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Martedì 02
Giugno
2009 |
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Venerdì 05
Giugno
2009 |
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Domenica 07
Giugno
2009 |
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Processo alla finanza,
Zingales e il «diavolo»: nessuna responsabilità legale
01 Giugno 2009 15:02 MILANO - di
Piero Fornara
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TRENTO – Il verdetto della giuria popolare è stato
chiaro: colpevoli. Gli imputati erano i manager del mondo della
finanza, simbolicamente processati nell'ultima giornata del Festival
dell'Economia a Trento dal "Tribunale della crisi". Le pene?
Restituire i guadagni realizzati grazie alle responasbilità
accertate nel "processo" e lavori socialmente utili.
Il ruolo di pubblico ministero è stato svolto da Marco Onado, quello
di avvocato difensore Luigi Zingales, il primo docente alla Bocconi
di Milano, il secondo all'università di Chicago ed entrambi
editorialisti del Sole 24 Ore. Come nei due precedenti processi,
agli economisti (sabato) e ai controllori e politici (domenica) il
ruolo di presidente è stato sostenuto da Massimo Gaggi, inviato del
Corriere della Sera negli Stati Uniti.
«Non si tratta di fare qui una caccia alle streghe o
agli untori – ha sostenuto Marco Onado ¬– ma il mondo
della finanza va sanzionato per avere costruito un
sistema bancario occulto, tenendo all'oscuro le autorità
(come ha scritto la Banca dei regolamenti internazionali
di Basilea) e ingannando consapevolmente (soprattutto
nei paesi anglosassoni) milioni di consumatori e
cittadini con titoli strutturati che venduti in mercati
non regolamentati, senza spiegare i gravi rischi cui
venivano esposti i sottoscrittori». Di conseguenza «per
questa crisi "made in America" sono stati esportati nel
mondo prodotti tossici – e qualcuno deve pur aver fatto
lo "spacciatore" – così adesso abbiamo due milioni di
famiglie americane che hanno perso la casa, abbiamo la
disoccupazione Usa al livello più alto da quindici anni,
mentre il reddito disponibile è tornato quello degli
anni 90. Intanto i banchieri e manager si sono intascati
bonus milionari: ad esempio cento trader della Merrill
Lynch hanno incamerato 1 milione di dollari a testa. Per
ogni dollaro investito nella finanza tradizionale, ce
n'erano quasi tre investiti nella nuova finanza».
Luigi Zingales ha preso le difese del "diavolo", cioè
della finanza, riversando su Onado l'accusa di aver
fatto del populismo a buon mercato. «La rabbia nei
confronti della finanza è sacrosanta – ha detto Zingales
– ma non va usata per bloccarne lo sviluppo, perché ciò
vorrebbe dire bloccare l'economia per i prossimi
trent'anni. Usiamola piuttosto per approvare riforme che
limitino il potere politico di Wall Street, rendendo il
sistema finanziario più competitivo ed efficiente».
Quindi per Zingales «non c'è responsabilità legale, ma
eventualmente morale o politica e ideologica. Non c'era
reato nel vendere prodotti derivati e chi ha comprato ha
realizzato buoni guadagni quando i prezzi delle case
salivano e non poteva ignorare i rischi delle possibili
perdite. Non è dimostrato, per Zingales, l'occultamento
deliberato di informazioni, al pubblico e alle autorità
di controllo.
Ma nemmeno i clienti delle banche erano totalmente
"innocenti": molti sottovalutavano in maniera deliberata
i rischi che si assumevano e puntavano a fare soldi in
fretta grazie alla crescita del valore degli immobili.
«La verità – ha commentato – è che la gente ama comprare
i biglietti della lotteria, ma quando non vince vuole
cambiare le regole della lotteria». In quanto ai
compensi dei manager, nessuno si scandalizza per i
guadagni dei calciatori, e i manager quando sbagliano
pagano di tasca loro, quando fanno bene creano ricchezza
per il loro paese. «No al giustizialismo all'italiana ha
concluso Zingales, strappando un – forse imprevisto –
applauso al pubblico in aula».
E' stata quindi la volta dei testimoni: a partire da
quelli dell'accusa, Wolfang Munchau, analista del
"Financial Times" (presente oggi in videoconferenza) che
ha parlato delle pratiche "predatorie" utilizzate dalle
banche negli Usa e in Inghilterra, e Pietro Modiano, una
vita ai vertici di importanti istituti bancari, che ha
ricordato fra l'altro come le banche abbiano prima
venduto, ma poi anche ricomprato titoli tossici,
immettendo un "batterio micidiale" nel sistema bancario.
I testimoni della difesa – due esperti di "titoli
complessi" – hanno a loro volta offerto una
testimonianza in video: Brunnenmeier e Cochran sostenuto
l'effettiva utilità dei titoli offerti alla clientela e
la effettiva capacità degli strumenti messi a punto in
questi anni di produrre ricchezza reale, di cui hanno
beneficiato tanti paesi. Hanno inoltre fornito una
spiegazione tecnica dei "titoli tossici": crediti che le
banche generano prestando soldi a chi vuole comprare una
casa e che rivendono ad altri investitori, che li
utilizzano magari per fare a loro volta degli altri
investimenti. Il rischio viene diversificato e
"spalmato" sul mondo intero, con risultati ovviamente
positivi o negativi a seconda di come vanno le cose.
Il verdetto sulla finanza da parte della "giuria
popolare" dei trenta studenti universitari, selezionati
dagli organizzatori del Festival, è stato annunciato
immediatamente prima della chiusura della kermesse di
Trento con l'intervento del premio Nobel dell'Economia
Michael Spence che ha parlato del "Mondo dopo la crisi".
La sentenza ha simbolicamente "condannato" il management
delle banche alla restituzione dei guadagni correlati
alle responsabilità accertate, e ai lavori socialmente
utili.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Il Governo Usa ufficializza
il fallimento di General Motors
01 Giugno 2009 08:40 MILANO
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
«Un eventuale crollo di General
Motors e di Chrysler sarebbe stato devastante». Così Barack
Obama ha iniziato l'atteso intervento a seguito delle richiesta
di amministrazione controllata da parte di Gm. Il presidente
americano ha detto che il governo degli Stati Uniti sarà «un
azionista riluttante» del gruppo di Detroit. E ha ripetuto che
Washington «non ha interesse a gestire» la società. Di più:
Obama ha sottolineato come General Motors uscirà presto dalla
bancarotta. Le parti coinvolte- ha aggiunto- hanno dato vita ad
un piano di ristrutturazione «sostenibile ed attuabile» e che la
quota di auto General Motors costruite in Usa è destinata a
«crescere per la prima volta in decenni». Obama ha sottolineato
«l'importanza che l'industria dell'auto ha per il benessere
degli americani». Il presidente degli Stati Uniti ha spiegato
che il governo si trova suo malgrado a gestire quote così vaste
di aziende private e ha confermato di non avere alcun interesse
nella gestione di una compagnia che la stampa di oltreoceano ha
già ribattezzato «Government Motors».
Obama, infine, ha lodato Chrysler per il ricorso al Chapter 11
che è stato «veloce e chirurgico», affermando che «l'accordo con
Fiat sarà completo tra pochi giorni». Su questo fronte,
peraltro, il giudice federale Arthur J. Gonzalez ha dato il via
libera decisivo per la vendita degli asset della Chrysler alla
newco della Fiat, che gestirà la casa automobilistica americana.
Il Chapter 11 di Gm
Tornando a General Motors va rilevato che, dopo essere crollata
in avvio di cotrattazioni, ha spiccato il volo in Borsa. Nel
giorno in cui la casa automobilistica di Detroit ha
ufficializzato il ricorso all'amministrazione controllata" il
titolo a Wall Street è sull'ottovolante: viaggia in rialzo del
18 per cento. Com'è noto le azioni di Gm saranno tolte da Wall
Street: il posto nel vecchio Dow Jones sarà preso, dall'8 giugno
prossimo, da Cisco Systems.
La richiesta di accedere al "chapter 11" della casa americana,
che proprio l'anno scorso ha celebrato i 100 anni di esistenza,
costituisce il terzo fallimento più grande nella storia
americana e il primo in assoluto nella storia dell'industria
manifatturiera Usa. La procedura dovrebbe durare da un minimo di
60 a un massimo di 90 giorni
Una dura ristrutturazione
Un periodo all'interno del quale General Motors chiuderà 14
impianti negli Stati Uniti entro il 2012 nell'ambito del piano
di ristrutturazione presentato dopo la richiesta di 'chapter
11'. Gm ha indicato che ridurrà il numero totale degli
stabilimenti statunitensi dai 47 attuali a 34 entro il 2010 e a
33 entro il 2012 e che taglierà 21mila posti di lavoro. La lista
include sette stabilimenti in Michigan e i restanti tra Ohio,
Indiana e Tennessee. Due delle chiusure erano già state
annunciate, compresa quella della fabbrica di motori di Massena,
nello stato di New York, che è stata chiusa il primo maggio. A
fine anno verranno chiusi anche tre centri di distribuzione di
componenti situati rispettivamente a Boston (Massachusetts),
Jacksonville (Florida) e Columbus (Ohio). Il primo stabilimento
sarà chiuso a giugno: si tratta dell'impianto di Gran Rapids che
produce soprattutto pick-up e Suv e in cui sono impiegati circa
1.340 persone. Quattro impianti di assemblaggio saranno chiusi
invece tra luglio e novembre di quest'anno ma due di questi -
quello di Orion, in Michigan e quello di Spring Hill, nel
Tennessee - si fermeranno solo temporaneamente in attesa di una
ripresa della domanda. Lo stabilimento di Pontiac, sempre nel
Michigan, sarà chiuso nel dicembre del 2010 e per quello di
Wilmington non c'è ancora una data. Chiuderanno anche le presse
di Pontiac, Indianapolis (Indiana) e Mansfield (Ohio). E si
fermeranno gli impianti di Livonia, Flint, Willow Run, in
Michigan, e quello di Parma, in Ohio.
General Motors europe riceve il prestito ponte
General Motors Europe ha ottenuto l'impegno a un prestito ponte
di 1,5 miliardi di euro dal governo tedesco legato al protocollo
d'intesa con Magna, e continua così le normali attività. È
quanto assicura il gruppo in una nota in cui si precisa che «Gm
Europe non è coinvolta nella procedura giudiziale di General
Motors negli Stati Uniti (Chapter 11) e che le attività di Gm
Europe, oltre ai rapporti con fornitori, clienti e dipendenti,
continueranno normalmente».
Il finanziamento ponte da 1,5 miliardi di euro da parte del
Governo tedesco consentirà «un periodo di tempo sufficiente per
finalizzare l'accordo di partnership. Con questo finanziamento
le operazioni europee sono isolate da qualsiasi impatto
finanziario legato alla situazione di Gm negli Usa». La
soluzione trovata per Opel/Vauxhall prevede che la maggioranza
delle attività del costruttore vengano conferite in una società
fiduciaria, mentre vanno avanti i negoziati finali con Magna.
I punti della ristrutturazione
In un comunicato depositato presso la Sec, la Consob americana,
alcuni giorni fa è stato indicato come il Governo garantirà un
intervento di 50 miliardi di dollari, accompagnando il gruppo
automobilistico nel "fallimento controllato". Quella che ne
emergerà sarà una nuova General Motors, più "snella", con un
debito di circa 17 miliardi di dollari. Secondo i termini di
questa procedura gli obligazionisti riceveranno, in un primo
momento, il 10% del capitale della newco. In cambio "offriranno"
27 miliardi dei loro crediti. Inoltre, potranno acquisire un
ulteriore 15% delle azioni della new General Motors, esercitando
dei warrant (opzioni) emessi a loro favore. L'eventuale
esercizio delle opzioni potrà avvenire in due momenti: la prima
tranche, per un ammontare del 7,5% del capitale, potrà essere
esercitata quando la nuova Gm avrà raggiunto un valore di circa
15 miliardi di dollari; la seconda, nel monento in cui General
Motors sarà arrivata a valere almeno 30 miliardi di dollari.
Alla fine della storia, quindi, gli attuali obbligazionisti
potranno in teoria detenere il 25% circa della nuova società.
Saranno, insomma, soci di peso insieme al Tesoro Usa che sarà il
primo azionista.
Due società e 100mila creditori
General Motors ha presentato la documentazione per lo scorporo
delle attività più sane della casa automobilistica. Verrà
creata, cioè, una Good company, la società "snella" e una "bad
company". Nell'istanza presentata al tribunale fallimentare,
General Motors ha indicato che il totale del debito ammonta a
172,81 miliardi e che il totale delle attività è pari a 82,29
miliardi. I creditori sono oltre 100.000, si legge nella
documentazione, e la casa di Detroit si aspetta che i creditori
non garantiti ricevano un indennizzo.
