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PARTE  1

 

INDICE ARTICOLI di TESTA

 

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Quadro macro USA/Europa - Previsioni 2010

Quale economia nel 2010 Tra liquidità e exit strategy

Macro USA - Opinioni

L'inflazione: una inutile scorciatoia

Analisi storica Macro Giappone e trasposizione a P. Emergenti + Cina

Se Tokyo sbaglia Pechino impara

Analisi conseguenze politiche effetti voto USA su Senato

Le implicazioni per la politica estera americana del voto in Massachusetts

Analisi conseguenze politiche effetti voto USA su Senato

Sul fronte interno cattive notizie

Analisi Macro Occidente/Oriente

Occidente al tramonto? Presto per dirlo

Analisi conseguenze politiche effetti voto USA su Senato

La Casa Bianca e i dilemmi di un paese a rischio declino

Macro Mondo - Divergenze USA/UE Occidente - Cina/India Emergenti

Economia mondiale, la locomotiva è CinIndia

 
+++   ANSA   +++   Crisi, a Grecia servono 54mld euro   +++    Usa: bancarotte personali +32%   +++   Usa: Gensler (Cftc), Possibili Nuove Crisi Se Derivati Non Regolamentati   +++   Usa: Fed, Disoccupazione Restera' Alta e Limitera' Crescita   +++   Usa: Obama Vuole Recuperare 120 Miliardi Dlr Da Banche  +++   ANSA   +++ 
 
  Sabato 02 Gennaio 2010   Domenica 03 Gennaio 2010   Martedì 05 Gennaio 2010  
       
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INDICE ARTICOLI - Seconda pagina e flash

   

USA: I GUAI COMINCERANNO DAL SECONDO TRIMESTRE

Usa, in Massachusetts vince il repubblicano Brown

La crescita del deficit pubblico è strutturale ...

OBAMA DIMEZZATO

Preavviso di burrasca

BUFFETT CONTRO OBAMA

La settimana, 1/2010

Usa, Obama punta a colpire eccesso di rischio ...

Bri: «Rischi eccessivi per il sistema bancario»

Obama cerca il rilancio con un piano di sostegno ...

Bolle globalizzate

Cina, i temi del 2010

Banche americane sotto accusa a Washington

DA DAVOS L'OMBRA DI UNA NUOVA RECESSIONE

Obama: «Mega-tassa per le banche più grandi»

USA SCOSSI DA UN'ONDATA DI PIGNORAMENTI NEL 2009

La finanza è sempre più ricca L'industria segna il passo

RUSSIA-CINA VOLEVANO FAR SALTARE FREDDIE E FANNIE

USA: DEBITO+DEFICIT, EFFETTO "PIETRA AL COLLO"

La settimana, 4/2010

   
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  Quale economia nel 2010 Tra liquidità e exit strategy

05 Gennaio 2010 12:02 MILANO – di Vittorio Carlini

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Outlook 2010 o, per dirla più semplicemente, previsioni per l'anno in corso. Un'attività difficile. Sulla crisi in pochi ci hanno azzeccato e si può obiettare: che senso ha, con un territorio inesplorato quale l'attuale congiuntura, tentare di dire come andranno le cose? Per rispondere si può parafrasare John Mainard Keynes. Quando si cerca di capire chi possa vincere un concorso di bellezza, non bisogna guardare alla ragazza che appare più bella; bensì, tentare di capire quale concorrente affascina di più i giurati. Come dire, insomma, che monitare l'umore di esperti e operatori, senza alcuna pretesa di completezza, è utile, anche perché loro stessi fanno parte della giuria. Con una precisazione: tutte le valutazioni si basano sempre su uno scenario di base che cambia per ciascun esperto. Alle volte, le argomentazioni utilizzate da un economista per sostenere la crescita di un aggregato economico sono le stesse usate da un altro per affermarne la dimunuzione.

La ricchezza della nazione nel mondo...
Che Pil farà nel 2010? La risposta degli esperti è che il futuro sarà meno nero. Lo scenario più probabile, per molti, è che la ricchezza delle nazioni crescerà. «Il Pil mondiale - scrive BofA Merrill Lynch - dovrebbe aumentare del 4,4 per cento». «L'incremento è stimato, nel 2010, attorno al 3,2 per cento», fa da eco Citi. E l'elenco degli esperti "votati" alla crescita potrebbe continuare. Tuttavia, guardando dietro al dato aggregato le differenze tra le economie saltano fuori, e con forza. «Il "decoupling" - dice al Sole24ore.com Andreas Uterman, Global Chief Investment di Allianz - è nelle cose: i paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina, ndr) guideranno l'economia globale.

 

  Proiezioni PIL mondiale  
     
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Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Gli stati più sviluppati, oberati di debiti e fiscalmente deboli, dipendono troppo dalla spesa al consumo e dall'edilizia. Di fatto stanno cercando di rimanere a galla dopo la stretta creditizia. Al contrario, molti emerging country godono di ottima solidità finanziaria, sostenuta dal crescente benessere della popolazione». Così, seppur partendo da basi relative di ricchezza inferiore all'Occidente, «i paesi emergenti in media - dice BofA Merril Lynch - cresceranno del 6,3 per cento, mentre quelli più industrializzati solo del 2, 7 per cento». «Il Pil della Cina - aggiunge Threadneedle - salirà dell 8,8%, a fronte di una ripresa negli Usa del 2% e dell'1% in Eurolandia».

...in Europa
Già Eurolandia, l'Europa. Sulle possibilità del Vecchio continente c'è qualcuno un po' più positivo. «Le nostre stime - scrive Ubs - indicano una crescita del 2,4% a fronte di un consensus dell'1,2 per cento». Ottimismo campato in aria? No, dice Ubs e per quattro ragioni:

 

  Proiezioni PIL Eurolandia  
     
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Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

«Innanzitutto, la ripresa mondiale sosterrà l'export europeo, che non sarà affossato da un euro troppo forte; inoltre, le condizioni dei creditori stanno, seppur lentamente, migliorando» e non siamo più sull'orlo dell'abisso; «poi, il mix di stimoli, sia fiscali sia di politica monetaria, produrrà i suoi principali effetti nel 2010; infine, nonostante il consensus indichi una crescita del Capex pari a zero, noi scommettiamo che gli investimenti delle aziende in conto capitale ripartiranno già quest'anno».

Ripresa continua o rallentamento?
Al di là delle stime di crescita sull'intero anno, c'è una domanda che rimbalza tra gli economisti: sarà una ripresa pulita a «V», o assisteremo a una ricaduta con l'andamento del Pil che disegna una «W»? La passione per le lettere dell'alfabeto, vista anche la difficoltà di realizzare previsioni, è un po' ridicola. Tuttavia, il propendere per uno scenario rispetto ad un altro significa osare più o meno ottimismo. «In Eurolandia non siamo ancora di fronte ad una reale ripresa», spiega al Sole24ore.com Marco Valli, economista di UniCredit, che usa alcuni argomenti di Ubs ma in maniera differente. La spinta, infatti, è arrivata «da un andamento migliore delle attese del commercio mondiale» che, tuttavia, «potrebbe non continuare. Nella prima parte del 2010, quando peraltro importanti incentivi statali inizieranno a venir meno, potremmo assistere ad una certa debolezza dell'economia. Un rallentamento, con una ripresa nella seconda parte dell'anno. In generale, nel 2010 il Pil dell'Eurozona dovrebbe salire dello 0,9 per cento, per poi aumentare dell'1,3% nel 2011».

 

  Proiezioni Price to book value  
     
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Fonte - Il Sole 24 Ore

 



Diversa l'impostazione di Citi. La banca americana, seppur parlando di Pil globale, indica che «la ripresa seguirà un andamento più simile alla figura della «V» che ad altre». Fabrizio Quirighetti, capo economista di Banca Syz, segue le "orme" di Valli ma sceglie un timing differente: «Il 2010 - dice l'esperto - rischia di rimanere una finestra positiva su di uno scenario che, nel 2011, potrebbe di nuovo rivelarsi negativo. Durante l'anno in corso (analogamente a quanto indicato da Ubs, ndr) sentiremo in pieno gli effetti delle politiche fiscali espansive messe in atto dai governi, oltre a quelle monetarie delle banche centrali. Poi, però, questi effetti verranno meno», e fondamentale sarà cogliere il momento giusto per l'abbandono delle misure d'eccezione. Altrimenti si rischierà di ricadere in recessione.

Tassi, le mosse di Bernanke...
È la famosa exit strategy che, a detta degli esperti, non riguarderà in prima battuta la politica dei tassi. «Nel 2010 la Fed non sposterà il costo del denaro dall'attuale forchetta compresa tra lo 0 e 0,25 per cento - dice Quirighetti - . Anzi il problema per Ben Bernanke, presidente della banca centrale americana, sarà quello di mantenere i tassi attuali anche quando all'opinione pubblica sembrerà che l'economia è in vera ripresa. Al contrario, la Fed dovrà ridurre, passo dopo passo, con estrema abilità il quantitave easing, cioè l'acquisto di obbligazioni dalle banche d'affari. Con un grande rischio per i titoli governativi».

...con il rischio sui titoli di stato...
Vale a dire? «Sui Treasury trentennali c'è la possibilità che possa scoppiare una bolla. Attualmente il loro rendimento è tenuto basso dagli acquisti, anche degli istituti finanziari. Quegli stessi istituti che, proprio grazie al quantitative easing, "vendono" i bond alla Fed. Con il venire meno della politica espansiva della Federal reserve caleranno giocoforza anche gli acquisti dei trentennali e, di conseguenza, saliranno i rendimenti». E la curva dei rendimenti, con i Fed fund di fatto a zero, potrebbe inclinarsi, pericolosamente. Diversa l'impostazione di Valli: «Io credo che Bernanke rimarrà con i tassi fermi fino alla fine dell'estate prossima - spiega l'economista -. Poi, gradualmente, li alzerà, portandoli all'1,25 per la fine del 2010».

...e la Bce deve attendere
E la Banca centrale europea? «Manterrà i tassi all'1 per cento», risponde Valli. Un'impostazione condivisa da Ubs secondo cui esistono tre motivi essenziali alla base di questa scelta. Per l'Unione della banche sviezzere «il primo è che, seppure il sistema finanziario si muove nella giusta direzione e le condizioni del credito migliorano, le banche hanno ancora bisogno del sostegno della Bce: un rialzo dei tassi creerebbe problemi per il finanziamento dell'economia reale». Il secondo è il rischio di una ricaduta nella crisi. «Bisogna ricordare - scrive Ubs - che le armi di Eurotower sono state già usate quasi tutte. Quindi, alzare i tassi metterebbe la banca centrale con le spalle al muro nell'ipotesi della cosiddetta double dip». Il terzo è che, incrementando il costo del denaro, «l'euro finirebbe sotto pressione nei confronti del dollaro. Una situazione non positiva» per l'economia di Eurolandia, che si basa molto sull'export.

 

  Moltiplicatore monetario in % anno su anno  
     
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Fonte - Il Sole 24 Ore

 



Molti esperti, tuttavia, temono l'attivismo di Jean Claude Trichet che, nel passato, ha mostrato troppa sensibilità all'inflazione. «Il rischio - afferma Quirighetti - esiste: la Bce che si muove prima della Fed sarebbe un grande errore». «Che, però - aggiunge Valli -, non si concretizzerà. È vero che la Bce, anche per il suo statuto, ha quale obiettivo il mantenimento di una bassa inflazione e non la crescita economica. Da un lato, però, Francoforte ha imparato dallo sbaglio del 2008 quando non comprese che l'aumento dei prezzi era causato solo dalla variabile esogena del petrolio», schizzato oltre i 147 dollari al barile.

L'inflazione rimarrà bassa
Dall'altro, i timori di un surriscaldamento dell'economia sono bassi. «L'inflazione core (esclusa l'energia, l'alimentare, l'alcool e il tabacco, ndr) sta rallentando - dice Valli - . Dopo aver raggiunto un picco alla fine del 2008 (+1,9%), nell'ottobre 2009 si è attestata su un rialzo dell'1,2 per cento. E la nostra stima sui sei mesi è per un tasso di crescita dell'1 per cento». Peraltro l'elemento che ha maggiore effetto sull'inflazione è, in questo periodo, l'occupazione. La perdita del posto di lavoro, oltre ad essere una tragedia personale, significa calo della propensione marginale al consumo e della domanda aggregata. Nei paesi Ocse, putroppo, il trend è ancora di un tasso di disoccupazione in crescita: il che non fa pensare ad una ripresa dei prezzi al consumo prima del 2011. «Non vedo rischi inflazionistici -concorda Nicola Trivelli, direttore investimenti di Sella gestioni -. Anche se biosognerà porre attenzione ai prezzi delle commodity, spinti dalla domanda asiatica e dalla ormai consolidata presenza delle materie prime nei portafogli istituzionali, e non, come asset class».

 

  Proiezioni OCSE su Inflazione e Disoccupazione  
     
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Fonte - Il Sole 24 Ore

 



Di più: nemmeno l'enorme liquidità immessa nei mercati, per evitare il collasso del sistema, ha attualmente effetti «inflattivi - aggiunge Valli- . Il "denaro frusciante", infatti, non fa aumentare l'aggregato monetario più ampio l'M3 mentre fa crescere quello più stretto», l'M1. Il che significa che la liquidità viene sì usata, ma non esce dal mercato del credito. Rimane, per la maggior parte, "intrappolato" negli istituti finanziari e nelle banche centrali e quindi non causa, almeno per adesso, una crescita dei prezzi al consumo.

