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INDICE ARTICOLI

 

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Geo politica

Ma che fa l'America con l'Iran?

Tassi & Borse

Borse sul patibolo delle Banche Centrali

Sentiment Borse

Azionario: ma il peggio è davvero passato ?

Sentiment Borse

Azionario: no problem, non cadremo in depressione

Macro Cina

Cina: crescita nonostante Washington

Altri Mercati

Estate di incognite per i bond

 

+++   L'iran non fermerà l'arricchimento dell'uranio   +++   Raid aereo ucciso Al Zarqawi   +++   Al Qaida conferma morte Al Zarqawi   +++   Bin Laden: nuove minacce agli USA   +++

Lunedì  5  giugno  2006   Venerdì  9  giugno  2006   Giovedì  30  giugno  2006
   
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  Ma che fa l'America con l'Iran?

4 Giugno 2006 13:00 Milano
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Qual è il piano americano sulla minaccia nucleare iraniana? La prima cosa da capire è se effettivamente un piano ci sia, oppure se a Washington vada in scena il solito balletto tra falchi e colombe, con i primi pronti ad agitare il bastone e i secondi a offrire la carota.
Si tratterebbe, in questo caso, di una non politica, di un modo di far trascorrere tempo senza riuscire a mettere in pratica una vera, lineare e riconoscibile strategia per fermare i turbanti atomici. C’è chi sostiene che il metodo di Condoleezza Rice sia proprio questo, quello di mediare tra le varie posizioni all’interno dell’Amministrazione, oltre che tra gli alleati.

Le ultime mosse di Washington sull’Iran appaiono aperturiste rispetto ai precedenti toni più decisi e ai primi tentativi di provocare un cambio di regime finanziando le opposizioni, i sindacati e la propaganda anti mullah. L’ultima proposta è di giovedì sera, quando i cinque paesi del Consiglio di sicurezza più la Germania (sempre assente l’Italia, sia che a governare ci sia la destra sia che ci sia la sinistra) hanno offerto a Teheran un pacchetto di incentivi in cambio della rinuncia ad arricchire l’uranio.
Non importa se gli iraniani abbiano già declinato l’offerta, né se la proposta contenga già l’adesione russa e cinese a una serie di sanzioni in caso di rifiuto. Ciò che importa è capire se stiamo assistendo alla fine della dottrina Bush – secondo la quale con i dittatori non si deve trattare mai – oppure se Washington stia provando a replicare con l’Iran la politica del “tavolo a sei” già adottata con la Corea del Nord, cioè investire direttamente le grandi potenze mondiali della responsabilità di affrontare la minaccia iraniana.

Ma c’è un’altra ipotesi. Questa: la Casa Bianca sa che Teheran rifiuterà qualsiasi richiesta di fermare la corsa al nucleare, sicché per convincere gli alleati a prendere misure drastiche deve dimostrare di aver cercato in tutti i modi una soluzione negoziale con i mullah. L’unica ipotesi al momento in campo è quella delle sanzioni economiche, che avrebbero forti ripercussioni sui paesi europei sia per l’aumento del prezzo del petrolio sia perché a differenza degli Stati Uniti continuano ad avere saldi rapporti commerciali con l’Iran.

Un anno e mezzo fa era successa la stessa cosa. Washington aveva improvvisamente dato il suo benestare alle trattative della troika europea con Teheran. In questo modo pensava che gli europei si sarebbero convinti della volontà iraniana di non fermare l’arricchimento dell’uranio. In parte Bush c’è riuscito, ma più grazie alle follie di Ahmadinejad che a causa di una reale presa di coscienza degli alleati. Quest’ultimo tentativo è rischioso perché concede ulteriore tempo agli ayatollah e non è detto che, una volta rifiutata l’offerta, gli alleati saranno convinti delle chiare, palesi ed evidenti intenzioni iraniane.

Fonte - Il Foglio

 

 

 

 

Iran: non fermeremo l'arricchimento

Venerdì 2 Giugno 2006, 14:39

Teheran, 2 giu . 14,39 - (Adnkronos) - Teheran non cede alle pressioni della comunita' internazionale. ''L'Iran e' determinato ad andare avanti con il suo lavoro di arricchimento dell'uranio a scopi pacifici - ha detto il vice capo dell'Organizzazione per l'energia atomica iraniana, Mohammad Saeedi, citato dall'agenzia di stampa Isna - La nazione iraniana non ci rinuncera'''.
 

Fonte ADNKronos  - 2 giugno 2006

 

 

Iran: Rice, Iran non ha molto tempo per rispondere

Venerdì 2 Giugno 2006, 14:50

Vienna, 2 giu . 14,50 - (Adnkronos) - E' arrivato ''il momento della verita''' per l'Iran, che non ha molto tempo per rispondere all'offerta dei '5+1' per un pacchetto di incentivi economici in cambio della sospensione delle attivita' di arricchimento e riprocessamento dell'uranio. A rilanciare l'avvertimento a Teheran perche' colga l'ultima occasione di risolvere la crisi sul suo programma nucleare, prima che la parola passi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e' stato il segretario di Stato Condoleezza Rice, parlando alla televisione Nbc: ''(La risposta) deve veramente arrivare entro settimane''.


Fonte ADNKronos  - 2 giugno 2006

 

 

TERRORISMO: GLI AMERICANI HANNO UCCISO

8 Giugno 2006 9:27 WASHINGTON (ANSA)
Un attacco aereo Usa su una casa di Baghdad ha ucciso il capo di al Qaida in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, secondo la televisione Usa Abc. Anche la televisione irachena Iraqia, citando il premier Nuri al-Maliki, ha detto che Abu Musab al-Zarqawi e' stato ucciso.
'Abbiamo eliminato Zarqawi', ha detto il primo ministro iracheno Nuri al Maliki alla conferenza stampa a Baghdad. L'operazione e' il risultato della collaborazione dei cittadini, ha detto il primo ministro iracheno, ringraziando la popolazione e le forze armate. Il comandante supremo americano in Iraq, il generale George Casey, ha detto in conferenza stampa che Abu Musab al-Zarqawi e' stato identificato con le impronte digitali. Lieve riduzione delle perdite negli indici guida dei listini in Europa sulle prime notizie circa l'uccisione di Al Zarqawi, il numero uno di Al Qaida in Iraq ma poi i listini tornano in pesante ribasso. Ecco l'andamento delle principali Borse europee: Londra -1,84%; Parigi -2,36%; Francoforte -2,07; Milano -1,55%; Madrid -1,77%; Amsterdam -2,03%; Stoccolma -2,57%; Zurigo -1,84%.

 

Fonte ANSA - 08 giugno 2006


 

 

 

Al Qaida conferma morte di Zarqawi

Martedì 08 Giugno


 Tv Egitto, gruppo terroristico promette ancora sangue
(ANSA)-IL CAIRO, 8 GIU- La rete terroristica di al Qaida ha confermato la morte di Zarqawi.Lo annuncia la Tv di stato egiziana, citando il sito Internet al Hisbah. Nel comunicato in cui conferma la morte del suo numero uno in Iraq Al Qaida promette che 'continuera' a combattere''. Nel raid aereo che ha colpito il nascondiglio di Zarqawi a Baquba, a nord di Baghdad, e' rimasto ucciso anche 'uno dei suoi principali luogotenenti, il consigliere spirituale Sheikh Abd-Al-Rahman', ha riferito il generale Usa Casey.
 


Fonte ANSA  - 08 giugno 2006

 

 

Petrolio in calo su morte Zarqawi
 

Martedì 08 Giugno

(ANSA) - ROMA, 8 GIU - Petrolio in calo, con le quotazioni scese sotto i 70 dollari, dopo la notizia dell'uccisione del leader di al Qaida Abu Musab al Zaeqawi. Il greggio con consegna a luglio viene trattato sul mercato di New York a 69,54 dollari al barile, in calo di 1,28 dollari (-1,8%). In ribasso anche il Brent, il petrolio di riferimento europeo, scambiato a 68,47 dollari al barile, 72 centesimi in meno rispetto alle quotazioni precedenti.
 

Fonte ANSA  - 08 giugno 2006

 

 

 

Iran: negoziati senza minacce


Martedì 08 Giugno


(ANSA) -TEHERAN, 8 GIU- L'Iran 'non negoziera' mai' sul tipo di tecnologia nucleare che intende utilizzare. Lo ha detto il presidente iraniano, Ahmadinejad.In un discorso trasmesso dalla tv, Ahmadinejad ha detto di voler negoziare 'sulle preoccupazioni reciproche per chiarire le incomprensioni in ambito internazionale, ma noi non negozieremo mai sul tipo di tecnologia nucleare che vogliamo utilizzare'. Il leader iraniano ha aggiunto che qualsiasi negoziato deve svolgersi in una atmosfera distesa, senza minacce.
 

Fonte ANSA  - 08 giugno 2006

 

 

Al Qaeda in Iraq minaccia attentati su larga scala

Domenica  11  Giugno 11:34

DUBAI (Reuters) - Al Qaeda in Iraq ha minacciato oggi di condurre attentati su larga scala che "scuoteranno il nemico" dopo l'uccisione del suo leader Abu Musab al-Zarqawi, ma non ha nominato un successore.
Il gruppo, in un comunicato diffuso su Internet, ha detto che i suoi vertici hanno tenuto un incontro dopo la morte di Zarqawi mercoledì scorso, per discutere la strategia e rinnovare l'impegno verso il leader di al Qaeda Osama bin Laden.
"Abbiamo in programma operazioni su larga scala che scuoteranno il nemico e gli toglieranno il sonno, in coordinamento con altre fazioni del Consiglio dei Mujahideen", dice il comunicato pubblicato su un sito Web usato spesso da militanti islamici.
"Rinnoviamo l'alleanza con il leader di al Qaeda, Osama bin Laden, che Dio lo protegga, e se Dio vuole, egli sarà soddisfatto delle azioni dei suoi soldati in Iraq," si legge nel comunicato, la cui autenticità non è stata verificata.
Bin Laden aveva scelto Zarqawi come proprio vice in Iraq.
Il militante giordano è stato ucciso dopo che aerei Usa hanno bombardato il suo rifugio in un villaggio a nord di Baghdad.
Dopo la sua morte, al Qaeda ha promesso di continuare a combattere l'occupazione Usa e il governo iracheno in un comunicato firmato dal vice di Zarqawi, Abu Abdulrahman al-Iraqi.
A gennaio, al Qaeda in Iraq e altri gruppi militanti hanno creato un unico organismo -- il Consiglio dei Mujahideen -- per coordinare le loro operazioni.
 


Fonte REUTERS  - 11 giugno 2006

 

 

 

 

 

 

Nei rapporti con Mosca, Europa e USA hanno interessi diversi

25 Giugno 2006 19:41 ROMA - di Sergio Romano 
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Nelle scorse settimane i russi hanno letto il discorso con cui il Vicepresidente americano Richard Cheney ha duramente attaccato il loro Paese e hanno appreso, qualche giorno dopo, che gli Stati Uniti intendono installare in Europa una base di missili antimissili, simili a quelli che hanno già collocato nelle estreme provincie settentrionali del continente americano. Ma ciò che li ha maggiormente colpiti sono due circostanze, a cui i commentatori occidentali hanno prestato generalmente scarsa attenzione.
Il discorso è stato pronunciato a Vilnius, capitale della Lituania, un tempo Repubblica federata dell’Unione Sovietica. E i missili, secondo notizie di stampa, sarebbero installati in Polonia, un Paese che ha fatto parte per più di cinquant’anni del blocco sovietico e che la Russia ha spesso trattato con un combinazione di paura, diffidenza e arroganza. Se un discorso antirusso viene pronunciato a Vilnius e una base antimissilistica è installata in Polonia, i due avvenimenti, visti da Mosca e Pietroburgo, assumono i caratteri della provocazione.
È probabile che durante le settimane successive le quotazioni di Putin, nel giudizio dei suoi connazionali, siano considerevolmente salite. Ed è possibile che queste considerazioni abbiano agli occhi degli americani una modesta importanza. Ma credo che i Paesi dell’Unione Europea, invece, abbiano interesse a chiedersi se le molte critiche mosse alla Russia negli ultimi anni (dalle rivoluzioni di Tbilisi e Kiev alla stretta energetica dello scorso inverno) non siano il risultato di una singolare ignoranza.
Abbiamo legittimamente criticato il Governo russo per il suo stile autoritario, per il suo spregiudicato uso della magistratura contro i dissidenti e gli oligarchi, per certi aspetti della sua politica energetica. Ma non abbiamo fatto il benché minimo sforzo per cercare di comprendere se dietro questi aspetti della politica russa non vi siano esigenze e obiettivi di cui è utile essere consapevoli.
Quando succedette a Boris Eltsin, Putin ereditò uno Stato corrotto, governato per procura da un drappello di oligarchi che si erano appropriati delle risorse nazionali, insidiato dalla criminalità, dalle spinte secessioniste di alcune Repubbliche periferiche e da baroni che governavano le Province come altrettanti feudi. Non sappiamo quale fondamento abbiano le tesi di Boris Berezhovskij secondo cui negli attentati ceceni del 1999 vi sarebbe lo zampino dei Servizi di sicurezza russi, interessati a giustificare in tal modo l’inizio di una nuova guerra. Ma sappiamo che la Cecenia era divenuta una sorta di Somalia caucasica, corteggiata dai talebani dell’Afghanistan e utilizzata, per i loro traffici, da circuiti affaristici e criminali.