I ruolo dei sindacati
L'altro "shareholder", sulla falsariga del modello già avviato
in Chrysler, saranno i sindacati. La Uaw riceverà, inizialmente,
una quota del 17,5% del capitale per finanziare il fondo
sanitario a favore dei pensionati di General Motors. Lo stesso
sindacato, sull'esempio degli obbligazionisti, potà esercitare
dei warrant per aumentare la sua quota azionaria al 20 per
cento. Ma questo solamente se il valore di GM raggiungerà i 75
miliardi di dollari.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
I 10 più grandi fallimenti
della storia americana
02 Giugno 2009 16:38 NEW YORK
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Il magazine "Fortune" ha elencato
i dieci più importanti fallimenti nella storia della U.S.
bankruptcy court. Leggi la storia di questi "memorabili" crack.
Il magazine "Fortune" ha elencato i dieci più importanti
fallimenti nella storia della U.S. bankruptcy court. Leggi la
storia di questi "memorabili" crack.
Lehman Brothers Holdings
Data della bancarotta: 15 settembre 2008
Assets: 691 miliardi di $
Uno dei momenti più difficili nell'attuale recessione è stato,
ovviamente, il fallimento di Lehman Brothers. Questa, una delle
quattro più grandi banche d'investimento di Wall Street con 691
miliardi di asset, è stata "costretta" alla bancarotta il 15
settembre 2008. Si tratta del fallimento più grande nella storia
dell'U.S. bankruptcy court. Come conseguenza, la divisione di
investment banking del Nord America e il quartiere generale di
New York sono state vendute alla banca inglese Barclays. Alcuni
dei business americani di Lehman, compresa la società
Neuberger-Berman, continuano a operare come singole entità
separate. A livello mondiale sono state chiuse 80 controllate.
Washington Mutual
Data della bancarotta: 26 settembre 2008
Assets: 327,9 miliardi di $
A causa della paura del fallimento, i clienti di Washington
Mutual, che poteva vantare asset per 327,9 milairdi, hanno
ritirato dai conti più di 16 miliardi di dollari di depositi
oltre i 10 giorni. Una situazione che ha mandato a gambe
all'aria la solidità della banca, obbligando lo Stato ad
intervenire. La banca è stata venduta a JPMorgan Chase per 1,9
miliardi di dollari. Successivamente Washington Mutual ha dovuto
, il 26 settembre 2008, avviare le procedure per ottenere la
protezione della messa in bancarotta. Si tratta di uno dei più
importanti salvataggi realizzati dal governo degli Stati Uniti.
WorldCom
Data della bancarotta: 21 luglio 2002
Assets: 103,9 miliardi di $
Era la seconda compagnia telefonica americana, dopo AT&T, per le
telefonate interurbane. Worldcom ha dovuto ricorrere alla
bancarotta, mentre vantava assset per 103,9 miliardi di asset,
dopo lo scoppio dello scandalo sui propri bilanci del valore di
11 miliardi di dollari . Era il 21 luglio 2002. Nel 2003 la
società è risorta sotto il nome Mci ed è uscita dalla bancarotta
nel 2004. Nel 2005 è stata comprata da Verizon Communications
per 7,6 miliardi. Il precedente Ceo, Bernie Ebbers, è stato
condannato a 25 anni di prigionia. E' attualmente detenuto nella
prigione federale di Oakdale in Louisiana.
General Motors
Data della bancarotta: 1 giugno 2009
Assets: 91 miliardi di $
Quello di general Motors è il 4 fallimento nella storia dell'Us
bankruptcy court. Quando ha chiesto la protezione
dell'amministrazione controllata i suoi debiti ammontavano a 172
miliardi di dollari, a fronte di asset per 92 miliardi. il
Governo federale ha programmato un'inizione finanziaria di 50
miliardi di dollari. L'obiettivo è quella di far uscire dalla
bancarotta una società più snella che controlla i marchi Chevy,
Cadillac, Buick and GMC. Come parte dell'accordo di salvataggio
il governo assumerà il 72,5% del capitale mentre il sindacato
dei lavoratori avrà il 17,5% del capitale. La controllata Opel è
stata ceduta alla canadese Magna.
Enron
Data della bancarotta: 2 dicembre 2001
Assets: 65,5 miliardi di $
Nel 2001 la più grande società americana di elettricità e gas
finisce in bancarotta. Dopo un lungo e difficile procedimento,
Enron emerge dalla "palude" dell'amministrazione controllata"
nel 2004. Molti dei suoi top manager furono condannati per la
truffa contabile realizzata attraverso l'alterazione di dati
contabili. Il caso Enron rimane emblematico perché ha ispirato
la realizzazione della nomativa nota come Sarbanes- Hoxley, che
ha dato un giro di vite sui controlli e requisiti contabili in
capo alle società quotate. Nel 2007, Enron ha cambiato il suo
nome in Enron Creditors Recovery Corp. al fine di liquidare ciò
che resta degli asset della "prima" Enron.
Conseco
Data della bancarotta: 17 dicembre 2002
Assets: 61 miliardi di $
Dopo anni caratterizzati da un management non all'altezza e
incapace, Conseco, un colosso assicurativo, ha accumulato una
massa di debiti superiore a 8 miliardi di dollari. Così, la
società, che vantava asset per 67 miliardi, è stata costretta a
entrate in amministrazione controllata il 17 dicembre 2002. In
meno di un anno è stata in grado di ristrutturare e ridurre il
debito a 1,4 miliardi. Peraltro, Conseco è risultata essere
coinvolta nel mercato dei credit default swap. Un evento che ha
indotto con più forza il ministro del Tesoro Usa Timoty
Geithener ha chiedere una normativa più stringente per questi
prodotti che vengono scambiati su mercati non reogolamentati.
Chrysler
Data della bancarotta: 30 aprile 2009
Assets: 39 miliardi di $
Quando il presidente americano Barack Obama obbligò in aprile
Chrysler ad una bancarotta controllata da 39 miliardi di
dollari, la casa di Detroit era la più grande industria
americana mai avviata verso il Chapter 11. General Motors,
infatti, stava ancora tentando di ottenere dal Governo un
sostegno per evitare il fallimento e cercare sopravvivere.
L'esito della riorganizazione di Crhysler portò all'alleanza con
la Fiat. I sindacati americani dell'auto prenderanno il
controllo dell'azienda durante il periodo di transizione, mentre
il Governo inietterà dodici miliardi di dollari nella casa
automobilistica. La maggior parte del suo debito verrà
sottoscritta dai creditori. Due anni fa Chrysler era stata
venduta al fondo di private equity Cerberus Capital Management,
dopo circa dieci anni di controllo da parte della casa
automobilistica tedesca Daimler-Benz. Nel 1979 Chrysler evitò la
bancarotta, poichè il Governo americano garantì prestiti per un
valore di un miliardo e mezzo di dollari, pagati nel 1983.
Thornburg Mortgage
Data della bancarotta: 1 maggio 2009
Assets: 36,5 miliardi di $
Il 5 gennaio scorso Thornburg Mortgage, con asset per 36,5
miliardi, ha annunciato la chiusura delle sue filiali e
l'ingresso nel "Chapter 11". A ben vedere, però, era da tempo
che la società di investimento di Santa Fe, specializzata
nell'emissione di "jumbo" prestiti legati al settore
immobiliare, era in difficoltà. Il gruppo, infatti, è stato
duramente colpito da dalla crisi dei subprime fin dalla metà del
2007. Le strade tentate per evitare il fallimento sono state
varie. Ma alla fine il management ha dovuto arrendersi.
Pacific Gas and Electric Co.
Data della bancarotta: 6 aprile 2001
Assets: 36 miliardi di $
La deregulation del mercato elettrico ha avuto, in California,
diverse conseguenze. Tra queste i famosi blackout del 2000 e
2001, il salvataggio della Southern California Edison e il
fallimento di PG&E. Quest'ultima, il più importante fornitore di
energia sia per uso domestico sia per uso industriale della
California del Nord, il 6 aprile 2001 è entrata in
amministrazione controllata. La società, che al tempo aveva
asset per 36 miliardi di dolari, è stata costretta a questa
scelta a causa degli alti costi di produzione a fronte di
margini troppo bassi. Nel 2004 la società è uscita dal
fallimento controllato.
Texaco
Data della bancarotta: 12 aprile 1987
Assets: 34,9 miliardi di $
Il 12 aprile 1987 la Texaco, che vanta asset per 34,9 miliardi,
ha chiesto la protezione della bancarotta. Il gruppo
petrolifero, nel 1984, aveva fatto un'offerta per conquistare la
getty Oil e soffiarla alla concorrente Pennzoil. Una proposta
che fece saltare l'accordo già raggiunto tra quest'ultima e la
tanto ambita preda. la Penzoil, però, non stette con le mani in
mano e citò in giudizio la texaco, che fu multata di 10 miliardi
di dollari. Sebbene la multa fu successivamente ridotta, Texaco
non fu in grado di fare fronte ai suoi obblighi finanziari e
finì così in amministrazione controllata. La sociietà ne è
uscita nel 1988 ed è stata acquistata da Chevron nel 2001 per 39
miliardi di dollari.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Torna
il super €uro? No, ma il
dollaro resterà debole
02 Giugno 2009 14:50 MILANO - di
Vittorio Carlini
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L'Euro ha raggiunto, oggi, quota 1,4227 contro il
dollaro. Un picco che il cambio tra la divisa europea e quella
americana non toccava dal dicembre scorso. Così, la domanda è
spontanea: Torna Mr SuperEuro? Il Sole24ore.com ha rivolto il
quesito a un panel di esperti. Senza , peraltro, dimenticare altri
cross valutari.
L'Euro e il Dollaro
«È fondamentale decidere quale orizzonte temporale prendere in
considerazione - spiega Rony Hamaui, docente di mercati monetari
internazionali all'università Cattolica - È certo che, nel
medio-lungo periodo, avremo un dollaro debole». Come dire, insomma,
che per il 2010 potremmo abituarci alla divisa verde che scambia
attorno a 0,50 con l'Euro. Gaetano Evangelista, analista tecnico e
presidente di Age Italia, fa una considerazione un po' differente.
L'esperto, infatti, anticipa l'eventuale scenario dell'ulteriore
debolezza del dollaro : «Bisogna prestare attenzione alla resistenza
compresa tra 1,410 e 1,425 - dice - . Il superamento di questo
livello porterebbe in tempi brevi la moneta unica europea a quota
1,50».
E, visto che quest'area oggi è stata toccata, il momento in cui il
dollaro cala ancora potrebbe essere non troppo di là da venire.
«Anche se - sottolinea Evangelista - il semplice record intraday è
insufficiente. Rileva, ovviamente, uno sfondamento più deciso di
quella resistenza». Ma, ormai, il cross danza attorno a quei
livelli. La tesi rialzista sull'Euro è, peraltro, sostenuta anche da
Robert Sinche, analista indipendente, in precedenza capo delle
strategie monetarie di Bank of America: «Quando uno vede cosa
succede in General Motors e l'attuale situazione del capitalismo
americano, ben può capire perché gli investimenti non prendono» la
via degli Stati Uniti. «Il dollaro scenderà facilmente verso quota
1,45», sottolinea.
E lo stesso Angelo Drusiani, esperto di Albertini syz, concorda con
l'idea di un dollaro debole: «Anche perché -dice -la politica
economica e monetaria degli Usa è soprattutto finalizzata a
mantenere un biglietto verde debole che favorisca l'export e, più in
generale, l'industria americana. In questo momento, invece, non
rilevano molto altre variabili quali, per esempio, i rendimenti del
reddito fisso». Per quale motivo? «Perché tra Europa e Stati Uniti
non c'è grande differenza. Il Treasury decennale, infatti, rende
circa il 3,63% mentre il "fratello" tedesco TBund dà una cedola del
3,64 per cento. Non sono queste, a tutt'oggi, le variabili
fondamentali».
I fondamentali che pesano
Fin qui la difficile arte di guardare la sfera di cristallo. Ma,
attualmente, quali le variabili che incidono sull'andamento del
cross valutario? «In generale - dice Hamaui - tre sono gli aspetti
da monitorare. In primis, i futuri tassi di crescita delle economie
mondiali. Superata la crisi, è abbastanza condivisa l'idea che
l'America viaggerà relativamente più piano degli altri Paesi: Europa
compresa. E questo comporta già adesso un calo della domanda di
dollari. Inoltre, incide negativamente il deficit estero delle
partite correnti. Quello statunitense si avvia verso il 3,3% del Pil
mentre in Europa siamo, all'incirca, sul pareggio.