Dove va Wall Street?
Fin qui alcune considerazioni sul possibile futuro dell'economia reale. Ma quale l'impatto sui mercati finanziari, in particolare quelli Usa che, fino ad ora, hanno dato il «la» agli altri listini? «Credo - dice Quirighetti - che negli Usa assisteremo ad una ripresa dell'occupazione nel 2010. Questo vuol dire una crescita degli stipendi di circa il 2-3% e un conseguente incremento della domanda aggregata. Una situazione che si rifletterà positivamente anche sui corsi azionari». Molti esperti, però, dubitano che questo futuro "tesoretto" sarà speso o investito: il debito degli americani è già altissimo. «Non penso sia una questione di debito, bensì di qualità di asset e di ritorno sugli investimenti. Non siamo più a fine 2008 con le Borse che crollavano e l'immobiliare in caduta libera. Inoltre, i tassi a zero non permettono buoni rendimenti sul titoli di stato. La propensione al risparmio non aumenterà. In un simile scenario l'S&P500 potrebbe salire del 10-15 per cento. Bisogna, però, sottolineare una cosa». Vale a dire? «Si tratterà di un mercato difficile da gestire, soggetto a varie correzioni. L'attenzione dev'essere massima». «La performance dell'anno - concorda Trivelli - dovrebbe attestarsi al 10% per i mercati sviluppati. Tuttavia i fattori di incertezza e volatilità in questo scenario sono ancora molti ed è appropriato agire con molta prudenza». «Considerata la progressione ininterrotta del trend borsistico dai minimi di marzo 2009 - specifica Uterman -, i titoli azionari non sono più così convenienti. Nel primo semestre dell'anno mi aspetto una correzione. Nondimeno, credo potremo assistere ad un apprezzamento del mercato del 5-10% a fronte di un andamento molto sostenuto degli utili e di tassi costantemente bassi». Più ottimista Trevor Greetham , direttore asset allocation di Fidelity International: «Ritengo - dice l'esperto - che ci troviamo di fronte ad una fase rialzista che durerà alcuni anni. Il rally partito a marzo è stato caratterizzato da un'inversione di tendenza delle azioni confermata dagli indicatori di fiducia delle imprese. Per la prima volta dal 2007 siamo in presenza di condizioni favorevoli per coloro che vogliono investire in azioni, con i mercati emergenti e l'Asia in prima fila» .

Fonte - www.ilsole24ore.it

 

 

 

 

 

USA: I GUAI COMINCERANNO DAL SECONDO TRIMESTRE

07 Gennaio 2010 04:30 NEW YORK - di WSI
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A meta' 2010 l'economia scivolera' nuovamente in una recessione. Quando le misure straordinarie di stimolo fiscale cesseranno di avere effetto, rimmarrano consumatori propensi piu' a risparmiare che a spendere e un sistema bancario malato.
Il peggio e' ormai alle spalle. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole, dette in riferimento allo stato di salute della maggiore economia del mondo, che dagli ultimi dati a disposizione sembra avviata verso una lenta, ma progressiva ripresa. Eppure non tutti la pensano cosi'
Una volta che, a partire dal secondo trimestre, le misure strarodinarie per stimolare le attivita' economiche verranno meno, cosi' come la fase di incremento delle scorte, gli Stati Uniti sono destinati a sprofondare in una nuova recessione. A lanciare l'avvertimento e' l'economista James Shugg, che in un'intervista concessa all'emittente americana CNBC ha detto di essere convinto che "nella seconda parte dell'anno entrera' in gioco una certa, preoccupante discrepanza".
Il senior economist di Westpac Bank sostiene che non appena la fase di incremento delle scorte e le iniziative straordinarie per rilanciare la ripresa economica perderanno vigore non rimarra' altro che una schiera di "consumatori ancora propensi a risparmiare piuttosto che a mettere mano al portafogli, un sistema bancario che non e' ancora guarito, colpito dal fatto che un mutuo su quattro risulti ancora insolvente".
Shugg prevede che il Prodotto Interno Lordo Usa rimanga positivo nel quarto trimestre del 2009 e nel primo trimestre dell'anno successivo, attestandosi tra il 3 e il 4% su base annuale.

 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

La crescita del deficit pubblico è strutturale. Titoli di Stato un po' meno sicuri.

08-01-10 - di Sara Silano
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I fondi obbligazionari governativi area Euro hanno reso il 3,93% nel 2009 e sono stati una delle peggiori categorie. Non si sono comportati in modo molto diverso i comparti a breve termine (+4,01% nel 2009). Gli investitori, però, sono tornati ad investire su questi strumenti ed in particolare quelli con le scadenze più corte. Dopo la grande paura causata dalla crisi finanziaria, la cedola staccata periodicamente dai titoli di Stato appare rassicurante, anche se i rendimenti sono scarni per via dei bassi tassi di interesse. Ma quello che sta succedendo sul mercato del reddito fisso suggerisce che è meglio non dormire sugli allori.
L’area Euro si trova a fronteggiare un peggioramento della qualità del debito sovrano, come ha mostrato il caso della Grecia. Se i Paesi più deboli avvieranno politiche fiscali restrittive la ripresa economica sarà rallentata; al contrario se non lo faranno, le agenzie di rating abbasseranno il giudizio con conseguente allargamento dei differenziali (spread) rispetto al Bund tedesco. Nel primo caso è possibile che i tassi rimangano bassi a lungo, nel secondo aumenterà il rischio per le nazioni con gli squilibri maggiori.
E’ proprio quest’ultimo scenario quello che si sta realizzando, complice anche il no dell’Islanda al rimborso degli investitori inglesi e olandesi. La Gran Bretagna, infatti, ha congelato la tranche di prestito di cui l’isola ha bisogno per uscire dalla crisi e Fitch ha declassato a bond spazzatura il debito del Paese. Anche Standard&Poor’s è pronta a prendere un simile provvedimento.
”L’allargamento degli spread tra i Paesi dell’area Euro è un fenomeno strutturale”, dice Maurizio Novelli, global strategist di Zest asset management. “Ed è destinato ad accentuarsi nel corso del 2010”. D’altra parte, la Bce e la Germania sono state dure con la Grecia, escludendo la possibilità di un salvataggio da parte dell’Ue.

Il problema non è solo di Eurolandia. Come ha scritto Bill Gross (co-fondatore di Pimco), uno dei più grandi investitori in bond al mondo, Stati Uniti, Giappone e Regno Unito sperimenteranno una crescita “strutturale” del deficit nei prossimi anni. Si muoverà controcorrente la Germania, con conseguente aumento degli spread tra il Bund, da un lato; i Treasury (titoli di Stato Usa) e i Gilt (Gran Bretagna), dall’altro. Non a caso, Gross dice: “Investors go to Germany” (gli investitori vanno in Germania).
Inoltre, se i piani di uscita dalla crisi proseguiranno come programmato, i mercati finanziari inglesi e americani potrebbero soffrire per il venire meno dei 2 mila miliardi di dollari di emissioni statali che hanno dato liquidità nel 2009.
Il reddito fisso appare un paradiso sicuro, ma nella realtà non tutti i titoli lo sono allo stesso modo e non bisogna dare nulla per scontato. La cedola è una delle componenti che bisogna considerare in quanto indica la remunerazione del capitale prestato (un’obbligazione è uno strumento di finanziamento per uno Stato o un’azienda). Se è elevata vuol dire che gli investitori esigono un premio maggiore per comprare il titolo, perché è alta la probabilità di non riavere indietro i propri soldi. Il rendimento totale, però, dipende anche dalle variazioni del prezzo di mercato, che può aumentare o diminuire a seconda delle aspettative sui tassi e sull’emittente.
 

Fonte - www.morningstar.it

 

 

Preavviso di burrasca

January 8th, 2010 by editor - di Mario Seminerio
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La Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), in coordinamento con le altre agenzie che compongono il Financial Institutions Examination Council, ha pubblicato ieri un avviso che ricorda che i supervisori si attendono dagli intermediari finanziari l’applicazione di solide pratiche di gestione del rischio di tasso d’interesse. Nell’attuale contesto di tassi d’interesse storicamente bassi, sostiene la FDIC, è importante che le istituzioni finanziarie abbiano robusti processi per misurare e, ove necessario, mitigare la loro esposizione a potenziali aumenti dei tassi d’interesse.
Nell’attuale congiuntura, finanziare attivi a lungo termine con passività a breve (il cui costo è prossimo allo zero) sta aiutando le banche a produrre rilevanti utili, ma pone anche rischi per il capitale e gli utili delle istituzioni coinvolte. Il tema è delicato, visto anche il nervosismo con il quale i mercati tendono ad accogliere dichiarazioni di banchieri centrali che segnalano l’esigenza di rimuovere l’enorme espansione monetaria attuata negli ultimi due anni.

Al succedersi di dati congiunturali favorevoli, il mercato tenderà ad aumentare i rendimenti obbligazionari, scontando non solo la fine del quantitative easing, ma anche l’inizio di un ciclo esplicito di restrizione monetaria. A quel punto, i mercati azionari potranno prendere coscienza che gli utili futuri devono essere scontati a tassi ben più elevati, e di conseguenza potrebbero rettificare al ribasso le quotazioni, anche in modo violento.
Non bisogna dimenticare che l’attuale ripresa è frutto soprattutto del ciclo delle scorte, mentre gli investimenti languono ed i consumi stanno tentando di stabilizzarsi su livelli comunque depressi. Ecco perché è lecito continuare a chiedersi se questa ripresa avrà le gambe.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

  Giovedì 08 Gennaio 2010   Martedì 12 Gennaio 2010   Giovedì 14 Gennaio 2010  
       
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  L'inflazione: una inutile scorciatoia

Giovedì 07 gennaio 2010 MESSINA – di Leon Zingales

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Inflazione elevata e deflazione sono due facce della medesima medaglia e si sono sempre alternate come la notte segue il giorno.
Attualmente sono un sostenitore della tesi deflazionista (o comunque inflazione molto bassa), ma non è impossibile che nel giro di qualche mese (non vedo però nessun particolare segnale rivelatore) possa scatenarsi un’elevata inflazione. Ciò potrebbe accadere qualora l’immensa quantità di liquidità conseguenza del Quantitative Easing venisse utilizzata per inondare l’economia reale, anziché, come fatto finora, neutralizzare gli asset tossici del morente sistema finanziario.
Pur non vedendo alcun preavviso della possibile ondata d’inflazione desidero commentare la frase di Siniscalco (il quale ha ovviamente maggiori informazioni rispetto a me e probabilmente vede i prodromi dei segnali premonitori) riferita nel post precedente: ”l’ondata di inflazione è sempre una soluzione..sottotraccia è la soluzione a cui molti pensano”.

In altre parole Siniscalco afferma (anche se indirettamente) che il rimedio meno drammatico per ridurre il peso dei debiti degli Stati sarebbe un’elevata inflazione. In realtà pensare di ridurre il fardello dei debiti sovrani attraverso un’elevata inflazione è pura follia di economisti neo-classici indottrinati da sommi maestri dogmaticamente legati a teorie continuamente falsificate dall’esperienza.
Ovviamente, considerando il punto di vista di un privato cittadino dipendente che abbia un debito a tasso fisso, l’inflazione riduce il debito considerando che il salario cresce, più o meno (in verità più meno che più), con un tasso comparabile all’inflazione (insomma l’inflazione consente di aumentare la velocità con cui scorre il tempo). Viceversa, la deflazione determina un rallentamento della scala temporale avvantaggiando il creditore ed aumentando il peso del debito.
Ma ciò che funziona per debiti a tasso fisso del privato cittadino non può funzionare per i debiti degli Stati per un duplice motivo: la differente duration dei titoli di Stato e l’enorme mole di debito estero con conseguente dipendenza dal rapporto valutario.
La duration dei titoli emessi in qualche modo è comparabile con un debito a tasso variabile strettamente connesso al valore dell’inflazione: di conseguenza (è una semplificazione di cui mi perdonerete) aumentando l’inflazione aumenta il valore del debito.
L’enorme dipendenza da investitori esteri deve inoltre tenere conto che ogni valuta funge da sistema di riferimento temporale diverso e quindi, onde continuare a garantire l’appetibilità dei titoli, bisogna prestare attenzione ai rapporti di cambio valutario. Di conseguenza, rispetto ai debiti esteri, ogni accelerazione temporale viene vanificata allorché la valuta interna perde repentinamente di valore.
Ecco un apparente paradosso: anche in presenza di un’iperinflazione i debiti sovrani fortemente esposti verso investitori esteri aumentano come se fossimo in deflazione . Tale paradosso è inspiegabile nell’ambito della visione neo-classica, ma è invece comprensibile considerando il confronto tra le diverse scale temporali (legate alle corrispondenti inflazioni) di sistemi di riferimento differenti (Stati) in moto relativo tra di loro (con velocità associata al rapporto di cambio valutario).
In altre parole l’elevata inflazione (o peggio l’iperinflazione), non solo funge da innaturale elemento acceleratore comparabile ad una vera e propria metastasi per i processi economici distruggendo il risparmio, ma paradossalmente non aiuta a diminuire i debiti sovrani spingendoli verso un triste default.

Fonte - www.WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

La settimana, 1/2010

Saturday, 9 January, 2010 at 15:18 - by phastidio
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Settimana caratterizzata dalla pubblicazione, negli Stati Uniti, del dato di dicembre relativo alla occupazione non agricola, che ha mostrato un’inattesa riduzione di 85.000 unità, a fronte di attese per un dato invariato. Il tasso di disoccupazione è risultato pari al 10 per cento, ma solo per effetto della riduzione del numero dei soggetti presenti nella forza lavoro, in conseguenza dell’aumento del numero dei lavoratori scoraggiati, superiore a quello di quanti hanno perso l’impiego. Il report sull’occupazione mostra tuttavia anche qualche elemento di moderata positività, quale l’aumento del numero degli impieghi temporanei, considerati il precursore della ripresa del mercato del lavoro. Di rilievo anche il numero particolarmente elevato di quanti non hanno lavorato per cause meteorologiche, effetto dell’ondata di maltempo abbattutasi sugli Stati Uniti. Anche in Europa, il mercato del lavoro ha mostrato, per il mese di novembre, ha evidenziato un tasso di disoccupazione del 1o per cento, il maggiore da 11 anni.

Prosegue, negli Stati Uniti ed in Europa, la ripresa della manifattura, come confermato dagli indici ISM americano e PMI europeo, che hanno segnato in dicembre il nuovo massimo dei livelli di attività rispettivamente da 42 e 21 mesi. La tendenza alla ripresa manifatturiera appare peraltro comune a tutte le economie sviluppate, come mostrano anche gli indicatori britannico e giapponese di attività.
Prosegue anche il dibattito sulla necessità di implementare misure di ritiro dell’eccezionale stimolo monetario e fiscale applicato sull’economia globale negli ultimi due anni. Anche la Cina si muove in questa direzione: la banca centrale di Pechino ha venduto in settimana titoli di stato a tre mesi con rendimenti in rialzo (sia pure di soli 4 centesimi) per la prima volta in 19 settimane, affermando che nel 2010 porrà enfasi sul controllo dell’eccezionale espansione del credito e dell’inflazione. Anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito si sono levate voci di timore per quello che potrà accadere ai rendimenti obbligazionari quando lo stimolo verrà progressivamente ritirato. Per evidenti motivi, i mercati mostrano di seguire questo tema con particolare attenzione.