I principali obiettivi di Putin, da allora, sono la rifondazione dello Stato russo e la modernizzazione della sua economia. Li persegue con mezzi alquanto discutibili, ed è giusto quindi deplorare il trattamento inflitto a Khordokovskij, il migliore degli uomini d’affari che hanno creato la loro personale fortuna dopo il collasso dello Stato sovietico. Ma è bene ricordare che gli oligarchi avevano comprato le aziende statali con il risparmio dei loro concittadini, pagato interessi irrisori, restituito, grazie all’inflazione galoppante di quegli anni, una piccola parte del denaro ricevuto, usato la loro colossale ricchezza per comprare banche e mezzi d’informazione con cui intendevano influire sul Governo e consolidare il loro potere.
Il modo con cui Putin li ha espropriati dei loro beni ha suscitato critiche politiche ed economiche, soprattutto fra coloro che credono nelle virtù dell’economia liberale e del libero mercato. Ma è davvero possibile che il leader di un Paese semisviluppato possa privarsi della sola risorsa che gli consente di costruire infrastrutture, rinnovare l’apparato industriale, mitigare con la creazione di un nuovo Welfare le miserabili condizioni di vita di una parte della popolazione russa?

Se la Francia non intende rinunciare al controllo della società Suez e gli spagnoli difendono la loro industria elettrica contro le ambizioni tedesche, dovrebbe Putin disinteressarsi della principale risorsa nazionale? Non credo che il leader russo voglia ricattare i suoi clienti. Ma la Russia non intende limitarsi a recitare la parte del lattaio, che deposita il suo latte ogni mattina di fronte all’uscio del cliente. Vuole entrare come protagonista nel mercato dell’energia e partecipare in veste di azionista alle società che assicurano la distribuzione del gas in Europa.
Vorremmo, ripeto, che Putin agisse con altri mezzi e criteri. Ma non tocca a noi governare 17 milioni di chilometri quadrati o affrontare i problemi demografici di un Paese che perde ogni anno 700 mila abitanti. E non tocca a noi tenere insieme una società multinazionale, circondata da piccoli vicini, spesso politicamente instabili, dove Washington, in nome della democrazia, è presente con basi, istruttori militari e finanziamenti a organizzazioni non governative, che hanno avuto una parte considerevole in alcune elezioni degli scorsi anni.

L’amore della democrazia non ha impedito al Vice¬presidente Cheney, dopo il discorso di Vilnius, di visitare il Kazachistan, un Paese dove il Presidente è eletto ormai da parecchi anni con il 90 per cento dei voti. E non ha impedito al Presidente Bush di ricevere alla Casa Bianca il Presidente dell’Azerbaigian, figlio ed erede di un esponente della vecchia nomenklatura sovietica che fu per molti anni l’uomo del Kgb a Bakù.
Un’osservazione conclusiva. L’Unione Europea ha interessi alquanto diversi da quelli degli Stati Uniti. Dal rapporto con Mosca dipendono la nostra sicurezza, le nostre forniture energetiche, il nostro sviluppo economico, una più efficace lotta contro il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione clandestina. Ma abbiamo mandato a Mosca, sinora, messaggi contraddittori. Nel dicembre del 2004, all’epoca della rivoluzione arancione, abbiamo permesso che la politica estera europea fosse delegata alla Polonia. E più recentemente abbiamo dato la sensazione di accettare senza battere ciglio che gli Stati Uniti si servissero del territorio di un membro dell’Unione Europea (ancora la Polonia) per una iniziativa militare, che i russi considerano, con qualche ragione, ostile. Mentre la Russia di Putin toglie agli oligarchi il controllo delle maggiori risorse del Paese, Bruxelles dovrebbe togliere ai nuovi membri dell’Unione il diritto di fare politica estera con gli americani dietro le sue spalle.

Fonte - Affari Esteri
 

 

 

 

  Venerdì  2  giugno  2006   Martedì  6  giugno  2006   Giovedì  8  giugno  2006
     
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GR1 RAI - 01 GIU ore 22:00

   

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GR1 RAI - 06 GIU ore 22:00

   

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GR1 RAI - 08 GIU ore 23:00

   

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   Borse sul patibolo delle Banche Centrali

11 Giugno 2006 20:30 Milano - di Giuseppe Turani
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Da uno due anni a chi si domandava come mai i mercati azionari continuassero a salire malgrado una situazione macroeconomica non certo incoraggiante veniva risposto: c´è un´enorme liquidità da investire, i tassi più di tanto non saliranno, per cui è in atto uno spostamento dai bond alle azioni che durerà. E molto. Questa sensazione è stato il maggior propellente dei trentasei mesi di crescita ininterrotta della maggior parte dei mercati azionari in tutto il mondo. Da qualche giorno però, improvvisamente, i mercati hanno fatto un violento dietro front e, solo per citare un dato, hanno mediamente perso in quindici giorni quello che guadagnavano da cinque mesi. O anche più. E allora la liquidità dove è finita? Come mai tutto l´entusiasmo della crescita, tutta la voglia di nuove matricole si sono infranti in un crollo che va dal 15 al 25% in poche sedute? E questo è vero dal Giappone a Wall street, incluse Cina e India con i loro miracoli economici.

Cosa è successo realmente? Forse questa sensazione di enorme liquidità disponibile era un po´ drogata dall´immaginazione di tanti operatori che, senza far nulla, vedevano i loro portafogli gonfiarsi giorno dopo giorno, oppure sarà vero che con la progressiva migrazione degli investimenti verso i mitici hedge fund, verso i prodotti derivati, strutturati, quelli a capitale (teoricamente) garantito, la liquidità che si vedeva sui mercati era un multiplo di quella vera? Come tutti sanno infatti tutti quei prodotti - oggi di gran moda - consentono di prendere rischi molto più elevati di quanto non si abbia in tasca. Tra l´altro pare che siano stati proprio gli hedge funds ad aumentare la violenza dei ribassi di questi giorni dovendosi ricoprire dagli acquisti fatti e che portavano forti perdite.
Infatti molti hedge fund stanno perdendo molti soldi e tutti coloro che negli ultimi anni avevano deciso di seguire questa nuova moda sono con le pive nel sacco. Contemporaneamente, le immense liquidità disponibili del petrolio, dei russi, degli arabi, dei cinesi e degli indiani hanno subito durissimi colpi. E anche la massaia di Voghera è più povera di un mese fa. Infatti la fuga dai fondi di investimento - specie quelli italiani, oltre 11 miliardi di euro in cinque mesi - è impressionante. Come se non bastasse, anche le performance delle obbligazioni, complice l´incertezza sui tassi, è stata negativa in questi primi mesi del 2006. Per cui il povero risparmiatore prende botte da tutte le parti. E non sa più che fare.

Molti sui siti internet, alla radio, sui blog di economia e finanza, chiedono cosa fare, cosa succederà. Non lo sa nessuno. Anche il mitico Warren Buffett qualche settimana fa aveva detto che la crescita dei mercati era solida ed il super gufo Stephen Roach capo economista di Morgan Stanley ha sostenuto che i mercati erano intonati positivamente. Anche se poi proprio pochissimi giorni fa la stessa Morgan Stanley ha diffuso una sorta di allarme generale: alla larga dai mercati, sono troppo pericolosi.

L´unica cosa certa è che c´è grande incertezza, che non ci sono capitali orientali o petroliferi pronti a sostenere qualsiasi rialzo. E poi viene da riflettere quando il tesoro americano emette comunicati rassicuranti, in piena seduta di Wall Street con i mercati che perdono oltre il 2%. Wall Street quella sera ha recuperato, ma sulla solidità di tale rimbalzo le riserve sono d´obbligo. E quello è il principe dei mercati, la bussola di tutti. La situazione, insomma, rimane confusa. Gli analisti grafici, che sono un po´ degli stregoni moderni, ma che qualche volta ci indovinano (se non altro perché molti sono convinti che abbiano davvero la palla di vetro) sostengono che gli indici non hanno sfondato i livelli di resistenza e quindi, anche se le legnate sono state dure, la barca non affonderà. I mercati, cioè, non crolleranno. Anzi, si spingono ancora più avanti nelle loro previsioni cagliostresche.
Sostengono che giugno sarà ancora un mese di alti e bassi, di cuore in gola, ma che poi da luglio dovrebbe cominciare un significativo recupero (settembre, però, è incerto e aperto a tutto). Hanno l´avvertenza, comunque, di segnalare che all´orizzonte ci sono ancora due appuntamenti importanti. Il primo è l´appuntamento con la riunione del Fomc (il comitato tassi di interesse) della Federal Reserve del 28-29 giugno, e il secondo è la riunione della Banca centrale giapponese. Intorno a queste due riunioni ruota un po´ il futuro dei mercati. E non è difficile capire perché.

Il lungo rialzo dei listini che adesso si è interrotto viene appunto da una lunga stagione di liquidità molto abbondante (in parte anche immaginaria, probabilmente). E le banche centrali (a partire da quella americana) hanno dato la sensazione (da qui i crolli dei giorni scorsi) di voler chiudere con questa storia, proprio perché convinte che tutta questa liquidità (vera e immaginaria) abbia creato una situazione pericolosa, con troppi eccessi. Che questa sia la linea non ci sono dubbi. Solo che non si sa se le Banche centrali si fermeranno fra giugno e luglio, dichiarandosi soddisfatte di quanto ottenuto. O se andranno avanti a stringere la corda del boia (l´aumento dei tassi). I mercati stanno a guardare e tremano, perché non riescono a capire quanto è alto il patibolo che le banche centrali hanno preparato per loro.


 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

(ANSA) - ROMA, 8 GIU  +++   Bce alza tassi dello 0,25%   +++

 

 

BERNANKE FA IL FALCO E LANCIA L' ALLARME INFLAZIONE

5 Giugno 2006  20:29  New York  - (ANSA)

Il rialzo dell'inflazione 'core', quella al netto delle componenti petrolio e alimentari, non è "uno sviluppo positivo", ma la Federal Reserve "resterà vigile" soprattutto per gli effetti di petrolio e materie prime. E' quanto afferma il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, in un intervento al convegno organizzato a Washington dalla American Bankers Association. Bernankeha spiegato che "l'economia Usa è in una fase di transizione" e che "le spese al consumo segnano un rallentamento".

La fase di transizione, ha spiegato Bernanke durante i lavori dell'International Monetary Conference, "é ragionevolmente chiara e sembra già in corso" a causa dei segnali di rallentamento dei consumi, che valgono per oltre i due terzi del Pil americano, e del mercato immobiliare, che negli ultimi mesi ha dato nuovo propellente alla crescita. Il presidente della Fed ha spiegato di valutare l'inflazione 'core' sulla fascia massima tollerabile, iniziando a scontare le pressioni di caro-petrolio e commodity. "Se questi livelli saranno ancora sostenuti, non potranno - ha sottolineato il banchiere centrale - più essere considerati come compatibili con la stabilità dei prezzi.

L'economia in fase di transizione richiede una politica monetaria attenta agli sviluppi dell'outlook economico", in linea con le indicazioni che emergeranno dai prossimi dati macroeconomici. Un esame specifico, inoltre, sarà proprio riservato "all'inflazione e ai suoi sviluppi a medio termine". Le valutazioni di Bernanke sui timori d'inflazione, oltre a far cadere gli indici di Borsa (Dow Jones -1,19%, S&P's 500 -1, 14% e Nasdaq -1,59%), fanno rimbalzare i titoli di stato con rendimenti che indicano la possibilità di ulteriori strette monetarie pari al 74%.

 

Fonte - ANSA

 

 

L'EURO CREDE AL RIALZO DEI TASSI

22 Giugno 2006  7:45  Milano - di Finanza&Mercati

Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Jean-Claude Trichet lancia segnali di ulteriore stretta monetaria e manda in orbita l’euro. «Non siamo soddisfatti - è intervenuto ieri il presidente della banca centrale europea davanti a un comitato di parlamentari europei a Bruxelles - di quanto stiamo osservando in merito all’inflazione nell’area Ue». Un report del 16 giugno dell’Unione Europea ha rivelato che il tasso d’inflazione in maggio ha accelerato al 2,5%, superando il traguardo del 2% posto dalla Bce per il sedicesimo mese consecutivo.

Di conseguenza, «continueremo a fare - ha proseguito il banchiere centrale - tutto quanto è necessario per contrastare la crescita dei prezzi e porre un’ancora alle aspettative d’inflazione». La Bce ha già alzato tre volte il costo del denaro dallo scorso dicembre, portandolo al 2,75% nell’ultimo intervento dello scorso 8 luglio. Secondo un sondaggio di Bloomberg tra gli economisti, ci si attende che la banca porti il tasso benchmark al 3,25% entro il prossimo 31 dicembre.