Infine, non va dimenticato il debito a stelle e strisce. La politica
economica espansiva di Washington porterà il deficit pubblico verso
il 10% del Prodotto interno lordo e il debito pubblico arriverà al
100 della richezza prodotta negli Usa. Questo mix di situazioni avrà
inevitabili conseguenze sulle divise». In particolare? «Washington
si vedrà costretta - sottolinea Hamaui - a stampare moneta e a
emettere asset in valuta americana: un'offerta che, visto
l'andamento della congiuntura a stelle e strisce, sarà più alta
della domanda. Anche perché le banche centrali avranno difficoltà a
digerire la nuova ondata di moneta».
Giocoforza, la quotazione del dollaro scenderà. «Non è un caso -
afferma Hamaui - che il Governo americano aumenti i contatti con
Beijing. La Cina, che possiede miliardi di asset in dollari, è tra i
maggiori creditori degli Usa. Il rischio è che diversifichi troppo i
suoi portafogli a favore di altre monete». Il Paese del Drago,
insomma, è una grande incognita che deve essere a tutti i costi
"controllata". «Tanto è vero - ricorda Hamaui - che il segretario
del tesoro Usa Timothy Geithner è andato a Pechino prorio questa
settimana per convincere il governo cinese a comprare Treasury
americani».
Diverso è l'approccio di Evangelista: «Il dollaro - sottolinea - è
una divisa anticiclica. Si rafforza quando l'economia è in
recessione e si indebolisce quando entra in una fase espansiva (vedi
grafico a piè di pagina). Questo perché, durante la crisi, gli Stati
tentano di uscirne anche indebolendo le proprie divise per favorire
l'export; e dal momento che il dollaro è la divisa di riferimento
negli scambi internazionali, svalutare le proprie divise equivale a
rafforzare il dollaro.
Viceversa, quando l'economia tira, gli Stati sono più disponibili a
vedere le proprie divise rafforzarsi come riflesso dell'espansione
economica, e ciò si riflette in un indebolimento del biglietto
verde». E però, nonostante l'attuale recessione, il dollaro si
indebolisce: come mai? «Perché - risponde Evangelista - pesa il
debito pubblico. Nella misura in cui l'espansione del deficit
Federale si tradurrà in una crescita del rapporto tra debito
pubblico e Pil, ciò andrà ad impattare negativemente sul dollaro». E
quindi? «Credo che non vedremo un SuperEuro, anche se quest'ultimo
potrebbe spingersi fino l'1,5 dollari. Si tratterà di un trading
range», ciè di un movimento laterale. Anche perché, in una
situazione come l'attuale, le economie occidentali non possono
permettersi un eccessivo rafforzamento di una divisa sull'altra.
«Forti rimbalzi, eventualmente, potremmo vederli tra le monete dei
paesi emergenti».
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Uno scenario per il
dollaro
Monday, 2 June, 2009 at 22:49
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di phastidio ______________________________________________
Secondo gli economisti di Credit Suisse, la Fed opererà per
arrestare l’ascesa dei rendimenti sui Treasury. Con 2000
miliardi di dollari di emissioni di titoli pubblici previste per
quest’anno e solo 300 miliardi di acquisti a fermo da parte
della Fed (di cui ad oggi ne sono stati eseguiti il 37 per
cento), ci sono timori per il finanziamento del debito federale.
Tuttavia, il programma di acquisti della Fed potrà (e dovrà)
essere aumentato per frenare l’ascesa dei rendimenti. La Fed,
dovendo scegliere, preferirà rischiare una crisi del dollaro
piuttosto che avere una crisi di finanziamento del bilancio.
Questo scenario è sostenuto, sempre secondo il Credit Suisse,
dal fatto che le passività estere nette degli Stati Uniti sono
solo il 18 per cento del Pil, e storicamente (secondo dati della
Bank of England) un paese diventa a rischio di default quando
tale valore supera il 60 per cento del Pil. Inoltre, e più
importante, quasi il 90 per cento delle passività estere degli
Stati Uniti sono denominate in dollari. Perciò, un dollaro più
debole avrebbe un impatto minimale sulle passività estere nette
americane. I timori di pressioni inflazionistiche, inoltre,
appaiono al momento esagerati: con un output gap stimato all’8
per cento ed una crescita prevista nell’intorno dell’1,5-2 per
cento per il 2010, è improbabile che l’inflazione possa
rappresentare un problema almeno fino al 2014.
Date queste premesse, quindi, il dollaro sembra avere una sola
direzione. Resta da vedere che produrrebbe, in termini di rischi
protezionistici, uno scenario del genere. Oltre alle reazioni
della Cina, che vedrebbe vandalizzato il proprio tesoro di
riserve valutarie.
Fonte
-
Macronomitor
E' FINITO IL TEMPO DEGLI
HEDGE FUND, PERDITE E CHIUSURE IN CRESCITA
03 Giugno 2009 20:46 NEW YORK
-
di Bloomberg ______________________________________________
Continua la fase critica per il
settore, chiude anche il Raptor Global fund. Dubbi sulla
sostenibilita' di una strategia concentrata sul breve termine.
Le ingenti perdite viste nel 2008 lo dimostrano.
James Pallotta, l'investitore che all'inizio dell'anno ha
annunciato il suo divorzio dal partner di lungo corso Paul Tudor
Jones, ha deciso di chiudere il fondo Raptor Global, dubitando
della sostenibilita' di alcuni aspetti di un settore che si
concentra principalmente sul breve termine.
L'anno scorso Pallotta ha perso il 20% e quest'anno il trend non
e' cambiato. Da qui la decisione di restituire ai propri clienti
i soldi investiti. In una lettera inviata agli investitori, il
manager ha fatto sapere che conta di prendersi diversi mesi di
pausa, durante i quali cerchera' di elaborare una nuova
strategia di investimento di successo.
"Negli ultimi anni, ho coltivato un certo scetticismo sulla
sostenibilita' di alcuni aspetti della struttura del settore e
sui problemi che comporta il focalizzarsi sul breve termine",
dice Pallotta, 51 anni, nella lettera.
L'anno scorso una somma record di 1471 fondi hedge, pari al 15%
del totale del settore, ha chiuso i battenti, a causa delle
perdite record subite, stando ai dati raccolti da Hedge Fund
Research.
In agosto 2008, Pallotta, che possiede una quota del capitale
della squadra di basket Nba dei Boston Celtics, ha gestito $5
miliardi per il fondo Tudor Investment. Ne e' uscito con circa
$1.5 miliardi, afflitto dalle perdite pari a circa il 20% e
dalla rinuncia di piu' clienti. La sua azienda di Boston, Raptor
Capital Management LP, ha annunciato che sta tentando di
impedire agli investitori di ritirare i propri soldi.
In luglio gli investitori riavranno indietro circa il 75% dei
loro soldi entro il prossimo mese oltre alla distribuzione di un
interesse pro rata nel portafoglio privato di Raptor, che vanta
circa il 15% degli investimenti complessivi dei clienti. I soldi
rimanenti verranno restituiti non appena sara' possibile", ha
precisato Pallotta.
Il Raptor Global fund ha garantito ritorni annuali del 14% da
quando e' stato fondato, nell'ottobre 1993 a Greenwich. Jonathan
Gasthalter, portavoce di Raptor, non ha voluto commentare la
notizia.
Fonte
-
Bloomberg
Gli hedge fund
non
comprano questo rally?
Thursday, 4 June, 2009 at 16:21
-
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Gli hedge fund sono normalmente
considerati gli operatori più reattivi in assoluto, i più veloci
ad entrare ed uscire da un mercato e a leggerne il futuro.
Eppure, pochi fra loro hanno anticipato il rally di Borsa da
Marzo, lasciando il settore in totale in una posizione meno
rialzista che un anno fa, appena prima dell’ultima fase della
crisi.
Si tratta di un madornale errore collettivo, oppure hanno visto
giusto e la loro prudenza verrà premiata a breve?
clipped from online.wsj.com
The fast money is proving slow to jump on the market’s bandwagon.
Hedge funds, decried by many as quick traders, have played
catch-up during the market rally since March. The average fund
was 45% “net long” as of May 19, or had investment holdings
valued at 45% more than its bearish “short” positions, according
to Hedge Fund Research.
Many funds are skeptical the economy has entered a new period of
growth that justifies high equity multiples. Others fear
dislocations from governments shoveling money at problems.
Some noted stock pickers remain wary.
If stocks keep surging, hedgies might have to jump in with two
feet, giving the market another lift. But their continued
hesitancy should be a sign of caution for investors.
Fonte
-
Macromonitor
Aspettando
il
miracolo indiano
04/06/2009 14.46 MILANO
-
di Valerio Baselli ______________________________________________
Il partito del Congresso, guidato
da Sonia Gandhi, ha vinto le elezioni indiane e la Borsa di
Mumbai ha salutato la vittoria della coalizione Upa (United
Progressive Alliance) con un guadagno del 17,3% il 18 maggio
scorso.
Secondo numerosi analisti, questo balzo, che ha portato alla
sospensione delle contrattazioni per eccesso di rialzo nel corso
della seduta, riflette la speranza di un contesto politico
favorevole alla crescita nei prossimi cinque anni, che è
destinato a durare se dalle promesse elettorali si passerà ai
fatti. Così, in forte contrasto con lo scenario globale, si
delinea la prospettiva di un India più forte, che possa contare
su una stabilità politica e che sappia avviare quelle riforme
strutturali che il Paese necessita. Tutto ciò lascia intravedere
la possibilità di un’economia che possa distinguersi negli anni
a venire.
Il Partito del Congresso, dopo aver subito nell’ultima
legislatura i diktat dei suoi alleati di governo, dovrebbe ora
disporre di sufficiente libertà d’azione per attuare un
programma politico favorevole alla crescita e alle riforme,
afferma in una nota di EtfNews Manish Bhatia, gestore di fondi
azionari asiatici e indiani presso Schroders Investments.
Dall’ultimo World Economic Outlook, il rapporto sullo stato
dell'economia mondiale pubblicato dal Fondo Monetrario
Internazionale, è emerso che i Paesi emergenti avranno meno
problemi a ripartire, dato che per il 2010 sono visti in
progresso del 4% rispetto alle economie avanzate. La stessa
Banca centrale indiana ha previsto che il prodotto interno lordo
indiano salirà al 6% nel 2010. Come ha dichiarato Toral Munshi
di Credit Suisse, con le giuste riforme e adeguati flussi di
capitale l’India potrà muoversi velocemente lungo una
traiettoria di crescita forte e duratura e potrà collocarsi tra
quei Paesi dove la ripresa dell’economia sarà più importante.
India e Cina, secondo l’esperto della banca svizzera, saranno il
motore del rilancio non solo dell’Asia, ma dell’economia
globale.
Per quanto riguarda le opportunità sulla Borsa di Mumbai, gli
operatori si interrogano sulla solidità e continuità del
movimento partito lo scorso 18 maggio. Senza dimenticare che nel
breve periodo non si può prescindere dal contesto mondiale,
David Chatterjee, gestore del fondo PF (Lux) Indian Equities,
dichiara nella stessa nota EtfNews come l’India abbia tutte le
carte in regola per sovraperformare il resto della regione.
Tra gli strumenti per investire sull’India ci sono due Etf
(Exchange traded fund) quotati a Piazza Affari. È il caso del
Lyxor Etf Msci India, armonizzato, quotato e negoziabile su
Borsa Italiana, che replica l'evoluzione dell'indice Msci India.
L’altro è l’S&P Cnx Nifty Etf (India), Etf targato Deutsche Bank
che replica un indice costituito da 50 azioni appartenenti a 22
differenti settori dell’economia indiana. L’indice Msci
regionale, pur presentando una perdita del 10,2% negli ultimi
365 giorni, ha guadagnato da inizio anno il 60% (elaborazione
Morningstar Direct, dati in dollari al 3 giugno).
Fonte
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MorningStar.it
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Martedì 09
Giugno
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Venerdì 12
Giugno
2009 |
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Sabato 13
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Borsa:
che tutti siano sotto-investiti non è una garanzia di rialzo certo
07 Giugno 2009 20:29 MILANO - di
Alessandro Fugnoli*
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di
Abaxbank
________________________________________
Il mio primo Quarantacinque per Cento, potrebbero
intitolarsi gli appunti, come ho vissuto il balzo del MSCI World
Index da 688 a 1000 in meno di tre mesi.
