moon, hanno tolto al Palazzo di Vetro sull'East River rigore
e autorità. Putin governa a Mosca con molto petrolio e
scarsa forza morale. I cinesi hanno peso economico e
crescente armatura militare ma non creano consenso. Noi
europei parliamo con troppe voci e siamo al tempo stesso
egoisti e «politically correct», diciamo no agli Ogm che
servirebbero in Asia e Africa , ma non sappiamo rinunciare
ai sussidi e ai dazi che tengono sotto i poveri. I nuovi
bulli del quartiere Terra, i Chavez, gli Ahmadinejad, i
caudillos dell'America Latina, il Sudan, e i loro cicisbei
d'Occidente hanno un solo obiettivo, far sfigurare
Washington, Israele e le democrazie, il resto non conta.
In questo caos sperare in un piano da tutti condiviso che
limitasse a due gradi Celsius (è il livello proposto dagli
scienziati seri, fidatevi ne esistono ancora) l'effetto
serra non era generoso, era infantile. Che Copenhagen non
andasse da nessuna parte era scontato - per chi si occupa di
queste vicende senza propaganda né egoismo – dall'inizio.
Ora gli europei si lamentano (come quasi sempre...), Obama
si dice deluso ma non troppo, la Cina non permetterà a
nessuno di controllare le sue emissioni (forse che a
Manchester, durante la rivoluzione industriale inglese,
qualcuno monitorava l'inquinamento? si chiedono ironici a
Pechino). Il presidente americano ha snobbato l'Unione
Europea e provato a metter d'accordo il club dei nuovi
potenti, il presidente sudafricano Zuma, il premier indiano
Singh, il premier cinese Wen Jiabao e il presidente
brasiliano Lula. Non ce l'ha fatta.
Il dilemma del pianeta Terra che Copenhagen non ha saputo
risolvere è semplice ma irriducibile. I paesi ricchi non
sanno come mantenere il proprio standard di vita senza
petrolio, i poveri non vogliono rinunciare alla crescita
quando - dopo secoli di fame - è finalmente arrivato il loro
turno.
Solo un ritorno al buon senso potrebbe rimettere d'accordo
tutti. Dimettere le ipocrisie ricchi-poveri (ne parla Moises
Naim a pagina 15), puntare sulle nuove tecnologie (tema
affrontato da Gabriele Galateri sempre a pagina 15),
investire nell'innovazione, capire che il prezzo del non
fare sarà superiore a qualunque investimento. Puntare sulla
tecnologia verde, sull'eco business, sul nucleare soft, su
motori a petrolio con meno impatto ambientale può comprare
tempo alla scienza per nuove direzioni di crescita.
Può darsi che abbia ragione il Nobel Stiglitz, convocato dal
presidente Sarkozy un tempo super industrialista ma forse
ammorbidito dalla bellissima signora Carla, e che il Pil e
la ricchezza, non siano i soli segnali di felicità. Di certo
la miseria resta segnale certissimo di infelicità, il Pil
non basterà a tutto, ma dove langue ci sono più lacrime che
sorrisi. Quanto al clima, scettici e creduloni, verdi e
cinici, ricchi e poveri dovrebbero pensare a che cosa
comporterà una migrazione di massa Sud-Nord dovuta a
carestia e cambi climatici anche minimi: per esempio nel Sud
del Mediterraneo.
Copenhagen ha fallito. In attesa del 2010 occorre continuare
a lavorare per lo sviluppo, l'ambiente e un pianeta dove ci
siano cibo, lavoro e ricchezza per tutti, dove le Maldive
non siano sott'acqua e tonni, capodogli e calamari
continuino a nuotare negli oceani mentre i bambini vanno a
scuola e i genitori hanno un lavoro. Senza illusioni, senza
disperare.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
LA CINA
HA DETTO BASTA
lunedì 21 dicembre 2009
-
Miaeconomia
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A prescindere dal considerare la
moneta debito in sé o energia monetaria che si può prendere
in prestito dal futuro (come credo io), tutti ormai
concordiamo che il debito accumulato ha superato la soglia
del non ritorno. L’aver accoppiato i bilanci pubblici con il
sistema finanziario ha semplicemente ritardato la resa dei
conti aggravandone la drammaticità nel momento in cui
bisognerà onorare (o meglio non onorare) i debiti
accumulati.