Generando in questo modo, in linea con la stretta monetaria globale che ha caratterizzato l’economia mondiale nelle ultime sei settimane, rischi sulla crescita: hanno infatti alzato i tassi di riferimento Danimarca, India, Corea, Sud Africa, Tailandia, Turchia, Sri Lanka, Svezia e Svizzera. Mentre la Cina ha aggravato le riserve bancarie per frenare i crediti bancari. Intanto, l’annuncio di Trichet ha tolto fiato ai listini europei, che in mattinata hanno navigato in territorio negativo, prima di terminare con leggeri rialzi in serata. Più marcato l’effetto sull’euro che ha messo a segno il maggiore rialzo in più di due settimane, con un guadagno di quasi il 7% contro dollaro (la valuta Ue è arrivata a 1,2666 nel primo pomeriggio a New York) e del 4,2% sullo yen.

Questo nonostante ci si attenda un rialzo dei tassi anche della Fed il prossimo 8 agosto. Riflessi anche sui future: il rendimento del contratto sull’Euribor a tre mesi (scadenza dicembre 2006) è aumentato di 1,5 punti base.

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

 

 


   Troppi timori per le strette monetarie

11 Giugno 2006 20:43 Milano - di *Sara Silano

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*Sara Silano è Caporedattore di Morningstar in Italia.

Tassi, tassi e ancora tassi. Li chiamano in causa i trader per giustificare un brusco calo delle Borse quando le strette monetarie sono al di sopra delle aspettative del mercato. Li passano ai raggi X gli economisti per cercare di capire i trend congiunturali. Sono entrati nel linguaggio comune dei risparmiatori, attenti all’impatto dei rialzi sui loro portafogli, e dei consumatori che devono fare i conti con rate del mutuo più esose.
E in un mondo sempre più interdipendente, quello dei tassi è un argomento “globalizzato”. Questa settimana, l’attenzione si è concentrata sull’Europa, dove la Banca centrale ha deciso di alzare il saggio di riferimento di 25 punti base nella riunione di giovedì 8 giugno, come era largamente atteso dal mercato, portandoli al 2,75%. A fine giugno, si riunirà la Federal Reserve, ma il presidente Ben Bernanke ha lasciato intendere che potrebbe decidere una nuova stretta, dopo il rialzo dell’inflazione core, ossia quella depurata dalle componenti petrolio e beni alimentari. Tre mesi fa, anche il Giappone ha annunciato di voler porre fine alla politica ultra-accomodante di tassi zero, durata cinque anni.
Per la Bce il nemico numero uno resta l’inflazione, per cui non sono da escludere ulteriori aumenti dei saggi di riferimento nei prossimi mesi. L’istituto centrale europeo non ha, invece, cambiato le stime sul Prodotto interno lordo (Pil), che è previsto in crescita del 2,2% quest’anno e dell’1,8% nel 2007 a fronte di un costo della vita rispettivamente del 2,3 e 2,2%. Le valutazioni sono basate sugli ultimi dati macro che continuano ad essere incoraggianti.
Negli Stati Uniti, l’economia prosegue sul sentiero della crescita e i solidi profitti favoriscono la spesa per investimenti. Nonostante i tassi siano aumentati di 400 punti base dal giugno 2004 sono ancora inferiori dell'1,7% rispetto al saggio di incremento nominale del Pil. Come per l’Europa, il principale rischio è rappresentato dall’inflazione, ma la Federal Reserve ha dato chiari segnali di volerla tenere sotto controllo.
Il quadro macro non preoccupa neppure in Giappone, dove il Pil è cresciuto dello 0,5% nel primo trimestre 2006 e del 3% in termini tendenziali. E’ in espansione anche la produzione industriale, mentre i prezzi degli immobili sono tornati in positivo, altro segnale della definitiva uscita dalla deflazione. Sul fronte azionario, le valutazioni sono considerate dalla maggior parte degli analisti ancora attraenti e i fondamentali delle società buoni.
Perché i mercati sono crollati nelle ultime settimane, se i dati economici ed aziendali mostrano un trend positivo? E soprattutto, per quale motivo le parole di Bernanke hanno spaventato tanto gli investitori? Un aspetto chiave è rappresentato dalla liquidità disponibile nel sistema finanziario. La sua abbondanza ha permesso il rally delle Borse, comprese quelle emergenti, fino ad oggi, ma ora si sta assottigliando per effetto della fine delle politiche monetarie espansive. Tanto nel 1994 (per i bond) quanto nel 2000 (per le azioni), fa notare Joachim Fels, economista di Morgan Stanley, le crisi sono state precedute da un’acuta contrazione della base monetaria.
E’ vero lo scenario è cambiato, ma non va drammatizzato. I tassi di interesse sono in rialzo, ma ben sotto il loro livello neutrale. Più che essere restrittive, dunque, le politiche delle Banche centrali sono improntate alla riduzione della liquidità in eccesso. Il prezzo del petrolio è alto, ma non ha raggiunto i picchi dello shock del 1980. Secondo Michael T. Darda, capo-economista di MKM Partners e collaboratore regolare del Wall Street Journal, le quotazioni dovrebbero salire a 187 dollari al barile per equiparare quelle di 26 anni fa, considerando la crescita dei redditi nominali personali nel periodo. Infine, l’inflazione è in aumento, tuttavia Fed, Bce e Banca del Giappone sono vigili, per cui non dovrebbero esserci pericoli di fiammate incontrollate. In questo contesto, vale la pena lasciare aperta la porta dell’ottimismo, perché, come sostiene Darda, le azioni possono continuare a sovraperformare i bond, anche se inflazione e tassi salgono.
 

Fonte - Morningstar Italia

 
 

 


 

 

 

LETTERA APERTA A HENRY PAULSON

18 Giugno 2006 23:02 NEW YORK - di Paul Krugman

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A Henry Paulson, neo ministro del Tesoro degli Stati Uniti: Quindi, dopo tutto, ha deciso di accettare. Non c'è da sorprendersi che abbiano voluto Lei. Per dirla in una battuta, sono disperati a tal punto da raschiare il fondo del barile. Tuttavia molti di noi sono sorpresi che Lei abbia accettato l'incarico. Non c'è dubbio che l'avranno rassicurata sul fatto che, come Robert Rubin, Lei eserciterà davvero il suo ruolo di ministro del Tesoro, a differenza di chi l'ha preceduta in questa amministrazione. E molto probabilmente Lei ritiene che di tali rassicurazioni ci si possa fidare, non fosse altro per via del fatto che i Bush hanno bisogno di Lei molto più di quanto Lei abbia bisogno di loro.

Tuttavia Paul O'Neill, straordinariamente acclamato dai media al momento della sua elezione, deve essere stato della medesima convinzione. Vede, il fatto è che la tratteranno bene finché la riterranno utile a far aumentare la credibilità del governo negli ambienti esterni all'amministrazione Bush, non un minuto di più. Eppure sono convinto che Lei sia già sotto pressione per evitare di dire cose che possano minare la sua credibilità in modo fatale. Prima di entrare nello specifico, Lei ha bisogno di essere disingannato da qualunque illusione di una possibile leale ricompensa da parte di questa amministrazione.
Nessuno è stato più leale di Larry Lindsey, il primo importante economista del presidente Bush. Eppure è stato licenziato per essersi lasciato sfuggire una verità sconveniente circa il costo della guerra in Iraq, costo che sarà con molto probabilità piuttosto elevato: una verità, quella di Lindsey, che noi tutti sappiamo essere soltanto una stima, che rispecchia una cifra ben inferiore al costo reale di questa impresa. E non solo è stato licenziato, è stato addirittura insultato per il suo aspetto.
Allora, cosa Le verrà chiesto di fare per aumentare la Sua credibilità? Ora come ora, credo, le faranno pressioni affinché Lei sostenga le illusioni dell'amministrazione riguardo l'andamento della nostra economia. Gli americani sono molto scontenti di come sta andando l'economia. Secondo le statistiche Gallup, solamente il 4 per cento del pubblico intervistato considera 'eccellente' l'attuale status dell'economia americana, e soltanto il 25 per cento lo ritiene 'buono'. E ci sono dei validi motivi a giustificazione di tale scontento. Sebbene i profitti e gli indennizzi economici degli amministratori delegati siano saliti vertiginosamente, la maggior parte dei lavoratori si trova in una condizione di gran lunga peggiore rispetto a un anno fa.

La linea ufficiale del governo sostiene però che l'economia americana è in ottima salute, ma che gli americani per qualche strano motivo non se ne siano ancora accorti (così come non si sono ancora resi conto della guerra in Iraq). Bush, che non è quell'affabile ragazzo che Lei pensa di aver incontrato, non sembra essersi reso conto che l'economia americana non gode di ottima salute. Durante le sue apparizioni in pubblico, sembra irritato, quasi seccato di non essere creduto o preso sul serio quando parla di un'economia che funziona e ora si aspetta che Lei spieghi ai lavoratori americani che le loro difficoltà economiche, il fatto che stentino persino a pagare le bollette, è soltanto un'invenzione, un fantasma della loro immaginazione.
Inoltre, se l'esperienza passata può esserci di qualche insegnamento, Lei riceverà pressioni non soltanto per premere sull'acceleratore per conto dell'amministrazione Bush, ma anche per mentire. Basta vedere cosa è accaduto a Edward Lazear, presidente del Council of Economic Advisers.

Il mese scorso Lazear e altri membri del consiglio hanno pubblicato un editoriale, una sorta di lettera aperta, sul 'Wall Street Journal' che conteneva la seguente affermazione: "I tagli fiscali apportati dal presidente Bush hanno reso la tassazione più progressiva, il che restringe il gap dei guadagni reali". Ora, si può giocare con il significato e l'interpretazione dell'aggettivo 'progressivo', tuttavia, quale che sia il punto di vista, i tagli fiscali operati da Bush hanno contribuito ad aumentare, non certo a restringere, il netto dei profitti. Ed è bastato questo a cancellare ogni traccia di credibilità che Lazear, rispettato accademico privo di qualunque precedente politico, era riuscito ad apportare alla sua carica politica.
Su cosa Le verrà chiesto di mentire? Forse Le verrà chiesto di dichiarare che ci stiamo avviando verso un budget equilibrato. O forse Le verrà chiesto di mentire sulla politica ambientale. Alcuni sostenitori di destra si sono dichiarati contrari alla sua elezione perché Lei è noto per essere un fautore di azioni contro l'effetto serra e il surriscaldamento globale del pianeta. Quindi questi stessi politici potrebbero chiederLe di ricambiare il favore sostenendo il fallimento di qualunque azione presa o provvedimento adottato dall'amministrazione Bush per tentare di arginare la minaccia ambientale.
Al momento, Lei è adulato: la incitano e la esortano a prendere parte al gioco di squadra. Ma se Lei accetta di giocare al gioco che le propongono i Suoi nuovi capi, la Sua credibilità svanirà in men che non si dica. E una volta che i suoi nuovi amici non la riterranno più utile, la metteranno da parte.

 


Fonte - 'New York Times' -'L'espresso'
Traduzione di Rosalba Fruscalzo

 

 

 

 

 


    Azionario: ma il peggio è davvero passato ?

14 Giugno 2006 9:58 LUGANO - di *Alfonso Tuor  

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*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino

Anche ieri è continuata la discesa delle borse. Il movimento ribassista dei mercati azionari sta cominciando ad incrinare le certezze di coloro che lo ritengono una semplice correzione, inevitabile dopo la lunga fase di rialzo delle borse iniziata nel marzo del 2003. Gli argomenti addotti a sostegno di queste tesi appaiono «forti»: i mercati non sono sopravvalutati, i bilanci delle società sono sani e gli utili continuano a crescere.
In base a queste premesse, si conclude, che le borse sono in grado di assorbire un ulteriore aumento dei tassi e anche il previsto rallentamento del ritmo di crescita dell’economia statunitense. I sostenitori di queste tesi rischiano però di guardare dati indiscutibili, ma non rilevanti sia per pronosticare l’andamento dei mercati sia quello delle economie. Infatti l’attuale situazione può essere letta in modo completamente diverso.
L’accelerazione della crescita dell’economia internazionale è il frutto di politiche economiche eccezionali adottate per ridurre le conseguenze del crollo delle borse di inizio decennio e per prevenire il pericolo della deflazione. La corsa al rialzo dei mercati degli ultimi tre anni è stato il riflesso di un periodo «felice» di tassi di interesse a livello minimo e di liquidità abbondante. Questa fase è finita e le banche centrali di tutti i paesi industrializzati, seppur con tempi e modalità diversi, stanno passando da politiche monetarie fortemente espansive a neutrali.