Ho dovuto assistere la zia malata, mi si è allagata la cantina, ho
avuto una riunione dietro l’altra, il tempo è volato, avevo comunque
qualche azione avanzata dal bull market precedente, nelle ultime
settimane ho compricchiato qualcosa, ho resistito a quelli che
dicevano di vendere al primo recupero, i dati macro sono comunque
sempre usciti con segno negativo, Roubini ha detto che è solo
l’ennesimo rally degli sciocchi, nel 1932 il bear market rally fu
addirittura dell’ottanta per cento e poi ci fu un nuovo minimo,
insomma che cosa volete da me, è già tanto che non abbia chiuso il
fondo o fatto bancarotta e in ogni caso voglio vedere chi ha visto
davvero crescere il proprio patrimonio complessivo (e non quello
sparuto ETF di cui mena gran vanto con gli amici) del 45 per cento
dal 9 marzo a oggi.
L’elenco delle possibili giustificazioni è infinito e qui non si
vogliono risvegliare i sensi di colpa o di inadeguatezza. Si vuole
solo ricordare che (come ha titolato brillantemente JP Morgan la sua
View del 29 maggio), il mondo ha perso il rally.
Macinando parecchi numeri e buttandosi in qualche stima, la View
sostiene che il portafoglio dell’Investitore Medio Globale è oggi
per il 32.5 per cento in cash e per il 49.1 in reddito fisso. Le
azioni rappresentano solo il 18.4 per cento, contro la media degli
ultimi vent’anni del 27.3 per cento. E si parla dell’oggi, non di
tre mesi fa.
Di per sé un mondo sottoinvestito non è una garanzia di rialzo. Se
al sottopeso si accompagna però una veloce stabilizzazione del ciclo
e qualche primissimo segnale di aumento della produzione industriale
fuori dall’Asia (dove il recupero è già molto forte) si può essere
indulgenti verso un rialzo azionario che non riesce a fermarsi e
che, qua e là, produce qualche eccesso temporaneo.
Più avanti, quando l’effetto inebriante dei segni positivi sarà
svanito e il recupero della produzione, pur impressionante, sarà
visto nel suo valore assoluto e non come variazione dai minimi, ci
sarà tempo e modo per una maggiore sobrietà. Nel frattempo, però,
l’effetto combinato dei dati in miglioramento e della corsa a
ribilanciare i portafogli manterrà un bias positivo con
ritracciamenti limitati in durata e profondità.
Il consolidamento delle ultime sedute, ad esempio, sembra destinato
a produrre danni modesti all’azionario e permette alla parte lunga
dei bond governativi di riprendersi dall’ipervenduto dell’ultimo
periodo. La psicosi del crescente indebitamento pubblico americano,
della sua monetizzazione e del conseguente crollo del dollaro si è
prodotta del resto su un terreno astratto, concettuale e a tratti
leggermente allucinatorio.
Si parla in modo concitato d’inflazione con almeno un anno di
anticipo rispetto ai primi eventuali deboli segnali di ripresa dei
prezzi che si manifesteranno all’inizio del 2011. Si parla di
esplosione insostenibile dello stock di debito pubblico americano
quando le proiezioni della Fed lo indicano al 70 per cento del Pil
nel 2011, il livello della Germania già oggi. Si sussurra e grida
sulla monetizzazione senza freni del debito pubblico e Bernanke fa
sommessamente notare che la Fed ha meno titoli del Tesoro oggi di
quanti ne abbia mai avuti negli ultimi anni. Ci si allarma
sull’incessante creazione di moneta quando la base monetaria
americana è sugli stessi livelli di sei mesi fa.
Può darsi che, nel vendere bond governativi e dollari, il mercato
abbia qualche intuizione giusta di lungo termine, ma le
razionalizzazioni che circolano vanno largamente fuori bersaglio.
Sul dollaro, ad esempio, la rassegna settimanale sui cambi di Morgan
Stanley fa una disamina accuratissima delle debolezze americane, con
tanto di modellizzazione di tutti i fattori possibili immaginabili e
con un interessante giro di opinioni tra i suoi esperti di ogni
asset class e di ogni continente sulle conseguenze di un eventuale
crollo del dollaro. Poi, dopo molte pagine di analisi, dedica
pochissime righe allo stato del resto del mondo. Come se il cambio,
ad esempio quello tra dollaro ed euro, dovesse esprimere una
valutazione degli Stati Uniti e non una valutazione congiunta di
Stati Uniti ed Europa. Il cambio è un rapporto, dopo tutto.
Un’altra paura fuori bersaglio, con tanto di valutazione strabica, è
quella che qualche anno di forti disavanzi pubblici americani sia la
possibile causa del dissesto americano prossimo venturo. Quello che
ha sempre preoccupato Greenspan e ora preoccupa Bernanke non è
questo o quel disavanzo straordinario, reversibile rapidamente come
si vide nei primi anni Novanta, bensì quello di cui i mercati non
parlano mai, il dissanguamento strutturale e inarrestabile da spesa
sanitaria e pensionistica.
Così come appare strabico il concentrarsi ossessivo sul debito
pubblico senza considerare che la sua crescita non riesce nemmeno a
bilanciare la decrescita di quello privato, tanto che il saldo
complessivo, espresso dal saldo delle partite correnti, mostra
un’America che ha sempre meno bisogno di essere finanziata dal resto
del mondo.
In realtà, nel breve, il dollaro scende perché si riprende tutti
quanti a fare il carry trade. Che cosa c’è di più bello che
indebitarsi in dollari (vendendoli) a tasso zero per comprare il
real brasiliano o addirittura, come fanno le banche russe non appena
la banca centrale gira l’occhio, per comprare rubli? O indebitarsi
in dollari per comprare le borse emergenti? Tutto come ai bei tempi,
insomma, ma è un segno di salute del mondo, non di chissà quale
debolezza dell’America.
Questa America alla fine dei suoi giorni, del resto, sta
ricapitalizzando le sue banche a una velocità che vorremmo davvero
vedere anche in Europa. La Fed non dà tregua. Dà un obiettivo di
ricapitalizzazione a una banca, questa lo raggiunge subito sperando
di essere lasciata in pace per qualche tempo e la Fed gliene dà
immediatamente uno nuovo. La Fed ingozza le sue oche, non vuole che
restituiscano i soldi pubblici che hanno avuto nei mesi scorsi,
vuole che abbiano sempre più capitale affinché, per farlo rendere,
si decidano a fare credito. L’emissione continua di nuove azioni da
parte delle banche ne deprime temporaneamente il corso, ma a livello
di sistema accelera la fuoruscita dalla crisi.
Venendo alle strategie d’investimento, ribadiamo che chi ha una
visione a 12-24 mesi deve continuare a comprare rischio una quota
ogni mese. Bisogna pensare al ciclo economico positivo che sta
avviandosi come a qualcosa che avrà un andamento in accelerazione
regolare. Non sarà così, naturalmente, ma provare a fare i virtuosi
con un fine tuning dei sottocicli non è detto che convenga.
C’è su Youtube, per gli appassionati di tecnologia, l’animazione di
un progetto cui sta lavorando un ingegnere taiwanese. E’ il treno
che non si ferma mai. Il treno va a una velocità costante, mettiamo,
di 100 chilometri l’ora. Quando si avvicina a una stazione, i
passeggeri che devono scendere si portano su una navetta in fondo al
convoglio, la navetta si stacca e si arresta. Parallelamente, in
stazione, un’altra navetta raccoglie i passeggeri in partenza e
parte veloce per agganciarsi al treno in corsa. Questo è il ciclo
per chi non fa "fine tuning".
Chi vuole farlo potrà invece tentare di cavalcare il modesto
consolidamento in corso, sfruttando il dato sull’occupazione di
venerdì e il meritato ritracciamento del greggio, che si porta
dietro i titoli surriscaldati di energia e materie prime. La pausa
durerà quel tanto che occorrerà a ridare tono ai Treasuries. Poi,
altri dati macro incoraggianti che si susseguiranno nelle prossime
settimane indurranno altri sottopesati a ribilanciarsi. Il
consolidamento vero sarà un poco più avanti.
Come diceva il grande Bob Farrell, i mercati lavorano
instancabilmente per produrre il massimo di infelicità in chi li
frequenta. Salgono quando tutti ne sono usciti e scendono quando
tutti hanno finito di entrare. Perché ci sia un consolidamento serio
bisogna prima che entri ancora qualcuno.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero
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La
borsa è salita
irrealisticamente troppo
09 Giugno 2009 00:01 MILANO - di
Giuseppe Turani
________________________________________
In questi giorni sui mercati si respira un'aria di
grande disorientamento, persino chi aveva previsto la ripresa delle
Borse, a questo punto è un po’ spaventato. Prima sui mercati avevano
tutti una paura terribile e vendevano qualsiasi cosa, adesso accade
il contrario: si compra tutto e con grande entusiasmo.
Ieri un operatore molto esperto mi ha confessato: da anni non ero
cosi preoccupato. Mercati azionari che salgono da tre mesi con
un'economia reale che non riparte, reazioni positive anche se i dati
sulla disoccupazione Usa sono i peggiori da 25 anni, petrolio che
continua a battere record su record, dollaro che sprofonda. Secondo
me - dice sempre l'amico operatore - se nelle Borse non si danno una
calmata, nelle prossime settimane rischiamo di fare prima o poi un
botto terribile. E che soprattutto può tornare ad innescare quelle
paure che oggi sembrano dimenticate.
Se invece le borse si ridimensionassero di un 10-15 per cento tutto
sarebbe più sano e si potrebbe affrontare serenamente la seconda
parte dell'anno. Quella che, mese più o mese meno, dovrebbe far
vedere al mondo qualche spiraglio vero di ripresa. Ma, a parte il
disorientamento dell'amico, cosa sta succedendo?
Partiamo dal dollaro, che sembra stia sorprendendo tanti. In realtà
era prevedibile che il dollaro venisse progressivamente pilotato
verso il ribasso dagli stessi americani. Sono infatti loro per primi
che, potendo gestire una valuta che rappresenta molto della finanza
mondiale, hanno interesse ad avere una moneta debole per attrarre
masse di denaro, ogni giorno sempre più necessarie per sottoscrivere
le loro emissioni. Ed infatti si vede che le emissioni, azionarie ed
obbligazionarie di queste settimane, vengono coperte senza problemi.
Anzi, con grande soddisfazione degli emittenti e della Fed che solo
due mesi fa non sapeva come trovare soldi.
Come se non bastasse, il dollaro basso spinge le esportazioni e mai
come ora gli Stati Uniti hanno bisogno di vendere loro merce
all'estero. E' chiaro che questo indebolisce le riserve di chi ha in
pancia tanti dollari, però basta continuare a dire pubblicamente che
il dollaro tornerà forte e almeno per il momento non si vedono
incrinature su quel fronte. Il petrolio é invece chiaramente già
travolto da fenomeni speculativi. Non ci sono ragioni per un barile
a 70 dollari e infatti gli esperti lo danno presto in ribasso. O
comunque in un range tra i 40 e i 60, che é un livello fisiologico
di medio termine.
Venendo alle borse ed a questo inimmaginabile aumento del 45 per
cento nel giro di poche settimane, le spiegazioni sono tre.
1) La voglia di riprendere un po' di rischio equity era ed é tanta,
specie a prezzi che - almeno in termini assoluti - sembrano
attraenti, il rendimento delle obbligazioni prive di rischio é ormai
bassissimo e la paura di "perdere un treno" é enorme. La prima
ragione é in fondo il contraltare dei crolli forse eccessivi di
gennaio e febbraio. Tutto veniva buttato via senza troppi
ragionamenti. Le situazioni, specie delle banche, venivano
drammatizzate, i prezzi crollavano. Però o il mondo é destinato a
finire o le General Electric, qualche energetico, qualche
farmaceutico o alimentare un futuro lo avranno, ed ecco che sono
spuntate le eccezioni. Poi le eccezioni si sono allargate ed é
iniziata una sorta di corsa all'equity.
2) La seconda ragione é evidente e riguarda sia i gestori
professionali che i singoli. Quando si vede che i propri soldi
rendono meno dell'uno per cento (nel reddito fisso) non puoi non
cercare altre forme di investimento, sopratutto se far rendere i
soldi é il tuo mestiere.
3) La terza forse é la più convincente: quanta gente si é fatta
prendere dal panico che ha attraversato il mondo tra ottobre e
febbraio? Tantissima. Però era panico, non ragionamento ed appena si
é visto che il recupero (dei mercati) era robusto e che l'amico o il
collega coraggioso comprava le Citicorp o le Unicredito ai prezzi di
inizio marzo, in molti hanno temuto di essere un po' troppo fifoni.
