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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Crisi creditizia - Analisi e Opinioni

Processo alla finanza, Zingales e il «diavolo»: nessuna responsabilità ...

Valute - €uro/U$D

Torna il super €uro? No, ma il dollaro resterà debole

Borse e Mercati - Opinioni

Borsa: che tutti siano sotto-investiti non è una garanzia di rialzo certo

Borse e Mercati - Opinioni

La borsa è salita irrealisticamente troppo?

Borse e Mercati - Opinioni

Rally: non è mai troppo tardi per salire sul treno

Borse e Mercati - Opinioni

Peggio alle spalle. Dico si alle borse

Borse e Mercati - Opinioni

Perché avventurarsi sulle materie prime

Borse e Mercati - Opinioni

Bear Market rally, una dovuta pausa

Crisi creditizia - Analisi e Opinioni

L'entusiasmo ha nascosto i rischi

Crisi creditizia - Analisi e Opinioni

Qualcuno impedisca che si formino le bolle

Crisi creditizia - Analisi e Opinioni

Come si scrive la quiete dopo la tempesta (finanziaria)

Crisi creditizia - Analisi e Opinioni

Merton: «Sui derivati non mi pento, non ho peccato»

Effetti secondari crisi creditizia

Effetto crisi: scende il numero dei super-ricchi

   
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+++   ANSA   +++   Lun. 01 Giu. 2009 - Ws: ALLUNGA IL RALLY, S&P SUI MASSIMI DI 7 MESI   +++   03 Giugno 2009 18:03 NEW YORK - Fed: Bernanke, mercati finanziari ancora sotto stress   +++   Lun. 15 Giu. 2009 - Ws: IN ROSSO CON COMMODITIES ED ECONOMIA   +++   Lun. 22 Giu. 2009 - Ws: AI MINIMI MENSILI, ALLARME ECONOMIA   +++   Gio. 25 Giu. 2009 - Ws: REAGISCE E VA IN RALLY +2.00%   +++   ANSA   +++
 
  Martedì 02 Giugno 2009   Venerdì 05 Giugno 2009   Domenica 07 Giugno 2009  
       
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  Processo alla finanza, Zingales e il «diavolo»: nessuna responsabilità legale

01 Giugno 2009 15:02 MILANO - di Piero Fornara

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TRENTO – Il verdetto della giuria popolare è stato chiaro: colpevoli. Gli imputati erano i manager del mondo della finanza, simbolicamente processati nell'ultima giornata del Festival dell'Economia a Trento dal "Tribunale della crisi". Le pene? Restituire i guadagni realizzati grazie alle responasbilità accertate nel "processo" e lavori socialmente utili.
Il ruolo di pubblico ministero è stato svolto da Marco Onado, quello di avvocato difensore Luigi Zingales, il primo docente alla Bocconi di Milano, il secondo all'università di Chicago ed entrambi editorialisti del Sole 24 Ore. Come nei due precedenti processi, agli economisti (sabato) e ai controllori e politici (domenica) il ruolo di presidente è stato sostenuto da Massimo Gaggi, inviato del Corriere della Sera negli Stati Uniti.

«Non si tratta di fare qui una caccia alle streghe o agli untori – ha sostenuto Marco Onado ¬– ma il mondo della finanza va sanzionato per avere costruito un sistema bancario occulto, tenendo all'oscuro le autorità (come ha scritto la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea) e ingannando consapevolmente (soprattutto nei paesi anglosassoni) milioni di consumatori e cittadini con titoli strutturati che venduti in mercati non regolamentati, senza spiegare i gravi rischi cui venivano esposti i sottoscrittori». Di conseguenza «per questa crisi "made in America" sono stati esportati nel mondo prodotti tossici – e qualcuno deve pur aver fatto lo "spacciatore" – così adesso abbiamo due milioni di famiglie americane che hanno perso la casa, abbiamo la disoccupazione Usa al livello più alto da quindici anni, mentre il reddito disponibile è tornato quello degli anni 90. Intanto i banchieri e manager si sono intascati bonus milionari: ad esempio cento trader della Merrill Lynch hanno incamerato 1 milione di dollari a testa. Per ogni dollaro investito nella finanza tradizionale, ce n'erano quasi tre investiti nella nuova finanza».

Luigi Zingales ha preso le difese del "diavolo", cioè della finanza, riversando su Onado l'accusa di aver fatto del populismo a buon mercato. «La rabbia nei confronti della finanza è sacrosanta – ha detto Zingales – ma non va usata per bloccarne lo sviluppo, perché ciò vorrebbe dire bloccare l'economia per i prossimi trent'anni. Usiamola piuttosto per approvare riforme che limitino il potere politico di Wall Street, rendendo il sistema finanziario più competitivo ed efficiente». Quindi per Zingales «non c'è responsabilità legale, ma eventualmente morale o politica e ideologica. Non c'era reato nel vendere prodotti derivati e chi ha comprato ha realizzato buoni guadagni quando i prezzi delle case salivano e non poteva ignorare i rischi delle possibili perdite. Non è dimostrato, per Zingales, l'occultamento deliberato di informazioni, al pubblico e alle autorità di controllo.
Ma nemmeno i clienti delle banche erano totalmente "innocenti": molti sottovalutavano in maniera deliberata i rischi che si assumevano e puntavano a fare soldi in fretta grazie alla crescita del valore degli immobili. «La verità – ha commentato – è che la gente ama comprare i biglietti della lotteria, ma quando non vince vuole cambiare le regole della lotteria». In quanto ai compensi dei manager, nessuno si scandalizza per i guadagni dei calciatori, e i manager quando sbagliano pagano di tasca loro, quando fanno bene creano ricchezza per il loro paese. «No al giustizialismo all'italiana ha concluso Zingales, strappando un – forse imprevisto – applauso al pubblico in aula».

E' stata quindi la volta dei testimoni: a partire da quelli dell'accusa, Wolfang Munchau, analista del "Financial Times" (presente oggi in videoconferenza) che ha parlato delle pratiche "predatorie" utilizzate dalle banche negli Usa e in Inghilterra, e Pietro Modiano, una vita ai vertici di importanti istituti bancari, che ha ricordato fra l'altro come le banche abbiano prima venduto, ma poi anche ricomprato titoli tossici, immettendo un "batterio micidiale" nel sistema bancario.
I testimoni della difesa – due esperti di "titoli complessi" – hanno a loro volta offerto una testimonianza in video: Brunnenmeier e Cochran sostenuto l'effettiva utilità dei titoli offerti alla clientela e la effettiva capacità degli strumenti messi a punto in questi anni di produrre ricchezza reale, di cui hanno beneficiato tanti paesi. Hanno inoltre fornito una spiegazione tecnica dei "titoli tossici": crediti che le banche generano prestando soldi a chi vuole comprare una casa e che rivendono ad altri investitori, che li utilizzano magari per fare a loro volta degli altri investimenti. Il rischio viene diversificato e "spalmato" sul mondo intero, con risultati ovviamente positivi o negativi a seconda di come vanno le cose.
Il verdetto sulla finanza da parte della "giuria popolare" dei trenta studenti universitari, selezionati dagli organizzatori del Festival, è stato annunciato immediatamente prima della chiusura della kermesse di Trento con l'intervento del premio Nobel dell'Economia Michael Spence che ha parlato del "Mondo dopo la crisi". La sentenza ha simbolicamente "condannato" il management delle banche alla restituzione dei guadagni correlati alle responsabilità accertate, e ai lavori socialmente utili.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Il Governo Usa ufficializza il fallimento di General Motors

01 Giugno 2009 08:40 MILANO - di Il Sole 24 Ore
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«Un eventuale crollo di General Motors e di Chrysler sarebbe stato devastante». Così Barack Obama ha iniziato l'atteso intervento a seguito delle richiesta di amministrazione controllata da parte di Gm. Il presidente americano ha detto che il governo degli Stati Uniti sarà «un azionista riluttante» del gruppo di Detroit. E ha ripetuto che Washington «non ha interesse a gestire» la società. Di più: Obama ha sottolineato come General Motors uscirà presto dalla bancarotta. Le parti coinvolte- ha aggiunto- hanno dato vita ad un piano di ristrutturazione «sostenibile ed attuabile» e che la quota di auto General Motors costruite in Usa è destinata a «crescere per la prima volta in decenni». Obama ha sottolineato «l'importanza che l'industria dell'auto ha per il benessere degli americani». Il presidente degli Stati Uniti ha spiegato che il governo si trova suo malgrado a gestire quote così vaste di aziende private e ha confermato di non avere alcun interesse nella gestione di una compagnia che la stampa di oltreoceano ha già ribattezzato «Government Motors».
Obama, infine, ha lodato Chrysler per il ricorso al Chapter 11 che è stato «veloce e chirurgico», affermando che «l'accordo con Fiat sarà completo tra pochi giorni». Su questo fronte, peraltro, il giudice federale Arthur J. Gonzalez ha dato il via libera decisivo per la vendita degli asset della Chrysler alla newco della Fiat, che gestirà la casa automobilistica americana.

Il Chapter 11 di Gm
Tornando a General Motors va rilevato che, dopo essere crollata in avvio di cotrattazioni, ha spiccato il volo in Borsa. Nel giorno in cui la casa automobilistica di Detroit ha ufficializzato il ricorso all'amministrazione controllata" il titolo a Wall Street è sull'ottovolante: viaggia in rialzo del 18 per cento. Com'è noto le azioni di Gm saranno tolte da Wall Street: il posto nel vecchio Dow Jones sarà preso, dall'8 giugno prossimo, da Cisco Systems.

La richiesta di accedere al "chapter 11" della casa americana, che proprio l'anno scorso ha celebrato i 100 anni di esistenza, costituisce il terzo fallimento più grande nella storia americana e il primo in assoluto nella storia dell'industria manifatturiera Usa. La procedura dovrebbe durare da un minimo di 60 a un massimo di 90 giorni

Una dura ristrutturazione
Un periodo all'interno del quale General Motors chiuderà 14 impianti negli Stati Uniti entro il 2012 nell'ambito del piano di ristrutturazione presentato dopo la richiesta di 'chapter 11'. Gm ha indicato che ridurrà il numero totale degli stabilimenti statunitensi dai 47 attuali a 34 entro il 2010 e a 33 entro il 2012 e che taglierà 21mila posti di lavoro. La lista include sette stabilimenti in Michigan e i restanti tra Ohio, Indiana e Tennessee. Due delle chiusure erano già state annunciate, compresa quella della fabbrica di motori di Massena, nello stato di New York, che è stata chiusa il primo maggio. A fine anno verranno chiusi anche tre centri di distribuzione di componenti situati rispettivamente a Boston (Massachusetts), Jacksonville (Florida) e Columbus (Ohio). Il primo stabilimento sarà chiuso a giugno: si tratta dell'impianto di Gran Rapids che produce soprattutto pick-up e Suv e in cui sono impiegati circa 1.340 persone. Quattro impianti di assemblaggio saranno chiusi invece tra luglio e novembre di quest'anno ma due di questi - quello di Orion, in Michigan e quello di Spring Hill, nel Tennessee - si fermeranno solo temporaneamente in attesa di una ripresa della domanda. Lo stabilimento di Pontiac, sempre nel Michigan, sarà chiuso nel dicembre del 2010 e per quello di Wilmington non c'è ancora una data. Chiuderanno anche le presse di Pontiac, Indianapolis (Indiana) e Mansfield (Ohio). E si fermeranno gli impianti di Livonia, Flint, Willow Run, in Michigan, e quello di Parma, in Ohio.

General Motors europe riceve il prestito ponte
General Motors Europe ha ottenuto l'impegno a un prestito ponte di 1,5 miliardi di euro dal governo tedesco legato al protocollo d'intesa con Magna, e continua così le normali attività. È quanto assicura il gruppo in una nota in cui si precisa che «Gm Europe non è coinvolta nella procedura giudiziale di General Motors negli Stati Uniti (Chapter 11) e che le attività di Gm Europe, oltre ai rapporti con fornitori, clienti e dipendenti, continueranno normalmente».
Il finanziamento ponte da 1,5 miliardi di euro da parte del Governo tedesco consentirà «un periodo di tempo sufficiente per finalizzare l'accordo di partnership. Con questo finanziamento le operazioni europee sono isolate da qualsiasi impatto finanziario legato alla situazione di Gm negli Usa». La soluzione trovata per Opel/Vauxhall prevede che la maggioranza delle attività del costruttore vengano conferite in una società fiduciaria, mentre vanno avanti i negoziati finali con Magna.

I punti della ristrutturazione
In un comunicato depositato presso la Sec, la Consob americana, alcuni giorni fa è stato indicato come il Governo garantirà un intervento di 50 miliardi di dollari, accompagnando il gruppo automobilistico nel "fallimento controllato". Quella che ne emergerà sarà una nuova General Motors, più "snella", con un debito di circa 17 miliardi di dollari. Secondo i termini di questa procedura gli obligazionisti riceveranno, in un primo momento, il 10% del capitale della newco. In cambio "offriranno" 27 miliardi dei loro crediti. Inoltre, potranno acquisire un ulteriore 15% delle azioni della new General Motors, esercitando dei warrant (opzioni) emessi a loro favore. L'eventuale esercizio delle opzioni potrà avvenire in due momenti: la prima tranche, per un ammontare del 7,5% del capitale, potrà essere esercitata quando la nuova Gm avrà raggiunto un valore di circa 15 miliardi di dollari; la seconda, nel monento in cui General Motors sarà arrivata a valere almeno 30 miliardi di dollari. Alla fine della storia, quindi, gli attuali obbligazionisti potranno in teoria detenere il 25% circa della nuova società. Saranno, insomma, soci di peso insieme al Tesoro Usa che sarà il primo azionista.

Due società e 100mila creditori
General Motors ha presentato la documentazione per lo scorporo delle attività più sane della casa automobilistica. Verrà creata, cioè, una Good company, la società "snella" e una "bad company". Nell'istanza presentata al tribunale fallimentare, General Motors ha indicato che il totale del debito ammonta a 172,81 miliardi e che il totale delle attività è pari a 82,29 miliardi. I creditori sono oltre 100.000, si legge nella documentazione, e la casa di Detroit si aspetta che i creditori non garantiti ricevano un indennizzo.

I ruolo dei sindacati
L'altro "shareholder", sulla falsariga del modello già avviato in Chrysler, saranno i sindacati. La Uaw riceverà, inizialmente, una quota del 17,5% del capitale per finanziare il fondo sanitario a favore dei pensionati di General Motors. Lo stesso sindacato, sull'esempio degli obbligazionisti, potà esercitare dei warrant per aumentare la sua quota azionaria al 20 per cento. Ma questo solamente se il valore di GM raggiungerà i 75 miliardi di dollari.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

I 10 più grandi fallimenti della storia americana

02 Giugno 2009 16:38 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore
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Il magazine "Fortune" ha elencato i dieci più importanti fallimenti nella storia della U.S. bankruptcy court. Leggi la storia di questi "memorabili" crack.
Il magazine "Fortune" ha elencato i dieci più importanti fallimenti nella storia della U.S. bankruptcy court. Leggi la storia di questi "memorabili" crack.

Lehman Brothers Holdings
Data della bancarotta: 15 settembre 2008
Assets: 691 miliardi di $

Uno dei momenti più difficili nell'attuale recessione è stato, ovviamente, il fallimento di Lehman Brothers. Questa, una delle quattro più grandi banche d'investimento di Wall Street con 691 miliardi di asset, è stata "costretta" alla bancarotta il 15 settembre 2008. Si tratta del fallimento più grande nella storia dell'U.S. bankruptcy court. Come conseguenza, la divisione di investment banking del Nord America e il quartiere generale di New York sono state vendute alla banca inglese Barclays. Alcuni dei business americani di Lehman, compresa la società Neuberger-Berman, continuano a operare come singole entità separate. A livello mondiale sono state chiuse 80 controllate.


Washington Mutual
Data della bancarotta: 26 settembre 2008
Assets: 327,9 miliardi di $

A causa della paura del fallimento, i clienti di Washington Mutual, che poteva vantare asset per 327,9 milairdi, hanno ritirato dai conti più di 16 miliardi di dollari di depositi oltre i 10 giorni. Una situazione che ha mandato a gambe all'aria la solidità della banca, obbligando lo Stato ad intervenire. La banca è stata venduta a JPMorgan Chase per 1,9 miliardi di dollari. Successivamente Washington Mutual ha dovuto , il 26 settembre 2008, avviare le procedure per ottenere la protezione della messa in bancarotta. Si tratta di uno dei più importanti salvataggi realizzati dal governo degli Stati Uniti.


WorldCom
Data della bancarotta: 21 luglio 2002
Assets: 103,9 miliardi di $

Era la seconda compagnia telefonica americana, dopo AT&T, per le telefonate interurbane. Worldcom ha dovuto ricorrere alla bancarotta, mentre vantava assset per 103,9 miliardi di asset, dopo lo scoppio dello scandalo sui propri bilanci del valore di 11 miliardi di dollari . Era il 21 luglio 2002. Nel 2003 la società è risorta sotto il nome Mci ed è uscita dalla bancarotta nel 2004. Nel 2005 è stata comprata da Verizon Communications per 7,6 miliardi. Il precedente Ceo, Bernie Ebbers, è stato condannato a 25 anni di prigionia. E' attualmente detenuto nella prigione federale di Oakdale in Louisiana.


General Motors
Data della bancarotta: 1 giugno 2009
Assets: 91 miliardi di $

Quello di general Motors è il 4 fallimento nella storia dell'Us bankruptcy court. Quando ha chiesto la protezione dell'amministrazione controllata i suoi debiti ammontavano a 172 miliardi di dollari, a fronte di asset per 92 miliardi. il Governo federale ha programmato un'inizione finanziaria di 50 miliardi di dollari. L'obiettivo è quella di far uscire dalla bancarotta una società più snella che controlla i marchi Chevy, Cadillac, Buick and GMC. Come parte dell'accordo di salvataggio il governo assumerà il 72,5% del capitale mentre il sindacato dei lavoratori avrà il 17,5% del capitale. La controllata Opel è stata ceduta alla canadese Magna.


