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Lunedì 5 giugno 2006 |
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Venerdì 9 giugno 2006 |
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Giovedì 30
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Ma che fa
l'America con l'Iran?
4 Giugno 2006 13:00 Milano
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Qual è
il piano americano sulla minaccia nucleare iraniana? La prima cosa da
capire è se effettivamente un piano ci sia, oppure se a Washington vada in scena
il solito balletto tra falchi e colombe, con i primi pronti ad agitare il
bastone e i secondi a offrire la carota.
Si tratterebbe, in questo caso, di una non politica, di un modo di far
trascorrere tempo senza riuscire a mettere in pratica una vera, lineare e
riconoscibile strategia per fermare i turbanti atomici. C’è chi sostiene che il
metodo di Condoleezza Rice sia proprio questo, quello di mediare tra le varie
posizioni all’interno dell’Amministrazione, oltre che tra gli alleati.
Le ultime mosse di Washington sull’Iran
appaiono aperturiste rispetto ai precedenti toni più decisi e ai primi tentativi
di provocare un cambio di regime finanziando le opposizioni, i sindacati e la
propaganda anti mullah. L’ultima proposta è di giovedì sera, quando i cinque
paesi del Consiglio di sicurezza più la Germania (sempre assente l’Italia, sia
che a governare ci sia la destra sia che ci sia la sinistra) hanno offerto a
Teheran un pacchetto di incentivi in cambio della rinuncia ad arricchire
l’uranio.
Non importa se gli iraniani abbiano già declinato l’offerta, né se la proposta
contenga già l’adesione russa e cinese a una serie di sanzioni in caso di
rifiuto. Ciò che importa è capire se stiamo assistendo alla fine della dottrina
Bush – secondo la quale con i dittatori non si deve trattare mai – oppure se
Washington stia provando a replicare con l’Iran la politica del “tavolo a sei”
già adottata con la Corea del Nord, cioè investire direttamente le grandi
potenze mondiali della responsabilità di affrontare la minaccia iraniana.
Ma c’è
un’altra ipotesi. Questa: la Casa Bianca sa che Teheran rifiuterà qualsiasi
richiesta di fermare la corsa al nucleare, sicché per convincere gli alleati a
prendere misure drastiche deve dimostrare di aver cercato in tutti i modi una
soluzione negoziale con i mullah. L’unica ipotesi al momento in campo è
quella delle sanzioni economiche, che avrebbero forti ripercussioni sui paesi
europei sia per l’aumento del prezzo del petrolio sia perché a differenza degli
Stati Uniti continuano ad avere saldi rapporti commerciali con l’Iran.
Un anno e mezzo fa era successa la stessa
cosa. Washington aveva improvvisamente dato il suo benestare alle trattative
della troika europea con Teheran. In questo modo pensava che gli europei si
sarebbero convinti della volontà iraniana di non fermare l’arricchimento
dell’uranio. In parte Bush c’è riuscito, ma più grazie alle follie di
Ahmadinejad che a causa di una reale presa di coscienza degli alleati.
Quest’ultimo tentativo è rischioso perché concede ulteriore tempo agli ayatollah
e non è detto che, una volta rifiutata l’offerta, gli alleati saranno convinti
delle chiare, palesi ed evidenti intenzioni iraniane.

Fonte - Il
Foglio
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Iran: non fermeremo l'arricchimento |
Venerdì 2 Giugno 2006,
14:39 |
Teheran, 2
giu . 14,39 - (Adnkronos) - Teheran non cede alle pressioni della
comunita' internazionale. ''L'Iran e' determinato ad andare avanti con
il suo lavoro di arricchimento dell'uranio a scopi pacifici - ha detto
il vice capo dell'Organizzazione per l'energia atomica iraniana,
Mohammad Saeedi, citato dall'agenzia di stampa Isna - La nazione
iraniana non ci rinuncera'''.
Fonte
ADNKronos - 2 giugno 2006
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Iran: Rice, Iran non ha molto tempo per
rispondere |
Venerdì 2 Giugno 2006,
14:50 |
Vienna, 2 giu . 14,50 -
(Adnkronos) - E' arrivato ''il momento della verita''' per l'Iran, che
non ha molto tempo per rispondere all'offerta dei '5+1' per un pacchetto
di incentivi economici in cambio della sospensione delle attivita' di
arricchimento e riprocessamento dell'uranio. A rilanciare l'avvertimento
a Teheran perche' colga l'ultima occasione di risolvere la crisi sul suo
programma nucleare, prima che la parola passi al Consiglio di Sicurezza
delle Nazioni Unite, e' stato il segretario di Stato Condoleezza Rice,
parlando alla televisione Nbc: ''(La risposta) deve veramente arrivare
entro settimane''.
Fonte
ADNKronos - 2 giugno 2006
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TERRORISMO: GLI AMERICANI HANNO
UCCISO
8 Giugno 2006 9:27 WASHINGTON (ANSA)
Un attacco aereo Usa su una casa di Baghdad ha ucciso il capo di al
Qaida in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, secondo la televisione Usa Abc.
Anche la televisione irachena Iraqia, citando il premier Nuri al-Maliki,
ha detto che Abu Musab al-Zarqawi e' stato ucciso.
'Abbiamo eliminato Zarqawi', ha detto il primo ministro iracheno Nuri al
Maliki alla conferenza stampa a Baghdad. L'operazione e' il risultato
della collaborazione dei cittadini, ha detto il primo ministro iracheno,
ringraziando la popolazione e le forze armate. Il comandante supremo
americano in Iraq, il generale George Casey, ha detto in conferenza
stampa che Abu Musab al-Zarqawi e' stato identificato con le impronte
digitali. Lieve riduzione delle perdite negli indici guida dei listini
in Europa sulle prime notizie circa l'uccisione di Al Zarqawi, il numero
uno di Al Qaida in Iraq ma poi i listini tornano in pesante ribasso.
Ecco l'andamento delle principali Borse europee: Londra -1,84%; Parigi
-2,36%; Francoforte -2,07; Milano -1,55%; Madrid -1,77%; Amsterdam
-2,03%; Stoccolma -2,57%; Zurigo -1,84%.
Fonte ANSA - 08 giugno
2006
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Al
Qaida conferma morte di Zarqawi
Martedì 08 Giugno
Tv Egitto, gruppo terroristico promette ancora
sangue
(ANSA)-IL CAIRO, 8 GIU- La rete terroristica di al Qaida ha confermato
la morte di Zarqawi.Lo annuncia la Tv di stato egiziana, citando il sito
Internet al Hisbah. Nel comunicato in cui conferma la morte del suo
numero uno in Iraq Al Qaida promette che 'continuera' a combattere''.
Nel raid aereo che ha colpito il nascondiglio di Zarqawi a Baquba, a
nord di Baghdad, e' rimasto ucciso anche 'uno dei suoi principali
luogotenenti, il consigliere spirituale Sheikh Abd-Al-Rahman', ha
riferito il generale Usa Casey.
Fonte ANSA - 08 giugno 2006
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Petrolio in calo su morte Zarqawi
Martedì 08 Giugno
(ANSA) - ROMA, 8 GIU - Petrolio in calo, con le quotazioni scese sotto i
70 dollari, dopo la notizia dell'uccisione del leader di al Qaida Abu
Musab al Zaeqawi. Il greggio con consegna a luglio viene trattato sul
mercato di New York a 69,54 dollari al barile, in calo di 1,28 dollari
(-1,8%). In ribasso anche il Brent, il petrolio di riferimento europeo,
scambiato a 68,47 dollari al barile, 72 centesimi in meno rispetto alle
quotazioni precedenti.
Fonte ANSA - 08 giugno 2006
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Iran:
negoziati senza minacce
Martedì 08 Giugno
(ANSA) -TEHERAN, 8 GIU- L'Iran 'non negoziera' mai' sul tipo di
tecnologia nucleare che intende utilizzare. Lo ha detto il presidente
iraniano, Ahmadinejad.In un discorso trasmesso dalla tv, Ahmadinejad ha
detto di voler negoziare 'sulle preoccupazioni reciproche per chiarire
le incomprensioni in ambito internazionale, ma noi non negozieremo mai
sul tipo di tecnologia nucleare che vogliamo utilizzare'. Il leader
iraniano ha aggiunto che qualsiasi negoziato deve svolgersi in una
atmosfera distesa, senza minacce.
Fonte ANSA - 08 giugno 2006 |
Al
Qaeda in Iraq minaccia attentati su larga scala
Domenica 11 Giugno 11:34
DUBAI (Reuters) - Al Qaeda in Iraq ha minacciato oggi di
condurre attentati su larga scala che "scuoteranno il nemico" dopo
l'uccisione del suo leader Abu Musab al-Zarqawi, ma non ha nominato un
successore.
Il gruppo, in un comunicato diffuso su Internet, ha detto che i suoi vertici
hanno tenuto un incontro dopo la morte di Zarqawi mercoledì scorso, per
discutere la strategia e rinnovare l'impegno verso il leader di al Qaeda
Osama bin Laden.
"Abbiamo in programma operazioni su larga scala che scuoteranno il nemico e
gli toglieranno il sonno, in coordinamento con altre fazioni del Consiglio
dei Mujahideen", dice il comunicato pubblicato su un sito Web usato spesso
da militanti islamici.
"Rinnoviamo l'alleanza con il leader di al Qaeda, Osama bin Laden, che Dio
lo protegga, e se Dio vuole, egli sarà soddisfatto delle azioni dei suoi
soldati in Iraq," si legge nel comunicato, la cui autenticità non è stata
verificata.
Bin Laden aveva scelto Zarqawi come proprio vice in Iraq.
Il militante giordano è stato ucciso dopo che aerei Usa hanno bombardato il
suo rifugio in un villaggio a nord di Baghdad.
Dopo la sua morte, al Qaeda ha promesso di continuare a combattere
l'occupazione Usa e il governo iracheno in un comunicato firmato dal vice di
Zarqawi, Abu Abdulrahman al-Iraqi.
A gennaio, al Qaeda in Iraq e altri gruppi militanti hanno creato un unico
organismo -- il Consiglio dei Mujahideen -- per coordinare le loro
operazioni.
Fonte
REUTERS - 11 giugno 2006
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Nei
rapporti con Mosca, Europa e USA hanno interessi diversi
25 Giugno 2006 19:41 ROMA - di Sergio
Romano
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Nelle
scorse settimane i russi hanno letto il discorso con cui il Vicepresidente
americano Richard Cheney ha duramente attaccato il loro Paese e hanno appreso,
qualche giorno dopo, che gli Stati Uniti intendono installare in Europa una base
di missili antimissili, simili a quelli che hanno già collocato nelle estreme
provincie settentrionali del continente americano. Ma ciò che li ha
maggiormente colpiti sono due circostanze, a cui i commentatori occidentali
hanno prestato generalmente scarsa attenzione.
Il discorso è stato pronunciato a Vilnius, capitale della Lituania, un tempo
Repubblica federata dell’Unione Sovietica. E i missili, secondo notizie di
stampa, sarebbero installati in Polonia, un Paese che ha fatto parte per più di
cinquant’anni del blocco sovietico e che la Russia ha spesso trattato con un
combinazione di paura, diffidenza e arroganza. Se un discorso antirusso viene
pronunciato a Vilnius e una base antimissilistica è installata in Polonia, i due
avvenimenti, visti da Mosca e Pietroburgo, assumono i caratteri della
provocazione.
È probabile che durante le settimane successive le quotazioni di Putin, nel
giudizio dei suoi connazionali, siano considerevolmente salite. Ed è possibile
che queste considerazioni abbiano agli occhi degli americani una modesta
importanza. Ma credo che i Paesi dell’Unione Europea, invece, abbiano interesse
a chiedersi se le molte critiche mosse alla Russia negli ultimi anni (dalle
rivoluzioni di Tbilisi e Kiev alla stretta energetica dello scorso inverno) non
siano il risultato di una singolare ignoranza.
Abbiamo legittimamente criticato il Governo russo per il suo stile autoritario,
per il suo spregiudicato uso della magistratura contro i dissidenti e gli
oligarchi, per certi aspetti della sua politica energetica. Ma non abbiamo fatto
il benché minimo sforzo per cercare di comprendere se dietro questi aspetti
della politica russa non vi siano esigenze e obiettivi di cui è utile essere
consapevoli.
Quando succedette a Boris Eltsin, Putin ereditò uno Stato corrotto, governato
per procura da un drappello di oligarchi che si erano appropriati delle risorse
nazionali, insidiato dalla criminalità, dalle spinte secessioniste di alcune
Repubbliche periferiche e da baroni che governavano le Province come altrettanti
feudi. Non sappiamo quale fondamento abbiano le tesi di Boris Berezhovskij
secondo cui negli attentati ceceni del 1999 vi sarebbe lo zampino dei Servizi di
sicurezza russi, interessati a giustificare in tal modo l’inizio di una nuova
guerra. Ma sappiamo che la Cecenia era divenuta una sorta di Somalia caucasica,
corteggiata dai talebani dell’Afghanistan e utilizzata, per i loro traffici, da
circuiti affaristici e criminali.
I principali obiettivi di Putin, da allora,
sono la rifondazione dello Stato russo e la modernizzazione della sua economia.
