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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Mercato USA

Wall Street a un passo dal record storico

Borse e previsioni

Borsa sottovalutata del 20%

Borse e previsioni

Quanto durerà il brivido che scuote i mercati ?

Tassi USA

Bravo Bernanke, meglio stare fermi

Valute

Dollaro: sta per finire il signoraggio ?

   

Vai alla seconda parte della Rassegna

 

+++  Dow Jones vicino ai massimi storici  +++  Le borse viaggiano sui massimi degli ultimi 3 anni   +++   Inflazione, Tassi e Petrolio deprimono le borse  +++  Lunedì nero per le borse europee, i ribassi vanno oltre il 3%  +++  Peggior performance degli ultimi 3 anni  +++

..... Sabato  13  maggio  2006   Venerdì  26  maggio  2006   Sabato  27  maggio  2006 .....
       
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GR1 RAI - 04 MAG ore 22:30

   

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   Wall Street a un passo dal record storico

8 Maggio 2006 Milano - di Vittoria Puledda

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Chissà se la manciata di mesi di ritardo con cui la maggior parte delle Borse mondiali ha raggiunto i rispettivi massimi storici - grosso modo tutte insieme tra marzo e aprile del 2000 - basterà per recuperare il terreno perduto nei confronti del Dow Jones, che ormai ha archiviato la bolla speculativa e il relativo sboom tornando finalmente al punto di partenza. Dopo sei anni e quattro mesi, infatti, Wall Street sta per archiviare il lungo purgatorio, riconquistando i livelli da cui era cominciata la discesa, dal punto più alto cui era stata fissata l´asticella: quota 11.722,98 punti, segnati il 14 gennaio del 2000 e mai più rivisti. Venerdì scorso lo stesso indice si è fermato a 11.577,74 punti; dunque, un misero rialzo dell´1,23% separa ormai le quotazioni da quei valori di riferimento, toccati all´inizio del secolo.

La distanza ormai è quasi simbolica e se non altro per ragioni simboliche difficilmente l´obiettivo verrà mancato; né la riunione di oggi dei governatori del G10 né quella del Fcom, del 10 maggio, dovrebbero essere in grado di rovinare la festa. Anche perché, specie per quanto riguarda gli Stati Uniti, viene considerata ormai scontata la decisione della Fed di alzare di un quarto di punto i tassi di interesse, portandoli al 5%, mentre da quel punto in poi potrebbe cominciare una stagione di sostanziale bonaccia. Insomma, se non interverranno elementi nuovi e di forte disturbo, brindare al recupero dei record storici dovrebbe essere a portata di mano.

E questo, nonostante un guru molto ascoltato negli Usa, Warren Buffett, proprio ieri parlando alla riunione annuale della sua Benkshine Haythaway, sia stato tutt´altro che ottimista. Buffett, infatti, ha sostenuto che «lo spaventoso debito delle partite correnti» minaccia di provocare danni a catena, dalla pesante svalutazione del dollaro alla forte ripresa dell´inflazione. Secondo lo stratega finanziario non meno insidie si nascondo nel rally delle commodity, ormai legato a «una vera e propria speculazione» o nei prezzi degli immobili. Per finire, Buffett ha invitato i risparmiatori a stare alla larga dai media, ma anche dai consulenti finanziari, dai banchieri d´affari e dai gestori di hedge fund. Si vedrà quanto il Dow Jones si farà intimorire.

Finora è stato sicuramente più brillante e reattivo degli altri mercati. Quello che ha fatto meglio, finora, è anche quello tradizionalmente più correlato, il mercato di Londra: la distanza che separa l´Ft100 dai valori massimi raggiunti il 9 aprile del 2000 è pari al 10,4%, poco meno di quanto manchi ancora da fare al Mibtel - sotto del 14,3% rispetto ai massimi - ma molto meglio della Borsa francese, che ha toccato il record assoluto nello stesso giorno di Londra e però è ancora indietro del 23,6% rispetto a quei valori. Stesso discorso per Francoforte, dove gli indici sono distanti ancora il 24,2% rispetto ai prezzi di sei anni fa (il Dax ha toccato i massimi per ultimo, nel luglio del 2000, mentre Piazza Affari lo aveva fatto all´inizio di marzo).

Insomma, un po´ tutte le Borse si avviano a recuperare il terreno perduto in seguito allo scoppio della bolla speculativa che si era creata a ridosso di Internet. E il Nasdaq, dove si era concentrato il maggior numero di società tecnologiche? In questo caso, il bilancio è meno positivo: quando il mercato avrà guadagnato il 6% rispetto alla chiusura di venerdì scorso, sarà "finalmente" sotto del 50% rispetto a quel 5.048 punti dell´ottobre 2000. Per il Nasdaq, il paradiso può attendere.

Fonte - La Repubblica

 

 

 

   Borsa sottovalutata del 20%

8 Maggio 2006 Milano - di Vincenzo Sciarretta

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IL RITORNO DEI BOND Gli investitori italiani in obbligazioni americane hanno risentito di una combinazione sfavorevole di tassi d’interesse al rialzo e dollaro al ribasso. Il risultato? I fondi obbligazionari specializzati sull’area dollaro hanno perso il 6,6% negli ultimi tre anni e il 10,6% negli ultimi cinque. E questo prima di prendere in considerazione l’inflazione e varie spese assortite.

C’è poi un altro effetto perverso nel trend all’insù dei rendimenti obbligazionari: essi iniziano a fare concorrenza all’azionario. I detentori di disponibilità finanziarie sanno che possono prendere il 5,1% sicuro dai titoli federali decennali e qualcosa di simile dalla liquidità e si domandano, di conseguenza, se Wall Street sia in grado di offrire di più e di meglio. Insomma, inflazione e tassi d’interesse maggiori rendono l’America societaria meno appetibile. Ecco allora i due problemi di fronte ai quali si trovano i risparmiatori: primo, cosa fare dei titoli del debito Usa in portafoglio? Secondo, vale ancora la pena di acquistare azioni statunitensi? Vediamo di orizzontarci.

IL POTENZIALE DI WALL STREET. «Sono un risparmiatore - ci spiega Bill Ford, ex presidente della Federal Reserve di Atlanta - Come molti anziani benestanti, una fetta importante del mio portafoglio è in buoni del Tesoro e fondi monetari. Quando sento che le cedole salgono non posso che rallegrarmene e come me credo che si comporti una buona parte dei miei coetanei. Soprattutto i rendimenti dei fondi monetari sono schizzati dall’1-2% di un paio di anni fa all’attuale 5 per cento. Un bel salto, direi. Un salto che è in grado di esercitare una notevole influenza sulle decisioni d’investimento degli americani. C’è la possibilità che essi decidano di limitare l’esposizione sull’azionario in favore di impieghi a interesse fisso».

Un po’ tutti gli osservatori si sono accorti della tendenza in atto descritta dal professor Ford, ma non necessariamente si stracciano le vesti. Fra questi, per esempio, spicca Ed Yardeni, uno degli analisti più ascoltati dai mercati. «È vero - sostiene - che i tassi d’interesse sono aumentati di valore. Tuttavia non al punto da mettere in crisi l’azionario. Infatti nel confronto fra Borsa e titoli del debito, il mercato azionario newyorchese risulta ancora sottovalutato di oltre il 20%». Yardeni tenta poi di ridimensionare altre due ossessioni del mercato, ossia il prezzo del petrolio alle stelle e la possibilità di un patatrac nel mercato immobiliare.

Per quanto riguarda il petrolio, dice che non si stupirebbe se la quotazione svoltasse all’indietro verso i 55-65 dollari al barile invece dei quasi 75 attuali: «Secondo i dati di febbraio - scrive in un resoconto - la domanda di greggio sta incominciando a flettere sotto il peso dei prezzi stratosferici. Le uniche eccezioni significative sono naturalmente Cina e India. Esclusi questi due giganti, la richiesta ha toccato il picco in agosto e successivamente ha subìto una battuta d’arresto. Includendo Cina e India, la domanda è stazionaria o leggermente calante. Perciò propendo per una correzione del greggio fin sotto i 65 dollari al barile».

Incoraggianti anche le considerazioni sul settore delle costruzioni: invece di pronosticare un collasso, come molti pensano, Yardeni ipotizza una tenuta sostanziale del mercato immobiliare nel quale la rivalutazione degli stipendi e i flussi migratori controbilanceranno il rincaro del costo del denaro. Alla domanda su quale possa essere l’obiettivo di fine anno per il Dow Jones, la risposta indica in 12.000 punti un traguardo ragionevole. Cioè poco più del 5%, in fondo non troppo lontano da quanto Bill Ford si aspetta dal suo giardinetto di impieghi a reddito fisso.

IN BILICO FRA TASSI E DOLLARO. Come accennato in precedenza, gli italiani che detengono obbligazioni americane sono scivolati in una spirale negativa in cui la frana del biglietto verde e il deprezzamento dei titoli federali hanno creato un dannoso effetto combinato: sui cinque anni, la perdita ha superato il 20% quando si considerano l’inflazione e le spese collaterali. E per il futuro? Conviene comprare, vendere o tenere?

La parola ai professionisti: se prevalesse l’opinione di consenso, converrebbe vendere in quanto generalmente si ritiene che le emissioni governative e societarie debbano cedere ulteriormente (cioè che i tassi debbano lievitare) e si ritiene pure che il dollaro sia una valuta strutturalmente debole, capace di lasciare sul campo altri due o tre centesimi entro la fine del 2006. In uno scenario del genere, l’investitore italiano continuerebbe ad accusare un doppio nocumento, sul cambio e sui titoli in portafoglio, cioè il peggio del peggio.

Come se non bastasse, anche l’opinione minoritaria delinea uno scenario controverso sui bond. Ad esempio, Paul Kasriel, capo economista della Northern Trust, una primaria banca con sede a Chicago, propende per un aumento di valore del reddito fisso. Kasriel si aspetta infatti una frenata brusca dell’economia Usa nella seconda parte del 2006 e di conseguenza una discesa dei rendimenti. Benissimo, si dirà, perché in questo caso c’è da guadagnare a stare sull’obbligazionario. Eppure non è necessariamente così. Kasriel punta sì sul rialzo dei titoli federali, ma al tempo stesso scommette su una caduta del dollaro con effetti negativi per i soggetti esteri: «È vero - conferma a Borsa & Finanza - il guadagno sui titoli rischia di essere falcidiato dalla perdita valutaria». Insomma un bel pasticcio, dal quale conviene stare lontani, almeno a sentire il parere dei guru del settore.

