Quale
economia nel 2010
Tra liquidità e exit
strategy
05 Gennaio 2010 12:02 MILANO
– di Vittorio Carlini
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Outlook 2010 o, per dirla più semplicemente, previsioni per
l'anno in corso. Un'attività difficile. Sulla crisi in pochi
ci hanno azzeccato e si può obiettare: che senso ha, con un
territorio inesplorato quale l'attuale congiuntura, tentare
di dire come andranno le cose? Per rispondere si può
parafrasare John Mainard Keynes.
Quando si cerca di capire
chi possa vincere un concorso di bellezza, non bisogna
guardare alla ragazza che appare più bella; bensì, tentare
di capire quale concorrente affascina di più i giurati. Come
dire, insomma, che monitare l'umore di esperti e operatori,
senza alcuna pretesa di completezza, è utile, anche perché
loro stessi fanno parte della giuria.
Con una precisazione:
tutte le valutazioni si basano sempre su uno scenario di
base che cambia per ciascun esperto. Alle volte, le
argomentazioni utilizzate da un economista per sostenere la
crescita di un aggregato economico sono le stesse usate da
un altro per affermarne la dimunuzione.
La ricchezza della nazione nel
mondo...
Che Pil farà nel 2010? La risposta degli esperti è che il
futuro sarà meno nero. Lo scenario più probabile, per molti,
è che la ricchezza delle nazioni crescerà. «Il Pil mondiale
- scrive BofA Merrill Lynch - dovrebbe aumentare del 4,4 per
cento». «L'incremento è stimato, nel 2010, attorno al 3,2
per cento», fa da eco Citi. E l'elenco degli esperti
"votati" alla crescita potrebbe continuare. Tuttavia,
guardando dietro al dato aggregato le differenze tra le
economie saltano fuori, e con forza. «Il "decoupling" - dice
al Sole24ore.com Andreas Uterman, Global Chief Investment di
Allianz - è nelle cose: i paesi Bric (Brasile, Russia, India
e Cina, ndr) guideranno l'economia globale.
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Proiezioni PIL
mondiale |
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Fonte - Il Sole 24 Ore |
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Gli stati più
sviluppati, oberati di debiti e fiscalmente deboli,
dipendono troppo dalla spesa al consumo e dall'edilizia. Di
fatto stanno cercando di rimanere a galla dopo la stretta
creditizia. Al contrario, molti emerging country godono di
ottima solidità finanziaria, sostenuta dal crescente
benessere della popolazione». Così, seppur partendo da basi
relative di ricchezza inferiore all'Occidente, «i paesi
emergenti in media - dice BofA Merril Lynch - cresceranno
del 6,3 per cento, mentre quelli più industrializzati solo
del 2, 7 per cento». «Il Pil della Cina - aggiunge
Threadneedle - salirà dell 8,8%, a fronte di una ripresa
negli Usa del 2% e dell'1% in Eurolandia».
...in Europa
Già Eurolandia, l'Europa. Sulle possibilità del Vecchio
continente c'è qualcuno un po' più positivo. «Le nostre
stime - scrive Ubs - indicano una crescita del 2,4% a fronte
di un consensus dell'1,2 per cento». Ottimismo campato in
aria? No, dice Ubs e per quattro ragioni:
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Proiezioni PIL
Eurolandia |
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Fonte - Il Sole 24 Ore |
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«Innanzitutto, la ripresa mondiale sosterrà l'export
europeo, che non sarà affossato da un euro troppo forte;
inoltre, le condizioni dei creditori stanno, seppur
lentamente, migliorando» e non siamo più sull'orlo
dell'abisso; «poi, il mix di stimoli, sia fiscali sia di
politica monetaria, produrrà i suoi principali effetti nel
2010; infine, nonostante il consensus indichi una crescita
del Capex pari a zero, noi scommettiamo che gli investimenti
delle aziende in conto capitale ripartiranno già
quest'anno».
Ripresa continua o rallentamento?
Al di là delle stime di crescita sull'intero anno, c'è una
domanda che rimbalza tra gli economisti: sarà una ripresa
pulita a «V», o assisteremo a una ricaduta con l'andamento
del Pil che disegna una «W»? La passione per le lettere
dell'alfabeto, vista anche la difficoltà di realizzare
previsioni, è un po' ridicola. Tuttavia, il propendere per
uno scenario rispetto ad un altro significa osare più o meno
ottimismo. «In Eurolandia non siamo ancora di fronte ad una
reale ripresa», spiega al Sole24ore.com Marco Valli,
economista di UniCredit, che usa alcuni argomenti di Ubs ma
in maniera differente. La spinta, infatti, è arrivata «da un
andamento migliore delle attese del commercio mondiale» che,
tuttavia, «potrebbe non continuare. Nella prima parte del
2010, quando peraltro importanti incentivi statali
inizieranno a venir meno, potremmo assistere ad una certa
debolezza dell'economia. Un rallentamento, con una ripresa
nella seconda parte dell'anno. In generale, nel 2010 il Pil
dell'Eurozona dovrebbe salire dello 0,9 per cento, per poi
aumentare dell'1,3% nel 2011».
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Proiezioni Price
to book value |
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Fonte - Il Sole 24 Ore |
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Diversa l'impostazione di Citi. La banca americana, seppur
parlando di Pil globale, indica che «la ripresa seguirà un
andamento più simile alla figura della «V» che ad altre».
Fabrizio Quirighetti, capo economista di Banca Syz, segue le
"orme" di Valli ma sceglie un timing differente: «Il 2010 -
dice l'esperto - rischia di rimanere una finestra positiva
su di uno scenario che, nel 2011, potrebbe di nuovo
rivelarsi negativo. Durante l'anno in corso (analogamente a
quanto indicato da Ubs, ndr) sentiremo in pieno gli effetti
delle politiche fiscali espansive messe in atto dai governi,
oltre a quelle monetarie delle banche centrali. Poi, però,
questi effetti verranno meno», e fondamentale sarà cogliere
il momento giusto per l'abbandono delle misure d'eccezione.
Altrimenti si rischierà di ricadere in recessione.
Tassi, le mosse di Bernanke...
È la famosa exit strategy che, a detta degli esperti, non
riguarderà in prima battuta la politica dei tassi. «Nel 2010
la Fed non sposterà il costo del denaro dall'attuale
forchetta compresa tra lo 0 e 0,25 per cento -
dice Quirighetti - . Anzi il problema per Ben Bernanke,
presidente della banca centrale americana, sarà quello di
mantenere i tassi attuali anche quando all'opinione pubblica
sembrerà che l'economia è in vera ripresa. Al contrario, la
Fed dovrà ridurre, passo dopo passo, con estrema abilità il quantitave easing, cioè l'acquisto di obbligazioni dalle
banche d'affari. Con un grande rischio per i titoli
governativi».
...con il rischio sui titoli di
stato...
Vale a dire? «Sui Treasury trentennali c'è la possibilità
che possa scoppiare una bolla. Attualmente il loro
rendimento è tenuto basso dagli acquisti, anche degli
istituti finanziari. Quegli stessi istituti che, proprio
grazie al quantitative easing, "vendono" i bond alla Fed.
Con il venire meno della politica espansiva della Federal
reserve caleranno giocoforza anche gli acquisti dei
trentennali e, di conseguenza, saliranno i rendimenti». E la
curva dei rendimenti, con i Fed fund di fatto a zero,
potrebbe inclinarsi, pericolosamente. Diversa l'impostazione
di Valli: «Io credo che Bernanke rimarrà con i tassi fermi
fino alla fine dell'estate prossima - spiega l'economista -.
Poi, gradualmente, li alzerà, portandoli all'1,25 per la
fine del 2010».
...e la Bce deve attendere
E la Banca centrale europea? «Manterrà i tassi all'1 per
cento», risponde Valli. Un'impostazione condivisa da Ubs
secondo cui esistono tre motivi essenziali alla base di
questa scelta. Per l'Unione della banche sviezzere «il primo
è che, seppure il sistema finanziario si muove nella giusta
direzione e le condizioni del credito migliorano, le banche
hanno ancora bisogno del sostegno della Bce: un rialzo dei
tassi creerebbe problemi per il finanziamento dell'economia
reale». Il secondo è il rischio di una ricaduta nella crisi.
«Bisogna ricordare - scrive Ubs - che le armi di Eurotower
sono state già usate quasi tutte. Quindi, alzare i tassi
metterebbe la banca centrale con le spalle al muro
nell'ipotesi della cosiddetta double dip». Il terzo è che,
incrementando il costo del denaro, «l'euro finirebbe sotto
pressione nei confronti del dollaro. Una situazione non
positiva» per l'economia di Eurolandia, che si basa molto
sull'export.
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Moltiplicatore
monetario in % anno su anno |
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Fonte - Il Sole 24 Ore |
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Molti esperti, tuttavia, temono l'attivismo di Jean Claude
Trichet che, nel passato, ha mostrato troppa sensibilità
all'inflazione. «Il rischio - afferma Quirighetti - esiste:
la Bce che si muove prima della Fed sarebbe un grande
errore». «Che, però - aggiunge Valli -, non si
concretizzerà. È vero che la Bce, anche per il suo statuto,
ha quale obiettivo il mantenimento di una bassa inflazione e
non la crescita economica. Da un lato, però, Francoforte ha
imparato dallo sbaglio del 2008 quando non comprese che
l'aumento dei prezzi era causato solo dalla variabile
esogena del petrolio», schizzato oltre i 147 dollari al
barile.
L'inflazione rimarrà bassa
Dall'altro, i timori di un surriscaldamento dell'economia
sono bassi. «L'inflazione core (esclusa l'energia,
l'alimentare, l'alcool e il tabacco, ndr) sta rallentando -
dice Valli - . Dopo aver raggiunto un picco alla fine del
2008 (+1,9%), nell'ottobre 2009 si è attestata su un rialzo
dell'1,2 per cento. E la nostra stima sui sei mesi è per un
tasso di crescita dell'1 per cento». Peraltro l'elemento che
ha maggiore effetto sull'inflazione è, in questo periodo,
l'occupazione. La perdita del posto di lavoro, oltre ad
essere una tragedia personale, significa calo della
propensione marginale al consumo e della domanda aggregata.
Nei paesi Ocse, putroppo, il trend è ancora di un tasso di
disoccupazione in crescita: il che non fa pensare ad una
ripresa dei prezzi al consumo prima del 2011. «Non vedo
rischi inflazionistici -concorda Nicola Trivelli, direttore
investimenti di Sella gestioni -. Anche se biosognerà porre
attenzione ai prezzi delle commodity, spinti dalla domanda
asiatica e dalla ormai consolidata presenza delle materie
prime nei portafogli istituzionali, e non, come asset class».
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Proiezioni OCSE su
Inflazione e Disoccupazione |
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Fonte - Il Sole 24 Ore |
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Di più: nemmeno l'enorme liquidità immessa nei mercati, per
evitare il collasso del sistema, ha attualmente effetti
«inflattivi - aggiunge Valli- . Il "denaro frusciante",
infatti, non fa aumentare l'aggregato monetario più ampio
l'M3 mentre fa crescere quello più stretto», l'M1. Il che
significa che la liquidità viene sì usata, ma non esce dal
mercato del credito. Rimane, per la maggior parte,
"intrappolato" negli istituti finanziari e nelle banche
centrali e quindi non causa, almeno per adesso, una crescita
dei prezzi al consumo.
Dove va Wall Street?
Fin qui alcune considerazioni sul possibile futuro
dell'economia reale. Ma quale l'impatto sui mercati
finanziari, in particolare quelli Usa che, fino ad ora,
hanno dato il «la» agli altri listini? «Credo - dice
Quirighetti - che negli Usa assisteremo ad una ripresa
dell'occupazione nel 2010. Questo vuol dire una crescita
degli stipendi di circa il 2-3% e un conseguente incremento
della domanda aggregata. Una situazione che si rifletterà
positivamente anche sui corsi azionari». Molti esperti,
però, dubitano che questo futuro "tesoretto" sarà speso o
investito: il debito degli americani è già altissimo. «Non
penso sia una questione di debito, bensì di qualità di asset
e di ritorno sugli investimenti. Non siamo più a fine 2008
con le Borse che crollavano e l'immobiliare in caduta
libera. Inoltre, i tassi a zero non permettono buoni
rendimenti sul titoli di stato.
La propensione al risparmio
non aumenterà. In un simile scenario l'S&P500 potrebbe
salire del 10-15 per cento. Bisogna, però, sottolineare una
cosa». Vale a dire? «Si tratterà di un mercato difficile da
gestire, soggetto a varie correzioni. L'attenzione dev'essere
massima». «La performance dell'anno - concorda Trivelli -
dovrebbe attestarsi al 10% per i mercati sviluppati.
Tuttavia i fattori di incertezza e volatilità in questo
scenario sono ancora molti ed è appropriato agire con molta
prudenza». «Considerata la progressione ininterrotta del
trend borsistico dai minimi di marzo 2009 - specifica Uterman -, i titoli azionari non sono più così convenienti.
Nel primo semestre dell'anno mi aspetto una correzione.
Nondimeno, credo potremo assistere ad un apprezzamento del
mercato del 5-10% a fronte di un andamento molto sostenuto
degli utili e di tassi costantemente bassi». Più ottimista
Trevor Greetham , direttore asset allocation di Fidelity
International: «Ritengo - dice l'esperto - che ci troviamo
di fronte ad una fase rialzista che durerà alcuni anni. Il
rally partito a marzo è stato caratterizzato da
un'inversione di tendenza delle azioni confermata dagli
indicatori di fiducia delle imprese. Per la prima volta dal
2007 siamo in presenza di condizioni favorevoli per coloro
che vogliono investire in azioni, con i mercati emergenti e
l'Asia in prima fila» .
 |
Fonte -
www.ilsole24ore.it |
USA: I GUAI
COMINCERANNO DAL SECONDO TRIMESTRE
07 Gennaio 2010 04:30 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
A meta' 2010 l'economia
scivolera' nuovamente in una recessione. Quando le misure
straordinarie di stimolo fiscale cesseranno di avere
effetto, rimmarrano consumatori propensi piu' a risparmiare
che a spendere e un sistema bancario malato.
Il peggio e' ormai alle spalle. Quante volte abbiamo sentito
pronunciare queste parole, dette in riferimento allo stato
di salute della maggiore economia del mondo, che dagli
ultimi dati a disposizione sembra avviata verso una lenta,
ma progressiva ripresa. Eppure non tutti la pensano cosi'
Una volta che, a partire dal secondo trimestre, le misure
strarodinarie per stimolare le attivita' economiche verranno
meno, cosi' come la fase di incremento delle scorte, gli
Stati Uniti sono destinati a sprofondare in una nuova
recessione.