E si sono accodati.
 |
Fonte
- La Repubblica
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Hi-tech in Europa:
ripresa dal 2010
09 Giugno 2009 17:38 MILANO
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Un 2009 di assestamento, per cui
la buona notizia è la sostanziale tenuta rispetto all'andamento
dell'economia nel suo complesso, e un 2010 che si annuncia
finalmente in controtendenza. La fotografia scattata dall'Eito (European
Information Technology Observatory, www.eito.com) riguardante le
dinamiche del mercato europeo dell'Ict e dell'elettronica di
consumo parla chiaro e conferma che la diminuzione del giro
d'affari legato alle tecnologie prevista per quest'anno sarà
seguita da una pronta ripresa nel corso del prossimo. E anticipa
quindi più rosei orizzonti per l'intera industria di settore.
Stando al rapporto presentato oggi, il fatturato complessivo
relativo ai prodotti e ai servizi dell'Information e
Communciation Technology registrerà a fine 2009 una diminuzione
dell'1,7%, scendendo da 729 a poco meno di 717 miliardi di euro.
Flessione contenuta, quindi, che di fatto attesta per il mercato
europeo dell'high-tech uno sviluppo significativamente migliore
rispetto a quello del contesto economico globale, per cui la
Commissione Ue e l'Ocse prevedono (il dato riguarda il Pil dei
Paesi dell'Unione) per l'anno in corso un calo del 4%.
Quanto alla ripartizione della torta di cui sopra fra i tre
segmenti di riferimento – telecomunicazioni, informatica,
consumer electronics – le telco si confermano un mercato
sostanzialmente stabile nell'ordine dei 362 miliardi di euro e
lo stesso dicasi per il comparto It, che scenderà nell'anno in
corso a quota 297 miliardi rispetto ai 302 del 2008. Più
evidente la frenata dei prodotti consumer e digitali (Tv, camere
digitali, lettori multimediali, Mp3, ecc.), che dai circa 64
miliardi di euro consolidati a fine dicembre scorso scenderanno
nel 2009 a 58,5 miliardi (-8,2%) e nel 2010 a poco più di 55
miliardi (-5,9%). A partire dal 2010, in ogni caso, l'industria
hi-tech nel suo insieme tornerà a riprendere (seppur lentamente)
la corsa in avanti e stando alle stime di Eito il consuntivo di
fine anno per i Paesi dell'Unione Europea dovrebbe essere in
attivo dello 0,3%, a complessivi 719 miliardi di euro. In linea
generale, il rapporto ratifica quelle che erano state le
previsioni degli analisti di fine anno, e cioè una dinamica di
domanda dei prodotti consumer che non è stata praticamente
impattata dalla crisi e l'atteggiamento più prudente delle
aziende nell'avviare nuovi progetti It. Cristiano Radaelli, Vice
Presidente di Anitec/Anie (il partner italiano di Eito che ha
contribuito al rapporto con uno studio sul futuro
dell'innovazione digitale in Italia) ha enfatizzato in proposito
il fatto che "le ripercussioni la crisi economica sono evidenti
anche in un settore, come l'Ict, che da sempre investe molto più
degli altri in attività di ricerca e sviluppo".
Male l'hardware, tengono i servizi It
Entrando nel merito dei dati della ricerca balzano all'occhio
alcuni dati molto interessanti, che confermano forti spostamenti
tra i singoli settori di mercato. Il volume d'affari delle
telefonate da rete fissa, per esempio, diminuirà nel 2009 del
6,8% (a 70,2 miliardi di euro) confermando la tendenza che vede
i consumatori preferire sempre di più il cellulare e Internet al
telefono fisso per comunicare. I collegamenti alla Rete avranno
quindi un'impennata nei dodici mesi del 7,2% per superare quota
36 miliardi di euro mentre per le telefonate da terminale mobile
il fatturato resterà fermo a 109 miliardi di euro nonostante il
numero crescente delle utenze. In campo informatico, invece, le
dolenti note riguardano principalmente la voce hardware, che
Eito stima poter perdere quest'anno il 6,6% in valore per
chiudere a complessivi 85,7 miliardi di euro. Il rinvio degli
investimenti da parte delle aziende impatterà per contro meno
sulla domanda di software e servizi It, che dovrebbero toccare
quota 210,4 miliardi di euro con un calo dello 0,3% anche grazie
alla buone risultanze in arrivo dal comparto outsourcing, il cui
volume d'affari aumenterà in Europa del 5% arrivando fine a 2009
a 65,8 miliardi di euro.
In discesa del 10% i ricavi delle flat Tv
Le brutte notizie insite nel rapporto Eito sono soprattutto per
i produttori di elettronica di consumo. Dopo aver fatto
registrare per parecchi anni tassi di crescita elevati, si
prevede infatti per il 2009 una forte frenata del giro d'affari
legato ai prodotti d'intrattenimento digitale e la causa prima
di questo rallentamento è secondo gli analisti imputabile alla
riduzione del fatturato nel settore dei televisori a schermo
piatto. Nei Paesi dell'Unione Europea si venderanno sì circa 42
milioni di apparecchi Lcd e al plasma (cifra record mai
raggiunta in precedenza) ma i ricavi subiranno una contrazione
del 10,3%, scendendo a 26,3 miliardi di euro, per effetto
dell'ulteriore erosione sui prezzi di listino all'utente finale.
Un andamento simile lo registreranno anche fotocamere digitali,
lettori MP3 e navigatori Gps mentre faranno registrare un
risultato positivo in termini di volume d'affari i lettori
Blu-Ray, i set-top box per la TV digitale e le console di gioco.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Le nozze risvegliano
il gestito
09-06-09 MILANO
-
di Sara Silano ______________________________________________
Bob Rodriguez, per tre volte
nominato manager dell’anno da Morningstar negli Stati Uniti, ha
annunciato che si prenderà un anno sabbatico nel 2010, dopo 25
anni di gestione, poi tornerà ma solo come analista o
consulente. All’industria dei fondi rimprovera di non aver
saputo riconoscere i sintomi della crisi creditizia prima che
esplodesse. “E’ stata completamente impreparata”, ha detto
Rodriguez durante la Morningstar investment conference di
Chicago, “perché i manager sono troppo occupati a seguire i loro
benchmark”. Al settore, chiede più coraggio nell’andare
controcorrente e nello spiegare ai risparmiatori i deludenti
risultati degli ultimi anni, non nascondendosi dietro gli slogan
commerciali.
La crisi ha segnato l’industria dei fondi e sta portando a una
profonda ristrutturazione del settore. A livello globale si sono
aperti i balletti per fusioni e acquisizioni. Il colpo più
grosso lo sta mettendo a segno BlackRock che ha annunciato di
voler acquisire Barclays Global Investors. Se l’operazione andrà
in porto la casa di investimento di New York diventerà la più
grande al mondo, con un patrimonio in gestione di circa 2,1
trilioni di euro. E ci sono tanti altri operatori che sono in
campagna acquisti, tra cui BNY Mellon, Aberdeen e GLG. Altri
asset manager si sono già mossi da tempo come Henderson Global
Investors con New Star Am e Société Générale am con Crédit
Agricole.
Il fermento, che è tipico dei mercati maturi, ha toccato anche
l’Italia. Procede l’aggregazione tra Anima e Bipiemme Gestioni,
mentre altre realtà sono in fase di riassetto. Monte Paschi ha
fatto confluire le sue attività di asset management in una nuova
società partecipata per il 67% dal fondo Clessidra. Inoltre,
continuano i rumor sulla possibile vendita di Fideuram, per
altro smentita da Intesa Sanpaolo, che controlla la società. E
non è un mistero che Unicredit sia in cerca di un acquirente
interessato ad avere una partecipazione in Pioneer Investments.
Le ragioni dell’ondata di fusioni e acquisizioni sono
essenzialmente due. La prima è che le banche, travolte dalla
crisi finanziaria, sono alla disperata ricerca di soluzioni per
rafforzare i loro margini e quindi vogliono disfarsi del
risparmio gestito che non è più considerato un asset strategico.
La seconda, invece, riguarda le valutazioni delle società, che
sono scese molto. Non a caso i possibili acquirenti sono, oltre
le case di investimento concorrenti, i fondi di private equity,
che in alcune realtà intravedono forti potenzialità di crescita
futura.
Esiste, però, un terzo aspetto che non va sottovalutato. Il
mercato del risparmio gestito, in particolare quello europeo, è
saturo. Nel Vecchio continente sono venduti circa 35 mila fondi,
contro gli 8 mila degli Stati Uniti e alcuni sono troppo piccoli
per sopravvivere in modo redditizio. I forti riscatti dell’anno
scorso hanno aggravato questa situazione, provocando un’ondata
di aggregazioni e liquidazioni di comparti (secondo le
statistiche Morningstar, questa attività è aumentata del 60% nel
primo trimestre 2009 rispetto allo stesso periodo dell’anno
scorso). Oggi, che gli investitori si stanno riaffacciando sul
mercato del gestito è importante che questi cambiamenti non
ledano i loro interessi, ma vadano nella direzione di una
maggior redditività per i risparmiatori e quindi di una
diminuzione dei costi.
Fonte
-
MorningStar.it
|
Rally:
non è mai troppo tardi per salire sul treno
09 Giugno 2009 20:59 NEW YORK - di
Brett Arends
________________________________________
Gli investitori che a marzo sono scappati dal mercato
quando ha toccato il fondo fanno ancora in tempo a tornare sui loro
passi. Non bisogna avere paura di rimanere scottati. Ecco a chi
rivolgersi e quali titoli comprare.
La scorsa settimana ho ricevuto una email di una donna disperata,
che a inizio marzo in preda al panico ha venduto tutte le azioni in
suo possesso ed ha investito i suoi soldi nel mercato
obbligazionario. Questo perche’ ha assistito ad un balzo improvviso
dei prezzi dell’azionario, mentre nel frattempo i titoli di Stato
perdevano terreno. Ora non sa piu' cosa fare. Nella lettera mi
chiede preoccupata: "E’ troppo tardi per vendere nuovamente i titoli
di stato e tornare sul mercato azionario?
Sono sicuro che sono molte le persone che si trovano nella stessa
situazione. I numeri mostrano che molti investitori si sono liberati
del proprio pacchetto azionario proprio quando il mercato ha toccato
il fondo, nella prima settimana di marzo, preferendo comprare titoli
piu’ sicuri. Ora si sentono depressi perche’ sentono di aver perso
il treno e hanno paura di rimanere ancora scottati. Ecco alcuni
consigli:
- Prima di tutto, niente panico. Alcune delle analogie di cui la
gente si serve per analizzare il mercato sono sbagliate e spesso
controproducenti. L’azionario non e’ una barca che lascia il porto,
un treno che lascia la stazione o una macchina che accelera
all’uscita della curva. Percio’ non dovete pensare che l’unica
soluzione sia quella di rientrare nell’azionario il prima possibile,
prima che sparisca dalla vostra vista. Rilassatevi. Ci sara’ sempre
una buona opportunita da sfruttare.
- Non sentitevi obbligati a fare un investimento molto grande. E’
sempre preferibile andare per piccoli passi, spostando, per esempio,
il vostro portafoglio del 20% alla volta. Le grandi scommesse sono
sempre molto rischiose e raramente ce n’e’ veramente bisogno.
- In situazioni di questo tipo, gli esperti finanziari spesso
consigliano di "parlare con un consigliere finanziario di fiducia".
E’ un buon consiglio, ma se aveste avuto un consulente finanziario
capace, probabilmente non vi ritrovereste nella situazione in cui
siete ora. Trovarne uno bravo e’ un’impresa difficile. Rifarsi al
curriculum, come ai titoli conseguiti, e’ un buon inizio. Ma non
garantisce l’eccellenza. E’ piu’ semplice trovare un buon manager di
fondi comuni, piuttosto che un buon consigliere finanziario e
ricordate che non otterrete mai una buona dritta dalla cognata o da
un amico al corso di golf.
- Invece i fondi di investimento comuni di buona qualita’, come i
vari "market neutral", "asset allocation" e "absolute return",
potrebbero fare al caso vostro e prenderebbero le decisioni al
vostro posto. I manager hanno la flessibilita’ per investire dove
ritengono che ci siano le migliori opportunita’, senza tenere conto
di analisi tecniche, indici di riferimeto e altre distrazioni. Sono
in grado di tenere da parte i soldi per molto tempo se non trovano
niente di potenzialmente vantaggioso da comprare. Molti di loro si
servono di strumenti derivati per coprirsi dal rischio rappresentato
dai mercati azionari. Tra i fondi degni di nota, vi sono Hussman
Strategic Total Return (HSTRX), Federated Market Opportunity (FMAAX),
Leuthold Core (LCORX), FPA Crescent (FPACX) e BlackRock Global
Opportunity (MALOX). Si tratta di fondi che con molta probabilita’
renderanno meno di un mercato rialzista, ma faranno meglio in un
contesto di mercato ribassista e pertanto possono essere una buona
soluzione.