Enron
Data della bancarotta: 2 dicembre 2001
Assets: 65,5 miliardi di $

Nel 2001 la più grande società americana di elettricità e gas finisce in bancarotta. Dopo un lungo e difficile procedimento, Enron emerge dalla "palude" dell'amministrazione controllata" nel 2004. Molti dei suoi top manager furono condannati per la truffa contabile realizzata attraverso l'alterazione di dati contabili. Il caso Enron rimane emblematico perché ha ispirato la realizzazione della nomativa nota come Sarbanes- Hoxley, che ha dato un giro di vite sui controlli e requisiti contabili in capo alle società quotate. Nel 2007, Enron ha cambiato il suo nome in Enron Creditors Recovery Corp. al fine di liquidare ciò che resta degli asset della "prima" Enron.


Conseco
Data della bancarotta: 17 dicembre 2002
Assets: 61 miliardi di $

Dopo anni caratterizzati da un management non all'altezza e incapace, Conseco, un colosso assicurativo, ha accumulato una massa di debiti superiore a 8 miliardi di dollari. Così, la società, che vantava asset per 67 miliardi, è stata costretta a entrate in amministrazione controllata il 17 dicembre 2002. In meno di un anno è stata in grado di ristrutturare e ridurre il debito a 1,4 miliardi. Peraltro, Conseco è risultata essere coinvolta nel mercato dei credit default swap. Un evento che ha indotto con più forza il ministro del Tesoro Usa Timoty Geithener ha chiedere una normativa più stringente per questi prodotti che vengono scambiati su mercati non reogolamentati.


Chrysler
Data della bancarotta: 30 aprile 2009
Assets: 39 miliardi di $

Quando il presidente americano Barack Obama obbligò in aprile Chrysler ad una bancarotta controllata da 39 miliardi di dollari, la casa di Detroit era la più grande industria americana mai avviata verso il Chapter 11. General Motors, infatti, stava ancora tentando di ottenere dal Governo un sostegno per evitare il fallimento e cercare sopravvivere. L'esito della riorganizazione di Crhysler portò all'alleanza con la Fiat. I sindacati americani dell'auto prenderanno il controllo dell'azienda durante il periodo di transizione, mentre il Governo inietterà dodici miliardi di dollari nella casa automobilistica. La maggior parte del suo debito verrà sottoscritta dai creditori. Due anni fa Chrysler era stata venduta al fondo di private equity Cerberus Capital Management, dopo circa dieci anni di controllo da parte della casa automobilistica tedesca Daimler-Benz. Nel 1979 Chrysler evitò la bancarotta, poichè il Governo americano garantì prestiti per un valore di un miliardo e mezzo di dollari, pagati nel 1983.


Thornburg Mortgage
Data della bancarotta: 1 maggio 2009
Assets: 36,5 miliardi di $

Il 5 gennaio scorso Thornburg Mortgage, con asset per 36,5 miliardi, ha annunciato la chiusura delle sue filiali e l'ingresso nel "Chapter 11". A ben vedere, però, era da tempo che la società di investimento di Santa Fe, specializzata nell'emissione di "jumbo" prestiti legati al settore immobiliare, era in difficoltà. Il gruppo, infatti, è stato duramente colpito da dalla crisi dei subprime fin dalla metà del 2007. Le strade tentate per evitare il fallimento sono state varie. Ma alla fine il management ha dovuto arrendersi.


Pacific Gas and Electric Co.
Data della bancarotta: 6 aprile 2001
Assets: 36 miliardi di $

La deregulation del mercato elettrico ha avuto, in California, diverse conseguenze. Tra queste i famosi blackout del 2000 e 2001, il salvataggio della Southern California Edison e il fallimento di PG&E. Quest'ultima, il più importante fornitore di energia sia per uso domestico sia per uso industriale della California del Nord, il 6 aprile 2001 è entrata in amministrazione controllata. La società, che al tempo aveva asset per 36 miliardi di dolari, è stata costretta a questa scelta a causa degli alti costi di produzione a fronte di margini troppo bassi. Nel 2004 la società è uscita dal fallimento controllato.


Texaco
Data della bancarotta: 12 aprile 1987
Assets: 34,9 miliardi di $

Il 12 aprile 1987 la Texaco, che vanta asset per 34,9 miliardi, ha chiesto la protezione della bancarotta. Il gruppo petrolifero, nel 1984, aveva fatto un'offerta per conquistare la getty Oil e soffiarla alla concorrente Pennzoil. Una proposta che fece saltare l'accordo già raggiunto tra quest'ultima e la tanto ambita preda. la Penzoil, però, non stette con le mani in mano e citò in giudizio la texaco, che fu multata di 10 miliardi di dollari. Sebbene la multa fu successivamente ridotta, Texaco non fu in grado di fare fronte ai suoi obblighi finanziari e finì così in amministrazione controllata. La sociietà ne è uscita nel 1988 ed è stata acquistata da Chevron nel 2001 per 39 miliardi di dollari.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Torna il super €uro? No, ma il dollaro resterà debole

02 Giugno 2009 14:50 MILANO - di Vittorio Carlini

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L'Euro ha raggiunto, oggi, quota 1,4227 contro il dollaro. Un picco che il cambio tra la divisa europea e quella americana non toccava dal dicembre scorso. Così, la domanda è spontanea: Torna Mr SuperEuro? Il Sole24ore.com ha rivolto il quesito a un panel di esperti. Senza , peraltro, dimenticare altri cross valutari.

L'Euro e il Dollaro

«È fondamentale decidere quale orizzonte temporale prendere in considerazione - spiega Rony Hamaui, docente di mercati monetari internazionali all'università Cattolica - È certo che, nel medio-lungo periodo, avremo un dollaro debole». Come dire, insomma, che per il 2010 potremmo abituarci alla divisa verde che scambia attorno a 0,50 con l'Euro. Gaetano Evangelista, analista tecnico e presidente di Age Italia, fa una considerazione un po' differente. L'esperto, infatti, anticipa l'eventuale scenario dell'ulteriore debolezza del dollaro : «Bisogna prestare attenzione alla resistenza compresa tra 1,410 e 1,425 - dice - . Il superamento di questo livello porterebbe in tempi brevi la moneta unica europea a quota 1,50».
E, visto che quest'area oggi è stata toccata, il momento in cui il dollaro cala ancora potrebbe essere non troppo di là da venire. «Anche se - sottolinea Evangelista - il semplice record intraday è insufficiente. Rileva, ovviamente, uno sfondamento più deciso di quella resistenza». Ma, ormai, il cross danza attorno a quei livelli. La tesi rialzista sull'Euro è, peraltro, sostenuta anche da Robert Sinche, analista indipendente, in precedenza capo delle strategie monetarie di Bank of America: «Quando uno vede cosa succede in General Motors e l'attuale situazione del capitalismo americano, ben può capire perché gli investimenti non prendono» la via degli Stati Uniti. «Il dollaro scenderà facilmente verso quota 1,45», sottolinea.

E lo stesso Angelo Drusiani, esperto di Albertini syz, concorda con l'idea di un dollaro debole: «Anche perché -dice -la politica economica e monetaria degli Usa è soprattutto finalizzata a mantenere un biglietto verde debole che favorisca l'export e, più in generale, l'industria americana. In questo momento, invece, non rilevano molto altre variabili quali, per esempio, i rendimenti del reddito fisso». Per quale motivo? «Perché tra Europa e Stati Uniti non c'è grande differenza. Il Treasury decennale, infatti, rende circa il 3,63% mentre il "fratello" tedesco TBund dà una cedola del 3,64 per cento. Non sono queste, a tutt'oggi, le variabili fondamentali».

I fondamentali che pesano

Fin qui la difficile arte di guardare la sfera di cristallo. Ma, attualmente, quali le variabili che incidono sull'andamento del cross valutario? «In generale - dice Hamaui - tre sono gli aspetti da monitorare. In primis, i futuri tassi di crescita delle economie mondiali. Superata la crisi, è abbastanza condivisa l'idea che l'America viaggerà relativamente più piano degli altri Paesi: Europa compresa. E questo comporta già adesso un calo della domanda di dollari. Inoltre, incide negativamente il deficit estero delle partite correnti. Quello statunitense si avvia verso il 3,3% del Pil mentre in Europa siamo, all'incirca, sul pareggio.

Infine, non va dimenticato il debito a stelle e strisce. La politica economica espansiva di Washington porterà il deficit pubblico verso il 10% del Prodotto interno lordo e il debito pubblico arriverà al 100 della richezza prodotta negli Usa. Questo mix di situazioni avrà inevitabili conseguenze sulle divise». In particolare? «Washington si vedrà costretta - sottolinea Hamaui - a stampare moneta e a emettere asset in valuta americana: un'offerta che, visto l'andamento della congiuntura a stelle e strisce, sarà più alta della domanda. Anche perché le banche centrali avranno difficoltà a digerire la nuova ondata di moneta».

Giocoforza, la quotazione del dollaro scenderà. «Non è un caso - afferma Hamaui - che il Governo americano aumenti i contatti con Beijing. La Cina, che possiede miliardi di asset in dollari, è tra i maggiori creditori degli Usa. Il rischio è che diversifichi troppo i suoi portafogli a favore di altre monete». Il Paese del Drago, insomma, è una grande incognita che deve essere a tutti i costi "controllata". «Tanto è vero - ricorda Hamaui - che il segretario del tesoro Usa Timothy Geithner è andato a Pechino prorio questa settimana per convincere il governo cinese a comprare Treasury americani».

Diverso è l'approccio di Evangelista: «Il dollaro - sottolinea - è una divisa anticiclica. Si rafforza quando l'economia è in recessione e si indebolisce quando entra in una fase espansiva (vedi grafico a piè di pagina). Questo perché, durante la crisi, gli Stati tentano di uscirne anche indebolendo le proprie divise per favorire l'export; e dal momento che il dollaro è la divisa di riferimento negli scambi internazionali, svalutare le proprie divise equivale a rafforzare il dollaro.

Viceversa, quando l'economia tira, gli Stati sono più disponibili a vedere le proprie divise rafforzarsi come riflesso dell'espansione economica, e ciò si riflette in un indebolimento del biglietto verde». E però, nonostante l'attuale recessione, il dollaro si indebolisce: come mai? «Perché - risponde Evangelista - pesa il debito pubblico. Nella misura in cui l'espansione del deficit Federale si tradurrà in una crescita del rapporto tra debito pubblico e Pil, ciò andrà ad impattare negativemente sul dollaro». E quindi? «Credo che non vedremo un SuperEuro, anche se quest'ultimo potrebbe spingersi fino l'1,5 dollari. Si tratterà di un trading range», ciè di un movimento laterale. Anche perché, in una situazione come l'attuale, le economie occidentali non possono permettersi un eccessivo rafforzamento di una divisa sull'altra. «Forti rimbalzi, eventualmente, potremmo vederli tra le monete dei paesi emergenti».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

Uno scenario per il dollaro

Monday, 2 June, 2009 at 22:49 - di phastidio
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Secondo gli economisti di Credit Suisse, la Fed opererà per arrestare l’ascesa dei rendimenti sui Treasury. Con 2000 miliardi di dollari di emissioni di titoli pubblici previste per quest’anno e solo 300 miliardi di acquisti a fermo da parte della Fed (di cui ad oggi ne sono stati eseguiti il 37 per cento), ci sono timori per il finanziamento del debito federale. Tuttavia, il programma di acquisti della Fed potrà (e dovrà) essere aumentato per frenare l’ascesa dei rendimenti. La Fed, dovendo scegliere, preferirà rischiare una crisi del dollaro piuttosto che avere una crisi di finanziamento del bilancio. Questo scenario è sostenuto, sempre secondo il Credit Suisse, dal fatto che le passività estere nette degli Stati Uniti sono solo il 18 per cento del Pil, e storicamente (secondo dati della Bank of England) un paese diventa a rischio di default quando tale valore supera il 60 per cento del Pil. Inoltre, e più importante, quasi il 90 per cento delle passività estere degli Stati Uniti sono denominate in dollari. Perciò, un dollaro più debole avrebbe un impatto minimale sulle passività estere nette americane. I timori di pressioni inflazionistiche, inoltre, appaiono al momento esagerati: con un output gap stimato all’8 per cento ed una crescita prevista nell’intorno dell’1,5-2 per cento per il 2010, è improbabile che l’inflazione possa rappresentare un problema almeno fino al 2014.
Date queste premesse, quindi, il dollaro sembra avere una sola direzione. Resta da vedere che produrrebbe, in termini di rischi protezionistici, uno scenario del genere. Oltre alle reazioni della Cina, che vedrebbe vandalizzato il proprio tesoro di riserve valutarie.
 

Fonte - Macronomitor

 

 

E' FINITO IL TEMPO DEGLI HEDGE FUND, PERDITE E CHIUSURE IN CRESCITA

03 Giugno 2009 20:46 NEW YORK - di Bloomberg
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Continua la fase critica per il settore, chiude anche il Raptor Global fund. Dubbi sulla sostenibilita' di una strategia concentrata sul breve termine. Le ingenti perdite viste nel 2008 lo dimostrano.
James Pallotta, l'investitore che all'inizio dell'anno ha annunciato il suo divorzio dal partner di lungo corso Paul Tudor Jones, ha deciso di chiudere il fondo Raptor Global, dubitando della sostenibilita' di alcuni aspetti di un settore che si concentra principalmente sul breve termine.
L'anno scorso Pallotta ha perso il 20% e quest'anno il trend non e' cambiato. Da qui la decisione di restituire ai propri clienti i soldi investiti. In una lettera inviata agli investitori, il manager ha fatto sapere che conta di prendersi diversi mesi di pausa, durante i quali cerchera' di elaborare una nuova strategia di investimento di successo.
"Negli ultimi anni, ho coltivato un certo scetticismo sulla sostenibilita' di alcuni aspetti della struttura del settore e sui problemi che comporta il focalizzarsi sul breve termine", dice Pallotta, 51 anni, nella lettera.
L'anno scorso una somma record di 1471 fondi hedge, pari al 15% del totale del settore, ha chiuso i battenti, a causa delle perdite record subite, stando ai dati raccolti da Hedge Fund Research.
In agosto 2008, Pallotta, che possiede una quota del capitale della squadra di basket Nba dei Boston Celtics, ha gestito $5 miliardi per il fondo Tudor Investment. Ne e' uscito con circa $1.5 miliardi, afflitto dalle perdite pari a circa il 20% e dalla rinuncia di piu' clienti. La sua azienda di Boston, Raptor Capital Management LP, ha annunciato che sta tentando di impedire agli investitori di ritirare i propri soldi.
In luglio gli investitori riavranno indietro circa il 75% dei loro soldi entro il prossimo mese oltre alla distribuzione di un interesse pro rata nel portafoglio privato di Raptor, che vanta circa il 15% degli investimenti complessivi dei clienti. I soldi rimanenti verranno restituiti non appena sara' possibile", ha precisato Pallotta.
Il Raptor Global fund ha garantito ritorni annuali del 14% da quando e' stato fondato, nell'ottobre 1993 a Greenwich. Jonathan Gasthalter, portavoce di Raptor, non ha voluto commentare la notizia.

 

Fonte - Bloomberg

 

 

Gli hedge fund non comprano questo rally?

Thursday, 4 June, 2009 at 16:21 - di John Christian Falkenberg
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Gli hedge fund sono normalmente considerati gli operatori più reattivi in assoluto, i più veloci ad entrare ed uscire da un mercato e a leggerne il futuro. Eppure, pochi fra loro hanno anticipato il rally di Borsa da Marzo, lasciando il settore in totale in una posizione meno rialzista che un anno fa, appena prima dell’ultima fase della crisi.
Si tratta di un madornale errore collettivo, oppure hanno visto giusto e la loro prudenza verrà premiata a breve?
clipped from online.wsj.com
The fast money is proving slow to jump on the market’s bandwagon.
Hedge funds, decried by many as quick traders, have played catch-up during the market rally since March. The average fund was 45% “net long” as of May 19, or had investment holdings valued at 45% more than its bearish “short” positions, according to Hedge Fund Research.
Many funds are skeptical the economy has entered a new period of growth that justifies high equity multiples. Others fear dislocations from governments shoveling money at problems.
Some noted stock pickers remain wary.
If stocks keep surging, hedgies might have to jump in with two feet, giving the market another lift. But their continued hesitancy should be a sign of caution for investors.

 

Fonte - Macromonitor

 

 

Aspettando il miracolo indiano

04/06/2009 14.46 MILANO - di Valerio Baselli
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Il partito del Congresso, guidato da Sonia Gandhi, ha vinto le elezioni indiane e la Borsa di Mumbai ha salutato la vittoria della coalizione Upa (United Progressive Alliance) con un guadagno del 17,3% il 18 maggio scorso.

Secondo numerosi analisti, questo balzo, che ha portato alla sospensione delle contrattazioni per eccesso di rialzo nel corso della seduta, riflette la speranza di un contesto politico favorevole alla crescita nei prossimi cinque anni, che è destinato a durare se dalle promesse elettorali si passerà ai fatti. Così, in forte contrasto con lo scenario globale, si delinea la prospettiva di un India più forte, che possa contare su una stabilità politica e che sappia avviare quelle riforme strutturali che il Paese necessita. Tutto ciò lascia intravedere la possibilità di un’economia che possa distinguersi negli anni a venire.