A lanciare l'avvertimento e' l'economista James Shugg, che in un'intervista concessa all'emittente americana
CNBC ha detto di essere convinto che "nella seconda parte
dell'anno entrera' in gioco una certa, preoccupante
discrepanza".
Il senior economist di Westpac Bank sostiene che non appena
la fase di incremento delle scorte e le iniziative
straordinarie per rilanciare la ripresa economica perderanno
vigore non rimarra' altro che una schiera di "consumatori
ancora propensi a risparmiare piuttosto che a mettere mano
al portafogli, un sistema bancario che non e' ancora
guarito, colpito dal fatto che un mutuo su quattro risulti
ancora insolvente".
Shugg prevede che il Prodotto Interno Lordo Usa rimanga
positivo nel quarto trimestre del 2009 e nel primo trimestre
dell'anno successivo, attestandosi tra il 3 e il 4% su base
annuale.
Fonte
-
www.wallstreetitalia.com
La crescita del deficit
pubblico è strutturale. Titoli di Stato un po' meno
sicuri.
08-01-10 -
di Sara Silano ______________________________________________
I fondi obbligazionari
governativi area Euro hanno reso il 3,93% nel 2009 e sono
stati una delle peggiori categorie. Non si sono comportati
in modo molto diverso i comparti a breve termine (+4,01% nel
2009). Gli investitori, però, sono tornati ad investire su
questi strumenti ed in particolare quelli con le scadenze
più corte. Dopo la grande paura causata dalla crisi
finanziaria, la cedola staccata periodicamente dai titoli di
Stato appare rassicurante, anche se i rendimenti sono scarni
per via dei bassi tassi di interesse. Ma quello che sta
succedendo sul mercato del reddito fisso suggerisce che è
meglio non dormire sugli allori.
L’area Euro si trova a fronteggiare un peggioramento della
qualità del debito sovrano, come ha mostrato il caso della
Grecia. Se i Paesi più deboli avvieranno politiche fiscali
restrittive la ripresa economica sarà rallentata; al
contrario se non lo faranno, le agenzie di rating
abbasseranno il giudizio con conseguente allargamento dei
differenziali (spread) rispetto al Bund tedesco. Nel primo
caso è possibile che i tassi rimangano bassi a lungo, nel
secondo aumenterà il rischio per le nazioni con gli
squilibri maggiori.
E’ proprio quest’ultimo scenario quello che si sta
realizzando, complice anche il no dell’Islanda al rimborso
degli investitori inglesi e olandesi. La Gran Bretagna,
infatti, ha congelato la tranche di prestito di cui l’isola
ha bisogno per uscire dalla crisi e Fitch ha declassato a
bond spazzatura il debito del Paese. Anche Standard&Poor’s è
pronta a prendere un simile provvedimento.
”L’allargamento degli spread tra i Paesi dell’area Euro è un
fenomeno strutturale”, dice Maurizio Novelli, global
strategist di Zest asset management. “Ed è destinato ad
accentuarsi nel corso del 2010”. D’altra parte, la Bce e la
Germania sono state dure con la Grecia, escludendo la
possibilità di un salvataggio da parte dell’Ue.
Il problema non è solo di
Eurolandia. Come ha scritto Bill Gross (co-fondatore di Pimco),
uno dei più grandi investitori in bond al mondo, Stati Uniti,
Giappone e Regno Unito sperimenteranno una crescita
“strutturale” del deficit nei prossimi anni. Si muoverà
controcorrente la Germania, con conseguente aumento degli spread
tra il Bund, da un lato; i Treasury (titoli di Stato Usa) e i
Gilt (Gran Bretagna), dall’altro. Non a caso, Gross dice:
“Investors go to Germany” (gli investitori vanno in Germania).
Inoltre, se i piani di uscita dalla crisi proseguiranno come
programmato, i mercati finanziari inglesi e americani potrebbero
soffrire per il venire meno dei 2 mila miliardi di dollari di
emissioni statali che hanno dato liquidità nel 2009.
Il reddito fisso appare un paradiso sicuro, ma nella realtà non
tutti i titoli lo sono allo stesso modo e non bisogna dare nulla
per scontato. La cedola è una delle componenti che bisogna
considerare in quanto indica la remunerazione del capitale
prestato (un’obbligazione è uno strumento di finanziamento per
uno Stato o un’azienda). Se è elevata vuol dire che gli
investitori esigono un premio maggiore per comprare il titolo,
perché è alta la probabilità di non riavere indietro i propri
soldi. Il rendimento totale, però, dipende anche dalle
variazioni del prezzo di mercato, che può aumentare o diminuire
a seconda delle aspettative sui tassi e sull’emittente.
Fonte
-
www.morningstar.it
Preavviso di
burrasca
January 8th, 2010 by editor -
di Mario Seminerio ______________________________________________
La Federal Deposit Insurance
Corporation (FDIC), in coordinamento con le altre agenzie
che compongono il Financial Institutions Examination Council,
ha pubblicato ieri un avviso che ricorda che i supervisori
si attendono dagli intermediari finanziari l’applicazione di
solide pratiche di gestione del rischio di tasso
d’interesse. Nell’attuale contesto di tassi d’interesse
storicamente bassi, sostiene la FDIC, è importante che le
istituzioni finanziarie abbiano robusti processi per
misurare e, ove necessario, mitigare la loro esposizione a
potenziali aumenti dei tassi d’interesse.
Nell’attuale congiuntura, finanziare attivi a lungo termine
con passività a breve (il cui costo è prossimo allo zero)
sta aiutando le banche a produrre rilevanti utili, ma pone
anche rischi per il capitale e gli utili delle istituzioni
coinvolte. Il tema è delicato, visto anche il nervosismo con
il quale i mercati tendono ad accogliere dichiarazioni di
banchieri centrali che segnalano l’esigenza di rimuovere
l’enorme espansione monetaria attuata negli ultimi due anni. Al succedersi di dati
congiunturali favorevoli, il mercato tenderà ad aumentare i
rendimenti obbligazionari, scontando non solo la fine del
quantitative easing, ma anche l’inizio di un ciclo esplicito di
restrizione monetaria. A quel punto, i mercati azionari potranno
prendere coscienza che gli utili futuri devono essere scontati a
tassi ben più elevati, e di conseguenza potrebbero rettificare
al ribasso le quotazioni, anche in modo violento.
Non bisogna dimenticare che l’attuale ripresa è frutto
soprattutto del ciclo delle scorte, mentre gli investimenti
languono ed i consumi stanno tentando di stabilizzarsi su
livelli comunque depressi. Ecco perché è lecito continuare a
chiedersi se questa ripresa avrà le gambe.
Fonte
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Epistemes.org
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2010 |
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2010 |
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14
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L'inflazione:
una inutile scorciatoia
Giovedì 07 gennaio 2010 MESSINA
– di Leon Zingales
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Inflazione elevata e deflazione sono due facce della
medesima medaglia e si sono sempre alternate come la notte
segue il giorno.
Attualmente sono un sostenitore della tesi deflazionista (o
comunque inflazione molto bassa), ma
non è impossibile che
nel giro di qualche mese (non vedo però nessun particolare
segnale rivelatore) possa scatenarsi un’elevata inflazione.
Ciò potrebbe accadere qualora l’immensa quantità di
liquidità conseguenza del Quantitative Easing venisse
utilizzata per inondare l’economia reale, anziché, come
fatto finora, neutralizzare gli asset tossici del morente
sistema finanziario.
Pur non vedendo alcun preavviso della possibile ondata
d’inflazione desidero commentare la frase di Siniscalco (il
quale ha ovviamente maggiori informazioni rispetto a me e
probabilmente vede i prodromi dei segnali premonitori)
riferita nel post precedente:
”l’ondata di inflazione è
sempre una soluzione..sottotraccia è la soluzione a cui
molti pensano”.
In altre parole Siniscalco afferma (anche se indirettamente)
che il rimedio meno drammatico per ridurre il peso dei
debiti degli Stati sarebbe un’elevata inflazione. In realtà
pensare di ridurre il fardello dei debiti sovrani attraverso
un’elevata inflazione è pura follia di economisti
neo-classici indottrinati da sommi maestri dogmaticamente
legati a teorie continuamente falsificate dall’esperienza.
Ovviamente, considerando il punto di vista di un privato
cittadino dipendente che abbia un debito a tasso fisso,
l’inflazione riduce il debito considerando che il salario
cresce, più o meno (in verità più meno che più), con un
tasso comparabile all’inflazione (insomma l’inflazione
consente di aumentare la velocità con cui scorre il tempo).
Viceversa, la deflazione determina un rallentamento della
scala temporale avvantaggiando il creditore ed aumentando il
peso del debito.
Ma ciò che funziona per debiti a tasso fisso del privato
cittadino non può funzionare per i debiti degli Stati per un
duplice motivo: la differente duration dei titoli di Stato e
l’enorme mole di debito estero con conseguente dipendenza
dal rapporto valutario.
La duration dei titoli emessi in qualche modo è comparabile
con un debito a tasso variabile strettamente connesso al
valore dell’inflazione: di conseguenza (è una
semplificazione di cui mi perdonerete) aumentando
l’inflazione aumenta il valore del debito.
L’enorme dipendenza da investitori esteri deve inoltre
tenere conto che ogni valuta funge da sistema di riferimento
temporale diverso e quindi, onde continuare a garantire
l’appetibilità dei titoli, bisogna prestare attenzione ai
rapporti di cambio valutario. Di conseguenza, rispetto ai
debiti esteri, ogni accelerazione temporale viene vanificata
allorché la valuta interna perde repentinamente di valore.
Ecco un apparente paradosso: anche in presenza di
un’iperinflazione i debiti sovrani fortemente esposti verso
investitori esteri aumentano come se fossimo in deflazione .
Tale paradosso è inspiegabile nell’ambito della visione
neo-classica, ma è invece comprensibile considerando il
confronto tra le diverse scale temporali (legate alle
corrispondenti inflazioni) di sistemi di riferimento
differenti (Stati) in moto relativo tra di loro (con
velocità associata al rapporto di cambio valutario).
In altre parole l’elevata inflazione (o peggio
l’iperinflazione), non solo funge da innaturale elemento
acceleratore comparabile ad una vera e propria metastasi per
i processi economici distruggendo il risparmio, ma
paradossalmente non aiuta a diminuire i debiti sovrani
spingendoli verso un triste default.
 |
Fonte -
www.WallStreetItalia.com |
La settimana,
1/2010
Saturday, 9 January, 2010 at 15:18 -
by phastidio ______________________________________________
Settimana caratterizzata dalla pubblicazione, negli Stati
Uniti, del dato di dicembre relativo alla occupazione non
agricola, che ha mostrato un’inattesa riduzione di 85.000
unità, a fronte di attese per un dato invariato. Il tasso di
disoccupazione è risultato pari al 10 per cento, ma solo per
effetto della riduzione del numero dei soggetti presenti
nella forza lavoro, in conseguenza dell’aumento del numero
dei lavoratori scoraggiati, superiore a quello di quanti
hanno perso l’impiego. Il report sull’occupazione mostra
tuttavia anche qualche elemento di moderata positività,
quale l’aumento del numero degli impieghi temporanei,
considerati il precursore della ripresa del mercato del
lavoro. Di rilievo anche il numero particolarmente elevato
di quanti non hanno lavorato per cause meteorologiche,
effetto dell’ondata di maltempo abbattutasi sugli Stati
Uniti. Anche in Europa, il mercato del lavoro ha mostrato,
per il mese di novembre, ha evidenziato un tasso di
disoccupazione del 1o per cento, il maggiore da 11 anni. Prosegue, negli Stati Uniti ed in Europa, la ripresa della
manifattura, come confermato dagli indici ISM americano e
PMI europeo, che hanno segnato in dicembre il nuovo massimo
dei livelli di attività rispettivamente da 42 e 21 mesi. La
tendenza alla ripresa manifatturiera appare peraltro comune
a tutte le economie sviluppate, come mostrano anche gli
indicatori britannico e giapponese di attività.
Prosegue anche il dibattito sulla necessità di implementare
misure di ritiro dell’eccezionale stimolo monetario e
fiscale applicato sull’economia globale negli ultimi due
anni. Anche la Cina si muove in questa direzione: la banca
centrale di Pechino ha venduto in settimana titoli di stato
a tre mesi con rendimenti in rialzo (sia pure di soli 4
centesimi) per la prima volta in 19 settimane, affermando
che nel 2010 porrà enfasi sul controllo dell’eccezionale
espansione del credito e dell’inflazione. Anche negli Stati
Uniti e nel Regno Unito si sono levate voci di timore per
quello che potrà accadere ai rendimenti obbligazionari
quando lo stimolo verrà progressivamente ritirato. Per
evidenti motivi, i mercati mostrano di seguire questo tema
con particolare attenzione. Nel mese di novembre, il credito al consumo statunitense è
diminuito dell’8,5 per cento su base annualizzata, con un
calo in doppia cifra per i crediti revolving, cioè legati
alle carte di credito. Continua quindi il processo di
riduzione dell’indebitamento del consumatore americano che,
in assenza di sviluppo di occupazione e reddito, è destinato
a mantenere frenata la crescita dei consumi, che
rappresentano circa il 70 per cento del Pil statunitense.
Nel corso della settimana, i mercati azionari hanno messo a
segno un ulteriore progresso delle quotazioni, in parallelo
con la ripresa dei corsi delle materie prime. La prossima
settimana si aprirà la earning season del quarto trimestre,
e le attese sono per una verifica della crescita dei
fatturati, dopo che la redditività degli ultimi trimestri è
stata preservata tagliando in modo feroce i costi,
soprattutto del lavoro, ed aumentando quindi il grado di
leva operativa delle aziende, cioè la loro profittabilità al
crescere dei ricavi. Un dato interessante è quello relativo
all’indice Dow Transportation, che tende ad essere
anticipatore e conferma della ripresa del più ampio mercato,
e che è cresciuto sulla scorta di nuove evidenze aneddotiche
di ripresa del traffico ferroviario di merci, e del forte
aumento (più 14 per cento) degli utili del quarto trimestre
previsti da UPS.
Fonte
- Macromonitor
Bri: «Rischi
eccessivi per il sistema bancario»
10 Gennaio 2010 20:58 BASILEA -
dall'inviato Alessandro Merli - Il Sole 24 Ore ______________________________________________
BASILEA . Faccia a faccia fra governatori e banchieri
privati in un pranzo alla Banca dei regolamenti
internazionale, la "banca centrale delle banche centrali", a
Basilea.