L’emissione dei nuovi debiti da parte degli stati nel 2009
(fonte Phoenix Project) è complessivamente stata di 5300
Miliardi di Dollari, l’80% dei quali concentrati nei tre
paesi di cui più volte abbiamo parlato (USA,UK, Giappone).
Non credo che nel 2010 la situazione potrà migliorare.
Paesi che uniscono al debito pubblico un enorme debito
privato (soprattutto USA e UK) come rivela un report di
Credit Suisse:
Finora la Cina ha
messo una toppa alle falle che progressivamente si sono
determinate (basti pensare la recente promessa d’acquisto
del debito greco) ma ora si è stancata, soprattutto non
vuole più comprare debito USA. Zhu Min, che non è un pinco
pallino qualsiasi, ma deputy governor of the People's Bank
of China ha ditto "The United States cannot force foreign
governments to increase their holdings of Treasuries…Double
the holdings? It is definitely impossible…The US current
account deficit is falling as residents' savings increase,
so its trade turnover is falling, which means the US is
supplying fewer dollars to the rest of the world…The world
does not have so much money to buy more US Treasuries." In
parole povere, d’ora in poi scordatevi che aumentiamo la
nostra esposizione nella vostra spazzatura (pardon, titoli
di stato).
Tutti sanno, in un simile contesto, che continuare ad
assegnare da parte di Moody’s la AAA (massimo rating) per il
debito sovrano di USA ed UK ha la medesima credibilità
dell’esistenza di Babbo Natale.
Pertanto chi pensa di poter valutare la solvibilità dei
paesi più grandi in virtù dell’andamento dei CDS è un
illuso. Un anno fa, il 31-12-2008, i CDS (costo annuo per
assicurare un debito di 10000 Dollari) relativi ad USA, UK e
Giappone erano rispettivamente 67,107 e 44. Oggi i CDS sono
divenuti rispettivamente 34,80,66. Insomma, rispetto ad un
anno fa, il debito sovrano USA è più sicuro (a prescindere
dai 3000 Miliardi di Dollari di nuova emissione)
E’ eufemistico dire che l’andamento dei CDS è edulcorato ed
è ormai divenuto indipendente dalla valutazione del rischio
reale. Ormai i CDS in qualche modo rappresentano una
speranza. In fondo è assolutamente comprensibile..passi per
Grecia e Dubai, ma chi mai potrebbe assicurarsi contro il
fallimento di USA, UK e Giappone? Un simile atto avrebbe il
medesimo significato di puntare sulla propria morte (tra
l’altro non avendo alcun erede).
Fonte
- Miaeconomia
Maxi fondo di emergenza
per le economie asiatiche
27 Dicembre 2009 19:49
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ANSA ______________________________________________
Maxi fondo di emergenza per le
economie asiatiche
Quattordici Paesi dell'Est e Sud-Est asiatico hanno firmato
un programma per costituire un fondo di emergenza di 120
miliardi di dollari. Il piano è chiamato Chiang Mai
Iniziative e il suo principale scopo è quello di dare vita a
una rete di sicurezza che protegga da una crisi finanziaria.
Giappone, Cina, Sud Corea, Hong Kong e i 10 membri
dell'Associazione Paesi asiatici sud-orientali (Asean)
saranno autorizzati a scambiare le rispettive valute in
dollari Usa fino a un importo prestabilito.
«Gli obiettivi fondamentali del fondo Chiamg Mai sono di
fronteggiare squilibri di bilancia dei pagamenti e di
liquidità a breve nella regione e integrare gli attuali
accordi finanziari internazionali», spiega un comunicato
ufficiale. In pratica tamponare eventuali emergenze di
liquidità in modo da prevenire lo scoppio di crisi
finanziarie (come ad esempio quella che colpì l'area nel
1997-98). .