Il Partito del Congresso, dopo aver subito nell’ultima legislatura i diktat dei suoi alleati di governo, dovrebbe ora disporre di sufficiente libertà d’azione per attuare un programma politico favorevole alla crescita e alle riforme, afferma in una nota di EtfNews Manish Bhatia, gestore di fondi azionari asiatici e indiani presso Schroders Investments.
Dall’ultimo World Economic Outlook, il rapporto sullo stato dell'economia mondiale pubblicato dal Fondo Monetrario Internazionale, è emerso che i Paesi emergenti avranno meno problemi a ripartire, dato che per il 2010 sono visti in progresso del 4% rispetto alle economie avanzate. La stessa Banca centrale indiana ha previsto che il prodotto interno lordo indiano salirà al 6% nel 2010. Come ha dichiarato Toral Munshi di Credit Suisse, con le giuste riforme e adeguati flussi di capitale l’India potrà muoversi velocemente lungo una traiettoria di crescita forte e duratura e potrà collocarsi tra quei Paesi dove la ripresa dell’economia sarà più importante. India e Cina, secondo l’esperto della banca svizzera, saranno il motore del rilancio non solo dell’Asia, ma dell’economia globale.
Per quanto riguarda le opportunità sulla Borsa di Mumbai, gli operatori si interrogano sulla solidità e continuità del movimento partito lo scorso 18 maggio. Senza dimenticare che nel breve periodo non si può prescindere dal contesto mondiale, David Chatterjee, gestore del fondo PF (Lux) Indian Equities, dichiara nella stessa nota EtfNews come l’India abbia tutte le carte in regola per sovraperformare il resto della regione.
Tra gli strumenti per investire sull’India ci sono due Etf (Exchange traded fund) quotati a Piazza Affari. È il caso del Lyxor Etf Msci India, armonizzato, quotato e negoziabile su Borsa Italiana, che replica l'evoluzione dell'indice Msci India. L’altro è l’S&P Cnx Nifty Etf (India), Etf targato Deutsche Bank che replica un indice costituito da 50 azioni appartenenti a 22 differenti settori dell’economia indiana. L’indice Msci regionale, pur presentando una perdita del 10,2% negli ultimi 365 giorni, ha guadagnato da inizio anno il 60% (elaborazione Morningstar Direct, dati in dollari al 3 giugno).
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

 
  Martedì 09 Giugno 2009   Venerdì 12 Giugno 2009   Sabato 13 Giugno 2009  
       
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  Borsa: che tutti siano sotto-investiti non è una garanzia di rialzo certo

07 Giugno 2009 20:29 MILANO - di Alessandro Fugnoli*

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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Il mio primo Quarantacinque per Cento, potrebbero intitolarsi gli appunti, come ho vissuto il balzo del MSCI World Index da 688 a 1000 in meno di tre mesi.

Ho dovuto assistere la zia malata, mi si è allagata la cantina, ho avuto una riunione dietro l’altra, il tempo è volato, avevo comunque qualche azione avanzata dal bull market precedente, nelle ultime settimane ho compricchiato qualcosa, ho resistito a quelli che dicevano di vendere al primo recupero, i dati macro sono comunque sempre usciti con segno negativo, Roubini ha detto che è solo l’ennesimo rally degli sciocchi, nel 1932 il bear market rally fu addirittura dell’ottanta per cento e poi ci fu un nuovo minimo, insomma che cosa volete da me, è già tanto che non abbia chiuso il fondo o fatto bancarotta e in ogni caso voglio vedere chi ha visto davvero crescere il proprio patrimonio complessivo (e non quello sparuto ETF di cui mena gran vanto con gli amici) del 45 per cento dal 9 marzo a oggi.

L’elenco delle possibili giustificazioni è infinito e qui non si vogliono risvegliare i sensi di colpa o di inadeguatezza. Si vuole solo ricordare che (come ha titolato brillantemente JP Morgan la sua View del 29 maggio), il mondo ha perso il rally.

Macinando parecchi numeri e buttandosi in qualche stima, la View sostiene che il portafoglio dell’Investitore Medio Globale è oggi per il 32.5 per cento in cash e per il 49.1 in reddito fisso. Le azioni rappresentano solo il 18.4 per cento, contro la media degli ultimi vent’anni del 27.3 per cento. E si parla dell’oggi, non di tre mesi fa.

Di per sé un mondo sottoinvestito non è una garanzia di rialzo. Se al sottopeso si accompagna però una veloce stabilizzazione del ciclo e qualche primissimo segnale di aumento della produzione industriale fuori dall’Asia (dove il recupero è già molto forte) si può essere indulgenti verso un rialzo azionario che non riesce a fermarsi e che, qua e là, produce qualche eccesso temporaneo.

Più avanti, quando l’effetto inebriante dei segni positivi sarà svanito e il recupero della produzione, pur impressionante, sarà visto nel suo valore assoluto e non come variazione dai minimi, ci sarà tempo e modo per una maggiore sobrietà. Nel frattempo, però, l’effetto combinato dei dati in miglioramento e della corsa a ribilanciare i portafogli manterrà un bias positivo con ritracciamenti limitati in durata e profondità.

Il consolidamento delle ultime sedute, ad esempio, sembra destinato a produrre danni modesti all’azionario e permette alla parte lunga dei bond governativi di riprendersi dall’ipervenduto dell’ultimo periodo. La psicosi del crescente indebitamento pubblico americano, della sua monetizzazione e del conseguente crollo del dollaro si è prodotta del resto su un terreno astratto, concettuale e a tratti leggermente allucinatorio.

Si parla in modo concitato d’inflazione con almeno un anno di anticipo rispetto ai primi eventuali deboli segnali di ripresa dei prezzi che si manifesteranno all’inizio del 2011. Si parla di esplosione insostenibile dello stock di debito pubblico americano quando le proiezioni della Fed lo indicano al 70 per cento del Pil nel 2011, il livello della Germania già oggi. Si sussurra e grida sulla monetizzazione senza freni del debito pubblico e Bernanke fa sommessamente notare che la Fed ha meno titoli del Tesoro oggi di quanti ne abbia mai avuti negli ultimi anni. Ci si allarma sull’incessante creazione di moneta quando la base monetaria americana è sugli stessi livelli di sei mesi fa.

Può darsi che, nel vendere bond governativi e dollari, il mercato abbia qualche intuizione giusta di lungo termine, ma le razionalizzazioni che circolano vanno largamente fuori bersaglio. Sul dollaro, ad esempio, la rassegna settimanale sui cambi di Morgan Stanley fa una disamina accuratissima delle debolezze americane, con tanto di modellizzazione di tutti i fattori possibili immaginabili e con un interessante giro di opinioni tra i suoi esperti di ogni asset class e di ogni continente sulle conseguenze di un eventuale crollo del dollaro. Poi, dopo molte pagine di analisi, dedica pochissime righe allo stato del resto del mondo. Come se il cambio, ad esempio quello tra dollaro ed euro, dovesse esprimere una valutazione degli Stati Uniti e non una valutazione congiunta di Stati Uniti ed Europa. Il cambio è un rapporto, dopo tutto.

Un’altra paura fuori bersaglio, con tanto di valutazione strabica, è quella che qualche anno di forti disavanzi pubblici americani sia la possibile causa del dissesto americano prossimo venturo. Quello che ha sempre preoccupato Greenspan e ora preoccupa Bernanke non è questo o quel disavanzo straordinario, reversibile rapidamente come si vide nei primi anni Novanta, bensì quello di cui i mercati non parlano mai, il dissanguamento strutturale e inarrestabile da spesa sanitaria e pensionistica.

Così come appare strabico il concentrarsi ossessivo sul debito pubblico senza considerare che la sua crescita non riesce nemmeno a bilanciare la decrescita di quello privato, tanto che il saldo complessivo, espresso dal saldo delle partite correnti, mostra un’America che ha sempre meno bisogno di essere finanziata dal resto del mondo.

In realtà, nel breve, il dollaro scende perché si riprende tutti quanti a fare il carry trade. Che cosa c’è di più bello che indebitarsi in dollari (vendendoli) a tasso zero per comprare il real brasiliano o addirittura, come fanno le banche russe non appena la banca centrale gira l’occhio, per comprare rubli? O indebitarsi in dollari per comprare le borse emergenti? Tutto come ai bei tempi, insomma, ma è un segno di salute del mondo, non di chissà quale debolezza dell’America.

Questa America alla fine dei suoi giorni, del resto, sta ricapitalizzando le sue banche a una velocità che vorremmo davvero vedere anche in Europa. La Fed non dà tregua. Dà un obiettivo di ricapitalizzazione a una banca, questa lo raggiunge subito sperando di essere lasciata in pace per qualche tempo e la Fed gliene dà immediatamente uno nuovo. La Fed ingozza le sue oche, non vuole che restituiscano i soldi pubblici che hanno avuto nei mesi scorsi, vuole che abbiano sempre più capitale affinché, per farlo rendere, si decidano a fare credito. L’emissione continua di nuove azioni da parte delle banche ne deprime temporaneamente il corso, ma a livello di sistema accelera la fuoruscita dalla crisi.

Venendo alle strategie d’investimento, ribadiamo che chi ha una visione a 12-24 mesi deve continuare a comprare rischio una quota ogni mese. Bisogna pensare al ciclo economico positivo che sta avviandosi come a qualcosa che avrà un andamento in accelerazione regolare. Non sarà così, naturalmente, ma provare a fare i virtuosi con un fine tuning dei sottocicli non è detto che convenga.

C’è su Youtube, per gli appassionati di tecnologia, l’animazione di un progetto cui sta lavorando un ingegnere taiwanese. E’ il treno che non si ferma mai. Il treno va a una velocità costante, mettiamo, di 100 chilometri l’ora. Quando si avvicina a una stazione, i passeggeri che devono scendere si portano su una navetta in fondo al convoglio, la navetta si stacca e si arresta. Parallelamente, in stazione, un’altra navetta raccoglie i passeggeri in partenza e parte veloce per agganciarsi al treno in corsa. Questo è il ciclo per chi non fa "fine tuning".

Chi vuole farlo potrà invece tentare di cavalcare il modesto consolidamento in corso, sfruttando il dato sull’occupazione di venerdì e il meritato ritracciamento del greggio, che si porta dietro i titoli surriscaldati di energia e materie prime. La pausa durerà quel tanto che occorrerà a ridare tono ai Treasuries. Poi, altri dati macro incoraggianti che si susseguiranno nelle prossime settimane indurranno altri sottopesati a ribilanciarsi. Il consolidamento vero sarà un poco più avanti.

Come diceva il grande Bob Farrell, i mercati lavorano instancabilmente per produrre il massimo di infelicità in chi li frequenta. Salgono quando tutti ne sono usciti e scendono quando tutti hanno finito di entrare. Perché ci sia un consolidamento serio bisogna prima che entri ancora qualcuno.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

  La borsa è salita irrealisticamente troppo

09 Giugno 2009 00:01 MILANO - di Giuseppe Turani

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In questi giorni sui mercati si respira un'aria di grande disorientamento, persino chi aveva previsto la ripresa delle Borse, a questo punto è un po’ spaventato. Prima sui mercati avevano tutti una paura terribile e vendevano qualsiasi cosa, adesso accade il contrario: si compra tutto e con grande entusiasmo.

Ieri un operatore molto esperto mi ha confessato: da anni non ero cosi preoccupato. Mercati azionari che salgono da tre mesi con un'economia reale che non riparte, reazioni positive anche se i dati sulla disoccupazione Usa sono i peggiori da 25 anni, petrolio che continua a battere record su record, dollaro che sprofonda. Secondo me - dice sempre l'amico operatore - se nelle Borse non si danno una calmata, nelle prossime settimane rischiamo di fare prima o poi un botto terribile. E che soprattutto può tornare ad innescare quelle paure che oggi sembrano dimenticate.

Se invece le borse si ridimensionassero di un 10-15 per cento tutto sarebbe più sano e si potrebbe affrontare serenamente la seconda parte dell'anno. Quella che, mese più o mese meno, dovrebbe far vedere al mondo qualche spiraglio vero di ripresa. Ma, a parte il disorientamento dell'amico, cosa sta succedendo?

Partiamo dal dollaro, che sembra stia sorprendendo tanti. In realtà era prevedibile che il dollaro venisse progressivamente pilotato verso il ribasso dagli stessi americani. Sono infatti loro per primi che, potendo gestire una valuta che rappresenta molto della finanza mondiale, hanno interesse ad avere una moneta debole per attrarre masse di denaro, ogni giorno sempre più necessarie per sottoscrivere le loro emissioni. Ed infatti si vede che le emissioni, azionarie ed obbligazionarie di queste settimane, vengono coperte senza problemi. Anzi, con grande soddisfazione degli emittenti e della Fed che solo due mesi fa non sapeva come trovare soldi.

Come se non bastasse, il dollaro basso spinge le esportazioni e mai come ora gli Stati Uniti hanno bisogno di vendere loro merce all'estero. E' chiaro che questo indebolisce le riserve di chi ha in pancia tanti dollari, però basta continuare a dire pubblicamente che il dollaro tornerà forte e almeno per il momento non si vedono incrinature su quel fronte. Il petrolio é invece chiaramente già travolto da fenomeni speculativi. Non ci sono ragioni per un barile a 70 dollari e infatti gli esperti lo danno presto in ribasso. O comunque in un range tra i 40 e i 60, che é un livello fisiologico di medio termine.

Venendo alle borse ed a questo inimmaginabile aumento del 45 per cento nel giro di poche settimane, le spiegazioni sono tre.

1) La voglia di riprendere un po' di rischio equity era ed é tanta, specie a prezzi che - almeno in termini assoluti - sembrano attraenti, il rendimento delle obbligazioni prive di rischio é ormai bassissimo e la paura di "perdere un treno" é enorme. La prima ragione é in fondo il contraltare dei crolli forse eccessivi di gennaio e febbraio. Tutto veniva buttato via senza troppi ragionamenti. Le situazioni, specie delle banche, venivano drammatizzate, i prezzi crollavano. Però o il mondo é destinato a finire o le General Electric, qualche energetico, qualche farmaceutico o alimentare un futuro lo avranno, ed ecco che sono spuntate le eccezioni. Poi le eccezioni si sono allargate ed é iniziata una sorta di corsa all'equity.

2) La seconda ragione é evidente e riguarda sia i gestori professionali che i singoli. Quando si vede che i propri soldi rendono meno dell'uno per cento (nel reddito fisso) non puoi non cercare altre forme di investimento, sopratutto se far rendere i soldi é il tuo mestiere.

3) La terza forse é la più convincente: quanta gente si é fatta prendere dal panico che ha attraversato il mondo tra ottobre e febbraio? Tantissima. Però era panico, non ragionamento ed appena si é visto che il recupero (dei mercati) era robusto e che l'amico o il collega coraggioso comprava le Citicorp o le Unicredito ai prezzi di inizio marzo, in molti hanno temuto di essere un po' troppo fifoni. E si sono accodati.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

 

Hi-tech in Europa: ripresa dal 2010

09 Giugno 2009 17:38 MILANO - di Il Sole 24 Ore
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Un 2009 di assestamento, per cui la buona notizia è la sostanziale tenuta rispetto all'andamento dell'economia nel suo complesso, e un 2010 che si annuncia finalmente in controtendenza. La fotografia scattata dall'Eito (European Information Technology Observatory, www.eito.com) riguardante le dinamiche del mercato europeo dell'Ict e dell'elettronica di consumo parla chiaro e conferma che la diminuzione del giro d'affari legato alle tecnologie prevista per quest'anno sarà seguita da una pronta ripresa nel corso del prossimo. E anticipa quindi più rosei orizzonti per l'intera industria di settore. Stando al rapporto presentato oggi, il fatturato complessivo relativo ai prodotti e ai servizi dell'Information e Communciation Technology registrerà a fine 2009 una diminuzione dell'1,7%, scendendo da 729 a poco meno di 717 miliardi di euro. Flessione contenuta, quindi, che di fatto attesta per il mercato europeo dell'high-tech uno sviluppo significativamente migliore rispetto a quello del contesto economico globale, per cui la Commissione Ue e l'Ocse prevedono (il dato riguarda il Pil dei Paesi dell'Unione) per l'anno in corso un calo del 4%.

Quanto alla ripartizione della torta di cui sopra fra i tre segmenti di riferimento – telecomunicazioni, informatica, consumer electronics – le telco si confermano un mercato sostanzialmente stabile nell'ordine dei 362 miliardi di euro e lo stesso dicasi per il comparto It, che scenderà nell'anno in corso a quota 297 miliardi rispetto ai 302 del 2008. Più evidente la frenata dei prodotti consumer e digitali (Tv, camere digitali, lettori multimediali, Mp3, ecc.), che dai circa 64 miliardi di euro consolidati a fine dicembre scorso scenderanno nel 2009 a 58,5 miliardi (-8,2%) e nel 2010 a poco più di 55 miliardi (-5,9%). A partire dal 2010, in ogni caso, l'industria hi-tech nel suo insieme tornerà a riprendere (seppur lentamente) la corsa in avanti e stando alle stime di Eito il consuntivo di fine anno per i Paesi dell'Unione Europea dovrebbe essere in attivo dello 0,3%, a complessivi 719 miliardi di euro. In linea generale, il rapporto ratifica quelle che erano state le previsioni degli analisti di fine anno, e cioè una dinamica di domanda dei prodotti consumer che non è stata praticamente impattata dalla crisi e l'atteggiamento più prudente delle aziende nell'avviare nuovi progetti It. Cristiano Radaelli, Vice Presidente di Anitec/Anie (il partner italiano di Eito che ha contribuito al rapporto con uno studio sul futuro dell'innovazione digitale in Italia) ha enfatizzato in proposito il fatto che "le ripercussioni la crisi economica sono evidenti anche in un settore, come l'Ict, che da sempre investe molto più degli altri in attività di ricerca e sviluppo".

Male l'hardware, tengono i servizi It
Entrando nel merito dei dati della ricerca balzano all'occhio alcuni dati molto interessanti, che confermano forti spostamenti tra i singoli settori di mercato. Il volume d'affari delle telefonate da rete fissa, per esempio, diminuirà nel 2009 del 6,8% (a 70,2 miliardi di euro) confermando la tendenza che vede i consumatori preferire sempre di più il cellulare e Internet al telefono fisso per comunicare. I collegamenti alla Rete avranno quindi un'impennata nei dodici mesi del 7,2% per superare quota 36 miliardi di euro mentre per le telefonate da terminale mobile il fatturato resterà fermo a 109 miliardi di euro nonostante il numero crescente delle utenze. In campo informatico, invece, le dolenti note riguardano principalmente la voce hardware, che Eito stima poter perdere quest'anno il 6,6% in valore per chiudere a complessivi 85,7 miliardi di euro. Il rinvio degli investimenti da parte delle aziende impatterà per contro meno sulla domanda di software e servizi It, che dovrebbero toccare quota 210,4 miliardi di euro con un calo dello 0,3% anche grazie alla buone risultanze in arrivo dal comparto outsourcing, il cui volume d'affari aumenterà in Europa del 5% arrivando fine a 2009 a 65,8 miliardi di euro.