Li persegue con mezzi alquanto discutibili, ed è giusto quindi deplorare il
trattamento inflitto a Khordokovskij, il migliore degli uomini d’affari che
hanno creato la loro personale fortuna dopo il collasso dello Stato sovietico.
Ma è bene ricordare che gli oligarchi avevano comprato le aziende statali con il
risparmio dei loro concittadini, pagato interessi irrisori, restituito, grazie
all’inflazione galoppante di quegli anni, una piccola parte del denaro ricevuto,
usato la loro colossale ricchezza per comprare banche e mezzi d’informazione con
cui intendevano influire sul Governo e consolidare il loro potere.
Il modo con cui Putin li ha espropriati dei loro beni ha suscitato critiche
politiche ed economiche, soprattutto fra coloro che credono nelle virtù
dell’economia liberale e del libero mercato. Ma è davvero possibile che il
leader di un Paese semisviluppato possa privarsi della sola risorsa che gli
consente di costruire infrastrutture, rinnovare l’apparato industriale, mitigare
con la creazione di un nuovo Welfare le miserabili condizioni di vita di una
parte della popolazione russa?
Se la Francia non intende rinunciare al
controllo della società Suez e gli spagnoli difendono la loro industria
elettrica contro le ambizioni tedesche, dovrebbe Putin disinteressarsi della
principale risorsa nazionale? Non credo che il leader russo voglia ricattare i
suoi clienti. Ma la Russia non intende limitarsi a recitare la parte del
lattaio, che deposita il suo latte ogni mattina di fronte all’uscio del cliente.
Vuole entrare come protagonista nel mercato dell’energia e partecipare in veste
di azionista alle società che assicurano la distribuzione del gas in Europa.
Vorremmo, ripeto, che Putin agisse con altri mezzi e criteri. Ma non tocca a noi
governare 17 milioni di chilometri quadrati o affrontare i problemi demografici
di un Paese che perde ogni anno 700 mila abitanti. E non tocca a noi tenere
insieme una società multinazionale, circondata da piccoli vicini, spesso
politicamente instabili, dove Washington, in nome della democrazia, è presente
con basi, istruttori militari e finanziamenti a organizzazioni non governative,
che hanno avuto una parte considerevole in alcune elezioni degli scorsi anni.
L’amore della democrazia non ha impedito al
Vice¬presidente Cheney, dopo il discorso di Vilnius, di visitare il Kazachistan,
un Paese dove il Presidente è eletto ormai da parecchi anni con il 90 per cento
dei voti. E non ha impedito al Presidente Bush di ricevere alla Casa Bianca il
Presidente dell’Azerbaigian, figlio ed erede di un esponente della vecchia
nomenklatura sovietica che fu per molti anni l’uomo del Kgb a Bakù.
Un’osservazione conclusiva. L’Unione
Europea ha interessi alquanto diversi da quelli degli Stati Uniti. Dal rapporto
con Mosca dipendono la nostra sicurezza, le nostre forniture energetiche, il
nostro sviluppo economico, una più efficace lotta contro il terrorismo, la
criminalità organizzata e l’immigrazione clandestina. Ma abbiamo mandato
a Mosca, sinora, messaggi contraddittori. Nel dicembre del 2004, all’epoca della
rivoluzione arancione, abbiamo permesso che la politica estera europea fosse
delegata alla Polonia. E più
recentemente abbiamo dato la sensazione di accettare senza battere ciglio che
gli Stati Uniti si servissero del territorio di un membro dell’Unione Europea
(ancora la Polonia) per una iniziativa militare, che i russi considerano, con
qualche ragione, ostile. Mentre la Russia di Putin toglie agli oligarchi
il controllo delle maggiori risorse del Paese, Bruxelles dovrebbe togliere ai
nuovi membri dell’Unione il diritto di fare politica estera con gli americani
dietro le sue spalle.
Fonte -
Affari Esteri
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Giovedì 8
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Borse
sul patibolo delle Banche Centrali
11 Giugno 2006 20:30 Milano
- di Giuseppe Turani
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Da uno
due anni a chi si domandava come mai i mercati azionari continuassero a salire
malgrado una situazione macroeconomica non certo incoraggiante veniva risposto:
c´è un´enorme liquidità da investire, i tassi più di tanto non saliranno, per
cui è in atto uno spostamento dai bond alle azioni che durerà. E molto.
Questa sensazione è stato il maggior propellente dei trentasei mesi di crescita
ininterrotta della maggior parte dei mercati azionari in tutto il mondo. Da
qualche giorno però, improvvisamente, i mercati hanno fatto un violento dietro
front e, solo per citare un dato, hanno mediamente perso in quindici giorni
quello che guadagnavano da cinque mesi. O anche più. E allora la liquidità dove
è finita? Come mai tutto l´entusiasmo
della crescita, tutta la voglia di nuove matricole si sono infranti in un crollo
che va dal 15 al 25% in poche sedute? E questo è vero dal Giappone a Wall
street, incluse Cina e India con i loro miracoli economici.
Cosa è successo realmente? Forse questa
sensazione di enorme liquidità disponibile era un po´ drogata dall´immaginazione
di tanti operatori che, senza far nulla, vedevano i loro portafogli gonfiarsi
giorno dopo giorno, oppure sarà vero che con la progressiva migrazione degli
investimenti verso i mitici hedge fund, verso i prodotti derivati, strutturati,
quelli a capitale (teoricamente) garantito, la liquidità che si vedeva sui
mercati era un multiplo di quella vera? Come tutti sanno infatti tutti quei
prodotti - oggi di gran moda - consentono di prendere rischi molto più elevati
di quanto non si abbia in tasca. Tra
l´altro pare che siano stati proprio gli hedge funds ad aumentare la violenza
dei ribassi di questi giorni dovendosi ricoprire dagli acquisti fatti e che
portavano forti perdite.
Infatti molti hedge fund stanno perdendo molti soldi e tutti coloro che negli
ultimi anni avevano deciso di seguire questa nuova moda sono con le pive nel
sacco. Contemporaneamente, le immense liquidità disponibili del petrolio, dei
russi, degli arabi, dei cinesi e degli indiani hanno subito durissimi colpi. E
anche la massaia di Voghera è più povera di un mese fa. Infatti la fuga dai
fondi di investimento - specie quelli italiani, oltre 11 miliardi di euro in
cinque mesi - è impressionante. Come se
non bastasse, anche le performance delle obbligazioni, complice l´incertezza sui
tassi, è stata negativa in questi primi mesi del 2006. Per cui il povero
risparmiatore prende botte da tutte le parti. E non sa più che fare.
Molti sui siti internet, alla radio, sui blog
di economia e finanza, chiedono cosa fare, cosa succederà. Non lo sa nessuno.
Anche il mitico Warren Buffett qualche
settimana fa aveva detto che la crescita dei mercati era solida ed il super gufo
Stephen Roach capo economista di Morgan Stanley ha sostenuto che i mercati erano
intonati positivamente. Anche se poi proprio pochissimi giorni fa la stessa
Morgan Stanley ha diffuso una sorta di allarme generale: alla larga dai mercati,
sono troppo pericolosi.
L´unica cosa certa è che c´è grande
incertezza, che non ci sono capitali orientali o petroliferi pronti a sostenere
qualsiasi rialzo. E poi viene da riflettere quando il tesoro americano emette
comunicati rassicuranti, in piena seduta di Wall Street con i mercati che
perdono oltre il 2%. Wall Street quella sera ha recuperato, ma sulla solidità di
tale rimbalzo le riserve sono d´obbligo. E quello è il principe dei mercati, la
bussola di tutti. La situazione, insomma, rimane confusa. Gli analisti grafici,
che sono un po´ degli stregoni moderni, ma che qualche volta ci indovinano (se
non altro perché molti sono convinti che abbiano davvero la palla di vetro)
sostengono che gli indici non hanno sfondato i livelli di resistenza e quindi,
anche se le legnate sono state dure, la barca non affonderà. I mercati, cioè,
non crolleranno. Anzi, si spingono ancora più avanti nelle loro previsioni
cagliostresche.
Sostengono che giugno sarà ancora un mese di alti e bassi, di cuore in gola, ma
che poi da luglio dovrebbe cominciare un significativo recupero (settembre,
però, è incerto e aperto a tutto). Hanno l´avvertenza, comunque, di segnalare
che all´orizzonte ci sono ancora due appuntamenti importanti. Il primo è
l´appuntamento con la riunione del Fomc (il comitato tassi di interesse) della
Federal Reserve del 28-29 giugno, e il secondo è la riunione della Banca
centrale giapponese. Intorno a queste due riunioni ruota un po´ il futuro dei
mercati. E non è difficile capire perché.
Il
lungo rialzo dei listini che adesso si è interrotto viene appunto da una lunga
stagione di liquidità molto abbondante (in parte anche immaginaria,
probabilmente). E le banche centrali (a partire da quella americana) hanno dato
la sensazione (da qui i crolli dei giorni scorsi) di voler chiudere con questa
storia, proprio perché convinte che tutta questa liquidità (vera e immaginaria)
abbia creato una situazione pericolosa, con troppi eccessi. Che questa
sia la linea non ci sono dubbi. Solo che non si sa se le Banche centrali si
fermeranno fra giugno e luglio, dichiarandosi soddisfatte di quanto ottenuto. O
se andranno avanti a stringere la corda del boia (l´aumento dei tassi). I
mercati stanno a guardare e tremano, perché non riescono a capire quanto è alto
il patibolo che le banche centrali hanno preparato per loro.
Fonte -
La Repubblica
BERNANKE FA IL FALCO E LANCIA L' ALLARME
INFLAZIONE
5 Giugno 2006 20:29
New York - (ANSA)
Il rialzo dell'inflazione 'core', quella al netto
delle componenti petrolio e alimentari, non è "uno sviluppo positivo",
ma la Federal Reserve "resterà vigile" soprattutto per gli effetti di
petrolio e materie prime. E' quanto afferma il presidente della Federal
Reserve, Ben Bernanke, in un intervento al convegno organizzato a
Washington dalla American Bankers Association. Bernankeha spiegato che
"l'economia Usa è in una fase di transizione" e che "le spese al consumo
segnano un rallentamento".
La fase di transizione, ha spiegato Bernanke
durante i lavori dell'International Monetary Conference, "é
ragionevolmente chiara e sembra già in corso" a causa dei segnali di
rallentamento dei consumi, che valgono per oltre i due terzi del Pil
americano, e del mercato immobiliare, che negli ultimi mesi ha dato
nuovo propellente alla crescita. Il presidente della Fed ha spiegato di
valutare l'inflazione 'core' sulla fascia massima tollerabile, iniziando
a scontare le pressioni di caro-petrolio e commodity. "Se questi livelli
saranno ancora sostenuti, non potranno - ha sottolineato il banchiere
centrale - più essere considerati come compatibili con la stabilità dei
prezzi.
L'economia in fase di transizione richiede una
politica monetaria attenta agli sviluppi dell'outlook economico", in
linea con le indicazioni che emergeranno dai prossimi dati
macroeconomici. Un esame specifico, inoltre, sarà proprio riservato
"all'inflazione e ai suoi sviluppi a medio termine". Le valutazioni di
Bernanke sui timori d'inflazione, oltre a far cadere gli indici di Borsa
(Dow Jones -1,19%, S&P's 500 -1, 14% e Nasdaq -1,59%), fanno rimbalzare
i titoli di stato con rendimenti che indicano la possibilità di
ulteriori strette monetarie pari al 74%.
Fonte -
ANSA |
L'EURO
CREDE AL RIALZO DEI TASSI
22 Giugno 2006 7:45
Milano - di Finanza&Mercati
Il contenuto di questo articolo esprime il
pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea
editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Jean-Claude Trichet lancia segnali di ulteriore
stretta monetaria e manda in orbita l’euro. «Non siamo soddisfatti - è
intervenuto ieri il presidente della banca centrale europea davanti a un
comitato di parlamentari europei a Bruxelles - di quanto stiamo
osservando in merito all’inflazione nell’area Ue». Un report del 16
giugno dell’Unione Europea ha rivelato che il tasso d’inflazione in
maggio ha accelerato al 2,5%, superando il traguardo del 2% posto dalla
Bce per il sedicesimo mese consecutivo.
Di conseguenza, «continueremo a fare - ha
proseguito il banchiere centrale - tutto quanto è necessario per
contrastare la crescita dei prezzi e porre un’ancora alle aspettative
d’inflazione». La Bce ha già alzato tre volte il costo del denaro dallo
scorso dicembre, portandolo al 2,75% nell’ultimo intervento dello scorso
8 luglio. Secondo un sondaggio di Bloomberg tra gli economisti, ci si
attende che la banca porti il tasso benchmark al 3,25% entro il prossimo
31 dicembre.
Generando in questo modo, in linea con la stretta
monetaria globale che ha caratterizzato l’economia mondiale nelle ultime
sei settimane, rischi sulla crescita: hanno infatti alzato i tassi di
riferimento Danimarca, India, Corea, Sud Africa, Tailandia, Turchia, Sri
Lanka, Svezia e Svizzera. Mentre la Cina ha aggravato le riserve
bancarie per frenare i crediti bancari. Intanto, l’annuncio di Trichet
ha tolto fiato ai listini europei, che in mattinata hanno navigato in
territorio negativo, prima di terminare con leggeri rialzi in serata.