- Alcuni commentatori vi diranno di "focalizzarvi sugli obiettivi a
lungo termine" e considerare qual’e’ la vostra tolleranza al
rischio. Ovviamente i consigli sono sensati. Per esempio non
dovreste tenere nell’azionario i soldi di cui potreste avere bisogno
nei prossimi anni. Ma, al contrario di quanto si potrebbe pensare,
non sono la panacea di tutti i mali. Un portafoglio investimenti di
10 anni e uno di 30 anni hanno lo stesso obiettivo: ottenere il
miglior risultato possibile con il minimo rischio. E, tolleranza o
non tolleranza al rischio, non conosco nessuno che voglia perdere i
propri soldi.
- State alla larga da chiunque vi suggerisca di investire con
aggressivita’ per catch up. Una teoria che gli investitori che
scommettono ingenti somme di denaro in asset moltio rischiosi,
riceveranno immediatamente ritorni piu’ alti, nonostante la
volatilita’. Niente di piu’ sbagliato. Dev’essere per questo che
Warren Buffett, che premia la conservazione del capitale, ha
guadagnato cosi’ pochi soldi. La verita’ e’ che i profitti non
arrivano magicamente dagli investimenti piu’ volatili. Vengono
sempre da investimenti oculati in asset sottovalutati, pertanto
bisogna avere pazienza.
- Quali sono i titoli sottovalutati? Non c’e’ una risposta a questa
domanda, sarebbe troppo facile, ma come ha sottolineato il mio
collega Jason Zweig sabato scorso, nonostante il rally degli ultimi
tre mesi, le blue chip di "alta qualita’" del Dow rappresentano
ancora un rischio molto basso e hanno ancora una valutazione
vantaggiosa. Questi titoli sono stati i piu’ colpiti nel periodo
piu’ critico per il mercato. Sfortunatamente, sono pochi i titoli
economici al momento, rendendo difficile la scelta.
- Infine non abbandonate il mercato obbligazionario completamente.
E;’ come abbandonare l’azionario solo perche’ i titoli stanno
perdendovalore. Al contrario, guardate quello che avete in mano. I
titoli protetti dall’inflazione e quelli a breve termine sono meno
esposti ad un’eventuale impennata dell’inflazione. Se siete nel
dubbio, un fondo obbligazionario gestito come Pimco Total Return
Fund di Bill Gross, il piu’ grande fondo obbligazionario al mondo,
potrebbe fare al caso vostro.
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Fonte
- Finanza & Mercati
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Peggio
alle spalle. Dico si alle borse
09 Giugno 2009 22:59 MILANO - di
Massimiliano Malandra
Nigel Bolton - una
carriera a capo del team azionario Europa, prima in
Citigroup, poi in Swip e dal 2007 in BlackRock
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«Per l’economia il peggio sembra passato. E anche in
Borsa dovremmo esserci ormai lasciati alle spalle i minimi di
marzo». Nigel Bolton - una carriera a capo del team azionario
Europa, prima in Citigroup, poi in Swip e dal 2007 in Blackrock - è
sicuro della propria analisi. Infatti da febbraio i suoi fondi hanno
iniziato a sovrappesare il comparto azionario.
Mr Bolton, cosa le fa credere che sia già tutto finito?
In realtà non è tutto finito, ma di sicuro il punto più basso della
recessione lo abbiamo superato. L’arsenale di misure economiche
schierato dai governi in tutto il mondo è stato gigantesco. E gli
effetti proseguiranno in misura amplificata nei prossimi mesi. Gli
stimoli fiscali hanno un orizzonte di utilizzo ancora lungo, e gli
interventi di quantitative easing delle banche centrali hanno
funzionato: la creazione di moneta nel sistema finanziario hanno
fornito combustibile all’economia.
Gli economisti si sono lanciati in una serie di ipotesi sulla
«forma» di questa recessione: a L, a U, a W. Lei che ne pensa?
Credo che queste ipotesi siano state sorpassate dagli eventi. A
questo punto mi pare più corretto un andamento economico che ricorda
il simbolo della «radice quadrata». Quindi una V con una linea
orizzontale, costruita su tre passaggi: 1) blocco del turnover di
scorte, il cosiddetto destocking; 2) la ricostruzione dei magazzini;
3) la fase attuale di assestamento, anche se spesso turbolenta.
Cosa l’ha spinta fin da febbraio sovrappesare il mercato
l’azionario?
Uno sguardo ai multipli relativi dei vari settori azionari europei
spiega molto bene la situazione in cui eravamo. I settori più
difensivi, dalle utility ai consumi di base, dall’healthcare alle
tlc, trattavano tutti con i ratio più elevati degli ultimi 30 anni
(si vedano i due grafici in basso in pagina, ndr). Il contrario
ovviamente, per industriali, beni di consumo, tecnologici, che
viaggiavano a multipli estremamente a sconto. Un’inversione era
quindi nei fatti.
E ora?
Ora la situazione si è quasi ribaltata. Il rally, da una parte, ha
«scaricato» i multipli dei difensivi e, dall’altra, ha riportato
quelli dei settori ciclici su valori più consoni. Questo ci ha
indotto, pur mantenendo posizioni importanti sugli industriali, a
tornare ad acquistare anche i difensivi.
Per esempio?
Vediamo le nostre principali 10 partecipazioni. Fra gli industriali,
in Francia abbiamo Schneider e in Germania Daimler e Man. Ma ora
siamo tornati a puntare anche su tlc, con Deutsche Telekom, sulle
utility con British Gas e sul pharma con Novo Nordisk. Poi c’è l’energy.
Che dire sull’energy vista la nuova impennata del greggio?
Parto dal presupposto che fare previsioni sulle quotazioni del
petrolio è quasi impossibile e quindi inutile. Certo abbiamo
posizioni su British Petroleum e Tullow Oil, ma la view sul settore
rimane neutrale.
Infine l’incognita finanziari...
Anche in questo caso le valutazioni che erano a livelli veramente
ridotti e ora si sono riportate a valori più consoni. Istituti che
attualmente non valgono nemmeno i mezzi propri, una volta passata la
tempesta torneranno a fare utili e ad essere redditizi, visto che
sono lo snodo vitale dell’economia. Penso anche al real estate
commerciale in Gran Bretagna: rappresenteranno una bella sorpresa
per chi vi investe.
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Fonte
- Borsa & Finanza
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Martedì 16
Giugno
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Mercoledì 17
Giugno
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Giovedì 18
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SOROS SPARA AD ALZO ZERO
SUI CDS: SONO DISTRUTTIVI
15 Giugno 2009 02:20 NEW YORK
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di WSI ______________________________________________
Il miliardario ungherese da
Pechino dice che i derivati sono fuorilegge e non dovrebbero
essere nemmeno scambiati sui mercati. "Piu' ne sento parlare e
piu' mi rendo conto di quanto siano tossici".
Gli strumenti finanziari derivati legati al credito, noti con il
nome di Credit Default Swap (CDS), sono "strumenti di
distruzione" di massa che dovrebbero essere vietati. Lo ha detto
oggi l'investitore miliardario George Soros, ripetendo un
concetto gia' espresso prima della crisi.
Nel corso di un intervento tenuto a Pechino dinanzi ad una
comunita' di banchieri, Soros ha sottolineato che l'asimmetria
esistente tra il rischio e il ritorno insita per natura negli
strumenti CDS esercita una pressione al ribasso cosi' forte sui
titoli a reddito fisso sottostanti i contratti, che le aziende e
gli istituti finanziari possono facilmente finire per essere
messi in ginocchio.
"Alcuni strumenti derivati non dovrebbero essere nemmeno
scambiati. Mi riferisco ai Credit Default Swap. Piu' ne ho
sentito parlare e piu' mi sono reso conto di quanto siano
tossici", ha detto durante il suo intervento.
"I CDS sono strumenti di distruzione che dovrebbero essere
banditi dalla legge", ha detto Soros nel corso della riunione
organizzata dall'Istituto di Fianza Internazionale, i cui membri
- per lo piu' banche e istituti finanziari - sono partecipanti
attivi nell'enorme mercato dei CDS.
Speculando sulle obbligazioni acquistando un contratto CDS non
presenta rischi molto alti, ma offre un ritorno dal potenziale
illimitato. Al contrario, vendere CDS offre un profitto esiguo a
fronte di rischi praticamente illimitati, ha precisato Soros.
Il CDS e' uno strumento di swap che ha la funzione di trasferire
l'esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso tra le
parti e viene spesso utilizzato con la funzione di polizza
assicurativa o copertura per il sottoscrittore di
un'obbligazione.
USA, I MERCATI SONO
TORNATI ALLA NORMALITA'
15 Giugno 2009 02:42 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Chi si rivede: Abby Joseph Cohen
(Goldman Sachs). Giudica esagerati i cali visti tra fine 2008 e
inizio 2009. L'azionario ora si trova semplicemente dove
dovrebbe essere, anche se l'avversione al rischio e' ancora
alta. S&P500: oltre 1050 in 6-12 mesi.
Da marzo i mercati finanziari Usa sono "tornati alla normalita'",
con gli operatori che li hanno ricondotti semplicemente dove
dovevano essere, secondo il parere della senior investiment
strategist di Goldman Sachs, Abby Joseph Cohen.
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In un'intervista rilasciata a Bloomberg, Cohen ha sottolineato
che "quello cui stiamo assitendo ora e' semplicimente un
ripristino delle condizioni in cui il mercato dovrebbe essere",
ha detto la Cohen durante l'intervista rilasciata a Bloomberg,
che sara' trasmessa stasera negli Stati Uniti. "Questa
situazione e' molto piu' vicina alla normalita' di quanto non
sia stata negli ultimi 18 mesi".
Tuttavia, sempre secondo Cohen, la situazione non e' "ancora del
tutto normale". Gli investitori continuano infatti ad essere
piu' avversi al rischio del solito.
Cohen e' nota per le posizioni ottimiste tenute durante gli anni
novanta, quando scommise su un rally del mercato azionario. Nel
marzo del 2008 Goldman Sachs ha deciso di sostituirla dal suo
incarico di capo dell'unita' che si occupa di fare previsioni
sul mercato azionario Usa.
Il primo maggio scorso, la Cohen ha detto che l'indice allargato
Standard & Poor’s 500 potrebbe balzare sino a quota 1050 e oltre
nei prossimi sei, dodici mesi. L'S&P ha archiviato la seduta di
ieri a 942.43 punti, che si confrontano con gli 872.81
registrati alla chiusura del 30 aprile.
S&P 500 CALERA' A 800
PER RISALIRE A QUOTA MILLE ENTRO FINE 2009
15 Giugno 2009 03:15 NEW YORK
-
di xxx ______________________________________________
Il benchmark azionario
probabilmente scivolera' del 10% dai livelli attuali, ma ad ogni
modo finira' l'anno in netto rialzo. L'economia Usa registrera'
un miglioramento notevole, ma restera' sotto i livelli di
parita'. Parla Bob Doll (BlackRock).
L'indice allargato S&P 500 potrebbe perdere circa il 10% dai
livelli attuali, ma comunque finira' l'anno intorno ai 1000
punti. A sostenerlo e' Bob Doll, vice presidente e direttore
finanziario della divisione azionaria di BlackRock.
Per l'S&P 500 abbiamo un target di 1000 punti dall'inizio
dell'anno e rimaniamo della stessa idea", ha dichiarato Doll in
un'intervista rilasciata alla Cnbc. "So che una previsione di
questo tipo poteva apparire ingenua in marzo e potrebbe sembrare
pessimista ancora oggi, con il paniere che scambia intorno a
quota 900, ma penso che lo vedremo salire sino a 1000 punti.
Prima pero' potremmo assistere ad un calo sugli 800 punti".
L'economia statunitense registrera' un miglioramento notevole,
ma restera' "sfortunatamente sotto i livelli di parita'", ha
sottolineato Doll, secondo cui vi saranno molte operazioni di
"stock picking" quando il mercato iniziera' la risalita, anche
se questa non sara' costante.
Per quanto riguarda gli elevati tassi di interesse, infine, la
speculazione vista ultimamente ha probabilmente a che fare con
la normalizzazione delle circostanze, piuttosto che con i timori
legati all'inflazione. Secondo Doll, infatti, una volta che le
condizioni saranno tornate alla normalita' e' inevitabile
aspettarsi che i tassi salgano dai minimi storici toccati in
precedenza.
Fonte
- WallStreetItalia.com
|
Perché
avventurarsi sulle materie
prime
15 Giugno 2009 03:22 MILANO - di
*Nello Mascioni
*Nello Mascioni e'
lo pseudonimo di un importante private banker.
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Molti investitori si chiedono se siano maggiori i
rischi di una flessione del mercato rispetto a quelli di non
riuscire a cogliere l'ulteriore rialzo atteso per i prossimi mesi.