In discesa del 10% i ricavi delle flat Tv
Le brutte notizie insite nel rapporto Eito sono soprattutto per i produttori di elettronica di consumo. Dopo aver fatto registrare per parecchi anni tassi di crescita elevati, si prevede infatti per il 2009 una forte frenata del giro d'affari legato ai prodotti d'intrattenimento digitale e la causa prima di questo rallentamento è secondo gli analisti imputabile alla riduzione del fatturato nel settore dei televisori a schermo piatto. Nei Paesi dell'Unione Europea si venderanno sì circa 42 milioni di apparecchi Lcd e al plasma (cifra record mai raggiunta in precedenza) ma i ricavi subiranno una contrazione del 10,3%, scendendo a 26,3 miliardi di euro, per effetto dell'ulteriore erosione sui prezzi di listino all'utente finale. Un andamento simile lo registreranno anche fotocamere digitali, lettori MP3 e navigatori Gps mentre faranno registrare un risultato positivo in termini di volume d'affari i lettori Blu-Ray, i set-top box per la TV digitale e le console di gioco.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Le nozze risvegliano il gestito

09-06-09 MILANO - di Sara Silano
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Bob Rodriguez, per tre volte nominato manager dell’anno da Morningstar negli Stati Uniti, ha annunciato che si prenderà un anno sabbatico nel 2010, dopo 25 anni di gestione, poi tornerà ma solo come analista o consulente. All’industria dei fondi rimprovera di non aver saputo riconoscere i sintomi della crisi creditizia prima che esplodesse. “E’ stata completamente impreparata”, ha detto Rodriguez durante la Morningstar investment conference di Chicago, “perché i manager sono troppo occupati a seguire i loro benchmark”. Al settore, chiede più coraggio nell’andare controcorrente e nello spiegare ai risparmiatori i deludenti risultati degli ultimi anni, non nascondendosi dietro gli slogan commerciali.

La crisi ha segnato l’industria dei fondi e sta portando a una profonda ristrutturazione del settore. A livello globale si sono aperti i balletti per fusioni e acquisizioni. Il colpo più grosso lo sta mettendo a segno BlackRock che ha annunciato di voler acquisire Barclays Global Investors. Se l’operazione andrà in porto la casa di investimento di New York diventerà la più grande al mondo, con un patrimonio in gestione di circa 2,1 trilioni di euro. E ci sono tanti altri operatori che sono in campagna acquisti, tra cui BNY Mellon, Aberdeen e GLG. Altri asset manager si sono già mossi da tempo come Henderson Global Investors con New Star Am e Société Générale am con Crédit Agricole.

Il fermento, che è tipico dei mercati maturi, ha toccato anche l’Italia. Procede l’aggregazione tra Anima e Bipiemme Gestioni, mentre altre realtà sono in fase di riassetto. Monte Paschi ha fatto confluire le sue attività di asset management in una nuova società partecipata per il 67% dal fondo Clessidra. Inoltre, continuano i rumor sulla possibile vendita di Fideuram, per altro smentita da Intesa Sanpaolo, che controlla la società. E non è un mistero che Unicredit sia in cerca di un acquirente interessato ad avere una partecipazione in Pioneer Investments.

Le ragioni dell’ondata di fusioni e acquisizioni sono essenzialmente due. La prima è che le banche, travolte dalla crisi finanziaria, sono alla disperata ricerca di soluzioni per rafforzare i loro margini e quindi vogliono disfarsi del risparmio gestito che non è più considerato un asset strategico. La seconda, invece, riguarda le valutazioni delle società, che sono scese molto. Non a caso i possibili acquirenti sono, oltre le case di investimento concorrenti, i fondi di private equity, che in alcune realtà intravedono forti potenzialità di crescita futura.

Esiste, però, un terzo aspetto che non va sottovalutato. Il mercato del risparmio gestito, in particolare quello europeo, è saturo. Nel Vecchio continente sono venduti circa 35 mila fondi, contro gli 8 mila degli Stati Uniti e alcuni sono troppo piccoli per sopravvivere in modo redditizio. I forti riscatti dell’anno scorso hanno aggravato questa situazione, provocando un’ondata di aggregazioni e liquidazioni di comparti (secondo le statistiche Morningstar, questa attività è aumentata del 60% nel primo trimestre 2009 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso). Oggi, che gli investitori si stanno riaffacciando sul mercato del gestito è importante che questi cambiamenti non ledano i loro interessi, ma vadano nella direzione di una maggior redditività per i risparmiatori e quindi di una diminuzione dei costi.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

 

  Rally: non è mai troppo tardi per salire sul treno

09 Giugno 2009 20:59 NEW YORK - di Brett Arends

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Gli investitori che a marzo sono scappati dal mercato quando ha toccato il fondo fanno ancora in tempo a tornare sui loro passi. Non bisogna avere paura di rimanere scottati. Ecco a chi rivolgersi e quali titoli comprare.
La scorsa settimana ho ricevuto una email di una donna disperata, che a inizio marzo in preda al panico ha venduto tutte le azioni in suo possesso ed ha investito i suoi soldi nel mercato obbligazionario. Questo perche’ ha assistito ad un balzo improvviso dei prezzi dell’azionario, mentre nel frattempo i titoli di Stato perdevano terreno. Ora non sa piu' cosa fare. Nella lettera mi chiede preoccupata: "E’ troppo tardi per vendere nuovamente i titoli di stato e tornare sul mercato azionario?

Sono sicuro che sono molte le persone che si trovano nella stessa situazione. I numeri mostrano che molti investitori si sono liberati del proprio pacchetto azionario proprio quando il mercato ha toccato il fondo, nella prima settimana di marzo, preferendo comprare titoli piu’ sicuri. Ora si sentono depressi perche’ sentono di aver perso il treno e hanno paura di rimanere ancora scottati. Ecco alcuni consigli:

- Prima di tutto, niente panico. Alcune delle analogie di cui la gente si serve per analizzare il mercato sono sbagliate e spesso controproducenti. L’azionario non e’ una barca che lascia il porto, un treno che lascia la stazione o una macchina che accelera all’uscita della curva. Percio’ non dovete pensare che l’unica soluzione sia quella di rientrare nell’azionario il prima possibile, prima che sparisca dalla vostra vista. Rilassatevi. Ci sara’ sempre una buona opportunita da sfruttare.

- Non sentitevi obbligati a fare un investimento molto grande. E’ sempre preferibile andare per piccoli passi, spostando, per esempio, il vostro portafoglio del 20% alla volta. Le grandi scommesse sono sempre molto rischiose e raramente ce n’e’ veramente bisogno.

- In situazioni di questo tipo, gli esperti finanziari spesso consigliano di "parlare con un consigliere finanziario di fiducia". E’ un buon consiglio, ma se aveste avuto un consulente finanziario capace, probabilmente non vi ritrovereste nella situazione in cui siete ora. Trovarne uno bravo e’ un’impresa difficile. Rifarsi al curriculum, come ai titoli conseguiti, e’ un buon inizio. Ma non garantisce l’eccellenza. E’ piu’ semplice trovare un buon manager di fondi comuni, piuttosto che un buon consigliere finanziario e ricordate che non otterrete mai una buona dritta dalla cognata o da un amico al corso di golf.

- Invece i fondi di investimento comuni di buona qualita’, come i vari "market neutral", "asset allocation" e "absolute return", potrebbero fare al caso vostro e prenderebbero le decisioni al vostro posto. I manager hanno la flessibilita’ per investire dove ritengono che ci siano le migliori opportunita’, senza tenere conto di analisi tecniche, indici di riferimeto e altre distrazioni. Sono in grado di tenere da parte i soldi per molto tempo se non trovano niente di potenzialmente vantaggioso da comprare. Molti di loro si servono di strumenti derivati per coprirsi dal rischio rappresentato dai mercati azionari. Tra i fondi degni di nota, vi sono Hussman Strategic Total Return (HSTRX), Federated Market Opportunity (FMAAX), Leuthold Core (LCORX), FPA Crescent (FPACX) e BlackRock Global Opportunity (MALOX). Si tratta di fondi che con molta probabilita’ renderanno meno di un mercato rialzista, ma faranno meglio in un contesto di mercato ribassista e pertanto possono essere una buona soluzione.

- Alcuni commentatori vi diranno di "focalizzarvi sugli obiettivi a lungo termine" e considerare qual’e’ la vostra tolleranza al rischio. Ovviamente i consigli sono sensati. Per esempio non dovreste tenere nell’azionario i soldi di cui potreste avere bisogno nei prossimi anni. Ma, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non sono la panacea di tutti i mali. Un portafoglio investimenti di 10 anni e uno di 30 anni hanno lo stesso obiettivo: ottenere il miglior risultato possibile con il minimo rischio. E, tolleranza o non tolleranza al rischio, non conosco nessuno che voglia perdere i propri soldi.

- State alla larga da chiunque vi suggerisca di investire con aggressivita’ per catch up. Una teoria che gli investitori che scommettono ingenti somme di denaro in asset moltio rischiosi, riceveranno immediatamente ritorni piu’ alti, nonostante la volatilita’. Niente di piu’ sbagliato. Dev’essere per questo che Warren Buffett, che premia la conservazione del capitale, ha guadagnato cosi’ pochi soldi. La verita’ e’ che i profitti non arrivano magicamente dagli investimenti piu’ volatili. Vengono sempre da investimenti oculati in asset sottovalutati, pertanto bisogna avere pazienza.

- Quali sono i titoli sottovalutati? Non c’e’ una risposta a questa domanda, sarebbe troppo facile, ma come ha sottolineato il mio collega Jason Zweig sabato scorso, nonostante il rally degli ultimi tre mesi, le blue chip di "alta qualita’" del Dow rappresentano ancora un rischio molto basso e hanno ancora una valutazione vantaggiosa. Questi titoli sono stati i piu’ colpiti nel periodo piu’ critico per il mercato. Sfortunatamente, sono pochi i titoli economici al momento, rendendo difficile la scelta.

- Infine non abbandonate il mercato obbligazionario completamente. E;’ come abbandonare l’azionario solo perche’ i titoli stanno perdendovalore. Al contrario, guardate quello che avete in mano. I titoli protetti dall’inflazione e quelli a breve termine sono meno esposti ad un’eventuale impennata dell’inflazione. Se siete nel dubbio, un fondo obbligazionario gestito come Pimco Total Return Fund di Bill Gross, il piu’ grande fondo obbligazionario al mondo, potrebbe fare al caso vostro.
 

Fonte - Finanza & Mercati

 

 

 

 

  Peggio alle spalle. Dico si alle borse

09 Giugno 2009 22:59 MILANO - di Massimiliano Malandra

Nigel Bolton - una carriera a capo del team azionario Europa, prima in Citigroup, poi in Swip e dal 2007 in BlackRock

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«Per l’economia il peggio sembra passato. E anche in Borsa dovremmo esserci ormai lasciati alle spalle i minimi di marzo». Nigel Bolton - una carriera a capo del team azionario Europa, prima in Citigroup, poi in Swip e dal 2007 in Blackrock - è sicuro della propria analisi. Infatti da febbraio i suoi fondi hanno iniziato a sovrappesare il comparto azionario.

Mr Bolton, cosa le fa credere che sia già tutto finito?

In realtà non è tutto finito, ma di sicuro il punto più basso della recessione lo abbiamo superato. L’arsenale di misure economiche schierato dai governi in tutto il mondo è stato gigantesco. E gli effetti proseguiranno in misura amplificata nei prossimi mesi. Gli stimoli fiscali hanno un orizzonte di utilizzo ancora lungo, e gli interventi di quantitative easing delle banche centrali hanno funzionato: la creazione di moneta nel sistema finanziario hanno fornito combustibile all’economia.

Gli economisti si sono lanciati in una serie di ipotesi sulla «forma» di questa recessione: a L, a U, a W. Lei che ne pensa?

Credo che queste ipotesi siano state sorpassate dagli eventi. A questo punto mi pare più corretto un andamento economico che ricorda il simbolo della «radice quadrata». Quindi una V con una linea orizzontale, costruita su tre passaggi: 1) blocco del turnover di scorte, il cosiddetto destocking; 2) la ricostruzione dei magazzini; 3) la fase attuale di assestamento, anche se spesso turbolenta.

Cosa l’ha spinta fin da febbraio sovrappesare il mercato l’azionario?

Uno sguardo ai multipli relativi dei vari settori azionari europei spiega molto bene la situazione in cui eravamo. I settori più difensivi, dalle utility ai consumi di base, dall’healthcare alle tlc, trattavano tutti con i ratio più elevati degli ultimi 30 anni (si vedano i due grafici in basso in pagina, ndr). Il contrario ovviamente, per industriali, beni di consumo, tecnologici, che viaggiavano a multipli estremamente a sconto. Un’inversione era quindi nei fatti.

E ora?

Ora la situazione si è quasi ribaltata. Il rally, da una parte, ha «scaricato» i multipli dei difensivi e, dall’altra, ha riportato quelli dei settori ciclici su valori più consoni. Questo ci ha indotto, pur mantenendo posizioni importanti sugli industriali, a tornare ad acquistare anche i difensivi.

Per esempio?

Vediamo le nostre principali 10 partecipazioni. Fra gli industriali, in Francia abbiamo Schneider e in Germania Daimler e Man. Ma ora siamo tornati a puntare anche su tlc, con Deutsche Telekom, sulle utility con British Gas e sul pharma con Novo Nordisk. Poi c’è l’energy.

Che dire sull’energy vista la nuova impennata del greggio?

Parto dal presupposto che fare previsioni sulle quotazioni del petrolio è quasi impossibile e quindi inutile. Certo abbiamo posizioni su British Petroleum e Tullow Oil, ma la view sul settore rimane neutrale.

Infine l’incognita finanziari...

Anche in questo caso le valutazioni che erano a livelli veramente ridotti e ora si sono riportate a valori più consoni. Istituti che attualmente non valgono nemmeno i mezzi propri, una volta passata la tempesta torneranno a fare utili e ad essere redditizi, visto che sono lo snodo vitale dell’economia. Penso anche al real estate commerciale in Gran Bretagna: rappresenteranno una bella sorpresa per chi vi investe.
 

Fonte - Borsa & Finanza

 

 

 

  Martedì 16 Giugno 2009   Mercoledì 17 Giugno 2009   Giovedì 18 Giugno 2009  
       
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SOROS SPARA AD ALZO ZERO SUI CDS: SONO DISTRUTTIVI

15 Giugno 2009 02:20 NEW YORK - di WSI
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Il miliardario ungherese da Pechino dice che i derivati sono fuorilegge e non dovrebbero essere nemmeno scambiati sui mercati. "Piu' ne sento parlare e piu' mi rendo conto di quanto siano tossici".
Gli strumenti finanziari derivati legati al credito, noti con il nome di Credit Default Swap (CDS), sono "strumenti di distruzione" di massa che dovrebbero essere vietati. Lo ha detto oggi l'investitore miliardario George Soros, ripetendo un concetto gia' espresso prima della crisi.

Nel corso di un intervento tenuto a Pechino dinanzi ad una comunita' di banchieri, Soros ha sottolineato che l'asimmetria esistente tra il rischio e il ritorno insita per natura negli strumenti CDS esercita una pressione al ribasso cosi' forte sui titoli a reddito fisso sottostanti i contratti, che le aziende e gli istituti finanziari possono facilmente finire per essere messi in ginocchio.

"Alcuni strumenti derivati non dovrebbero essere nemmeno scambiati. Mi riferisco ai Credit Default Swap. Piu' ne ho sentito parlare e piu' mi sono reso conto di quanto siano tossici", ha detto durante il suo intervento.

"I CDS sono strumenti di distruzione che dovrebbero essere banditi dalla legge", ha detto Soros nel corso della riunione organizzata dall'Istituto di Fianza Internazionale, i cui membri - per lo piu' banche e istituti finanziari - sono partecipanti attivi nell'enorme mercato dei CDS.

Speculando sulle obbligazioni acquistando un contratto CDS non presenta rischi molto alti, ma offre un ritorno dal potenziale illimitato. Al contrario, vendere CDS offre un profitto esiguo a fronte di rischi praticamente illimitati, ha precisato Soros.

Il CDS e' uno strumento di swap che ha la funzione di trasferire l'esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso tra le parti e viene spesso utilizzato con la funzione di polizza assicurativa o copertura per il sottoscrittore di un'obbligazione.

 

 

 

USA, I MERCATI SONO TORNATI ALLA NORMALITA'

15 Giugno 2009 02:42 NEW YORK - di WSI
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Chi si rivede: Abby Joseph Cohen (Goldman Sachs). Giudica esagerati i cali visti tra fine 2008 e inizio 2009. L'azionario ora si trova semplicemente dove dovrebbe essere, anche se l'avversione al rischio e' ancora alta. S&P500: oltre 1050 in 6-12 mesi.
Da marzo i mercati finanziari Usa sono "tornati alla normalita'", con gli operatori che li hanno ricondotti semplicemente dove dovevano essere, secondo il parere della senior investiment strategist di Goldman Sachs, Abby Joseph Cohen.

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In un'intervista rilasciata a Bloomberg, Cohen ha sottolineato che "quello cui stiamo assitendo ora e' semplicimente un ripristino delle condizioni in cui il mercato dovrebbe essere", ha detto la Cohen durante l'intervista rilasciata a Bloomberg, che sara' trasmessa stasera negli Stati Uniti. "Questa situazione e' molto piu' vicina alla normalita' di quanto non sia stata negli ultimi 18 mesi".

Tuttavia, sempre secondo Cohen, la situazione non e' "ancora del tutto normale". Gli investitori continuano infatti ad essere piu' avversi al rischio del solito.

Cohen e' nota per le posizioni ottimiste tenute durante gli anni novanta, quando scommise su un rally del mercato azionario. Nel marzo del 2008 Goldman Sachs ha deciso di sostituirla dal suo incarico di capo dell'unita' che si occupa di fare previsioni sul mercato azionario Usa.

Il primo maggio scorso, la Cohen ha detto che l'indice allargato Standard & Poor’s 500 potrebbe balzare sino a quota 1050 e oltre nei prossimi sei, dodici mesi. L'S&P ha archiviato la seduta di ieri a 942.43 punti, che si confrontano con gli 872.81 registrati alla chiusura del 30 aprile.
 