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza

 

 

 

 

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Mercati azionari: punto e a capo

19 Maggio 2006 Lugano - di Alfonso Tuor

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MercoledÌ scorso dati sull’inflazione americana superiori alle previsioni hanno fatto temere ulteriori rialzi dei tassi statunitensi e spinto al ribasso le borse; ieri il calo del superindice economico e dati peggiori delle aspettative riguardanti il mercato del lavoro statunitense hanno alimentato di nuovo la speranza che la Federal Reserve non stringerà ulteriormente i cordoni monetari e ridato fiato ai mercati azionari.

Queste reazioni dei mercati confermano che è finita la lunga onda rialzista dei listini azionari, iniziata nel marzo del 2003. La conclusione di questo periodo “felice” dei mercati finanziari coincide con la fine della politica monetaria espansiva seguita dalle principali banche centrali del mondo per evitare che il crollo delle borse dell’inizio di questo decennio sfociasse in una pericolosa deflazione.

Quindi, non vi è più ragione di mettere a disposizione liquidità a basso costo, poiché queste politiche hanno prodotto i risulati sperati anche nei paesi, come Europa e Giappone, che hanno avuto maggiori difficoltà ad agganciarsi al treno della crescita. Dunque, apparentemente si tratta semplicemente di ritornare ad una situazione di normalità. Ed è quanto pensa la maggioranza degli operatori, secondo cui il nervosismo attuale è “figlio” dell’incertezza sulla forza della crescita dell’economia statunitense e sui suoi pericoli inflazionistici.

In buona sostanza, i sostenitori di questa tesi ritengono che stiamo assistendo alle abituali incertezze caratteristiche di un tradizionale ciclo di espansione economica, durante il quale cominciano a manifestarsi aspettative inflazionistiche che la banca centrale è chiamata a debellare. Per questi motivi i mercati azionari reagiscono con grande nervosismo alla pubblicazione di dati sulla forza dell’economia e sull’evoluzione dei prezzi negli Stati Uniti che rafforzano le previsioni di un ulteriore aumento del costo del denaro da parte della Federal Reserve. In quest’ottica, alcuni prevedono un rallentamento dell’economia a stelle e strisce ed una fase di ribasso dei listini azionari, che potrebbe durare alcuni mesi. Poi la Federal Reserve dovrà abbassare nuovamente i tassi e quindi l’economia ricomincerà a crescere a ritmo sostenuto e ripartirà pure il rally delle borse.

Troppo bello e troppo semplice per essere vero. E infatti vi è più di un motivo per dubitare di questa previsione. Innanzitutto non si può escludere che la corsa dei mercati possa continuare ancora, poiché le politiche monetarie sono ancora fortemente espansive. Il punto centrale è però un altro: è difficile ipotizzare che l’uscita da un periodo di politica monetaria fortemente espansiva, come quella degli ultimi anni, non sia alquanto problematico. Infatti la crisi determinata dal crollo delle borse dell’inizio del decennio è stata superata inondando i mercati di liquidità a basso costo e quindi creando nuove e pericolose bolle.

Le più evidenti sono l’eccesso dei prezzi del mercato immobiliare negli Stati Uniti e in molti paesi europei, il forte aumento dell’indebitamento delle famiglie, il pericoloso deterioramento dei conti con l’estero degli Stati Uniti e l’esplosione dei prezzi delle materie prime. Ciò vuol dire che il processo di adeguamento delle economie e dei mercati ad una minore disponibilità di liquidità a basso costo è destinato ad essere meno lineare e più traumatico di una semplice correzione dei listini azionari.

E’ ad esempio significativo che questa fase di turbolenza dei mercati finanziari ha preso avvio con la caduta del valore del dollaro, che all’inizio non ha turbato più di tanto i mercati azionari. E’ altrettanto significativo che i timori inflazionistici, evocati da più parti, continuino a non essere presi in grande considerazione dai mercati dei capitali e soprattutto da quello statunitense, dove la curva dei tassi è sostanzialmente piatta. E’ pure significativo che il presunto aumento dell’avversione al rischio non si sia tradotto in significative correzioni delle borse dei mercati emergenti né in un significativo allargamento del differenziale dei tassi sul loro debito.

In realtà, l’attuale nervosismo dei mercati finanziari è sicuramente il segno della fine di un periodo felice, in cui tutto (dai corsi delle azioni ai prezzi delle materie prime) saliva. E’ pure il segno che i mercati finanziari stanno per la prima volta prendendo atto della fine dell’era del denaro facile e che oggi individuano i pericoli maggiori nella resurrezione dell’inflazione e nell’aumento del costo del denaro. Ma è proprio su questi timori che si cela molta compiacenza e soprattutto un errore potenziale. Infatti, visti gli squilibri esistenti nell’economia è molto probabile che il rialzo del costo del denaro e l’aumento della volatilità dei mercati portino ad un improvviso scoppio delle bolle che si sono formate in questi ultimi anni, per cui (come accadde nel 2000 quando all’improvviso e nel giro di pochi mesi la situazione dell’economia e dei mercati cambiò radicalmente) si ritornerà a parlare e a temere lo spettro della deflazione.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

Borse: è tornato l'orso

24 Maggio 2006 Lugano - di Alfonso Tuor

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La stragrande maggioranza degli analisti ritengono che si tratti di una semplice pausa ribassista, che potrebbe durare ancora alcuni giorni, ma che non rimette assolutamente in discussione il trend rialzista di lungo periodo. A sostegno di questa tesi ricordano che gli utili aziendali continuano a salire e che la ripresa economica si sta estendendo anche all’Europa e al Giappone. Queste previsioni si basano sull’ipotesi che sia l’attuale ciclo economico, sia quello dei mercati finanziari corrispondano a quelli tradizionali e che non siamo invece in presenza di un ciclo del tutto anomalo, “figlio” del crollo delle borse dell’inizio del decennio e delle successive politiche fortemente espansive seguite dai principali paesi industrializzati.

Molti segnali inducono a ritenere che quest’ipotesi è errata e che molto probabilmente sono prossimi una nuova fase ribassista, un rallentamento della crescita economica più rapida di ogni previsione e, nel giro di un anno, il ritorno dello spettro della deflazione.

Questa tesi non si fonda sull’analisi tecnica. Di transenna, si può però ricordare che le borse hanno smesso di salire proprio quando stavano avvicinandosi ai massi storici del 2000, per cui il rally dei listini azionari iniziato nel marzo del 2003 può essere letto come un rimbalzo in un mercato ribassista di lungo periodo. Questa tesi si fonda piuttosto sull’analisi delle cause di questo periodo eccezionale dei mercati finanziari, contraddistinto dal rialzo dei corsi di tutti gli strumenti di investimento (dalle azioni ai prezzi delle materie prime fino ai prezzi degli immobili) e dalla sostanziale tenuta dei corsi delle obbligazioni.

Questo periodo «felice» è stato originato dalla politica monetaria fortemente espansiva seguita dalle banche centrali dei principali paesi industrializzati con l’obiettivo di scongiurare il pericolo della caduta dell’economia internazionale in una spirale deflazionistica dopo il crollo dei mercati finanziari dell’inizio di questo decennio. La liquidità abbondante e a basso costo iniettata dalle banche centrali nel sistema economico ha indubbiamente allontanato lo spettro della deflazione e ha rilanciato la crescita economica, ma, mantenendo il costo del denaro artificialmente basso, ha creato nuovi fenomeni speculativi ed ha ampliato gli squilibri di cui soffre l’economia mondiale.

Questi effetti perversi sono sotto gli occhi di tutti. Sono il boom dei prezzi del mercato immobiliare negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi europei, l’esplosione del mercato degli strumenti derivati e soprattutto dei derivati sui crediti (grazie ai quali il rischio di insolvenza del debitore viene trasferito da chi ha elargito il credito ad altri soggetti economici), il forte aumento dell’indebitamento delle famiglie (un fenomeno che non riguarda più unicamente le famiglie americane, ma anche quelle europee), il forte rincaro delle materie prime e via dicendo.

Questi fenomeni “perversi” hanno contribuito ad ampliare il più importante e pericoloso squilibrio dell’economia mondiale che è il crescente disavanzo estero degli Stati Uniti. In pratica, si è superata la crisi determinata dal crollo delle borse dell’inizio decennio creando nuove bolle finanziarie. E non a caso l’attuale correzione dei mercati finanziari avviene all’improvviso, senza alcun segno premonitore, e si manifesta all’inizio con una caduta del valore del dollaro ed in seguito con un ribasso delle borse dovuto al timore di nuovi rialzi dei tassi americani.

E infatti dollaro, da un canto, e aspettative inflazionistiche e tassi di interesse, dall’altro, sono oggi le corna del dilemma della Federal Reserve. Apparentemente la banca centrale statunitense deve infatti decidere se il rialzo dell’indice dei prezzi è semplicemente un fenomeno temporaneo, come sembra indicare il mercato dei capitali (dove i rendimenti dei bonds decennali americani sono scesi a poco più del 5%) oppure se è un sintomo della crescita di aspettative inflazionistiche che debbono essere debellate con ulteriori aumenti del costo del denaro.

In realtà, la Federal Reserve non appare avere grande spazio di manovra. Non aumentare i tassi vorrebbe dire esporsi al rischio di una nuova caduta del dollaro che potrebbe ridurre l’afflusso dei capitali esteri necessari per finanziare il disavanzo estero americano e quindi correre il rischio di un aumento dei tassi di mercato. D’altro canto, aumentare i tassi vorrebbe dire stabilizzare il dollaro, ma correre il rischio di accelerare i tempi dell’esplosione delle bolle finanziarie create durante questi anni e quindi provocare una frenata dell’economia. E’ chiaro che la Federal Reserve tenterà di evitare questa alternativa attraverso un buon dosaggio delle sue mosse monetarie.

Ma la riconosciuta abilità dei governatori della Federal Reserve può solo rimandare l’appuntamento con la verità, che è costituito dallo squilibrio dei conti con l’estero degli Stati Uniti e dalle numerose bolle finanziarie formatesi in questi anni. Per questi motivi è difficile ipotizzare che si sia realmente usciti dal «bear market» di lungo periodo iniziato nel marzo del 2000.