L'euforia dei mercati finanziari di questi mesi, il ritorno
delle banche ad attività di trading ad alto rischio grazie
al costo del denaro ai minimi storici, il revival dei
superbonus dei banchieri sono i tre temi più delicati che le
autorità hanno sollevato con i rappresentanti del settore
privato. Fra i governatori c'è il timore che si stiano
ricreando le stesse condizioni che hanno portato il sistema
finanziario alla crisi globale degli ultimi due anni. La
discussione è stata introdotta dal direttore della stessa Bri, Jaime Caruana, ex governatore della Banca di Spagna,
dove ha realizzato uno dei sistemi di regole per le banche
più efficaci. La Bri, poi, è una voce che si fa ascoltare:
fu l'unica delle grandi istituzioni internazionali a predire
l'arrivo della crisi. E oggi ha presentato ai banchieri un
rapporto in cui si rileva che i rischi nel sistema stanno
tornando «eccessivi».
Al tavolo, sulla sponda delle autorità, c'erano presenza
autorevoli, dal presidente della Federal Reserve, Ben
Bernanke, a quello della Banca centrale europea, Jean-Ckaude
Trichet, al governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi,
qui nella veste anche di presidente del Fianancial Stability
Board, l'organismo creato dal summit del G-20 per riscrivere
le nuove regole della finanza in funzione anti-crisi.
Proprio l'Fsb ha lanciato sabato una revisione sulla
questione dei superbonus, per vedere quali paesi e quali
banche stanno applicando principi che eliminino gli
incentivi a prendersi rischi troppo elevati. In una
situazione in cui lo stato di salute di molte banche è
ancora fragile, le autorità vorrebbero poi che con i rpfitti
che stanno tornando gli istituti andassero a rafforzare il
capitale, non a impinguare le tasche dei loro banchieri di
punta.
I grandi banchieri privati (tutti i grandi istituti mondiali
erano rappresentati: per l'Italia, Intesa Sanpaolo, con
Coarrdo Passera, e Unicredit, con Alessandro Profumo) non
hanno solo ascoltato. Hanno dichiarato disponibilità, hanno
sostenuto, per bocca dei vertici dell'Institute of
International Finance, l'associazione delle grandi banche
mondiali, che si stanno già muovendo su diversi fronti per
chiudere le falle che hanno portato alla crisi. Ma temono
l'arrivo di troppe regole.
Da domani, però, tutti a casa. E si tratterà di passare
dalle parole ai fatti.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Bolle globalizzate
January 11th, 2010
-
di Mario Seminerio ______________________________________________
Eccellente grafico interattivo dell’Economist sulla
rivalutazione dei prezzi immobiliari in giro per il mondo.
Scegliete il trimestre di partenza ed i paesi da
confrontare, e potrete verificare che la bolla immobiliare è
stata pressoché globale, con buona pace del ritornello di
una bolla costruita negli Stati Uniti per effetto dei
finanziamenti agevolati concessi alle minoranze. Purtroppo
questa è una leggenda metropolitana di matrice repubblicana
con cui dovremo abituarci a convivere, malgrado robuste
evidenze del contrario, e che peraltro non spiega in alcun
modo la bolla del Commercial Real Estate. E quindi, quali le
cause?
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Comparazione
indicatori prezzi settore immobiliare |
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Fonte - The Economist |
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Giorni addietro Ben Bernanke ha spiegato che, a suo avviso,
non vi sarebbero correlazioni significative tra il livello
dei tassi d’interesse e le bolle immobiliari, mentre più
significativo sarebbe il legame con i flussi di capitale,
cioè con il deficit delle partite correnti e, in ultima
istanza, con la presenza di scostamenti nei livelli di
equilibrio nei tassi di cambio. Questo squilibrio macro
potrebbe essersi innestato su uno squilibrio micro, a
livello cioè di standard di credito immobiliare piuttosto
laschi, e di più o meno benevola negligenza (à la Greenspan,
per intenderci) nella supervisione degli intermediari
creditizi. Altra concausa, sostenuta tra gli altri da Paul
Krugman, è quella che ipotizza che le maggiori pressioni sui
prezzi si siano sviluppate in aree densamente popolate e
altrettanto rigidamente regolamentate nelle autorizzazioni a
edificare (Florida e California, nell’esempio di Krugman).
La ricerca del colpevole continua.
Fonte
- Epistemes.org
|
Se
Tokyo sbaglia Pechino
impara
13 Gennaio 2010 14:46 MILANO
– di Martin Wolf
________________________________________
Vent'anni fa, era opinione comune che il Giappone
fosse il caso di maggior successo fra i paesi ad alto
reddito. Pochi potevano prevedere che cosa si stesse
preparando. Oggi è opinione comune che il Giappone sia
vittima di un lungo declino.
Che cos'è che è andato storto?
Che cosa dovrebbe fare il nuovo governo giapponese? Che
insegnamenti possiamo trarre dall'esperienza del paese
asiatico?
Certo, bisogna contestualizzare. Guardando alla qualità del
sistema ferroviario e alla qualità della cucina, ad esempio,
un visitatore europeo si renderebbe conto di venire da un
paese indiscutibilmente arretrato. Se questo è declino, la
maggior parte delle persone ci metterebbe la firma.
Ma che sia declino, non c'è dubbio.
Negli ultimi vent'anni,
l'economia è cresciuta al ritmo annuo medio dell'1,1 per
cento. Secondo lo storico dell'economia Angus Maddison, il
Prodotto interno lordo pro capite del Giappone (a parità di
potere d'acquisto) tra il 1950 e il 1991 è passato dal 20
all'85% rispetto al livello degli Stati Uniti. Nel 2006 era
ridisceso al 72 per cento. In termini reali, il valore
dell'indice di borsa Nikkei è un quarto di quello che era
due decenni fa.
Ma la cosa forse più inquietante è che il
debito pubblico complessivo, netto e lordo, è schizzato dal
13% e 68% del Pil nel 1991 a livelli che per il 2010 sono
stimati rispettivamente al 115% e 227 per cento.
Che cos'è andato storto?
Richard Koo, della Nomura Research,
punta il dito sulla deflazione. Secondo Koo, un'economia
dove chi è troppo indebitato dedica i propri sforzi a
saldare il debito ha le seguenti tre caratteristiche:
l'offerta di credito e di liquidità bancaria cessa di
crescere, non perché le banche non siano disposte a
prestare, ma perché le aziende e le famiglie non vogliono
prendere soldi in prestito; la politica monetaria
convenzionale è in gran parte inefficace; e il desiderio del
settore privato di migliorare la propria situazione
patrimoniale fa emergere lo stato come prestatore di ultima
istanza.
Il risultato è che tutti gli sforzi di "normalizzare" la
politica monetaria e di bilancio falliscono, fino a quando
l'aggiustamento patrimoniale del settore privato non è
completato. I saldi finanziari settoriali fra risparmi e
investimenti (entrate e uscite) nell'economia giapponese
sono la dimostrazione di che cosa stava e sta succedendo.
Nel 1990, tutti i settori erano vicini all'equilibrio. Poi è
arrivata la crisi. L'impatto sul lungo periodo è stato
quello di determinare un surplus di larga portata nel
settore privato giapponese. Se si considera che i risparmi
delle famiglie erano in calo, la spiegazione principale per
questo fenomeno è da ricercare nella quota persistentemente
alta di risparmio d'impresa lordo in rapporto al Pil e nel
calo del saggio degli investimenti, una volta che la
crescita roboante dell'economia nipponica si è interrotta.
La colossale eccedenza privata è stata assorbita, a sua
volta, dai flussi di capitale in uscita e dai deficit di
bilancio correnti.
Secondo Koo, chi critica i disavanzi di bilancio è fuori
strada. Senza questi disavanzi, il paese sarebbe precipitato
in una depressione invece che in un periodo prolungato di
domanda debole.
L'alternativa sarebbe stata quella di tenere
in piedi un surplus con l'estero più importante; ma per fare
questo sarebbe stato necessario un cambio più debole: il
Giappone avrebbe dovuto seguire le politiche di cambio della
Cina, e gli americani certamente non l'avrebbero presa bene.
La tesi di Koo però ha un punto debole. Non spiega la
ragione iniziale dell'emersione di questo debito colossale,
e non spiega nemmeno perché il Giappone si sia rivelato
tanto vulnerabile allo shock globale, ora che
l'aggiustamento patrimoniale del settore aziendale è stato
finalmente, in buona parte, completato.
A mio parere, il problema strutturale di fondo è stato la
combinazione fra un eccesso di risparmio d'impresa (utili
non distribuiti) e una diminuzione delle opportunità di
investimento, una volta che l'economia è arrivata al livello
dei paesi più ricchi. Come osserva Andrew Smithers, della
londinese Smithers & Co, gli investimenti fissi non
residenziali in Giappone erano pari al 20% del Pil nel 1990,
quasi il doppio rispetto agli Stati Uniti. Negli anni 2000,
dopo un modesto recupero, sono calati al 13 per cento. Ma
nessun declino comparabile si è verificato per quel che
riguarda gli utili non distribuiti delle imprese. Negli anni
80, il problema di assorbire questi risparmi è stato
affrontato con la politica monetaria, che ha spinto il costo
del credito a zero e sostenuto investimenti dispendiosi.
Negli anni 2000, il problema è stato affrontato con il boom
delle esportazioni e degli investimenti, trainato in gran
parte dagli scambi con la Cina.
Poi è arrivata la crisi economica globale attualmente in
corso, che ha colpito pesantemente le esportazioni e gli
investimenti e ha generato una recessione colossale.
Con una
contrazione del Pil dell'8,6% fra il punto di picco e il
punto di massimo calo, il Giappone, fra i paesi del G-7, è
quello che ha subito la recessione più pesante. Nel 2009,
secondo l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo
economico, il calo delle esportazioni nette avrebbe
determinato da solo una riduzione del Pil dell'1,8 per
cento.
Il Giappone ora dovrebbe puntare a una crescita trainata dal
mercato interno. L'esigenza più importante è quella di
ridurre il risparmio d'impresa. Smithers sostiene che questo
avverrà naturalmente, perché i risparmi sono in gran parte
consumo di capitale, a sua volta il prodotto di una storia
di investimenti in eccesso. Aggiungerei che se c'è
un'economia che ha bisogno di un mercato per il controllo
delle imprese, per togliere il denaro dalle mani di
management sonnacchiosi, questa è quella giapponese.
Non
essendo vincolato all'establishment imprenditoriale, il
nuovo governo, finalmente, dovrebbe adottare politiche
mirate a modificare i comportamenti delle grandi aziende.
È anche il momento di mettere un freno alla deflazione. Per
raggiungere questo risultato, la Banca del Giappone deve
collaborare col governo al fine di evitare un eccessivo
rafforzamento del tasso di cambio. La forza recente dello
yen avrebbe dovuto determinare politiche monetarie molto più
aggressive. Una volta che il Giappone avrà finalmente
un'inflazione significativa - il minimo indispensabile è il
2% - il paese avrebbe i tassi di interesse reali negativi di
cui ancora ha bisogno.
Nel frattempo, il resto del mondo deve domandarsi se sta
facendo tesoro degli insegnamenti che offre il caso
giapponese. Il declino economico del paese del Sol Levante
segnala con forza che anche un disavanzo di bilancio
sostenuto, tassi d'interesse a zero e politiche di
espansione quantitativa non conducono a un'impennata
dell'inflazione nelle economie del dopo-bolla afflitte da
sovracapitalizzazione ed eccedenza patrimoniale, come gli
Stati Uniti. E segnala anche che per invertire la rotta ci
vorrà molto tempo.
Ma l'esperienza giapponese può offrire un insegnamento anche
per un'economia abbastanza diversa. Suggerisce che quando
una crescita molto sostenuta comincia a rallentare, in
un'economia che si è rimessa in pari con quelle più
avanzate, con un risparmio d'impresa molto elevato e
investimenti fissi relativamente alti, può rivelarsi
estremamente difficile gestire la domanda. Questo è vero in
particolare se la promozione deliberata dell'espansione del
credito e le bolle dei prezzi delle attività fanno parte del
meccanismo usato per sostenere la domanda. E chi è, in
questo momento, che deve assolutamente fare tesoro di questo
insegnamento fondamentale? La risposta è: la Cina.
|
Traduzione -
Fabio Galimberti |
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore |
Banche americane
sotto accusa a Washington
13 Gennaio 2010 15:56 WASHINGTON
– Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Si è aperta a Washington, in un'atmosfera carica di
tensione, la prima riunione della commissione d'inchiesta
parlamentare sulla crisi finanziaria. «La crisi è ancora fra
noi – ha esordito il presidente della commissione Angelidis
- 26 milioni di americani disoccupati, 2 milioni di famiglie
hanno perso le case negli ultimi due anni, gli americani
vogliono sapere che cosa è successo e come è successo. La
gente è arrabbiata e ha il diritto di esserlo...mentre gli
americani sono in difficoltà vedono i banchieri elargirsi
bonus importanti... e dunque ci aspettiamo trasparenza dai
testimoni».
I testimoni convocati mercoledì mattina, alcuni dei più
grandi banchieri americani, come Lloyd Blankfein di Goldman,
John Mack di Morgan Stanley, Jamie Dimon di J.P. Morgan
Chase hanno ascoltato schierati davanti alla commissione,
nel palazzo Longworth della Camera. Una riunione storica che
avviene nel momento in cui le banche sono nell'occhio del
ciclone per essere attribuite fortissimi bonus e per aver
usato parole dure in risposta all'idea di Barack Obama di
tassare le passività di bilancio. «Se lo farà avremo
difficoltà ad erogare credito» ha detto un portavoce
dell'associazione delle banche americane.