Questa transizione, resa più insidiosa dalle tensioni sui prezzi dovute all’aumento del costo delle materie prime, deve fare i conti con i fenomeni che si sono sviluppati durante l’era del denaro facile e che hanno reso possibile la ripresa economica. Innanzitutto, il forte aumento dell’indebitamento delle famiglie, che non riguarda solo gli Stati Uniti, ma che registra forti incrementi anche in molti paesi europei.
In secondo luogo, l’impennata dei prezzi dell’immobiliare, che di nuovo è un fenomeno generale, con l’unica eccezione rappresentata dalla Germania. Ed infine, a livello macroeconomico, il crescente disavanzo estero degli Stati Uniti. Con una battuta ad effetto, si potrebbe dire che in questi anni sono aumentati gli utili delle imprese, ma sono stagnati i redditi delle famiglie e in termini reali sono addirittura diminuiti. E dato che è il consumatore finale a determinare il livello di attività delle società che producono beni e servizi, non appare sorprendente che i mercati finanziari si interroghino sulle conseguenze del rialzo dei tassi sui consumi e quindi sulla crescita economica e dunque sulla sostenibilità nel tempo degli utili societari.
A sostegno di questa tesi si può osservare l’andamento dei mercati dei capitali che non sembrano condividere le paure inflazionistiche delle banche centrali e di molti analisti. Infatti i rendimenti dei buoni decennali del Tesoro statunitensi sono inferiori al 5%, ossia al livello dei tassi a breve. Ora, dato che i mercati dei capitali sono i più sensibili alle aspettative inflazionistiche e dato che alla fine del mese è dato per scontato che la Federal Reserve porterà i tassi a breve al 5,25%, non si può leggere questo appiattimento della curva dei tassi che come una previsione di un forte rallentamento dell’economia statunitense.
Anche in Europa i tassi a lunga non si stano muovendo al rialzo. In Svizzera, ad esempio, malgrado sia scontato l’annuncio domani del rialzo del costo del denaro da parte della Banca Nazionale, il rendimento delle obbligazioni della Confederazione a 10 anni è sceso dal 3% a poco più del 2,6%. Anche il calo dei prezzi delle materie prime e dei metalli preziosi sembra confermare questa tesi.
Tutto ciò non vuol dire che vi saranno sfracelli, ma che l’ondata ribassista potrebbe continuare fino a quando sarà più chiara la reazione dell’economia (soprattutto di quella americana) all’aumento del costo del denaro. Affermare oggi che la borsa e l’economia americana saranno sicuramente in grado di assorbire l’ulteriore aumento del costo del denaro appare perlomeno azzardato.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

Sabato  10  giugno  2006   Giovedì  15  giugno  2006   Giovedì  30  giugno  2006
   
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USA: TOP EXECUTIVE VEDONO RALLENTAMENTO CRESCITA ECONOMIA

Alert dal rapporto trimestrale del Business Roundtable, l'associazione cui aderiscono 160 amministratori delegati alla guida di società americane con più di 10 milioni di dipendenti totali e $4.500 miliardi di fatturato.
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7 Giugno 2006 21:45 New York (ANSA)

I top executive della Corporate America stimano ancora una crescita economica nei prossimi sei mesi, ma meno sostenuta di quella ipotizzata tre mesi fa. E' quanto emerge dal rapporto trimestrale del Business Roundtable, l'associazione cui aderiscono 160 amministratori delegati alla guida di società con più di 10 milioni di dipendenti totali e 4.500 miliardi di dollari di fatturato.
Le principali preoccupazioni sono legate al fatto che gli alti prezzi dell'energia e le tensioni inflazionistiche possano spingere la Federal Reserve a proseguire la stretta sui tassi d'interesse. Non a caso l'indicatore sulle previsioni economiche scende a 98,6 a giugno, contro i 102,2 punti di marzo. "Non c'é alcun dubbio - ha spiegato in una conferenza stampa, il presidente Business Roundtable, Hank McKinnell, che é il numero uno di Pfizer - che i costi energetici, soprattutto negli ultimi mesi, sono un nuova sfida all'economia e alle principali compagnie del Paese".
I prezzi più alti dei carburanti, ha aggiunto, significano che "i consumatori hanno meno soldi per acquistare altri beni, come confermato dall'indice di fiducia e dalla volatilità dei mercati". Quanto all'intero 2006, i top executive ipotizzano, dopo il balzo del Pil del 5,3% nel primo trimestre dell'anno, una crescita dell'economia Usa del 3,4%, in calo rispetto al 3,5% del 2005, ma oltre la precedente stima del 3,2%.

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 



   La BCE e la sindrome cinese

15 Giugno 2006 10:29 LONDRA - di *Raj Shant

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*Raj Shant, e' Portfolio Manager di Newton Investment Management, di Mellon Global Investment.

La stampa non è quasi mai tenera nei confronti della BCE. Negli ultimi anni, anche quando ha tagliato i tassi di interesse europei a un irrisorio 2%, è stata accusata di non fare abbastanza per sostenere la crescita. I funzionari della BCE hanno sottolineato che i tassi di interesse reali erano effettivamente negativi in alcuni paesi periferici ed molto bassi persino in paesi come la Germania, per cui la colpa non è della politica monetaria bensì delle rigidità strutturali nelle economie. Seguire l’esempio della Fed e ridurre drasticamente i tassi all’1% non determinerebbe necessariamente un miglioramento della crescita a lungo termine, ma porterebbe unicamente a un incremento sconsiderato del debito.
La massa monetaria e i prestiti bancari sono aumentati assai rapidamente e la BCE è rimasta ferma alla politica del suo progenitore, la Bundesbank, che considerava la massa monetaria come un segnale anticipatore di futuri rischi inflazionistici. Questo la fa sembrare anche una “guastafeste” rispetto ad altre banche centrali che hanno abbandonato questo tipo di politica; la Fed è andata addirittura oltre e ha smesso di pubblicare i propri dati sulla massa monetaria M3.
Non è divertente essere l’unica persona sobria a una festa…

Il dna della Banca Centrale Europea proviene dalla Bundesbank. La BCE ha ereditato le proprie caratteristiche attuali in seguito alle storiche battaglie con l'iperinflazione in Germania. Battaglie che, tra l’altro, hanno portato alla nascita del nazionalsocialismo. Di conseguenza, la BCE ora considera la moneta stabile come un fattore positivo per tutti. Una moneta instabile, anche se positiva nel breve termine, causa maggiori problemi nel lungo termine.
Ecco perché la BCE è più preoccupata di tutti per l'incremento dei prezzi degli attivi nell'area euro. Ad eccezione del settore immobiliare tedesco, la maggior parte delle valutazioni immobiliari sono aumentate improvvisamente, così come i corsi azionari unitamente alle opere d’arte e beni simili. Secondo la BCE questa è l'altra faccia della medaglia quando si registrano bassi tassi di interesse per lungo tempo. Può contribuire a dare maggiore fiducia ai consumatori e quindi a incrementare i consumi, ma la BCE non desidera stimolare consumi alimentati dal debito per sostenere la crescita.
Inflazione? Quale inflazione?

Negli Stati Uniti, l’incremento dei tassi di interesse è stato presentato come una fase di semplice “normalizzazione” dei tassi da livelli particolarmente bassi. Nel frattempo, gli aumenti incerti da parte della BCE hanno attirato diverse critiche a fronte di un rallentamento della crescita in Europa e del rafforzamento dell’Euro. Le banche centrali parlano d’inflazione e alcuni adducono come prova i prezzi dell’oro e di altri prodotti di base che salgono alle stelle. Ma l’opinione più diffusa è che in realtà non ci sia nessuna inflazione.
Sin dalla fine degli anni ’90 si ripete che l'impatto della globalizzazione (soprattutto il ruolo della Cina) e le nuove tecnologie (soprattutto Internet) implicano che l’inflazione è morta. Benvenuti nel nuovo mondo fatto di tassi di interesse e inflazione perennemente su livelli bassi. Un mondo in cui i tassi di interesse contenuti porterebbero un cambiamento strategico nel livello di indebitamento che un’impresa o una famiglia può assumersi con prudenza (occorre sottolineare che la crescita fulmina dei settori a capitale di rischio e private equity si basa su questa semplice premessa).

La sindrome cinese. Ma anche le tendenze più consolidate alla fine perdono il loro vigore. Certamente, la Cina sta investendo molto per produrre merci a buon mercato e poi esportarle verso gli ingrati mercati occidentali. La Cina possiede molta forza lavoro conveniente, ma non possiede petrolio, carbone, gas, sostanze plastiche, metalli ferrosi, alluminio, rame, ferroleghe, silicio, e così via. Il punto è che un numero crescente di quei prodotti che sono noti per essere “made in China” stanno in effetti diventando più cari. L’incremento dei costi alla fine dovrà essere trasferito sui prezzi. Sarà un vero e proprio choc per chi di noi è stato abituato ad assistere a un progressivo decremento dei prezzi, dall'abbigliamento all'elettronica.
Questa “sindrome cinese” potrebbe evolversi da costante fattore deflazionistico a fattore leggermente inflazionistico, catalizzando eventualmente l’incremento dei tassi di interesse nel mondo. Naturalmente, con un Dollaro debole l’effetto sarebbe più evidente negli Stati Uniti rispetto a Europa o Inghilterra.
Attenzione ai desideri che esprimete…
L’ultimo comunicato del G7 chiedeva direttamente una rivalutazione delle valute asiatiche, in linea con la forte eccedenza della loro bilancia commerciale. Nel lungo termine certamente ciò sarà necessario per ribilanciare i livelli odierni del commercio mondiale. Ma nel breve termine è una politica che presenta molti rischi. Con l’incremento delle valute asiatiche, i beni che questi paesi esportano verso l'Occidente diventano necessariamente più cari. In aggiunta ai forti incrementi nei costi delle risorse, a livello di commercio al dettaglio in Europa (ma anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti) si potrebbe verificare un incremento dei prezzi al consumo.

L’attività delle banche centrali si fa nuovamente interessante?
L’incremento dell’inflazione porrebbe le banche centrali di fronte a un dilemma interessante. Ovvero, quanto possono aumentare i tassi di interesse senza causare danni collaterali alle economie più indebitate e quanto possono aumentare i prezzi al dettaglio prima che inizino ad aumentare le richieste salariali? Finora la costante diminuzione dei prezzi dei beni di consumo ha attutito gli effetti del taglio dei costi da parte delle imprese e della continua diminuzione dei salari in rapporto al PIL. Per cui ci si chiede se assisteremo a una svolta nella tendenza a lungo termine. La BCE sa che dovrà verosimilmente affrontare temi molto complessi nei prossimi 12 mesi. Probabilmente incrementerà i tassi più rapidamente del previsto in risposta ai segnali di un riemergere dell’inflazione. In caso contrario, i controllori del mercato obbligazionario potrebbero tornare una volta influenti potrebbero tornare in azione.

… e i mercati azionari?
Se la vostra strategia azionaria si è basata su una riduzione della parte azionaria o un incremento del debito, allora potreste perdere tutto. In questo contesto, le storie di rendimento senza una logica di investimento operativa dovranno confrontarsi con la liquidità e le obbligazioni a più alto rendimento.
Le imprese al consumo che hanno dovuto affrontare l’inflazione nei costi delle risorse, ma che non sono state in grado di riversare tali costi sui prezzi, potrebbero trovare più favorevole il nuovo contesto. Di conseguenza, i comparti di Newton dell’Europa continentale hanno una posizione sovrappesata sia sui rivenditori al dettaglio che sul settore alimentare.
E naturalmente per i titoli a bassa capitalizzazione che hanno prosperato in un contesto di elevata liquidità le valutazioni particolarmente elevate (rispetto ai titoli concorrenti di prim’ordine) potrebbero essere assai esposte in tale situazione.

La BCE perseguirà una politica monetaria stabile; la Cina farà ciò che è necessario per sostenere il suo processo di industrializzazione a lungo termine. Queste due verità implicano che gli investitori in titoli azionari europei dovranno passare da un'era di capitale abbondante e a buon mercato ad un'era in cui il capitale ha un costo effettivo. In tale contesto le politiche di investimento solide avranno nuovamente il sopravvento sulle strategie basate sulla momentanea crescita economica.
 