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

   I grafici temono la cabala di Maggio

22 Maggio 2006 Milano - di Adriano Barri'

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La superstizione, si sa, è di casa in Borsa. L'improvviso ribasso delle ultime sedute ha così ricordato agli investitori il popolare detto di origine anglosassone «Sell in may and go away, «Vendi in maggio e scappa». Secondo la tradizione statistica, il mese delle rose coincide, infatti, con l'inizio della stagione fredda per i listini, destinati da quel momento a un inesorabile ribasso sino alla fine di ottobre, mese dal quale parte poi il rally di fine anno. Una ricorrenza che trova alcuni appigli statistici nella storia delle Borse e che viene invece liquidata come diceria suggestiva da chi non ha simpatie per le stagionalità finanziarie.

Crederci o non crederci? Ognuno deciderà. Sta di fatto che mai come quest'anno la tradizione sembra confermata dai fatti, visto che le principali Piazze internazionali, dopo aver segnato i massimi triennali, nei primi 20 giorni di maggio stanno perdendo il 6%. Le Cassandre del mercato, ruolo tradizionalmente interpretato dagli analisti tecnici, ovvero coloro che cercano di anticipare l'andamento di Borsa guardando i grafici dei prezzi, lanciano il loro avvertimento. Nelle prossime settimane il clima sui listini è destinato a subire un calo delle temperature. Anche se la tendenza di fondo della Borsa non è ancora compromessa.

«Guardate con attenzione il grafico di lungo periodo del nostro indice Comit - spiega Enrico Nicoloso a capo dell'analisi tecnica di Websim.it -. Non è un caso che la Borsa abbia accusato una decisa battuta d'arresto proprio sui massimi di maggio. Tali livelli corrispondono infatti alle soglie che, una volta abbandonate, hanno dato il via al terribile Orso del 2000-2003». E in termini relativi sta andando peggio per gli indici europei, una situazione che conferma ancora una volta la correlazione inversa tra l'euro forte e le Piazze azionarie. «Guardando poi alla stagionalità - prosegue l'analista - negli ultimi undici anni soltanto due volte, nel 2003 e nel 2005, il mese di maggio è risultato favorevole alle piazze azionarie».

Secondo Nicoloso, comunque, andando ben oltre le suggestioni cabalistiche di Sell in may , esistono segnali concreti che fanno presagire una pausa di riflessione: «Non dimentichiamo che dal 12 marzo 2003 l'indice delle blue chip di Piazza Affari ha messo a segno un rialzo dell'80,3%, lo Stoxx europeo del 95,2% e lo Standard & Poors 500 del 56,7%. Crescite veramente notevoli. E queste percentuali tengono già conto dei ribassi degli ultimi giorni. Per fortuna non ci sono elementi che inducano a credere in un'inversione drammatica della tendenza rialzista degli ultimi tre anni. Un consolidamento, però, può essere nella logica delle cose». Il verdetto finale? Una fase laterale, che andrà a cercare i propri minimi il 5/7% al di sotto dei livelli attuali, vale a dire a 1.700 punti per il Comit e a 35 mila per l’S&P Mib di Piazza Affari.

Secondo Maurizio Milano, a capo dell'ufficio studi analisi tecnica di Banca Sella , la vera novità nei ribassi delle ultime settimane è la volatilità. «L'indice Vix, che indica la volatilità dello S&P 500, ha fatto un balzo del 50% dai minimi, riportandosi in prossimità di livelli che, se superati, potrebbero fornire i primi importanti segnali di inversione di tendenza. Un aumento del Vix, infatti, indica che gli investitori cominciano a ragionare come se il bicchiere della Borsa fosse mezzo vuoto. Oggi il Vix si trova a circa 17 punti, una prima resistenza è posta a 17,2 punti, con forti tensioni sopra 18,6 punti». Anche Milano non vede tracolli, ma si aspetta in ogni caso una correzione che potrebbe portare l'indice statunitense a 1.245 punti, livello che rappresenta un supporto critico, in corrispondenza del quale dovrebbero cominciare gli acquisti di chi sta aspettando i saldi anticipati di maggio.

«Per Piazza Affari - continua Milano - vediamo un primo supporto a 36 mila punti (-2% sui livelli attuali ndr ) e un secondo a 35 mila punti (-4%). A favore della debolezza del nostro listino gioca anche il cambio. Una maggiore stabilità del rapporto euro/dollaro sarebbe di giovamento a Piazza Affari». Nonostante i segnali di debolezza, quindi, il mese di maggio non dovrebbe vedere la fine del trend rialzista di medio periodo che domina al momento le Borse. Per Amedeo Cocca , analista tecnico di Rasbank : «Il quadro grafico di medio termine rimane valido. Il mercato è impostato ancora al rialzo. Una conferma ci sarà qualora gli indici dovessero andare a ritoccare i principali supporti di questo trend. Per l'S&P il livello da monitorare è intorno ai 1.200 punti».

In questo contesto Piazza Affari si presenta addirittura difensiva, nonostante il nostro indice S&P Mib dai minimi di ottobre 2005 (31.700 mila punti) sia cresciuto, senza mai prendersi una pausa, sino a 38.900 punti: ?23%. «In occasione dell'ultima correzione all’inizio dell'autunno 2005 - continua Cocca - il nostro listino ha fatto un passo indietro meno ampio rispetto agli altri mercati europei. Un segnale di forza che potrebbe trovare conferma anche questa volta». L'esperto vede un primo supporto importante per l'S&P Mib a 35.000/34.500 punti e un secondo a 33.300/33.000».

E quest’ultimo numero, se volete farvi stregare dal fascino dei grafici, non è senza significati storici. Proprio a quel livello, infatti, ci sono le fondamenta della spinta al rialzo che ci ha accompagnato fin qui dal 2003.

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

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Che succederà con Borse e Dollaro giù ?

1 Maggio 2006 Lugano - di Giuseppe Turani

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La scorsa settimana sono iniziati due movimenti discendenti di un certo interesse: sia il dollaro che tutte le Borse mondiali si sono messi al ribasso. Va detto subito che erano due movimenti attesi, e anche da tempo, ma nonostante questo conviene ragionarci un po´ sopra perché possono portare a mutamenti di un certo peso nel nostro futuro immediato e a medio.

Per prima cosa conviene liberarsi subito della questione dei mercati finanziari. Sono mesi che si dice che erano andati troppo in alto e che dovevano scendere. Ma le Borse hanno continuato ostinatamente a tenere la testa alta e, anzi, ogni tanto davano un altro colpetto verso l´alto. La scorsa settimana, invece, tutti giù, mediamente, del 2 per cento.

E´ l´inizio della grande discesa? Del rientro verso valori più accettabili e più prudenti? Gli esperti dicono di no. Sarebbe bello - aggiungono - se tutto andasse davvero giù. Ma non accadrà. La discesa andrà avanti - dicono - forse per un paio di settimane, ma poi i soldi torneranno copiosi in Borsa, abbastanza indifferenti ai valori raggiunti dalle quotazioni. E questo per la semplice ragione che non ci sono, alla fine, molte altre alternative, soprattutto adesso che i tassi di interesse sembrano essersi fermati.

Insomma, è vero che molte aziende cominciano a non farcela più a aumentare i profitti, soprattutto quelle hi-tech, ma i soldi da qualche parte vanno pur messi e le Borse appaiono oggi come uno dei pochissimi rifugi possibili.

Naturalmente gli esperti si possono sbagliare (lo hanno fatto tante volte in passato). Ma questa, per ora, è la loro posizione: Borse in discesa (anche pronunciata), ma non fine delle Borse. Anzi, sarà la stessa discesa, ripulendo un po´ il mercato, a creare le condizioni per la ripresa successiva.

Di segno diverso appare invece la discesa del dollaro. In questo caso sono mesi e mesi che gli economisti vanno predicando la necessità per il dollaro di scendere (e anche in maniera robusta). Anzi, il calo del dollaro viene indicato come l´unica strada che ha l´America per rimettere un po´ a posto i propri conti con l´estero, per chiudere un po´ la partita del suo disavanzo commerciale. Oggi gli Stati Uniti importano troppo e esportano troppo poco. La svalutazione del dollaro dovrebbe consentire loro di essere un po´ meno in disavanzo, e quindi di sistemare i conti con uno dei loro tre deficit (gli altri due sono quello della pubblica amministrazione e quello delle famiglie).

Se queste sono le premesse, la discesa del dollaro non dovrebbe fermarsi tanto presto e non dovrebbe essere un fenomeno di breve durata. Ma siamo appena agli inizi della discesa e forse non conviene essere precipitosi. In passato il dollaro è andato giù tante volte e a ogni occasione si è detto che era cominciato il "grande riaggiustamento". Ma poi il dollaro si era ripreso e tutto era tornato come prima. E chi aveva immaginato un dollaro a 1,30 o anche a 1,40 contro l´euro aveva dovuto ricredersi. Alcuni famosi speculatori internazionali su questa scommessa (persa) avevano bruciato miliardi di dollari.

Il fatto nuovo, adesso, è che il dollaro scende perché la banca centrale americana, la Federal Reserve, ha detto che la stagione dei rialzi dei tassi di interesse sul dollaro è di fatto finita. E è finita perché c´è la necessità, a questo punto, di sostenere e non di ostacolare la congiuntura (che oggi è fortissima, ma che dovrebbe rallentare). E quindi il denaro, non più attratto da rendimenti in aumento, ha cominciato a prendere la strada verso altre monete, provocando la caduta del dollaro (che adesso è sopra quota 1,26 rispetto all´euro).

Gli esperti questa volta giurano che siamo arrivati appunto al "grande riaggiustamento". E hanno qualche probabilità in più di azzeccarci. Insomma, il dollaro dovrebbe scivolare davvero verso il basso, e non solo per qualche settimana. Tutto questo porta vantaggi all´Europa e all´Italia? A prima vista no. La svalutazione di una moneta concorrente non è mai un affare perché attraverso questa strada il competitor aumenta la propria competitività senza aggravio di spese e senza investimenti.

Ma questa volta le cose potrebbero essere un po´ diverse, e proprio perché c´è l´euro. Nel senso che l´Italia esporta ancora molto in dollari, ma anche in euro e in altre valute. Quindi la svalutazione della moneta americana un po´ ci danneggia, ma non in modo drammatico. In compenso la svalutazione del dollaro è quasi da benedire in un momento in cui il prezzo del petrolio sembra voler impazzire.