Più marcato l’effetto sull’euro che ha messo a segno il maggiore rialzo
in più di due settimane, con un guadagno di quasi il 7% contro dollaro
(la valuta Ue è arrivata a 1,2666 nel primo pomeriggio a New York) e del
4,2% sullo yen.
Questo nonostante ci si attenda un rialzo dei
tassi anche della Fed il prossimo 8 agosto. Riflessi anche sui future:
il rendimento del contratto sull’Euribor a tre mesi (scadenza dicembre
2006) è aumentato di 1,5 punti base.
Fonte -
Bloomberg - Finanza&Mercati
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Troppi timori per le strette monetarie
11 Giugno 2006 20:43 Milano
- di *Sara Silano
________________________________________
*Sara Silano è
Caporedattore di Morningstar in Italia.
Tassi, tassi e ancora tassi. Li chiamano in
causa i trader per giustificare un brusco calo delle Borse quando le strette
monetarie sono al di sopra delle aspettative del mercato. Li passano ai raggi X
gli economisti per cercare di capire i trend congiunturali. Sono entrati nel
linguaggio comune dei risparmiatori, attenti all’impatto dei rialzi sui loro
portafogli, e dei consumatori che devono fare i conti con rate del mutuo più
esose.
E in un mondo sempre più interdipendente, quello dei tassi è un argomento “globalizzato”.
Questa settimana, l’attenzione si è concentrata sull’Europa, dove la Banca
centrale ha deciso di alzare il saggio di riferimento di 25 punti base nella
riunione di giovedì 8 giugno, come era largamente atteso dal mercato, portandoli
al 2,75%. A fine giugno, si riunirà la Federal Reserve, ma il presidente Ben
Bernanke ha lasciato intendere che potrebbe decidere una nuova stretta, dopo il
rialzo dell’inflazione core, ossia quella depurata dalle componenti petrolio e
beni alimentari. Tre mesi fa, anche il Giappone ha annunciato di voler porre
fine alla politica ultra-accomodante di tassi zero, durata cinque anni.
Per la Bce il nemico numero uno resta l’inflazione, per cui non sono da
escludere ulteriori aumenti dei saggi di riferimento nei prossimi mesi.
L’istituto centrale europeo non ha, invece, cambiato le stime sul Prodotto
interno lordo (Pil), che è previsto in crescita del 2,2% quest’anno e dell’1,8%
nel 2007 a fronte di un costo della vita rispettivamente del 2,3 e 2,2%. Le
valutazioni sono basate sugli ultimi dati macro che continuano ad essere
incoraggianti.
Negli Stati Uniti, l’economia prosegue
sul sentiero della crescita e i solidi profitti favoriscono la spesa per
investimenti. Nonostante i tassi siano aumentati di 400 punti base dal
giugno 2004 sono ancora inferiori dell'1,7% rispetto al saggio di incremento
nominale del Pil. Come per l’Europa, il principale rischio è rappresentato
dall’inflazione, ma la Federal Reserve ha dato chiari segnali di volerla tenere
sotto controllo.
Il quadro macro non preoccupa neppure in
Giappone, dove il Pil è cresciuto dello 0,5% nel primo trimestre 2006 e del 3%
in termini tendenziali. E’ in espansione anche la produzione industriale,
mentre i prezzi degli immobili sono tornati in positivo, altro segnale della
definitiva uscita dalla deflazione. Sul fronte azionario, le valutazioni sono
considerate dalla maggior parte degli analisti ancora attraenti e i fondamentali
delle società buoni.
Perché i mercati sono crollati nelle ultime settimane, se i dati economici ed
aziendali mostrano un trend positivo? E soprattutto, per quale motivo le parole
di Bernanke hanno spaventato tanto gli investitori? Un aspetto chiave è
rappresentato dalla liquidità disponibile nel sistema finanziario. La sua
abbondanza ha permesso il rally delle Borse, comprese quelle emergenti, fino ad
oggi, ma ora si sta assottigliando per effetto della fine delle politiche
monetarie espansive. Tanto nel 1994 (per
i bond) quanto nel 2000 (per le azioni), fa notare Joachim Fels, economista di
Morgan Stanley, le crisi sono state precedute da un’acuta contrazione della base
monetaria.
E’ vero lo scenario è cambiato, ma non
va drammatizzato. I tassi di interesse sono in rialzo, ma ben sotto il loro
livello neutrale. Più che essere restrittive, dunque, le politiche delle Banche
centrali sono improntate alla riduzione della liquidità in eccesso.
Il prezzo del petrolio è alto, ma non ha raggiunto i picchi dello shock del
1980. Secondo Michael T. Darda, capo-economista di MKM Partners e collaboratore
regolare del Wall Street Journal, le quotazioni dovrebbero salire a 187 dollari
al barile per equiparare quelle di 26 anni fa, considerando la crescita dei
redditi nominali personali nel periodo. Infine, l’inflazione è in aumento,
tuttavia Fed, Bce e Banca del Giappone sono vigili, per cui non dovrebbero
esserci pericoli di fiammate incontrollate. In questo contesto, vale la
pena lasciare aperta la porta dell’ottimismo, perché, come sostiene Darda, le
azioni possono continuare a sovraperformare i bond, anche se inflazione e tassi
salgono.

Fonte -
Morningstar Italia
LETTERA
APERTA A HENRY PAULSON
18 Giugno 2006 23:02 NEW YORK - di
Paul Krugman
________________________________________
A Henry Paulson, neo ministro del Tesoro degli
Stati Uniti: Quindi, dopo tutto, ha deciso di accettare. Non c'è da
sorprendersi che abbiano voluto Lei. Per dirla in una battuta, sono
disperati a tal punto da raschiare il fondo del barile. Tuttavia molti
di noi sono sorpresi che Lei abbia accettato l'incarico. Non c'è dubbio
che l'avranno rassicurata sul fatto che, come Robert Rubin, Lei
eserciterà davvero il suo ruolo di ministro del Tesoro, a differenza di
chi l'ha preceduta in questa amministrazione. E molto probabilmente Lei
ritiene che di tali rassicurazioni ci si possa fidare, non fosse altro
per via del fatto che i Bush hanno bisogno di Lei molto più di quanto
Lei abbia bisogno di loro.
Tuttavia Paul O'Neill, straordinariamente
acclamato dai media al momento della sua elezione, deve essere stato
della medesima convinzione. Vede, il fatto è che la tratteranno bene
finché la riterranno utile a far aumentare la credibilità del governo
negli ambienti esterni all'amministrazione Bush, non un minuto di più.
Eppure sono convinto che Lei sia già sotto pressione per evitare di dire
cose che possano minare la sua credibilità in modo fatale. Prima di
entrare nello specifico, Lei ha bisogno di essere disingannato da
qualunque illusione di una possibile leale ricompensa da parte di questa
amministrazione.
Nessuno è stato più leale di
Larry Lindsey, il primo importante economista del presidente Bush.
Eppure è stato licenziato per essersi lasciato sfuggire una verità
sconveniente circa il costo della guerra in Iraq, costo che sarà con
molto probabilità piuttosto elevato: una verità, quella di Lindsey, che
noi tutti sappiamo essere soltanto una stima, che rispecchia una cifra
ben inferiore al costo reale di questa impresa. E non solo è stato
licenziato, è stato addirittura insultato per il suo aspetto.
Allora, cosa Le verrà chiesto di fare per aumentare la Sua credibilità?
Ora come ora, credo, le faranno pressioni affinché Lei sostenga le
illusioni dell'amministrazione riguardo l'andamento della nostra
economia. Gli americani sono molto scontenti di come sta andando
l'economia. Secondo le statistiche Gallup, solamente il 4 per cento del
pubblico intervistato considera 'eccellente' l'attuale status
dell'economia americana, e soltanto il 25 per cento lo ritiene 'buono'.
E ci sono dei validi motivi a giustificazione di tale scontento. Sebbene
i profitti e gli indennizzi economici degli amministratori delegati
siano saliti vertiginosamente, la maggior parte dei lavoratori si trova
in una condizione di gran lunga peggiore rispetto a un anno fa.
La linea
ufficiale del governo sostiene però che l'economia americana è in ottima
salute, ma che gli americani per qualche strano motivo non se ne siano
ancora accorti (così come non si sono ancora resi conto della guerra in
Iraq). Bush, che non è quell'affabile ragazzo che Lei pensa di aver
incontrato, non sembra essersi reso conto che l'economia americana non
gode di ottima salute. Durante le sue apparizioni in pubblico, sembra
irritato, quasi seccato di non essere creduto o preso sul serio quando
parla di un'economia che funziona e ora si aspetta che Lei spieghi ai
lavoratori americani che le loro difficoltà economiche, il fatto che
stentino persino a pagare le bollette, è soltanto un'invenzione, un
fantasma della loro immaginazione.
Inoltre, se l'esperienza passata può esserci di qualche insegnamento,
Lei riceverà pressioni non soltanto per premere sull'acceleratore per
conto dell'amministrazione Bush, ma anche per mentire. Basta vedere cosa
è accaduto a Edward Lazear, presidente del Council of Economic Advisers.
Il mese scorso Lazear e altri membri del
consiglio hanno pubblicato un editoriale, una sorta di lettera aperta,
sul 'Wall Street Journal' che conteneva la seguente affermazione: "I
tagli fiscali apportati dal presidente Bush hanno reso la tassazione più
progressiva, il che restringe il gap dei guadagni reali". Ora, si può
giocare con il significato e l'interpretazione dell'aggettivo 'progressivo',
tuttavia, quale che sia il punto di vista, i tagli fiscali operati da
Bush hanno contribuito ad aumentare, non certo a restringere, il netto
dei profitti. Ed è bastato questo a cancellare ogni traccia di
credibilità che Lazear, rispettato accademico privo di qualunque
precedente politico, era riuscito ad apportare alla sua carica politica.
Su cosa Le verrà chiesto di mentire? Forse Le verrà chiesto di
dichiarare che ci stiamo avviando verso un budget equilibrato. O forse
Le verrà chiesto di mentire sulla politica ambientale. Alcuni
sostenitori di destra si sono dichiarati contrari alla sua elezione
perché Lei è noto per essere un fautore di azioni contro l'effetto serra
e il surriscaldamento globale del pianeta. Quindi questi stessi politici
potrebbero chiederLe di ricambiare il favore sostenendo il fallimento di
qualunque azione presa o provvedimento adottato dall'amministrazione
Bush per tentare di arginare la minaccia ambientale.
Al momento, Lei è adulato: la incitano e la esortano a prendere parte al
gioco di squadra. Ma se Lei accetta di giocare al gioco che le
propongono i Suoi nuovi capi, la Sua credibilità svanirà in men che non
si dica. E una volta che i suoi nuovi amici non la riterranno più utile,
la metteranno da parte.
Fonte -
'New York Times' -'L'espresso'
Traduzione di Rosalba Fruscalzo
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Azionario:
ma il peggio è davvero
passato ?
14 Giugno 2006 9:58 LUGANO
- di *Alfonso Tuor
________________________________________
*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino
Anche
ieri è continuata la discesa delle borse. Il movimento ribassista dei mercati
azionari sta cominciando ad incrinare le certezze di coloro che lo ritengono una
semplice correzione, inevitabile dopo la lunga fase di rialzo delle borse
iniziata nel marzo del 2003. Gli argomenti addotti a sostegno di queste
tesi appaiono «forti»: i mercati non sono sopravvalutati, i bilanci delle
società sono sani e gli utili continuano a crescere.
In base a queste premesse, si conclude, che le borse sono in grado di assorbire
un ulteriore aumento dei tassi e anche il previsto rallentamento del ritmo di
crescita dell’economia statunitense. I sostenitori di queste tesi rischiano però
di guardare dati indiscutibili, ma non rilevanti sia per pronosticare
l’andamento dei mercati sia quello delle economie. Infatti l’attuale situazione
può essere letta in modo completamente diverso.
L’accelerazione della crescita
dell’economia internazionale è il frutto di politiche economiche eccezionali
adottate per ridurre le conseguenze del crollo delle borse di inizio decennio e
per prevenire il pericolo della deflazione. La corsa al rialzo dei mercati degli
ultimi tre anni è stato il riflesso di un periodo «felice» di tassi di interesse
a livello minimo e di liquidità abbondante. Questa fase è finita e le banche
centrali di tutti i paesi industrializzati, seppur con tempi e modalità diversi,
stanno passando da politiche monetarie fortemente espansive a neutrali.
Questa
transizione, resa più insidiosa dalle tensioni sui prezzi dovute all’aumento del
costo delle materie prime, deve fare i conti con i fenomeni che si sono
sviluppati durante l’era del denaro facile e che hanno reso possibile la ripresa
economica. Innanzitutto, il forte aumento dell’indebitamento delle famiglie, che
non riguarda solo gli Stati Uniti, ma che registra forti incrementi anche in
molti paesi europei.
In secondo luogo, l’impennata dei prezzi
dell’immobiliare, che di nuovo è un fenomeno generale, con l’unica
eccezione rappresentata dalla Germania. Ed infine, a livello macroeconomico, il
crescente disavanzo estero degli Stati Uniti. Con una battuta ad effetto, si
potrebbe dire che in questi anni sono aumentati gli utili delle imprese, ma sono
stagnati i redditi delle famiglie e in termini reali sono addirittura diminuiti.