Fonte - www.mellonglobalinvestments.com

 

 

 

 

 

 

TASSI USA: LA FEDERAL RESERVE LI ALZA DELLO 0.25%  

La Banca Centrale americana ha alzato il tasso sui fed funds di 25 punti base al 5.25%. E' il diciassettesimo rialzo dei tassi consecutivo in esattamente due anni. Nuove strette creditizie dipenderanno dall'outlook economico.  
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29 Giugno 2006 20:15 New York (ANSA)

Il Federal Open Market Committee ha deciso di alzare i tassi sui fed funds di 25 punti base al 5.25%.
I recenti indicatori mostrano che la crescita economica e’ in una fase di moderazione rispetto al robusto passo sostenuto ad inizio anno, che riflette parzialmente un graduale raffreddamento del mercato immobiliare e i contenuti effetti dell’aumento dei tassi d’interesse e dei prezzi energetici.
Il dato “core” sull’inflazione e’ stato piuttosto elevato negli ultimi mesi. La crescita della produttivita’ ha aiutato a mantenere sotto controllo l’aumento del costo del lavoro, e le aspettative sull’inflazione restano contenute. Tuttavia, gli alti livelli di utilizzazione delle risorse e gli alti costi energetici e di altre commodities hanno il potenziale di sostenere le pressioni inflazionistiche.
Sebbene la moderazione della crescita nella domanda aggregata dovrebbe offrire supporto a limitare l’inflazione, la Commissione ritiene che alcuni rischi inflazionistici restano. La modalita’ e i tempi di qualsiasi azione di politica monetaria che potrebbe essere necessaria per contenere tali rischi dipenderanno dall’evoluzione dell’outlook inflazionistico e delle crescita economica, cosi’ come sara’ implicato dalle informazioni rilasciate quotidianamente. In ogni caso, la Commissione rispondera’ ai cambiamenti sulle prospettive economiche come necessario per supportare l’ottenimento di tali obiettivi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Susan S. Bies; Jack Guynn; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Jeffrey M. Lacker; Sandra Pianalto; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen.
In un'operazione collegata, il Comitato dei Governatori (Board of Governors) ha approvato all'unanumita' un incremento di 25 punti base del tasso di sconto al 6.25%. Nel prendere questa decisione, il comitato ha approvato le richieste formulate dai Comitati dei Direttori (Boards of Directors) della Federal Reserve Bank di Boston, New York, Philadelphia, Cleveland, Richmond, Atlanta, Chicago, St. Louis, , Minneapolis, e Dallas
 

Fonte - ANSA

 

GR1 RAI - 28 GIU ore 22:00

   

MP3 (58 KB)

GR1 RAI - 29 GIU ore 22:00

   

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   Cina: crescita nonostante Washington

7 Giugno 2006 16:41 New York - di Joseph Stiglitz
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La Cina sta per adottare il suo undicesimo piano quinquennale, preparando il terreno per una nuova puntata di quella che sembra essere la più straordinaria trasformazione economica della storiae allo stesso tempo intervenendo sul benessere di quasi un quarto della popolazione mondiale. Mai prima d’ora si era assistito ad una tale crescita; mai prima d’ora si è stati testimoni di una così massiccia riduzione della povertà complessiva.
Una chiave significativa del successo a lungo termine della Cina è stata la combinazione, unica nel suo genere, di pragmatismo ed acume strategico. Mentre il resto dei paesi in via di sviluppo, seguendo i consigli di Washington, si sono indirizzati verso il traguardo dell’incremento del proprio Prodotto Interno Lordo, la Cina ha messo in chiaro fin da subito che il suo primo obiettivo era quello di un aumento sostenibile e più equo dello standard di vita reale. Questo paese ha realizzato che era entrato in una fase di crescita economica che imponeva un’enorme – ed insostenibile – serie di ripercussioni a danno dell’ambiente.

Salvo radicali cambiamenti, in generale gli standard di vita verranno inevitabilmente compromessi. Questo è il motivo per cui, nel nuovo piano quinquennale cinese, è stata posta grande enfasi rispetto alla tematica ambientale.
Molte delle regioni più povere della Cina stanno crescendo ad un ritmo che stupirebbe se non ne esistessero altre che si stanno sviluppando ancor più velocemente. Se questo fenomeno ha aiutato a ridurre la povertà complessiva, d’altra parte l’ineguaglianza sta crescendo di pari passo al proliferarsi delle disuguaglianze in Cina tra le condizioni di vita delle città e delle campagne, e tra le regioni costiere e quelle interne. Il rapporto del 2006 della Banca Mondiale spiega il motivo per cui questa disuguaglianza – e non soltanto la povertà – dovrebbe essere considerata una priorità, e perché, conseguentemente, il progetto cinese si stato concepito per combattere frontalmente il problema. Pechino ha parlato per diversi anni di una società più equa, e questo suo ultimo piano descrive il programma necessario per arrivare al traguardo.

La Cina riconosce che ciò che separa le regioni più sviluppate da quelle più regredite non è solo un gap riguardante le risorse, ma anche un divario nella conoscenza. Perciò ha disposto un piano d’intervento.
Il ruolo della Cina nel mondo e nell’economia mondiale è cambiato. La sua crescita futura dovrà essere basata più sulla domanda interna che sull’esportazione, e ciò richiederà un aumento dei consumi.
Riguardo a ciò, la Cina si caratterizza per un problema insolito: un eccessivo risparmio. I cinesi in parte risparmiano per la mancanza di programmi di previdenza sociale. Rafforzando il sistema di previdenza sociale (le pensioni), la sanità pubblica e l’istruzione, si ridurrà contemporaneamente l’ineguaglianza sociale, si aumenterà il senso di benessere e si promuoveranno i consumi.
Se queste manovre si riveleranno efficaci, la tensione a cui sarebbe sottoposto il sistema economico globale, già sbilanciato dagli enormi squilibri fiscali e commerciali statunitensi, sarebbe colossale. Se la Cina risparmiasse di meno – e se, come hanno dichiarato alcuni ufficiali, ricorresse a una diversa politica nell’investimento delle sue risorse – chi finanzierebbe il deficit di 2 miliardi di dollari al giorno del commercio statunitense?

Questo è però un altro tema di discussione – anche se il giorno in cui riproporlo potrebbe non essere troppo lontano. Con una tale visione del futuro, la sfida sarà la sua realizzazione. La Cina è un grande paese e non avrebbe potuto ottenere un così grande successo senza una decentralizzazione diffusa; ma questa presenta di per sé alcuni problemi.
L’effetto serra, ad esempio, è un flagello mondiale. Mentre l’America ha dichiarato di non poter far nulla a proposito, i più alti ufficiali cinesi si sono comportati con maggiore responsabilità. Entro un mese dall’adozione del piano quinquennale, sono state imposte nuove tasse ambientali sulle automobili, sui legnami e sul petrolio: la Cina ha utilizzato i meccanismi di mercato per fronteggiare i problemi ambientali propri e quelli mondiali. Ma le pressioni dovute alla responsabilità della crescita economica e sociale sugli ufficiali governativi cinesi operanti a livello locale sta diventando enorme; essi potrebbero ribattere che se l’America non è in grado di trovare un modo per proteggere il nostro pianeta, come potrebbero farlo loro? Traducendo questa idea in azione, il governo cinese avrà bisogno di politiche efficaci, come quella sulla tassazione ambientale già in atto.
Nel suo cammino verso l’economia di mercato, la Cina ha sviluppato alcuni dei problemi che affliggono i paesi industrializzati: interessi esclusivi, che rivestono dibattiti opportunisti nascosti dietro al velo dell’ideologia di mercato. Alcuni denunceranno gli effetti dell’economia sui più poveri, altri si opporranno a politiche di competitività e alle leggi di governo corporative. Discussioni sulla crescita verranno contrapposte alle politiche sociali ed ambientali. Questo tipo di politiche pro-crescita non solo mineranno il progresso, ma costituiranno una minaccia all’intero futuro della Cina.

Esiste solo un modo per prevenire ciò: discussioni aperte sulle politiche economiche che denuncino gli sbagli e provvedano a soluzioni produttive per la sfida che la Cina sta affrontando. Il caso di George Bush ha mostrato tutti i rischi legati a un’eccessiva segretezza della politica e al confinare le scelte decisive ad un circolo ristretto di adulatori. Al di fuori della Cina, in molti non apprezzano il grado con cui i suoi leader tentano di trovare soluzioni attraverso dibattiti e consultazioni, lottando per far fronte ai nuovi grandi problemi.
Le economie di mercato non sono auto-regolamentate, non possono essere guidate da un pilota automatico – specialmente se si vuole che i benefici vengano divisi equamente. Ma l’amministrazione di un’economia di mercato non è un compito facile. È un atto di equilibrio, che deve rispondere costantemente alle variazioni economiche. Il piano cinese può fornire una guida per questo problema. Il mondo intero sta osservando, timoroso, mentre la vita di 1.3 miliardi di persone continua a trasformarsi.
Sulla Cina Nuovi Mondi Media ha pubblicato 'Cina SpA – La superpotenza che sta sfidando il mondo', di Ted C. Fishman.

 
Fonte: http://business.guardian.co.uk/story/0,,1752818,00.html

Tradotto da Simona Casadei per Nuovi Mondi Media, tratto da The Guardian.

 

 

 

 

 

 