Nel mese di novembre, il credito al consumo statunitense è diminuito dell’8,5 per cento su base annualizzata, con un calo in doppia cifra per i crediti revolving, cioè legati alle carte di credito. Continua quindi il processo di riduzione dell’indebitamento del consumatore americano che, in assenza di sviluppo di occupazione e reddito, è destinato a mantenere frenata la crescita dei consumi, che rappresentano circa il 70 per cento del Pil statunitense.
Nel corso della settimana, i mercati azionari hanno messo a segno un ulteriore progresso delle quotazioni, in parallelo con la ripresa dei corsi delle materie prime. La prossima settimana si aprirà la earning season del quarto trimestre, e le attese sono per una verifica della crescita dei fatturati, dopo che la redditività degli ultimi trimestri è stata preservata tagliando in modo feroce i costi, soprattutto del lavoro, ed aumentando quindi il grado di leva operativa delle aziende, cioè la loro profittabilità al crescere dei ricavi. Un dato interessante è quello relativo all’indice Dow Transportation, che tende ad essere anticipatore e conferma della ripresa del più ampio mercato, e che è cresciuto sulla scorta di nuove evidenze aneddotiche di ripresa del traffico ferroviario di merci, e del forte aumento (più 14 per cento) degli utili del quarto trimestre previsti da UPS.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

Bri: «Rischi eccessivi per il sistema bancario»

10 Gennaio 2010 20:58 BASILEA - dall'inviato Alessandro Merli - Il Sole 24 Ore
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BASILEA . Faccia a faccia fra governatori e banchieri privati in un pranzo alla Banca dei regolamenti internazionale, la "banca centrale delle banche centrali", a Basilea.
L'euforia dei mercati finanziari di questi mesi, il ritorno delle banche ad attività di trading ad alto rischio grazie al costo del denaro ai minimi storici, il revival dei superbonus dei banchieri sono i tre temi più delicati che le autorità hanno sollevato con i rappresentanti del settore privato. Fra i governatori c'è il timore che si stiano ricreando le stesse condizioni che hanno portato il sistema finanziario alla crisi globale degli ultimi due anni.
La discussione è stata introdotta dal direttore della stessa Bri, Jaime Caruana, ex governatore della Banca di Spagna, dove ha realizzato uno dei sistemi di regole per le banche più efficaci. La Bri, poi, è una voce che si fa ascoltare: fu l'unica delle grandi istituzioni internazionali a predire l'arrivo della crisi. E oggi ha presentato ai banchieri un rapporto in cui si rileva che i rischi nel sistema stanno tornando «eccessivi».
Al tavolo, sulla sponda delle autorità, c'erano presenza autorevoli, dal presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, a quello della Banca centrale europea, Jean-Ckaude Trichet, al governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, qui nella veste anche di presidente del Fianancial Stability Board, l'organismo creato dal summit del G-20 per riscrivere le nuove regole della finanza in funzione anti-crisi. Proprio l'Fsb ha lanciato sabato una revisione sulla questione dei superbonus, per vedere quali paesi e quali banche stanno applicando principi che eliminino gli incentivi a prendersi rischi troppo elevati. In una situazione in cui lo stato di salute di molte banche è ancora fragile, le autorità vorrebbero poi che con i rpfitti che stanno tornando gli istituti andassero a rafforzare il capitale, non a impinguare le tasche dei loro banchieri di punta.
I grandi banchieri privati (tutti i grandi istituti mondiali erano rappresentati: per l'Italia, Intesa Sanpaolo, con Coarrdo Passera, e Unicredit, con Alessandro Profumo) non hanno solo ascoltato. Hanno dichiarato disponibilità, hanno sostenuto, per bocca dei vertici dell'Institute of International Finance, l'associazione delle grandi banche mondiali, che si stanno già muovendo su diversi fronti per chiudere le falle che hanno portato alla crisi. Ma temono l'arrivo di troppe regole.
Da domani, però, tutti a casa. E si tratterà di passare dalle parole ai fatti.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Bolle globalizzate

January 11th, 2010  - di Mario Seminerio
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Eccellente grafico interattivo dell’Economist sulla rivalutazione dei prezzi immobiliari in giro per il mondo. Scegliete il trimestre di partenza ed i paesi da confrontare, e potrete verificare che la bolla immobiliare è stata pressoché globale, con buona pace del ritornello di una bolla costruita negli Stati Uniti per effetto dei finanziamenti agevolati concessi alle minoranze. Purtroppo questa è una leggenda metropolitana di matrice repubblicana con cui dovremo abituarci a convivere, malgrado robuste evidenze del contrario, e che peraltro non spiega in alcun modo la bolla del Commercial Real Estate. E quindi, quali le cause?

 

  Comparazione indicatori prezzi settore immobiliare  
     
... ...
 

Fonte - The Economist

 


Giorni addietro Ben Bernanke ha spiegato che, a suo avviso, non vi sarebbero correlazioni significative tra il livello dei tassi d’interesse e le bolle immobiliari, mentre più significativo sarebbe il legame con i flussi di capitale, cioè con il deficit delle partite correnti e, in ultima istanza, con la presenza di scostamenti nei livelli di equilibrio nei tassi di cambio. Questo squilibrio macro potrebbe essersi innestato su uno squilibrio micro, a livello cioè di standard di credito immobiliare piuttosto laschi, e di più o meno benevola negligenza (à la Greenspan, per intenderci) nella supervisione degli intermediari creditizi. Altra concausa, sostenuta tra gli altri da Paul Krugman, è quella che ipotizza che le maggiori pressioni sui prezzi si siano sviluppate in aree densamente popolate e altrettanto rigidamente regolamentate nelle autorizzazioni a edificare (Florida e California, nell’esempio di Krugman). La ricerca del colpevole continua.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

 

  Se Tokyo sbaglia Pechino impara

13 Gennaio 2010 14:46 MILANO – di Martin Wolf

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Vent'anni fa, era opinione comune che il Giappone fosse il caso di maggior successo fra i paesi ad alto reddito. Pochi potevano prevedere che cosa si stesse preparando. Oggi è opinione comune che il Giappone sia vittima di un lungo declino. Che cos'è che è andato storto? Che cosa dovrebbe fare il nuovo governo giapponese? Che insegnamenti possiamo trarre dall'esperienza del paese asiatico?

Certo, bisogna contestualizzare. Guardando alla qualità del sistema ferroviario e alla qualità della cucina, ad esempio, un visitatore europeo si renderebbe conto di venire da un paese indiscutibilmente arretrato. Se questo è declino, la maggior parte delle persone ci metterebbe la firma.

Ma che sia declino, non c'è dubbio. Negli ultimi vent'anni, l'economia è cresciuta al ritmo annuo medio dell'1,1 per cento. Secondo lo storico dell'economia Angus Maddison, il Prodotto interno lordo pro capite del Giappone (a parità di potere d'acquisto) tra il 1950 e il 1991 è passato dal 20 all'85% rispetto al livello degli Stati Uniti. Nel 2006 era ridisceso al 72 per cento. In termini reali, il valore dell'indice di borsa Nikkei è un quarto di quello che era due decenni fa. Ma la cosa forse più inquietante è che il debito pubblico complessivo, netto e lordo, è schizzato dal 13% e 68% del Pil nel 1991 a livelli che per il 2010 sono stimati rispettivamente al 115% e 227 per cento.

Che cos'è andato storto? Richard Koo, della Nomura Research, punta il dito sulla deflazione. Secondo Koo, un'economia dove chi è troppo indebitato dedica i propri sforzi a saldare il debito ha le seguenti tre caratteristiche: l'offerta di credito e di liquidità bancaria cessa di crescere, non perché le banche non siano disposte a prestare, ma perché le aziende e le famiglie non vogliono prendere soldi in prestito; la politica monetaria convenzionale è in gran parte inefficace; e il desiderio del settore privato di migliorare la propria situazione patrimoniale fa emergere lo stato come prestatore di ultima istanza.

Il risultato è che tutti gli sforzi di "normalizzare" la politica monetaria e di bilancio falliscono, fino a quando l'aggiustamento patrimoniale del settore privato non è completato. I saldi finanziari settoriali fra risparmi e investimenti (entrate e uscite) nell'economia giapponese sono la dimostrazione di che cosa stava e sta succedendo. Nel 1990, tutti i settori erano vicini all'equilibrio. Poi è arrivata la crisi. L'impatto sul lungo periodo è stato quello di determinare un surplus di larga portata nel settore privato giapponese. Se si considera che i risparmi delle famiglie erano in calo, la spiegazione principale per questo fenomeno è da ricercare nella quota persistentemente alta di risparmio d'impresa lordo in rapporto al Pil e nel calo del saggio degli investimenti, una volta che la crescita roboante dell'economia nipponica si è interrotta. La colossale eccedenza privata è stata assorbita, a sua volta, dai flussi di capitale in uscita e dai deficit di bilancio correnti.

Secondo Koo, chi critica i disavanzi di bilancio è fuori strada. Senza questi disavanzi, il paese sarebbe precipitato in una depressione invece che in un periodo prolungato di domanda debole. L'alternativa sarebbe stata quella di tenere in piedi un surplus con l'estero più importante; ma per fare questo sarebbe stato necessario un cambio più debole: il Giappone avrebbe dovuto seguire le politiche di cambio della Cina, e gli americani certamente non l'avrebbero presa bene. La tesi di Koo però ha un punto debole. Non spiega la ragione iniziale dell'emersione di questo debito colossale, e non spiega nemmeno perché il Giappone si sia rivelato tanto vulnerabile allo shock globale, ora che l'aggiustamento patrimoniale del settore aziendale è stato finalmente, in buona parte, completato.

A mio parere, il problema strutturale di fondo è stato la combinazione fra un eccesso di risparmio d'impresa (utili non distribuiti) e una diminuzione delle opportunità di investimento, una volta che l'economia è arrivata al livello dei paesi più ricchi. Come osserva Andrew Smithers, della londinese Smithers & Co, gli investimenti fissi non residenziali in Giappone erano pari al 20% del Pil nel 1990, quasi il doppio rispetto agli Stati Uniti. Negli anni 2000, dopo un modesto recupero, sono calati al 13 per cento. Ma nessun declino comparabile si è verificato per quel che riguarda gli utili non distribuiti delle imprese. Negli anni 80, il problema di assorbire questi risparmi è stato affrontato con la politica monetaria, che ha spinto il costo del credito a zero e sostenuto investimenti dispendiosi. Negli anni 2000, il problema è stato affrontato con il boom delle esportazioni e degli investimenti, trainato in gran parte dagli scambi con la Cina.

Poi è arrivata la crisi economica globale attualmente in corso, che ha colpito pesantemente le esportazioni e gli investimenti e ha generato una recessione colossale. Con una contrazione del Pil dell'8,6% fra il punto di picco e il punto di massimo calo, il Giappone, fra i paesi del G-7, è quello che ha subito la recessione più pesante. Nel 2009, secondo l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il calo delle esportazioni nette avrebbe determinato da solo una riduzione del Pil dell'1,8 per cento.

Il Giappone ora dovrebbe puntare a una crescita trainata dal mercato interno. L'esigenza più importante è quella di ridurre il risparmio d'impresa. Smithers sostiene che questo avverrà naturalmente, perché i risparmi sono in gran parte consumo di capitale, a sua volta il prodotto di una storia di investimenti in eccesso. Aggiungerei che se c'è un'economia che ha bisogno di un mercato per il controllo delle imprese, per togliere il denaro dalle mani di management sonnacchiosi, questa è quella giapponese. Non essendo vincolato all'establishment imprenditoriale, il nuovo governo, finalmente, dovrebbe adottare politiche mirate a modificare i comportamenti delle grandi aziende.

È anche il momento di mettere un freno alla deflazione. Per raggiungere questo risultato, la Banca del Giappone deve collaborare col governo al fine di evitare un eccessivo rafforzamento del tasso di cambio. La forza recente dello yen avrebbe dovuto determinare politiche monetarie molto più aggressive. Una volta che il Giappone avrà finalmente un'inflazione significativa - il minimo indispensabile è il 2% - il paese avrebbe i tassi di interesse reali negativi di cui ancora ha bisogno.

Nel frattempo, il resto del mondo deve domandarsi se sta facendo tesoro degli insegnamenti che offre il caso giapponese. Il declino economico del paese del Sol Levante segnala con forza che anche un disavanzo di bilancio sostenuto, tassi d'interesse a zero e politiche di espansione quantitativa non conducono a un'impennata dell'inflazione nelle economie del dopo-bolla afflitte da sovracapitalizzazione ed eccedenza patrimoniale, come gli Stati Uniti. E segnala anche che per invertire la rotta ci vorrà molto tempo.

Ma l'esperienza giapponese può offrire un insegnamento anche per un'economia abbastanza diversa. Suggerisce che quando una crescita molto sostenuta comincia a rallentare, in un'economia che si è rimessa in pari con quelle più avanzate, con un risparmio d'impresa molto elevato e investimenti fissi relativamente alti, può rivelarsi estremamente difficile gestire la domanda. Questo è vero in particolare se la promozione deliberata dell'espansione del credito e le bolle dei prezzi delle attività fanno parte del meccanismo usato per sostenere la domanda. E chi è, in questo momento, che deve assolutamente fare tesoro di questo insegnamento fondamentale? La risposta è: la Cina.
 