E dato che è il consumatore finale a determinare il livello di attività delle
società che producono beni e servizi, non appare sorprendente che i mercati
finanziari si interroghino sulle conseguenze del rialzo dei tassi sui consumi e
quindi sulla crescita economica e dunque sulla sostenibilità nel tempo degli
utili societari.
A sostegno di questa tesi si può
osservare l’andamento dei mercati dei capitali che non sembrano condividere le
paure inflazionistiche delle banche centrali e di molti analisti. Infatti i
rendimenti dei buoni decennali del Tesoro statunitensi sono inferiori al 5%,
ossia al livello dei tassi a breve. Ora, dato che i mercati dei capitali
sono i più sensibili alle aspettative inflazionistiche e dato che alla fine del
mese è dato per scontato che la Federal Reserve porterà i tassi a breve al
5,25%, non si può leggere questo appiattimento della curva dei tassi che come
una previsione di un forte rallentamento dell’economia statunitense.
Anche in Europa i tassi a lunga non si stano muovendo al rialzo. In Svizzera, ad
esempio, malgrado sia scontato l’annuncio domani del rialzo del costo del denaro
da parte della Banca Nazionale, il rendimento delle obbligazioni della
Confederazione a 10 anni è sceso dal 3% a poco più del 2,6%. Anche il calo dei
prezzi delle materie prime e dei metalli preziosi sembra confermare questa tesi.
Tutto ciò non vuol dire che vi saranno sfracelli, ma che l’ondata ribassista
potrebbe continuare fino a quando sarà più chiara la reazione dell’economia
(soprattutto di quella americana) all’aumento del costo del denaro. Affermare
oggi che la borsa e l’economia americana saranno sicuramente in grado di
assorbire l’ulteriore aumento del costo del denaro appare perlomeno azzardato.

Fonte -
Corriere del Ticino
Sabato 10
giugno 2006 |
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Giovedì 15 giugno 2006 |
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Giovedì 30
giugno 2006 |
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USA:
TOP EXECUTIVE VEDONO RALLENTAMENTO CRESCITA ECONOMIA
Alert dal
rapporto trimestrale del Business Roundtable, l'associazione cui
aderiscono 160 amministratori delegati alla guida di società
americane con più di 10 milioni di dipendenti totali e $4.500
miliardi di fatturato.
________________________________________
7 Giugno 2006 21:45
New York (ANSA)
I top executive della Corporate
America stimano ancora una crescita economica nei prossimi sei mesi,
ma meno sostenuta di quella ipotizzata tre mesi fa. E' quanto emerge
dal rapporto trimestrale del Business Roundtable, l'associazione cui
aderiscono 160 amministratori delegati alla guida di società con più
di 10 milioni di dipendenti totali e 4.500 miliardi di dollari di
fatturato.
Le principali preoccupazioni sono legate al fatto che gli alti
prezzi dell'energia e le tensioni inflazionistiche possano spingere
la Federal Reserve a proseguire la stretta sui tassi d'interesse.
Non a caso l'indicatore sulle previsioni economiche scende a 98,6 a
giugno, contro i 102,2 punti di marzo. "Non c'é alcun dubbio - ha
spiegato in una conferenza stampa, il presidente Business Roundtable,
Hank McKinnell, che é il numero uno di Pfizer - che i costi
energetici, soprattutto negli ultimi mesi, sono un nuova sfida
all'economia e alle principali compagnie del Paese".
I prezzi più alti dei carburanti, ha aggiunto, significano che "i
consumatori hanno meno soldi per acquistare altri beni, come
confermato dall'indice di fiducia e dalla volatilità dei mercati".
Quanto all'intero 2006, i top executive ipotizzano, dopo il balzo
del Pil del 5,3% nel primo trimestre dell'anno, una crescita
dell'economia Usa del 3,4%, in calo rispetto al 3,5% del 2005, ma
oltre la precedente stima del 3,2%.
Fonte -
ANSA
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La BCE
e la sindrome cinese
15 Giugno 2006 10:29 LONDRA
- di *Raj Shant
________________________________________
*Raj Shant, e' Portfolio
Manager di Newton Investment Management, di Mellon Global Investment.
La stampa non è quasi mai tenera nei confronti
della BCE. Negli ultimi anni, anche quando ha tagliato i tassi di interesse
europei a un irrisorio 2%, è stata accusata di non fare abbastanza per sostenere
la crescita. I funzionari della BCE hanno sottolineato che i tassi di interesse
reali erano effettivamente negativi in alcuni paesi periferici ed molto bassi
persino in paesi come la Germania, per cui la colpa non è della politica
monetaria bensì delle rigidità strutturali nelle economie. Seguire l’esempio
della Fed e ridurre drasticamente i tassi all’1% non determinerebbe
necessariamente un miglioramento della crescita a lungo termine, ma porterebbe
unicamente a un incremento sconsiderato del debito.
La massa monetaria e i prestiti bancari
sono aumentati assai rapidamente e la BCE è rimasta ferma alla politica del suo
progenitore, la Bundesbank, che considerava la massa monetaria come un segnale
anticipatore di futuri rischi inflazionistici. Questo la fa sembrare
anche una “guastafeste” rispetto ad altre banche centrali che hanno abbandonato
questo tipo di politica; la Fed è andata addirittura oltre e ha
smesso di pubblicare i propri dati sulla massa monetaria M3.
Non è divertente essere l’unica persona sobria a una festa…
Il dna
della Banca Centrale Europea proviene dalla Bundesbank. La BCE ha ereditato le
proprie caratteristiche attuali in seguito alle storiche battaglie con
l'iperinflazione in Germania. Battaglie che, tra l’altro, hanno portato alla
nascita del nazionalsocialismo. Di conseguenza, la BCE ora considera la
moneta stabile come un fattore positivo per tutti. Una moneta instabile, anche
se positiva nel breve termine, causa maggiori problemi nel lungo termine.
Ecco perché la BCE è più preoccupata di tutti per l'incremento dei prezzi degli
attivi nell'area euro. Ad eccezione del settore immobiliare tedesco, la maggior
parte delle valutazioni immobiliari sono aumentate improvvisamente, così come i
corsi azionari unitamente alle opere d’arte e beni simili. Secondo la BCE questa
è l'altra faccia della medaglia quando si registrano bassi tassi di interesse
per lungo tempo. Può contribuire a dare maggiore fiducia ai consumatori e quindi
a incrementare i consumi, ma la BCE non desidera stimolare consumi alimentati
dal debito per sostenere la crescita.
Inflazione? Quale inflazione?
Negli
Stati Uniti, l’incremento dei tassi di interesse è stato presentato come una
fase di semplice “normalizzazione” dei tassi da livelli particolarmente bassi.
Nel frattempo, gli aumenti incerti da parte della BCE hanno attirato diverse
critiche a fronte di un rallentamento della crescita in Europa e del
rafforzamento dell’Euro. Le banche centrali parlano d’inflazione e alcuni
adducono come prova i prezzi dell’oro e di altri prodotti di base che salgono
alle stelle. Ma l’opinione più diffusa è che in realtà non ci sia nessuna
inflazione.
Sin dalla fine degli anni ’90 si ripete che l'impatto della globalizzazione
(soprattutto il ruolo della Cina) e le nuove tecnologie (soprattutto Internet)
implicano che l’inflazione è morta. Benvenuti nel nuovo mondo fatto di tassi di
interesse e inflazione perennemente su livelli bassi. Un mondo in cui i tassi di
interesse contenuti porterebbero un cambiamento strategico nel livello di
indebitamento che un’impresa o una famiglia può assumersi con prudenza (occorre
sottolineare che la crescita fulmina dei settori a capitale di rischio e private
equity si basa su questa semplice premessa).
La
sindrome cinese. Ma anche le tendenze più consolidate alla fine perdono il loro
vigore. Certamente, la Cina sta investendo molto per produrre merci a buon
mercato e poi esportarle verso gli ingrati mercati occidentali. La Cina possiede
molta forza lavoro conveniente, ma non possiede petrolio, carbone, gas, sostanze
plastiche, metalli ferrosi, alluminio, rame, ferroleghe, silicio, e così via. Il
punto è che un numero crescente di quei prodotti che sono noti per essere “made
in China” stanno in effetti diventando più cari. L’incremento dei costi alla
fine dovrà essere trasferito sui prezzi. Sarà un vero e proprio choc per chi di
noi è stato abituato ad assistere a un progressivo decremento dei prezzi,
dall'abbigliamento all'elettronica.
Questa “sindrome cinese” potrebbe
evolversi da costante fattore deflazionistico a fattore leggermente
inflazionistico, catalizzando eventualmente l’incremento dei tassi di interesse
nel mondo. Naturalmente, con un Dollaro debole l’effetto sarebbe più evidente
negli Stati Uniti rispetto a Europa o Inghilterra.
Attenzione ai desideri che esprimete…
L’ultimo comunicato del G7 chiedeva direttamente una rivalutazione delle valute
asiatiche, in linea con la forte eccedenza della loro bilancia commerciale. Nel
lungo termine certamente ciò sarà necessario per ribilanciare i livelli odierni
del commercio mondiale. Ma nel breve termine è una politica che presenta molti
rischi. Con l’incremento delle valute asiatiche, i beni che questi paesi
esportano verso l'Occidente diventano necessariamente più cari. In aggiunta ai
forti incrementi nei costi delle risorse, a livello di commercio al dettaglio in
Europa (ma anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti) si potrebbe verificare un
incremento dei prezzi al consumo.
L’attività delle banche centrali si fa nuovamente interessante?
L’incremento dell’inflazione porrebbe le banche centrali di fronte a un dilemma
interessante. Ovvero, quanto possono aumentare i tassi di interesse senza
causare danni collaterali alle economie più indebitate e quanto possono
aumentare i prezzi al dettaglio prima che inizino ad aumentare le richieste
salariali? Finora la costante diminuzione dei prezzi dei beni di consumo ha
attutito gli effetti del taglio dei costi da parte delle imprese e della
continua diminuzione dei salari in rapporto al PIL. Per cui ci si chiede se
assisteremo a una svolta nella tendenza a lungo termine. La BCE sa che dovrà
verosimilmente affrontare temi molto complessi nei prossimi 12 mesi.
Probabilmente incrementerà i tassi più rapidamente del previsto in risposta ai
segnali di un riemergere dell’inflazione. In caso contrario, i controllori del
mercato obbligazionario potrebbero tornare una volta influenti potrebbero
tornare in azione.
… e i mercati azionari?
Se la vostra strategia azionaria si è basata su una riduzione della parte
azionaria o un incremento del debito, allora potreste perdere tutto. In questo
contesto, le storie di rendimento senza una logica di investimento operativa
dovranno confrontarsi con la liquidità e le obbligazioni a più alto rendimento.
Le imprese al consumo che hanno dovuto affrontare l’inflazione nei costi delle
risorse, ma che non sono state in grado di riversare tali costi sui prezzi,
potrebbero trovare più favorevole il nuovo contesto. Di conseguenza, i comparti
di Newton dell’Europa continentale hanno una posizione sovrappesata sia sui
rivenditori al dettaglio che sul settore alimentare.
E naturalmente per i titoli a bassa capitalizzazione che hanno prosperato in un
contesto di elevata liquidità le valutazioni particolarmente elevate (rispetto
ai titoli concorrenti di prim’ordine) potrebbero essere assai esposte in tale
situazione.
La BCE
perseguirà una politica monetaria stabile; la Cina farà ciò che è necessario per
sostenere il suo processo di industrializzazione a lungo termine. Queste due
verità implicano che gli investitori in titoli azionari europei dovranno passare
da un'era di capitale abbondante e a buon mercato ad un'era in cui il capitale
ha un costo effettivo. In tale contesto le politiche di investimento solide
avranno nuovamente il sopravvento sulle strategie basate sulla momentanea
crescita economica.

Fonte -
www.mellonglobalinvestments.com
TASSI
USA: LA FEDERAL RESERVE LI ALZA DELLO 0.25%
La Banca
Centrale americana ha alzato il tasso sui fed funds di 25 punti base
al 5.25%. E' il diciassettesimo rialzo dei tassi consecutivo in
esattamente due anni. Nuove strette creditizie dipenderanno
dall'outlook economico.
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29 Giugno 2006 20:15
New York (ANSA)
Il Federal Open Market Committee ha
deciso di alzare i tassi sui fed funds di 25 punti base al 5.25%.
I recenti indicatori mostrano che la crescita economica e’ in una
fase di moderazione rispetto al robusto passo sostenuto ad inizio
anno, che riflette parzialmente un graduale raffreddamento del
mercato immobiliare e i contenuti effetti dell’aumento dei tassi
d’interesse e dei prezzi energetici.
Il dato “core” sull’inflazione e’ stato piuttosto elevato negli
ultimi mesi. La crescita della produttivita’ ha aiutato a mantenere
sotto controllo l’aumento del costo del lavoro, e le aspettative
sull’inflazione restano contenute. Tuttavia, gli alti livelli di
utilizzazione delle risorse e gli alti costi energetici e di altre
commodities hanno il potenziale di sostenere le pressioni
inflazionistiche.