COME LA CINA STA VINCENDO LA CORSA VERSO IL PETROLIO

18 Giugno 2006 22:43 NEW YORK - di Jon D. Markman

L’America vanta un’etica troppo marcata per ottenere benzina a basso costo?
Questa è stata l’inevitabile domanda presentata agli investitori e ai politici statunitensi dopo la visita di stato del presidente cinese Hu Jintao, mentre cresceva il prezzo alla pompa.
In questo momento gli Stati Uniti sono i più grandi consumatori mondiali di energia ma la Cina è il consumatore mondiale dalla crescita più rapida. Ciò li pone in diretta competizione per ogni nuova risorsa di petrolio greggio, gas naturale, carbone ed uranio che si materializza attraverso l’esplorazione e la ricerca – per non menzionare ogni attuale risorsa che produttori in cerca di profitto decidono di rendere disponibile a prezzi stracciati.
Sono in costante aumento le nuove risorse energetiche che la Cina sta acquistando da paesi che gli Stati Uniti disdegnano. La maggior parte di questi si trova in Africa: paesi come il Sudan, il Ciad e la Repubblica del Congo, in cui si registrano le più terribili violazioni dei diritti umani. E la maggior parte delle risorse è controllata da despoti rapaci nella repubblica del Kazakistan, in Asia centrale, o in Myanmar (la ex-Birmania, NdT), nel Sud-est asiatico.
L’acquisizione di energia è un sfida a tutto campo, nel quale ci sono vincitori e vinti. Ogni nuova risorsa di energia che la Cina incamera per accrescere la sua galoppante economia è, per gli Stati Uniti, automaticamente persa per sempre. Perciò, bisogna solo chiedersi se non sia stata l’avversione americana nel trattare con il peggiore degli “stati canaglia” del mondo a portare la benzina a salire inesorabilmente a 4 dollari al gallone durante la primavera.
Il nuovo potere coloniale
Dan Zhou, analista-capo alla CEB Monitor Group di Pechino, sottolinea come la Cina sia diventata un partner interessante per l’Africa e l’Asia centrale per quattro ragioni principali. Innanzitutto, una maggiore domanda provoca l’aumento dei prezzi per i prodotti in questione, e stiamo parlando perlopiù di materie prime come petrolio, zinco e rame. In secondo luogo, la Cina non utilizza virtualmente alcuno standard di trasparenza politica o di riforma economica, per portare a compimento gli affari. Ancora, la Cina ignora le violazioni interne dei diritti umani – considerati, di fatto, un ostacolo agli affari. Ed infine, essa rappresenta una sorta di all-inclusive commerciale: offrendo non solo investimenti, commercio, operai specializzati e armi militari ma anche protezione militare sotto forma del proprio veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
La caccia della Cina al petrolio africano l’ha trasformata nella nuova colonizzatrice del paese, polverizzando il ricordo delle vecchie potenze europee come il Belgio, l’Italia, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e la Francia. Ha ottenuto questo status in un tempo da record: il commercio tra la Cina e l’Africa era di 10 miliardi di dollari nel 2000 ed è arrivato a 39.7 miliardi nel 2005. Seguono i dati delle attività cinesi nel continente africano, secondo la relazione di CEB Monitor:
• Sudan: La Cina ha 4 miliardi di dollari di investimenti nel paese che si crede abbia la più grande riserva di petrolio ancora intatta di tutta l’Africa. La China National Petroleum Corp. controlla il 40% della Greater Nile Petroleum, che possiede giacimenti petroliferi, un condotto petrolifero, una grossa raffineria e un porto. Lo scorso anno, la Cina ha acquistato più della metà del petrolio esportato dal Sudan. Al contrario, il Sudan ha coperto il 6% dell’importazione cinese di petrolio, circa 200,000 barili al giorno. • Angola: I suoi pozzi offshore hanno fatto di questo paese il secondo maggior produttore africano di petrolio. Al febbraio di quest’anno, l’Angola aveva esportato il 13% del suo petrolio alla Cina – facendone il maggior acquirente del paese. La Cina ha depositato circa 3 miliardi di dollari sotto forma di prestiti per assicurarsi il diritto di precedenza sul petrolio angolano e ha fornito al paese ingegneri e operai specializzati per lo sviluppo dei giacimenti. La Cina è anche il più grosso donatore di aiuti del paese. • Nigeria: Questo è il maggior produttore di petrolio africano e fino a poco tempo fa non era compreso tra i paesi fornitori della Cina. Ad ogni modo, la più grossa compagnia petrolifera statale cinese, la Cnooc, lo scorso mese ha acquistato il 45% di un giacimento petrolifero e di gas per 2.27 miliardi di dollari e ha acquistato inoltre il 35% della licenza di esplorazione del Delta del Niger per 60 miliardi di dollari. • Altre parti dell’Africa: la Cina è attiva nella Guinea equatoriale, in Ciad e Gabon, ha fatto investimenti per 170 miliardi di dollari nelle miniere dello Zambia ed è diventato il maggior fornitore e commerciante di armi dello Zimbabwe; questo commercio è portato avanti attraverso Robert Mugabe, “proscritto” dalla diplomazia globale.
Acquirenti meno inopportuni
In America Latina, la storia è più o meno la stessa: la Cina è diventata pian piano una sorta di partner elitaria per regimi oppressivi, paranoici o con ambizioni regionali che vogliono acquistare armi e carri armati con la vendita di petrolio e di minerali.
Secondo il Los Angeles Times, l’amministrazione Bush ha discusso seriamente con i diplomatici cinesi, incoraggiandoli a cambiare atteggiamento e spedendo forze nel sud del paese. Questa situazione diventerà sicuramente un problema perchè il Sudamerica, ricchissimo di metalli, energia e risorse agricole, è sempre più nelle mani di ideologi decisi a snobbare gli interessi degli Stati Uniti, a favore di acquirenti meno propensi alle ingerenze interne.
In questo momento, la Cina è il secondo partner commerciale del Sudamerica, avendo sorpassato l’Europa. Dal 2001 al 2006, le esportazioni verso la Cina sono aumentate del 500%. Stando a fonti pubblicate, nel solo 2004, il presidente Hu Jintao ha firmato accordi del valore di 100 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. Seguono i dati della CEB Monitor, sugli accordi commerciali suddivisi per paese:
• Brasile: il paese più grande del Sudamerica vende alla Cina minerale di ferro, soia, cotone, petrolio e zucchero e insieme stanno sviluppando satelliti e equipaggiamento aerospaziale. La Cina ha promesso nuovi investimenti a breve termine del valore di 10 miliardi di dollari. • Argentina: ha firmato accordi con la Cina per un totale di 20 miliardi di dollari di investimento nei prossimi dieci anni. La Cnooc sta costruendo una base petrolifera offshore. • Venezuela: Questo paese è la terza risorsa più importante per l’approvvigionamento petrolifero degli Stati Uniti, ma i contrasti politici e sociali hanno portato il capo del governo, Hugo Chavez a ricercare partner alternativi. Chavez ha in progetto di raddoppiare l’esportazione del petrolio alla Cina fino a 300.000 barili al giorno, circa un quinto del milione e mezzo di barili che vengono spediti giornalmente agli Stati Uniti. I cinesi stanno acquistando partecipazioni in diversi giacimenti petroliferi, rendendo la loro quota inaccessibile ai consumatori statunitensi. • Ecuador: Questo è uno dei tre maggior produttori di petrolio per l’approvvigionamento della costa orientale degli Stati Uniti. La Cina ha acquistato un solo giacimento e sta negoziando per altri pozzi.
Nel frattempo, il presidente Hu JinTao ha trovato nell’Arabia Saudita un altro regime repressivo che vuole prendere le distanze dagli Stati Uniti. Hu Jintao vi si è recato lo scorso gennaio e ci è ritornato questo mese durante il suo viaggio di ritorno dagli Stati Uniti: il commercio di armi e di trasferimenti di tecnologie sono stati gli argomenti principali di discussione. La Cina ottiene circa un ottavo delle sue importazioni dai sauditi, e il commercio si è quasi decuplicato, fino ad arrivare a 14 miliardi di dollari dal 2000.
Come è facile immaginare, l’Iran è il paese della regione del Golfo che più velocemente sta stringendo i legami con la Cina. Ci sono voci, non confermate, che stimano da 70 a 100 miliardi di dollari la somma che Hu Jintao si è impegnato di spendere per lo sviluppo di un immenso bacino petrolifero in Iran; un quinto della somma, circa 20 miliardi di dollari, servirebbe per l’acquisto di gas naturale allo stato liquido per i prossimi venticinque anni. Zhou afferma che una compagnia cinese sta ampliando la linea della metropolitane di Teheran, un’altra sta dotando la rete urbana di fibre ottiche ed altre stanno costruendo fabbriche automobilistiche ed elettroniche. Non ci vorrà molto tempo prima che l’Iran diventi la più grossa fornitrice di petrolio cinese: e ciò significherebbe contrapporre i suoi interessi politici ed economici a quelli dei politici e dei consumatori degli Stati Uniti.
I nostri vicini e i loro
Possiamo infine concludere con le repubbliche dell’Asia centrale, una volta appartenenti all’Unione Sovietica, tutte situate a ridosso della Cina. Da qui, partono giornalmente in direzione Cina circa 500.000 barili di petrolio, attraverso oleodotti e petroliere. Questo è stato un grande aiuto ai “commissari del popolo” del Kazakistan, il cui PIL ha raggiunto i 56 miliardi di dollari grazie allo sviluppo dei suoi bacini ricchi di energia tramite le esplorazioni statunitensi, europee e russe. Il paese confina da un lato con l’enorme provincia cinese dello Xinjian, e si sta sviluppando velocemente per incrementare il commercio da entrambe le parti, non soltanto quello riguardante petrolio e gas ma anche cemento e manufatti.
In ogni modo, i cinesi non hanno lasciato i paesi democratici fuori dalla lista dei possibili acquirenti. Un paio di anni fa, la Cina ha acquistato una grossa quota di partecipazione della grande miniera canadese Noranda, e ha dozzine di rapporti d’affari con i singoli produttori di petrolio, gas e carbone delle regioni di Alberta e Saskatchewan. Come dire, niente è lasciato al caso; nello stesso palazzo dove si trova il mio ufficio a Seattle, uno speculatore ha aiutato degli imprenditori cinesi ad acquistare privatamente partecipazioni su miniere di carbone, oro e argento.
Per i distaccati investitori statunitensi, la cosa più ovvia da fare è semplicemente aggregarsi, prendendo posizione tra le compagnie nazionali ed internazionali che riforniscono il colosso cinese: siano esse la canadese Falconbridge (metallo), un produttore di energia turco come la Toreador Resources in Texas, un produttore di petrolio e gas venezuelano come Harvest Natural Resources oppure come le due grosse compagnie energetiche cinesi, la Cnooc o la China Petroleum & Chemical.
Il consumatori non possono far molto, a parte indignarsi e, al massimo, limitare il proprio consumo del combustibile fossile. La Cina non ha nessun incentivo per sottomettersi alla richiesta degli Stati Uniti di esigere un cambiamento dei regimi repressivi dei suoi partner commerciali. E i politici non sono inclini a far posto a regole che limitino la partecipazione statunitense a quella sorta di mediazione corrotta e per mezzo di armi che sembra essere indispensabile quando si fanno affari nella zona equatoriale, luogo dove si sta scoprendo la maggior parte delle nuove fonti energetiche.
E così, siamo di fronte a un solito caso di “se non li puoi battere, fatteli amici”. Stringere la mano alla Cina se si deve ma continuare comunque ad acquistare miniere e a trivellare il fondo marino in questo mercato al rialzo per accaparrarsi le materie prime, a vendere SUV (Sport Utility Veichles, NdT), a traslocare vicino all’ufficio, ad installare pannelli solari e a far pace con l’energia nucleare.
Jon D. Markman è direttore del notiziario di investimento indipendente 'The Daily Advantage' e scrive settimanalmente per CNBC su MSN Money, i cui articoli vengono ripubblicati su TheStreet.com.
 

Fonte:  http://www.thestreet.com/_tsclsii/comment/investing/10281893.htmlong
Traduzione a cura di Simona Casadei per Nuovi Mondi Media

 
 

 

 

 

 

  Mercoledì  7   giugno 2006   Venerdì  9 giugno 2006   Giovedì  22   giugno 2006  
       
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   Wall Street: le previsioni dei guru

01 Giugno 2006 6:23 Milano - di La Lettera Finanziaria

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Gli strategisti più bravi di Wall Street, Francois Trahan di Bear, Stearns & Co., e Abhijit Chakrabortti di Jp Morgan, sono anche i più ribassisti circa le prospettive delle borse statunitensi.
Trahan, primo nella classifica dei migliori strategisti Usa compilata per l'anno scorso da Institutional Investor, ha tagliato dell'11% la propria previsione per il 2006 dell'indice Standard & Poor's 500, abbassandola a 1.200, appena sopra i 1.190 stimati da Chakrabortti, pronostico più basso fra quelli dei 14 strategisti interpellati da Bloomberg.

Chakrabortti è stato indicato come il migliore analista per i mercati mondiali negli ultimi due sondaggi di Institutional Investor. "E' da un po' ormai che la performance dei mercati azionari mi preoccupa", ha dichiarato venerdì scorso il 37enne Trahan a Bloomberg News, in un'intervista a New York. Secondo Trahan, la frenata è "legata al rallentamento della crescita economica".
Se i due strategisti hanno ragione, l'indice S&P 500 potrebbe chiudere l'anno con una perdita del 4,7%. La ritirata dell'indice, rispetto al massimo degli ultimi cinque anni raggiunto questo mese, è vicina a vanificare il rialzo messo a segno nel 2006, in una fase in cui cresce la preoccupazione degli investitori circa l'accelerazione dell'inflazione e il rallentamento della crescita economica.

Gli utili delle aziende dell'indice S&P 500 sono saliti del 14% nel primo trimestre, secondo Thomson Financial. Si tratta dell'11esimo trimestre consecutivo di espansione superiore al 10 percento ed il secondo periodo rialzista più lungo dal 1950. Secondo Chakrabortti, 38 anni, l'economia non ha più il vigore sufficiente per sostenere un aumento record degli utili e prevede che l'espansione dei profitti rallenterà "virtualmente a zero" entro la fine dell'anno. "L'economia e gli utili perderanno d'impeto e contemporaneamente l'inflazione accelererà" ha detto lo strategist di Jp Morgan.


 

Fonte - La Lettera Finanziaria

 

 

 

   Un orso che non deve far paura

5 Giugno 2006 0:05 Milano  - di Borsa & Finanza

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Fino all’11 maggio scorso il mercato azionario Usa sembrava il migliore dei mondi possibili, con il Dow Jones in salita dell’8,9% da inizio anno e il Russell 2000 (indice delle società a bassa capitalizzazione) in aumento del 15 per cento. Poi, in due difficili settimane, i titoli hanno ceduto gran parte dei loro guadagni. Il Dow ha perso più di 500 punti (-4,6%) e il Russell 2000 ben di più (-8,3%). Entrambi gli indici hanno poi ripreso fiato la scorsa settimana, mentre negli ultimi giorni le cose hanno di nuovo preso una brutta piega. Il risultato è che sia gli ottimisti che i pessimisti si stanno ponendo due importanti domande: questo spiacevole mese di maggio è da considerarsi l’inizio di un trend ribassista, dopo tre anni e mezzo di guadagni? Considerando la brusca caduta del Russell 2000, è arrivata l’ora di abbandonare i titoli delle piccole società?

Dal mio punto di vista la risposta è negativa a entrambe le domande. Ned Davis Research, istituto che ha sede in Florida, conserva eccellenti statistiche sulle correzioni e sui ribassi dei mercati. La società ha reso noto che correzioni del 5% o poco più del Dow Jones si sono verificate 355 volte dal 1900, in media 3,3 volte l’anno. Soltanto 31 volte tali correzioni sono peggiorate, trasformandosi in crolli di oltre 20 punti percentuali. Un trend ribassista si verifica, quindi, una volta ogni tre anni. In pratica, più del 90% delle correzioni non diventano un mercato Orso. Ned Davis Research ha condotto un’analisi simile sul Russell 2000 a partire dal 1979. L’indice delle piccole azioni ha realizzato 74 correzioni del valore del 5% o poco più, e nove veri e propri ribassi di mercato. La frequenza di correzioni e ribassi è quindi all’incirca pari a quella del Dow Jones. Se il ribasso di maggio fosse finito, non sarebbe dunque altro che una flessione «standard». È ciò che penso, e dirò il perché.

I profitti d’impresa sono in buona salute e nel primo trimestre 2006 il pil Usa è cresciuto del 3,6% annuo. I tassi, sebbene cresciuti, non sono alti per gli standard storici. Solo se il declino dovesse riprendere, e peggiorare, trascinando il Dow e il Russell al di sotto del 10% dai picchi del 10 maggio, il passato ci dice che la possibilità di vedere un prolungato ribasso sarebbe del 50 per cento.


 

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza
 

 

 

 

 

 

MERCATI EMERGENTI: MAGGIORE CALO DI OLTRE 3 ANNI

31 Maggio 2006 18:08 NEW YORK

Nel mese di maggio, i titoli azionari dei mercati emergenti hanno registrato la peggiore performance degli ultimi tre anni e mezzo. La causa principale e’ da ricercare nelle prospettive di alti tassi d’interesse unite ad un calo accentuato dei prezzi delle commodities, che hanno spinto gli investitori ad uscire dai mercati dell’area Bric (India e Russia in particolare).
Il Morgan Stanley Capital International Emerging Markets Index, che e’ costituito dalle azioni di 26 Paesi in via di sviluppo a livello globale, ha registrato una performance negativa del 10% nell’ultimo mese. Ed e’ precisamente in calo del 14% dai massimi storici segnati lo scorso 8 maggio.
L’ultimo calo di tali dimensioni risale al mese di settembre 2002 (-11%), quando il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, aveva annunciato, in un intervento alle Nazioni Unite, la futura invasione dell’Iraq.