E´ noto infatti che il petrolio (almeno per ora) va pagato in dollari. E quindi se la moneta americana scende, a parità di prezzo il petrolio ci costa meno. In realtà, il dato nuovo internazionale è rappresentato dal fatto che l´economia americana frenerà nella seconda parte dell´anno e che anche l´Asia seguirà lo stesso sentiero. La congiuntura, cioè, si indebolisce. In compenso sta ripartendo (e fin troppo alla grande, sembra) l´Europa. E è esattamente su questo crinale (Europa che sale e America e Asia che scendono) che nei prossimi mesi ci toccherà navigare.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

Le quattro ragioni di un crollo

30 Maggio 2006 Lugano - di Giuseppe Turani

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Ci sono almeno quattro teorie per spiegare il crollo di questi ultimi giorni delle Borse. Crollo che si è portato via alcune centinaia di miliardi di euro e che ha rimesso i listini, grosso modo, esattamente dove si trovavano a fine 2005.

1 - La prima teoria è forse la più semplice e fa riferimento al fatto che i listini erano saliti troppo, e quindi sono tornati indietro. A marzo erano già raddoppiati rispetto al 2003. Ma la corsa è andata avanti. Poiché niente ha più successo del successo, i listini hanno continuato a correre. Un po´ come ciclisti impazziti o dopati. I crolli di questi giorni, quindi, rimettono solo le cose a posto. Un giorno o l´altro l´avanzata riprenderà.

E allora operatori smaliziati e belle signore un po´ ingenue torneranno a contare i loro guadagni e a regalare e a regalarsi gioielli di Bulgari e di Cartier.

2 - La seconda spiegazione è assai più sofisticata. Gli operatori più importanti, si dice, si sarebbero accorti che l´inflazione sta tornando e alla grande. E poiché i capi delle banche centrali considerano (giustamente) l´inflazione come il nemico numero uno della civiltà moderna, sono già pronti con i fucili spianati. Sono già pronti, cioè, a far salire ancora i tassi di interesse (cioè il costo del denaro) proprio quando un po´ tutti erano convinti che l´aumento dei tassi era ormai giunto alla fine. E si sa che le Borse non amano il rialzo del costo del denaro. Per una ragione molto semplice. Se il denaro costa di più, costa di più fare operazioni finanziarie con soldi presi a prestito. Ma peggiorano anche i conti delle aziende che hanno molti debiti. Insomma, con l´inflazione che ritorna e i tassi che forse si rimettono a crescere, ci sono buoni motivi (compresi quelli psicologici) per mandare a picco i listini.

3 - La terza teoria è ancora più complessa e tira in ballo le materie prime, che sono crollate. Sono andate giù, si dice, perché c´è aria di inflazione, ma anche (se non soprattutto) perché l´economia (dall´Asia all´America) è vista in fase frenante subito dopo l´estate, forse anche prima. E se l´economia rallenta, sarà difficile che le aziende (che in Borsa avevano già raggiunto livelli record) possano crescere ancora. Bene che vada, scenderanno. E quindi perché non anticipare qualcosa che è già scritto nelle previsioni sull´economia? Perché non vendere e mandare i listini a quel paese?

4 - La quarta spiegazione è persino meglio del Codice Da Vinci e dei migliori gialli in circolazione. Le Borse mondiali, si dice, sono ormai dominati dagli hedge fund (fondi di investimento ai quali non si può accedere se non si dispone almeno di qualche centinaio di migliaia di euro, una sorta di club dei super ricchi del pianeta). Questi fondi, si aggiunge, controllano non solo le Borse, ma anche un po´ tutti gli altri mercati, primo fra tutti quello delle materie prime. E in questi anni sarebbero stati loro a spingere i mercati (materie prime e Borse) fino agli attuali eccessi.

Sarebbero stati loro, gli hedge fund, a far triplicare e anche quadruplicare i prezzi di certe materie prime e a mandare le Borse al raddoppio oltre ogni ragionevole aspettativa. E sarebbero sempre loro che in questi giorni hanno deciso di mandare a picco quella costruzione artificiale (l´insano rialzo di tutto) che essi stessi avevano eretto. Hanno deciso di abbattere il loro grattacielo artificiale perché hanno capito che non si poteva più andare avanti. Insomma, dopo aver raddoppiato le quotazioni in tre anni, hanno capito che non si poteva continuare. Prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che era un bluff. E allora, meglio tagliare la corda per primi. E, quasi certamente, perché hanno capito che la stagione delle vacche grasse (crescita economica da boom) aveva i giorni contati. Naturalmente, si dice nelle sale operative di mezzo mondo, gli hedge fund hanno guadagnato prima e ci stanno guadagnando adesso, visto che hanno sempre condotto loro il gioco.

Quale scegliere fra queste quattro teorie? Difficile dare la risposta. Probabilmente c´è del vero in tutte e quattro. L´inflazione comincia a preoccupare di nuovo, i tassi forse non è vero che hanno finito di aumentare, l´economia rallenterà di sicuro e gli hedge fund (grazie anche all´uso dei derivati e di altre diavolerie finanziarie) sono effettivamente molto potenti e molto spregiudicati.

Che cosa succederà adesso? In questo caso le teorie sono soltanto due, anche se entrambe poco rassicuranti. La prima (la più moderata) sostiene che si andrà giù ancora del 5-6 per cento (forse addirittura del 10 per cento). Poi tutto si fermerà e si tornerà a ragionare. Le signore e gli operatori potranno tornare a comprare titoli in Borsa.

La seconda teoria è più amara e sostiene che i listini (salvo interventi straordinari della Federal Riserve, la banca centrale americana) andranno giù come mattoni ancora a lungo, anche del 20-30 per cento, fino a riportare i prezzi delle azioni verso livelli più ragionevoli e più accettabili.

Oggi, è impossibile dire chi ha ragione e quale sarà la teoria vincente. E cercare di fare gli stregoni. Oggi, di fronte al massacro dei listini si può solo avere paura.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

   Quanto durerà il brivido che scuote i mercati ?

22 Maggio 2006 Roma - di Eugenio Occorsio

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«I mercati azionari attraversano una fase di correzione: ma non significa l’inizio di un periodo di mercato debole. Tutt’altro. Appena passerà una certa stanchezza dell’economia i mercati si riprenderanno». Robert Doll parla dall’alto di una incredibile montagna di denaro, 581 miliardi di dollari per la precisione, non suoi ma della società che presiede, la Merrill Lynch Investment Managers.

Doll è uno dei più accreditati analisti di mercato nonché Fed watcher d’America. Ci tiene a puntualizzare che l’attuale semicrisi delle Borse l’aveva prevista già all’inizio dell’anno: «Al momento di esprimere le previsioni per il 2006, avevamo messo in preventivo uno scivolone, diciamo dell’ordine del 10%, che è quello cui stiamo assistendo in questi giorni». Con Doll commentiamo le prime pagine dei giornali di giovedì, che contengono titoli allarmati: il giorno prima il Dow Jones è sceso di ben 214 punti, pari all’1,87%, e il Nasdaq ha perso l’1,49. Il giorno dopo, giovedì, dopo un inizio favorevole, il nervosismo è di nuovo prevalso portando il Dow Jones al ribasso di un altro 0,69% e il Nasdaq dello 0,70. E nella settimana precedente il Dow, dopo essere arrivato ad un soffio dai massimi storici, già aveva perso l’1,7% e il Nasdaq ben il 4,2. Cosa sta succedendo?

«E’ un momento in cui si accaniscono sulle Borse, a partire da quella americana, diversi fattori negativi. C’è un rallentamento della crescita. Ci sono utili che in molti casi hanno lasciato l’amaro in bocca. Ci sono poi una debolezza del dollaro che genera nervosismo e suscita inquiete domande, la fine del boom immobiliare confermata addirittura da Greenspan, tassi alti eppure un’inflazione che qualche preoccupazione la dà, le incertezze politiche connesse con le elezioni di novembre. Serve altro?»

E voi tutto questo l’avevate già messo in conto? «Avevamo sostenuto che secondo i cicli storici della Borsa, ogni 19 mesi c’è una correzione. E qui erano quattro anni che non si vedeva. Era inevitabile. Ma non è l’inizio di una crisi. Prendiamola come un momento in cui si creano delle opportunità, da cogliere prima che il mercato riparta e torni a svettare verso nuovi massimi».

Perché ciò accada serve però che passi l’ondata di paura sull’economia. E quanto tempo ci vorrà? «Poco. Nessuno dei fattori di debolezza dell’economia che citavo prima appare grave né determinante. Entro fine anno sarà tutto passato. Certo, il pil non salirà del 4,5 per cento come l’anno scorso, e neanche del 3,5 come si prevedeva quest’anno, ma comunque di un più che decente 3%. Come vede, non c’è crisi, solo un rallentamento».

L’inflazione fra tutti i fattori di semicrisi è quello che stupisce di più. I tassi in America sono saliti dall’1 al 5% in due anni, eppure il Consumer Price Index è schizzato dello 0,6% in aprile rispetto ad uno scatto dello 0,4 in marzo e allo 0,5 previsto dagli economisti. Il tasso annuale è al 3,5. L’inflazione è fuori controllo?

«Attenzione perché quella di cui parla è la headline inflation, il dato sì che viene pubblicato ma quello che contiene le componenti energia e alimentari spesso volatili. Noi preferiamo riferirci alla core inflation, depurata di questi due fattori. E quella è salita in aprile solo dello 0,3». Che è anche qui peggio delle previsioni che parlavano dello 0,2...

«L’inflazione non è fuori controllo. L’economia americana e anche mondiale sta dimostrando di reggere allo shock petrolifero. I motivi li conoscete: la riconversione industriale verso produzioni energysaving, i miglioramenti di produttività, la redistribuzione globale della produzione, l’abbondanza di materia prima. Semmai, riscontriamo un minimo di rialzo nella componentelavoro dell’inflazione che era stata tanti anni dormiente, e poi c’è da fare i conti con la redistribuzione internazionale del potere di ‘fare i prezzi’ dovuta al dollaro debole. Ma sono elementi temporanei e non a livelli d’allarme. Anzi, l’America deve tener presenti le pressioni deflattive, dovute proprio agli stessi fattori che le ho appena esposto».