 

Traduzione - Fabio Galimberti

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Banche americane sotto accusa a Washington

13 Gennaio 2010 15:56 WASHINGTON – Il Sole 24 Ore
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Si è aperta a Washington, in un'atmosfera carica di tensione, la prima riunione della commissione d'inchiesta parlamentare sulla crisi finanziaria. «La crisi è ancora fra noi – ha esordito il presidente della commissione Angelidis - 26 milioni di americani disoccupati, 2 milioni di famiglie hanno perso le case negli ultimi due anni, gli americani vogliono sapere che cosa è successo e come è successo. La gente è arrabbiata e ha il diritto di esserlo...mentre gli americani sono in difficoltà vedono i banchieri elargirsi bonus importanti... e dunque ci aspettiamo trasparenza dai testimoni».
I testimoni convocati mercoledì mattina, alcuni dei più grandi banchieri americani, come Lloyd Blankfein di Goldman, John Mack di Morgan Stanley, Jamie Dimon di J.P. Morgan Chase hanno ascoltato schierati davanti alla commissione, nel palazzo Longworth della Camera. Una riunione storica che avviene nel momento in cui le banche sono nell'occhio del ciclone per essere attribuite fortissimi bonus e per aver usato parole dure in risposta all'idea di Barack Obama di tassare le passività di bilancio. «Se lo farà avremo difficoltà ad erogare credito» ha detto un portavoce dell'associazione delle banche americane.
Per primo ha cominciato a parlare Lloyd Blankfein di Goldman Sachs, ha ricordato che la banca è stata fondata 140 anni orsono e provvede servizi di ogni genere all'industria, al governo e ai privati in un contesto che negli ultimi dieci anni – ha detto Blankfein – «ha generato enorme liquidità che doveva essere impegnata, uno dei settori che sembrava fra i più interessanti era quello immobiliare» ha esordito Blankfein nella sua ricostruzione, prima di rispondere alle domande dei dieci commissari. L'inchiesta durerà fino alla fine dell'anno e questa prima sessione continuerà anche domani, giovedì. «Da questa crisi abbiamo imparato alcune cose: trasparenza e gestione del rischio – ha detto Blankfein – devono essere migliorate; in futuro dovrà essere utilizzato il capitale privato e non quello pubblico per stabilizzare una crisi; pratiche come lo "stress testa" o le richieste di un forte capitale sono dei parametri da seguire», ha detto ancora Blankfein. Ma il banchiere guardava in avanti mentre la commissione dovrà scavare nel passato per individuare le responsabilità anche giuridiche della crisi. Molti, però, dubitano che ci riuscirà.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Obama: «Mega-tassa per le banche più grandi»

14 Gennaio 2010 18:14 WASHINGTON - di ANSA
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WASHINGTON – Barack Obama, deciso e aggressivo contro le banche americane, ha giocato al rilancio contro i maggiori istituti di Wall Street, confermando la sua idea di voler introdurre una nuova tassa e definendo i bonus che i banchieri si stanno per elargire "osceni". La prima notizia sul nuovo progetto di imposizione fiscale riguarda la dimensione degli istituti.
Saranno colpiti solo quelli con dimensioni superiori ai 50 miliardi di dollari di attività patrimoniali, ovvero circa cinquanta istituti di credito, e il fine è ridurre l'esposizione al rischio. E l'imposizione collettiva aggiuntiva non sarà poca cosa: «il mio obiettivo – ha detto Obama – è di recuperare 112 miliardi di dollari nei prossimi 12 anni, questo è il costo che alla fine ha sostenuto il governo con il progetto Tarp. I bonus – ha continuato il Presidente – sono osceni, e il fatto che i banchieri intendano andare avanti con la distribuzione rafforza la mia convinzione che questa tassa sia giusta». Il Presidente ha anche aggiunto che le banche americane dovranno «prendersi le loro responsabilità….vogliamo avere i nsotri soldi indietro e li riavremo fino all'ultimo centesimo, per gli americani».
I banchieri tuttavia stanno organizzando un contrattacco: dicono di aver rimborsato per intero o di essere in procinto di farlo, tutti i prestiti elargiti nell'ambito Tarp, il pacchetto di aiuti approvato l'anno scorso dal Congresso. E sottolineano che il deficit di 112 miliardi di dollari deriva essenzialmente dagli aiuti dati con lo stesso fondo sia al settore auto che a quello assicurativo. Una delle minacce dei banchieri? Quella di poter essere costretti ad diminuire l'erogazione del credito. Se andranno avanti su quella strada però sarà guerra aperta.
 

Fonte - ANSA

 

 

La finanza è sempre più ricca L'industria segna il passo

14 Gennaio 2010 13:29 MILANO - di MiaEconomia
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È raddoppiata negli ultimi 10 anni la quota di ricchezza nazionale che non va alle famiglie e finisce a banche e mondo finanziario, mentre si è ridotta di un terzo la quota andata alle imprese. Lo ha sottolineato il presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, illustrando alcuni grafici su andamento del Pil e benessere delle famiglie.
E nello stesso periodo di tempo (1999-2008), è quasi triplicata la percentuale finita all'estero, una quota composta anche dai profitti delle imprese trasferiti oltreconfine. Tra il 1999 e il 2008, il prodotto interno lordo è cresciuto più del reddito disponibile dei nuclei familiari: con il 1999 considerato come base 100, nel 2008 il Pil è arrivato a quota 111,1, mentre il reddito disponibile lordo delle famiglie solo a 107. Questo gap di ricchezza è finito quindi in cinque canali principali: le società finanziarie, le imprese, le risorse finite all'estero, le famiglie produttrici (o microimprese) e la pubblica amministrazione.
In questi dieci anni, quindi, la quota finita alla finanza è quasi raddoppiata, passando dal 4,6% al 9,4%, mentre quella delle aziende è diminuita di un terzo, scendendo dal 37,8% al 24,4%. La percentuale di risorse andate all'estero (composte da profitti delle imprese, multinazionali, rimesse degli immigrati) è invece quasi triplicata, salendo dal 3,9% all'11,8%. Più stabili, invece - ha concluso Giovannini, intervenendo a un convegno Aspen nella sede dell'Istat - gli andamenti delle quote di ricchezza finite alle amministrazioni pubbliche (dal 44,1% al 42,9%) e alle famiglie produttrici (dal 9,7% all'11,4%).
 

Fonte - MiaEconomia

 

 

 

USA: DEBITO+DEFICIT, EFFETTO "PIETRA AL COLLO"

15 Gennaio 2010 14:38 NEW YORK - di Stefano Bassi
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Non vorrei martellare troppo spesso sui debiti pubblici schizzati alle stelle ma non riesco a trattenermi... Infatti la schiera degli ottimisti (resa foltissima dal rialzo infinito delle borse), potrebbe poi affermare che i "catastrofisti" (così ci chiamano carinamente...), non sapendo più a cosa appigliarsi, si mettono a gufare sul rischio debito degli stati sovrani.

Invece il punto è proprio questo: visto che è stato perpetrato il più colossale Scaricabarile della storia dal debito privato a quello pubblico, anche la maggior parte del rischio è passata in capo agli Stati... i quali avranno pure le spalle più larghe ma fino ad un certo punto.
Dimostrazione di quanto affermo è il fatto che i CDS di numerosi Stati Sovrani (oltre ai soliti "ultimi della classe") sono diventati più onerosi di molti CDS Corporate: viene dunque considerato più probabile che faccia default un'intero Stato piuttosto che per es. una banca-zombie salvata da uno Stato....
Ecco cosa s'intende quando si parla di socializzazione delle perdite (e dei rischi) o di scaricabarile...
Lo spiega molto bene in uno dei suoi ultimi articoli MERCATO LIBERO
In ogni caso gli effetti collaterali dello "scaricabarile" non si fermano solo all'incremento di rischio ma possono avere anche altre gravi implicazioni come l'effetto "pietra al collo".
La Ripresa economica keynesiana, foraggiata dall'incremento stellare del debito pubblico, può iniziare a re-inserire la marcia indietro, trascinata verso il basso proprio dall'eccessivo incremento del debito pubblico stesso.
Lo sostengono autorevoli economisti come Reinhart, Rogoff ed Ambrose-Evans Pritchard che hanno cercato di individuare anche il livello percentuale di rapporto debito/PIL dal quale si può innescare l'effetto "pietra al collo".
Nel caso degli USA, con il superamento del 94% di rapporto debito/PIL potrebbe innescarsi l'effetto "pietra al collo".
Peccato che, secondo l'agenzia di rating Fitch, già il prossimo anno gli States potrebbero superare la fatidica soglia del 94%...
In Italia ne sappiamo qualcosa: infatti possiamo considerarci un leading indicator in questo campo ....
Sono quasi 20 anni che stiamo arrancando a causa del nostro colossale debito pubblico in rapporto al PIL ed il Mondo si sta inesorabilmente "italianizzando a causa della Grande Crisi...
 

Fonte - Lagrandecrisi2009

 

 

 

 

 

  Sabato 16 Gennaio 2010   Giovedì 21 Gennaio 2010   Giovedì 21 Gennaio 2010  
       
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Usa, in Massachusetts vince il repubblicano Brown

20 Gennaio 2010 08:42 NEW YORK - dal corrispondente Mario Platero - Il Sole 24 Ore
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NEW YORK – Con una volata imprevedibile ed entusiasmante per il suo partito, il repubblicano Scott Brown ha vinto ieri notte in Massachusetts il seggio al Senato che fu di Ted Kennedy. "He Did it", "Ce l'ha fatta" ha titolato a tutta pagina il Boston Herald, con un vago senso di incredulità. "Questo seggio non appartiene a una singola persona o a un singolo partito, l'ho detto in campagna elettorale, è un seggio della gente - ha ripetuto Brown parlando a Boston davanti ai suoi sostenitori entusiasti- Andrò a Washington subito, rappresentando il popolo…lo stato indipendente del Massachusetts ha parlato: sarà bene che se ne tenga conto". Se ne terrà conto eccome. Anche perché quella di Brown è stata una vittoria netta in una roccaforte democratica che vanta una maggioranza di tre a uno: questo senatore statale semisconosciuto, che ha segnato nella notte un'altra pagina di storia, ha raccolto il 52% delle preferenze contro il 47% di Martha Coakley, il candidato democratico, il procuratore federale dello stato, appoggiata fino all'ultimo da Barack Obama.

E il Presidente ne esce con le ossa rotte: queste elezioni erano diventate un vero e proprio referendum su di lui e sul primo anniversario del suo insediamento alla Casa Bianca che si festeggia proprio oggi, 20 gennaio. E mai anniversario di insediamento alla Presidenza è stato più amaro. L'impatto, anche sul piano simbolico, è devastante su più fronti.
La riforma sanitaria. C'è intanto per i democratici la perdita della maggioranza blindata di sessanta seggi al Senato. E questo mette in crisi l'agenda politica della Casa Bianca, ma con una conseguenza immediata per il partito, per Obama e per la memoria di Kennedy che ne fu l'ispiratore: il possibile affossamento della riforma sanitaria.
E' vero che c'era un piano B. Portare subito alla Camera il pacchetto già approvato al Senato per poi far firmare il progetto in legge da Obama al più presto. Ma questo stratagemma, pragmatico e legale, è stato bocciato poche ore dopo l'elezione da da un influente senatore democratico, Jim Webb, della Virginia: "E' vitale che restauriamo il rispetto degli americani nel nostro sistema di governo e nei nostri leader. Per questo ritengo che sia corretto e prudente sospendere ogni voto sulla legge di riforma sanitaria prima che il senatore-eletto Brown assuma il suo posto al Senato" ha detto Webb freddando gli strateghi di Obama.

Il baricentro del paese è ancorato al centrodestra. E' chiaro dunque che il baricentro politico del Paese resta saldamente ancorato al centro/centro destra. E' chiaro che la leadership del Congresso, sbilanciata a sinistra ha perso la sintonia con il Paese. Già perché il voto del Massachusetts è diventato come si è detto un voto nazionale. E gli strateghi politici dovranno reimpostare le campagne elettorali per novembre. Cosa farà Obama a questo punto? David Axlerod e i suoi consiglieri più vicini sono già al lavoro. Si rendono conto che a un anno dall'insediamento molte cose non hanno funzionato: il Paese resta afflitto dalla disoccupazione, in politica estera non è stato ancora raggiunto un obiettivo importante, e in politica interna l'intera agenda promessa un anno fa ai piedi del Campidoglio sembra vacillare. La risposta l'ha data lo stesso portavoce del Presidente: ci si rifugerà nel populismo. E comincerà a guardare oltre al prossimo novembre e già alle presidenziali del 2012, per evitare che la memoria della disfatta di ieri nel Massachusetts si trascini fino alla conferma per un secondo mandato.

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Le implicazioni per la politica estera americana del voto in Massachusetts

January 20th, 2010 – di Mauro Gilli

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I risultati delle elezioni in Massachusetts per il seggio di Ted Kennedy hanno portato ad un imprevedibile e largamente inaspettato risultato: la vittoria del candidato repubblicano Scott Brown. Un destino baro per Kennedy. Alfiere della riforma sanitaria per tutta la sua carriera politica, proprio la sua morte, avvenuta alcuni mesi fa, potrebbe aver impedito a questa riforma epocale di venire portata avanti così come i democratici la vorrebbero.
Perdendo in Massachusetts, come tutti i mezzi di informazione stanno ribadendo, i Democratici hanno infatti perso la maggioranza a prova di “filibustering” che li proteggeva dall’opposizione repubblicana al Senato. Non vogliamo però concentrarci su questi dettagli, quanto piuttosto allargare la discussione a quali potrebbero essere le implicazioni di questa elezione per la politica estera americana.

Guns vs Butter?
Crediamo infatti che l’effetto delle elezioni in Massachusetts sia particolarmente importante proprio su questo fronte. Alcuni mesi fa, Charles Krauthammer si impegnò in un lungo attacco alla politica estera di Obama, affermando che “il declino è una scelta”. Quell’articolo era viziato da vizi di sostanza, e salti logici – che su Epistemes avevamo allora illustrato. Uno di questi problemi si trovava nell’accusa fatta da Krauthammer all’amministrazione di sottrarre risorse al settore militare per lanciare il piano di assicurazione sanitaria nazionale. In altre parole, nella scelta “guns vs. butter“, gli Stati Uniti andavano verso il secondo proprio quanto – secondo l’opinionista del Washington Post – avrebbero dovuto optare per il primo. Inoltre, scriveva ancora, questa scelta avrebbe causato un aumento del debito, e quindi un futuro peggioramento del tasso di cambio, così creando eventuali ulteriori ostacoli alla mobilizzazione di risorse per la difesa.
Ciò che Krauthammer aveva scritto è teoricamente corretto. Il problema, però, è che la scelta “guns versus butter” non è un vero e proprio trade-off intra-temporale, ma piuttosto uno inter-temporale, visto che le guerre si finanziano generalmente con il ricorso al debito (si veda questo recente lavoro di Scheve e Staavage e anche quelli più datati, ma non meno importanti di Domke et al. e di Chan). Inoltre, per via del particolare sistema finanziario internazionale, gli Stati Uniti hanno una capacità privilegiata di ricorrere al credito a tassi agevolati (si veda il saggio di Fergusson e anche quello di Steil e Litanì). Dunque, ai problemi che Krauthammer identificava, per quanto esistenti, non può essere attribuita la portata che egli assegna loro.