Il fondo dovrebbe entrare in funzione nel marzo 2010. Ma non
si tratta di una versione locale del Fondo monetario
internazionale. Nè tantomeno rappresenta il primo passo
verso una forma di unione monteraria stile Ue. Tuttavia,
come segnala il ministero delle finanze coreano, rappresenta
un salto di qualità sul fronte della cooperazione
internazionale nell'area. Un'area il cui sviluppo,
condividono in molti, sarà cruciale nel trainare l'economia
mondiale fuori dalla crisi.
Fonte
- ANSA
Credito/2009:
Banche e Governi a Caccia Di Capitali. Pmi Al Palo
giovedì, 31 dicembre 2009 - 11:41
- di ASCA ______________________________________________
L'anno 2009 si chiude con
concreti segnali di ripresa del settore finanziario. Netto
il miglioramento delle condizioni di salute delle banche
Usa, vero epicentro della peggiore crisi finanziaria dal
1929. Proprio il mese di dicembre ha visto i big del
settore, da Bank of America (NYSE: IKJ - notizie) a Citi,
passando per Wells Fargo, annunciare il rimborso dei fondi
pubblici ricevuti dal Tesoro per evitare la bancarotta. Nel
complesso sui 245 miliardi di dollari che l'amministrazione
Usa ha investito direttamente nel capitale delle banche ne
sono rientrati gia' 90 miliardi. Lo stesso segretario Usa al
Tesoro (NYSE: TSO - notizie) , Timothy Geithner ha spiegato
che, in breve tempo, i rimborsi saliranno a 145 miliardi.
Anche in Europa pieno successo degli aumenti di capitale
delle banche con i quali sono stati restituiti i fondi
ricevuti dai governi. Ne sono state protagoniste in primis
le banche francesi, poi quelle britanniche, le piu' colpite
dalla crisi e dove la presenza delle Stato resta rilevante
anche dopo gli aumenti di capitale. In Italia, le banche
hanno scelto tre strade: Tremonti Bond, aumenti di capitale,
dismissioni. Dei Tremonti Bond, stanziamento iniziale 10-12
miliardi, ne hanno beneficiato Banco Popolare (Milano: BP.MI
- notizie) (1,95 miliardi di euro), Monte dei Paschi
(Milano: BMPS.MI - notizie) (1,9 miliardi), Banca Popolare
di Milano (Milano: PMI.MI - notizie) (500 milioni), Creval
(200 milioni). Hanno optato per gli aumenti di capitale
Banca Carige (Milano: CRG.MI - notizie) (prestito
convertibile da 400 milioni) ed Unicredit (Milano: UCG.MI -
notizie) (4 miliardi di aumento di capitale). Sulle
dismissioni ha invece puntat0 Intesa SanPaolo (Milano:
ISP.MI - notizie) ( 1,75 miliardi gia incassati con la
cessione del ''global custodian'' a State Street (NYSE: STT
- notizie) , oltre all'emissione di 1,5 miliardi di bond
assimilati a capitale). Piu' in generale, le
ricapitalizzazioni bancarie hanno trovato terreno fertile
grazie al ritorno del nero nell'ultima riga del conto
economico. Profitti giunti soprattutto dal trading di
tesoreria e del portafoglio di proprieta', dai prodotti
strutturati (ex tossici) che hanno recuperato valore, dalle
operazioni a leva. Bene (Vienna: BENE.VI - notizie) anche la
voce commissioni alimentata proprio dagli aumenti di
capitale, che spesso hanno visto la banca emittente anche
nel consorzio di collocamento, un modo per pagare se stessi.