E gli altri mercati? L’Europa? «Anche per le Borse europee siamo ottimisti sul medio periodo, così come per le economie. Certo, siamo su livelli inferiori a quelli americani, ma conta il tasso di crescita, che sta migliorando».

Torniamo alla Fed: non ha penalizzato i mercati lasciando la porta troppo aperta a ulteriori rialzi dei tassi quando tutti ritenevano che la questione fosse ormai risolta? «I dati sull’inflazione dimostrano che non è chiusa. Bernanke, a differenza del passato, vuole essere meno netto nel parlare delle future mosse. E’ una differenza di metodo: vuole essere più libero di decidere secondo dove va l’economia. I mercati si chiedono allora quando sarà raggiunto il punto di neutralità dei tassi, quando cioè non agiranno né da freno né da incentivo, e reagiscono con incertezze. Così si spiegherà la volatilità dei prossimi mesi».

Restando alla sua ‘lista’ di fattori negativi, lei citava anche gli utili delle aziende che in diversi casi non sono all’altezza delle aspettative. E’ anche questo un fenomeno temporaneo? «Sì. Le aziende, nella media, hanno avuto una serie di anni di risultati molto buoni, in parte grazie ai miglioramenti di produttività e di efficienza resi possibili dalle nuove tecnologie, e hanno probabilmente toccato il picco. Ora c’è un rallentamento, e la Borsa reagisce spesso con decisione così come con grande entusiasmo, a volte eccessivo, aveva reagito ai miglioramenti».

Ma questa iperreaction è riservata ai titoli tecnologici o a tutti? «Direi a tutti, pensi ai casi di alcune banche oppure a settori come l’automobilistico, soggetti di crolli altrettanto clamorosi». A cosa è dovuto questo rallentamento temporaneo negli utili delle aziende?

«Anche qui c’è un mix di fattori. Principalmente ad un raffreddamento dei consumi per i tassi e la fine del refinancing immobiliare». E quanto durerà? «Avremo uno o forse due trimestri ancora deboli. Poi gli utili si riprenderanno. Per fine anno ci aspettiamo un miglioramento, non così forte come dicono alcuni analisti che prevedono fino al +13% negli utili, diciamo che si starà intorno al 7%».

Fonte - Affari & Finanza - La Repubblica

 

 

 

 

. Venerdì  5  maggio  2006   Sabato  13  maggio  2006   Sabato  20  maggio  2006  
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Tassi al 5% per la Fed

11 Maggio 2006 - New York

Big Ben è stato di parola, rialzo doveva essere e rialzo è stato, di 0,25 punti base, come previsto. L’ultimo? Beh, è ancora presto per dirlo, però i mercati hanno già fiutato uno stop alla politica rialzista della banca centrale americana, anche se il board di politica monetaria, della Fomc ha detto di non escludere ulteriori manovre e rinvia ogni decisione all' esame dei prossimi dati.
La Federal Reserve ieri ha approvato all' unanimità la sedicesima stretta monetaria di fila che porta i Fed Funds al 5%, tuttavia escludendo la menzione in termini chiari dell'attesa fine della manovra rialzista e proseguendo, invece, sulla strada del ciclo avviato a giugno 2004, il Federal Open Market Committee, anche sotto la presidenza di Ben Bernanke, adotta al termine della seduta un linguaggio in linea con il 'greenspanese', con diverse opzioni interpretative.
"La Commissione - si legge nel consueto comunicato diffuso alla chiusura della riunione del board - giudica che qualche ulteriore restrizione potrebbe rendersi necessaria per evitare rischi di inflazione, ma l' entità e i tempi di ogni eventuale stretta saranno legati in modo sostanziale all' evoluzione delle prospettive economiche contenute nei dati che saranno diffusi".
Si tratta di valutazioni che lasciano comunque aperta la possibilità che i tassi si attestino per un certo periodo sugli attuali livelli. Non a caso, dopo l' iniziale flessione, gli indici di Wall Street hanno ridotto le perdite e il Dow Jones è tornato addirittura in positivo, di nuovo verso il record storico.
Dopo una crescita “abbastanza forte” nella prima parte dell' anno, si legge ancora nel comunicato, l'economia ''sta probabilmente moderando su ritmi sostenibili”. Quanto allo scenario inflattivo, i rischi rimangono ''contenuti'' e ''il caro-energia e il rally delle materie prime hanno avuto modesti effetti sui prezzi''. Le prossime decisioni della Federal Reserve (il Fomc più vicino e' il 28-29 giugno) sono quindi legate alle indicazioniche emergeranno dai dati macroeconomici sulla base di previsionistilate dal Fomc di una crescita più moderata al riparo di''un' inflazione relativamente contenuta''.
E' proprio quest' ultimo dato il vero riferimento, perché da combinare con le temute pressioni sui prezzi e rispetto alla frenata dei consumi per gli elevati costi dell' energia, per il rialzo dei prezzi delle materie prime e per l' atteso calo del mercato immobiliare.

 

Fonte - Miaeconomia.it

 

Mercoledì  03  maggio  2006
 

GR1 RAI - 10 MAG ore 22:00

   

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Giovedì  25 maggio  2006

 

 

 

 

   Bravo Bernanke, meglio stare fermi

2 Maggio 2006 Milano - di Vincenzo Sciarretta

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Il dollaro ha ripreso a calare, il destino dello yuan cinese è ancora irrisolto, anche se la banca centrale stringe le redini del credito immobiliare. I titoli del debito hanno subìto una netta correzione al di qua e al di là dell’Atlantico e per Alan Greenspan certi asset finanziari e reali sono a rischio. Il risultato? Ben Bernanke, il nuovo timoniere della Federal Reserve, non perde tempo: va al Congresso e spiega che, per ora, la stagione dell’aumento dei tassi, inaugurata nel giugno del 2004, è finita. La sensazione è che le grandi banche centrali si preparino a muoversi per metter l’inflazione sotto controllo senza compromettere la congiuntura e la tenuta dei listini. Ma ce la faranno? Borsa & Finanza ha chiesto lumi a Edward G. Boehne, l’ex presidente della Fed di Filadelfia.

Già dai verbali dell’ultima riunione della Fed emergeva la voglia di interrompere la stretta confermata da Bernanke. Ma ci sono anche segnali di segno opposto sull’inflazione. Resoconto secondo cui a marzo l’inflazione era eccessiva. Qual è la sua opinione? Il direttorio dell’Istituto centrale si ritroverà a Washington il prossimo 10 di maggio. In quell’occasione un rialzo di 25 punti base è praticamente certo, portando il saggio base al 5 per cento. Dopodiché Bernanke si fermerà. E farà bene anche se, come è giusto, si lascerà le porte aperte per mosse successive in direzione diversa a seconda di ciò che la situazione richiederà.

Ma che cosa giustifica una pausa in questo momento? Bernanke è consapevole che, perché la normalizzazione dei tassi d’interesse produca tutti i suoi effetti, occorre tener conto del fattore tempo: le decisioni di questi anni, non dimentichiamo che i tassi sono saliti del 4% in tre anni, svilupperanno tutta la loro efficacia tra 6-18 mesi. Io condivido questa posizione cauta, d’attesa.

Anche perché in passato, non di rado, una stretta monetaria eccessiva ha provocato situazioni di recessione. Dico bene? Esatto. La Fed è stata criticata in passato per questo e vuole evitare che la cosa si ripeta. La Banca centrale è preoccupata di non penalizzare troppo l’economia.

Ma così non rischia di prestare il fianco a una fiammata dei prezzi? Ritengo che nella fase attuale la minaccia di un rallentamento eccessivo della congiuntura eserciti un peso maggiore rispetto all’insidia del carovita. Inoltre, le stesse tendenze internazionali alla competizione e delocalizzazione fanno da argine naturale alla crescita dei prezzi.

Si fa un gran parlare della diversificazione delle riserve valutarie dal dollaro allo yen e all’euro. Se fosse lei il governatore della Banca centrale cinese, o anche russa, cambierebbe il mix delle riserve valutarie? Penso di sì. Un certo ricambio sarebbe ragionevole. A ogni buon conto, è interesse di tutte le più importanti autorità monetarie del mondo evitare che la diversificazione delle riserve non si traduca in una destabilizzazione del sistema monetario internazionale. È comprensibile, ad esempio, che la Banca del Popolo sia riluttante ad accumulare oltre certi limiti montagne di dollari nelle sue casseforti. Però è consapevole del ruolo di traino esercitato dall’offerta degli Stati Uniti per i produttori cinesi. E non ha interesse a innescare un ripiegamento disordinato del dollaro.

Insomma, diversificazione sì, ma in punta di piedi… Solo le piccole Banche centrali possono mettere in atto una diversificazione ottimale delle riserve senza badare troppo ai contraccolpi. Quando si parla delle autorità monetarie più importanti del pianeta, invece, ogni decisione deve tener conto di un numero di fattori ben più rilevante.

Di recente Alan Greenspan, l’ex numero uno della Fed, ha affermato che «il valore degli asset alla fine scenderà» per colpa dell’eccessiva liquidità. Ma la liquidità l’ha provocata la politica della Fed. È un’ammissione di colpa? Beh, semmai il riconoscimento di un rischio calcolato: per evitare una grave crisi economica, le grandi Banche centrali si imbarcarono senza riserve in una linea d’azione senza compromessi, volta a garantire un’ampia disponibilità di moneta. L’inflazione dei valori finanziari e reali è stato un effetto collaterale, una conseguenza di quella strategia. Ora le medesime autorità centrali si stanno adoperando per riassorbire gli eccessi.

Ed è stata una scelta oculata? Questo ce lo dirà solo il tempo, ma allora sembrava la scelta migliore in un momento di grande incertezza.

In poche settimane abbiamo assistito a un aumento dei tassi d’interesse offerti dalle obbligazioni governative. Crede si tratti di una vampata temporanea o ci dobbiamo aspettare un rialzo ulteriore? I rendimenti dei titoli federali erano insolitamente bassi, perciò più che di rialzo dei tassi parlerei di ritorno alla normalità. Mi aspetto una crescita di altri 30-50 punti base. Dunque il decennale Usa ha una buona probabilità di finire al 5,5% dal 5% attuale. E a dirla tutta non è neanche uno sviluppo negativo…

Che cosa intende esattamente? La Federal Reserve è in grado di interrompere la pressione sui saggi a breve termine proprio perché la progressione di quelli a lunga scadenza reca in sé il potenziale per raffreddare le esuberanze maggiori e per tarpare le ali all’inflazione. Greenspan ha anche parlato di un calo eccessivo del premio al rischio. È un’asserzione condivisibile. In estrema sintesi, il debito degli emittenti più deboli offre un premio troppo basso rispetto a quello degli emittenti sicuri, come il Tesoro degli Stati Uniti. È in corso un allargamento degli spread e la tendenza si spingerà oltre.