Ricchezza e Potere Militare
Piuttosto, la riforma sanitaria così come altre eventuali riforme del welfare state negli Stati Uniti avrebbero avuto – a nostro giudizio – un altro, possibilmente più importante effetto. Stiamo parlando di come avrebbe influenzato gli incentivi al lavoro della popolazione americana. Così come all’inizio dell’età moderna (si vedano per esempio i lavori di Gilpin, McNeill, North e Thomas, e Spruyt), per via della globalizzazione dell’economia, e i vincoli che essa impone agli stati (Strange), il fattore determinante in politica internazionale diventa la capacità degli stati di promuovere e mantenere un alto livello di produttività e quindi di crescita economica (Gilpin). In questo modo, infatti, un paese si può garantire le risorse necessarie ad acquistare i “fattori di produzione della guerra”: gli uomini, e le macchine. Per i paesi – come gli Stati Uniti – che hanno abbandonato il servizio militare obbligatorio, è infatti necessario pagare stipendi competitivi e offrire benefits considerevoli per attrarre i giovani nella carriera militare. Analogamente, per poter disporre di armi tecnologicamente sofisticate e avanzate, gli stati hanno bisogno di laute risorse, così da poter sostenere la ricerca tecnologica alla base dei mezzi progettati, il loro acquisto e la loro manutenzione.
Tutte queste “necessità” potrebbero essere messe in forse da una riforma estesa del sistema sanitario nazionale americano e più in generale da un eventuale allargamento (che per ora è stato solo auspicato da alcuni) del welfare state. Se il welfare state americano diventasse più simile a quello europeo, gli incentivi al lavoro verrebbero modificati sensibilmente. Ciò comporterebbe due significativi cambiamenti. In primo luogo, lavorando di meno, gli americani farebbero “avvicinare” (leggi: diminuire) la crescita economica americana ai livelli europei. E così, gli americani perderebbero buona parte della loro capacità di dotarsi del più forte esercito al mondo, avendo meno risorse a disposizione. Analogamente, cambiando gli incentivi interni al mondo del lavoro, molti giovani che oggi entrano nell’esercito, potrebbero avere dei ripensamenti se il beneficio marginale di arruolarsi nell’esercito diminuisse rispetto a quello di eventuali altre opzioni disponibili. (Relativamente a questi temi, si vedano i lavori di Cindy Williams e Curtis Gilroy, in partcolare i seguenti: 1, 2, 3).

Differenze tra America ed Europa
Gli americani lavorano più degli europei. Sono le maggiori ore di lavoro negli Stati Uniti che spiegano la maggiore crescita economica rispetto all’Europa (insieme ad altri fattori quali il maggiore afflusso di capitali esteri, il maggiore e più avanzato livello della ricerca tecnologica e la maggiore crescita della popolazione). Ma come mai gli americani lavorano più che gli europei? Non meno importante: come mai, malgrado le enormi possibilità che l’economia americana offre, tanti giovani americani si arruolano nell’esercito, correndo il rischio di morire in guerra?
Robert Kagan, in un famoso saggio “Power and Weakness” (e nel successivo pamphlet Paradise and Power) cercò di dare delle risposte a queste domande. Uno degli argomenti centrali del libro era che gli Europei, avendo preferito la comodità offerta dai loro sistemi di protezione sociale alla durezza del mondo hobbesiano che contraddistingue le relazioni tra gli stati hanno largamente abbandonato il loro interesse per gli affari internazionali. Secondo Kagan, gli europei erano entrati così nel loro “paradiso Kantiano”, un mondo “post-moderno” di pace e tranquillità. Kagan lasciava poi la risposta finale a queste domande ad una celebre, quanto non specificata affermazione: la differenza tra europei e americani si troverebbe nel fatto che i primi vengono da Venere, mentre i secondi da Marte.
Crediamo che Kagan avesse largamente ragione, anche se non specificò in modo chiaro il meccanismo causale che spiegherebbe la differenza di approccio verso il mondo (gli americani lavorano di più degli europei) e verso la guerra (gli americani sono più favorevoli degli europei). A meno di non voler finire in tesi pseudo etnocentriche, la teoria di Kagan rimane monca – anche se probabilmente corretta. L’anello mancante della teoria di Kagan – a nostro modo di vedere – è dato dagli incentivi che i due diversi sistemi politico-sociale-economico nelle due sponde dell’atlantico forniscono.
Veniamo alla prima domanda che abbiamo posto: come mai gli Americani lavorano più degli Europei? Gli Americani lavorano più degli Europei perché devono farlo, e basta. Gli alti tassi di immigrazione, sia di manodopera non qualificata (messicani e centroamericani, per esempio) che di manodopera altamente qualificata (ingegneri e medici indiani e cinesi, per esempio) rendono la competizione nel mercato del lavoro particolarmente serrata. In altre parole, i rapporti di forza non sono dalla parte dei lavoratori – come dimostra l’assai limitata rilevanza dei sindacati (con l’eccezione di alcuni settori protetti dalla competizione internazionale). In secondo luogo, la limitata presenza di forme di garanzie sociali promuove un approccio verso il mondo del lavoro che possiamo descrivere crudamente come “darwiniano”. Così come poteva essere per i nostri nonni o bisnonni, negli Stati Uniti si deve lavorare sodo, specialmente nei settori più avanzati. Questi due fattori non sono sicuramente esaustivi: ve ne sono altri che spiegano le differenze tra Americani ed Europei, come ad esempio il livello di tassazione, la cultura, etc. In generale, però, questi due non giocano un ruolo secondario.
Veniamo ora alla seconda domanda. Come mai tanti giovani soldati entrano nell’esercito? La domanda non è meno difficile della prima. E anche in questo caso, vi è una molteplicità di fattori che congiuntamente produce questo risultato. E’ inevitabile notare, però, che l’assenza di alcuni particolari tipi di servizi sociali giochi un ruolo importante nell’incentivare alcuni gruppi della popolazione ad entrare nell’esercito. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nell’esercito americano non entrano gli strati più disagiati della popolazione. I requisiti minimi di entrata (IQ prima di tutto) li tengono al di fuori. Non entrano però nemmeno quelli più privilegiati. Prevalentemente, chi si arruola nell’esercito appartiene alla classe media (anche se alla parte povera della classe media). Perché parlare di welfare state allora? Il welfare state è, per metterla in modo molto banale, una redistribuzione di ricchezza all’interno della classe media (si veda questo lavoro che compara il sistema europeo a quello americano. Per quanto metodologicamente non perfetto, fornisce alcuni dati utili e interessanti). Questo è sicuramente vero per i paesi europei. E la portata assai più limitata del sistema di servizi sociali forniti dal governo americano rispetto a quelli europei non è sicuramente irrilevante nella scelta di molti giovani di entrare nell’esercito (si veda questo articolo sul New York Review of Boosk. Sebbene non fornisca conclusioni generalizzabili, in quanto basato su un campione ristretto e selezionato, suggerisce alcune importanti riflessioni. Inoltre, le conclusioni che trae sono in linea con gli studi di Cindy Williams e Curtis Gilroy – il capo della sezione personale al Pentagono. Illustra, per esempio, come le borse di studio per pagare i costosi college americani e l’assicurazione sanitaria siano spesso molto importanti nell’influenzare la scelta di arruolarsi).

Conclusioni
Come si collega tutto ciò all’elezione del Massachusetts? Come abbiamo visto, un cambiamento del sistema di welfare state potrebbe avere ricadute molto importanti per gli Stati Uniti. L’assicurazione sanitaria nazionale (tricare) offerta ai soldati gioca un ruolo molto importante sia nel convincere molti ad entrare nell’esercito (enlistment) che a convincerli a rimanere (reenlistment). Estendere la copertura sanitaria nazionale a tutti i cittadini (ovviamente, non verrebbe estesa a tutti, ma non è qui nostro interesse entrare nei dettagli della riforma proposta), avrebbe importanti implicazioni per gli Stati Uniti, e in particolare per la loro capacità di arruolare e mantenere un numero di soldati sufficientemente alto da poterli impegnare là dove necessario. Non meno importante, secondo alcuni, la riforma del sistema sanitario americano sarebbe solo il preludio per un più vasto ripensamento del welfare state.
Come abbiamo scritto, l’era unipolare sta volgendo al suo termine (qui: 1 e 2). Questo trend è indipendente dalle politiche americane, presenti e passate. La crescita della Cina, dell’India e del Brasile, ma anche della Russia e l’avanzamento del processo di integrazione europea pongono le basi per un mondo multipolare in futuro. Quando ciò avverrà, però, è impossibile da dire. Se la Cina cadesse vittima della sua politica economica, e dei disordini sociali dovessero seguire, il suo cammino verso lo status di superpotenza verrebbe bruscamente interrotto. Simili considerazioni possono essere fatte per tutti gli altri paesi, con forse l’unica eccezione dell’India.
Le scelte interne agli Stati Uniti possono accelerare o ritardare questo trend – ceteris paribus, si intende. In questo articolo abbiamo spiegato quali potrebbero essere gli effetti della riforma sanitaria e di una eventuale (e alquanto improbabile, al momento) riforma del welfare più in generale. E’ per questo motivo che il risultato delle elezioni in Massachusetts è particolarmente importante. Perdendo la maggioranza a prova di filibustering, i Democratici non potranno più get it alone.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

OBAMA DIMEZZATO

21 Gennaio 2010 14:16 MILANO - di Roberto Fontolan
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Come se dovesse dimostrare qualcosa a se stessa, prima ancora che al mondo, come se dovesse strapparsi dal malessere provocato dalle continue cattive notizie (Afghanistan-Irak, disoccupazione, banchieri cattivi), l'America si è letteralmente gettata sul terremoto di Haiti con una generosità che lascia stupefatti.

Chissà, il bisogno di guardare fuori, dopo tanto tempo di introspezione, la necessità di sentirsi ancora utile in una buona indiscutibile causa, e naturalmente quel tradizionale impeto di autentico amore per il debole, sul quale Bush aveva cercato di costruire quella filosofia di capitalismo compassionevole che aveva illuso molti e deluso altrettanti.

Ma da martedì sera un uomo di nome Scott Brown ha riportato a casa l'attenzione degli americani. E' il nuovo senatore dello Stato del Massachussets. E' repubblicano, ha vinto contro i democratici conquistando il seggio che da generazioni era appannaggio dei Kennedy. Un colpo al cuore di Obama e del popolo obamiano, che troppo tardi ha capito quale tempesta stava per arrivare dallo stato piu liberal e progressista della costa est.

Si apre un enorme problema per la riforma sanitaria (che ogni giorno che passa perde qualche pezzo), attesa spasmodicamente dai quasi 50 milioni di americani della classe medio-bassa che ogni giorno pregano di non dover chiamare un medico, ma aborrita da repubblicani e lobbies delle assicurazioni, che spendono due milioni di dollari al giorno per combatterla.

Si apre un enorme problema nel conflitto tra governo e Wall Street, dove hanno velocemente ingoiato le centinaia di miliardi elargiti per salvare banche e mercati senza correggere imeccanismi strutturali. Cancellato per molto tempo il desiderio di mettere sul tavolo il tema dell'immigrazione. I grandi disegni di politica interna di Obama, già traballanti, agonizzeranno. Per il meccanismo dei poteri, infatti, il numero di 60 senatori (quelli che fino a martedì conteggiavano i democratici) era la chiave per il governo del Congresso. Disporne di "soli" 59 fa una grandissima differenza.

Cosi il primo anno di presidenza dell'uomo della speranza si chiude con la sua sonora sconfitta, destinata a diventare catastrofe con le elezioni del midterm di fine 2010, stando a quel che oggi si può vedere. L'arrivo a Washington del nuovo senatore repubblicano del Massachussets contiene un alto valore simbolico e apre un nuovo capitolo della vita politica americana segnato da una sfida mortale per Obama, impensabile un anno fa.
 

Fonte - IlSussidiario.net.

 

 

BUFFETT CONTRO OBAMA

21 Gennaio 2010 17:20 NEW YORK - di WSI
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Warren Buffett non ci sta. L'investitore americano si e' detto fermamente contrario al piano fiscale allo studio dell'amministrazione Obama, che prevede l'imposizione di una tassa speciale alle banche piu' grandi del Paese. Questo perche' alcuni istituti, tra cui Goldman Sachs e Wells Fargo, hanno gia' resituito i soldi ricevuti in prestito da Washington.
"Semplicemente per me non ha senso", ha dichiarato ai microfoni della CNBC il fondatore del fondo Berkshire Hathaway, che ha un investimento sia in Wells Fargo che Goldman Sachs. "Quello che e' stato fatto nell'autunno 2008 e' stato salvare l'economia americana. Non si sono salvate solo le banche".
La settimana scorsa il presidente Obama ha annunciato il lancio di un piano volto a imporre una tassa su almeno 50 banche che ha l'obiettivo di recuperare fino a $117 miliardi di perdite subite dal programma federale di aiuti TARP.
L'imposta speciale si applichera' solo su quegli istituti che possono contare su piu' di $50 miliardi di asset, come Bank of America, JP Morgan Chase e Citigroup, societa' che sono state tra le principali beneficiarie del piano di salvataggio.
Negli ultimi tempi il numero uno della Casa Bianca si e' attirato le critiche del popolo americano, preoccupato che al piano di salvataggio del sistema finanziario potesse essere seguito da una montagna di bonus ai manager di Wall Street, quando il Paese fa ancora fatica a riprendersi dalla recessione piu' grave degli anni '30, afflitto da un tasso di disoccupazione al 10%.
"Una tassa creata con un certo senso di vendetta non puo' certo rappresentare una buona idea" ha concluso Buffett, che nelle elezioni presidenziali del 2008 aveva sostenuto proprio Obama.
 