Dopo le pesanti performance negative da gennaio a metà marzo, tutti
i mercati azionari hanno recuperato pienamente le quotazioni di
inizio anno riportando, dopo il G20, una maggiore serenità presso
gli asset manager internazionali.
Anche il comparto obbligazionario ha vissuto, e continua a vivere,
movimenti repentini di mercati in conseguenza del continuo flusso di
informazioni che alternativamente conferma la ripresa con la sua
debolezza, il superamento del punto più debole del ciclo economico
con il timore di un ciclo a W, caratterizzato cioè da onde lunghe
che si susseguono.
La domanda che molti si fanno è se sia possibile a questo punto
individuare punti certi, ancore sulle quali costruire strategie di
investimento per i prossimi anni. A ben vedere l'ancora maggiore di
cui oggi godono i mercati è proprio la certezza dell'incertezza: il
che si traduce in una strategia di investimento ancora prudente.
I bilanci bancari nel 2009 saranno influenzati da un rialzo dei
crediti in sofferenza, i consumi sono ancora relativamente deboli,
la disoccupazione continuerà a crescere anche in presenza di un
miglioramento del ciclo economico internazionale. Le imprese
industriali hanno colto il sussulto della domanda solo per ridurre
il peso delle merci in magazzino di fatto continuano a navigare a
vista: se si considera anche la difficoltà nell'ottenimento del
credito bancario l'atteggiamento prudente degli imprenditori appare
ancora più comprensibile.
Eppure i mercati hanno recuperato oltre il 40% dai minimi di marzo
ed alcuni titoli hanno raddoppiato o triplicato le quotazioni
nell'arco di due mesi e mezzo. Quali sono allora i rischi e quali le
opportunità? Il rischio principale è quello di inseguire nelle
prossime settimane un mercato che sembra aver anticipato uno
scenario meno negativo di quello atteso fino a gennaio;
l'opportunità che, superato questo rischio, il mercato presenta temi
di investimento particolarmente interessanti che vanno al di là
della emotività attuale o delle dinamiche di breve termine dei
singoli titoli.
Partiamo dal presupposto che il mondo abbia superato il rischio di
una implosione: se esso non è imploso in una nuova depressione e non
implode, allora l'economia internazionale tornerà gradualmente e
lentamente su un sentiero di normalità che si tradurrà in una
ripresa del commercio internazionale. La lentezza della ripresa sarà
imputabile alla doverosa riduzione della leva finanziaria da parte
delle banche internazionali e alla maggiore propensione al risparmio
delle famiglie americane dopo un decennio di spese eccessive (che
per onestà intellettuale occorre riconoscere aver finanziato la
lunga fase di espansione mondiale!).
Al tempo stesso la possibilità di aree economiche (Bric ed altri
dell'America Latina) di spingere sulla domanda interna dovrebbe dare
un contributo opposto ossia incrementare l'intensità della ripresa.
Proprio grazie a questa aspettativa di domanda interna è possibile
individuare le opportunità di investimento: le materie prime in
generale e soprattutto quelle considerabili in regime di scarsità.
La certezza dell'incertezza è infatti molto più riconducibile ai
bilanci societari ed alle stime degli analisti solitamente
sequenziali rispetto
alle performance di mercato, mentre è minore rispetto ad alcuni temi
sostanziali: 1) anche in un mondo che cresce debolmente, uno
spostamento anche
lieve nei consumi del petrolio si traduce in una pressione rilevante
al rialzo dei suoi prezzi;
2) un mutamento nelle abitudini alimentari di Cina e India hanno un
impatto rilevante su alcune materie prime agricole/alimentari; 3) la
scarsità del petrolio determina a sua volta una maggiore ricerca di
energia verde o di fonti
alternative: l'energia verde dei biocarburanti a sua volte genera
una minore disponibilità di terreni utili alla coltivazione di
materie prime alimentari i cui prezzi per effetto del punto 2
tenderanno a crescere, proprio perché vi è un limite alla
scalabilità della loro produzione.
È importante ricordare che l'investimento in materie prime deve
essere fatto da un investitore normale attraverso veicoli
specializzati che per completezza ricordo: fondi comuni o sicav
specializzate, Etf ed Etc. Questi strumenti
sono infatti liquidi e rappresentano un mix di materie prime (fondi
e Etf) o sono replicanti di singole commodity (Etc).
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Fonte
- Finanza & Mercati
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Bear
Market rally, una dovuta pausa
16 Giugno 2009 12:12 BIELLA - di
*Maurizio Milano
*Questo documento e'
stato preparato da Maurizio Milano, responsabile Analisi
Tecnica del Gruppo Banca Sella
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La reazione tecnica di forte rimbalzo dai minimi del
6-9 marzo – dopo un primo bimestre in forte lettera ed una discesa
dei principali indici azionari mondiali verso i livelli del 1996
(Usa), 1997 (Europa) ed addirittura 1994 (Italia) – ha consentito
finora un recupero generale superiore al 40% (per il FTSE/Mib
addirittura +68%), con gli indici che si stanno avvicinando a
livelli critici di resistenza.
Il trend rimane rialzista, nonostante una perdita di spinta nelle
ultime settimane, che sembra comunque più una pausa di
riaccumulazione che non l’anticipo di un prossimo storno. Gli
obiettivi "finali" del bear market rally si stanno comunque
avvicinando: possiamo ipotizzare che la salita abbia percorso circa
i due/terzi – tre/quarti del cammino di rialzo che la lettura dei
grafici lascia al momento ipotizzare.
Pur non emergendo ancora segnali di esaurimento né, tanto meno, di
inversione, è chiaro che le prospettive di risk-reward diverranno
man mano meno attraenti all’avvicinarsi degli obiettivi "finali".
Visto che il quadro tecnico più ampio rimane improntato alla
debolezza (il major trend rimane infatti quello di un mercato Orso),
a livello operativo si conferma quindi l’opportunità di monetizzare
gli utili realizzati nell’ultimo trimestre all’avvicinarsi degli
obiettivi indicati.
Per le prossime settimane è importante che eventuali prese di
beneficio non siamo marcate: una correzione tra il 5 ed il 10% dai
livelli correnti sarebbe fisiologica e non comprometterebbe la
ripresa del rally nelle prossime settimane. Da un punto di vista
operativo sono ancora possibili acquisti sulla debolezza ma il focus
deve ora spostarsi su una exit strategy che consenta di alleggerire
l’esposizione all’avvicinarsi degli obiettivi, portando a casa gli
utili realizzati ed abbassando il profilo di rischio.
A livello settoriale è probabile che l’ultima fase del rally sia
trascinata dall’energia, dalle utilities e dall’alimentare, che
negli ultimi 3 mesi sono stati sottoperformanti rispetto a banche ed
auto. Le prospettive per l’azionario nei mesi a venire – una volta
che saranno raggiunti gli obiettivi indicati, corrispondenti grosso
modo ai livelli di inizio ottobre 2008, a circa un +15-20% dai
livelli correnti – non appaiono particolarmente attraenti.
Esauritosi il bear market rally, l’asset da privilegiare tornerà
perciò ad essere la liquidità. Se poi la correzione (estiva?) si
arresterà – com’è lecito ipotizzare – ben al di sopra dei minimi di
inizio marzo (un buon supporto sarebbero i minimi di maggio), allora
potremo concludere che il mercato entrerà in una lunga fase laterale
di riaccumulazione, in cui sarà premiante un’operatività di acquisti
sulla debolezza e vendite sulla forza.
Per il momento concentriamoci ancora sul "cavalcare" il bear market
rally, con un’attenzione crescente a gestire l’uscita.
Sul fronte volatilità implicita è proseguita la tendenza ribassista
degli ultimi mesi: la stabilizzazione del Vix al di sotto del
supporto critico in area 35-37 ha dato un chiaro segnale distensivo
– confermato anche dalla discesa del Vix al di sotto del Vxn –,
innanzitutto sul settore finanziario e, a cascata, su tutto il
listino. Il ritorno sui livelli di volatilità di metà settembre 2008
(prima cioè del fallimento di Lehman e del conseguente crash
azionario di ottobre-novembre) dà un segnale molto positivo,
aumentando la probabilità che i minimi del 6-9 marzo siano
effettivamente "il" minimo del mercato.
I segnali di ripresa dell’azionario hanno trovato conferma anche sui
listini asiatici. Si segnala il fortissimo rialzo dell’India ed il
recupero di forza relativa del Giappone nelle ultime settimane.
Sempre in rialzo la Cina, mentre consolida sui massimi di periodo la
Corea.
Per l’India (indice Sensex30, ticker Bloomberg SENSEX) il rally si è
spinto, in accelerazione, fino ad un picco a 15600 il 12 giugno
(+93,6% dai minimi). La tenuta del supporto critico in area
13500-14000 (PC 14785) manterrebbe un’impostazione tonica, anche se
la forte resistenza a 16000 potrebbe arrestare la salita per le
prossime settimane (resistenza successiva, chiave, in area
17250/750).
Per la Cina (Indice Shanghai Composite, ticker Bloomberg SHCOMP), si
conferma l’impostazione rialzista, dopo i minimi del 28.10.2008 a
1665. Il rally ha finora toccato un massimo a 2829 l’11.06.2009
(+69,9% dai minimi). La tenuta del supporto in area 2540-2600 (PC
2789) manterrebbe un’impostazione tonica, con prossimo obiettivo la
resistenza critica a 2950 (estensioni verso 3200).
Per la Corea (indice Kospi, ticker Bloomberg KOSPI), si è assistito
ad un rialzo dal minimo del 3 marzo a 993 fino ad un picco a 1438 il
2 giugno (+44,8% dai minimi). La tenuta del supporto in area 1300/15
(PC 1412) manterrebbe un’impostazione tonica, con obiettivo la forte
resistenza a 1500.
Prosegue l’ottimo andamento dell’indice brasiliano Bovespa (ticker
Bloomberg IBOV): dai minimi di fine ottobre 2008 a ridosso di 29400
l’indice sudamericano ha invertito al rialzo, con 4 mesi di anticipo
rispetto agli indici principali, ed ha messo a segno una risalita
con un picco a 54955 il 2 giugno (+86,9% dai minimi). La tenuta del
supporto in area 48300-50000 (PC 52807) manterrebbe un’impostazione
rialzista anche per i prossimi mesi, con obiettivo la resistenza
critica a 58000 ed estensioni verso la soglia psicologica di
resistenza a quota 60000.
Prosegue l’ottimo andamento dell’indice russo Micex (ticker
Bloomberg INDEXCF): dai minimi di fine ottobre 2008 a ridosso di
493,6 ha invertito al rialzo, con 4 mesi di anticipo rispetto agli
indici principali, ed ha messo a segno una risalita con un picco a
1227 il 2 giugno (+148,5% dai minimi). La tenuta del supporto in
area 1000/50 (PC 1092) manterrebbe un’impostazione rialzista anche
per i prossimi mesi: obiettivo 1250 e quindi la resistenza chiave in
area 1400-1550).
Dopo la correzione degli ultimi 3 mesi, l’obbligazionario è ormai
prossimo a livelli di supporto importanti, ma un rimbalzo
significativo dei corsi potrà avvenire solo quando si sarà esaurito
il rally dell’azionario.
A livello valutario, il dollaro dovrebbe rimanere in una situazione
di ampia lateralità, con volatilità comunque elevata: contro euro
nell’intervallo 1,3400 (ext 1,3100) – 1,4340 (ext 1,4720); contro
yen nell’intervallo 93,55/85 – 101,50 (estensioni verso 103,75-104).
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di
positività in essere da fine febbraio – che interrompe la forte
discesa iniziata dai picchi di metà luglio 2008 – prosegua anche per
le prossime settimane. L’apprezzamento del petrolio (PC crude:
71,71; +90,9% circa dai minimi) e delle altre materie prime (PC
indice CRB: 260,19; +30% circa dai minimi) ha natura congiunturale,
ed è strettamente legato al rally dell’azionario. Ci sono quindi
ancora spazi di salita, ma gli obiettivi del rialzo si stanno
avvicinando.
Sul petrolio una forte resistenza è individuabile a 86, sull’indice
CRB in area 278,50-285. Un segnale di debolezza si avrebbe invece al
di sotto di 56,50 e di 236-40, rispettivamente (poco probabile).
Per l’oro (PC gold spot 935) è probabile prosegua la fase laterale
al di sopra del supporto in area 865-880 ed al di sotto della
resistenza in area 990-1006. Il trend rialzista dominante
riprenderebbe solo col superamento dei massimi in area 1006/33 (poco
probabile).