Per primo ha cominciato a parlare Lloyd Blankfein di Goldman
Sachs, ha ricordato che la banca è stata fondata 140 anni
orsono e provvede servizi di ogni genere all'industria, al
governo e ai privati in un contesto che negli ultimi dieci
anni – ha detto Blankfein – «ha generato enorme liquidità
che doveva essere impegnata, uno dei settori che sembrava
fra i più interessanti era quello immobiliare» ha esordito
Blankfein nella sua ricostruzione, prima di rispondere alle
domande dei dieci commissari. L'inchiesta durerà fino alla
fine dell'anno e questa prima sessione continuerà anche
domani, giovedì. «Da questa crisi abbiamo imparato alcune
cose: trasparenza e gestione del rischio – ha detto Blankfein – devono essere migliorate; in futuro dovrà essere
utilizzato il capitale privato e non quello pubblico per
stabilizzare una crisi; pratiche come lo "stress testa" o le
richieste di un forte capitale sono dei parametri da
seguire», ha detto ancora Blankfein. Ma il banchiere
guardava in avanti mentre la commissione dovrà scavare nel
passato per individuare le responsabilità anche giuridiche
della crisi. Molti, però, dubitano che ci riuscirà. Fonte
- Il Sole 24 Ore
Obama: «Mega-tassa
per le banche più grandi»
14 Gennaio 2010 18:14
WASHINGTON -
di ANSA ______________________________________________
WASHINGTON – Barack Obama, deciso e aggressivo contro le
banche americane, ha giocato al rilancio contro i maggiori
istituti di Wall Street, confermando la sua idea di voler
introdurre una nuova tassa e definendo i bonus che i
banchieri si stanno per elargire "osceni". La prima notizia
sul nuovo progetto di imposizione fiscale riguarda la
dimensione degli istituti.
Saranno colpiti solo quelli con dimensioni superiori ai 50
miliardi di dollari di attività patrimoniali, ovvero circa
cinquanta istituti di credito, e il fine è ridurre
l'esposizione al rischio. E l'imposizione collettiva
aggiuntiva non sarà poca cosa: «il mio obiettivo – ha detto
Obama – è di recuperare 112 miliardi di dollari nei prossimi
12 anni, questo è il costo che alla fine ha sostenuto il
governo con il progetto Tarp. I bonus – ha continuato il
Presidente – sono osceni, e il fatto che i banchieri
intendano andare avanti con la distribuzione rafforza la mia
convinzione che questa tassa sia giusta». Il Presidente ha
anche aggiunto che le banche americane dovranno «prendersi
le loro responsabilità….vogliamo avere i nsotri soldi
indietro e li riavremo fino all'ultimo centesimo, per gli
americani».
I banchieri tuttavia stanno organizzando un contrattacco:
dicono di aver rimborsato per intero o di essere in procinto
di farlo, tutti i prestiti elargiti nell'ambito Tarp, il
pacchetto di aiuti approvato l'anno scorso dal Congresso. E
sottolineano che il deficit di 112 miliardi di dollari
deriva essenzialmente dagli aiuti dati con lo stesso fondo
sia al settore auto che a quello assicurativo. Una delle
minacce dei banchieri? Quella di poter essere costretti ad
diminuire l'erogazione del credito. Se andranno avanti su
quella strada però sarà guerra aperta.
Fonte
- ANSA
La finanza è sempre più
ricca
L'industria segna il passo
14 Gennaio 2010 13:29 MILANO -
di MiaEconomia ______________________________________________
È raddoppiata negli ultimi 10 anni la quota di ricchezza
nazionale che non va alle famiglie e finisce a banche e
mondo finanziario, mentre si è ridotta di un terzo la quota
andata alle imprese. Lo ha sottolineato il presidente
dell'Istat, Enrico Giovannini, illustrando alcuni grafici su
andamento del Pil e benessere delle famiglie.
E nello stesso periodo di tempo (1999-2008), è quasi
triplicata la percentuale finita all'estero, una quota
composta anche dai profitti delle imprese trasferiti
oltreconfine. Tra il 1999 e il 2008, il prodotto interno
lordo è cresciuto più del reddito disponibile dei nuclei
familiari: con il 1999 considerato come base 100, nel 2008
il Pil è arrivato a quota 111,1, mentre il reddito
disponibile lordo delle famiglie solo a 107. Questo gap di
ricchezza è finito quindi in cinque canali principali: le
società finanziarie, le imprese, le risorse finite
all'estero, le famiglie produttrici (o microimprese) e la
pubblica amministrazione.
In questi dieci anni, quindi, la quota finita alla finanza è
quasi raddoppiata, passando dal 4,6% al 9,4%, mentre quella
delle aziende è diminuita di un terzo, scendendo dal 37,8%
al 24,4%. La percentuale di risorse andate all'estero
(composte da profitti delle imprese, multinazionali, rimesse
degli immigrati) è invece quasi triplicata, salendo dal 3,9%
all'11,8%. Più stabili, invece - ha concluso Giovannini,
intervenendo a un convegno Aspen nella sede dell'Istat - gli
andamenti delle quote di ricchezza finite alle
amministrazioni pubbliche (dal 44,1% al 42,9%) e alle
famiglie produttrici (dal 9,7% all'11,4%).
Fonte
- MiaEconomia
USA:
DEBITO+DEFICIT, EFFETTO "PIETRA AL COLLO"
15 Gennaio 2010 14:38 NEW YORK -
di Stefano Bassi ______________________________________________
Non vorrei martellare troppo spesso sui debiti
pubblici schizzati alle stelle ma non riesco a
trattenermi... Infatti la schiera degli ottimisti (resa
foltissima dal rialzo infinito delle borse), potrebbe poi
affermare che i "catastrofisti" (così ci chiamano
carinamente...), non sapendo più a cosa appigliarsi, si
mettono a gufare sul rischio debito degli stati sovrani.
Invece il punto è proprio questo: visto che è stato perpetrato
il più colossale Scaricabarile della storia dal debito privato a
quello pubblico, anche la maggior parte del rischio è passata in
capo agli Stati... i quali avranno pure le spalle più larghe ma
fino ad un certo punto.
Dimostrazione di quanto affermo è il fatto che i CDS di numerosi
Stati Sovrani (oltre ai soliti "ultimi della classe") sono
diventati più onerosi di molti CDS Corporate: viene dunque
considerato più probabile che faccia default un'intero Stato
piuttosto che per es. una banca-zombie salvata da uno Stato....
Ecco cosa s'intende quando si parla di socializzazione delle
perdite (e dei rischi) o di scaricabarile...
Lo spiega molto bene in uno dei suoi ultimi articoli MERCATO
LIBERO
In ogni caso gli effetti collaterali dello "scaricabarile" non
si fermano solo all'incremento di rischio ma possono avere anche
altre gravi implicazioni come l'effetto "pietra al collo".
La Ripresa economica keynesiana, foraggiata dall'incremento
stellare del debito pubblico, può iniziare a re-inserire la
marcia indietro, trascinata verso il basso proprio
dall'eccessivo incremento del debito pubblico stesso.
Lo sostengono autorevoli economisti come Reinhart, Rogoff ed
Ambrose-Evans Pritchard che hanno cercato di individuare anche
il livello percentuale di rapporto debito/PIL dal quale si può
innescare l'effetto "pietra al collo".
Nel caso degli USA, con il superamento del 94% di rapporto
debito/PIL potrebbe innescarsi l'effetto "pietra al collo".
Peccato che, secondo l'agenzia di rating Fitch, già il prossimo
anno gli States potrebbero superare la fatidica soglia del
94%...
In Italia ne sappiamo qualcosa: infatti possiamo considerarci un
leading indicator in questo campo ....
Sono quasi 20 anni che stiamo arrancando a causa del nostro
colossale debito pubblico in rapporto al PIL ed il Mondo si sta
inesorabilmente "italianizzando a causa della Grande Crisi...
Fonte
-
Lagrandecrisi2009
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Sabato
16
Gennaio
2010 |
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Giovedì
21
Gennaio
2010 |
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Giovedì
21
Gennaio
2010 |
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Usa, in
Massachusetts vince il repubblicano Brown
20 Gennaio 2010 08:42 NEW YORK -
dal corrispondente Mario Platero - Il Sole 24 Ore ______________________________________________
NEW YORK – Con una volata imprevedibile ed entusiasmante per
il suo partito, il repubblicano Scott Brown ha vinto ieri
notte in Massachusetts il seggio al Senato che fu di Ted
Kennedy. "He Did it", "Ce l'ha fatta" ha titolato a tutta
pagina il Boston Herald, con un vago senso di incredulità.
"Questo seggio non appartiene a una singola persona o a un
singolo partito, l'ho detto in campagna elettorale, è un
seggio della gente - ha ripetuto Brown parlando a Boston
davanti ai suoi sostenitori entusiasti- Andrò a Washington
subito, rappresentando il popolo…lo stato indipendente del
Massachusetts ha parlato: sarà bene che se ne tenga conto".
Se ne terrà conto eccome. Anche perché quella di Brown è
stata una vittoria netta in una roccaforte democratica che
vanta una maggioranza di tre a uno: questo senatore statale
semisconosciuto, che ha segnato nella notte un'altra pagina
di storia, ha raccolto il 52% delle preferenze contro il 47%
di Martha Coakley, il candidato democratico, il procuratore
federale dello stato, appoggiata fino all'ultimo da Barack
Obama.
E il Presidente ne esce con le ossa rotte: queste elezioni
erano diventate un vero e proprio referendum su di lui e sul
primo anniversario del suo insediamento alla Casa Bianca che
si festeggia proprio oggi, 20 gennaio. E mai anniversario di
insediamento alla Presidenza è stato più amaro. L'impatto,
anche sul piano simbolico, è devastante su più fronti.
La riforma sanitaria. C'è intanto per i democratici la
perdita della maggioranza blindata di sessanta seggi al
Senato. E questo mette in crisi l'agenda politica della Casa
Bianca, ma con una conseguenza immediata per il partito, per
Obama e per la memoria di Kennedy che ne fu l'ispiratore: il
possibile affossamento della riforma sanitaria.
E' vero che c'era un piano B. Portare subito alla Camera il
pacchetto già approvato al Senato per poi far firmare il
progetto in legge da Obama al più presto. Ma questo
stratagemma, pragmatico e legale, è stato bocciato poche ore
dopo l'elezione da da un influente senatore democratico, Jim
Webb, della Virginia: "E' vitale che restauriamo il rispetto
degli americani nel nostro sistema di governo e nei nostri
leader. Per questo ritengo che sia corretto e prudente
sospendere ogni voto sulla legge di riforma sanitaria prima
che il senatore-eletto Brown assuma il suo posto al Senato"
ha detto Webb freddando gli strateghi di Obama.
Il baricentro del paese è ancorato al centrodestra. E'
chiaro dunque che il baricentro politico del Paese resta
saldamente ancorato al centro/centro destra. E' chiaro che
la leadership del Congresso, sbilanciata a sinistra ha perso
la sintonia con il Paese. Già perché il voto del
Massachusetts è diventato come si è detto un voto nazionale.
E gli strateghi politici dovranno reimpostare le campagne
elettorali per novembre. Cosa farà Obama a questo punto?
David Axlerod e i suoi consiglieri più vicini sono già al
lavoro. Si rendono conto che a un anno dall'insediamento
molte cose non hanno funzionato: il Paese resta afflitto
dalla disoccupazione, in politica estera non è stato ancora
raggiunto un obiettivo importante, e in politica interna
l'intera agenda promessa un anno fa ai piedi del Campidoglio
sembra vacillare. La risposta l'ha data lo stesso portavoce
del Presidente: ci si rifugerà nel populismo. E comincerà a
guardare oltre al prossimo novembre e già alle presidenziali
del 2012, per evitare che la memoria della disfatta di ieri
nel Massachusetts si trascini fino alla conferma per un
secondo mandato. Fonte
- Il
Sole 24 Ore
|
Le
implicazioni per la
politica estera americana del voto in Massachusetts
January 20th, 2010
– di Mauro Gilli
________________________________________
I risultati delle elezioni in Massachusetts per il seggio di
Ted Kennedy hanno portato ad un imprevedibile e largamente
inaspettato risultato: la vittoria del candidato
repubblicano Scott Brown. Un destino baro per Kennedy.
Alfiere della riforma sanitaria per tutta la sua carriera
politica, proprio la sua morte, avvenuta alcuni mesi fa,
potrebbe aver impedito a questa riforma epocale di venire
portata avanti così come i democratici la vorrebbero.
Perdendo in Massachusetts, come tutti i mezzi di
informazione stanno ribadendo, i Democratici hanno infatti
perso la maggioranza a prova di “filibustering” che li
proteggeva dall’opposizione repubblicana al Senato. Non
vogliamo però concentrarci su questi dettagli, quanto
piuttosto allargare la discussione a quali potrebbero essere
le implicazioni di questa elezione per la politica estera
americana.
Guns vs Butter?
Crediamo infatti che l’effetto delle elezioni in
Massachusetts sia particolarmente importante proprio su
questo fronte. Alcuni mesi fa, Charles Krauthammer si
impegnò in un lungo attacco alla politica estera di Obama,
affermando che “il declino è una scelta”. Quell’articolo era
viziato da vizi di sostanza, e salti logici – che su
Epistemes avevamo allora illustrato. Uno di questi problemi
si trovava nell’accusa fatta da Krauthammer
all’amministrazione di sottrarre risorse al settore militare
per lanciare il piano di assicurazione sanitaria nazionale.
In altre parole, nella scelta “guns vs. butter“, gli Stati
Uniti andavano verso il secondo proprio quanto – secondo
l’opinionista del Washington Post – avrebbero dovuto optare
per il primo. Inoltre, scriveva ancora, questa scelta
avrebbe causato un aumento del debito, e quindi un futuro
peggioramento del tasso di cambio, così creando eventuali
ulteriori ostacoli alla mobilizzazione di risorse per la
difesa.
Ciò che Krauthammer aveva scritto è teoricamente corretto.
Il problema, però, è che la scelta “guns versus butter” non
è un vero e proprio trade-off intra-temporale, ma piuttosto
uno inter-temporale, visto che le guerre si finanziano
generalmente con il ricorso al debito (si veda questo
recente lavoro di Scheve e Staavage e anche quelli più
datati, ma non meno importanti di Domke et al. e di Chan).
Inoltre, per via del particolare sistema finanziario
internazionale, gli Stati Uniti hanno una capacità
privilegiata di ricorrere al credito a tassi agevolati (si
veda il saggio di Fergusson e anche quello di Steil e Litanì).
Dunque, ai problemi che Krauthammer identificava, per quanto
esistenti, non può essere attribuita la portata che egli
assegna loro.