Fonte - www.WallStreetItalia.com

 

 

 

Usa, Obama punta a colpire eccesso di rischio da parte banche

giovedì, 21 gennaio 2010 - 19:42 WASHINGTON - di ASCA
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Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, reduce da una sconfitta elettorale al Senato, proporrà limiti più stringenti sull'assunzione di rischi da parte delle banche con una mossa che richiama alla mente i vincoli dell'epoca della Grande Depressione.
Obama annuncerà una serie di misure in questa direzione all'interno di una revisione del sistema regolatorio sul mondo della finanza, ha detto un alto funzionario vicino al presidente.
La decisione potrebbe anche aiutare la Casa Bianca a tamponare la rabbia dell'opinione pubblica contro gli eccessi di Wall Street dopo che il Partito Democratico è stato sconfitto dagli elettori in Massachusetts, che hanno scelto il candidato repubblicano per il Senato, Scott Brown.
"La proposta includerà limiti specifici e articolati sul trading in conto proprio e la Casa Bianca lavorerà a stretto contatto con Camera e Senato per realizzarla in questa legislazione", ha detto il funzionario.
Il trading in conto proprio riguarda le società che fanno scommesse sui mercati finanziari con i propri soldi invece che su indicazioni di un cliente. Il governo Usa ha condannato questa pratica per le avventate scommesse fatte sul mercato immobiliare Usa che hanno portato a pesantissime perdite provocando quasi la distruzione del sistema finanziario nel 2008. Per arginare la peggiore recessione dagli anni Trenta, i contribuenti Usa hanno dovuto dare 700 miliardi di dollari per un piano di salvataggio degli istituti finanziari.
Il funzionario non ha fornito dettagli sul piano che richiederà l'approvazione del Congresso, ma i legislatori stanno già lavorando a misure che, in alcuni casi, ricordano la riforma finanziaria attuata dopo la Grande Depressione.
Il senatore democratico Jeff Merkley ha detto a Reuters alcuni giorni fa che ci deve essere una separazione tra le attività a rischio come il trading e la normale concessione di crediti. Una proposta più aggressiva è stata portata avanti il mese scorso dall'ex candidato repubblicano alla presidenza John McCain e dalla senatrice democratica Maria Cantwell. La loro idea verte sulla reintroduzione dei limiti della Glass-Steagall in atto negli anni Trenta che impedivano alle banche di sconfinare nel ramo degli investimenti e delle assicurazioni.
Obama parlerà oggi alle 17,40 italiane dopo un incontro con Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve e ora suo consulente.
Intanto, in un'intervista a ABC News, il presidente Usa ha detto che l'inattesa sconfitta del candidato democratico in Massachusetts riflette la rabbia delle persone contro il salvataggio dei banchieri e contro un tasso di disoccupazione a doppia cifra.
Obama ha già annunciato un piano per tassare le banche fino a 117 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni per recuperare i fondi versati dai contribuenti con le misure anticrisi concesse dal suo predecessore, l'ex presidente George W. Bush.

 

Fonte - ASCA

 

 

 

 

 

  Venerdì 22 Gennaio 2010   Venerdì 22 Gennaio 2010   Venerdì 22 Gennaio 2010  
       
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  Sul fronte interno cattive notizie

Venerdì 22 gennaio 2010 MESSINA – di Leon Zingales

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Ben Bernanke è finora riuscito a muoversi con una delicatezza da chirurgo.
Al fine di far continuare la coesistenza tra sistema monetario e sistema finanziario, dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, ha periodicamente svalutato e poi rivalutato con rara maestria la moneta americana. Tutto ciò evitare la ricopertura delle operazioni di carry-trade aperte (onde evitare il rapido crollo dei mercati azionari) e nel contempo evitare il crollo dei TBills americani (in buona parte acquistati dalla FED medesima)
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Ma, mentre la clessidra segna l’avanzare del tempo, l’equilibrio diviene sempre più precario. La stabilizzazione dei mercati (per quanto temporanea e fasulla) è avvenuta a spese dell’economia reale. Si è evitato il crollo estraendo energia dal sistema reale facendo si che essa piombasse in deflazione e inglobasse gli enormi debiti del sistema finanziario.
Sul fronte interno i sussurri di protesta stanno diventando urla. Recentemente Ron Paul, storico interprete di una forte sensibilità presente nella parte profonda dell’America, ha detto:” …Of course, it could all be a bad dream, a nightmare, and that I'm seriously mistaken, overreacting, and that my worries are unfounded. I hope so. But just in case, we ought to prepare ourselves for revolutionary changes in the not-too-distant future” ..in altre parole, il vento della protesta, prima brezza che non infastidiva, si sta trasformando in uragano.
Proprio due giorni fa una sconfitta incredibile ha rovinato l’anniversario dell’insediamento di Obama alla presidenza. Un tradizionale feudo del partito Democratico, in seguito alle elezioni suppletive del Massachussets in cui si assegnava il seggio del Senato rimasto vacante dopo la morte di Ted Kennedy, è crollato facendo perdere la maggioranza qualificata (importante per aggirare l’ostruzionismo dei Repubblicani) di 60 senatori ad Obama.
Notizie funeste giungono non solo dalla California ma anche da molti Stati ove il deficit cresce im modo esponenziale.

 

  Budget gaps Stati Federali USA anno 2010   Budget Stato Illinois  
         
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Fonte - Congressional Budget Office

 

Fonte - Congressional Budget Office

 



In questi ultimi giorni fa notizia l’Illinois che ha raggiunto un gap tra spese ed incassi del 47% e si avvicina pericolosamente al default.

Si presti attenzione al rapido evolversi di tali notizie il cui impatto, in un tempo non lungo, rischia di essere devastante.
Finora Bernanke ha potuto guidare senza grosse proteste entrambi i mercati: quello finanziario e quello valutario. I sistemi hanno reagito con poca inerzia alle sue linee direttrici in virtù della compattezza dello schieramento che sosteneva le decisioni della FED.
La crisi interna impone ad Obama scelte diverse; il Presidente USA non può più indugiare oltre, pena un ulteriore appannamento del suo carisma, in una politica prona agli interessi di Wall Street ed insensibile alle istanze di Main Street. Già ieri si è esposto dichiarando esplicitamente che ha intenzione di fissare nuovi limiti alle dimensioni delle passività e alle pratiche di trading delle grandi banche.
Gli eventi precipitano: si rischia di aprire pericolose brecce e sarà sempre più difficile che i mercati si pieghino dolcemente ai desideri di Bernanke. Per quanto bravo, il chirurgo non può far nulla se chi è intorno lo spinge con veemenza. Le batterie short stanno già iniziando a caricare i cannoni ed i pirati delle valute stanno alzando le vele.
 

Fonte - BlogSpot/Il Cigno Nero

 

 

 

 

  Occidente al tramonto? Presto per dirlo

22 Gennaio 2010 09:30 MILANO - di Riccardo Sorrentino

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Sembra un destino ineludibile, il tramonto dell'Occidente. Una volta proiettato nel futuro, il grande slittamento del potere economico mondiale - particolarmente evidente ora, nella prime fasi della ripresa - suggerisce che si chiuderà presto una parentesi durata ben poco: trecento anni, forse duecento, di grande illusione. L'Oriente - lo rivelano le statistiche dello storico dell'economia Angus Maddison - ha conservato un primato economico dai primi anni della nostra era, quando l'impero romano era nel suo pieno vigore, fino al 1700 e oltre e ora potrebbe semplicemente riguadagnare il posto perduto. Soprattutto la Cina: ancora nel 1900 era seconda al mondo - ma solo per prodotto interno lordo, non certo per benessere - dopo gli Stati Uniti e ora nulla sembra poterla fermare. Se si pensa alla quantità di lavoro disponibile e degli investimenti ancora realizzabili, la gara sembra senza storia: nel 2016 Pechino potrà superare Tokyo, nel 2023 i quattro maggiori paesi europei, e nel 2041 la Cina sarà la prima economia del mondo, l'India terza, e l'Italia, la piccola Italia che oggi ha meno di 60 milioni di abitanti, chissà dove sarà finita...
Andrà davvero così? I dubbi sono tanti. Fare previsioni è un esercizio pericoloso, soprattutto quando si proiettano nel futuro le tendenze attuali. Se poi si parla di sviluppo economico le cose si complicano ancor di più. Anche perché spesso si confonde tra aumento del Pil, ricchezza di una nazione, benessere e capacità di sviluppo. Mortale è poi la metafora della gara: se in alcune situazioni belliche e politiche può valere la logica "se io vinco, tu perdi", in economia le cose sono maledettamente più complicate, sia in termini di benessere che in termini di potere economico. Le cifre non dicono tutto.

La storia recente ci insegna anche a non fidarsi troppo delle proiezioni. Nel 1979 il Giappone era il "Number One" designato, come prevedeva un libro di grande successo di Ezra Vogel, professore alla Harvard Business School. Da anni, invece, il paese è in preda a una strana forma di sclerosi, che resiste a ogni stimolo di politica economica. All'inizio degli anni Novanta era invece l'Europa, almeno secondo Lester Thurow del Mit, a essere già "testa a testa" (Head to Head, era il titolo del suo lavoro) con gli Stati Uniti. Nessuna delle due previsioni si è avverata fino in fondo, gli States hanno ripreso a correre - con un po' di doping, ma anche tantissima innovazione - e hanno conservato molti primati.
Dopo Giappone ed Europa, oggi si scommette sulla Cina. O meglio sul Bric: e quindi anche sul Brasile, che sta trascinando dietro di sé un po' tutta l'America Latina sempre più sganciata dal traino degli Stati Uniti; sull'India, che ha punte di eccellenza in grado di competere con i paesi ricchi; sulla Russia, che in realtà sembra già una promessa mancata e potrebbe essere presto "sostituita" dall'Indonesia.

Ce la faranno davvero? Il Giappone e, in parte, l'Europa mostrano cosa accade quando si esaurisce la spinta dell'imprenditorialità imitativa, che adotta tecniche e prodotti introdotti da altri (magari sotto la guida dello stato come è avvenuto per anni soprattutto a Tokyo ma anche a Parigi, a Bonn, a Roma e persino a Londra): quando si cerca di adottare sistematicamente un'imprenditorialità innovativa gli ostacoli diventano enormi. Potrebbe presto incontrarli anche la Cina, per esempio di fronte alla sfida di tener insieme le mille forze centrifughe del suo impero; o l'India e il Brasile che devono liberarsi - forse attraversando una fase di centralizzazione in stile Pechino o Singapore - di un capitalismo ancora oligarchico, d'élite, chiuso e geloso anche nella selezione dei talenti. Senza contare quanto possa essere complicato debellare, in questi paesi, la corruzione o la criminalità organizzata che usano risorse per la redistribuzione predatoria della ricchezza e non per la sua produzione.
Fare dell'innovazione un processo che si autoalimenta non è semplice, e coinvolge - è la lezione di William Baumol, Robert Litan e Carl Shramm in Good Capitalism, Bad Capitalism - una pluralità di fattori, non tutti misurabili. Alcuni di essi, come un ordinamento giuridico formale e la libera ricerca scientifica, sono successi occidentali che richiedono tempo perché si consolidino anche altrove e molti sforzi per conservarli.

Con tanti candidati e tante incertezze l'esito più probabile sarà in ogni caso un mondo multipolare - ma non per questo più stabile - anche dal punto di vista economico. Un pianeta nel quale persino l'Italia potrà continuare ad avere il suo ruolo: quando era terza al mondo, nel 1500, non ha mai superato una quota del 5% del Pil globale, ma la sua forza trainante andava ben oltre, malgrado una struttura politica molto debole. Essere sorpassati non significa infatti cessare di crescere, o perdere benessere o leadership. Forse tra trent'anni alcuni paesi emergenti riusciranno a generare ogni anno valore aggiunto quanto le attuali economie ricche ma, se queste riusciranno a rispondere alla sfida, il tramonto dell'Occidente potrebbe restare quello che è sempre stato: un dotto gioco di parole.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Obama cerca il rilancio con un piano di sostegno alla "middle class" e sgravi fiscali per le famiglie

25 Gennaio 2010 21:47 MILANO - di MiaEconomia
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Il presidente statunitense Barack Obama concentra i suoi sforzi sulla classe media: nel suo primo discorso sullo Stato dell'Unione, previsto per mercoledì 27, Obama proporrà una serie di iniziative per aiutare economicamente la "middle class", misure anticipate dallo stesso Obama e dal vice presidente Joe Biden. Il pacchetto contiene, tra le altre cose, sgravi fiscali per le famiglie per l'assistenza ai bambini (alzando il limite della deducibilità dal 20 al 35% per le famiglie con reddito entro gli 85mila dollari all'anno), con un aumento dei fondi federali sempre a favore dell'infanzia di 1,6 miliardi di dollari, che andrà a beneficio di altri 235 mila bambini.
Saranno fissati anche dei nuovi limiti sui debiti degli studenti (le rate non potranno superare il 10% del reddito degli studenti) e saranno richieste ai datori di lavoro maggiori garanzie sui piani di pensionamento dei dipendenti. Obama annuncerà inoltre un aumento dei fondi per le famiglie con a carico degli anziani, per un totale di 102,5 milioni di dollari per programmi con sussidi per il trasporto e aiuti per le attività domestiche.
«La classe media attraversa enormi difficoltà da troppo tempo - ha detto il presidente americano parlando dalla Casa Bianca - Purtroppo nessuna di queste misure garantirà la soluzione completa dei problemi della middle class, ma almeno ristabiliranno alcune delle sicurezze che sono venute meno negli ultimi anni».

Le proposte sono il risultato del lavoro di una speciale task force, guidata dal vice presidente Biden, creata per sostenere le famiglie della classe media colpite dalla crisi economica. La Casa Bianca ha spiegato che le misure sono indirizzate a quella fascia di americani, definita "sandwich generation", che contemporaneamente si deve occupare dell'educazione dei propri figli e dell'assistenza dei propri genitori anziani.