 

 

S&P 500 CALERA' A 800 PER RISALIRE A QUOTA MILLE ENTRO FINE 2009

15 Giugno 2009 03:15 NEW YORK - di xxx
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Il benchmark azionario probabilmente scivolera' del 10% dai livelli attuali, ma ad ogni modo finira' l'anno in netto rialzo. L'economia Usa registrera' un miglioramento notevole, ma restera' sotto i livelli di parita'. Parla Bob Doll (BlackRock).
L'indice allargato S&P 500 potrebbe perdere circa il 10% dai livelli attuali, ma comunque finira' l'anno intorno ai 1000 punti. A sostenerlo e' Bob Doll, vice presidente e direttore finanziario della divisione azionaria di BlackRock.
Per l'S&P 500 abbiamo un target di 1000 punti dall'inizio dell'anno e rimaniamo della stessa idea", ha dichiarato Doll in un'intervista rilasciata alla Cnbc. "So che una previsione di questo tipo poteva apparire ingenua in marzo e potrebbe sembrare pessimista ancora oggi, con il paniere che scambia intorno a quota 900, ma penso che lo vedremo salire sino a 1000 punti. Prima pero' potremmo assistere ad un calo sugli 800 punti".

L'economia statunitense registrera' un miglioramento notevole, ma restera' "sfortunatamente sotto i livelli di parita'", ha sottolineato Doll, secondo cui vi saranno molte operazioni di "stock picking" quando il mercato iniziera' la risalita, anche se questa non sara' costante.

Per quanto riguarda gli elevati tassi di interesse, infine, la speculazione vista ultimamente ha probabilmente a che fare con la normalizzazione delle circostanze, piuttosto che con i timori legati all'inflazione. Secondo Doll, infatti, una volta che le condizioni saranno tornate alla normalita' e' inevitabile aspettarsi che i tassi salgano dai minimi storici toccati in precedenza.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

  Perché avventurarsi sulle materie prime

15 Giugno 2009 03:22 MILANO - di *Nello Mascioni

*Nello Mascioni e' lo pseudonimo di un importante private banker.

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Molti investitori si chiedono se siano maggiori i rischi di una flessione del mercato rispetto a quelli di non riuscire a cogliere l'ulteriore rialzo atteso per i prossimi mesi. Dopo le pesanti performance negative da gennaio a metà marzo, tutti i mercati azionari hanno recuperato pienamente le quotazioni di inizio anno riportando, dopo il G20, una maggiore serenità presso gli asset manager internazionali.

Anche il comparto obbligazionario ha vissuto, e continua a vivere, movimenti repentini di mercati in conseguenza del continuo flusso di informazioni che alternativamente conferma la ripresa con la sua debolezza, il superamento del punto più debole del ciclo economico con il timore di un ciclo a W, caratterizzato cioè da onde lunghe che si susseguono.

La domanda che molti si fanno è se sia possibile a questo punto individuare punti certi, ancore sulle quali costruire strategie di investimento per i prossimi anni. A ben vedere l'ancora maggiore di cui oggi godono i mercati è proprio la certezza dell'incertezza: il che si traduce in una strategia di investimento ancora prudente.

I bilanci bancari nel 2009 saranno influenzati da un rialzo dei crediti in sofferenza, i consumi sono ancora relativamente deboli, la disoccupazione continuerà a crescere anche in presenza di un miglioramento del ciclo economico internazionale. Le imprese industriali hanno colto il sussulto della domanda solo per ridurre il peso delle merci in magazzino di fatto continuano a navigare a vista: se si considera anche la difficoltà nell'ottenimento del credito bancario l'atteggiamento prudente degli imprenditori appare ancora più comprensibile.

Eppure i mercati hanno recuperato oltre il 40% dai minimi di marzo ed alcuni titoli hanno raddoppiato o triplicato le quotazioni nell'arco di due mesi e mezzo. Quali sono allora i rischi e quali le opportunità? Il rischio principale è quello di inseguire nelle prossime settimane un mercato che sembra aver anticipato uno scenario meno negativo di quello atteso fino a gennaio; l'opportunità che, superato questo rischio, il mercato presenta temi di investimento particolarmente interessanti che vanno al di là della emotività attuale o delle dinamiche di breve termine dei singoli titoli.

Partiamo dal presupposto che il mondo abbia superato il rischio di una implosione: se esso non è imploso in una nuova depressione e non implode, allora l'economia internazionale tornerà gradualmente e lentamente su un sentiero di normalità che si tradurrà in una ripresa del commercio internazionale. La lentezza della ripresa sarà imputabile alla doverosa riduzione della leva finanziaria da parte delle banche internazionali e alla maggiore propensione al risparmio delle famiglie americane dopo un decennio di spese eccessive (che per onestà intellettuale occorre riconoscere aver finanziato la lunga fase di espansione mondiale!).

Al tempo stesso la possibilità di aree economiche (Bric ed altri dell'America Latina) di spingere sulla domanda interna dovrebbe dare un contributo opposto ossia incrementare l'intensità della ripresa. Proprio grazie a questa aspettativa di domanda interna è possibile individuare le opportunità di investimento: le materie prime in generale e soprattutto quelle considerabili in regime di scarsità.

La certezza dell'incertezza è infatti molto più riconducibile ai bilanci societari ed alle stime degli analisti solitamente sequenziali rispetto
alle performance di mercato, mentre è minore rispetto ad alcuni temi sostanziali: 1) anche in un mondo che cresce debolmente, uno spostamento anche
lieve nei consumi del petrolio si traduce in una pressione rilevante al rialzo dei suoi prezzi;

2) un mutamento nelle abitudini alimentari di Cina e India hanno un impatto rilevante su alcune materie prime agricole/alimentari; 3) la scarsità del petrolio determina a sua volta una maggiore ricerca di energia verde o di fonti
alternative: l'energia verde dei biocarburanti a sua volte genera una minore disponibilità di terreni utili alla coltivazione di materie prime alimentari i cui prezzi per effetto del punto 2 tenderanno a crescere, proprio perché vi è un limite alla scalabilità della loro produzione.

È importante ricordare che l'investimento in materie prime deve essere fatto da un investitore normale attraverso veicoli specializzati che per completezza ricordo: fondi comuni o sicav specializzate, Etf ed Etc. Questi strumenti
sono infatti liquidi e rappresentano un mix di materie prime (fondi e Etf) o sono replicanti di singole commodity (Etc).
 

Fonte - Finanza & Mercati

 

 

 

 

  Bear Market rally, una dovuta pausa

16 Giugno 2009 12:12 BIELLA - di *Maurizio Milano

*Questo documento e' stato preparato da Maurizio Milano, responsabile Analisi Tecnica del Gruppo Banca Sella

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La reazione tecnica di forte rimbalzo dai minimi del 6-9 marzo – dopo un primo bimestre in forte lettera ed una discesa dei principali indici azionari mondiali verso i livelli del 1996 (Usa), 1997 (Europa) ed addirittura 1994 (Italia) – ha consentito finora un recupero generale superiore al 40% (per il FTSE/Mib addirittura +68%), con gli indici che si stanno avvicinando a livelli critici di resistenza.
Il trend rimane rialzista, nonostante una perdita di spinta nelle ultime settimane, che sembra comunque più una pausa di riaccumulazione che non l’anticipo di un prossimo storno. Gli obiettivi "finali" del bear market rally si stanno comunque avvicinando: possiamo ipotizzare che la salita abbia percorso circa i due/terzi – tre/quarti del cammino di rialzo che la lettura dei grafici lascia al momento ipotizzare.

Pur non emergendo ancora segnali di esaurimento né, tanto meno, di inversione, è chiaro che le prospettive di risk-reward diverranno man mano meno attraenti all’avvicinarsi degli obiettivi "finali". Visto che il quadro tecnico più ampio rimane improntato alla debolezza (il major trend rimane infatti quello di un mercato Orso), a livello operativo si conferma quindi l’opportunità di monetizzare gli utili realizzati nell’ultimo trimestre all’avvicinarsi degli obiettivi indicati.

Per le prossime settimane è importante che eventuali prese di beneficio non siamo marcate: una correzione tra il 5 ed il 10% dai livelli correnti sarebbe fisiologica e non comprometterebbe la ripresa del rally nelle prossime settimane. Da un punto di vista operativo sono ancora possibili acquisti sulla debolezza ma il focus deve ora spostarsi su una exit strategy che consenta di alleggerire l’esposizione all’avvicinarsi degli obiettivi, portando a casa gli utili realizzati ed abbassando il profilo di rischio.

A livello settoriale è probabile che l’ultima fase del rally sia trascinata dall’energia, dalle utilities e dall’alimentare, che negli ultimi 3 mesi sono stati sottoperformanti rispetto a banche ed auto. Le prospettive per l’azionario nei mesi a venire – una volta che saranno raggiunti gli obiettivi indicati, corrispondenti grosso modo ai livelli di inizio ottobre 2008, a circa un +15-20% dai livelli correnti – non appaiono particolarmente attraenti.

Esauritosi il bear market rally, l’asset da privilegiare tornerà perciò ad essere la liquidità. Se poi la correzione (estiva?) si arresterà – com’è lecito ipotizzare – ben al di sopra dei minimi di inizio marzo (un buon supporto sarebbero i minimi di maggio), allora potremo concludere che il mercato entrerà in una lunga fase laterale di riaccumulazione, in cui sarà premiante un’operatività di acquisti sulla debolezza e vendite sulla forza.
Per il momento concentriamoci ancora sul "cavalcare" il bear market rally, con un’attenzione crescente a gestire l’uscita.

Sul fronte volatilità implicita è proseguita la tendenza ribassista degli ultimi mesi: la stabilizzazione del Vix al di sotto del supporto critico in area 35-37 ha dato un chiaro segnale distensivo – confermato anche dalla discesa del Vix al di sotto del Vxn –, innanzitutto sul settore finanziario e, a cascata, su tutto il listino. Il ritorno sui livelli di volatilità di metà settembre 2008 (prima cioè del fallimento di Lehman e del conseguente crash azionario di ottobre-novembre) dà un segnale molto positivo, aumentando la probabilità che i minimi del 6-9 marzo siano effettivamente "il" minimo del mercato.

I segnali di ripresa dell’azionario hanno trovato conferma anche sui listini asiatici. Si segnala il fortissimo rialzo dell’India ed il recupero di forza relativa del Giappone nelle ultime settimane. Sempre in rialzo la Cina, mentre consolida sui massimi di periodo la Corea.

Per l’India (indice Sensex30, ticker Bloomberg SENSEX) il rally si è spinto, in accelerazione, fino ad un picco a 15600 il 12 giugno (+93,6% dai minimi). La tenuta del supporto critico in area 13500-14000 (PC 14785) manterrebbe un’impostazione tonica, anche se la forte resistenza a 16000 potrebbe arrestare la salita per le prossime settimane (resistenza successiva, chiave, in area 17250/750).

Per la Cina (Indice Shanghai Composite, ticker Bloomberg SHCOMP), si conferma l’impostazione rialzista, dopo i minimi del 28.10.2008 a 1665. Il rally ha finora toccato un massimo a 2829 l’11.06.2009 (+69,9% dai minimi). La tenuta del supporto in area 2540-2600 (PC 2789) manterrebbe un’impostazione tonica, con prossimo obiettivo la resistenza critica a 2950 (estensioni verso 3200).
Per la Corea (indice Kospi, ticker Bloomberg KOSPI), si è assistito ad un rialzo dal minimo del 3 marzo a 993 fino ad un picco a 1438 il 2 giugno (+44,8% dai minimi). La tenuta del supporto in area 1300/15 (PC 1412) manterrebbe un’impostazione tonica, con obiettivo la forte resistenza a 1500.

Prosegue l’ottimo andamento dell’indice brasiliano Bovespa (ticker Bloomberg IBOV): dai minimi di fine ottobre 2008 a ridosso di 29400 l’indice sudamericano ha invertito al rialzo, con 4 mesi di anticipo rispetto agli indici principali, ed ha messo a segno una risalita con un picco a 54955 il 2 giugno (+86,9% dai minimi). La tenuta del supporto in area 48300-50000 (PC 52807) manterrebbe un’impostazione rialzista anche per i prossimi mesi, con obiettivo la resistenza critica a 58000 ed estensioni verso la soglia psicologica di resistenza a quota 60000.

Prosegue l’ottimo andamento dell’indice russo Micex (ticker Bloomberg INDEXCF): dai minimi di fine ottobre 2008 a ridosso di 493,6 ha invertito al rialzo, con 4 mesi di anticipo rispetto agli indici principali, ed ha messo a segno una risalita con un picco a 1227 il 2 giugno (+148,5% dai minimi). La tenuta del supporto in area 1000/50 (PC 1092) manterrebbe un’impostazione rialzista anche per i prossimi mesi: obiettivo 1250 e quindi la resistenza chiave in area 1400-1550).

Dopo la correzione degli ultimi 3 mesi, l’obbligazionario è ormai prossimo a livelli di supporto importanti, ma un rimbalzo significativo dei corsi potrà avvenire solo quando si sarà esaurito il rally dell’azionario.

A livello valutario, il dollaro dovrebbe rimanere in una situazione di ampia lateralità, con volatilità comunque elevata: contro euro nell’intervallo 1,3400 (ext 1,3100) – 1,4340 (ext 1,4720); contro yen nell’intervallo 93,55/85 – 101,50 (estensioni verso 103,75-104).

Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di positività in essere da fine febbraio – che interrompe la forte discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per le prossime settimane. L’apprezzamento del petrolio (PC crude: 71,71; +90,9% circa dai minimi) e delle altre materie prime (PC indice CRB: 260,19; +30% circa dai minimi) ha natura congiunturale, ed è strettamente legato al rally dell’azionario. Ci sono quindi ancora spazi di salita, ma gli obiettivi del rialzo si stanno avvicinando.

Sul petrolio una forte resistenza è individuabile a 86, sull’indice CRB in area 278,50-285. Un segnale di debolezza si avrebbe invece al di sotto di 56,50 e di 236-40, rispettivamente (poco probabile).

Per l’oro (PC gold spot 935) è probabile prosegua la fase laterale al di sopra del supporto in area 865-880 ed al di sotto della resistenza in area 990-1006. Il trend rialzista dominante riprenderebbe solo col superamento dei massimi in area 1006/33 (poco probabile).
 

Fonte - Analisi Tecnica del Gruppo Banca Sella

 

 

 

 

 

Il curioso caso dei distressed non più distressed

Monday, 15 June, 2009 at 17:40 - by John Christian Falkenberg
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Come è possibile avere un mercato dove ogni singolo emittente vede i propri spread migliorare, anche quando i tassi di default sono previsti al 18% entro fine anno, e pensare che tutto questo sia razionale?
E’ il caso del mercato dei cosiddetti leveraged loans, ossia i prestiti ad aziende con rating speculativo. Persino le agenzie di rating, di recente non esattamente conosciute per il loro pessimismo, stimano che quasi un emittente su cinque sarà insolvente entro la fine dell’anno. I recovery rate, ossia la percentuale di recupero dei fondi durante un’amministrazione controllata, nel caso dei primi default sono a dir poco preoccupanti, fra un quinto e un decimo di quello che ci si sarebbe aspettato: mentre nelle precedenti fasi di crisi, gli emittenti speculativi erano soprattutto aziende che avevano problemi organizzativi , in questa fase i problemi maggiori arrivano da società acquisite da fondi di private equity tramite LBO, operazioni che hanno moltiplicato il debito che grava sulle operazioni industriali senza per questo avervi investito. Il risultato è che, mentre nelle passate bancarotte i creditori privilegiati recuperavano cifre fra il 70 ed il 90 per cento di quanto investito, gli investitori odierni possono aspettarsi di recuperare fra il due ed il venti per cento di quanto investito, almeno secondo le aste per il regolamento dei CDS su questi strumenti.

 

 

 

Loans Vs Bond Spread Realtive Value

 
     
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Relative Change in Loans and Bonds (Bps)

 

 


Eppure, il mercato sembra essere ancora preda di un rimbalzo furioso dai minimi: per la prima volta da quest’autunno, lo spread medio di mercato è sceso sotto i mille punti base, uscendo dall’area definita “distressed”. La scorsa settimana, quasi ogni singolo prestito sindacato e obbligazione societaria è passato di mano o è stato valorizzato a valori migliori rispetto alla settimana precedente.

E’ una bolla nella bolla, oppure Il Presidente Barack Obama ha fatto il miracolo?
 

 

Fonte - Zero Hedge + Macromonitor

 

 

Una banca può salvare una banca?

June 15th, 2009 by editor - di Mario Seminerio
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L’ultima edizione del Global Financial Stability Report del Fondo Monetario Internazionale stima che le banche europee avranno bisogno di iniezioni di nuovo capitale da un minimo di 375 ed un massimo di 725 miliardi di dollari, a fronte di una cifra compresa tra 275 e 500 miliardi di dollari per le banche statunitensi. Nessuno conosce la reale entità di tale fabbisogno, naturalmente, ma quello che appare evidente è che molte banche europee hanno seri problemi, malgrado una regolazione apparentemente più rigorosa rispetto a quella delle consorelle anglosassoni. Il mancato risanamento delle banche europee è destinato ad avere un considerevole impatto sull’economia della regione, dove l’intermediazione creditizia è fondamentale nel finanziamento di imprese e famiglie, che potrebbero quindi subire gli effetti di un razionamento di credito erogato a condizioni più restrittive, in attesa che gli accresciuti margini di interesse riparino i bilanci delle banche.

Tentare di impedire questo impatto negativo sarà difficile, anche se il buon andamento dei mercati finanziari e l’abbondante liquidità che vaga per il pianeta alla ricerca di impieghi remunerativi potrebbero essere d’aiuto nella raccolta di nuovo capitale azionario, similmente a quanto sta accadendo negli Stati Uniti, dove le banche stanno rapidamente colmando il deficit di capitale quantificato negli esiti dello stress test del Tesoro. Ma se il mercato non dovesse aiutare, gli stati dovranno ipotizzare di rimettere mano al portafoglio, oltre ad essere chiamati a dare una risposta al problema della regolazione su base transnazionale del sistema creditizio, attività dove il nazionalismo agisce da vera iattura, impedendo la razionalizzazione del sistema creditizio europeo. La Bce si accinge poi ad attuare il proprio programma di easing quantitativo, o più propriamente creditizio. A partire dal mese di luglio, e per un periodo di 12 mesi, l’isituto di Francoforte comprerà fino a 60 miliardi di euro di covered bonds, obbligazioni che hanno come sottostante dei prestiti, spesso ma non esclusivamente mutui ipotecari. La manovra resta per ora avvolta nella nebbia dell’assenza di concrete indicazioni operative.