Infine, un contributo e' giunto anche dal lato del taglio
dei costi. Il rafforzamento del conto econonomico e'
avvenuto di pari passo ai primi segnali di inversione
positiva del ciclo economico. Nel 3* trimestre il Pil degli
Usa e' salito del 2,2% su base annuale grazie al contributo
di consumi interni ed exportazioni. Buone nuove anche dall'Eurozon
dove, sempre nel 3* trimestre, il Pil e' salito dello 0,4%
grazie al contributo dell'export e delle scorte. E per il
2010 si prevede crescita positiva sulle due sponde
dell'Atlantico. Nonostante gli sforzi gia' compiuti e il
miglioramento del quadro macroeconomico , il capitolo del
rafforzamento del patrimonio bancario resta ancora aperto,
nei fatti siamo a meta' del guado. Lo dicono i numeri della
Bce, che ha aumentato le stime sulle svalutazioni del
settore bancario dell'Eurozona per il periodo 2007-10. La
nuova previsione porta il totale a 553 miliardi ( 198
miliardi in capo al portafoglio titoli e 355 miliardi in
capo ai prestiti) di cui 187 miliardi ancora da
contabilizzare. E lo continuano a ripetere Mario Draghi,
presidente del Financial Stability Board, Jean-Claude
Trichet, presidente della Bce, Ben Bernanke, presidente
della Fed. Molto dipendera' dagli sbocchi del dibattito in
corso alla Banca dei Regolamenti Internazionali. Da Basilea
potrebbe uscire una definizione di capitale Tier 1
(patrimonio di primo livello) piu' stringente di quella
attuale. Verrebbero esclusi gli strumenti ibridi (bond
convertibili) limitandosi a considerare solo i mezzi propri
in senso stretto (capitale azionario). Si discute poi di
fissare livelli di capitale per ogni tipologia di business
bancario: retail, investment banking, trading. Infine si
lavora a mettere dei limiti all'aumento delle leva
finanziaria. Tra i grandi ''cacciatori'' di capitali non
solo banche ma ma anche stati sovrani. Negli Usa il deficit
pubblico, per le misure anticicliche (700 miliardi a favore
del sistema finanziario, 787 miliardi di stimoli economici),
e' balzato ad oltre 1.400 miliardi constringendo il Tesoro
ad emettere ben 2.100 miliardi di titoli di stato. Stessa
musica nell'Eurozona dove, quest'anno, sono stati collocati
titoli di stato per 951 miliardi di euro, il massimo storico
dall'introduzione della moneta unica. Solo Italia, Francia e
Germania hanno raccolto su mercato 600 miliardi di euro.Un
fenomeno chiaramente alimentato dalla necessita' di
mantenere la coesione sociale in tempi di vacche magre. Con
la disoccupazione che viaggia a ridosso del 10%, non e'
irrealistico pensare che anche il 2010 sara' caratterizzato
da massicci collocamenti di titoli pubblici. Ci si chiede se
resteranno risorse disponibili per finanziare le piccole e
medie imprese, un importante universo economico del comparto
manifatturiero, vera spina dorsale dell'economia
dell'Eurozona. Si tratta di una moltitudine di operatori
alle prese con cali a due cifre del fatturato e impellenti
necessita' di finanziamento del capitale circolante. Al
momento, gli ultimi numeri disponibili relativi al mese di
novembre non sono incoraggianti. Rispetto al 2008, i
prestiti alle imprese sono scesi dell'1,9%, una flessione
tutta sulle spalle di quelle piccole e medie. Le grandi
''corporate'' non hanno sofferto alcun razionamento del
credito, nel 2009 le emissioni di bond societari sono
cresciute del 12,6%. Stesso copione per gli stati che hanno
aumentato la raccolta di capitali del 13%. Nei fatti, il
mercato del credito comincia a soffrire di un classico
''effetto spiazzamento'', dove le necessita' di
finanziamento dei debiti pubblici riducono l'offerta di
credito a disposizione delle Pmi. Cosi' lo Stato si presenta
come un sorta di Giano Bifronte. Da una parte raccoglie
capitali per mantenere la coesione sociale ma, nel fare
questo,favorisce involontariamente la rendita finanziaria a
scapito dell'economia reale.
Fonte
- ASCA
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