Ricchezza e Potere Militare
Piuttosto, la riforma sanitaria così come altre eventuali
riforme del welfare state negli Stati Uniti avrebbero avuto
– a nostro giudizio – un altro, possibilmente più importante
effetto. Stiamo parlando di come avrebbe influenzato gli
incentivi al lavoro della popolazione americana. Così come
all’inizio dell’età moderna (si vedano per esempio i lavori
di Gilpin, McNeill, North e Thomas, e Spruyt), per via della
globalizzazione dell’economia, e i vincoli che essa impone
agli stati (Strange), il fattore determinante in politica
internazionale diventa la capacità degli stati di promuovere
e mantenere un alto livello di produttività e quindi di
crescita economica (Gilpin). In questo modo, infatti, un
paese si può garantire le risorse necessarie ad acquistare i
“fattori di produzione della guerra”: gli uomini, e le
macchine. Per i paesi – come gli Stati Uniti – che hanno
abbandonato il servizio militare obbligatorio, è infatti
necessario pagare stipendi competitivi e offrire benefits
considerevoli per attrarre i giovani nella carriera
militare. Analogamente, per poter disporre di armi
tecnologicamente sofisticate e avanzate, gli stati hanno
bisogno di laute risorse, così da poter sostenere la ricerca
tecnologica alla base dei mezzi progettati, il loro acquisto
e la loro manutenzione.
Tutte queste “necessità” potrebbero essere messe in forse da
una riforma estesa del sistema sanitario nazionale americano
e più in generale da un eventuale allargamento (che per ora
è stato solo auspicato da alcuni) del welfare state. Se il
welfare state americano diventasse più simile a quello
europeo, gli incentivi al lavoro verrebbero modificati
sensibilmente. Ciò comporterebbe due significativi
cambiamenti. In primo luogo, lavorando di meno, gli
americani farebbero “avvicinare” (leggi: diminuire) la
crescita economica americana ai livelli europei. E così, gli americani
perderebbero buona parte della loro capacità di dotarsi del
più forte esercito al mondo, avendo meno risorse a
disposizione. Analogamente, cambiando gli incentivi interni
al mondo del lavoro, molti giovani che oggi entrano
nell’esercito, potrebbero avere dei ripensamenti se il
beneficio marginale di arruolarsi nell’esercito diminuisse
rispetto a quello di eventuali altre opzioni disponibili.
(Relativamente a questi temi, si vedano i lavori di Cindy
Williams e Curtis Gilroy, in partcolare i seguenti: 1, 2,
3).
Differenze tra America ed Europa
Gli americani lavorano più degli europei. Sono le maggiori
ore di lavoro negli Stati Uniti che spiegano la maggiore
crescita economica rispetto all’Europa (insieme ad altri
fattori quali il maggiore afflusso di capitali esteri, il
maggiore e più avanzato livello della ricerca tecnologica e
la maggiore crescita della popolazione). Ma come mai gli
americani lavorano più che gli europei? Non meno importante:
come mai, malgrado le enormi possibilità che l’economia
americana offre, tanti giovani americani si arruolano
nell’esercito, correndo il rischio di morire in guerra?
Robert Kagan, in un famoso saggio “Power and Weakness” (e
nel successivo pamphlet Paradise and Power) cercò di dare
delle risposte a queste domande. Uno degli argomenti
centrali del libro era che gli Europei, avendo preferito la
comodità offerta dai loro sistemi di protezione sociale alla
durezza del mondo hobbesiano che contraddistingue le
relazioni tra gli stati hanno largamente abbandonato il loro
interesse per gli affari internazionali. Secondo Kagan, gli
europei erano entrati così nel loro “paradiso Kantiano”, un
mondo “post-moderno” di pace e tranquillità. Kagan lasciava
poi la risposta finale a queste domande ad una celebre,
quanto non specificata affermazione: la differenza tra
europei e americani si troverebbe nel fatto che i primi
vengono da Venere, mentre i secondi da Marte.
Crediamo che Kagan avesse largamente ragione, anche se non
specificò in modo chiaro il meccanismo causale che
spiegherebbe la differenza di approccio verso il mondo (gli
americani lavorano di più degli europei) e verso la guerra
(gli americani sono più favorevoli degli europei). A meno di
non voler finire in tesi pseudo etnocentriche, la teoria di
Kagan rimane monca – anche se probabilmente corretta.
L’anello mancante della teoria di Kagan – a nostro modo di
vedere – è dato dagli incentivi che i due diversi sistemi
politico-sociale-economico nelle due sponde dell’atlantico
forniscono.
Veniamo alla prima domanda che abbiamo posto: come mai gli
Americani lavorano più degli Europei? Gli Americani lavorano
più degli Europei perché devono farlo, e basta. Gli alti
tassi di immigrazione, sia di manodopera non qualificata
(messicani e centroamericani, per esempio) che di manodopera
altamente qualificata (ingegneri e medici indiani e cinesi,
per esempio) rendono la competizione nel mercato del lavoro
particolarmente serrata. In altre parole, i rapporti di
forza non sono dalla parte dei lavoratori – come dimostra
l’assai limitata rilevanza dei sindacati (con l’eccezione di
alcuni settori protetti dalla competizione internazionale).
In secondo luogo, la limitata presenza di forme di garanzie
sociali promuove un approccio verso il mondo del lavoro che
possiamo descrivere crudamente come “darwiniano”. Così come
poteva essere per i nostri nonni o bisnonni, negli Stati
Uniti si deve lavorare sodo, specialmente nei settori più
avanzati. Questi due fattori non sono sicuramente esaustivi:
ve ne sono altri che spiegano le differenze tra Americani ed
Europei, come ad esempio il livello di tassazione, la
cultura, etc. In generale, però, questi due non giocano un
ruolo secondario.
Veniamo ora alla seconda domanda. Come mai tanti giovani
soldati entrano nell’esercito? La domanda non è meno
difficile della prima. E anche in questo caso, vi è una
molteplicità di fattori che congiuntamente produce questo
risultato. E’ inevitabile notare, però, che l’assenza di
alcuni particolari tipi di servizi sociali giochi un ruolo
importante nell’incentivare alcuni gruppi della popolazione
ad entrare nell’esercito. Contrariamente a quanto si
potrebbe pensare, nell’esercito americano non entrano gli
strati più disagiati della popolazione. I requisiti minimi
di entrata (IQ prima di tutto) li tengono al di fuori. Non
entrano però nemmeno quelli più privilegiati.
Prevalentemente, chi si arruola nell’esercito appartiene
alla classe media (anche se alla parte povera della classe
media). Perché parlare di welfare state allora? Il welfare
state è, per metterla in modo molto banale, una
redistribuzione di ricchezza all’interno della classe media
(si veda questo lavoro che compara il sistema europeo a
quello americano. Per quanto metodologicamente non perfetto,
fornisce alcuni dati utili e interessanti). Questo è
sicuramente vero per i paesi europei. E la portata assai più
limitata del sistema di servizi sociali forniti dal governo
americano rispetto a quelli europei non è sicuramente
irrilevante nella scelta di molti giovani di entrare
nell’esercito (si veda questo articolo sul New York Review
of Boosk. Sebbene non fornisca conclusioni generalizzabili,
in quanto basato su un campione ristretto e selezionato,
suggerisce alcune importanti riflessioni. Inoltre, le
conclusioni che trae sono in linea con gli studi di Cindy
Williams e Curtis Gilroy – il capo della sezione personale
al Pentagono. Illustra, per esempio, come le borse di studio
per pagare i costosi college americani e l’assicurazione
sanitaria siano spesso molto importanti nell’influenzare la
scelta di arruolarsi).
Conclusioni
Come si collega tutto ciò all’elezione del Massachusetts?
Come abbiamo visto, un cambiamento del sistema di welfare
state potrebbe avere ricadute molto importanti per gli Stati
Uniti. L’assicurazione sanitaria nazionale (tricare) offerta
ai soldati gioca un ruolo molto importante sia nel
convincere molti ad entrare nell’esercito (enlistment) che a
convincerli a rimanere (reenlistment). Estendere la
copertura sanitaria nazionale a tutti i cittadini
(ovviamente, non verrebbe estesa a tutti, ma non è qui
nostro interesse entrare nei dettagli della riforma
proposta), avrebbe importanti implicazioni per gli Stati
Uniti, e in particolare per la loro capacità di arruolare e
mantenere un numero di soldati sufficientemente alto da
poterli impegnare là dove necessario. Non meno importante,
secondo alcuni, la riforma del sistema sanitario americano
sarebbe solo il preludio per un più vasto ripensamento del
welfare state.
Come abbiamo scritto, l’era unipolare sta volgendo al suo
termine (qui: 1 e 2). Questo trend è indipendente dalle
politiche americane, presenti e passate. La crescita della
Cina, dell’India e del Brasile, ma anche della Russia e
l’avanzamento del processo di integrazione europea pongono
le basi per un mondo multipolare in futuro. Quando ciò
avverrà, però, è impossibile da dire. Se la Cina cadesse
vittima della sua politica economica, e dei disordini
sociali dovessero seguire, il suo cammino verso lo status di
superpotenza verrebbe bruscamente interrotto. Simili
considerazioni possono essere fatte per tutti gli altri
paesi, con forse l’unica eccezione dell’India.
Le scelte interne agli Stati Uniti possono accelerare o
ritardare questo trend – ceteris paribus, si intende. In
questo articolo abbiamo spiegato quali potrebbero essere gli
effetti della riforma sanitaria e di una eventuale (e
alquanto improbabile, al momento) riforma del welfare più in
generale. E’ per questo motivo che il risultato delle
elezioni in Massachusetts è particolarmente importante.
Perdendo la maggioranza a prova di filibustering, i
Democratici non potranno più get it alone.
 |
Fonte -
Epistemes.org |
OBAMA DIMEZZATO
21 Gennaio 2010 14:16 MILANO -
di Roberto Fontolan ______________________________________________
Come se dovesse dimostrare qualcosa a se stessa,
prima ancora che al mondo, come se dovesse strapparsi dal
malessere provocato dalle continue cattive notizie (Afghanistan-Irak,
disoccupazione, banchieri cattivi), l'America si è
letteralmente gettata sul terremoto di Haiti con una
generosità che lascia stupefatti.
Chissà, il bisogno di guardare fuori, dopo tanto tempo di
introspezione, la necessità di sentirsi ancora utile in una
buona indiscutibile causa, e naturalmente quel tradizionale
impeto di autentico amore per il debole, sul quale Bush
aveva cercato di costruire quella filosofia di capitalismo
compassionevole che aveva illuso molti e deluso altrettanti.
Ma da martedì sera un uomo di nome Scott Brown ha riportato
a casa l'attenzione degli americani. E' il nuovo senatore
dello Stato del Massachussets. E' repubblicano, ha vinto
contro i democratici conquistando il seggio che da
generazioni era appannaggio dei Kennedy. Un colpo al cuore
di Obama e del popolo obamiano, che troppo tardi ha capito
quale tempesta stava per arrivare dallo stato piu liberal e
progressista della costa est.
Si apre un enorme problema per la riforma sanitaria (che
ogni giorno che passa perde qualche pezzo), attesa
spasmodicamente dai quasi 50 milioni di americani della
classe medio-bassa che ogni giorno pregano di non dover
chiamare un medico, ma aborrita da repubblicani e lobbies
delle assicurazioni, che spendono due milioni di dollari al
giorno per combatterla.
Si apre un enorme problema nel conflitto tra governo e Wall
Street, dove hanno velocemente ingoiato le centinaia di
miliardi elargiti per salvare banche e mercati senza
correggere imeccanismi strutturali. Cancellato per molto
tempo il desiderio di mettere sul tavolo il tema
dell'immigrazione. I grandi disegni di politica interna di
Obama, già traballanti, agonizzeranno. Per il meccanismo dei
poteri, infatti, il numero di 60 senatori (quelli che fino a
martedì conteggiavano i democratici) era la chiave per il
governo del Congresso. Disporne di "soli" 59 fa una
grandissima differenza.
Cosi il primo anno di presidenza dell'uomo della speranza si
chiude con la sua sonora sconfitta, destinata a diventare
catastrofe con le elezioni del midterm di fine 2010, stando
a quel che oggi si può vedere. L'arrivo a Washington del
nuovo senatore repubblicano del Massachussets contiene un
alto valore simbolico e apre un nuovo capitolo della vita
politica americana segnato da una sfida mortale per Obama,
impensabile un anno fa.
Fonte
- IlSussidiario.net.
BUFFETT CONTRO
OBAMA
21 Gennaio 2010 17:20 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Warren Buffett non ci sta. L'investitore americano si e'
detto fermamente contrario al piano fiscale allo studio
dell'amministrazione Obama, che prevede l'imposizione di una
tassa speciale alle banche piu' grandi del Paese. Questo
perche' alcuni istituti, tra cui Goldman Sachs e Wells
Fargo, hanno gia' resituito i soldi ricevuti in prestito da
Washington.
"Semplicemente per me non ha senso", ha dichiarato ai
microfoni della CNBC il fondatore del fondo Berkshire
Hathaway, che ha un investimento sia in Wells Fargo che
Goldman Sachs. "Quello che e' stato fatto nell'autunno 2008
e' stato salvare l'economia americana. Non si sono salvate
solo le banche".
La settimana scorsa il presidente Obama ha annunciato il
lancio di un piano volto a imporre una tassa su almeno 50
banche che ha l'obiettivo di recuperare fino a $117 miliardi
di perdite subite dal programma federale di aiuti TARP.
L'imposta speciale si applichera' solo su quegli istituti
che possono contare su piu' di $50 miliardi di asset, come
Bank of America, JP Morgan Chase e Citigroup, societa' che
sono state tra le principali beneficiarie del piano di
salvataggio.
Negli ultimi tempi il numero uno della Casa Bianca si e'
attirato le critiche del popolo americano, preoccupato che
al piano di salvataggio del sistema finanziario potesse
essere seguito da una montagna di bonus ai manager di Wall
Street, quando il Paese fa ancora fatica a riprendersi dalla
recessione piu' grave degli anni '30, afflitto da un tasso
di disoccupazione al 10%.
"Una tassa creata con un certo senso di vendetta non puo'
certo rappresentare una buona idea" ha concluso Buffett, che
nelle elezioni presidenziali del 2008 aveva sostenuto
proprio Obama.
Fonte
- www.WallStreetItalia.com
Usa, Obama punta a
colpire eccesso di rischio da parte banche
giovedì, 21 gennaio 2010 - 19:42
WASHINGTON -
di ASCA ______________________________________________
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, reduce da una
sconfitta elettorale al Senato, proporrà limiti più
stringenti sull'assunzione di rischi da parte delle banche
con una mossa che richiama alla mente i vincoli dell'epoca
della Grande Depressione.
Obama annuncerà una serie di misure in questa direzione
all'interno di una revisione del sistema regolatorio sul
mondo della finanza, ha detto un alto funzionario vicino al
presidente.
La decisione potrebbe anche aiutare la Casa Bianca a
tamponare la rabbia dell'opinione pubblica contro gli
eccessi di Wall Street dopo che il Partito Democratico è
stato sconfitto dagli elettori in Massachusetts, che hanno
scelto il candidato repubblicano per il Senato, Scott Brown.