Oltre alle misure a favore della "middle class", Obama focalizzerà il suo discorso sullo Stato dell'Unione sulla riduzione del deficit e sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Parlerà anche del suo tentativo di porre nuove regole al sistema finanziario americano. E del suo programma di investimenti in energie rinnovabili. «Abbiamo creato due milioni di posti di lavoro - ha detto oggi il presidente - ma ne abbiamo persi sette come conseguenza della recessione, è un'epidemia che richiede da parte nostra una risposta forte e continua». In generale, quindi, sarà un intervento concentrato sull'economia.
Per Obama, spiegano fonti all'interno della Casa Bianca, il discorso di mercoledì, davanti al Congresso in seduta plenaria, sarà l'occasione per ricalibrare il tono del suo messaggio e renderlo più in sintonia con l'opinione pubblica americana. Secondo i sondaggi, il consenso su Obama è in calo, principalmente a causa dell'alto tasso di disoccupazione e della crescita economica ancora lenta. Inoltre la riforma sanitaria, uno dei pilastri dell'agenda politica del presidente, è sempre meno popolare. E ha subito una disastrosa battuta d'arresto con la sconfitta della settimana scorsa in Massachussetts, in cui il repubblicano Scott Brown è riuscito a strappare un seggio al Senato mantenuto dai democratici per quasi 50 anni.

 

Fonte - MiaEconomia

 

 

Cina, i temi del 2010

January 26, 2010 - di Epistemes.org
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Nella giornata di martedì 12 gennaio la Cina ha aumentato l’importo che le banche devono accantonare a riserva, in un segno evidente che la banca centrale sta cercando di stringere le condizioni monetarie, tra crescenti preoccupazioni di surriscaldamento economico ed l’inflazione causate del boom di credito.
Sempre martedì 12 la banca centrale cinese ha anche aumentato lievemente i tassi di interesse nel mercato interbancario per la seconda volta in meno di una settimana, nel tentativo di frenare l’ascesa del credito. La decisione, piuttosto inattesa, ha causato un brusco ribasso delle quotazioni azionarie, suscitando timori soprattutto sui titoli bancari ed immobiliari, quelli più esposti ad una stretta creditizia.
Gli economisti ritengono che gli annunci di martedì siano stati un avvertimento contro l’aggressiva espansione creditizia praticata dalle banche commerciali. Gli obblighi di riserva sono stati aumentati di 0,5 punti percentuali, al 16 per cento, mentre il tasso sui titoli a un anno è aumentato dello 0,08 per cento e quello a tre mesi dello 0,04 per cento. La mossa sottolinea il compito sempre più delicato della banca centrale cinese, che deve gestire le conseguenze della forte crescita del credito, passato dai 4200 miliardi di yuan nel 2008 agli oltre 9000 miliardi dello scorso anno.

Non è tuttavia chiaro se la posizione della banca centrale sia sostenuta dalla maggioranza dei vertici del Partito Comunista cinese, ove alcuni alti dirigenti sembrano favorevoli a mantenere una politica monetaria espansiva per garantire una crescita elevata. Secondo alcuni osservatori le recenti mosse potrebbero quindi riflettere una spaccatura tra la People’s Bank of China, che si concentra sul controllo dell’inflazione, e altri organismi di governo, che spingono per la prosecuzione di una politica creditizia aggressiva.
La banca centrale sta affrontando una serie di preoccupanti segnali di pressioni inflazionistiche, compresa una rapida espansione della massa monetaria M1, in aumento del 34,6 per cento nel dicembre rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. I prezzi delle case sono aumentati rapidamente in molte città e l’afflusso di capitali sembra essere molto sostenuto, sulle aspettative che la valuta cinese riprenderà una percorso di rivalutazione nel corso di quest’anno. Secondo due economisti dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, il paese potrebbe crescere quest’anno di ben il 16 per cento, in assenza del ritiro di parte dello stimolo, causando un notevole surriscaldamento dell’economia.

Il dato di bilancia commerciale cinese di dicembre, pubblicato giorni addietro, ha evidenziato una crescita delle esportazioni del 17,7 per cento su base annuale, mentre le importazioni sono schizzate del 55,9 per cento. Prosegue quindi la robusta crescita della domanda domestica, segno dell’orientamento delle autorità cinesi a modificare il modello di sviluppo del paese, finora centrato sulle esportazioni.
Ma le frizioni commerciali tra Cina e resto del mondo non sono destinate a placarsi. Il 30 dicembre scorso la International Trade Commission statunitense ha approvato nuove tariffe sulle importazioni di tubi d’acciaio cinesi, considerati sussidiati in violazione delle norme del commercio internazionale. Il 22 dicembre i governi dell’Unione europea hanno deciso di estendere per altri 15 mesi i dazi anti-dumping sulle scarpe cinesi.
La Cina sta attivamente stimolando la crescita dell’area Asia Pacifico, oltre che aver finora contribuito alla correzione degli squilibri globali grazie allo stimolo alla domanda interna (che guida la crescita dell’import), come testimoniato dalla costante riduzione del suo surplus delle partite correnti, ma al contempo è riuscita a sottrarre quote di mercato nell’export globale agli altri paesi, anche e soprattutto durante la “gelata” del commercio mondiale. Da qui le crescenti richieste di rivalutazione dello yuan, che rischiano di sfociare in guerra commerciale conclamata.
Per la Cina sarà quindi un altro anno di opportunità e rischi, nella sua ascesa al rango di potenza economica mondiale.
 

Fonte - Epistemes.org

 

 

 

 

 

 

  La Casa Bianca e i dilemmi di un paese a rischio declino

January 25th, 2010 – di Libertiamo

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All’indomani della storica sconfitta Democratica in Massachusetts (ma dallo staff della Casa Bianca giurano che non c’è legame), Barack Obama ha annunciato di voler fare la faccia feroce contro le banche, bloccandone il gigantismo e tentando addirittura di ridimensionarle. L’annuncio, come nello stile obamiano, è stato particolarmente eclatante sul piano della retorica e degli effetti speciali, ma il rischio è che si fermi a quelli. Tentiamo di analizzarne i motivi, sul piano tecnico e politico. Come vedremo, i due piani risulteranno inestricabilmente connessi.
Sul piano delle tecnicalità, l’annuncio della Casa Bianca prevede che le banche non potranno più possedere, investire o sponsorizzare hedge funds, fondi di private equity od operazioni di trading proprietario, non legate al servizio della clientela. Si tratta, nella sostanza di una riproposizione dalla porta di servizio del Glass-Steagall Act, che impediva alle banche commerciali di svolgere attività di investment banking. Abrogato nel 1999, il Glass-Steagall Act ha di fatto portato in America la figura della banca universale. La soluzione di Obama, o meglio di Paul Volcker, non appare convincente perché è del tutto evidente che la crisi non si è originata da nessuna di queste attività.
Le banche “normali” e le cosiddette shadow bank (come Bear Stearns, Lehman ed in generale i broker-dealer alla Goldman Sachs e Morgan Stanley) hanno preso dei mutui, li hanno impacchettati sotto forma di obbligazioni, ne hanno fatto delle tranches, ciascuna con diversa capacità di assorbimento delle perdite, e li hanno venduti ai clienti, trattenendo per sé spesso la parte più rischiosa (la cosiddetta equity tranche). Da questa sommaria descrizione emerge che il sistema finanziario americano lavorava soprattutto sul “conto terzi”, non sulla proprietà, quindi la misura di Obama e Volcker non sarebbe centrata, e non risolverebbe il problema del Too Big To Fail, cioè del rischio sistemico, quello capace di originarsi dalle banche e di abbattere un paese intero. Il problema è che il rischio sistemico è figlio del moral hazard, cioè della certezza che i creditori delle banche hanno, circa il fatto che la banca verrà comunque salvata con denaro pubblico. Fin quando non verrà stabilito che ogni creditore diverso dai depositanti (coperti dal fondo federale di assicurazione) potrà in qualche misura subire le conseguenze del dissesto di una banca, il rischio sistemico del sistema finanziario, americano e globale, resterà in essere. Il piano Obama-Volcker potrebbe essere comunque utile per ridefinire i limiti di antitrust, già oggi esistenti e che stabiliscono che nessuna banca americana può possedere più del 10 per cento dei depositi. Tali limiti sono stati violati, con assenso federale, in tre casi, data l’eccezionalità della situazione.

 

  USA - Proiezione Budget di spesa Federale  
     
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Fonte - Congressional Budget Office

 

 

E veniamo all’aspetto politico-simbolico dell’iniziativa. Obama, nel comunicato di annuncio, ha enfatizzato il nome di Paul Volcker, lasciando in ombra lo staff del suo inner circle economico (Timothy Geithner e Larry Summers). Questa pare una vindication del vecchio Volcker, a lungo lasciato in disparte, anche se dalla Casa Bianca spergiurano che l’ex capo della Fed (l’uomo che sradicò l’inflazione a inizio anni Ottanta), stava da tempo lavorando al progetto. Obama ha un particolare fiuto per gli umori popolari, sa che nel paese monta la frustrazione per una crisi che negli ultimi due anni ha distrutto sette milioni di posti di lavoro, mentre i bonus bancari decollavano. Non è casuale che, tra le unintended consequencies della storica sconfitta in Massachusetts, sia affiorata la crescente difficoltà del Senato a riconfermare Ben Bernanke alla guida della Fed. Due senatori Democratici, nell’anno per loro elettorale, dopo aver annusato l’aria, hanno deciso di opporsi alla riconferma dell’uomo che, a torto o a ragione, è visto come troppo vicino alle banche, oltre che aver completamente sottovalutato la portata della crisi, all’atto del suo formarsi. E’ piuttosto sintomatica di questa esigenza di contenere la rabbia contro le banche, pertanto, la frase utilizzata da Obama per presentare il piano:“If these folks want a fight, it’s a fight I’m ready to have.”

Sembra una frase che si sarebbe potuta usare per la lotta al terrorismo, all’indomani dell’attacco alle Twin Towers, invece è riferita alle banche americane. Segno dei tempi. Presentando questa iniziativa, che a nostro giudizio non ha alcuna possibilità di passare nella versione attuale, Obama ha però rilanciato la palla nella metà campo dei Repubblicani, i quali finora hanno avuto buon gioco a denunciare l’esplosione di deficit e debito, frutto del crollo delle entrate fiscali e della spesa per ammortizzatori automatici in regime di proroga, e non dello stimolo vero e proprio. Per il GOP potrebbe essere difficile dirigersi verso le elezioni di midterm dicendo no ad una proposta che vuole “dare una lezione alle banche”.
Il problema è tuttavia capire se Obama vuole riformare qualcosa del suo paese oppure se vuole solo dare lezioni di tattica ad un partito, quello Repubblicano, che è a brandelli ideologici e brancola nel buio più assoluto di idee e della conservazione di uno status quo che semplicemente non è difendibile. Si prenda il caso della sanità. I Repubblicani si oppongono duramente alla riforma di Obama, ma senza proporre misure alternative. Addirittura, il piano Obama viene contestato proprio negli aspetti di maggiore conservatorismo fiscale, il controllo dell’espansione della spesa tramite il programma pubblico Medicare. E’ bizzarro vedere molti Repubblicani partecipare ai Tea parties gridando “giù le mani dal Medicare”, che è la forma socializzata per antonomasia della sanità. Eppure basterebbe vedere le proiezioni del Congressional Budget Office, che è un’agenzia nonpartisan la cui funzione è quella di produrre analisi “obiettive” a supporto delle decisioni economiche e di bilancio, per rendersi conto che un sistema che già oggi assorbe il 15 per cento del Pil (il doppio della media europea), anche a causa del sistema di assicurazione legato al datore di lavoro, e che rischia di produrre un numero esponenziale di uninsured per motivi economici, che finirebbero col gravare sul contribuente, è semplicemente insostenibile (vedi grafico qui sotto).
Il problema americano, oggi, non è certo il presunto socialismo di Obama, che è peraltro inesistente, bensì la condizione di declino relativo in cui il paese rischia di trovarsi, in un quadro globale che diventa sempre più multipolare, con o senza il permesso di Washington. Per questo motivo la retorica (di entrambi gli schieramenti) lascia il tempo che trova, e viene sistematicamente aggredita dalla realtà.

Fonte - Libertiamo

 

 

 

  Venerdì 22 Gennaio 2010   Domenica 24 Gennaio 2010   Sabato 30 Gennaio 2010  
       
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  Economia mondiale, la locomotiva è CinIndia

29 Gennaio 2010 16:12 ROMA – di Federico Rampini

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Un decennio è "un tempo infinito" per fare previsioni, dice l'economista Kenneth Rogoff rispondendo al sondaggio organizzato da Repubblica tra gli esperti riuniti al World Economic Forum. Non sembrano dello stesso parere i dirigenti di Pechino e New Delhi. Per i ritmi di aumento degli investimenti nella ricerca scientifica, la Cina e l'India hanno superato di slancio gli Stati Uniti.

Intanto Barack Obama, alle prese con una destra populista che cavalca la rivolta anti-tasse e anti-Stato, è costretto a tagliare i fondi all'istruzione. La California, un tempo la punta avanzata dell'innovazione, riduce le borse di studio e l'offerta di corsi universitari. Se è vero che "il decennio si prepara adesso", come ci ha detto il commissario europeo Joaquin Almunia, l'Occidente è partito sul piede sbagliato. E' indicativo il fatto che quest'anno a Davos i "malati" sotto osservazione sono Spagna, Grecia, Lettonia: tutti paesi dell'Unione europea, due dei quali sono membri anche dell'Eurozona. Lontani sembrano i tempi in cui la bancarotta di uno Stato sovrano poteva minacciare solo paesi emergenti, era un virus endemico in America latina o nel sudest asiatico.

Questo decennio si apre all'insegna di una crisi fiscale spaventosa che attanaglia gli Stati Uniti, l'Unione europea, il Giappone. L'Occidente è condannato a impiegare i prossimi anni a smaltire debiti pubblici colossali, accumulati per la verità solo in parte a causa della recessione del 2008-2009. A Oriente invece si trovano oggi i giacimenti di risparmio, disponibili per finanziare gli investimenti produttivi e l'accesso alla conoscenza.

Se siamo arrivati in queste condizioni, così sfavorevoli per noi, la ragione non va cercata solo nella sfera dell'economia. Il declino dei paesi di antica industrializzazione chiama in causa i sistemi politici. Il Welfare State europeo, che poteva diventare un modello d'esportazione per curare le tensioni sociali nei paesi emergenti, ha perso credibilità perché si è rivelato incapace di dedicare risorse alle giovani generazioni.