Sebbene la moderazione della crescita nella domanda aggregata
dovrebbe offrire supporto a limitare l’inflazione, la Commissione
ritiene che alcuni rischi inflazionistici restano. La modalita’ e i
tempi di qualsiasi azione di politica monetaria che potrebbe essere
necessaria per contenere tali rischi dipenderanno dall’evoluzione
dell’outlook inflazionistico e delle crescita economica, cosi’ come
sara’ implicato dalle informazioni rilasciate quotidianamente. In
ogni caso, la Commissione rispondera’ ai cambiamenti sulle
prospettive economiche come necessario per supportare l’ottenimento
di tali obiettivi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono
stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman;
Susan S. Bies; Jack Guynn; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner;
Jeffrey M. Lacker; Sandra Pianalto; Kevin M. Warsh; e Janet L.
Yellen.
In un'operazione collegata, il Comitato dei Governatori (Board of
Governors) ha approvato all'unanumita' un incremento di 25 punti
base del tasso di sconto al 6.25%. Nel prendere questa decisione, il
comitato ha approvato le richieste formulate dai Comitati dei
Direttori (Boards of Directors) della Federal Reserve Bank di
Boston, New York, Philadelphia, Cleveland, Richmond, Atlanta,
Chicago, St. Louis, , Minneapolis, e Dallas
Fonte -
ANSA
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Cina:
crescita nonostante Washington
7 Giugno 2006 16:41 New York
- di Joseph Stiglitz
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La
Cina sta per adottare il suo undicesimo piano quinquennale, preparando il
terreno per una nuova puntata di quella che sembra essere la più straordinaria
trasformazione economica della storia –
e allo stesso tempo intervenendo sul
benessere di quasi un quarto della popolazione mondiale. Mai prima d’ora si era
assistito ad una tale crescita; mai prima d’ora si è stati testimoni di una così
massiccia riduzione della povertà complessiva.
Una chiave significativa del successo a lungo termine della Cina è stata la
combinazione, unica nel suo genere, di pragmatismo ed acume strategico. Mentre
il resto dei paesi in via di sviluppo, seguendo i consigli di Washington, si
sono indirizzati verso il traguardo dell’incremento del proprio Prodotto Interno
Lordo, la Cina ha messo in chiaro fin da subito che il suo primo obiettivo era
quello di un aumento sostenibile e più equo dello standard di vita reale. Questo
paese ha realizzato che era entrato in una fase di crescita economica che
imponeva un’enorme – ed insostenibile – serie di ripercussioni a danno
dell’ambiente.
Salvo
radicali cambiamenti, in generale gli standard di vita verranno inevitabilmente
compromessi. Questo è il motivo per cui, nel nuovo piano quinquennale cinese, è
stata posta grande enfasi rispetto alla tematica ambientale.
Molte delle regioni più povere della Cina stanno crescendo ad un ritmo che
stupirebbe se non ne esistessero altre che si stanno sviluppando ancor più
velocemente. Se questo fenomeno ha aiutato a ridurre la povertà complessiva,
d’altra parte l’ineguaglianza sta crescendo di pari passo al proliferarsi delle
disuguaglianze in Cina tra le condizioni di vita delle città e delle campagne, e
tra le regioni costiere e quelle interne. Il rapporto del 2006 della Banca
Mondiale spiega il motivo per cui questa disuguaglianza – e non soltanto la
povertà – dovrebbe essere considerata una priorità, e perché, conseguentemente,
il progetto cinese si stato concepito per combattere frontalmente il problema.
Pechino ha parlato per diversi anni di una società più equa, e questo suo ultimo
piano descrive il programma necessario per arrivare al traguardo.
La
Cina riconosce che ciò che separa le regioni più sviluppate da quelle più
regredite non è solo un gap riguardante le risorse, ma anche un divario nella
conoscenza. Perciò ha disposto un piano d’intervento.
Il ruolo della Cina nel mondo e nell’economia mondiale è cambiato. La sua
crescita futura dovrà essere basata più sulla domanda interna che
sull’esportazione, e ciò richiederà un aumento dei consumi.
Riguardo a ciò, la Cina si caratterizza
per un problema insolito: un eccessivo risparmio. I cinesi in parte risparmiano
per la mancanza di programmi di previdenza sociale. Rafforzando il sistema di
previdenza sociale (le pensioni), la sanità pubblica e l’istruzione, si ridurrà
contemporaneamente l’ineguaglianza sociale, si aumenterà il senso di benessere e
si promuoveranno i consumi.
Se queste manovre si riveleranno efficaci, la tensione a cui sarebbe sottoposto
il sistema economico globale, già sbilanciato dagli enormi squilibri fiscali e
commerciali statunitensi, sarebbe colossale. Se la Cina risparmiasse di meno – e
se, come hanno dichiarato alcuni ufficiali, ricorresse a una diversa politica
nell’investimento delle sue risorse – chi finanzierebbe il deficit di 2 miliardi
di dollari al giorno del commercio statunitense?
Questo è però un altro tema di discussione –
anche se il giorno in cui riproporlo potrebbe non essere troppo lontano. Con una
tale visione del futuro, la sfida sarà la sua realizzazione. La Cina è un grande
paese e non avrebbe potuto ottenere un così grande successo senza una
decentralizzazione diffusa; ma questa presenta di per sé alcuni problemi.
L’effetto serra, ad esempio, è un flagello mondiale. Mentre l’America ha
dichiarato di non poter far nulla a proposito, i più alti ufficiali cinesi si
sono comportati con maggiore responsabilità. Entro un mese dall’adozione del
piano quinquennale, sono state imposte nuove tasse ambientali sulle automobili,
sui legnami e sul petrolio: la Cina ha utilizzato i meccanismi di mercato per
fronteggiare i problemi ambientali propri e quelli mondiali. Ma le pressioni
dovute alla responsabilità della crescita economica e sociale sugli ufficiali
governativi cinesi operanti a livello locale sta diventando enorme; essi
potrebbero ribattere che se l’America non è in grado di trovare un modo per
proteggere il nostro pianeta, come potrebbero farlo loro? Traducendo questa idea
in azione, il governo cinese avrà bisogno di politiche efficaci, come quella
sulla tassazione ambientale già in atto.
Nel suo cammino verso l’economia di mercato, la Cina ha sviluppato alcuni dei
problemi che affliggono i paesi industrializzati: interessi esclusivi, che
rivestono dibattiti opportunisti nascosti dietro al velo dell’ideologia di
mercato. Alcuni denunceranno gli effetti dell’economia sui più poveri, altri si
opporranno a politiche di competitività e alle leggi di governo corporative.
Discussioni sulla crescita verranno contrapposte alle politiche sociali ed
ambientali. Questo tipo di politiche pro-crescita non solo mineranno il
progresso, ma costituiranno una minaccia all’intero futuro della Cina.
Esiste solo un modo per prevenire ciò:
discussioni aperte sulle politiche economiche che denuncino gli sbagli e
provvedano a soluzioni produttive per la sfida che la Cina sta affrontando. Il
caso di George Bush ha mostrato tutti i rischi legati a un’eccessiva segretezza
della politica e al confinare le scelte decisive ad un circolo ristretto di
adulatori. Al di fuori della Cina, in molti non apprezzano il grado con cui i
suoi leader tentano di trovare soluzioni attraverso dibattiti e consultazioni,
lottando per far fronte ai nuovi grandi problemi.
Le economie di mercato non sono auto-regolamentate, non possono essere guidate
da un pilota automatico – specialmente se si vuole che i benefici vengano divisi
equamente. Ma l’amministrazione di un’economia di mercato non è un compito
facile. È un atto di equilibrio, che deve rispondere costantemente alle
variazioni economiche. Il piano cinese può fornire una guida per questo
problema. Il mondo intero sta osservando, timoroso, mentre la vita di 1.3
miliardi di persone continua a trasformarsi.
Sulla Cina Nuovi Mondi Media ha pubblicato 'Cina SpA – La superpotenza che sta
sfidando il mondo', di Ted C. Fishman.

Fonte:
http://business.guardian.co.uk/story/0,,1752818,00.html
Tradotto
da Simona Casadei per Nuovi Mondi Media, tratto da The Guardian.
COME
LA CINA
STA VINCENDO LA CORSA VERSO IL PETROLIO
18 Giugno 2006 22:43 NEW YORK
- di Jon D. Markman
L’America vanta un’etica troppo marcata per ottenere benzina a basso
costo?
Questa è stata l’inevitabile domanda presentata agli investitori e ai
politici statunitensi dopo la visita di stato del presidente cinese Hu
Jintao, mentre cresceva il prezzo alla pompa.
In questo momento gli Stati Uniti sono i più grandi consumatori mondiali
di energia ma la Cina è il consumatore mondiale dalla crescita più
rapida. Ciò li pone in diretta competizione per ogni nuova risorsa di
petrolio greggio, gas naturale, carbone ed uranio che si materializza
attraverso l’esplorazione e la ricerca – per non menzionare ogni attuale
risorsa che produttori in cerca di profitto decidono di rendere
disponibile a prezzi stracciati.
Sono in costante aumento le nuove risorse energetiche che la Cina sta
acquistando da paesi che gli Stati Uniti disdegnano. La maggior parte di
questi si trova in Africa: paesi come il Sudan, il Ciad e la Repubblica
del Congo, in cui si registrano le più terribili violazioni dei diritti
umani. E la maggior parte delle risorse è controllata da despoti rapaci
nella repubblica del Kazakistan, in Asia centrale, o in Myanmar (la
ex-Birmania, NdT), nel Sud-est asiatico.
L’acquisizione di energia è un sfida a tutto campo, nel quale ci sono
vincitori e vinti. Ogni nuova risorsa di energia che la Cina incamera
per accrescere la sua galoppante economia è, per gli Stati Uniti,
automaticamente persa per sempre. Perciò, bisogna solo chiedersi se non
sia stata l’avversione americana nel trattare con il peggiore degli
“stati canaglia” del mondo a portare la benzina a salire inesorabilmente
a 4 dollari al gallone durante la primavera.
Il nuovo potere coloniale
Dan Zhou, analista-capo alla CEB Monitor Group di Pechino, sottolinea
come la Cina sia diventata un partner interessante per l’Africa e l’Asia
centrale per quattro ragioni principali. Innanzitutto, una maggiore
domanda provoca l’aumento dei prezzi per i prodotti in questione, e
stiamo parlando perlopiù di materie prime come petrolio, zinco e rame.
In secondo luogo, la Cina non utilizza virtualmente alcuno standard di
trasparenza politica o di riforma economica, per portare a compimento
gli affari. Ancora, la Cina ignora le violazioni interne dei diritti
umani – considerati, di fatto, un ostacolo agli affari. Ed infine, essa
rappresenta una sorta di all-inclusive commerciale: offrendo non solo
investimenti, commercio, operai specializzati e armi militari ma anche
protezione militare sotto forma del proprio veto al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite.
La caccia della Cina al petrolio africano l’ha trasformata nella nuova
colonizzatrice del paese, polverizzando il ricordo delle vecchie potenze
europee come il Belgio, l’Italia, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e la
Francia. Ha ottenuto questo status in un tempo da record: il commercio
tra la Cina e l’Africa era di 10 miliardi di dollari nel 2000 ed è
arrivato a 39.7 miliardi nel 2005. Seguono i dati delle attività cinesi
nel continente africano, secondo la relazione di CEB Monitor:
• Sudan: La Cina ha 4 miliardi di dollari di investimenti nel paese che
si crede abbia la più grande riserva di petrolio ancora intatta di tutta
l’Africa. La China National Petroleum Corp. controlla il 40% della
Greater Nile Petroleum, che possiede giacimenti petroliferi, un condotto
petrolifero, una grossa raffineria e un porto. Lo scorso anno, la Cina
ha acquistato più della metà del petrolio esportato dal Sudan. Al
contrario, il Sudan ha coperto il 6% dell’importazione cinese di
petrolio, circa 200,000 barili al giorno. • Angola: I suoi pozzi
offshore hanno fatto di questo paese il secondo maggior produttore
africano di petrolio. Al febbraio di quest’anno, l’Angola aveva
esportato il 13% del suo petrolio alla Cina – facendone il maggior
acquirente del paese. La Cina ha depositato circa 3 miliardi di dollari
sotto forma di prestiti per assicurarsi il diritto di precedenza sul
petrolio angolano e ha fornito al paese ingegneri e operai specializzati
per lo sviluppo dei giacimenti. La Cina è anche il più grosso donatore
di aiuti del paese. • Nigeria: Questo è il maggior produttore di
petrolio africano e fino a poco tempo fa non era compreso tra i paesi
fornitori della Cina. Ad ogni modo, la più grossa compagnia petrolifera
statale cinese, la Cnooc, lo scorso mese ha acquistato il 45% di un
giacimento petrolifero e di gas per 2.27 miliardi di dollari e ha
acquistato inoltre il 35% della licenza di esplorazione del Delta del
Niger per 60 miliardi di dollari. • Altre parti dell’Africa: la Cina è
attiva nella Guinea equatoriale, in Ciad e Gabon, ha fatto investimenti
per 170 miliardi di dollari nelle miniere dello Zambia ed è diventato il
maggior fornitore e commerciante di armi dello Zimbabwe; questo
commercio è portato avanti attraverso Robert Mugabe, “proscritto” dalla
diplomazia globale.