"La proposta includerà limiti specifici e articolati sul
trading in conto proprio e la Casa Bianca lavorerà a stretto
contatto con Camera e Senato per realizzarla in questa
legislazione", ha detto il funzionario.
Il trading in conto proprio riguarda le società che fanno
scommesse sui mercati finanziari con i propri soldi invece
che su indicazioni di un cliente. Il governo Usa ha
condannato questa pratica per le avventate scommesse fatte
sul mercato immobiliare Usa che hanno portato a pesantissime
perdite provocando quasi la distruzione del sistema
finanziario nel 2008. Per arginare la peggiore recessione
dagli anni Trenta, i contribuenti Usa hanno dovuto dare 700
miliardi di dollari per un piano di salvataggio degli
istituti finanziari.
Il funzionario non ha fornito dettagli sul piano che
richiederà l'approvazione del Congresso, ma i legislatori
stanno già lavorando a misure che, in alcuni casi, ricordano
la riforma finanziaria attuata dopo la Grande Depressione.
Il senatore democratico Jeff Merkley ha detto a Reuters
alcuni giorni fa che ci deve essere una separazione tra le
attività a rischio come il trading e la normale concessione
di crediti. Una proposta più aggressiva è stata portata
avanti il mese scorso dall'ex candidato repubblicano alla
presidenza John McCain e dalla senatrice democratica Maria
Cantwell. La loro idea verte sulla reintroduzione dei limiti
della Glass-Steagall in atto negli anni Trenta che
impedivano alle banche di sconfinare nel ramo degli
investimenti e delle assicurazioni.
Obama parlerà oggi alle 17,40 italiane dopo un incontro con
Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve e ora suo
consulente.
Intanto, in un'intervista a ABC News, il presidente Usa ha
detto che l'inattesa sconfitta del candidato democratico in
Massachusetts riflette la rabbia delle persone contro il
salvataggio dei banchieri e contro un tasso di
disoccupazione a doppia cifra.
Obama ha già annunciato un piano per tassare le banche fino
a 117 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni per
recuperare i fondi versati dai contribuenti con le misure
anticrisi concesse dal suo predecessore, l'ex presidente
George W. Bush. Fonte
- ASCA
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Sul
fronte interno cattive
notizie
Venerdì 22 gennaio 2010 MESSINA
– di
Leon Zingales
________________________________________
Ben Bernanke è finora riuscito a muoversi con una
delicatezza da chirurgo.
Al fine di far continuare la coesistenza tra sistema
monetario e sistema finanziario, dando un colpo al cerchio
ed uno alla botte, ha periodicamente svalutato e poi
rivalutato con rara maestria la moneta americana. Tutto ciò
evitare la ricopertura delle operazioni di carry-trade
aperte (onde evitare il rapido crollo dei mercati azionari)
e nel contempo evitare il crollo dei TBills americani (in
buona parte acquistati dalla FED medesima).
Ma, mentre la clessidra segna l’avanzare del tempo,
l’equilibrio diviene sempre più precario. La stabilizzazione
dei mercati (per quanto temporanea e fasulla) è avvenuta a
spese dell’economia reale. Si è evitato il crollo estraendo
energia dal sistema reale facendo si che essa piombasse in
deflazione e inglobasse gli enormi debiti del sistema
finanziario.
Sul fronte interno i sussurri di protesta stanno diventando
urla. Recentemente Ron Paul, storico interprete di una forte
sensibilità presente nella parte profonda dell’America, ha
detto:” …Of course, it could all be a bad dream, a nightmare,
and that I'm seriously mistaken, overreacting, and that my
worries are unfounded. I hope so. But just in case, we ought
to prepare ourselves for revolutionary changes in the
not-too-distant future” ..in altre parole, il vento della
protesta, prima brezza che non infastidiva, si sta
trasformando in uragano.
Proprio due giorni fa una sconfitta incredibile ha rovinato
l’anniversario dell’insediamento di Obama alla presidenza.
Un tradizionale feudo del partito Democratico, in seguito
alle elezioni suppletive del Massachussets in cui si
assegnava il seggio del Senato rimasto vacante dopo la morte
di Ted Kennedy, è crollato facendo perdere la maggioranza
qualificata (importante per aggirare l’ostruzionismo dei
Repubblicani) di 60 senatori ad Obama.
Notizie funeste
giungono non solo dalla California ma anche da molti Stati ove il deficit
cresce im modo esponenziale.
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Budget gaps Stati
Federali USA anno 2010 |
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Budget Stato
Illinois |
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Fonte - Congressional
Budget Office |
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Fonte - Congressional
Budget Office |
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In questi ultimi giorni fa notizia l’Illinois che ha
raggiunto un gap tra spese ed incassi del 47% e si avvicina
pericolosamente al default.
Si presti attenzione al rapido evolversi di tali notizie il
cui impatto, in un tempo non lungo, rischia di essere
devastante.
Finora Bernanke ha potuto guidare senza grosse proteste
entrambi i mercati: quello finanziario e quello valutario. I
sistemi hanno reagito con poca inerzia alle sue linee
direttrici in virtù della compattezza dello schieramento che
sosteneva le decisioni della FED.
La crisi interna impone ad Obama scelte diverse; il
Presidente USA non può più indugiare oltre, pena un
ulteriore appannamento del suo carisma, in una politica
prona agli interessi di Wall Street ed insensibile alle
istanze di Main Street. Già ieri si è esposto dichiarando
esplicitamente che ha intenzione di fissare nuovi limiti
alle dimensioni delle passività e alle pratiche di trading
delle grandi banche.
Gli eventi precipitano: si rischia di aprire pericolose
brecce e sarà sempre più difficile che i mercati si pieghino
dolcemente ai desideri di Bernanke. Per quanto bravo, il
chirurgo non può far nulla se chi è intorno lo spinge con
veemenza. Le batterie short stanno già iniziando a caricare
i cannoni ed i pirati delle valute stanno alzando le vele.
 |
Fonte -
BlogSpot/Il Cigno Nero |
Occidente
al tramonto? Presto per
dirlo
22 Gennaio 2010 09:30 MILANO -
di Riccardo Sorrentino
________________________________________
Sembra un destino ineludibile, il tramonto dell'Occidente.
Una volta proiettato nel futuro, il grande slittamento del
potere economico mondiale - particolarmente evidente ora,
nella prime fasi della ripresa - suggerisce che si chiuderà
presto una parentesi durata ben poco: trecento anni, forse
duecento, di grande illusione. L'Oriente - lo rivelano le
statistiche dello storico dell'economia Angus Maddison - ha
conservato un primato economico dai primi anni della nostra
era, quando l'impero romano era nel suo pieno vigore, fino
al 1700 e oltre e ora potrebbe semplicemente riguadagnare il
posto perduto. Soprattutto la Cina: ancora nel 1900 era
seconda al mondo - ma solo per prodotto interno lordo, non
certo per benessere - dopo gli Stati Uniti e ora nulla
sembra poterla fermare. Se si pensa alla quantità di lavoro
disponibile e degli investimenti ancora realizzabili, la
gara sembra senza storia: nel 2016 Pechino potrà superare
Tokyo, nel 2023 i quattro maggiori paesi europei, e nel 2041
la Cina sarà la prima economia del mondo, l'India terza, e
l'Italia, la piccola Italia che oggi ha meno di 60 milioni
di abitanti, chissà dove sarà finita...
Andrà davvero così? I dubbi sono tanti. Fare previsioni è un
esercizio pericoloso, soprattutto quando si proiettano nel
futuro le tendenze attuali. Se poi si parla di sviluppo
economico le cose si complicano ancor di più. Anche perché
spesso si confonde tra aumento del Pil, ricchezza di una
nazione, benessere e capacità di sviluppo. Mortale è poi la
metafora della gara: se in alcune situazioni belliche e
politiche può valere la logica "se io vinco, tu perdi", in
economia le cose sono maledettamente più complicate, sia in
termini di benessere che in termini di potere economico. Le
cifre non dicono tutto.
La storia recente ci insegna anche a non fidarsi troppo
delle proiezioni. Nel 1979 il Giappone era il "Number One"
designato, come prevedeva un libro di grande successo di
Ezra Vogel, professore alla Harvard Business School. Da
anni, invece, il paese è in preda a una strana forma di
sclerosi, che resiste a ogni stimolo di politica economica.
All'inizio degli anni Novanta era invece l'Europa, almeno
secondo Lester Thurow del Mit, a essere già "testa a testa"
(Head to Head, era il titolo del suo lavoro) con gli Stati
Uniti. Nessuna delle due previsioni si è avverata fino in
fondo, gli States hanno ripreso a correre - con un po' di
doping, ma anche tantissima innovazione - e hanno conservato
molti primati.
Dopo Giappone ed Europa, oggi si scommette sulla Cina. O
meglio sul Bric: e quindi anche sul Brasile, che sta
trascinando dietro di sé un po' tutta l'America Latina
sempre più sganciata dal traino degli Stati Uniti;
sull'India, che ha punte di eccellenza in grado di competere
con i paesi ricchi; sulla Russia, che in realtà sembra già
una promessa mancata e potrebbe essere presto "sostituita"
dall'Indonesia.
Ce la faranno davvero? Il Giappone e, in parte, l'Europa
mostrano cosa accade quando si esaurisce la spinta
dell'imprenditorialità imitativa, che adotta tecniche e
prodotti introdotti da altri (magari sotto la guida dello
stato come è avvenuto per anni soprattutto a Tokyo ma anche
a Parigi, a Bonn, a Roma e persino a Londra): quando si
cerca di adottare sistematicamente un'imprenditorialità
innovativa gli ostacoli diventano enormi.
Potrebbe presto
incontrarli anche la Cina, per esempio di fronte alla sfida
di tener insieme le mille forze centrifughe del suo impero;
o l'India e il Brasile che devono liberarsi - forse
attraversando una fase di centralizzazione in stile Pechino
o Singapore - di un capitalismo ancora oligarchico, d'élite,
chiuso e geloso anche nella selezione dei talenti. Senza
contare quanto possa essere complicato debellare, in questi
paesi, la corruzione o la criminalità organizzata che usano
risorse per la redistribuzione predatoria della ricchezza e
non per la sua produzione.
Fare dell'innovazione un processo che si autoalimenta non è
semplice, e coinvolge - è la lezione di William Baumol,
Robert Litan e Carl Shramm in Good Capitalism, Bad
Capitalism - una pluralità di fattori, non tutti misurabili.
Alcuni di essi, come un ordinamento giuridico formale e la
libera ricerca scientifica, sono successi occidentali che
richiedono tempo perché si consolidino anche altrove e molti
sforzi per conservarli.
Con tanti candidati e tante incertezze l'esito più probabile
sarà in ogni caso un mondo multipolare - ma non per questo
più stabile - anche dal punto di vista economico. Un pianeta
nel quale persino l'Italia potrà continuare ad avere il suo
ruolo: quando era terza al mondo, nel 1500, non ha mai
superato una quota del 5% del Pil globale, ma la sua forza
trainante andava ben oltre, malgrado una struttura politica
molto debole. Essere sorpassati non significa infatti
cessare di crescere, o perdere benessere o leadership. Forse
tra trent'anni alcuni paesi emergenti riusciranno a generare
ogni anno valore aggiunto quanto le attuali economie ricche
ma, se queste riusciranno a rispondere alla sfida, il
tramonto dell'Occidente potrebbe restare quello che è sempre
stato: un dotto gioco di parole.
 |
Fonte -
Il Sole 24 Ore
|
Obama cerca il rilancio
con un piano di sostegno alla "middle class" e sgravi
fiscali per le famiglie
25 Gennaio 2010 21:47 MILANO
-
di MiaEconomia ______________________________________________
Il presidente statunitense Barack
Obama concentra i suoi sforzi sulla classe media: nel suo
primo discorso sullo Stato dell'Unione, previsto per
mercoledì 27, Obama proporrà una serie di iniziative per
aiutare economicamente la "middle class", misure anticipate
dallo stesso Obama e dal vice presidente Joe Biden. Il
pacchetto contiene, tra le altre cose, sgravi fiscali per le
famiglie per l'assistenza ai bambini (alzando il limite
della deducibilità dal 20 al 35% per le famiglie con reddito
entro gli 85mila dollari all'anno), con un aumento dei fondi
federali sempre a favore dell'infanzia di 1,6 miliardi di
dollari, che andrà a beneficio di altri 235 mila bambini.
Saranno fissati anche dei nuovi limiti sui debiti degli
studenti (le rate non potranno superare il 10% del reddito
degli studenti) e saranno richieste ai datori di lavoro
maggiori garanzie sui piani di pensionamento dei dipendenti.
Obama annuncerà inoltre un aumento dei fondi per le famiglie
con a carico degli anziani, per un totale di 102,5 milioni
di dollari per programmi con sussidi per il trasporto e
aiuti per le attività domestiche.
«La classe media attraversa enormi difficoltà da troppo
tempo - ha detto il presidente americano parlando dalla Casa
Bianca - Purtroppo nessuna di queste misure garantirà la
soluzione completa dei problemi della middle class, ma
almeno ristabiliranno alcune delle sicurezze che sono venute
meno negli ultimi anni».
Le proposte sono il risultato del lavoro di una speciale
task force, guidata dal vice presidente Biden, creata per
sostenere le famiglie della classe media colpite dalla crisi
economica. La Casa Bianca ha spiegato che le misure sono
indirizzate a quella fascia di americani, definita "sandwich
generation", che contemporaneamente si deve occupare
dell'educazione dei propri figli e dell'assistenza dei
propri genitori anziani.
Oltre alle misure a favore della "middle class", Obama
focalizzerà il suo discorso sullo Stato dell'Unione sulla
riduzione del deficit e sulla creazione di nuovi posti di
lavoro. Parlerà anche del suo tentativo di porre nuove
regole al sistema finanziario americano. E del suo programma
di investimenti in energie rinnovabili. «Abbiamo creato due
milioni di posti di lavoro - ha detto oggi il presidente -
ma ne abbiamo persi sette come conseguenza della recessione,
è un'epidemia che richiede da parte nostra una risposta
forte e continua». In generale, quindi, sarà un intervento
concentrato sull'economia.
Per Obama, spiegano fonti all'interno della Casa Bianca, il
discorso di mercoledì, davanti al Congresso in seduta
plenaria, sarà l'occasione per ricalibrare il tono del suo
messaggio e renderlo più in sintonia con l'opinione pubblica
americana. Secondo i sondaggi, il consenso su Obama è in
calo, principalmente a causa dell'alto tasso di
disoccupazione e della crescita economica ancora lenta.