Trichet si troverà poi a dover affrontare altre contingenze avverse, come la condizione del bilancio pubblico americano. Con 2000 miliardi di dollari di emissioni di titoli pubblici previste per quest’anno e solo 300 miliardi di acquisti a fermo da parte della Fed (di cui ad oggi ne sono stati eseguiti il 37 per cento), ci sono timori per il finanziamento del debito federale. Con buona probabilità, il programma di acquisti della banca centrale statunitense potrà (e dovrà) essere aumentato per frenare l’ascesa dei rendimenti. La Fed, dovendo scegliere, preferirà quindi rischiare una crisi del dollaro piuttosto che ritrovarsi con una crisi di finanziamento del bilancio, anche perché le passività estere nette degli Stati Uniti sono solo il 18 per cento del Pil, e per quasi il 90 per cento sono denominate in dollari. Perciò, un dollaro più debole avrebbe un impatto minimale sulle passività estere nette americane. Ma una forte svalutazione del dollaro porrebbe gravi problemi ai paesi dell’euro, che vedrebbero ulteriormente danneggiata la propria capacità di esportare. A quel punto, il cerino tornerebbe giocoforza nelle mani di Trichet, stretto tra una congiuntura avversa ed i pressanti “inviti” di Angela Merkel a non seguire la strada imboccata dalla Fed e dalla Bank of England.

 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

DOLLARO, IL TREND RIALZISTA HA IL FIATO CORTO

16 Giugno 2009 17:06 NEW YORK - di *Irwin Kellner

*Irwin Kellner e' chief economist di MarketWatch
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Il rialzo del dollaro, il primo dopo settimane di cali, non e' altro che un fuoco di paglia. Quando si tratta di valute, azioni, obbligazioni o qualunque altro asset finanziario, niente si muove in una direzione precisa. Ci sono sempre alti e bassi, qualunque sia l'andamento del trend.

Detto questo e sebbene sia stato positivo vedere il martoriato biglietto verde tentare di rimbalzare, non credo che si tratti di nulla piu' che di una timida reazione che avra' il fiato corto nel contesto di un trend ribassista a senso unico. Molti sono certi che assisteremo ad una svolta, ad una reazione. Le loro ipotesi si basano su diversi fattori che giocano in favore della valuta americana.

Tra questi i commenti del ministro russo durante la riunione dei capi delle Finanze del G8. Dopo aver ripetuto per settimane che avrebbe alleggerito la posizione negli asset espressi in dollari e dopo aver suggerito che il dollaro dovrebbe essere rimpiazzato da un basket di valute (tra cui il rublio), la Russia sembra aver cambiato completamente idea e ha dichiarato che continuera' a tenere dollari in portafoglio.

Notizie confortanti sono giunte anche dalla Cina, che detiene ingenti quantita' di dollari. Pertanto e' ovviamente nell'interesse della Cina che il biglietto verde si riscatti, in modo tale che il valore degli asset di sua proprieta' cresca. Non dimentichiamoci che la Cina (insieme al Giappne e ad altri Paesi) e' un grande esportatore di petrolio. Un dollaro piu' forte auimenterebbe il potere d'acquisto di greggio e di qualsiai altra materia prima che si viene misurata in dollari. Ma ci sono due fattori che cozzano con questi discorsi ottimisti. Il primo e' che con un dollaro piu' forte sara' di conseguenza anche piu' difficile uscire dalla fase di recessione. Infatti le esportazioni dagli Stati Uniti costano di piu' ai possessori di monete straniere, pertanto questi ultimi tendenranno a rivolgersi a societa' meno cari.

La combinazione del rallentamento delle esportazioni e dell'incremento delle importazioni puo' sferrare un uno due tremendo al settore manifatturiero americano, finendo per indebolire uno dei pilastri della crescita economica. E sa da un lato e' indubbio che un dollaro forte tiene a freno l'inflazione, al momento non e' una delle preoccupazioni principali di chi si occupa di politica monetaria (anche se a mio parere dovrebbe esserlo). Detto questo, il consiglio che do' a Washington non e' affatto quello di indebolire deliberatamente il bigliettto verde, nel tentativo di uscire dalla crisi. Lo sappiamo tutti che il governo e' sempre a favore di un dollaro forte, lo ha sempre fatto e sempre lo fara'.

Tuttavia e' difficile immaginare che Washington voglia cosi' tanto che il dollaro si rafforzi, da arrivare a cambiare la politica monetaria su misura.
La Federal Reserve continua a immettere dollari sul mercato ad un ritmo sostenuto, nel tentativo di stimolare l'economia. La carta liquida in circolazione e' in rialzo dell'11% rispetto all'anno scorso, mentre la base monetaria e' aumentata del 110%, mentre le riserve bancarie sono in rialzo di un impressionante 903% rispetto ad un anno fa. Con tutto questo denaro in circolazione, il dollaro non puo' che prendere una strada: quella del ribasso. E' un rapporto semplice e lineare, come quello tra domanda e offerta.
 

 

 

PETROLIO: PERICOLO PREZZI, IL BARILE A $250?

15 Giugno 2009 17:46 NEW YORK - di *Peter Cohan

*Peter Cohan e' il presidente di Peter S. Cohan & Associates. Insegna management al Babson College. Il suo ultimo libro pubblicato, l'ottavo, si intitola "You Can't Order Change: Lessons from Jim McNerney's Turnaround at Boeing".
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Nel caso vi stiate chiedendo perche' i tassi di interesse sono balzati di pari passo con il prezzo della benzina, la risposta e' semplice: la paura dell'inflazione. Gli Stati Uniti hanno iniettato talmente tanto denaro nell'economia, compresi $12800 miliardi nelle casse delle banche e di altre societa' nell'ambito del piano di salvataggio del governo, mentre al contempo la Fed ha tagliato i tassi guida praticamente allo zero. E' normale che la gente abbia iniziato a farsi domande sulla forza del dollaro.

Questa paura crea un'opportunita' di guadagno nei mercati finanziari, la stessa che ha spinto le quotazioni del petrolio a toccare quota $147 dollari al barile a luglio dell'anno scorso. Ora l'amministratore delegato di Gazprom ha previsto che i prezzi saliranno sino a $250 -- piu' di tre volte del valore attuale di circa $71. Questa e' la previsione della quale i trader stanno approfittando. Come puo' verificarsi un evento del genere? Semplice. I trader scommmetto sul calo del dollaro e sul balzo delle quotazioni del greggiol. Lo fanno speculando al ribasso sul dollaro e comprando allo stesso tempo contratti sull'oro nero.

Nonostante le previsioni per la domanda di greggio siano state riviste al ribasso del 3% per il 2009, dall'inizio dell'anno $3.8 miliardi sono stati investiti nei futures sull'oro nero e sul gas. Peggio si mettera' per i consumatori e piu' i trader cercheranno di sfruttare la situazione a loro vantaggio. Come se non bastasse, i rendimenti del benchmark decennale del Tesoro sono schizzati a quasi il 4% dal 2.5% di marzo.

Da quando i tassi sono utilizzati per stabilire il costo del denaro per i mutui e altri prestiti, il balzo dei rendimenti ha sempre finito per attenuare inevitabilmente le speranze di una ripresa economica. Se i rendimenti stanno salendo, in parte e' dovuto anche alle scommesse contro il dollaro dei trader.

Lo scenario attuale crea un dilemma per la Fed, che dall'inizio della crisi ha gia' allargato il suo bilancio da $800 miliardi a $2 mila miliardi. Se la Fed compra altri asset tossici, finira' per complicare la situazione, iniettando altri dollari nel mercato. Cio' alimentera' infatti ulteriormente le paure inflative, non facendo altro che aiutare i trader sopra menzionati.

Si rivelera' una mossa azzeccata, postitiva per la ripresa dell'economia, solo se riuscira' ad allentare le pressioni sui rendimenti, spingendoli sotto il range del 2.5%. Se invece succedera' l'esatto contrario, il nostro sara' il peggiore dei mondi possibile. Le paure dell'inflazione cresceranno ancora, alimentando i tassi di interesse e i prezzi reali per i consumatori, compromettendo la ripresa economica.

In uno scenario di questo tipo, ad arricchirsi saranno solo i trader.
 

 

Fonte estera - DailyFinance.com.

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

  L'entusiasmo ha nascosto i rischi

15 Giugno 2009 08:39 MILANO - di *Alessandro Profumo

L'autore è amministratore delegato di UniCredit Group

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Il risk management è una componente cruciale di ogni strategia di creazione di valore e di massimizzazione del rendimento del capitale investito da un'impresa. La crisi finanziaria iniziata nell'estate 2007 ne ha rammentato la centralità. Da un lato ha ribadito l'importanza del risk management per la crescita sostenibile del valore e della profittabilità di un'impresa. Dall'altro, ha reso tangibili i rischi di un suo malfunzionamento, e ha sollevato giusti interrogativi sull'affidabilità complessiva delle metodologie di risk management del sistema bancario.
Non è un elemento di poco conto, poiché l'evoluzione delle tecniche di valutazione e gestione del rischio e lo sviluppo di mercati liquidi per la sua negoziazione hanno innescato una profonda trasformazione del settore bancario negli ultimi anni. Sono proprio queste componenti che hanno agevolato un crescente trasferimento al mercato di alcuni dei rischi cui la banca è tipicamente soggetta, ponendo le basi per la nascita e l'espansione del modello bancario cosiddetto originate-to-distribuite basato sulla cartolarizzazione dei crediti. Questa trasformazione ha avuto l'effetto benefico di liberare capitale bancario per l'attività creditizia, ma ha anche trasformato parte dell'industria finanziaria in una sorta di grande stanza di compensazione dei rischi. Un eccesso di entusiasmo ha portato molti a dimenticare che la gestione del rischio, benché evoluta e sofisticata, può migliorare le capacità di valutarlo e prezzarlo e di selezionare i rischi da trattenere e da cedere al mercato, ma non può eliminare i rischi stessi.

A mio avviso, ne emerge che una delle cause della recente crisi potrebbe essere collegata proprio al fatto che si sia ingenerata una errata convinzione che una modellistica sempre più sofisticata e la diffusa liquidità dei mercati potessero consentire una crescita indefinita senza rischi. Questo diffuso errato convincimento potrebbe avere pericolosamente ridotto la prudenza di molte istituzioni, eccessivamente fiduciose di poter cedere integralmente al mercato ogni rischio non desiderato e rimanere esenti da ogni conseguenza.
La crisi, invece, ha rimarcato i limiti degli strumenti di gestione del rischio e, allo stesso tempo, ha reso evidente che non si può assumere che l'ampia liquidità necessaria a una aggressiva strategia di cartolarizzazione dei crediti sia sempre disponibile. In questo contesto mi pare sia emerso che la selezione del livello e della tipologia di rischio da assumere e della quota da gestire direttamente, oltre che la sua effettiva gestione, sono e continueranno a essere la principale fonte di creazione di valore per tutte le aziende, in particolare nel settore finanziario e creditizio.

Forte di questa convinzione, credo che sia opportuno intervenire per migliorare la cultura e le tecniche di risk management applicate dal sistema bancario alla luce delle criticità emerse dalla crisi, e che banche e regolatori lavorino insieme in tale direzione. Non si tratterà semplicemente di rivedere indiscriminatamente al rialzo i requisiti di capitale a fronte delle diverse tipologie di rischio - intervento che certamente rafforzerebbe la stabilità finanziaria delle banche compromettendone la redditività - ma di migliorare significativamente le capacità valutative e predittiva dei sistemi di risk management in modo da garantire una maggiore coerenza tra le coperture di capitale e gli effettivi rischi assunti.
Mi pare che fra le aree di miglioramento che sono emerse in maniera evidente dalla crisi vi è il tema dello stress-testing, una tecnica di simulazione finalizzata a studiare le conseguenze di condizioni di rischio estreme. I modelli attuali tendono a valutare gli effetti di crisi future sulla base dell'osservazione delle dinamiche passate. Queste tecniche, seppur affidabili in condizioni di rischio confrontabili allo status quo, non sono in grado di prevedere gli effetti di situazioni estreme e, di conseguenza, quelli di una crisi particolarmente severa.

Ritengo cruciale che i modelli di stress-testing valutino con maggiore attenzione i potenziali effetti di condizioni di rischio particolarmente negative che, seppur di remota realizzabilità (cosiddetto tail risk), possono causare un marcato e generale peggioramento delle condizioni complessive del mercato. Ciò fornirebbe una migliore rappresentazione dei rischi complessivi cui le banche sono soggette e le aiuterebbe a indirizzare in maniera più adeguata le opportune azioni di immunizzazione o di trasferimento dei rischi al mercato. Inoltre, mi pare che sia emerso con chiarezza che il risk management deve uscire da una dimensione di mera compliance ai vincoli imposti dai regolatori, per diventare uno strumento quotidiano di supporto ai manager nella loro attività decisionale, sebbene senza sostituirsi in alcun modo alla loro capacità di valutazione discrezionale e indipendente.
In conclusione, se la qualità dei manager e la loro sensibilità al rischio sono gli elementi più importanti su cui le banche devono investire per ottimizzare il loro profilo di rischio e massimizzare la loro capacità di creazione di valore, mi pare che un sistema di risk management affidabile ed efficiente sia di estrema importanza e valore per consentire ai manager stessi di assumere decisioni informate e razionali.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

  Sabato 20 Giugno 2009   Martedì 23 Giugno 2009   Martedì 30 Giugno 2009  
       
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  Qualcuno impedisca che si formino le bolle

18 Giugno 2009 08:26 MILANO - di George Soros

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Non sono a favore di una regolamentazione eccessiva. Dopo esserci spinti troppo in là sulla strada della deregulation, contribuendo alla crisi che stiamo vivendo, dobbiamo resistere alla tentazione di sbilanciarci troppo sull'altro versante. I mercati sono imperfetti, è vero, ma i regolatori lo sono ancora di più. Non sono soltanto umani, sono anche burocratici e soggetti a influenze politiche: per questo la regolamentazione va mantenuta a livelli minimi.

La riforma dovrebbe essere impostata su tre princìpi. Il primo è che i regolatori, dal momento che i mercati tendono a creare bolle speculative, devono accettare di assumersi la responsabilità di impedire che tali bolle si gonfino a dismisura. L'ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan e altri hanno espressamente rifiutato questa responsabilità. Se i mercati non sono in grado di riconoscere una bolla, è la loro tesi, nemmeno i regolatori ne sono in grado. È vero, ma le autorità devono comunque assumersi questo compito, anche sapendo di essere destinate a sbagliarsi. Potranno contare sul beneficio di un feedback da parte dei mercati, che consentirà loro di ricalibrare costantemente la propria azione e correggere gli errori.
Il secondo principio è che, per controllare le bolle, non è sufficiente tenere sotto controllo la massa monetaria, bisogna tenere sotto controllo anche la disponibilità di credito. E questo non può essere fatto solo ricorrendo a strumenti monetari, bisogna usare anche sistemi di controllo del credito come depositi di garanzia e requisiti patrimoniali minimi. Attualmente questi valori vengono stabiliti indipendentemente dagli umori del mercato. Il compito delle autorità consiste anche nel reagire a questi umori. I depositi di garanzia e i requisiti patrimoniali minimi devono essere aggiustati in base alle condizioni del mercato. I regolatori dovrebbero variare il rapporto prestito/valore sui mutui commerciali e residenziali allo scopo di ponderare il rischio e prevenire bolle immobiliari.
Il terzo principio è che bisogna ridefinire il concetto di rischio di mercato. La teoria del mercato efficiente sostiene che i mercati tendono verso l'equilibrio e le deviazioni avvengono in modo casuale: inoltre, i mercati teoricamente dovrebbero funzionare senza discontinuità nella sequenza dei prezzi. In queste condizioni i rischi di mercato possono essere equiparati ai rischi relativi ai singoli operatori di mercato. Fintanto che essi riescono a gestire adeguatamente i propri rischi, i regolatori non dovrebbero avere nulla da ridire.
Ma la teoria del mercato efficiente è irrealistica. I mercati sono soggetti a squilibri che i singoli operatori possono ignorare se pensano di poter liquidare le proprie posizioni. I regolatori non possono ignorare questi squilibri. Se troppi operatori sono sullo stesso lato, diventa impossibile liquidare le proprie posizioni senza provocare una discontinuità o, peggio, un collasso. In quel caso le autorità potrebbero essere costrette a intervenire in soccorso. Questo significa che nel mercato esiste un rischio di sistema, oltre ai rischi che la maggior parte degli operatori di mercato percepivano prima della crisi.
La cartolarizzazione dei mutui ha aggiunto un aspetto nuovo al rischio di sistema. Gli esperti d'ingegneria finanziaria dicevano che quello che stavano facendo era ridurre il rischio diversificandolo geograficamente: in realtà lo stavano incrementando creando una situazione di agency problem. Gli agenti avevano più interesse a massimizzare il reddito da commissioni che a proteggere gli interessi dei detentori dei titoli. Questa è la verità che è stata ignorata sia dai regolatori che dagli operatori di mercato. Per evitare che il fenomeno si ripeta è necessario che gli agenti abbiano un interesse diretto, ma il 5% proposto dal governo è più simbolico che sostanziale. Il requisito minimo a mio parere sarebbe il 10 per cento. Per consentire possibili discontinuità nei mercati, i titoli detenuti dalle banche dovrebbero avere un rating di rischio più alto di quello stabilito dagli Accordi di Basilea.
Le banche dovrebbero pagare la garanzia implicita di cui godono sfruttando meno la leva finanziaria e accettando restrizioni sul modo d'investire i soldi dei correntisti; non dovrebbe essere consentito loro di speculare per proprio conto usando soldi altrui.
Probabilmente non è pratico separare le banche d'affari dalle banche commerciali, come fecero gli Stati Uniti nel 1933 con la legge Glass-Steagall. Ma dev'esserci una barriera interna che separa il proprietary trading (l'attività di compravendita titoli che una banca effettua per conto proprio) dal commercial banking. Il proprietary trading dev'essere finanziato con il capitale proprio della banca. Se una banca è troppo grande per essere lasciata fallire, i regolatori devono impegnarsi ancora di più per proteggere i suoi capitali da rischi indebiti. Devono regolamentare i compensi dei trader che agiscono per conto diretto della banca, creando un bilanciamento tra rischi e ricompense. In questo modo si potrebbe dirottare il proprietary trading verso gli hedge fund, che sono un contesto più appropriato a gestirlo. Anche gli hedge fund e gli altri grandi investitori devono essere attentamente monitorati per accertarsi che non creino pericolosi squilibri.
Per concludere, ho opinioni molto marcate sulla regolamentazione dei derivati. L'opinione prevalente è che questo tipo di prodotti finanziari andrebbe scambiato su mercati regolamentati. Non è sufficiente. L'emissione e lo scambio di derivati devono essere regolamentati rigorosamente, come i titoli azionari. Le autorità devono garantire che i derivati siano omogenei, standardizzati e trasparenti. I derivati personalizzati servono solo a migliorare il margine di profitto di chi li ha concepiti. Anzi, alcuni tipi di derivati non dovrebbero proprio essere commercializzati. Penso in particolare ai Cds (credit default swaps). Si pensi alla recente bancarotta della AbitibiBowater e a quella della General Motors. In entrambi i casi, alcuni obbligazionisti detenevano dei Cds e avevano da guadagnare più da un fallimento che da una riorganizzazione. È come comprare un'assicurazione sulla vita intestata a qualcun altro e detenere una licenza di ucciderlo. I Cds sono strumenti di distruzione che vanno messi al bando.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Gestori, pausa per le Borse

18-06-09 MILANO - di Sara Silano
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Tokyo ottiene più consensi di Europa e Stati Uniti.
Oggi la regola sui mercati è “comprare sui minimi” più che “vendere sui massimi”. Per questa ragione, la correzione dopo il recente rally non dovrebbe essere molto ampia. Tuttavia, è probabile che le Borse si prendano una pausa prima di ripartire. E’ questa l’opinione dei gestori intervistati da Morningstar nell’ultimo sondaggio tra 22 delle principali case di investimento che operano in Italia.