Acquirenti meno inopportuni
In America Latina, la storia è più o meno la stessa: la Cina è diventata
pian piano una sorta di partner elitaria per regimi oppressivi,
paranoici o con ambizioni regionali che vogliono acquistare armi e carri
armati con la vendita di petrolio e di minerali.
Secondo il Los Angeles Times, l’amministrazione Bush ha discusso
seriamente con i diplomatici cinesi, incoraggiandoli a cambiare
atteggiamento e spedendo forze nel sud del paese. Questa situazione
diventerà sicuramente un problema perchè il Sudamerica, ricchissimo di
metalli, energia e risorse agricole, è sempre più nelle mani di ideologi
decisi a snobbare gli interessi degli Stati Uniti, a favore di
acquirenti meno propensi alle ingerenze interne.
In questo momento, la Cina è il secondo partner commerciale del
Sudamerica, avendo sorpassato l’Europa. Dal 2001 al 2006, le
esportazioni verso la Cina sono aumentate del 500%. Stando a fonti
pubblicate, nel solo 2004, il presidente Hu Jintao ha firmato accordi
del valore di 100 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni. Seguono
i dati della CEB Monitor, sugli accordi commerciali suddivisi per paese:
• Brasile: il paese più grande del Sudamerica vende alla Cina minerale
di ferro, soia, cotone, petrolio e zucchero e insieme stanno sviluppando
satelliti e equipaggiamento aerospaziale. La Cina ha promesso nuovi
investimenti a breve termine del valore di 10 miliardi di dollari. •
Argentina: ha firmato accordi con la Cina per un totale di 20 miliardi
di dollari di investimento nei prossimi dieci anni. La Cnooc sta
costruendo una base petrolifera offshore. • Venezuela: Questo paese è la
terza risorsa più importante per l’approvvigionamento petrolifero degli
Stati Uniti, ma i contrasti politici e sociali hanno portato il capo del
governo, Hugo Chavez a ricercare partner alternativi. Chavez ha in
progetto di raddoppiare l’esportazione del petrolio alla Cina fino a
300.000 barili al giorno, circa un quinto del milione e mezzo di barili
che vengono spediti giornalmente agli Stati Uniti. I cinesi stanno
acquistando partecipazioni in diversi giacimenti petroliferi, rendendo
la loro quota inaccessibile ai consumatori statunitensi. • Ecuador:
Questo è uno dei tre maggior produttori di petrolio per
l’approvvigionamento della costa orientale degli Stati Uniti. La Cina ha
acquistato un solo giacimento e sta negoziando per altri pozzi.
Nel frattempo, il presidente Hu JinTao ha trovato nell’Arabia Saudita un
altro regime repressivo che vuole prendere le distanze dagli Stati
Uniti. Hu Jintao vi si è recato lo scorso gennaio e ci è ritornato
questo mese durante il suo viaggio di ritorno dagli Stati Uniti: il
commercio di armi e di trasferimenti di tecnologie sono stati gli
argomenti principali di discussione. La Cina ottiene circa un ottavo
delle sue importazioni dai sauditi, e il commercio si è quasi
decuplicato, fino ad arrivare a 14 miliardi di dollari dal 2000.
Come è facile immaginare, l’Iran è il paese della regione del Golfo che
più velocemente sta stringendo i legami con la Cina. Ci sono voci, non
confermate, che stimano da 70 a 100 miliardi di dollari la somma che Hu
Jintao si è impegnato di spendere per lo sviluppo di un immenso bacino
petrolifero in Iran; un quinto della somma, circa 20 miliardi di
dollari, servirebbe per l’acquisto di gas naturale allo stato liquido
per i prossimi venticinque anni. Zhou afferma che una compagnia cinese
sta ampliando la linea della metropolitane di Teheran, un’altra sta
dotando la rete urbana di fibre ottiche ed altre stanno costruendo
fabbriche automobilistiche ed elettroniche. Non ci vorrà molto tempo
prima che l’Iran diventi la più grossa fornitrice di petrolio cinese: e
ciò significherebbe contrapporre i suoi interessi politici ed economici
a quelli dei politici e dei consumatori degli Stati Uniti.
I nostri vicini e i loro
Possiamo infine concludere con le repubbliche dell’Asia centrale, una
volta appartenenti all’Unione Sovietica, tutte situate a ridosso della
Cina. Da qui, partono giornalmente in direzione Cina circa 500.000
barili di petrolio, attraverso oleodotti e petroliere. Questo è stato un
grande aiuto ai “commissari del popolo” del Kazakistan, il cui PIL ha
raggiunto i 56 miliardi di dollari grazie allo sviluppo dei suoi bacini
ricchi di energia tramite le esplorazioni statunitensi, europee e russe.
Il paese confina da un lato con l’enorme provincia cinese dello Xinjian,
e si sta sviluppando velocemente per incrementare il commercio da
entrambe le parti, non soltanto quello riguardante petrolio e gas ma
anche cemento e manufatti.
In ogni modo, i cinesi non hanno lasciato i paesi democratici fuori
dalla lista dei possibili acquirenti. Un paio di anni fa, la Cina ha
acquistato una grossa quota di partecipazione della grande miniera
canadese Noranda, e ha dozzine di rapporti d’affari con i singoli
produttori di petrolio, gas e carbone delle regioni di Alberta e
Saskatchewan. Come dire, niente è lasciato al caso; nello stesso palazzo
dove si trova il mio ufficio a Seattle, uno speculatore ha aiutato degli
imprenditori cinesi ad acquistare privatamente partecipazioni su miniere
di carbone, oro e argento.
Per i distaccati investitori statunitensi, la cosa più ovvia da fare è
semplicemente aggregarsi, prendendo posizione tra le compagnie nazionali
ed internazionali che riforniscono il colosso cinese: siano esse la
canadese Falconbridge (metallo), un produttore di energia turco come la
Toreador Resources in Texas, un produttore di petrolio e gas venezuelano
come Harvest Natural Resources oppure come le due grosse compagnie
energetiche cinesi, la Cnooc o la China Petroleum & Chemical.
Il consumatori non possono far molto, a parte indignarsi e, al massimo,
limitare il proprio consumo del combustibile fossile. La Cina non ha
nessun incentivo per sottomettersi alla richiesta degli Stati Uniti di
esigere un cambiamento dei regimi repressivi dei suoi partner
commerciali. E i politici non sono inclini a far posto a regole che
limitino la partecipazione statunitense a quella sorta di mediazione
corrotta e per mezzo di armi che sembra essere indispensabile quando si
fanno affari nella zona equatoriale, luogo dove si sta scoprendo la
maggior parte delle nuove fonti energetiche.
E così, siamo di fronte a un solito caso di “se non li puoi battere,
fatteli amici”. Stringere la mano alla Cina se si deve ma continuare
comunque ad acquistare miniere e a trivellare il fondo marino in questo
mercato al rialzo per accaparrarsi le materie prime, a vendere SUV
(Sport Utility Veichles, NdT), a traslocare vicino all’ufficio, ad
installare pannelli solari e a far pace con l’energia nucleare.
Jon D. Markman è direttore del notiziario di investimento indipendente
'The Daily Advantage' e scrive settimanalmente per CNBC su MSN Money, i
cui articoli vengono ripubblicati su TheStreet.com.
Fonte:
http://www.thestreet.com/_tsclsii/comment/investing/10281893.htmlong
Traduzione a cura di Simona Casadei per
Nuovi Mondi Media
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Mercoledì 7
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Venerdì 9 giugno 2006 |
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Giovedì 22
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Wall Street: le previsioni dei guru
01 Giugno 2006 6:23 Milano
- di La Lettera Finanziaria
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Gli
strategisti più bravi di Wall Street, Francois Trahan di Bear, Stearns & Co., e
Abhijit Chakrabortti di Jp Morgan, sono anche i più ribassisti circa le
prospettive delle borse statunitensi.
Trahan, primo nella classifica dei migliori strategisti Usa compilata per l'anno
scorso da Institutional Investor, ha tagliato dell'11% la propria previsione per
il 2006 dell'indice Standard & Poor's 500, abbassandola a 1.200, appena sopra i
1.190 stimati da Chakrabortti, pronostico più basso fra quelli dei 14
strategisti interpellati da Bloomberg.
Chakrabortti è stato indicato come il migliore
analista per i mercati mondiali negli ultimi due sondaggi di Institutional
Investor. "E' da un po' ormai che la performance dei mercati azionari mi
preoccupa", ha dichiarato venerdì scorso il 37enne Trahan a Bloomberg News, in
un'intervista a New York. Secondo Trahan,
la frenata è "legata al rallentamento della crescita economica".
Se i due strategisti hanno ragione, l'indice S&P 500 potrebbe chiudere l'anno
con una perdita del 4,7%. La ritirata dell'indice, rispetto al massimo degli
ultimi cinque anni raggiunto questo mese, è vicina a vanificare il rialzo messo
a segno nel 2006, in una fase in cui cresce la preoccupazione degli investitori
circa l'accelerazione dell'inflazione e il rallentamento della crescita
economica.
Gli utili delle aziende dell'indice S&P 500
sono saliti del 14% nel primo trimestre, secondo Thomson Financial. Si tratta
dell'11esimo trimestre consecutivo di espansione superiore al 10 percento ed il
secondo periodo rialzista più lungo dal 1950. Secondo Chakrabortti, 38 anni,
l'economia non ha più il vigore
sufficiente per sostenere un aumento record degli utili e prevede che
l'espansione dei profitti rallenterà "virtualmente a zero" entro la fine
dell'anno. "L'economia e gli utili perderanno d'impeto e
contemporaneamente l'inflazione accelererà" ha detto lo strategist di Jp Morgan.
Fonte - La
Lettera Finanziaria
Un orso
che non deve far paura
5 Giugno 2006 0:05 Milano
- di Borsa & Finanza
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Fino all’11 maggio scorso il mercato azionario
Usa sembrava il migliore dei mondi possibili, con il Dow Jones in salita
dell’8,9% da inizio anno e il Russell 2000 (indice delle società a bassa
capitalizzazione) in aumento del 15 per cento. Poi, in due difficili settimane,
i titoli hanno ceduto gran parte dei loro guadagni. Il Dow ha perso più di 500
punti (-4,6%) e il Russell 2000 ben di più (-8,3%). Entrambi gli indici hanno
poi ripreso fiato la scorsa settimana, mentre negli ultimi giorni le cose hanno
di nuovo preso una brutta piega. Il
risultato è che sia gli ottimisti che i pessimisti si stanno ponendo due
importanti domande: questo spiacevole mese di maggio è da considerarsi l’inizio
di un trend ribassista, dopo tre anni e mezzo di guadagni? Considerando la
brusca caduta del Russell 2000, è arrivata l’ora di abbandonare i titoli delle
piccole società?
Dal
mio punto di vista la risposta è negativa a entrambe le domande. Ned Davis
Research, istituto che ha sede in Florida, conserva eccellenti statistiche sulle
correzioni e sui ribassi dei mercati. La società ha reso noto che correzioni del
5% o poco più del Dow Jones si sono verificate 355 volte dal 1900, in media 3,3
volte l’anno. Soltanto 31 volte tali correzioni sono peggiorate, trasformandosi
in crolli di oltre 20 punti percentuali. Un trend ribassista si verifica,
quindi, una volta ogni tre anni. In pratica, più del 90% delle correzioni non
diventano un mercato Orso. Ned Davis Research ha condotto un’analisi simile sul
Russell 2000 a partire dal 1979. L’indice delle piccole azioni ha realizzato 74
correzioni del valore del 5% o poco più, e nove veri e propri ribassi di
mercato. La frequenza di correzioni e ribassi è quindi all’incirca pari a quella
del Dow Jones. Se il ribasso di maggio fosse finito, non sarebbe dunque altro
che una flessione «standard». È ciò che penso, e dirò il perché.
I profitti d’impresa sono in buona salute e
nel primo trimestre 2006 il pil Usa è cresciuto del 3,6% annuo. I tassi, sebbene
cresciuti, non sono alti per gli standard storici. Solo se il declino dovesse
riprendere, e peggiorare, trascinando il Dow e il Russell al di sotto del 10%
dai picchi del 10 maggio, il passato ci
dice che la possibilità di vedere un prolungato ribasso sarebbe del 50 per
cento.

Fonte -
Bloomberg - Borsa & Finanza
MERCATI EMERGENTI:
MAGGIORE CALO DI OLTRE 3 ANNI
31 Maggio 2006 18:08
NEW
YORK
Nel mese di maggio, i titoli azionari dei mercati
emergenti hanno registrato la peggiore performance degli ultimi tre anni
e mezzo. La causa principale e’ da ricercare nelle prospettive di alti
tassi d’interesse unite ad un calo accentuato dei prezzi delle
commodities, che hanno spinto gli investitori ad uscire dai mercati
dell’area Bric (India e Russia in particolare).
Il Morgan Stanley Capital International Emerging Markets Index, che e’
costituito dalle azioni di 26 Paesi in via di sviluppo a livello
globale, ha registrato una performance negativa del 10% nell’ultimo
mese. Ed e’ precisamente in calo del 14% dai massimi storici segnati lo
scorso 8 maggio.
L’ultimo calo di tali dimensioni risale al mese di settembre 2002
(-11%), quando il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, aveva
annunciato, in un intervento alle Nazioni Unite, la futura invasione
dell’Iraq.