Inoltre la riforma sanitaria, uno dei pilastri dell'agenda
politica del presidente, è sempre meno popolare. E ha subito
una disastrosa battuta d'arresto con la sconfitta della
settimana scorsa in Massachussetts, in cui il repubblicano
Scott Brown è riuscito a strappare un seggio al Senato
mantenuto dai democratici per quasi 50 anni.
Fonte
- MiaEconomia
Cina, i temi del
2010
January 26, 2010 -
di Epistemes.org ______________________________________________
Nella giornata di martedì 12 gennaio la Cina ha aumentato
l’importo che le banche devono accantonare a riserva, in un
segno evidente che la banca centrale sta cercando di
stringere le condizioni monetarie, tra crescenti
preoccupazioni di surriscaldamento economico ed l’inflazione
causate del boom di credito.
Sempre martedì 12 la banca centrale cinese ha anche
aumentato lievemente i tassi di interesse nel mercato
interbancario per la seconda volta in meno di una settimana,
nel tentativo di frenare l’ascesa del credito. La decisione,
piuttosto inattesa, ha causato un brusco ribasso delle
quotazioni azionarie, suscitando timori soprattutto sui
titoli bancari ed immobiliari, quelli più esposti ad una
stretta creditizia.
Gli economisti ritengono che gli annunci di martedì siano
stati un avvertimento contro l’aggressiva espansione
creditizia praticata dalle banche commerciali. Gli obblighi
di riserva sono stati aumentati di 0,5 punti percentuali, al
16 per cento, mentre il tasso sui titoli a un anno è
aumentato dello 0,08 per cento e quello a tre mesi dello
0,04 per cento. La mossa sottolinea il compito sempre più
delicato della banca centrale cinese, che deve gestire le
conseguenze della forte crescita del credito, passato dai
4200 miliardi di yuan nel 2008 agli oltre 9000 miliardi
dello scorso anno. Non è tuttavia chiaro se la posizione della banca centrale
sia sostenuta dalla maggioranza dei vertici del Partito
Comunista cinese, ove alcuni alti dirigenti sembrano
favorevoli a mantenere una politica monetaria espansiva per
garantire una crescita elevata. Secondo alcuni osservatori
le recenti mosse potrebbero quindi riflettere una spaccatura
tra la People’s Bank of China, che si concentra sul
controllo dell’inflazione, e altri organismi di governo, che
spingono per la prosecuzione di una politica creditizia
aggressiva.
La banca centrale sta affrontando una serie di preoccupanti
segnali di pressioni inflazionistiche, compresa una rapida
espansione della massa monetaria M1, in aumento del 34,6 per
cento nel dicembre rispetto allo stesso mese dell’anno
precedente. I prezzi delle case sono aumentati rapidamente
in molte città e l’afflusso di capitali sembra essere molto
sostenuto, sulle aspettative che la valuta cinese riprenderà
una percorso di rivalutazione nel corso di quest’anno.
Secondo due economisti dell’Accademia Cinese delle Scienze
Sociali, il paese potrebbe crescere quest’anno di ben il 16
per cento, in assenza del ritiro di parte dello stimolo,
causando un notevole surriscaldamento dell’economia. Il dato di bilancia commerciale cinese di dicembre,
pubblicato giorni addietro, ha evidenziato una crescita
delle esportazioni del 17,7 per cento su base annuale,
mentre le importazioni sono schizzate del 55,9 per cento.
Prosegue quindi la robusta crescita della domanda domestica,
segno dell’orientamento delle autorità cinesi a modificare
il modello di sviluppo del paese, finora centrato sulle
esportazioni.
Ma le frizioni commerciali tra Cina e resto del mondo non
sono destinate a placarsi. Il 30 dicembre scorso la
International Trade Commission statunitense ha approvato
nuove tariffe sulle importazioni di tubi d’acciaio cinesi,
considerati sussidiati in violazione delle norme del
commercio internazionale. Il 22 dicembre i governi
dell’Unione europea hanno deciso di estendere per altri 15
mesi i dazi anti-dumping sulle scarpe cinesi.
La Cina sta attivamente stimolando la crescita dell’area
Asia Pacifico, oltre che aver finora contribuito alla
correzione degli squilibri globali grazie allo stimolo alla
domanda interna (che guida la crescita dell’import), come
testimoniato dalla costante riduzione del suo surplus delle
partite correnti, ma al contempo è riuscita a sottrarre
quote di mercato nell’export globale agli altri paesi, anche
e soprattutto durante la “gelata” del commercio mondiale. Da
qui le crescenti richieste di rivalutazione dello yuan, che
rischiano di sfociare in guerra commerciale conclamata.
Per la Cina sarà quindi un altro anno di opportunità e
rischi, nella sua ascesa al rango di potenza economica
mondiale.
Fonte
- Epistemes.org
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La
Casa Bianca e i dilemmi di
un paese a rischio declino
January 25th, 2010
– di Libertiamo
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All’indomani della storica sconfitta Democratica in
Massachusetts (ma dallo staff della Casa Bianca giurano che
non c’è legame), Barack Obama ha annunciato di voler fare la
faccia feroce contro le banche, bloccandone il gigantismo e
tentando addirittura di ridimensionarle. L’annuncio, come
nello stile obamiano, è stato particolarmente eclatante sul
piano della retorica e degli effetti speciali, ma il rischio
è che si fermi a quelli. Tentiamo di analizzarne i motivi,
sul piano tecnico e politico. Come vedremo, i due piani
risulteranno inestricabilmente connessi.
Sul piano delle tecnicalità, l’annuncio della Casa Bianca
prevede che le banche non potranno più possedere, investire
o sponsorizzare hedge funds, fondi di private equity od
operazioni di trading proprietario, non legate al servizio
della clientela. Si tratta, nella sostanza di una
riproposizione dalla porta di servizio del Glass-Steagall
Act, che impediva alle banche commerciali di svolgere
attività di investment banking. Abrogato nel 1999, il
Glass-Steagall Act ha di fatto portato in America la figura
della banca universale.
La soluzione di Obama, o meglio di
Paul Volcker, non appare convincente perché è del tutto
evidente che la crisi non si è originata da nessuna di
queste attività.
Le banche “normali” e le cosiddette shadow bank (come Bear
Stearns, Lehman ed in generale i broker-dealer alla Goldman
Sachs e Morgan Stanley) hanno preso dei mutui, li hanno
impacchettati sotto forma di obbligazioni, ne hanno fatto
delle tranches, ciascuna con diversa capacità di
assorbimento delle perdite, e li hanno venduti ai clienti,
trattenendo per sé spesso la parte più rischiosa (la
cosiddetta equity tranche). Da questa sommaria descrizione
emerge che il sistema finanziario americano lavorava
soprattutto sul “conto terzi”, non sulla proprietà, quindi
la misura di Obama e Volcker non sarebbe centrata, e non
risolverebbe il problema del Too Big To Fail, cioè del
rischio sistemico, quello capace di originarsi dalle banche
e di abbattere un paese intero. Il problema è che il rischio
sistemico è figlio del moral hazard, cioè della certezza che
i creditori delle banche hanno, circa il fatto che la banca
verrà comunque salvata con denaro pubblico.
Fin quando non
verrà stabilito che ogni creditore diverso dai depositanti
(coperti dal fondo federale di assicurazione) potrà in
qualche misura subire le conseguenze del dissesto di una
banca, il rischio sistemico del sistema finanziario,
americano e globale, resterà in essere. Il piano Obama-Volcker potrebbe essere comunque utile per ridefinire
i limiti di antitrust, già oggi esistenti e che stabiliscono
che nessuna banca americana può possedere più del 10 per
cento dei depositi. Tali limiti sono stati violati, con
assenso federale, in tre casi, data l’eccezionalità della
situazione.
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USA - Proiezione
Budget di spesa Federale |
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Fonte - Congressional
Budget Office |
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E veniamo all’aspetto politico-simbolico dell’iniziativa.
Obama, nel comunicato di annuncio, ha enfatizzato il nome di
Paul Volcker, lasciando in ombra lo staff del suo inner
circle economico (Timothy Geithner e Larry Summers). Questa
pare una vindication del vecchio Volcker, a lungo lasciato
in disparte, anche se dalla Casa Bianca spergiurano che l’ex
capo della Fed (l’uomo che sradicò l’inflazione a inizio
anni Ottanta), stava da tempo lavorando al progetto.
Obama
ha un particolare fiuto per gli umori popolari, sa che nel
paese monta la frustrazione per una crisi che negli ultimi
due anni ha distrutto sette milioni di posti di lavoro,
mentre i bonus bancari decollavano. Non è casuale che, tra
le unintended consequencies della storica sconfitta in
Massachusetts, sia affiorata la crescente difficoltà del
Senato a riconfermare Ben Bernanke alla guida della Fed. Due
senatori Democratici, nell’anno per loro elettorale, dopo
aver annusato l’aria, hanno deciso di opporsi alla
riconferma dell’uomo che, a torto o a ragione, è visto come
troppo vicino alle banche, oltre che aver completamente
sottovalutato la portata della crisi, all’atto del suo
formarsi. E’ piuttosto sintomatica di questa esigenza di
contenere la rabbia contro le banche, pertanto, la frase
utilizzata da Obama per presentare il piano:“If these folks want a fight, it’s a fight I’m ready to have.”
Sembra una frase che si sarebbe potuta usare per la lotta al
terrorismo, all’indomani dell’attacco alle Twin Towers,
invece è riferita alle banche americane. Segno dei tempi.
Presentando questa iniziativa, che a nostro giudizio non ha
alcuna possibilità di passare nella versione attuale, Obama
ha però rilanciato la palla nella metà campo dei
Repubblicani, i quali finora hanno avuto buon gioco a
denunciare l’esplosione di deficit e debito, frutto del
crollo delle entrate fiscali e della spesa per
ammortizzatori automatici in regime di proroga, e non dello
stimolo vero e proprio. Per il GOP potrebbe essere difficile
dirigersi verso le elezioni di midterm dicendo no ad una
proposta che vuole “dare una lezione alle banche”.
Il problema è tuttavia capire se Obama vuole riformare
qualcosa del suo paese oppure se vuole solo dare lezioni di
tattica ad un partito, quello Repubblicano, che è a
brandelli ideologici e brancola nel buio più assoluto di
idee e della conservazione di uno status quo che
semplicemente non è difendibile.
Si prenda il caso della
sanità. I Repubblicani si oppongono duramente alla riforma
di Obama, ma senza proporre misure alternative. Addirittura,
il piano Obama viene contestato proprio negli aspetti di
maggiore conservatorismo fiscale, il controllo
dell’espansione della spesa tramite il programma pubblico
Medicare. E’ bizzarro vedere molti Repubblicani partecipare
ai Tea parties gridando “giù le mani dal Medicare”, che è la
forma socializzata per antonomasia della sanità. Eppure
basterebbe vedere le proiezioni del Congressional Budget
Office, che è un’agenzia nonpartisan la cui funzione è
quella di produrre analisi “obiettive” a supporto delle
decisioni economiche e di bilancio, per rendersi conto che
un sistema che già oggi assorbe il 15 per cento del Pil (il
doppio della media europea), anche a causa del sistema di
assicurazione legato al datore di lavoro, e che rischia di
produrre un numero esponenziale di uninsured per motivi
economici, che finirebbero col gravare sul contribuente, è
semplicemente insostenibile (vedi grafico qui sotto).
Il problema americano, oggi, non è certo il presunto
socialismo di Obama, che è peraltro inesistente, bensì la
condizione di declino relativo in cui il paese rischia di
trovarsi, in un quadro globale che diventa sempre più
multipolare, con o senza il permesso di Washington. Per
questo motivo la retorica (di entrambi gli schieramenti)
lascia il tempo che trova, e viene sistematicamente
aggredita dalla realtà.
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Fonte -
Libertiamo |
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Venerdì
22
Gennaio
2010 |
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Domenica
24
Gennaio
2010 |
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Sabato
30
Gennaio 2010 |
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Economia
mondiale,
la locomotiva è
CinIndia
29 Gennaio 2010 16:12 ROMA
– di Federico Rampini
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Un decennio è "un
tempo infinito" per fare previsioni, dice l'economista
Kenneth Rogoff rispondendo al sondaggio organizzato da
Repubblica tra gli esperti riuniti al World Economic Forum.
Non sembrano dello stesso parere i dirigenti di Pechino e
New Delhi. Per i ritmi di aumento degli investimenti nella
ricerca scientifica, la Cina e l'India hanno superato di
slancio gli Stati Uniti.
Intanto Barack Obama, alle prese con una destra populista
che cavalca la rivolta anti-tasse e anti-Stato, è costretto
a tagliare i fondi all'istruzione. La California, un tempo
la punta avanzata dell'innovazione, riduce le borse di
studio e l'offerta di corsi universitari.
Se è vero che "il
decennio si prepara adesso", come ci ha detto il commissario
europeo Joaquin Almunia, l'Occidente è partito sul piede
sbagliato. E' indicativo il fatto che quest'anno a Davos i
"malati" sotto osservazione sono Spagna, Grecia, Lettonia:
tutti paesi dell'Unione europea, due dei quali sono
membri anche dell'Eurozona. Lontani sembrano i tempi in cui
la bancarotta di uno Stato sovrano poteva minacciare solo
paesi emergenti, era un virus endemico in America latina o
nel sudest asiatico.
Questo decennio si
apre all'insegna di una crisi fiscale spaventosa che
attanaglia gli Stati Uniti, l'Unione europea, il Giappone.
L'Occidente è condannato a impiegare i prossimi anni a
smaltire debiti pubblici colossali, accumulati per la verità
solo in parte a causa della recessione del 2008-2009. A
Oriente invece si trovano oggi i giacimenti di risparmio,
disponibili per finanziare gli investimenti produttivi e
l'accesso alla conoscenza.
Se siamo arrivati in queste condizioni, così sfavorevoli per
noi, la ragione non va cercata solo nella sfera
dell'economia. Il
declino dei paesi di antica industrializzazione chiama in
causa i sistemi politici. Il Welfare State europeo,
che poteva diventare un modello d'esportazione per curare le
tensioni sociali nei paesi emergenti, ha perso credibilità
perché si è rivelato incapace di dedicare risorse alle
giovani generazioni.
In quanto agli Stati
Uniti, un autorevole esponente del partito democratico,
Barney Frank (presidente della commissione Finanze alla
Camera) ha descritto lucidamente a Davos i risultati della
lunga egemonia culturale della destra: "Prima hanno rovinato
lo Stato depauperandolo di risorse. Ora dicono che
non si possono alzare le tasse perché i soldi dei cittadini
andrebbero agli stessi burocrati inefficienti che furono
responsabili del disastro-Katrina, o che furono incapaci di
regolare i derivati e la finanza tossica".