Di tanto in tanto i governi occidentali provano a premere sulla Cina affinché rivaluti la moneta nazionale, lo yuan. Crede che si tratti di un auspicio generico o che si vada verso un inasprimento del braccio di ferro? Personalmente, escludo una svolta dietro l’angolo. Lo squilibrio di cui stiamo parlando soddisfa certe esigenze. I cinesi hanno troppo interesse a coltivare la crescita interna e la moltiplicazione dei posti di lavoro. Teniamo a mente che essi hanno adottato un piano di sviluppo secondo cui la liberalizzazione dell’attività economica non esclude il rigido controllo del sistema politico sia nel nocciolo centrale sia nelle sue articolazioni periferiche. Questa concezione della società può funzionare solo se è in grado di generare un numero adeguato di posti di lavoro.

Allora niente rivalutazione dello yuan? Assisteremo a un aggiustamento molto graduale, ma insufficiente a correggere il deficit commerciale fra Cina e Stati Uniti. Al momento, lo squilibrio serve i suoi scopi.

Si aspetta una discesa del dollaro? Mi aspetto sia una discesa del dollaro sia una ripresa del tenore produttivo nelle altre aree geopolitiche del mondo come l’Europa e il Giappone. Ciò dovrebbe migliorare la domanda per le merci americane e favorire una stabilizzazione del rosso per quanto concerne il disavanzo statunitense.

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza

 

 

 

 

Pechino scuote le borse mondiali

05 Maggio 2006 Milano - di Michela Muscio

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La stretta monetaria cinese penalizza l’America Latina e il Giappone. Il mercato attende il sedicesimo rialzo dei Fed Funds previsto per oggi (10 maggio). I movimenti dei tassi americani spingono al ribasso il dollaro. Petrolio e oro sui massimi.

E’ negativo il bilancio dell’ultimo mese per le piazze finanziarie internazionali, con l’indice Msci World che ha lasciato sul terreno lo 0,6%. Da inizio anno il rialzo è fermo al 4,1%. Sono sempre i Paesi emergenti dell’Est Europa e dell’America Latina a guidare i rialzi. Bene l’Europa mentre ad incidere negativamente sul bilancio mondiale sono gli Stati Uniti e in misura minore il Giappone.

Il petrolio è il punto critico che minaccia le prospettive dell'economia mondiale. Inoltre ad influenzare l’andamento congiunturale internazionale restano le incognite legate all’aumento del costo del denaro americano, oltre alla stretta monetaria messa a segno in Cina accolta con poco entusiasmo dagli investitori internazionali.

La mossa della Banca centrale cinese, che ha aumentato per la prima volta dal 2004 i tassi di interesse dello 0,27% portandoli al 5,85%, potrebbe colpire le aziende che puntano sul mercato cinese. Ne hanno risentito le imprese esportatrici giapponesi dove il forte apprezzamento dello yen, sui massimi degli ultimi tre mesi contro il dollaro, rischia di deprimere la ripresa economica.

E’ comunque ottimista la Bank of Japan che nel rapporto semestrale sull’attività economica e sull’inflazione, pubblicato il primo maggio, segnala che la fine della politica di tassi zero non è lontana. Secondo l‘ufficio studi di Banca Intesa, la data del primo rialzo sarà l’estate 2006. Gli analisti hanno alzato la previsione di crescita nipponica nel primo trimestre da 1,6% a 1,9%, portando così la stima per il 2006 da 2,9% a 3%.

La manovra di politica monetaria cinese ha messo sotto pressione anche i mercati sudamericani, visto che le esportazioni di molte società sono dirette verso i Paesi asiatici. Dall’altra parte l’area ha beneficiato della pausa di aprile del ciclo rialzista dei tassi americani, ma i timori sono in aumento in previsione del sedicesimo aumento consecutivo dei Fed Funds che, secondo il mercato, verranno portati al 5% nella riunione del Federal Open Market Commettee (Fomc) di oggi (10 maggio).

La Banca centrale europea (Bce) ha mantenuto inalterato il costo del denaro al 2,5%, come largamente atteso dal mercato. Il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha lasciato però intendere che il prossimo aumento probabilmente sarà a giugno, sulla scia del rafforzamento della ripresa economica europea nei primi tre mesi dell’anno, come dimostrano i segni di accelerazione presenti negli indicatori macro. L’indice Ifo, sulla fiducia delle imprese tedesche, ha raggiunto il livello più alto degli ultimi 15 anni, mentre quello delle Pmi ha toccato i massimi da cinque anni. I fattori di rischio quali il caro-greggio e l’apprezzamento del cambio euro/dollaro giustificano comunque una certa prudenza da parte della Bce.

Il dilemma sui tassi statunitensi ha indebolito fortemente il biglietto verde contro l’euro, che ha toccato quota 1,28 dollari, livello più alto da maggio 2005. Saranno cruciali per il futuro del dollaro le decisioni delle Banche centrali, soprattutto di quelle asiatiche sulla composizione valutaria delle riserve.

Un’eccessiva caduta del dollaro americano creerebbe turbolenze sui mercati, indurrebbe la Federal Reserve a prolungare la fase restrittiva dei tassi, provocando una frenata dell'attività economica che dagli Stati Uniti si propagherebbe al resto del mondo. Gli incontri di aprile del Fondo monetario internazionale (Fmi) e del G7 hanno avuto come obiettivo la ricerca di un maggior equilibrio tra i cambi. Per questo è stato chiesto ai Paesi con un forte avanzo dei conti con l'estero, cioè la Cina e gli altri Stati asiatici, di accettare maggiore flessibilità dei cambi.

La debolezza del dollaro, insieme alle tensioni in Iran e alla situazione in Bolivia, hanno spinto al rialzo le quotazioni dei metalli preziosi (l’oro è vicino ai 700 dollari l’oncia) e del petrolio che ha superato i 74 dollari al barile a New York, per poi tornare intorno ai 70 dollari, favorendo i maggiori esportatori di greggio tra cui la Russia, il Venezuela e il Messico. Per l’Fmi, il boom del petrolio potrebbe indebolire i mercati, fino a provocare una recessione negli Stati Uniti.

 

Fonte - Il Mondo

 

 

 

In Cina borsa e economia corrono insieme

10  Maggio 2006 Milano - di Sara Silano

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E’ stata la Cina la protagonista tra i mercati finanziari asiatici nell’ultimo mese. La Borsa di Shanghai ha guadagnato quasi l’11% contro l’1,4% dell’Msci Asia-Pacific, nonostante le festività che hanno fermato le contrattazioni dall’1 al 7 maggio. A parte Taiwan (+10,5%), gli altri listini hanno corso meno: Hong Kong è salito del 5,7%, Bombay del 5,2%, Seul del 3,8% e Singapore del 3,4%.

La rapida crescita economica ha determinato un aumento di oltre trenta volte della capitalizzazione della Borsa cinese negli ultimi cinque anni. Il risultato è stato un incremento del peso nell’Msci World dallo 0,02% del 2000 allo 0,62%. Allo sviluppo ha contribuito l’apertura agli investitori esteri, in particolare istituzionali, come hedge fund e fondi comuni specializzati sui mercati emergenti.

La Cina è sempre più protagonista nel panorama internazionale anche per un altro motivo. L’ex Celeste impero ha le riserve monetarie più ampie del mondo. Da febbraio ha rubato il primato al Giappone e a marzo ha consolidato la leadership, raggiungendo quota 875,1 miliardi di dollari. La metà delle riserve è investita in debito americano, facendo del Paese il maggior detentore di Treasury fuori dagli Stati Uniti, mentre circa il 30% è in titoli in euro.

La decisione della Banca popolare della Cina di allentare i controlli sui capitali in uscita potrebbe rallentare la crescita delle riserve valutarie, ma nello stesso tempo permette al Paese di essere più presente all’estero, contrastando le reazioni di tipo protezionista.

Le elevate riserve monetarie rendono più solido il sistema finanziario cinese, che sta uscendo dalla fase di risanamento del settore bancario. La Cina, tuttavia, non ha fugato i rischi di surriscaldamento dell’economia. Nel primo trimestre, il Prodotto interno lordo è cresciuto del 10,2%, in linea con i mesi precedenti. Per questo motivo, la Banca centrale ha deciso di aumentare i tassi di interesse dello 0,27%, portandoli al 5,85%, per la prima volta dal 2004. E’ convinzione degli analisti che la mossa sarà solo la prima e che ne seguiranno a breve altre per evitare una crescita incontrollata.

La Banca popolare cinese non è stata l’unica dell’area ad aumentare i tassi. Il mese scorso è intervenuto anche l’istituto centrale australiano, con un ritocco di 25 punti base che ha portato il saggio di riferimento al 5,75%. L’obiettivo è mettere freno all’inflazione. La decisione ha indebolito la Borsa di Sidney, dopo il rally innescato dai titoli minerari, grazie alla buone trimestrali e al nuovo rialzo di oro e petrolio.

I risultati aziendali sono stati protagonisti anche sulle altre Borse dell’Asia-Pacifico, con alcuni listini, tra cui Hong Kong e Taiwan, che hanno toccato i livelli più alti degli ultimi cinque anni. Tra i settori si sono messi in luce, oltre al minerario, il tecnologico, l’immobiliare e il bancario.

 

Fonte - Morningstar.it

 

 

 

 

 

 

  Venerdì  5  maggio  2006   Mercoledì  10  maggio  2006   Giovedì  11  maggio  2006  
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   Dollaro: sta per finire il signoraggio ?

10 Maggio 2006 Roma - di Francesco Arcucci

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Cento anni fa si parlava di "diplomazia del dollaro": una politica iniziata dal Presidente Taft e dal suo segretario di stato Philander C. Knox (dal cui nome deriva il famoso deposito di oro di Fort Knox). Poi, con la guerra contro la Spagna del 1898 con cui si applicava fino alle estreme conseguenze la dottrina di Monroe del 1821 ("l’America agli americani"), Teddy Roosvelt di fatto stabiliva il principio che anche un intervento armato era giustificato, allorché uno Stato americano era soggetto al potenziale controllo di Paesi europei.