Il Sensex, un indicatore utilizzato per
descrivere l’andamento dei titoli azionari indiani, e’ in ribasso del
18% dai massimi del 10 maggio e del 12% dall’inizio del mese. Il
ministro del commercio indiano, Kamal Nath, ha rassicurato sulla
situazione, affermando che si tratta di una semplice correzione e che
non c’e’ niente di cui preoccuparsi poiche’ l’economia del Paese
continua a procedere sui binari giusti.
Nell’ultimo incontro del Fomc, la Banca Centrale Americana ha alzato il
costo del denaro per la sedicesima volta consecutiva, portandolo al 16%,
lasciando aperte le porte a futuri rialzi. Gli economisti danno per
scontato un aumento dei tassi d’interesse anche da parte della BCE, che
potrebbe portarli al 2.75% nel meeting che si terra’ il prossimo 8
giugno. Ed anche la Banca del Giappone potrebbe optare per un rialzo dei
tassi nell’incontro di luglio, dopo oltre cinque anni.
Oltre alle prospettive di politica monetaria restrittiva, che potrebbero
provocare un rallentamento generale dell’economia, a determinare tale
situazione e’ stato, come accennato poco sopra, anche il brusco calo dei
prezzi delle commodities. Nella settimana conclusasi lo scorso 19
maggio, il Reuters/Jefferies CRB Futures Price Index, un paniere
composto da 19 beni, ha registrato la maggiore perdita settimanale degli
ultimi 25 anni.
Fonte: Bloomberg.com
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America
Latina: Il Sud America fa marcia indietro
Michela Muscio -
2006-06-01
Il rialzo dei tassi americani e il possibile
proseguimento della politica restrittiva della Fed fanno crollare le
Borse dell’area. Ai ribassi contribuisce il temporaneo calo delle
materie prime, chiave delle esportazioni sudamericane. Aumentano gli
alleati di Chavez nella lotta contro Stati Uniti e Europa sulle
concessioni petrolifere. Non ha risparmiato l’America Latina la
correzione dell’ultimo mese che ha investito i mercati finanziari a
livello globale. L’indice dell’area, l’Msci Emerging Market Latin
America, è retrocesso del 15,6% negli ultimi trenta giorni, e ha
azzerato i guadagni da inizio anno. Nel dettaglio, il Bovespa, l’indice
brasiliano, e la Borsa del Messico hanno lasciato sul terreno l’11%. Non
è andata meglio all’Argentina, che ha perso il 13,4%.
Le preoccupazioni legate ai rialzi del costo del
denaro americano, insieme al temporaneo calo dei prezzi delle materie
prime, di cui i Paesi sudamericani sono i maggiori esportatori, sono la
principale ragione del crollo delle Borse.
La decisione del 10 maggio di innalzare
nuovamente i tassi di interesse dal 4,75% al 5% da parte della Federal
Reserve, che ha lasciato la porta aperta a ulteriori incrementi, ha reso
i mercati emergenti meno attraenti agli occhi degli investitori. La
riduzione degli spread (differenziali) tra i tassi statunitensi e quelli
sudamericani, insieme al recente aumento dei rendimenti dei Treasury, ha
aumentato le probabilità di un possibile allontanamento degli
investitori dall’area emergente, a favore di mercati finanziari che
presentano elevanti rendimenti a fronte di un minor rischio di default.
Anche le valute dell’area sudamericana hanno
risentito del proseguimento della stretta monetaria da parte
dell’istituto centrale americano. E’ stato messo sotto pressione in
particolare il real, la moneta brasiliana, che, dopo aver toccato i
massimi da cinque anni a inizio maggio, si è indebolito contro il
biglietto verde, arrivando a 2.308 per dollaro, il livello più basso dal
20 gennaio 2006. I più alti rendimenti offerti dai titoli obbligazionari
americani, l’intervento più aggressivo da parte della Banca centrale
brasiliana sul mercato spot con l’obiettivo di creare riserve e favorire
le esportazioni e i possibili cambiamenti nelle regole di rimpatrio dei
profitti hanno contribuito alla discesa della valuta. Il mercato si
attende che la Banca centrale di San Paolo continui la manovra di
politica monetaria espansiva, tagliando i tassi di interesse nella
prossima riunione dal 15,75% al 15,25% per stimolare l’economia. Questa
è cresciuta dell’1,4% nel primo trimestre del 2006, mentre è salito del
3,4% il Prodotto interno lordo (Pil) nell’ultimo anno.
Sono più solidi i dati congiunturali in Messico
dove il Pil è cresciuto del 5,5% nei primi tre mesi del 2006. Segnali
confortanti provengono anche dal fronte dell’inflazione, con i prezzi al
consumo che sono saliti dello 0,15% ad aprile, percentuale inferiore
alle attese degli analisti. Il basso livello del costo della vita ha
spinto l’istituto centrale messicano a tagliare i tassi per nove volte
consecutive nei mesi scorsi, favorendo i consumi e la produzione. Per
quanto riguarda il debito pubblico Merrill Lynch ha innalzato il
giudizio da underweight a market weight, raccomandando i bond a lunga
scadenza.
Nell’ultimo mese però il nervosismo legato alle
elezioni presidenziali del 2 luglio ha contagiato il mercato
finanziario, in quanto i due candidati, Felipe Calderon e Andres Manuel
Lopez Obrador, sono in parità secondo i sondaggi.
La crescita è in atto anche in Venezuela dove il
Pil è salito del 9,6% nel primo trimestre dell’anno. Il presidente Hugo
Chavez è al centro del conflitto sulle concessioni petrolifere tra
governi sudamericani e compagnie europee e statunitensi. Sulla linea di
Chavez si sono mossi altri Paesi, tra cui la Bolivia, dove Evo Morales
ha nazionalizzato le risorse energetiche poche settimane fa, e l’Equador
che ha deciso di revocare il contratto alla statunitense Occidental
Petroleum per attribuire la concessione ad una compagnia
latino-americana.
E’ ottimista sul Sud America Dean Newman,
analista di Invesco che ritiene che “la quota di quest’area sul Pil
globale crescerà data la sua popolazione giovane e in espansione”. Gli
esperti della società nel rapporto “Risk & Reward” affermano però che è
necessario un certo grado di cautela perché esistono alcuni rischi
esterni tra cui la riduzione della liquidità nel sistema finanziario
globale, una crisi inflazionistica e una politica monetaria statunitense
troppo severa.
Fonte -
Morningstar Italia
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Est
Europa: In fuga dagli emergenti
MariaGrazia Briganti -
2006-06-15
Dopo tre anni di rally, il giro di vite sulla
liquidità da parte delle Banche centrali e l’aumento dei rendimenti sui
bond americani hanno allontanato gli investitori dai mercati dell’Europa
dell’Est. Le vendite hanno penalizzato gli indici e i settori che
avevano corso di più e nel medio periodo le previsioni restano incerte.
È di oltre il 24% il calo dell’Msci Eastern
Europe NDTR nel corso dell’ultimo mese. La profonda correzione che sta
penalizzando i principali mercati dell’area ha bruciato i guadagni
realizzati nel 2006 e da inizio anno l’indice è in territorio negativo
per il 3,6%. L’aumento dei tassi di interesse in Europa e la prossima
stretta monetaria prevista negli Usa alla fine di giugno hanno indotto
gli investitori internazionali a prendere profitto sulle Borse dell’Est,
chiudendo le posizioni su investimenti che diventano meno vantaggiosi
rispetto ai tassi americani e liberandosi degli asset più volatili come
le monete emergenti.
La più colpita è la Borsa di Istanbul, dove l’ISE
(al 14 giugno) ha perso oltre il 26%. In un clima di generale
volatilità, a penalizzare il listino sono stati soprattutto i timori
economici e le difficoltà di carattere politico, sfociati nel forte
deprezzamento della lira turca. Sebbene la Turchia prosegua il suo
trend positivo, con l’indebitamento estero in flessione sul Prodotto
Interno Lordo, la povertà, le disparità di reddito e il mercato
irregolare mettono sotto pressione il Governo e la sua politica. E non
poche perplessità generano negli osservatori europei gli ancora
frequenti episodi di estremo nazionalismo e fondamentalismo islamico che
minano le basi del processo di convergenza del Paese.
Pesante è stato anche il crollo della Borsa di
Mosca. L’indice RTS ha perso più del 25% nell’ultimo mese, con un calo
del 10% nella sola seduta del 13 giugno. Lukoil, Gazprom e Norilsk
Nickel sono state le più penalizzate a causa del raffreddamento nei
prezzi delle materie prime che ne avevano sostenuto i prezzi nei mesi
passati e sono state spesso oggetto di movimenti speculativi. In
negativo anche l’indice della Borsa di Praga, il PX, e quello dei primi
20 titoli del listino polacco, il Wig 20, entrambi in flessione del 20%
nell’ultimo mese (al 13 giugno). Mentre si sono difese le società a
piccola e media capitalizzazione, che hanno limitato le perdite a poco
meno del 15%, sulla Borsa di Varsavia hanno sofferto i colossi
internazionali come Pekao e Bioton.
L’azienda biotecnologia polacca, in particolare,
che conta oggi 500 dipendenti e si trova in un momento di forte
espansione verso i mercati esteri emergenti, ha annunciato di voler
acquisire le italiane Pharmatex e Fisiopharma per circa 17,5 milioni di
euro. Nel frattempo, procede la convergenza verso l’Unione monetaria
della Slovenia, che ha ricevuto il via libera come tredicesimo membro
nell’eurozona dal gennaio 2007. La Repubblica balcanica è il primo dei
paesi ammessi all’Ue nel 2004 a entrare nell’euro. Mentre la Lituania e
la Slovacchia, che sembravano i candidati più prossimi, hanno rallentato
il passo a seguito di problemi legati al non soddisfacimento dei
parametri, primo fra tutti l’inflazione. L’ampiezza della correzione
dopo tre anni di rally, spiegano gli asset manager, si giustifica con il
cambiamento del sentiment generale sui mercati, che devono porre più
attenzione alle valutazioni raggiunte da alcuni settori e fare i conti
con minore livello di liquidità scegliendo investimenti con un più basso
livello di rischio.
Ma se questi timori sono teoricamente fondati, i
livelli delle aziende quotate sono ancora sostenibili. Con la correzione
di maggio, il rapporto tra prezzi e utili delle società appartenenti
all’Msci Eastern Europe oscilla tra l’11 e l’11,5, contro il p/e
dell’S&P 500, pari a 17,5, mentre Piazza Affari vale circa 15 volte gli
utili.
Fonte -
Morningstar Italia
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Azionario:
no problem, non cadremo in depressione
9 Giugno 2006 10:12 Roma
- di Alessandro Penati
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Dai
massimi del 9 maggio tutte le Borse non hanno fatto altro che scendere: -7% Wall
Street, -15% Tokyo, -12% l´Europa, -9% Piazza Affari. Per gli investitori,
assuefatti alle crescite record degli ultimi tre anni (dal 110% in Europa, al
210% nei mercati emergenti), è un brusco risveglio.
L´indice è puntato verso le banche centrali, che condurrebbero una caccia alle
streghe contro l´inflazione, aggravata dalla goffaggine di Bernanke davanti ai
microfoni e dall´ambiguità di Jean Claude Trichet. Insensato: le banche centrali
stanno solo somministrando una sana dose di realismo a mercati che sognavano a
occhi aperti.
L´inflazione, comunque la si
misuri, sta accelerando, ovunque nel mondo. Nel primo trimestre, il
deflatore del Pil americano (l´indice dei prezzi più ampio possibile) è
cresciuto del 3,2%; il costo della vita negli Usa, del 5% da inizio anno. In
Europa, a maggio siamo al 2,5%, stabilmente al di sopra del tetto del 2% fissato
dalla Bce. La crescita dei prezzi dipende in larga parte dal costo del petrolio
e delle materie prime; tolte queste, l´indice cosiddetto "core", non preoccupa.
Ma sarebbe sbagliato continuare a considerare l´impennata del prezzo
dell´energia un evento straordinario, e quindi componente temporanea da
sottrarre dal computo: lo scenario dell´offerta è cambiato in peggio; non
esistono margini per aumentare in tempi ragionevoli la capacità di estrazione e
raffinazione; e a questo si aggiunge l´insaziabile fame energetica dell´Asia,
che ci costringerà a convivere a lungo con un costo del greggio elevato.
Nonostante i rincari di petrolio e materie prime, le imprese sono riuscite ad
aumentare i margini di profitti a livelli record, pur senza ritoccare i listini.