Nell’Ue non è ancora tempo di rally
Negli ultimi tre mesi le Borse europee hanno guadagnato il 22,6% (indice Msci Europe), grazie al settore finanziario e dei consumi ciclici, che erano stati i più colpiti dalla crisi. Ora, però, la maggior parte dei gestori (63,6%) prevede una fase di consolidamento, caratterizzata da molta volatilità. E’ convinzione diffusa che la risalita dei listini dai minimi di marzo, non sia un segnale anticipatore della fine della recessione. Al contrario la situazione economica rimane difficile e si prevede una contrazione del Prodotto interno lordo superiore al 4% nel 2009.

Wall Street cerca di rianimarsi
Come per il Vecchio continente, la maggior parte dei gestori prevede che la Borsa americana oscillerà attorno agli attuali livelli nei prossimi sei mesi a causa del protrarsi della debolezza economica. In particolare, preoccupa la situazione occupazionale, con il tasso dei senza lavoro che ha toccato il 9%. Inoltre, il settore finanziario mostra segnali contrastanti. Da un lato alcune istituzioni hanno ottenuto il via libera per la restituzione dei fondi ricevuti attraverso il Tarp (il fondo di salvataggio creato per sostenere il sistema creditizio americano); dall’altro gli stress test hanno messo in luce uno scenario critico se la congiuntura peggiorerà. I gestori prevedono che la crescita rimarrà al di sotto del suo potenziale, con conseguente ripresa più lenta degli utili societari. Wall Street, tuttavia, è un mercato più dinamico con un numero di collocamenti e aumenti di capitale superiori all’Europa, che potrebbero favorire il ritorno degli investitori.

Timide schiarite in Giappone
Tokyo è la Borsa che a giugno raccoglie i maggiori consensi tra i gestori (il 41% prevede un rialzo contro il 27% dell’Europa e degli Stati Uniti). Le ragioni sono congiunturali. La produzione industriale è cresciuta per due mesi consecutivi ed è in aumento l’attività manifatturiera. Tuttavia, la situazione occupazionale rimane debole, compromettendo le spese delle famiglie. Qualche supporto potrà venire dal piano di stimolo varato dal Governo, ma la ripresa arriverà solo quando ripartiranno in modo durevole le esportazioni. Per queste ragioni, quello nipponico è anche il mercato che presenta la percentuale più alta di pessimisti, il 13,6% (9% in Europa e Stati Uniti).

La riscoperta dei bond più rischiosi
L’aumento della propensione al rischio degli investitori ha provocato un rally delle obbligazioni non governative, con la conseguente flessione dei prezzi dei titoli di Stato e l’accentuazione della curva dei rendimenti. L’opinione dei gestori sul mercato del reddito fisso non è unanime. Alcuni preferiscono le emissioni pubbliche nella convinzione che possano ancora beneficiare dei piani di stimolo all’economia; altri invece si sono spostati su quelle societarie, anche se in modo molto selettivo. Sul fronte dei tassi ufficiali, i fund manager sono convinti che non vi saranno ulteriori riduzioni, ma la politica monetaria rimarrà espansiva. Per questa ragione i prezzi delle obbligazioni non dovrebbero subire variazioni significative.

Uno su due tifa euro
L’incertezza economica e finanziaria rende difficile fare previsioni sull’andamento dei mercati valutari. Tuttavia, il 50% dei gestori è convinto che il dollaro continuerà a deprezzarsi nei confronti dell’euro per effetto dell’indebitamento americano, della riduzione dell’avversione al rischio e della diversificazione dei portafogli internazionali.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra l’8 e il 15 giugno, 22 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa il 90% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Anima Sgr, Axa Im, Banca Profilo, Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Clariden Leu, Eurizon Capital, Euromobilare Sgr, Fideuram Investimenti, Ing IM, Investitori Sgr, JC&Associati, Julius Baer, Pictet Funds, Pioneer Im, Prima Sgr, Sella Gestione, Sgam, Threadneedle, Vontobel.

 

Fonte - MorningStar.it

 

 

FEBBRE DA BOND

24 Giugno 2009 02:40 MILANO - di di Camilla Gaiaschi
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Tutti pazzi per i bond: sia per le convertibili, tappa intermedia verso l’equity sia per i corporate, per lungo tempo sogno proibito del retail, scottato dalla stagione di Cirio e Parmalat.
Altri tempi. Il «muro» è caduto, almeno per gli emittenti di rango. I volumi delle emissioni da gennaio hanno già superato quelli degli ultimi due anni. E dopo la prima ondata per gli istituzionali, è partita la nouvelle vague dei piccoli risparmiatori, che apprezzano cedole più grasse di Bot e Btp. Basta vedere l’accoglienza riservata nei giorni scorsi alle obbligazioni Eni (Fitch ha confermato AA- sul debito).

Molte blue chips italiane sono già al lavoro. I nomi delle possibili candidate non si sprecano: Telecom Italia, Enel, Generali, Atlantia ed Edison. E proprio la corsa ai bond del Cane a sei zampe fa capire che il trend promette di esser ben più di una moda passeggera. Il gruppo guidato da Paolo Scaroni ha avviato il collocamento lunedì 15 con l’obiettivo di raccogliere almeno 1 miliardo di euro: giovedì 18 le richieste hanno sfiorato i 4 miliardi e l’aver alzato l’asticella dell’offerta, fino a 2 miliardi, non ha evitato la strada del riparto.

Nel frattempo, in attesa di bussare al portafoglio dei privati, le corporations del Vecchio Continente sfruttano la congiuntura: la minor pressione delle banche sul mercato obbligazionario, combinato con i rendimenti modesti dei sovereign (e la bassa propensione al rischio della domanda) ha offerto, sia in Europa che sul mercato Usa, una finestra di opportunità per le società che, di questi tempi, non sono in condizioni di bussare all’azionario.

Uno dei casi di scuola della settimana è senz’altro Telecom Italia, che lunedì 15 ha avviato il collocamento della sua quarta emissione da inizio anno: un bond da 2 miliardi di dollari per il mercato americano, prezzato nel giro di un giorno. Mercoledì 16 è stata la volta di Edf, con un’emissione per il retail da 1 miliardo di euro: una cifra del genere i piccoli risparmiatori francesi non la vedevano dagli anni Ottanta.

L’euforia è proseguita anche il giorno seguente, con il ritorno sul mercato, dopo mesi di assenza, del «junk»: ad avviare la procedura di consenso dei creditori, per un maxi-bond da 2,7 miliardi di euro, è stata Wind, su cui Fitch ha prontamente annunciato però un rating watch negativo. Lo stesso giorno Campari, ha messo a segno un private placement da 250 milioni di dollari. Mentre Unicredit, secondo alcuni rumors, avrebbe già terminato il road show per un emissione di covered bond per l’importo di 1 miliardo di euro. Insomma, una vera e propria valanga di offerte, in Italia come all’estero.

«Ogni giorno - spiega Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest - c’è un emissione. All’inizio dell’anno eravamo tra i pochi a partecipare alle aste, ora c’è la corsa e il riparto è inevitabile». Ma cosa è successo nel frattempo? «Notiamo il ritorno a una certa propensione al rischio da parte degli investitori - aggiunge - certamente incoraggiati dall’andamento positivo dei mercati».

Due dunque le ragioni: da una parte l’offerta delle imprese che, in difficoltà ad accedere alle linee di credito bancario, sono costrette ad emettere nuovo debito per rifinanziarsi. Dall’altra, la domanda degli investitori, frutto anche della ripresa dei mercati azionari, che si stanno spostando dai titoli più granitici a quelli dal rating meno pregiato.

L’andamento dei rendimenti lo dimostra: a gennaio un bond con rating tripla A offriva un premio di 176 pb rispetto ai titoli governativi, oggi il premio è di 90. Il rendimento dei titoli a tripla B ha cominciato a scendere solo a fine febbraio, passando da 605 pb agli attuali 431.

Secondo gli operatori ci sarà spazio per un’ulteriore contrazione: «La riduzione degli spread è il riflesso di un processo di assorbimento del rischio - spiega Francesca Ciaramidara, gestore Zenit Obbligazionario -- quando le società sono tornate ad emettere debito, alla fine dello scorso anno, i rendimenti erano più che remunerativi rispetto a quello che evidenziavano i Cds. Le società offrivano cioè un premio aggiuntivo per incentivare il mercato».

E il mercato ha risposto, abbandonando i più «sicuri» titoli di Stato, a favore di azionario e obbligazionario corporate. Che la percezione del rischio si sia ridotta emerge dall’andamento dell’Itraxx Europe Index, l’indice che raccoglie i credit default swap (cds) di 125 blue chips europee: se lo scorso 9 marzo (giorno dei minimi toccati dalle Borse) erano necessari 226 euro per garantire un bond da 1000 euro dall’eventualità di default, oggi ne bastano 138 euro.

Così la crescente domanda di bond ha riportato i rendimenti verso i fondamentali, ma gli esperti concordano sul fatto che esiste ancora un margine di extra-rendimento, che rende l’obbligazione corporate particolarmente appetibile per il piccolo risparmiatore.

A due condizioni, però: «diversificare il portafoglio e stare attenti al rendimento - spiega Rocco Bove, Credit Portfolio Manager Prima Sgr - questo perché in passato gli yield offerti al retail sono stati meno generosi di quelli offerti agli istituzionali, più attenti al confronto con i rendimenti di mercato e in possesso di maggiori strumenti di valutazione. Per questo motivo è importante che l’investitore non si fermi al livello assoluto di rendimento, ma che verifichi che il tasso offerto sia in linea con quello di emissioni analoghe».

In ogni caso, il ritorno del corporate è certamente un buon segnale. Tradizionalmente, infatti, il rafforzamento del mercato del credito preannuncia una ripresa strutturale e duratura dei mercati: «È vero che la domanda verso questo tipo di prodotto è stata incoraggiata dal rialzo dei listini di marzo, ma in un’ottica di lungo termine è vero il contrario - aggiunge Bove - e cioè che dopo una crisi il primo mercato a rafforzarsi è quello del credito.

Le aziende hanno infatti bisogno di liquidità per sopravvivere e investire e quindi continuare a generare valore per i propri azionisti. Senza credito, insomma, non c’è ripresa stabile dell'equity. La corsa ai titoli obbligazionari di queste settimane può essere considerata l’inizio della ripresa del ciclo economico».

 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

I migliori anni sono passati?

24-06-09 - di Sara Silano
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Un venticinquenne è un giovane forte e nel pieno delle energie. Lo stesso non si può dire dell’industria italiana del risparmio gestito, che ha appena compiuto 25 anni. Il 21 giugno 1984, infatti, veniva lanciato Gestiras, dall’omonima società che oggi si chiama Allianz global investors. Non che questo comparto non abbia avuto successo, al contrario da dieci sottoscrittori è passato a 300 mila e il valore della quota è quintuplicato. Tuttavia, il settore arriva a celebrare l’anniversario affaticato e scosso da profondi sommovimenti, dopo essere passato dall’euforia degli anni Ottanta, alla crescita del decennio successivo e alla profonda crisi dell’ultimo periodo.
Molte parole sono state spese per spiegare la crisi cronica dell’industria che ha portato a venti mesi di deflussi netti e tante ricette sono state scritte per uscirne. Ben poco, però, è cambiato fino a tempi recenti, perché la sopravvivenza sembrava comunque assicurata, anche se i gruppi bancari, azionisti delle società di gestione più grandi, preferivano vendere obbligazioni strutturate e polizze anziché fondi.
Poi è scoppiata la crisi creditizia, con conseguente crollo delle Borse e recessione economica. Il settore bancario è stato il più colpito, non solo in Italia, ma a livello globale. A Piazza affari la capitalizzazione dei titoli creditizi si è dimezzata dall’autunno 2007 ad oggi ed è stato analogo il calo degli utili. Per le banche, dunque, è sempre più necessario recuperare redditività, anche attraverso le dismissioni di asset considerati non più strategici. Le dismissioni delle società di gestione rientrano in questo disegno e non sono motivate, come molti hanno auspicato, dalla necessità di separare la produzione dalla distribuzione, tanto più che le banche hanno bisogno della raccolta diretta (tramite obbligazioni e altri prodotti simili) per rimettere in quadro i bilanci.
Mentre nel resto del mondo vanno in scena le fusioni tra asset manager, l’ultima è stata quello tra BlackRock e Barclays global investors, in Italia è cominciata la stagione delle dismissioni (MontePaschi ha già concluso l’operazione con il fondo di private equity Clessidra, mentre circolano indiscrezioni su Euromobiliare asset management e su Fideuram). Non è da escludere che arrivino anche le aggregazioni, che potrebbero aumentare le economie di scala, ma non necessariamente ridurre i costi per gli investitori, come insegna l’esperienza internazionale (recentemente l’Economist ha dedicato un articolo al tema, mettendo in guardia dagli svantaggi delle grandi dimensioni nel settore del risparmio). Tuttavia, senza un cambiamento nel sistema distributivo che favorisca gli strumenti trasparenti e l’investimento di lungo periodo, difficilmente il risparmio gestito potrà ripartire
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

  Come si scrive la quiete dopo la tempesta (finanziaria)

24 Giugno 2009 10:05 MILANO - di di Lorenzo Bini Smaghi

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Il Consiglio europeo ha approvato modifiche significative nel dispositivo istituzionale dell'Unione Europea per la supervisione e la regolamentazione finanziaria. Sono indubbiamente riforme importanti in particolare, ma non solo, nel contesto della crisi finanziaria iniziata nell'agosto 2007. E la Bce è interessata a queste riforme, in particolare all'aspetto macro-prudenziale, vale a dire alla creazione di un Comitato europeo per il rischio sistemico.

La supervisione macro-prudenziale trae origine dal fenomeno di rischio sistemico. Nel 2000 Andrew Crockett – all'epoca direttore generale della Banca dei Regolamenti Internazionali e presidente del Forum per la Stabilità Finanziaria – aveva descritto in modo particolarmente illuminante la natura e la necessità di una politica di supervisione macro-prudenziale. Crockett sosteneva che dovevamo «consolidare un cambiamento di prospettiva già in atto, e integrare la prospettiva micro-prudenziale con una maggiore consapevolezza e attenzione nei confronti dell'aspetto macro-prudenziale».
Nella sua definizione, lo scopo della supervisione macro-prudenziale era di limitare la probabilità di fallimento, e i relativi costi, di porzioni significative del sistema finanziario (suscettibili di rischio sistemico). Sull'altro versante, l'obiettivo micro-prudenziale può essere considerato come quello di limitare la probabilità di fallimento di singoli istituti (suscettibili di rischio idiosincratico).
Dalla prospettiva odierna, la distinzione pare rilevante così come lo era dieci anni fa. Tuttavia l'esperienza della crisi attuale e la storia delle crisi passate, nonché le trasformazioni dei sistemi finanziari moderni, ci chiedono di andare oltre. Dovremmo per esempio chiederci quale deve essere la portata della supervisione macroprudenziale. Distinguerei due dimensioni. La prima è l'analisi e il monitoraggio del rischio. La seconda è il contenimento dei rischi già identificati, il quale richiede strumenti specifici.

Quale quadro istituzionale dovrebbe sorreggere la supervisione macroprudenziale? Un tale quadro implica inevitabilmente due attori principali: la banca centrale e l'autorità di vigilanza sulle istituzioni e sui mercati finanziari. Quest'ultima ha le informazioni sui singoli operatori e sugli andamenti dei mercati, ed è responsabile per la stabilità delle istituzioni creditizie. La banca centrale dispone delle capacità analitiche per valutare il rischio macroeconomico e gli sviluppi globali dei mercati finanziari. Un sistema ben funzionante richiede un flusso completo d'informazioni: dall'autorità di vigilanza alla banca centrale, per fornire tutte le informazioni rilevanti per monitorare e analizzare i rischi, e viceversa, dalla banca centrale all'autorità di vigilanza per fornirgli il risultato dell'analisi del rischio e accertare che le misure appropriate siano state implementate. È essenziale che ci sia una ripartizione chiara di responsabilità, per fornire alle due istituzioni gli incentivi adatti a conseguire risultati attraverso la cooperazione, evitando conflitti che portano a risultati disastrosi. Per semplificare l'analisi delle opzioni disponibili, baserò la mia analisi sulla Turner Review. In breve, la Turner Review assegna alla banca centrale la responsabilità di effettuare l'analisi dei rischi sistemici, ma considera tre modelli diversi per quel che riguarda l'attuazione delle misure per contenere tali rischi.