Ma in generale l’uso della forza non era necessario: bastava utilizzare il dollaro per assicurare l’influenza diplomatica e politica degli Stati Uniti. Questa diplomazia del dollaro continuò nei decenni, ma fu solo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale che si trasformò in "supremazia del dollaro": con la creazione del sistema monetario internazionale di Bretton Woods.

Esso prevedeva rapporti fissi fra oro, dollaro e monete degli altri principali Paesi, le cosiddette monete convertibili: il rapporto oro/dollaro in particolare era fissato a 35 dollari ogni 30,10 grammi di metallo giallo (un’oncia). Alla fine degli anni ’60, tuttavia, con l’apparire di importanti eccedenze delle importazioni di beni e servizi sulle esportazioni e con la politica americana di grandi investimenti all’estero, i dollari in circolazione e soprattutto quelli accolti nell’attivo delle banche centrali europee aumentarono a dismisura, per cui si determinò uno squilibrio importante fra i valori di tali dollari e l’oro nelle casse del Tesoro americano in cui i dollari medesimi erano convertibili.

A questo punto vi erano due strade: aumentare nettamente il prezzo dell’oro (di almeno 30 volte per ripristinare durevolmente l’equilibrio) oppure dichiarare l’inconvertibilità del dollaro in oro al prezzo ufficiale. La prima via aveva un grave difetto agli occhi americani: era considerata una diminutio capitis, un regalo a chi aveva speculato contro il dollaro.

Apparve molto più attraente l’altra via. E così il 15 agosto 1971 il Presidente Nixon abolì la convertibilità del dollaro a rapporto fisso con l’oro e il dollaro divenne la sola e unica base del sistema monetario internazionale. Si entrava nell’era dell’ "egemonia del dollaro." Gli Stati Uniti, infatti, diversamente da tutti gli altri Paesi hanno potuto, a partire da allora, finanziare automaticamente il proprio deficit e debito con l’estero a fronte del fatto che le banche centrali dei vari Paesi detengono quella moneta per denominare i loro crediti sull’estero e per i pagamenti internazionali. Gli Stati Uniti, cioè, hanno esercitato in questi ultimi decenni il signoraggio nei confronti del resto del mondo, così come una banca centrale lo esercita nei confronti dei cittadini detentori di biglietti.

Se gli Stati Uniti avessero mantenuto un sostanziale equilibrio della loro bilancia dei pagamenti, "l’egemonia del dollaro" e la demonetizzazione dell’oro avrebbero potuto continuare per chissà quanto tempo. Ma essi non hanno saputo resistere alla tentazione di utilizzare fino in fondo il loro privilegio.

Per via degli squilibri sempre più grandi fra importazioni (quasi 2000 miliardi di dollari) ed esportazioni (poco più di 1000 miliardi) e degli enormi trasferimenti di capitali all’estero per investimenti, essi hanno inondato il mondo di dollari nella speranza che il mondo, e cioè soprattutto le banche centrali, lo acquistassero senza limiti. Ma ad un certo momento i banchieri centrali hanno cominciato a fare ciò che qualsiasi banchiere fa: diversificare le sue attività nella certezza che prima o poi l’architettura stessa del sistema monetario internazionale sarà modificata.

Così, paradossalmente, quasi per una nemesi storica, in questa situazione di debolezza strutturale del dollaro simile a quella della fine degli anni ’60 (ma in condizioni ancora peggiori di allora) si riaffaccia l’opzione di ripristinare l’equilibrio fra dollari in circolazione e oro attraverso una rivalutazione del prezzo di quest’ultimo. Ma questa volta, appunto, lo squilibrio è ben maggiore per cui ben più sensibile dovrà essere la rivalutazione del metallo giallo.

Occorrerebbe portare il valore dell’oro a 3500, forse a 5000 dollari l’oncia. È questa la prospettiva in cui si muovono i più avveduti investitori internazionali ed è per questo, e non per banali considerazioni legate all’inflazione, che il prezzo dell’oro sale. Se ciò costituisce l’inevitabile punto di arrivo, non aspettiamoci però che gli Stati Uniti accettino tutto questo senza combattere: la posta in gioco (mantenere il signoraggio oppure perdere questo privilegio e avere gli stessi vincoli esterni degli altri Paesi) è talmente alta che essi faranno sforzi immani per contrastare il rialzo del prezzo dell’oro e per cercare di dimostrare che anche l’oro, e non soltanto il dollaro, non si presta ad essere la base del sistema monetario internazionale.

Fonte - Affari & Finanza - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

L'incendio nel Ghiacciaio

12 Maggio 2006 Milano - di Alessandro Fugnoli

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Al Polo Nord fa freddo. Se vi portate dietro una stufa da campo e ve la mettete in tenda, la notte farà ancora freddo. Se ne accendete dieci, invece di una, a un certo punto rischierete di soffrire il caldo.

Nell'agosto 1998 Greenspan annunciò che il mondo, dopo avere vissuto per decenni in un clima mediterraneo, era appena entrato, con la crisi asiatica, in una lunga fase di glaciazione deflazionistica. L'economia globale avrebbe vissuto il ventunesimo secolo nel rischio costante di congelarsi, esattamente come era accaduto nel diciannovesimo.

Mentre l'Europa, che non aveva capito niente, diceva che bisognava continuare la strenua lotta contro l'inflazione, Greenspan ebbe la prontezza di riflessi di usare quello che aveva sotto mano, la bolla della borsa, per cercare di non fare scendere la temperatura sotto lo zero.

Due anni dopo la bolla scoppiò e il mondo vide aprirsi per la seconda volta sotto i piedi il crepaccio azzurro della deflazione. Per evitare il raffreddamento globale la fornace americana fu messa a lavorare a ritmi inauditi, ben al di là di quanto avevano pensato i suoi costruttori.

Il risultato sono stati tre anni di crescita globale eccellente e altri due, il 2006 e il 2007, che si profilano altrettanto positivi.

Nei tre anni trascorsi tutti si sono rallegrati per il clima di nuovo mite, salubre e piacevole. Da qualche mese, però, comincia a serpeggiare il timore che con il riscaldamento si stia cominciando a esagerare. Cresce il sospetto che l'America ci marci un po' troppo e cerchi di sistemare i suoi problemi con un di più di inflazione e svalutazione. Certo (CEHAF.PK - notizie) , l'America rende un servizio al mondo tenendo alta la domanda globale, ma ci fa su la cresta, come si usa dire, in modo sempre più sospetto e spregiudicato.

I termometri, a dire il vero, non indicano un'accelerazione particolare nel rialzo della temperatura, ma tutti gli osservatori si ripetono l'un l'altro che fa caldo e cominciano a vestirsi più leggeri. Molti soffrono di colpi di calore e dicono di sentirsi soffocare. Cercano refrigerio nell'oro e svendono le vecchie pellicce, il dollaro e i bond. Uomini intelligenti come Marc Faber vedono l'oro a 6000 dollari fra dieci anni, i bond americani al 15 per cento e la Fed trasformata in una centrale termonucleare pronta a intervenire a ogni ribasso di borsa allagando il mondo di acqua bollente e radioattiva.

Questo atteggiamento è al tempo stesso risultato di un'analisi almeno in parte corretta da una parte e di una psicosi dall'altra. Chi sta sui mercati farà bene a non sposare tesi estreme e questo non per moderatismo di principio ma perché è la realtà stessa ad essere borderline.

Intanto c'è un precedente storico che pesa. L'architettura di Bretton Woods fu concepita da Keynes in modo tale da dare agli Stati Uniti, e solo a loro, la possibilità di imbrogliare le carte a fin di bene. Il sistema era ancorato al dollaro, che a sua volta era ancorato all'oro, ma l'America poteva di fatto stampare più dollari di quelli cui avrebbe avuto diritto sulla base dell'oro che aveva. In questo modo l'America avrebbe costretto anche i paesi europei a stampare più marchi, franchi e sterline (pena una rivalutazione che nessuno voleva). Il sistema sarebbe così risultato sempre ben oliato e mai a corto di liquidità, con il risultato di accelerare una crescita che, in presenza di un output gap ampio, non sarebbe stata inflazionistica.

Tutto funzionò bene fino all'inizio degli anni Sessanta, poi il meccanismo cominciò a deteriorarsi, prima in modo quasi impercettibile, poi in modo sempre più veloce ed evidente. L'offerta globale prese a crescere più lentamente, perché il mondo stava avviandosi verso la piena occupazione. Dall'altra parte, la domanda saliva senza tregua. L'America pensò bene di finanziare le spese sociali e militari abusando del privilegio di Bretton Woods, barando in modo sempre più spudorato sulla sua politica monetaria. Alla fine il sistema collassò, con il dollaro in caduta libera, l'inflazione al galoppo e la dissoluzione di Bretton Woods.

La lezione che si può trarre da quella esperienza è che il sistema tollera, o addirittura gradisce, una modica quantità di gioco sporco. Questo è tanto più vero nel mondo di oggi, che si trova a galleggiare sul permafrost polare della deflazione strutturale. Il “better right than tight” di Greenspan è del resto sempre andato in questa direzione. Meglio stampare qualche soldo in più del necessario che commettere l'errore opposto.

La seconda lezione di Bretton Woods è che, a un certo punto, la tentazione di abusare può prendere il sopravvento, ma solo se le condizioni al contorno si deteriorano in modo significativo. Oggi non siamo a quel punto. In primo luogo non siamo ancora in piena occupazione. In secondo luogo i disavanzi pubblici non sono fuori controllo (nemmeno negli Stati Uniti). Tutto potrebbe cambiare se ai 100 miliardi all'anno di spesa per l'Iraq se ne dovessero aggiungere altrettanti (o molti di più) per (in ipotesi) l'Iran, ma al momento in questo non c'è nulla di concreto.

Lo scenario su cui lavorare, per chi opera sui mercati, è quello di una continuazione della politica americana di moderato abuso della condizione di privilegio in cui gli Stati Uniti si trovano sulla base della cosiddetta seconda Bretton Woods.