Non può durare, perché la capacità produttiva inutilizzata, che negli ultimi
anni aveva permesso alle economie di espandersi senza inflazione, è stata
riassorbita. Gli Usa crescono al di sopra del loro tasso potenziale da
almeno tre anni (e la disoccupazione è al minimo storico del 4,6%): se non
rallenteranno, gli ulteriori aumenti della domanda si ripercuoteranno sui prezzi
alla produzione e sul costo del lavoro. In Giappone la fase decennale di
deflazione è terminata. In Europa la ripresa è finalmente solida (+2,3% nel
primo trimestre rispetto al precedente). Non siamo a livelli "americani", ma non
conta tanto il valore in sé, quanto il tasso potenziale al quale l´economia si
può espandere: che, considerati i problemi di sempre (mercato del lavoro, dei
servizi e costo del welfare) non è irragionevole ipotizzare intorno al 2%, a
metà della forchetta di crescita che la Bce si aspetta per quest´anno e per il
prossimo. Qualunque sia il tasso potenziale, il livello dei tassi di interesse
deve essere coerente con lo stadio del ciclo economico. Gli Usa, al picco
dell´espansione, non corrono il rischio di una recessione se la Fed li alzasse
dal 5% al 5,5% per la fine dell´estate. In Europa il rischio è addirittura
l´opposto: nonostante l´aumento di ieri, i tassi reali a breve rimangono
prossimi allo zero. Troppo poco per un´economia già in crescita avviata; e una
concessione troppo generosa alle pressioni dei Governi alle prese con il
risanamento delle loro finanze.
La politica monetaria non va valutata solo guardando al livello dei tassi. Oggi
nel mondo c´è liquidità in eccesso: basta guardare al premio per il rischio su
qualsiasi attività, che rimane vicini ai minimi storici; o al prezzo di immobili
e materie prime, a livello da bolla. In Europa poi il credito si espande al 9%,
il doppio del reddito nominale.
Gli
anni settanta e ottanta hanno insegnato ai banchieri centrali a considerare, più
che l´inflazione, le aspettative. Se si guarda ai tassi a lungo termine dei
titoli di Stato non si trovano segnali d´allarme. Ma non bisogna illudersi: il
passato insegna anche che, quando questi si muovono, è troppo tardi, perché
l´inflazione attesa è già aumentata; e diventa allora costosissimo
stabilizzare le aspettative. Inoltre, la disperata corsa al rendimento di molti
investitori istituzionali sostiene artificiosamente il prezzo del debito
pubblico, riducendo il valore segnaletico dei tassi.
L´azione delle banche centrali, dunque, è solo un sano richiamo
alla realtà. Non prelude a un mercato orso come quello di sei anni fa; né
ci espone al rischio di una recessione da eccesso di restrizione, in stile anni
ottanta. La posizione finanziaria delle imprese non è mai stata così solida; e
le banche hanno una patrimonializzazione tale da sostenere un´eventuale
riduzione del valore degli attivi senza dover contrarre il credito.
Ma la festa della liquidità è finita. Dopo la baldoria,
non cadremo nella depressione: torneremo alla vita di tutti i giorni. Prima,
però, il premio per il rischio nei mercati deve tornare a livelli medi storici:
oggi è ancora troppo basso. Qualche investitore rimarrà col mal di testa: ma per
questo basterà l´aspirina.

Fonte -
La Repubblica
GIAPPONE: SCANDALO FINANZIARIO E NIKKEI GIU' DEL 4%
13 Giugno 2006 19:26 NEW YORK
(ANSA)
Il caso Murakami, l'ultimo scandalo finanziario
che scuote il Giappone, chiama in causa anche il governatore della Banca
centrale nipponica (Boj) Toshihiko Fukui. Il banchiere ha ammesso oggi
in audizione al parlamento di aver investito nel 1999 dieci milioni di
yen nel fondo guidato dall'arrembante finanziere Yoshiaki Murakami,
finito la scorsa settimana in manette con l'accusa di insider trading.
L'ammissione - benché all'epoca Fukui non fosse ancora al timone della
Banca centrale ma direttore di un centro economico di ricerca - ha
provocato sconcerto sul mercato contribuendo al tonfo del 4,1%
registrato oggi dalla piazza di Tokyo, per il maggior calo giornaliero
da poco più due anni. Alcuni esponenti dell'opposizione hanno chiesto le
dimissioni del governatore che da parte sua respinge ogni accusa,
sottolineando di non aver infranto le regole di condotta della Banca ma
di aver effettuato un semplice investimento da privato cittadino. "Non
era mia intenzione lucrarci - ha detto il governatore - ma semplicemente
sostenere i progetti di Murakami".
Il finanziere, ha raccontato il governatore, aveva favorevolmente
impressionato i vertici dell'istituto di ricerca economico con i suoi
progetti nell'ambito di un nuovo business che mirava oltretutto
sostenere una corporate governance più salda e trasparente all'interno
delle aziende.
Il governatore ha anche detto di aver chiesto "da diversi mesi" di
cedere la partecipazione, che aveva peraltro regolarmente denunciato al
fisco, pagando le dovute tasse. A difesa del governatore è sceso in
campo lo stesso premier Koizumi osservando di non riscontrare nessuna
violazione delle norme etiche stante che l'investimento è stato fatto in
tempi antecedenti alla sua nomina al vertice della Banca centrale.
Stesse osservazioni sono giunte dai ministri dell'economia e delle
finanze. Se il governatore non vacilla, il mercato si attende tuttavia
qualche ripercussione sul fronte delle decisioni sui tassi che verranno
prese nella riunione della Boj in programma domani.
Sono in molti a ritenere che la Banca, sotto pressione per questa
vicenda, potrebbe rinviare quel rialzo del costo del denaro - il primo
da oltre sei anni - che era invece largamente atteso per domani. La
bufera sul governatore va in ogni caso ad aggiungere altra incertezza su
una piazza finanziaria, quale quella giapponese, che sta in fase
discendente da diverse settimane. L'indice Nikkei ha lasciato sul
terreno il 20% dal 7 aprile scorso.
Allo scivolone hanno certamente contribuito gli scandali finanziari
degli ultimi tempi: prima del caso Murakami aveva infatti tenuto banco
lo scandalo Livedoor che aveva visto finire in manette, per aggiotaggio
e false comunicazioni societarie, tutti i top manager della società
numero uno di servizi internet in Giappone, a cominciare dal suo
fondatore il 34enne Takafumi Horie, osannato enfant prodige della new
economy nel Sol Levante.
Fonte -
ANSA
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Risorse Naturali: L’oro giallo e quello nero
brillano meno
Sara Silano 2006-06-21
Milano
Nell’ultimo mese, i prezzi delle materie
prime sono scesi, trascinando al ribasso i titoli del settore. Ma l’industria è
in fermento, tra progetti di fusione, alleanze e debutti in Borsa.
L’Italia non fa eccezione.
Petrolio e materie prime hanno perso
quota nell’ultimo mese, trascinando al ribasso i titoli del settore. L’indice
Msci World Materials ha perso il 6,2% e ha annullato i guadagni da inizio anno,
girando in negativo (-1% al 20 giugno), mentre l’Msci Energy ha lasciato sul
terreno oltre il 4% (-3,7% da gennaio).
Il contratto Wti (West Texas Intermediate, il petrolio statunitense) con
scadenza a luglio è calato sotto i 70 dollari al barile al mercato di New York.
Sono scesi anche i metalli preziosi e non: l’oro si è portato a 569,75 dollari
l’oncia al London metal exchange, l’argento a 9,8 e il rame (base tre mesi)
sotto i 7 mila dollari. Molteplici i
fattori che hanno determinato il calo, primo fra tutti i timori di un
rallentamento dell’economia, in particolare in Cina e negli Stati Uniti. Hanno
pesato, inoltre, il recupero del dollaro sul mercato valutario e i riscatti dei
fondi d’investimento.
Secondo l’Energy information
administration (Eia), l’agenzia statistica del Dipartimento dell’Energia
statunitense, gli elevati prezzi del petrolio determineranno un freno ai
consumi, ma nel lungo periodo la domanda mondiale è destinata a salire. L’ente
stima una crescita del 37% entro il 2030, dagli attuali 86 a 118 milioni di
barili al giorno, che è da attribuire soprattutto ai Paesi emergenti. Gran parte
dei consumi saranno legati ai trasporti a causa della scarsità di fonti
alternative.
Oltre alle dinamiche della domanda e
dell’offerta, il prezzo del greggio è influenzato dagli avvenimenti geopolitici.
L’annuncio dell’uccisione del leader di al-Qaida, Abu Musab al-Zarqawi, ha
contribuito alla discesa delle quotazioni, mentre le tensioni tra Iran e
occidente sul programma nucleare di Teheran e la delicata situazione in
Venezuela e Nigeria hanno alimentato la volatilità.
L’andamento dei titoli petroliferi e
delle materie prime non è stato influenzato solo dalle quotazioni dell’oro nero.
L’industria è in fermento, in modo particolare in Russia. Gazprom, colosso del
gas, è in trattativa per comprare il 20% di Sibneft dalla Yukos che è sull’orlo
della bancarotta in seguito all’inchiesta per evasione fiscale, mentre un altro
big dell’ex Unione sovietica, Rosneft si prepara al debutto alle Borse di Mosca
e Londra a metà luglio. Nel settore siderurgico europeo, è sempre più
intensa la battaglia per la conquista di Arcelor. Dopo il tentativo di scalata
ostile da parte degli indiani di Mittal Steel, il gruppo franco-lussemburghese
ha messo a punto un progetto di fusione con la rivale russa Severstal. Intanto,
è diventato primo azionista di Arcelor il finanziere Romain Zaleski, che ha
annunciato nuovi possibili acquisti di titoli. La partita, dunque, resta aperta.
L’ultimo è stato un mese movimentato anche in Italia. Il vertice tra il
presidente russo, Vladimir Putin e il presidente del consiglio italiano, Romano
Prodi, ha portato a un’intesa sul gas, che apre la strada alla collaborazione
tra Eni e Gazprom. Nello stesso settore, hanno deciso di dare origine a una
joint venture, la Camfin di Marco Tronchetti Provera e Gaz de France, presieduta
da Jean-Francois Cirelli. La nuova realtà diventerà il quarto operatore del gas
nel nostro Paese con oltre 800 mila clienti.
La volatilità dei listini ha fermato la quotazione a Piazza Affari di Api
(Anonima petroli italiana), mentre Saras, che ha debuttato il 18 maggio, resta
sotto il prezzo di collocamento fissato a 6 euro, nonostante il numero uno
dell’azienda, Gianmarco Moratti abbia confermato la strategia di sviluppo e la
possibilità di investimenti nelle reti di distribuzione.
Sull’industria dell’energia hanno acceso i fari le Autorità di vigilanza.
L’Antitrust ha comminato una multa di 315,43 milioni di euro a sei compagnie
petrolifere (Eni, Esso, Q8, Shell, Shell Italia Aviazione, Tamoil e Total ) con
l’accusa di aver costituito un cartello per i rifornimenti di carburanti
aeroportuali, che ha impedito l’ingresso di nuovi operatori. L’Autorità per
l’energia e il gas, invece, da tempo fa pressioni perché si crei una maggior
concorrenza nel settore della distribuzione e dello stoccaggio, partendo dalla
cessione di Snam Rete Gas e Stogit da parte dell’Eni. Ma per il presidente del
Cane a sei zampe, Paolo Scaroni, una simile operazione comprometterebbe la
leadership del gruppo italiano a favore dei concorrenti europei.

Fonte -
Morningstar Italia
Estate di incognite per i bond
Martedì 27/06/2006
- di MiaEconomia
Estate ricca di incognite per il popolo del
bond people. Da una parte c’è infatti l’attesa per le decisione della Fed e
della Banca centrale europea sui tassi di sconto, dall’altra invece si fanno
sempre più fitte e credibili le voci che danno i due colossi americani
dell’auto, Gm e Ford, sull’orlo del baratro.
Con ordine. La questione dei tassi è ormai all’ordine del giorno da mesi. E se
sulla sponda americana i pronostici dei ben informati parlano di un imminente
ritocco al 5,25% che potrebbe però essere l’ultimo, nel vecchio continente si
potrebbe passare entro fine anno dal 2,75% addirittura fino al 3,5%.
Questo cosa significa? Evidentemente a
un rialzo dei rendimenti corrisponderebbe un ribasso dei prezzi e questo
vorrebbe dire pericolo soprattutto per chi va ad acquistare titoli a lunga
scadenza.
Quindi è consigliabile acquistare i titoli a cedola fissa di lunga durata magari
in modo graduale e diversificando il più possibile il proprio portafoglio
obbligazionario.
Da qui all’autunno, quindi, regnerà,
l’incertezza. Meglio restare cauti. Motivi di prudenza che non mancano neanche
sul mercato dei corporate bond. Sale infatti la tensione per il possibile
default dei due colossi dell’auto a stelle e strisce.
General Motors e Ford sono infatti sull’orlo di un burrone e
l’eventuale default con la montagna di obbligazioni emesse e non rimborsate
potrebbe provocare un effetto a catena su tutto il mercato obbligazionario.
Downgrading a parte delle agenzie di rating un dato su tutti può rendere l’idea
della situazione in cui versano le due aziende americane.
Il recente lancio del maxi-prestito obbligazionario da 2,5 miliardi di dollari
ha portato infatti al rendimento più alto della storia della Ford. Intorno al
10,6 per cento. In pratica la casa di Detroit starebbe rinegoziando i titoli in
scadenza ad ottobre con nuove obbligazioni che allungano la scadenza e
migliorano anche i rendimenti offerti ai sottoscrittori.
Ford ha 60 miliardi di dollari di
obbligazioni in scadenza in questi anni. Ed è quindi costretta a rinegoziare o a
emettere nuovi bond a rendimenti molto alti. Un brutto segnale che non lascia
sicuramente i mercati tranquilli.
Fonte -
MiaEconomia.it
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