Decenni di abbandono
degli investimenti pubblici hanno portato alla decadenza
tutte le infrastrutture vitali dell'America, proprio mentre
la Cina spingeva l'acceleratore sulla loro modernizzazione.
Nel cuore della liberaldemocrazia americana si sono
incrostate oligarchie potenti.
I veti della lobby
assicurativa contro la riforma sanitaria; la guerra di
trincea che Wall Street si ostina a combattere contro le
nuove regole sulle banche; la sentenza della Corte suprema
che toglie ogni limite alle campagne politiche finanziate
dal Big Business. Tutto ciò mette a repentaglio
quella vitalità del sistema democratico che avrebbe dovuto
dare all'Occidente una flessibilità superiore rispetto al
grande rivale che è il modello autoritario cinese. Se un
regime illiberale dovesse rivelarsi più adatto dei nostri a
investire sul futuro, imprimerebbe un segno terribilmente
regressivo agli anni Dieci del terzo millennio.
Una globalizzazione
governata dal G2 America-Cina si preannuncia gravida di
tensioni: alla vigilia di Davos la sfida sulla
"sovranità nel cyber-spazio" messa a nudo dal caso Google è
un segnale premonitore. La relazione privilegiata
sino-americana oscillerà costantemente fra l'inevitabilità
di compromessi sugli interessi e l'incompatibilità sui
valori.
Lo scenario del prossimo decennio deve includere altre
variabili. La demografia darà una marcia in più all'India:
tra natalità e progresso economico, il ceto medio della più
grande democrazia mondiale sarà decuplicato entro il 2030.
Ma anche gli Stati Uniti su questo fronte sono favoriti: con
un tasso di fertilità superiore del 50% a Russia Germania e
Giappone, e grazie all'immigrazione, ci saranno ben 100
milioni di americani in più nel 2050. La concentrazione
delle popolazioni più vaste in Asia esigerà da quelle
potenze soluzioni innovative al problema delle risorse
alimentari e della scarsità di acqua: una catastrofe
ambientale potrebbe far deragliare le loro traiettorie di
successo. Un fattore determinante del progresso sociale nei
paesi emergenti sarà l'accesso delle donne all'istruzione.
La qualità della governance risulterà decisiva sotto ogni
latitudine. Insieme con il miglioramento nel tenore di vita
e nelle conoscenze, diventerà più visibile e sempre meno
tollerabile la tassa occulta della corruzione.
Se questo Davos 2010 è attendibile nei suoi segnali
premonitori, a fine decennio per tenere un summit circondato
da altrettanta attenzione bisognerà farlo a Shanghai.
 |
Fonte -
La Repubblica |
DA DAVOS L'OMBRA
DI UNA NUOVA RECESSIONE
29 Gennaio 2010 04:21 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
I gotha dell'economia e della
finanza riuniti a Davos sono tutti d'accordo: la crisi non
e' ancora finita. Indebitamento e deficit di bilancio i
maggiori nemici. Si salvano le economie emergenti. Inutili
le regole per le banche.
Chi sperava di poter mettere definitivamente la parola fine
alla piu’ grossa crisi dopo quella del ’29 deve ricredersi:
il ritmo della ripresa potrebbe subire una battuta d’arresto
entro la fine dell’anno in corso. Sono tutti concordi i
gotha dell’economia e della finanza riuniti al forum annuale
di Davos, in Svizzera, dalle cui riflessioni emergono chiare
indicazioni per i prossimi mesi.
Se e’ vero che l’economia in generale si sta riprendendo, e’
altrettanto vero che non e’ ancora tempo per considerarsi
fuori pericolo. Cosi’ riporta il Wall Street Journal.
Il nodo cruciale e’ il pesante indebitamento con cui governi
e possessori di case in Stati Uniti ed Europa dovranno fare
i conti ancora per un bel po’. Le speranze di una crescita
globale vanno mitigate, ma non per quanto riguarda paesi
come Cina e India destinate invece a fare meglio.
A riproporre l’ombra della recessione ci ha pensato
l’economista Nouriel Roubini, che tre anni fa, proprio da
Davos, aveva anticipato quello che poi e’ accaduto su tutti
i mercati. Il professore della New York University e’
stranamente ottimista sulle prospettive positive delle
economie emergenti. Ma intravede comunque rischi in una
possibile bolla nel Sol Levante, nell’invecchiamento della
popolazione in Russia e negli ostacoli di tipo politico in
Brasile e India.
Quanto alla regolamentazione finanziaria, Roubini e’ tra
coloro che si interrogano sulle stringenti misure che
dovrebbero portare alla separazione tra banche commerciali e
banche di investimento.
Il finanziere George Soros e' sicuro che la riforma degli
istituti finanziari sia prematura e insufficiente. "In linea
generale appoggio il piano Obama, ma il timing e’ sbagliato.
E’ troppo presto. Le banche non sono ancora fuori pericolo".
Altri avvertono: regole stringenti potrebbero minare la
ripresa in generale. "L’incertezza economica da cui stiamo
tentando di uscire potrebbe esser seguita da un incertezza
di tipo politico", ha sostenuto il professore all’universita’
di Chicago Raghuram Rajan. Un esempio per tutti: il mix
disoccupazione Usa al 10% e crescita cinese potrebbe
spingere gli Stai Uniti verso misure populiste e
protezioniste", ha detto.
Stessa opinione anche da parte del co-fondatore del fondo di
private equity Carlyle David Rubenstein. E’ un illusione
credere che stringenti regole possano impedire future crisi
finanziarie. Gli Stati Uniti devono migliorare "le tre d:
debito, deficit e dollaro", ha concluso.
USA SCOSSI DA
UN'ONDATA DI PIGNORAMENTI NEL 2009
29 Gennaio 2010 16:30 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
L'emorraggia della crisi
immobiliare non da' segni di resa e colpisce in particolare
le citta' degli Stati del Sud. Tassi piu' alti della media
anche a Portland, Utah, Seattle e Minneapolis. Ma negli
ultimi tre mesi le notifiche sono calate.
Alle citta' degli stati meridionali, i cosiddetti "Sand
States", va il triste primato di guidare i posti piu' alti
della classifica dei pignoramenti nel 2009. Le 20 aree
urbane piu' colpite sono tutte situate in Nevada, Florida,
California e Arizona.
Las Vegas e' la citta' che e' stata piu' colpita dal numero
di notifiche di pignoramento, con il 12% delle famiglie che
ne ha ricevuta almeno una in un anno. Secondo le cifre
pubblicate da RealtyTrac, l'operatore online di case
pignorate, si tratta di una cifra di ben cinque volte
superiore alla media nazionale.
Al secondo posto si e' piazzata Cape Coral, in Florida, con
un tasso dell'11.9%, terza Merced, in California, che ha
registrato una percentuale del 10.1%.
La buona notizia e' che tutte e 20 le citta' che occupano i
primi posti della speciale graduatoria hanno visto calare le
notifiche di pignoramento negli ultimi tre mesi.
Quella cattiva e' che la piaga dei pignoramenti si sta
espandendo a macchia d'olio oltre i livelli critici, stando
a quanto riferito dall'AD di RealtyTrack, James Saccacio. Su
scala nazionale l'anno scorso i pignoramenti sono cresciuti
del 21.2%.
"Aree come Provo, Utah, Fayetteville, Arkansans, Portland,
Oregon, Rockford e Illinois hanno tutte registrato nel 2009
tassi di pignoramento sopra la media statunitense e negli
ultimi dodici mesi mercati come Honolulu, Minneapolis e
Seattle hanno riscontrato un incremento dei casi di
pignoramento di oltre due volte superiore al tasso
nazionale".
L'ondata di pignoramenti che ha scosso gli Stati
"continentali" sembra legata a fattori che solitamente
influiscono direttamente sul benessere delle famiglie, come
la perdita di posti di lavoro, mentre nei Sand States e'
piu' che altro dovuta allo scoppio di una bolla immobilare.
In citta' quali Las Vegas, Phoenix, Miami e Bakersfield, in
California, il rialzo dei prezzi delle case a meta' del
decennio 2000 ha portato i costruttori di case a tentare
misure disperate, come l'utilizzo di mutui a tasso variabile
ibridi, i famigerati contratti a opzione "ARM".
Si tratta di mutui dove si ha diritto all’opzione, ovvero
una clausola, che permette al mutuatario di pagare un
interesse molto basso per i primi anni di vita del mutuo.
Successivamente l’interesse viene ricalcolato con dei
parametri molto peggiorativi. Da qui l'acronimo ARM, che sta
per Adjustable-Rate Mortgages.
Fino a che i prezzi hanno continuato a crescere e' stato
possibile pagare questi prodotti. Una volta che la corsa dei
prezzi si e' fermata, per i debitori sono iniziati i
problemi e sempre piu' mutui hanno incominciato a risultare
insolventi.
RUSSIA-CINA
VOLEVANO FAR SALTARE FREDDIE E FANNIE
29 Gennaio 2010 20:00 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Lo scrive nero su bianco l'ex
segretario al tesoro Paulson nel suo nuovo libro "On the
Brink". Il Cremlino voleva che il Celeste impero si
sbarazzasse dei bond delle due agenzie governative. I fatti
risalgono al 2008.
Uno schema "dirompente" doveva essere messo in atto tra
Russia e Cina. Obiettivo: mandare all’aria Freddie Mac e
Fannie Mae, le due agenzie governative che erogano la
maggior parte dei mutui americani. A riferirlo l’ex
segretario al Tesoro Henry Paulson nel suo libro "On the
Brink", in vendita dal prossimo primo febbraio.
Secondo quanto appreso dallo stesso Paulson durante le
celebrazioni delle ultime Olimpiadi di Pechino, il Cremlino
avrebbe fatto pressioni sul Celeste Impero affinche’ nel
2008 si sbarazzasse a piene mani delle obbligazioni facenti
capo alle due "GSE" (Government Sponsored Enterprises, come
le ha definite tecnicamente il predecessore di Geithner) con
l’intento di spingere gli Stati Uniti a mettere mano al
portafoglio per salvarle, riccorrendo alle autorita’
competenti.
"Pesanti vendite avrebbero potuto creare un’improvvisa
perdita di fiducia in queste due agenzie e creare uno shock
nel mercato", ha scritto Paulson. "Ho aspettato di tornare
negli States ed essere in un ambiente sicuro per poter
informare (l’allora, ndr) presidente George W. Bush".
Non sono mancate le immediate reazioni alla notizia: "La
Russia non ha mai suggerito alla Cina simili strategie", ha
replicato il portavoce di Putin Dmiry Peskov secondo quanto
riportato dall'agenzia Bloomberg News.
Il Cremlino nel 2008 ha venduto tutte le sue obbligazioni
legate a Freddie e Fannie. All’inizio di quell’anno ne
possedeva per un valore di $65.6 miliardi. Il 6 settembre
dello stesso anno le due agenzie governative sono sate
salvate nel bel mezzo del peggior scivolone del mercato
immobiliare dai tempi della Grande Depressione.
Fonte
- www.wallstreetitalia.com
La settimana,
4/2010
Friday, 29 January, 2010 at 15:59 -
di phastidio ______________________________________________
Settimana caratterizzata dalla
prosecuzione del movimento di correzione sui principali
mercati azionari. Timori ed incertezze restano concentrati
sulla stretta creditizia in atto in Cina e sull’annuncio del
presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di intervenire
su dimensioni e ambito di attività delle istituzioni
creditizie, concetti ribaditi in occasione del discorso
sullo Stato dell’Unione, il 27 gennaio. Un elemento che ha
contribuito a ridurre l’incertezza è stato, per contro, il
voto del Senato statunitense sulla riconferma di Ben
Bernanke alla guida della Fed per un altro quadriennio, con
70 voti favorevoli contro 30, giovedì 28 gennaio.
In precedenza, la riunione del Federal Open Market Committee
si era espressa per il mantenimento, “per un esteso
periodo”, della politica di tassi prossimi a zero,
confermando altresì la propria intenzione di concludere
entro marzo il programma di acquisti di cartolarizzazioni
ipotecarie (fissato in 1250 miliardi di dollari). Nel
meeting si è registrato il dissenso di Thomas Hoenig,
presidente della Fed di Kansas City, che ha chiesto una più
rapida uscita dallo stimolo monetario. La prima stima del Pil
statunitense del quarto trimestre 2009 ha evidenziato una
crescita annualizzata del 5,7 per cento, migliore di oltre un
punto percentuale rispetto alle stime. Il marcato rallentamento
nella velocità di liquidazione delle scorte ha contribuito al
dato per ben il 3,4 per cento. Nullo il contributo della spesa
pubblica, positivo per mezzo punto quello del commercio estero
netto, mentre i consumi personali contribuiscono per poco più
dell’1,4 per cento, contro il 2 per cento del terzo trimestre.
La Grecia continua ad essere sotto pressione, con i mercati che
non credono al piano di rientro dal deficit presentato dal
governo di Atene. Malgrado l’accoglienza favorevole tributata ad
un titolo di stato quinquennale collocato a metà settimana,
nella giornata di giovedì 28 il rischio di credito sovrano greco
ha toccato nuovi massimi, sia a livello di credit default swaps
che di rendimenti nominali sui titoli di stato, mentre si
moltiplicano voci incontrollate di un intervento di salvataggio
dell’Unione europea, che eviterebbe ad Atene di rivolgersi al
Fondo Monetario Internazionale. Le maggiori resistenze e dubbi
vengono dal governo tedesco, consapevole che un bailout
incondizionato sarebbe politicamente inaccettabile, ma che
abbandonare la Grecia al proprio destino rischierebbe un
pericoloso effetto-domino sui nomi deboli dell’Area Euro, oltre
a colpire in modo piuttosto duro il sistema bancario tedesco,
che appare particolarmente esposto verso il paese ellenico. In settimana, il Regno Unito ha
pubblicato un dato di crescita positivo del Pil per il quarto
trimestre 2009, ma solo per lo 0,1 per cento, inferiore alla
stima di consenso (posta a più 0,4 per cento). La sostanziale
assenza di ripresa congiunturale, nell’attuale contesto di
finanza pubblica, ha indotto l’agenzia di rating Standard&Poor’s
ad emettere un report di ricerca, nel quale afferma di non
considerare più quello britannico come un sistema bancario tra i
più stabili e sicuri del mondo.
Fonte
- Macromonitor
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