L'abuso moderato, del resto, non sta iniziando adesso, ma è iniziato due anni fa. Sono due anni che l'inflazione americana si mantiene alta ma, attenzione, costante. Ora, quando si parla d'inflazione non si sa più bene di che cosa si parla. Una volta c'erano il PPI e il CPI (NYSE: CPY - notizie) , poi sono arrivati l'headline e il core, poi il PCE, l'ECI e tutte le varianti possibili immaginabili. C'è stato da una parte un affinamento dei metodi di rilevazione, ma dall'altra c'è stata una certa manipolazione non dei numeri, ma degli indicatori che si suggeriva di seguire a discapito di quelli che si cercava di fare dimenticare.

In realtà ci sono studi che mostrano come tutti i principali indicatori di inflazione tendono nel tempo a convergere, per cui su un arco di dieci anni sono praticamente indistinguibili. A noi sembra comunque che il più onesto e completo sia il deflatore del Pil, che nel 2004, 2005 e inizio 2006 è stato costantemente tra il 3 e il 3.5 per cento, mentre i mercati, a furia di guardare solo i termometri distribuiti dalla Fed, pensano che siamo al 2 per cento.

Non troviamo nulla di scandaloso nel 3-3.5 per cento, a condizione che sia costante e non acceleri. L'importante è saperlo e calcolare le performance reali su questa base.

La nostra idea è che la Fed accetta come inevitabile questo sovrappiù di inflazione. In primo luogo è una garanzia in più contro la deflazione. In secondo luogo è un modo per ridurre nel tempo il peso reale dell'indebitamento americano, che è molto preoccupante se si va ad attualizzare il debito sanitario e previdenziale dei prossimi decenni.

Un punto e mezzo di extra-inflazione e un susseguirsi di periodiche minisvalutazioni del dollaro (come quella cui stiamo assistendo) e di tassi (da qui in avanti) in lento o lentissimo rialzo permetteranno al sistema di scaricare per strada una parte importante delle tensioni strutturali e di evitare collassi drammatici nei prossimi anni.

Da una parte, quindi, è meglio abbandonare la finzione dell'inflazione americana al due per cento. Dall'altra non ci sembra ci siano elementi per lasciarsi prendere dal panico e riempirsi di oro a qualsiasi prezzo. La situazione ci sembra destinata a rimanere sotto controllo ancora per un pezzo.

 

Fonte - Il Rosso e Il Nero, settimanale di strategia. Alessandro Fugnoli è strategist di Abaxbank Banca d'Investimento del Gruppo Credem (www.abaxbank.com).

 

 

Borse: quando arriverà lo Tsunami the Big One ?

25 Maggio 2006 Milano - di Alessandro Fugnoli

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Siamo fatti della stessa materia dei sogni, dice Prospero nella Tempesta. La nostra piccola vita è circondata dal sonno. Anche gli incubi sono sogni. Anche gli incubi, quindi, possono essere solo evanescenti ectoplasmi.

Ci sono crash che hanno cause reali. Un conflitto con l’Iran o una pandemia, l’uno e l’altra per ora lontani, giustificherebbero una caduta dura dei mercati. Qualche volta accade però che i mercati vengano colpiti da allineamenti astrali particolarmente infausti e si facciano molto male da soli. I fantasmi escono dalla quinta dimensione, si materializzano e si mettono a danzare nelle nostre teste. Fuori, intanto, tutto rimane tranquillo.

Il crash del 1987 è l’esempio più famoso di disastro autoprodotto. Certo, c’era un poco di sopravvalutazione e c’era qualche problema in un’economia che nel complesso stava comunque vivendo un ciclo ventennale di espansione. Niente di grave, tanto che la brava Abby Cohen, che allora lavorava in Drexel, due settimane prima del crollo scrisse che i fondamentali erano buoni e che il mercato avrebbe continuato a salire (salì infatti per altri 12 anni). In una seduta e mezzo (un venerdì e mezzo lunedì) il Dow Jones arrivò però a perdere il 25 per cento. Come in un teatro pieno in cui qualcuno grida al fuoco e tutti scappano calpestandosi in una bolgia infernale. Poi si scopre che il fuoco non c’era mai stato.

Da un paio di settimane c’è un gran parlare della possibilità di un nuovo 1987. La discesa attuale, si dice, è solo preparatoria, come fu quella dell’agosto di quell’anno. Fra qualche giorno, continua il ragionamento, il mercato si stabilizzerà e tutti torneranno a comprare, archiviando rapidamente come banale correzione questa prima discesa. Solo più avanti nell’estate arriverà il vero crash, lo tsunami, the Big One. Il passaggio di paradigma (da crescita senza inflazione a inflazione con poca crescita) si combinerà con la moltitudine di meccanismi stop loss disseminati ovunque (primo tra tutti il VaR) e manderà in corto il sistema.

E’ un’ipotesi che non può essere liquidata con un’alzata di spalle. Non si può dire che è impossibile, se non altro perché è già successo 19 anni fa. Né si può negare che il VaR, ormai universalmente adottato e obbligatorio, è un meccanismo potenzialmente infernale, fatto di tante virtù private che, a un certo punto, diventano un enorme vizio pubblico, come si è intravisto nell’estate del 1998. Il VaR in situazioni di stress è il massimo dell’entropia, ordine per i singoli soggetti che genera caos di sistema, implosione, collasso istantaneo.

Chi si ferma qui nel ragionamento, tuttavia, trascura un fatto fondamentale. Al massimo di automatismo suicida che il VaR immette nel mercato nei momenti critici corrisponde il massimo di discrezionalità, di libertà e di forza che il potere politico è venuto dandosi in questi anni di apparente liberismo incontrollato. Oggi (e domani ancora di più) gli stati nazionali giocano in borsa. Ci sono in Asia 2.6 trilioni di riserve, quando ne potrebbe bastare un terzo. Quasi tutti i paesi dell’Opec, la Russia, la Norvegia, il Cile hanno costituito grandi fondi d’investimento per le future generazioni. Questi fondi hanno fatto finora solo qualche assaggio sui mercati azionari, ma sono destinati ad assumere gradualmente il profilo di hedge fund alla ricerca delle migliori opportunità. Se si profilasse un crash autoprodotto, privo di solide motivazioni fondamentali, questi soggetti, che nel 1987 semplicemente non esistevano, entrerebbero in azione, riportando nel sistema ordine e stabilità.

A queste considerazioni generali va poi aggiunto che il quadro macro non appare affatto gravemente deteriorato. Certo, siamo qua e là vicini al pieno utilizzo di alcuni fattori di produzione, ma non al punto da avere messo in moto spirali inflazionistiche difficilmente reversbili. Le valutazioni delle borse, poi, sono ragionevoli.

Detto questo ed escluso un crash profondo, siamo però del parere che questa correzione sia voluta dai policy maker o comunque molto gradita.

La Fed, probabilmente, è più preoccupata da un rallentamento della crescita eccessivo nei prossimi mesi e nel 2007 che dall’inflazione. La Fed, ipotizziamo, vuole in cuor suo interrompere i rialzi dei tassi, magari per riprenderli a fine anno. La Fed, tuttavia, non può annunciare la pausa con la borsa ai massimi e una speculazione rampante sull’oro e sui metalli. Può invece farlo in presenza di mercati depressi che si leccano le ferite e decidono di restarsene tranquilli per qualche tempo.

Nei mesi scorsi i mercati avevano vissuto nell’attesa febbrile e messianica della pausa, pronti a farla coincidere con festeggiamenti e nuovi massimi. E’ vero l’opposto. Per avere la pausa devono soffrire. E se per caso la borsa dovesse riprendersi, saranno i bond a scendere immediatamente per frenarla.

Ai policy maker importa poco dell’oro o del rame in sé. La grande macchina dell’economia globale potrebbe fare a meno dell’oro e (con qualche difficoltà tecnica) del rame. Ai policy maker importa molto di più del petrolio e, ad esempio, del minerale di ferro con cui si fabbrica l’acciaio. Ora, mentre oro e rame da mesi fanno follie, petrolio e minerale di ferro sono in fase di stabilizzazione. E’ particolarmente interessante il caso del minerale di ferro. Si tratta di un mercato con una decina di soggetti in tutto tra compratori e venditori. Il prezzo viene negoziato una volta all’anno e vale per 12 mesi. Dopo aumenti del 75 per cento nel 2005, per il 2006 si sta trattando su un aumento del 10, segno di buona domanda mondiale ma anche di assenza di surriscaldamento drammatico.

Sul minerale di ferro non operano i fondi commodity, né quei pochi che esistevano tre anni fa né quei tanti che stavano nascendo come funghi negli ultimi tempi. E anche sul petrolio, al momento, l’incidenza dei nuovi soggetti è limitata.

Dal punto di vista dei policy maker non c’è niente di male se le materie prime, disprezzate fino a tre anni fa quando costavano un quarto di oggi, fanno un salto ontologico e diventano una asset class da persone per bene. Niente di male se i fondi pensione degli insegnanti della California o la cassa comune della bocciofila di quartiere decidono di buttarsi sul rame. Malissimo, invece, se queste bolle che di solito si curano da sole generano una psicologia inflazionistica. In quel caso vanno fermate o comunque rallentate. Su questo l’impennata del VaR di questi giorni sta facendo miracoli. I desk di trading che perdono sulla borsa devono chiudere anche le posizioni lunghe di materie prime e viceversa.

In queste ultime giornate la psicologia dei mercati ha fatto un salto significativo, passando dal comprare su debolezza al vendere su forza. Restare con la coda tra le gambe, in particolare nel caso degli ultimi arrivati nell’oro e nel rame, è una precondizione importante per la stabilizzazione, convalescenza e successiva prudente ripresa. I prossimi sei mesi si giocheranno tra questi livelli e i massimi di inizio maggio. Il downside eventuale dai livelli attuali sarà appannaggio delle esogene, uragani, pandemie e Iran.

Se le borse stanno per terminare la loro discesa (un grosso se, ma è la nostra prudente scommessa) i bond stanno per terminare il loro recupero. Per le prossime settimane, nonostante il gran parlare di volatilità, potremmo anche vedere una certa calma, sia azionaria, sia obbligazionaria.

 

Fonte - Il Rosso e Il Nero, settimanale di strategia. Alessandro Fugnoli è strategist di Abaxbank Banca d'Investimento del Gruppo Credem (www.abaxbank.com).