Nel Modello 1, la banca centrale identifica i rischi sistemici e fa raccomandazioni all'autorità di vigilanza microprudenziale che stabilisce le azioni da mettere in atto per affrontare tali rischi.
Nel Modello 2, non solo la banca centrale è incaricata di identificare i rischi, ma è anche in grado di prendere le misure macroprudenziali appropriate o di richiedere all'autorità di vigilanza micro-prudenziale di metterle in atto.
Nel Modello 3, un comitato congiunto, composto da rappresentanti della banca centrale e dall'autorità di vigilanza, decide le misure da adottare.

A mio parere, il terzo modello è il meno adeguato, perché rischia di confondere le responsabilità della banca centrale e dell'autorità di vigilanza. Eventuali dissensi tra la banca centrale e l'autorità di vigilanza all'interno del comitato non potrebbero essere resi pubblici, perché ciò minerebbe la credibilità delle decisioni. Ciò significa che di fatto l'autorità di vigilanza ha un diritto di veto sulla banca centrale. Se alle due componenti del comitato fosse consentito di dissentire pubblicamente, il Modello 3 diventerebbe molto simile al Modello 1 in cui le divergenze sono rese pubbliche e l'autorità di vigilanza ha l'onere di spiegare perché non concorda con la banca centrale e non agisce come essa suggerisce. Un altro svantaggio del Modello 3 emerge quando l'autorità di vigilanza non è indipendente dall'autorità politica. Non mi dilungherò sulla necessità di tale indipendenza, ma a mio avviso la crisi recente se non altro l'ha fortemente confermata. Guardando ai vari paesi europei, sarebbe interessante verificare fino a che punto, durante la crisi recente, i problemi d'insolvenza delle banche sono emersi soprattutto laddove la vigilanza sul sistema bancario non è effettuata dalla banca centrale, e laddove l'indipendenza dell'autorità di vigilanza (anche in termini finanziari e istituzionali) è meno protetta di quella della banca centrale. Inoltre, nel contesto dell'Unione Europea, il Modello 3 sarebbe particolarmente difficile da applicare in quanto richiederebbe un accordo tra molteplici autorità di vigilanza nazionali, a meno che non si arrivi a una situazione in cui le banche centrali e le autorità di supervisione siano rappresentate ciascuna da una singola istituzione europea. Nel sistema attuale le banche centrali possono essere rappresentate dalla Bce, ma i supervisori non hanno ancora un sistema analogo.

I Modelli 1 e 2 consentono di ripartire più chiaramente le responsabilità, alla banca centrale e all'autorità di vigilanza. Nel valutare i due modelli, un punto chiave di cui tenere conto riguarda i potenziali conflitti d'interesse, in particolare quelli interni alla banca centrale e all'autorità di vigilanza.
Consideriamo i conflitti d'interesse interni alla banca centrale, che emergerebbero in particolare nel Modello 2, tra l'obiettivo della stabilità dei prezzi e quello della stabilità macrofinanziaria. Sorgerebbe un conflitto se la banca centrale dovesse mirare ai due obiettivi con un unico strumento: il tasso d'interesse. La banca centrale potrebbe essere spinta a usare tale strumento non soltanto per conseguire la stabilità dei prezzi, ma anche per contrastare l'emergere di rischi sistemici. Per esempio, potrebbe rialzare anzitempo i tassi d'interesse per impedire che si sviluppi una bolla finanziaria, mentre i sottostanti sviluppi economici non lo richiedono. Il tasso d'interesse non è necessariamente il modo più efficace per prevenire una bolla o per farla scoppiare. Il conflitto d'interesse svanirebbe se la banca centrale disponesse di due strumenti distinti, uno per ciascun obiettivo. Il tasso d'interesse verrebbe utilizzato con l'obiettivo della stabilità dei prezzi e le misure macroprudenziali con l'obiettivo della stabilità finanziaria sistemica. Durante la crisi attuale, la Bce ha dimostrato che una simile separazione è possibile. Da un lato, il tasso d'interesse è stato usato per conseguire la stabilità dei prezzi, e dall'altro le iniezioni di liquidità sono state usate per stabilizzare il mercato monetario. Ogni misura è stata adottata e giustificata pubblicamente in modo da mantenere distinti i due obiettivi. Nell'insieme, l'esperienza indica che il tasso d'interesse e gli strumenti macroprudenziali sono piuttosto complementari e non fanno sorgere conflitti d'interesse...

Il Rapporto de Larosière ha optato per il Modello 1. Ha suggerito la creazione di un Consiglio europeo del rischio sistemico (Cers), nell'ambito della Bce. Il consiglio generale della Bce è formato dai governatori delle banche centrali dei 27 stati membri dell'Unione Europea, più il presidente e il vice-presidente della Bce. Il Consiglio sarebbe aperto a una serie di osservatori, come la Commissione, le tre autorità che stanno per essere create a partire dai tre Comitati Lamfalussy (per banche, mercati e assicurazioni), e le 27 autorità di vigilanza nazionali. Il Cers potrebbe emettere raccomandazioni miranti a identificare e a correggere vulnerabilità sistemiche, mentre le autorità di vigilanza nazionali sarebbero responsabili della loro applicazione. Come ho detto in precedenza, questo modello genera problemi di uniformità di trattamente all'interno del mercato unico. L'esperienza degli ultimi anni ha mostrato che le autorità nazionali tendono a usare a propria discrezione il margine di manovra lasciato dalla legislazione europea. Ciò potrebbe accadere anche nel caso delle raccomandazioni del Cers. Infine il Rapporto de Larosière non ha previsto disposizioni separate per la zona euro. Saremo quindi nella strana situazione in cui i paesi che non hanno adottato l'euro avranno due livelli di analisi e di decisione sul rischio sistemico, uno a livello dell'Unione Europea e l'altro a livello nazionale, mentre i paesi della zona euro avranno solo quello dell'Unione Europea. A meno che, com'è ovvio, la Bce non decida di colmare il vuoto e di emettere essa stessa raccomandazioni specifiche per la zona euro e per i paesi che vi partecipano. Una proposta chiave contenuta nel Rapporto de Larosière è l'obbligo per i supervisori microprudenziali nazionali di fornire alla Bce tutte le informazioni necessarie per l'analisi dei rischi per conto del Cers.

Tra il Rapporto de Larosière e le Conclusioni del Consiglio europeo appena adottate, c'è stata una lunga discussione tra i paesi membri, basata su una proposta della Commissione. I principali contenuti sono stati conservati. Il Comitato - e non più il "Consiglio" - per il rischio sistemico (Cers) ha il potere di fare raccomandazioni, ma non di applicare direttamente i provvedimenti. Si appoggerà analiticamente e logisticamente alla Bce. Quest'autunno la Commissione presenterà proposte che preciseranno ulteriormente i nuovi dispositivi istituzionali. Occorre infatti altro lavoro per elaborare nei dettagli il quadro istituzionale del Cers, nonché per le nuove autorità europee incaricate della supervisione microprudenziale.
La crisi recente ha dimostrato l'importanza di poter disporre di una supervisione macroprudenziale per promuovere la stabilità finanziaria. C'è molto da fare per attrezzare le istituzioni competenti con gli strumenti analitici in grado di valutare e monitorare il rischio sistemico e con una cassetta degli attrezzi adeguata per contenere tali rischi.
Più passa il tempo, e più i mercati finanziari mostrano segni di stabilizzazione, più emerge il rischio che sfumi il senso d'urgenza per le riforme. Più si rafforzano le tendenze nazionalistiche e le gelosie istituzionali. Aumentano le forze che vogliono mantenere lo statu quo. Se tali forze non vengono contrastate con fermezza, questa crisi potrebbe diventare un'occasione persa. E la prossima crisi potrebbe farsi più vicina.
L'autore fa parte del comitato esecutivo della Bce. Il testo è tratto dalla relazione «Andare avanti: regolamentazione e supervisione dopo la tempesta finanziaria» presentata al «Finlawmetrics 2009» in Università Bocconi.
 

 

Traduzione - Sylvie Coyaud

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Merton: «Sui derivati non mi pento, non ho peccato»

26 Giugno 2009 09:32 MILANO - di Vittorio Da Rold

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«No, non sono affatto pentito dei miei modelli matematici per stabilire il valore dei prodotti derivati e nella gestione dei rischi», dice sorridendo Robert C. Merton, seduto nella sua poltrona della camera d'albergo del Four Seasons a Milano mentre arrivano a getto continuo, annunciati da un bip, messaggi sul suo blackberry. «No, non abbiamo bisogno di un nuovo paradigma economico, ma al contrario dobbiamo usare la crisi come un'opportunità per migliorare il sistema finanziario globale, dove non ci sono porti sicuri e soprattutto senza guardare nel retrovisore della storia, ai modelli degli anni 30».

Merton, premio Nobel per l'economia nel '97, è l'ideatore della superformula, il modello di Black-Scholes-Merton sull'andamento nel tempo del prezzo dei derivati, che elaborata negli anni 70, partendo dagli studi di Robert E. Lucas, uno dei padri della scuola delle "aspettative razionali", diventò dominante negli anni 90, pretendendo di annullare il rischio dagli investimenti. Le cose sono andate diversamente, con la peggior crisi dagli anni della Grande depressione, con la scomparsa di un big come Lehman Brothers, e il salvataggio del più grande gruppo assicurativo del mondo, l'Aig, per 85 miliardi di dollari.

Tutto questo parziale elenco d'errori non sconvolge Merton, che ripete «come ogni virtù possa diventare un vizio se portato all'estremo, come nell'applicazione dei modelli matematici nella pratica finanziaria». «La matematica dei modelli era precisa, ma non i modelli, essendo solo approssimazione alla complessità del mondo reale».

Chiaro? Il problema è «l'uso o l'abuso dei modelli» che ha portato ad assumere rischi sproporzionati da persone incompetenti, spesso sedute nel board di aziende.

Un mix d'avidità di banchieri, d'inesperienza, d'incapacità di usare correttamente le tecnologie. Eppure già a marzo 2008, Alan Greenspan, che per 18 anni è stato il primo banchiere centrale del mondo, aveva accennato a «modelli troppo semplici per catturare la realtà». Un'accusa velenosa, ripresa il 23 ottobre davanti alla Commissione Controllo della Camera, a Washington, quando aveva affermato che tutta l'impianto intellettuale sorretto dalla matematica finanziaria e premiato con un Nobel a Stoccolma era crollata come un castello di carte. «La realtà è che nessuna banca centrale può funzionare senza l'uso di modelli matematici», ribatte piccato Merton che ricorda come non sia un problema di nuove regole o nuovi poteri di controllo, magari sognando il ripristino della Glass-Steagall Act, la legge che aveva separato le banche commerciali da quelle d'investimento.

Il mondo della politica, invece, la pensa diversamente e sia negli Stati Uniti, con la concessione di nuovi poteri di controllo alla Fed sulla stabilità dei mercati, sia in Europa, con il recente via libera anche della City all'adozione a Bruxelles di un European Systemic Risk Board sotto la regìa della Bce, si va verso più poteri e regolamenti. «No, non è la strada giusta quella della super-regolamentazione. La finanza non è l'ancella dell'economia reale: tra economia reale e finanza c'è lo stesso rapporto che passa tra hardware e software, senza l'uno non c'è l'altro». Per questa è importante capire che non è il «modello sbagliato, ma il modo come è stato usato».
Merton, 65 anni, che lavora da un ventennio alla Harvard Business School, dove si era trasferito dopo 20 anni dal vicino Mit, e dove insegna tuttora, pensa che «la finanza resti un sistema distributivo per trasferire il rischio» in modo ottimale. Ecco perché «la cartolarizzazione è stata un buon lavoro», perché ha distribuito il rischio tra vari soggetti e permesso a molti di accedere al credito. Il problema è che a un certo punto si è rotto il nesso tra chi aveva costruito il contratto e chi lo aveva spacchettato e venduto acquistando rischi di cui non era a conoscenza. «Un problema vero - ammette il Nobel - di mancanza d'accesso alla documentazione».

Merton, amico di Franco Modigliani e che oggi parlerà alla Bocconi di Milano per il congresso 2009 della European Financial Management Association (Efma), durante le tre giornate del congresso, sotto il coordinamento scientifico di Stefano Gatti e Stefano Caselli, si è fatto un'idea precisa del perché sia scoppiata la crisi. La "tempesta perfetta" è arrivata dalla somma di tre fattori: il taglio dei tassi operati da Greenspan; l'aumento dei prezzi delle case, che ha portato alla bolla immobiliare; l'aumento dell'efficienza di allocazione dei mutui, che ha portato il costo di queste operazioni vicine allo zero. Prese a sé le tre cause non avrebbero provocato alcuna conseguenza, messe insieme hanno messo in moto la valanga.

I critici, però, non demordono e affermano che dopo la crisi neppure la matematica finanziaria sia affidabile. Anzi, è erronea nei suoi fondamenti, anche se raffinata metodologicamente. Senza contare che, se usata con disinvoltura, come con le cartolarizzazioni e i collaterali, porta ad affetti leva (negativi) spaventosi. Fermare i derivati e i modelli collegati è come «fermare l'uso d'internet in Iran: è semplicemente impossibile», ribatte Merton.
Invece di sognare l'impossibile ritorno a regole antiche che controllino tutto nel mondo finanzario, Merton propone d'istituire un'agenzia per i mercati finanzaria come quella che esiste in America per i disastri aerei: la National Transportation Safety Board (Ntsb). La nuova Agenzia, che si potrebbe chiamare National Capital Market Safety Board, dovrebbe andare a controllare con poteri assoluti ma limitati al caso specifico quando ci sia una bancarotta di una banca, assicurazione o hedge fund. Al termine dell'inchiesta, l'Agenzia dovrebbe stilare un rapporto senza avere nessun potere di fare raccomandazioni. Tutto ciò per evitare che «l'errore si ripeta» in futuro. Come, spetterà al Congresso decidere.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Effetto crisi: scende il numero dei super-ricchi

26 Giugno 2009 16:58 MILANO - di Raffaela Ulgheri

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Anche i ricchi piangono. In questi tempi di crisi per le finanze mondiali gli individui con un patrimonio superiore al milione di dollari, gli Hnwi (High net worth individuals), sono diminuiti del 14,9% nel 2008 rispetto all'anno scorso. Nel nostro Paese la riduzione è stata più marcata con una flessione del 20,8 per cento.
È quanto riporta la tredicesima edizione del World Wealth Report, il rapporto annuale sulla ricchezza nel mondo elaborato da Merrill Lynch Global Wealth Management e Capgemini, presentato oggi a Milano, in contemporanea mondiale in diversi Paesi. I motivi di questa contrazione sono sotto gli occhi di tutti. Il terremoto che ha investito la finanza internazionale lo scorso autunno è arrivato direttamente all'economia reale e ha provocato una serie di effetti a catena trascinando anche le finanze di questa categoria ristretta.

Secondo l'indagine, si è tornati a livelli precedenti al 2005, con una brusca discesa soprattutto degli ultra-Hnwi, ovvero i "super-ricchi", coloro che vantano un patrimonio superiore ai 30 milioni di dollari, il cui numero è diminuito del 24 per cento. Nel mondo la cerchia dei Paperoni, composta da 8,6 milioni di individui, si trova ora a gestire un patrimonio finanziario di 32.800 miliardi di dollari, il 19,5% in meno rispetto al 2007 anno in cui deteneva una ricchezza pari a 40.700 miliardi. Merril Lynch e Capgemini, però, sono ottimiste sul futuro: già nel 2013 dovremmo assistere a una ripresa del numero di super ricchi, con un tasso di crescita annuo dell'8,1% (anche se fino al 2007 era del 9,7%). Nord America e Asia-Pacifico faranno da traino alla crescita in termini di ricchezza. Queste regioni beneficeranno dell'incremento della spesa al consumo negli Stati Uniti e della maggiore autonomia dall'esterno dell'economia cinese, che fino a oggi si è sostenuta principalmente sull'export.

Il caso italiano. L'Italia ha seguito il trend negativo attestandosi su un valore di gran lunga inferiore alla media mondiale ma anche a quella europea del 14,4 per cento. Nel nostro paese i milionari sono passati da un totale di 206mila nel 2007 a 163.700 nel 2008, diminuendo del 20,8%, un valore consistente dopo anni di costante crescita (+1,1% nel 2006 e +3,8% tra il 2005 e il 2006). Tra i fattori inibitori che si sono abbattuti sui grandi ricchi italiani Merrill Lynch e Capgemini individuano la diminuzione del Pil reale dell'1% nel 2008 (che potrebbe subire una contrazione del 3,6% nel 2009); il crollo del 51,3% della capitalizzazione di mercato (l'indice S&P Mib ha chiuso il quarto trimestre 2008 in ribasso del 51% rispetto al quarto trimestre del 2007). Una diminuzione del 7,5% dei prezzi sul mercato immobiliare.

Per contro la crisi finanziaria nel nostro paese è stata mitigata da un pacchetto di stimolo approvato dal Governo (che trascina a livello di indotto anche le finanze degli Hnwi) che, secondo il rapporto, equivale a poco meno di un miliardo di euro netti, e la forte campagna di sensibilizzazione determinata a far mantenere la fiducia negli istituti di credito italiani con garanzia sui depositi fino a 100mila euro.

I grandi ricchi hanno preferito investimenti più sicuri. La ricaduta della crisi finanziaria ha portato a una flessione della fiducia, da parte dei ricchi, nei confronti degli investimenti più rischiosi. Hanno ridotto, infatti, la propria esposizione verso le azioni, destinando nel 2008 una quota maggiore del loro patrimonio verso investimenti più sicuri e semplici. Una maggiore quantità di risorse finanziarie è confluita negli investimenti a reddito fisso, nella liquidità e negli asset liquidi. È cresciuta anche la quota dedicata al settore immobiliare, che è aumentato al 18% del portafoglio totale globale degli Hnwi, in rialzo del 4% dal 2007. Anche gli investimenti basati sulla liquidità hanno evidenziato un netto incremento, passando al 21% dei portafogli complessivi (in rialzo del 7% dal 2006).

In Giappone, un Paese in cui il tasso di risparmio è per tradizione elevato, si è registrato il numero più elevato di passaggi a forme di investimento basate sulla liquidità (30%). Per contro, gli investimenti dei Paperoni nordamericani hanno evidenziato la quota più bassa di liquidità o di depositi in percentuale sui loro portafogli complessivi (14%), in rialzo di 3 punti percentuali dal 2007.
 

 

Fonte - Il Sole 24 Ore