Il Sensex, un indicatore utilizzato per descrivere l’andamento dei titoli azionari indiani, e’ in ribasso del 18% dai massimi del 10 maggio e del 12% dall’inizio del mese. Il ministro del commercio indiano, Kamal Nath, ha rassicurato sulla situazione, affermando che si tratta di una semplice correzione e che non c’e’ niente di cui preoccuparsi poiche’ l’economia del Paese continua a procedere sui binari giusti.
Nell’ultimo incontro del Fomc, la Banca Centrale Americana ha alzato il costo del denaro per la sedicesima volta consecutiva, portandolo al 16%, lasciando aperte le porte a futuri rialzi. Gli economisti danno per scontato un aumento dei tassi d’interesse anche da parte della BCE, che potrebbe portarli al 2.75% nel meeting che si terra’ il prossimo 8 giugno. Ed anche la Banca del Giappone potrebbe optare per un rialzo dei tassi nell’incontro di luglio, dopo oltre cinque anni.
Oltre alle prospettive di politica monetaria restrittiva, che potrebbero provocare un rallentamento generale dell’economia, a determinare tale situazione e’ stato, come accennato poco sopra, anche il brusco calo dei prezzi delle commodities. Nella settimana conclusasi lo scorso 19 maggio, il Reuters/Jefferies CRB Futures Price Index, un paniere composto da 19 beni, ha registrato la maggiore perdita settimanale degli ultimi 25 anni.


Fonte: Bloomberg.com

 
 

 

America Latina: Il Sud America fa marcia indietro

 Michela Muscio - 2006-06-01

Il rialzo dei tassi americani e il possibile proseguimento della politica restrittiva della Fed fanno crollare le Borse dell’area. Ai ribassi contribuisce il temporaneo calo delle materie prime, chiave delle esportazioni sudamericane. Aumentano gli alleati di Chavez nella lotta contro Stati Uniti e Europa sulle concessioni petrolifere. Non ha risparmiato l’America Latina la correzione dell’ultimo mese che ha investito i mercati finanziari a livello globale. L’indice dell’area, l’Msci Emerging Market Latin America, è retrocesso del 15,6% negli ultimi trenta giorni, e ha azzerato i guadagni da inizio anno. Nel dettaglio, il Bovespa, l’indice brasiliano, e la Borsa del Messico hanno lasciato sul terreno l’11%. Non è andata meglio all’Argentina, che ha perso il 13,4%.

Le preoccupazioni legate ai rialzi del costo del denaro americano, insieme al temporaneo calo dei prezzi delle materie prime, di cui i Paesi sudamericani sono i maggiori esportatori, sono la principale ragione del crollo delle Borse.

La decisione del 10 maggio di innalzare nuovamente i tassi di interesse dal 4,75% al 5% da parte della Federal Reserve, che ha lasciato la porta aperta a ulteriori incrementi, ha reso i mercati emergenti meno attraenti agli occhi degli investitori. La riduzione degli spread (differenziali) tra i tassi statunitensi e quelli sudamericani, insieme al recente aumento dei rendimenti dei Treasury, ha aumentato le probabilità di un possibile allontanamento degli investitori dall’area emergente, a favore di mercati finanziari che presentano elevanti rendimenti a fronte di un minor rischio di default.

Anche le valute dell’area sudamericana hanno risentito del proseguimento della stretta monetaria da parte dell’istituto centrale americano. E’ stato messo sotto pressione in particolare il real, la moneta brasiliana, che, dopo aver toccato i massimi da cinque anni a inizio maggio, si è indebolito contro il biglietto verde, arrivando a 2.308 per dollaro, il livello più basso dal 20 gennaio 2006. I più alti rendimenti offerti dai titoli obbligazionari americani, l’intervento più aggressivo da parte della Banca centrale brasiliana sul mercato spot con l’obiettivo di creare riserve e favorire le esportazioni e i possibili cambiamenti nelle regole di rimpatrio dei profitti hanno contribuito alla discesa della valuta. Il mercato si attende che la Banca centrale di San Paolo continui la manovra di politica monetaria espansiva, tagliando i tassi di interesse nella prossima riunione dal 15,75% al 15,25% per stimolare l’economia. Questa è cresciuta dell’1,4% nel primo trimestre del 2006, mentre è salito del 3,4% il Prodotto interno lordo (Pil) nell’ultimo anno.

Sono più solidi i dati congiunturali in Messico dove il Pil è cresciuto del 5,5% nei primi tre mesi del 2006. Segnali confortanti provengono anche dal fronte dell’inflazione, con i prezzi al consumo che sono saliti dello 0,15% ad aprile, percentuale inferiore alle attese degli analisti. Il basso livello del costo della vita ha spinto l’istituto centrale messicano a tagliare i tassi per nove volte consecutive nei mesi scorsi, favorendo i consumi e la produzione. Per quanto riguarda il debito pubblico Merrill Lynch ha innalzato il giudizio da underweight a market weight, raccomandando i bond a lunga scadenza.

 Nell’ultimo mese però il nervosismo legato alle elezioni presidenziali del 2 luglio ha contagiato il mercato finanziario, in quanto i due candidati, Felipe Calderon e Andres Manuel Lopez Obrador, sono in parità secondo i sondaggi.

 La crescita è in atto anche in Venezuela dove il Pil è salito del 9,6% nel primo trimestre dell’anno. Il presidente Hugo Chavez è al centro del conflitto sulle concessioni petrolifere tra governi sudamericani e compagnie europee e statunitensi. Sulla linea di Chavez si sono mossi altri Paesi, tra cui la Bolivia, dove Evo Morales ha nazionalizzato le risorse energetiche poche settimane fa, e l’Equador che ha deciso di revocare il contratto alla statunitense Occidental Petroleum per attribuire la concessione ad una compagnia latino-americana.

 E’ ottimista sul Sud America Dean Newman, analista di Invesco che ritiene che “la quota di quest’area sul Pil globale crescerà data la sua popolazione giovane e in espansione”. Gli esperti della società nel rapporto “Risk & Reward” affermano però che è necessario un certo grado di cautela perché esistono alcuni rischi esterni tra cui la riduzione della liquidità nel sistema finanziario globale, una crisi inflazionistica e una politica monetaria statunitense troppo severa.

 

Fonte - Morningstar Italia

 

 

Est Europa: In fuga dagli emergenti

 MariaGrazia Briganti - 2006-06-15

Dopo tre anni di rally, il giro di vite sulla liquidità da parte delle Banche centrali e l’aumento dei rendimenti sui bond americani hanno allontanato gli investitori dai mercati dell’Europa dell’Est. Le vendite hanno penalizzato gli indici e i settori che avevano corso di più e nel medio periodo le previsioni restano incerte.

È di oltre il 24% il calo dell’Msci Eastern Europe NDTR nel corso dell’ultimo mese. La profonda correzione che sta penalizzando i principali mercati dell’area ha bruciato i guadagni realizzati nel 2006 e da inizio anno l’indice è in territorio negativo per il 3,6%. L’aumento dei tassi di interesse in Europa e la prossima stretta monetaria prevista negli Usa alla fine di giugno hanno indotto gli investitori internazionali a prendere profitto sulle Borse dell’Est, chiudendo le posizioni su investimenti che diventano meno vantaggiosi rispetto ai tassi americani e liberandosi degli asset più volatili come le monete emergenti.

 La più colpita è la Borsa di Istanbul, dove l’ISE (al 14 giugno) ha perso oltre il 26%. In un clima di generale volatilità, a penalizzare il listino sono stati soprattutto i timori economici e le difficoltà di carattere politico, sfociati nel forte deprezzamento della lira turca.  Sebbene la Turchia prosegua il suo trend positivo, con l’indebitamento estero in flessione sul Prodotto Interno Lordo, la povertà, le disparità di reddito e il mercato irregolare mettono sotto pressione il Governo e la sua politica. E non poche perplessità generano negli osservatori europei gli ancora frequenti episodi di estremo nazionalismo e fondamentalismo islamico che minano le basi del processo di convergenza del Paese.

 Pesante è stato anche il crollo della Borsa di Mosca. L’indice RTS ha perso più del 25% nell’ultimo mese, con un calo del 10% nella sola seduta del 13 giugno. Lukoil, Gazprom e Norilsk Nickel sono state le più penalizzate a causa del raffreddamento nei prezzi delle materie prime che ne avevano sostenuto i prezzi nei mesi passati e sono state spesso oggetto di movimenti speculativi.  In negativo anche l’indice della Borsa di Praga, il PX, e quello dei primi 20 titoli del listino polacco, il Wig 20, entrambi in flessione del 20% nell’ultimo mese (al 13 giugno). Mentre si sono difese le società a piccola e media capitalizzazione, che hanno limitato le perdite a poco meno del 15%, sulla Borsa di Varsavia hanno sofferto i colossi internazionali come Pekao e Bioton.

 L’azienda biotecnologia polacca, in particolare, che conta oggi 500 dipendenti e si trova in un momento di forte espansione verso i mercati esteri emergenti, ha annunciato di voler acquisire le italiane Pharmatex e Fisiopharma per circa 17,5 milioni di euro. Nel frattempo, procede la convergenza verso l’Unione monetaria della Slovenia, che ha ricevuto il via libera come tredicesimo membro nell’eurozona dal gennaio 2007. La Repubblica balcanica è il primo dei paesi ammessi all’Ue nel 2004 a entrare nell’euro. Mentre la Lituania e la Slovacchia, che sembravano i candidati più prossimi, hanno rallentato il passo a seguito di problemi legati al non soddisfacimento dei parametri, primo fra tutti l’inflazione.  L’ampiezza della correzione dopo tre anni di rally, spiegano gli asset manager, si giustifica con il cambiamento del sentiment generale sui mercati, che devono porre più attenzione alle valutazioni raggiunte da alcuni settori e fare i conti con minore livello di liquidità scegliendo investimenti con un più basso livello di rischio.

 Ma se questi timori sono teoricamente fondati, i livelli delle aziende quotate sono ancora sostenibili. Con la correzione di maggio, il rapporto tra prezzi e utili delle società appartenenti all’Msci Eastern Europe oscilla tra l’11 e l’11,5, contro il p/e dell’S&P 500, pari a 17,5, mentre Piazza Affari vale circa 15 volte gli utili.

 

Fonte - Morningstar Italia

 


 

 

 

 

   Azionario: no problem, non cadremo in depressione

9 Giugno 2006 10:12 Roma - di Alessandro Penati

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Dai massimi del 9 maggio tutte le Borse non hanno fatto altro che scendere: -7% Wall Street, -15% Tokyo, -12% l´Europa, -9% Piazza Affari. Per gli investitori, assuefatti alle crescite record degli ultimi tre anni (dal 110% in Europa, al 210% nei mercati emergenti), è un brusco risveglio.
L´indice è puntato verso le banche centrali, che condurrebbero una caccia alle streghe contro l´inflazione, aggravata dalla goffaggine di Bernanke davanti ai microfoni e dall´ambiguità di Jean Claude Trichet. Insensato: le banche centrali stanno solo somministrando una sana dose di realismo a mercati che sognavano a occhi aperti.

L´inflazione, comunque la si misuri, sta accelerando, ovunque nel mondo. Nel primo trimestre, il deflatore del Pil americano (l´indice dei prezzi più ampio possibile) è cresciuto del 3,2%; il costo della vita negli Usa, del 5% da inizio anno. In Europa, a maggio siamo al 2,5%, stabilmente al di sopra del tetto del 2% fissato dalla Bce. La crescita dei prezzi dipende in larga parte dal costo del petrolio e delle materie prime; tolte queste, l´indice cosiddetto "core", non preoccupa. Ma sarebbe sbagliato continuare a considerare l´impennata del prezzo dell´energia un evento straordinario, e quindi componente temporanea da sottrarre dal computo: lo scenario dell´offerta è cambiato in peggio; non esistono margini per aumentare in tempi ragionevoli la capacità di estrazione e raffinazione; e a questo si aggiunge l´insaziabile fame energetica dell´Asia, che ci costringerà a convivere a lungo con un costo del greggio elevato.