In quanto agli Stati Uniti, un autorevole esponente del partito democratico, Barney Frank (presidente della commissione Finanze alla Camera) ha descritto lucidamente a Davos i risultati della lunga egemonia culturale della destra: "Prima hanno rovinato lo Stato depauperandolo di risorse. Ora dicono che non si possono alzare le tasse perché i soldi dei cittadini andrebbero agli stessi burocrati inefficienti che furono responsabili del disastro-Katrina, o che furono incapaci di regolare i derivati e la finanza tossica".

Decenni di abbandono degli investimenti pubblici hanno portato alla decadenza tutte le infrastrutture vitali dell'America, proprio mentre la Cina spingeva l'acceleratore sulla loro modernizzazione. Nel cuore della liberaldemocrazia americana si sono incrostate oligarchie potenti. I veti della lobby assicurativa contro la riforma sanitaria; la guerra di trincea che Wall Street si ostina a combattere contro le nuove regole sulle banche; la sentenza della Corte suprema che toglie ogni limite alle campagne politiche finanziate dal Big Business. Tutto ciò mette a repentaglio quella vitalità del sistema democratico che avrebbe dovuto dare all'Occidente una flessibilità superiore rispetto al grande rivale che è il modello autoritario cinese. Se un regime illiberale dovesse rivelarsi più adatto dei nostri a investire sul futuro, imprimerebbe un segno terribilmente regressivo agli anni Dieci del terzo millennio.

Una globalizzazione governata dal G2 America-Cina si preannuncia gravida di tensioni: alla vigilia di Davos la sfida sulla "sovranità nel cyber-spazio" messa a nudo dal caso Google è un segnale premonitore. La relazione privilegiata sino-americana oscillerà costantemente fra l'inevitabilità di compromessi sugli interessi e l'incompatibilità sui valori.

Lo scenario del prossimo decennio deve includere altre variabili. La demografia darà una marcia in più all'India: tra natalità e progresso economico, il ceto medio della più grande democrazia mondiale sarà decuplicato entro il 2030. Ma anche gli Stati Uniti su questo fronte sono favoriti: con un tasso di fertilità superiore del 50% a Russia Germania e Giappone, e grazie all'immigrazione, ci saranno ben 100 milioni di americani in più nel 2050. La concentrazione delle popolazioni più vaste in Asia esigerà da quelle potenze soluzioni innovative al problema delle risorse alimentari e della scarsità di acqua: una catastrofe ambientale potrebbe far deragliare le loro traiettorie di successo. Un fattore determinante del progresso sociale nei paesi emergenti sarà l'accesso delle donne all'istruzione. La qualità della governance risulterà decisiva sotto ogni latitudine. Insieme con il miglioramento nel tenore di vita e nelle conoscenze, diventerà più visibile e sempre meno tollerabile la tassa occulta della corruzione.

Se questo Davos 2010 è attendibile nei suoi segnali premonitori, a fine decennio per tenere un summit circondato da altrettanta attenzione bisognerà farlo a Shanghai.

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

DA DAVOS L'OMBRA DI UNA NUOVA RECESSIONE

29 Gennaio 2010 04:21 NEW YORK - di WSI
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I gotha dell'economia e della finanza riuniti a Davos sono tutti d'accordo: la crisi non e' ancora finita. Indebitamento e deficit di bilancio i maggiori nemici. Si salvano le economie emergenti. Inutili le regole per le banche.
Chi sperava di poter mettere definitivamente la parola fine alla piu’ grossa crisi dopo quella del ’29 deve ricredersi: il ritmo della ripresa potrebbe subire una battuta d’arresto entro la fine dell’anno in corso. Sono tutti concordi i gotha dell’economia e della finanza riuniti al forum annuale di Davos, in Svizzera, dalle cui riflessioni emergono chiare indicazioni per i prossimi mesi.
Se e’ vero che l’economia in generale si sta riprendendo, e’ altrettanto vero che non e’ ancora tempo per considerarsi fuori pericolo. Cosi’ riporta il Wall Street Journal.
Il nodo cruciale e’ il pesante indebitamento con cui governi e possessori di case in Stati Uniti ed Europa dovranno fare i conti ancora per un bel po’. Le speranze di una crescita globale vanno mitigate, ma non per quanto riguarda paesi come Cina e India destinate invece a fare meglio.
A riproporre l’ombra della recessione ci ha pensato l’economista Nouriel Roubini, che tre anni fa, proprio da Davos, aveva anticipato quello che poi e’ accaduto su tutti i mercati. Il professore della New York University e’ stranamente ottimista sulle prospettive positive delle economie emergenti. Ma intravede comunque rischi in una possibile bolla nel Sol Levante, nell’invecchiamento della popolazione in Russia e negli ostacoli di tipo politico in Brasile e India.
Quanto alla regolamentazione finanziaria, Roubini e’ tra coloro che si interrogano sulle stringenti misure che dovrebbero portare alla separazione tra banche commerciali e banche di investimento.
Il finanziere George Soros e' sicuro che la riforma degli istituti finanziari sia prematura e insufficiente. "In linea generale appoggio il piano Obama, ma il timing e’ sbagliato. E’ troppo presto. Le banche non sono ancora fuori pericolo".
Altri avvertono: regole stringenti potrebbero minare la ripresa in generale. "L’incertezza economica da cui stiamo tentando di uscire potrebbe esser seguita da un incertezza di tipo politico", ha sostenuto il professore all’universita’ di Chicago Raghuram Rajan. Un esempio per tutti: il mix disoccupazione Usa al 10% e crescita cinese potrebbe spingere gli Stai Uniti verso misure populiste e protezioniste", ha detto.
Stessa opinione anche da parte del co-fondatore del fondo di private equity Carlyle David Rubenstein. E’ un illusione credere che stringenti regole possano impedire future crisi finanziarie. Gli Stati Uniti devono migliorare "le tre d: debito, deficit e dollaro", ha concluso.
 

 

 

 

USA SCOSSI DA UN'ONDATA DI PIGNORAMENTI NEL 2009

29 Gennaio 2010 16:30 NEW YORK - di WSI
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L'emorraggia della crisi immobiliare non da' segni di resa e colpisce in particolare le citta' degli Stati del Sud. Tassi piu' alti della media anche a Portland, Utah, Seattle e Minneapolis. Ma negli ultimi tre mesi le notifiche sono calate.
Alle citta' degli stati meridionali, i cosiddetti "Sand States", va il triste primato di guidare i posti piu' alti della classifica dei pignoramenti nel 2009. Le 20 aree urbane piu' colpite sono tutte situate in Nevada, Florida, California e Arizona.
Las Vegas e' la citta' che e' stata piu' colpita dal numero di notifiche di pignoramento, con il 12% delle famiglie che ne ha ricevuta almeno una in un anno. Secondo le cifre pubblicate da RealtyTrac, l'operatore online di case pignorate, si tratta di una cifra di ben cinque volte superiore alla media nazionale.
Al secondo posto si e' piazzata Cape Coral, in Florida, con un tasso dell'11.9%, terza Merced, in California, che ha registrato una percentuale del 10.1%.
La buona notizia e' che tutte e 20 le citta' che occupano i primi posti della speciale graduatoria hanno visto calare le notifiche di pignoramento negli ultimi tre mesi.
Quella cattiva e' che la piaga dei pignoramenti si sta espandendo a macchia d'olio oltre i livelli critici, stando a quanto riferito dall'AD di RealtyTrack, James Saccacio. Su scala nazionale l'anno scorso i pignoramenti sono cresciuti del 21.2%.
"Aree come Provo, Utah, Fayetteville, Arkansans, Portland, Oregon, Rockford e Illinois hanno tutte registrato nel 2009 tassi di pignoramento sopra la media statunitense e negli ultimi dodici mesi mercati come Honolulu, Minneapolis e Seattle hanno riscontrato un incremento dei casi di pignoramento di oltre due volte superiore al tasso nazionale".
L'ondata di pignoramenti che ha scosso gli Stati "continentali" sembra legata a fattori che solitamente influiscono direttamente sul benessere delle famiglie, come la perdita di posti di lavoro, mentre nei Sand States e' piu' che altro dovuta allo scoppio di una bolla immobilare.
In citta' quali Las Vegas, Phoenix, Miami e Bakersfield, in California, il rialzo dei prezzi delle case a meta' del decennio 2000 ha portato i costruttori di case a tentare misure disperate, come l'utilizzo di mutui a tasso variabile ibridi, i famigerati contratti a opzione "ARM".
Si tratta di mutui dove si ha diritto all’opzione, ovvero una clausola, che permette al mutuatario di pagare un interesse molto basso per i primi anni di vita del mutuo. Successivamente l’interesse viene ricalcolato con dei parametri molto peggiorativi. Da qui l'acronimo ARM, che sta per Adjustable-Rate Mortgages.
Fino a che i prezzi hanno continuato a crescere e' stato possibile pagare questi prodotti. Una volta che la corsa dei prezzi si e' fermata, per i debitori sono iniziati i problemi e sempre piu' mutui hanno incominciato a risultare insolventi.

 

 

 

RUSSIA-CINA VOLEVANO FAR SALTARE FREDDIE E FANNIE

29 Gennaio 2010 20:00 NEW YORK - di WSI
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Lo scrive nero su bianco l'ex segretario al tesoro Paulson nel suo nuovo libro "On the Brink". Il Cremlino voleva che il Celeste impero si sbarazzasse dei bond delle due agenzie governative. I fatti risalgono al 2008.
Uno schema "dirompente" doveva essere messo in atto tra Russia e Cina. Obiettivo: mandare all’aria Freddie Mac e Fannie Mae, le due agenzie governative che erogano la maggior parte dei mutui americani. A riferirlo l’ex segretario al Tesoro Henry Paulson nel suo libro "On the Brink", in vendita dal prossimo primo febbraio.
Secondo quanto appreso dallo stesso Paulson durante le celebrazioni delle ultime Olimpiadi di Pechino, il Cremlino avrebbe fatto pressioni sul Celeste Impero affinche’ nel 2008 si sbarazzasse a piene mani delle obbligazioni facenti capo alle due "GSE" (Government Sponsored Enterprises, come le ha definite tecnicamente il predecessore di Geithner) con l’intento di spingere gli Stati Uniti a mettere mano al portafoglio per salvarle, riccorrendo alle autorita’ competenti.
"Pesanti vendite avrebbero potuto creare un’improvvisa perdita di fiducia in queste due agenzie e creare uno shock nel mercato", ha scritto Paulson. "Ho aspettato di tornare negli States ed essere in un ambiente sicuro per poter informare (l’allora, ndr) presidente George W. Bush".
Non sono mancate le immediate reazioni alla notizia: "La Russia non ha mai suggerito alla Cina simili strategie", ha replicato il portavoce di Putin Dmiry Peskov secondo quanto riportato dall'agenzia Bloomberg News.
Il Cremlino nel 2008 ha venduto tutte le sue obbligazioni legate a Freddie e Fannie. All’inizio di quell’anno ne possedeva per un valore di $65.6 miliardi. Il 6 settembre dello stesso anno le due agenzie governative sono sate salvate nel bel mezzo del peggior scivolone del mercato immobiliare dai tempi della Grande Depressione.
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

La settimana, 4/2010

Friday, 29 January, 2010 at 15:59 - di phastidio
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Settimana caratterizzata dalla prosecuzione del movimento di correzione sui principali mercati azionari. Timori ed incertezze restano concentrati sulla stretta creditizia in atto in Cina e sull’annuncio del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di intervenire su dimensioni e ambito di attività delle istituzioni creditizie, concetti ribaditi in occasione del discorso sullo Stato dell’Unione, il 27 gennaio. Un elemento che ha contribuito a ridurre l’incertezza è stato, per contro, il voto del Senato statunitense sulla riconferma di Ben Bernanke alla guida della Fed per un altro quadriennio, con 70 voti favorevoli contro 30, giovedì 28 gennaio.
In precedenza, la riunione del Federal Open Market Committee si era espressa per il mantenimento, “per un esteso periodo”, della politica di tassi prossimi a zero, confermando altresì la propria intenzione di concludere entro marzo il programma di acquisti di cartolarizzazioni ipotecarie (fissato in 1250 miliardi di dollari). Nel meeting si è registrato il dissenso di Thomas Hoenig, presidente della Fed di Kansas City, che ha chiesto una più rapida uscita dallo stimolo monetario.

La prima stima del Pil statunitense del quarto trimestre 2009 ha evidenziato una crescita annualizzata del 5,7 per cento, migliore di oltre un punto percentuale rispetto alle stime. Il marcato rallentamento nella velocità di liquidazione delle scorte ha contribuito al dato per ben il 3,4 per cento. Nullo il contributo della spesa pubblica, positivo per mezzo punto quello del commercio estero netto, mentre i consumi personali contribuiscono per poco più dell’1,4 per cento, contro il 2 per cento del terzo trimestre.
La Grecia continua ad essere sotto pressione, con i mercati che non credono al piano di rientro dal deficit presentato dal governo di Atene. Malgrado l’accoglienza favorevole tributata ad un titolo di stato quinquennale collocato a metà settimana, nella giornata di giovedì 28 il rischio di credito sovrano greco ha toccato nuovi massimi, sia a livello di credit default swaps che di rendimenti nominali sui titoli di stato, mentre si moltiplicano voci incontrollate di un intervento di salvataggio dell’Unione europea, che eviterebbe ad Atene di rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale. Le maggiori resistenze e dubbi vengono dal governo tedesco, consapevole che un bailout incondizionato sarebbe politicamente inaccettabile, ma che abbandonare la Grecia al proprio destino rischierebbe un pericoloso effetto-domino sui nomi deboli dell’Area Euro, oltre a colpire in modo piuttosto duro il sistema bancario tedesco, che appare particolarmente esposto verso il paese ellenico.

In settimana, il Regno Unito ha pubblicato un dato di crescita positivo del Pil per il quarto trimestre 2009, ma solo per lo 0,1 per cento, inferiore alla stima di consenso (posta a più 0,4 per cento). La sostanziale assenza di ripresa congiunturale, nell’attuale contesto di finanza pubblica, ha indotto l’agenzia di rating Standard&Poor’s ad emettere un report di ricerca, nel quale afferma di non considerare più quello britannico come un sistema bancario tra i più stabili e sicuri del mondo.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 
 

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