Nonostante i rincari di petrolio e materie prime, le imprese sono riuscite ad aumentare i margini di profitti a livelli record, pur senza ritoccare i listini. Non può durare, perché la capacità produttiva inutilizzata, che negli ultimi anni aveva permesso alle economie di espandersi senza inflazione, è stata riassorbita. Gli Usa crescono al di sopra del loro tasso potenziale da almeno tre anni (e la disoccupazione è al minimo storico del 4,6%): se non rallenteranno, gli ulteriori aumenti della domanda si ripercuoteranno sui prezzi alla produzione e sul costo del lavoro. In Giappone la fase decennale di deflazione è terminata. In Europa la ripresa è finalmente solida (+2,3% nel primo trimestre rispetto al precedente). Non siamo a livelli "americani", ma non conta tanto il valore in sé, quanto il tasso potenziale al quale l´economia si può espandere: che, considerati i problemi di sempre (mercato del lavoro, dei servizi e costo del welfare) non è irragionevole ipotizzare intorno al 2%, a metà della forchetta di crescita che la Bce si aspetta per quest´anno e per il prossimo. Qualunque sia il tasso potenziale, il livello dei tassi di interesse deve essere coerente con lo stadio del ciclo economico. Gli Usa, al picco dell´espansione, non corrono il rischio di una recessione se la Fed li alzasse dal 5% al 5,5% per la fine dell´estate. In Europa il rischio è addirittura l´opposto: nonostante l´aumento di ieri, i tassi reali a breve rimangono prossimi allo zero. Troppo poco per un´economia già in crescita avviata; e una concessione troppo generosa alle pressioni dei Governi alle prese con il risanamento delle loro finanze.
La politica monetaria non va valutata solo guardando al livello dei tassi. Oggi nel mondo c´è liquidità in eccesso: basta guardare al premio per il rischio su qualsiasi attività, che rimane vicini ai minimi storici; o al prezzo di immobili e materie prime, a livello da bolla. In Europa poi il credito si espande al 9%, il doppio del reddito nominale.

Gli anni settanta e ottanta hanno insegnato ai banchieri centrali a considerare, più che l´inflazione, le aspettative. Se si guarda ai tassi a lungo termine dei titoli di Stato non si trovano segnali d´allarme. Ma non bisogna illudersi: il passato insegna anche che, quando questi si muovono, è troppo tardi, perché l´inflazione attesa è già aumentata; e diventa allora costosissimo stabilizzare le aspettative. Inoltre, la disperata corsa al rendimento di molti investitori istituzionali sostiene artificiosamente il prezzo del debito pubblico, riducendo il valore segnaletico dei tassi.

L´azione delle banche centrali, dunque, è solo un sano richiamo alla realtà. Non prelude a un mercato orso come quello di sei anni fa; né ci espone al rischio di una recessione da eccesso di restrizione, in stile anni ottanta. La posizione finanziaria delle imprese non è mai stata così solida; e le banche hanno una patrimonializzazione tale da sostenere un´eventuale riduzione del valore degli attivi senza dover contrarre il credito. Ma la festa della liquidità è finita. Dopo la baldoria, non cadremo nella depressione: torneremo alla vita di tutti i giorni. Prima, però, il premio per il rischio nei mercati deve tornare a livelli medi storici: oggi è ancora troppo basso. Qualche investitore rimarrà col mal di testa: ma per questo basterà l´aspirina.
 

Fonte - La Repubblica
 

 

 

 

 

 

GIAPPONE: SCANDALO FINANZIARIO E NIKKEI GIU' DEL 4% 

13 Giugno 2006 19:26 NEW YORK (ANSA)

Il caso Murakami, l'ultimo scandalo finanziario che scuote il Giappone, chiama in causa anche il governatore della Banca centrale nipponica (Boj) Toshihiko Fukui. Il banchiere ha ammesso oggi in audizione al parlamento di aver investito nel 1999 dieci milioni di yen nel fondo guidato dall'arrembante finanziere Yoshiaki Murakami, finito la scorsa settimana in manette con l'accusa di insider trading.
L'ammissione - benché all'epoca Fukui non fosse ancora al timone della Banca centrale ma direttore di un centro economico di ricerca - ha provocato sconcerto sul mercato contribuendo al tonfo del 4,1% registrato oggi dalla piazza di Tokyo, per il maggior calo giornaliero da poco più due anni. Alcuni esponenti dell'opposizione hanno chiesto le dimissioni del governatore che da parte sua respinge ogni accusa, sottolineando di non aver infranto le regole di condotta della Banca ma di aver effettuato un semplice investimento da privato cittadino. "Non era mia intenzione lucrarci - ha detto il governatore - ma semplicemente sostenere i progetti di Murakami".
Il finanziere, ha raccontato il governatore, aveva favorevolmente impressionato i vertici dell'istituto di ricerca economico con i suoi progetti nell'ambito di un nuovo business che mirava oltretutto sostenere una corporate governance più salda e trasparente all'interno delle aziende.
Il governatore ha anche detto di aver chiesto "da diversi mesi" di cedere la partecipazione, che aveva peraltro regolarmente denunciato al fisco, pagando le dovute tasse. A difesa del governatore è sceso in campo lo stesso premier Koizumi osservando di non riscontrare nessuna violazione delle norme etiche stante che l'investimento è stato fatto in tempi antecedenti alla sua nomina al vertice della Banca centrale. Stesse osservazioni sono giunte dai ministri dell'economia e delle finanze. Se il governatore non vacilla, il mercato si attende tuttavia qualche ripercussione sul fronte delle decisioni sui tassi che verranno prese nella riunione della Boj in programma domani.
Sono in molti a ritenere che la Banca, sotto pressione per questa vicenda, potrebbe rinviare quel rialzo del costo del denaro - il primo da oltre sei anni - che era invece largamente atteso per domani. La bufera sul governatore va in ogni caso ad aggiungere altra incertezza su una piazza finanziaria, quale quella giapponese, che sta in fase discendente da diverse settimane. L'indice Nikkei ha lasciato sul terreno il 20% dal 7 aprile scorso.
Allo scivolone hanno certamente contribuito gli scandali finanziari degli ultimi tempi: prima del caso Murakami aveva infatti tenuto banco lo scandalo Livedoor che aveva visto finire in manette, per aggiotaggio e false comunicazioni societarie, tutti i top manager della società numero uno di servizi internet in Giappone, a cominciare dal suo fondatore il 34enne Takafumi Horie, osannato enfant prodige della new economy nel Sol Levante.

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

   Risorse Naturali: L’oro giallo e quello nero brillano meno

Sara Silano 2006-06-21 Milano


Nell’ultimo mese, i prezzi delle materie prime sono scesi, trascinando al ribasso i titoli del settore. Ma l’industria è in fermento, tra progetti di fusione, alleanze e debutti in Borsa. L’Italia non fa eccezione.
Petrolio e materie prime hanno perso quota nell’ultimo mese, trascinando al ribasso i titoli del settore. L’indice Msci World Materials ha perso il 6,2% e ha annullato i guadagni da inizio anno, girando in negativo (-1% al 20 giugno), mentre l’Msci Energy ha lasciato sul terreno oltre il 4% (-3,7% da gennaio).
Il contratto Wti (West Texas Intermediate, il petrolio statunitense) con scadenza a luglio è calato sotto i 70 dollari al barile al mercato di New York. Sono scesi anche i metalli preziosi e non: l’oro si è portato a 569,75 dollari l’oncia al London metal exchange, l’argento a 9,8 e il rame (base tre mesi) sotto i 7 mila dollari. Molteplici i fattori che hanno determinato il calo, primo fra tutti i timori di un rallentamento dell’economia, in particolare in Cina e negli Stati Uniti. Hanno pesato, inoltre, il recupero del dollaro sul mercato valutario e i riscatti dei fondi d’investimento.

Secondo l’Energy information administration (Eia), l’agenzia statistica del Dipartimento dell’Energia statunitense, gli elevati prezzi del petrolio determineranno un freno ai consumi, ma nel lungo periodo la domanda mondiale è destinata a salire. L’ente stima una crescita del 37% entro il 2030, dagli attuali 86 a 118 milioni di barili al giorno, che è da attribuire soprattutto ai Paesi emergenti. Gran parte dei consumi saranno legati ai trasporti a causa della scarsità di fonti alternative.

Oltre alle dinamiche della domanda e dell’offerta, il prezzo del greggio è influenzato dagli avvenimenti geopolitici. L’annuncio dell’uccisione del leader di al-Qaida, Abu Musab al-Zarqawi, ha contribuito alla discesa delle quotazioni, mentre le tensioni tra Iran e occidente sul programma nucleare di Teheran e la delicata situazione in Venezuela e Nigeria hanno alimentato la volatilità.

L’andamento dei titoli petroliferi e delle materie prime non è stato influenzato solo dalle quotazioni dell’oro nero. L’industria è in fermento, in modo particolare in Russia. Gazprom, colosso del gas, è in trattativa per comprare il 20% di Sibneft dalla Yukos che è sull’orlo della bancarotta in seguito all’inchiesta per evasione fiscale, mentre un altro big dell’ex Unione sovietica, Rosneft si prepara al debutto alle Borse di Mosca e Londra a metà luglio. Nel settore siderurgico europeo, è sempre più intensa la battaglia per la conquista di Arcelor. Dopo il tentativo di scalata ostile da parte degli indiani di Mittal Steel, il gruppo franco-lussemburghese ha messo a punto un progetto di fusione con la rivale russa Severstal. Intanto, è diventato primo azionista di Arcelor il finanziere Romain Zaleski, che ha annunciato nuovi possibili acquisti di titoli. La partita, dunque, resta aperta.

L’ultimo è stato un mese movimentato anche in Italia. Il vertice tra il presidente russo, Vladimir Putin e il presidente del consiglio italiano, Romano Prodi, ha portato a un’intesa sul gas, che apre la strada alla collaborazione tra Eni e Gazprom. Nello stesso settore, hanno deciso di dare origine a una joint venture, la Camfin di Marco Tronchetti Provera e Gaz de France, presieduta da Jean-Francois Cirelli. La nuova realtà diventerà il quarto operatore del gas nel nostro Paese con oltre 800 mila clienti.

La volatilità dei listini ha fermato la quotazione a Piazza Affari di Api (Anonima petroli italiana), mentre Saras, che ha debuttato il 18 maggio, resta sotto il prezzo di collocamento fissato a 6 euro, nonostante il numero uno dell’azienda, Gianmarco Moratti abbia confermato la strategia di sviluppo e la possibilità di investimenti nelle reti di distribuzione.

Sull’industria dell’energia hanno acceso i fari le Autorità di vigilanza. L’Antitrust ha comminato una multa di 315,43 milioni di euro a sei compagnie petrolifere (Eni, Esso, Q8, Shell, Shell Italia Aviazione, Tamoil e Total ) con l’accusa di aver costituito un cartello per i rifornimenti di carburanti aeroportuali, che ha impedito l’ingresso di nuovi operatori. L’Autorità per l’energia e il gas, invece, da tempo fa pressioni perché si crei una maggior concorrenza nel settore della distribuzione e dello stoccaggio, partendo dalla cessione di Snam Rete Gas e Stogit da parte dell’Eni. Ma per il presidente del Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, una simile operazione comprometterebbe la leadership del gruppo italiano a favore dei concorrenti europei.


 

Fonte - Morningstar Italia

 

 

 

   Estate di incognite per i bond

Martedì 27/06/2006 - di MiaEconomia

Estate ricca di incognite per il popolo del bond people. Da una parte c’è infatti l’attesa per le decisione della Fed e della Banca centrale europea sui tassi di sconto, dall’altra invece si fanno sempre più fitte e credibili le voci che danno i due colossi americani dell’auto, Gm e Ford, sull’orlo del baratro.

Con ordine. La questione dei tassi è ormai all’ordine del giorno da mesi. E se sulla sponda americana i pronostici dei ben informati parlano di un imminente ritocco al 5,25% che potrebbe però essere l’ultimo, nel vecchio continente si potrebbe passare entro fine anno dal 2,75% addirittura fino al 3,5%.
Questo cosa significa? Evidentemente a un rialzo dei rendimenti corrisponderebbe un ribasso dei prezzi e questo vorrebbe dire pericolo soprattutto per chi va ad acquistare titoli a lunga scadenza.
Quindi è consigliabile acquistare i titoli a cedola fissa di lunga durata magari in modo graduale e diversificando il più possibile il proprio portafoglio obbligazionario.


Da qui all’autunno, quindi, regnerà, l’incertezza. Meglio restare cauti. Motivi di prudenza che non mancano neanche sul mercato dei corporate bond. Sale infatti la tensione per il possibile default dei due colossi dell’auto a stelle e strisce.
General Motors e Ford sono infatti sull’orlo di un burrone e l’eventuale default con la montagna di obbligazioni emesse e non rimborsate potrebbe provocare un effetto a catena su tutto il mercato obbligazionario.
Downgrading a parte delle agenzie di rating un dato su tutti può rendere l’idea della situazione in cui versano le due aziende americane.

Il recente lancio del maxi-prestito obbligazionario da 2,5 miliardi di dollari ha portato infatti al rendimento più alto della storia della Ford. Intorno al 10,6 per cento. In pratica la casa di Detroit starebbe rinegoziando i titoli in scadenza ad ottobre con nuove obbligazioni che allungano la scadenza e migliorano anche i rendimenti offerti ai sottoscrittori.
Ford ha 60 miliardi di dollari di obbligazioni in scadenza in questi anni. Ed è quindi costretta a rinegoziare o a emettere nuovi bond a rendimenti molto alti. Un brutto segnale che non lascia sicuramente i mercati tranquilli.

 

Fonte - MiaEconomia.it