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Fonte
- Analisi Tecnica del Gruppo
Banca Sella
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Il curioso caso dei
distressed non più distressed
Monday, 15 June, 2009 at 17:40
- by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Come è possibile avere un mercato
dove ogni singolo emittente vede i propri spread migliorare,
anche quando i tassi di default sono previsti al 18% entro fine
anno, e pensare che tutto questo sia razionale?
E’ il caso del mercato dei cosiddetti leveraged loans, ossia i
prestiti ad aziende con rating speculativo. Persino le agenzie
di rating, di recente non esattamente conosciute per il loro
pessimismo, stimano che quasi un emittente su cinque sarà
insolvente entro la fine dell’anno. I recovery rate, ossia la
percentuale di recupero dei fondi durante un’amministrazione
controllata, nel caso dei primi default sono a dir poco
preoccupanti, fra un quinto e un decimo di quello che ci si
sarebbe aspettato: mentre nelle precedenti fasi di crisi, gli
emittenti speculativi erano soprattutto aziende che avevano
problemi organizzativi , in questa fase i problemi maggiori
arrivano da società acquisite da fondi di private equity tramite
LBO, operazioni che hanno moltiplicato il debito che grava sulle
operazioni industriali senza per questo avervi investito. Il
risultato è che, mentre nelle passate bancarotte i creditori
privilegiati recuperavano cifre fra il 70 ed il 90 per cento di
quanto investito, gli investitori odierni possono aspettarsi di
recuperare fra il due ed il venti per cento di quanto investito,
almeno secondo le aste per il regolamento dei CDS su questi
strumenti.
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Loans Vs Bond
Spread Realtive Value |
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Relative Change in
Loans and Bonds (Bps) |
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Eppure, il mercato sembra essere ancora preda di un rimbalzo
furioso dai minimi: per la prima volta da quest’autunno, lo
spread medio di mercato è sceso sotto i mille punti base,
uscendo dall’area definita “distressed”. La scorsa settimana,
quasi ogni singolo prestito sindacato e obbligazione societaria
è passato di mano o è stato valorizzato a valori migliori
rispetto alla settimana precedente.
E’ una bolla nella bolla, oppure Il Presidente Barack Obama ha
fatto il miracolo?
Fonte
- Zero
Hedge + Macromonitor
Una banca può
salvare una banca?
June 15th, 2009 by editor
-
di Mario Seminerio ______________________________________________
L’ultima edizione del Global
Financial Stability Report del Fondo Monetario Internazionale
stima che le banche europee avranno bisogno di iniezioni di
nuovo capitale da un minimo di 375 ed un massimo di 725 miliardi
di dollari, a fronte di una cifra compresa tra 275 e 500
miliardi di dollari per le banche statunitensi. Nessuno conosce
la reale entità di tale fabbisogno, naturalmente, ma quello che
appare evidente è che molte banche europee hanno seri problemi,
malgrado una regolazione apparentemente più rigorosa rispetto a
quella delle consorelle anglosassoni. Il mancato risanamento
delle banche europee è destinato ad avere un considerevole
impatto sull’economia della regione, dove l’intermediazione
creditizia è fondamentale nel finanziamento di imprese e
famiglie, che potrebbero quindi subire gli effetti di un
razionamento di credito erogato a condizioni più restrittive, in
attesa che gli accresciuti margini di interesse riparino i
bilanci delle banche.
Tentare di impedire questo impatto negativo sarà difficile,
anche se il buon andamento dei mercati finanziari e l’abbondante
liquidità che vaga per il pianeta alla ricerca di impieghi
remunerativi potrebbero essere d’aiuto nella raccolta di nuovo
capitale azionario, similmente a quanto sta accadendo negli
Stati Uniti, dove le banche stanno rapidamente colmando il
deficit di capitale quantificato negli esiti dello stress test
del Tesoro. Ma se il mercato non dovesse aiutare, gli stati
dovranno ipotizzare di rimettere mano al portafoglio, oltre ad
essere chiamati a dare una risposta al problema della
regolazione su base transnazionale del sistema creditizio,
attività dove il nazionalismo agisce da vera iattura, impedendo
la razionalizzazione del sistema creditizio europeo. La Bce si
accinge poi ad attuare il proprio programma di easing
quantitativo, o più propriamente creditizio. A partire dal mese
di luglio, e per un periodo di 12 mesi, l’isituto di Francoforte
comprerà fino a 60 miliardi di euro di covered bonds,
obbligazioni che hanno come sottostante dei prestiti, spesso ma
non esclusivamente mutui ipotecari. La manovra resta per ora
avvolta nella nebbia dell’assenza di concrete indicazioni
operative.
Trichet si troverà poi a dover affrontare altre contingenze
avverse, come la condizione del bilancio pubblico americano. Con
2000 miliardi di dollari di emissioni di titoli pubblici
previste per quest’anno e solo 300 miliardi di acquisti a fermo
da parte della Fed (di cui ad oggi ne sono stati eseguiti il 37
per cento), ci sono timori per il finanziamento del debito
federale. Con buona probabilità, il programma di acquisti della
banca centrale statunitense potrà (e dovrà) essere aumentato per
frenare l’ascesa dei rendimenti. La Fed, dovendo scegliere,
preferirà quindi rischiare una crisi del dollaro piuttosto che
ritrovarsi con una crisi di finanziamento del bilancio, anche
perché le passività estere nette degli Stati Uniti sono solo il
18 per cento del Pil, e per quasi il 90 per cento sono
denominate in dollari. Perciò, un dollaro più debole avrebbe un
impatto minimale sulle passività estere nette americane. Ma una
forte svalutazione del dollaro porrebbe gravi problemi ai paesi
dell’euro, che vedrebbero ulteriormente danneggiata la propria
capacità di esportare. A quel punto, il cerino tornerebbe
giocoforza nelle mani di Trichet, stretto tra una congiuntura
avversa ed i pressanti “inviti” di Angela Merkel a non seguire
la strada imboccata dalla Fed e dalla Bank of England.
Fonte
-
Liberal Quotidiano
DOLLARO, IL TREND
RIALZISTA HA IL FIATO CORTO
16 Giugno 2009 17:06 NEW YORK
-
di *Irwin Kellner
*Irwin Kellner
e' chief economist di MarketWatch ______________________________________________
Il rialzo del dollaro, il primo
dopo settimane di cali, non e' altro che un fuoco di paglia.
Quando si tratta di valute, azioni, obbligazioni o qualunque
altro asset finanziario, niente si muove in una direzione
precisa. Ci sono sempre alti e bassi, qualunque sia l'andamento
del trend.
Detto questo e sebbene sia stato positivo vedere il martoriato
biglietto verde tentare di rimbalzare, non credo che si tratti
di nulla piu' che di una timida reazione che avra' il fiato
corto nel contesto di un trend ribassista a senso unico. Molti
sono certi che assisteremo ad una svolta, ad una reazione. Le
loro ipotesi si basano su diversi fattori che giocano in favore
della valuta americana.
Tra questi i commenti del ministro russo durante la riunione dei
capi delle Finanze del G8. Dopo aver ripetuto per settimane che
avrebbe alleggerito la posizione negli asset espressi in dollari
e dopo aver suggerito che il dollaro dovrebbe essere rimpiazzato
da un basket di valute (tra cui il rublio), la Russia sembra
aver cambiato completamente idea e ha dichiarato che continuera'
a tenere dollari in portafoglio.
Notizie confortanti sono giunte anche dalla Cina, che detiene
ingenti quantita' di dollari. Pertanto e' ovviamente
nell'interesse della Cina che il biglietto verde si riscatti, in
modo tale che il valore degli asset di sua proprieta' cresca.
Non dimentichiamoci che la Cina (insieme al Giappne e ad altri
Paesi) e' un grande esportatore di petrolio. Un dollaro piu'
forte auimenterebbe il potere d'acquisto di greggio e di
qualsiai altra materia prima che si viene misurata in dollari.
Ma ci sono due fattori che cozzano con questi discorsi
ottimisti. Il primo e' che con un dollaro piu' forte sara' di
conseguenza anche piu' difficile uscire dalla fase di
recessione. Infatti le esportazioni dagli Stati Uniti costano di
piu' ai possessori di monete straniere, pertanto questi ultimi
tendenranno a rivolgersi a societa' meno cari.
La combinazione del rallentamento delle esportazioni e
dell'incremento delle importazioni puo' sferrare un uno due
tremendo al settore manifatturiero americano, finendo per
indebolire uno dei pilastri della crescita economica. E sa da un
lato e' indubbio che un dollaro forte tiene a freno
l'inflazione, al momento non e' una delle preoccupazioni
principali di chi si occupa di politica monetaria (anche se a
mio parere dovrebbe esserlo). Detto questo, il consiglio che do'
a Washington non e' affatto quello di indebolire deliberatamente
il bigliettto verde, nel tentativo di uscire dalla crisi. Lo
sappiamo tutti che il governo e' sempre a favore di un dollaro
forte, lo ha sempre fatto e sempre lo fara'.
Tuttavia e' difficile immaginare che Washington voglia cosi'
tanto che il dollaro si rafforzi, da arrivare a cambiare la
politica monetaria su misura.
La Federal Reserve continua a immettere dollari sul mercato ad
un ritmo sostenuto, nel tentativo di stimolare l'economia. La
carta liquida in circolazione e' in rialzo dell'11% rispetto
all'anno scorso, mentre la base monetaria e' aumentata del 110%,
mentre le riserve bancarie sono in rialzo di un impressionante
903% rispetto ad un anno fa. Con tutto questo denaro in
circolazione, il dollaro non puo' che prendere una strada:
quella del ribasso. E' un rapporto semplice e lineare, come
quello tra domanda e offerta.
PETROLIO: PERICOLO
PREZZI, IL BARILE A $250?
15 Giugno 2009 17:46 NEW YORK
-
di *Peter Cohan
*Peter Cohan
e' il presidente di Peter S. Cohan & Associates. Insegna
management al Babson College. Il suo ultimo libro pubblicato,
l'ottavo, si intitola "You Can't Order Change: Lessons from Jim
McNerney's Turnaround at Boeing". ______________________________________________
Nel caso vi stiate chiedendo
perche' i tassi di interesse sono balzati di pari passo con il
prezzo della benzina, la risposta e' semplice: la paura
dell'inflazione. Gli Stati Uniti hanno iniettato talmente tanto
denaro nell'economia, compresi $12800 miliardi nelle casse delle
banche e di altre societa' nell'ambito del piano di salvataggio
del governo, mentre al contempo la Fed ha tagliato i tassi guida
praticamente allo zero. E' normale che la gente abbia iniziato a
farsi domande sulla forza del dollaro.
Questa paura crea un'opportunita' di guadagno nei mercati
finanziari, la stessa che ha spinto le quotazioni del petrolio a
toccare quota $147 dollari al barile a luglio dell'anno scorso.
Ora l'amministratore delegato di Gazprom ha previsto che i
prezzi saliranno sino a $250 -- piu' di tre volte del valore
attuale di circa $71. Questa e' la previsione della quale i
trader stanno approfittando. Come puo' verificarsi un evento del
genere? Semplice. I trader scommmetto sul calo del dollaro e sul
balzo delle quotazioni del greggiol. Lo fanno speculando al
ribasso sul dollaro e comprando allo stesso tempo contratti
sull'oro nero.
Nonostante le previsioni per la domanda di greggio siano state
riviste al ribasso del 3% per il 2009, dall'inizio dell'anno
$3.8 miliardi sono stati investiti nei futures sull'oro nero e
sul gas. Peggio si mettera' per i consumatori e piu' i trader
cercheranno di sfruttare la situazione a loro vantaggio. Come se
non bastasse, i rendimenti del benchmark decennale del Tesoro
sono schizzati a quasi il 4% dal 2.5% di marzo.
Da quando i tassi sono utilizzati per stabilire il costo del
denaro per i mutui e altri prestiti, il balzo dei rendimenti ha
sempre finito per attenuare inevitabilmente le speranze di una
ripresa economica. Se i rendimenti stanno salendo, in parte e'
dovuto anche alle scommesse contro il dollaro dei trader.
Lo scenario attuale crea un dilemma per la Fed, che dall'inizio
della crisi ha gia' allargato il suo bilancio da $800 miliardi a
$2 mila miliardi. Se la Fed compra altri asset tossici, finira'
per complicare la situazione, iniettando altri dollari nel
mercato. Cio' alimentera' infatti ulteriormente le paure
inflative, non facendo altro che aiutare i trader sopra
menzionati.
Si rivelera' una mossa azzeccata, postitiva per la ripresa
dell'economia, solo se riuscira' ad allentare le pressioni sui
rendimenti, spingendoli sotto il range del 2.5%. Se invece
succedera' l'esatto contrario, il nostro sara' il peggiore dei
mondi possibile. Le paure dell'inflazione cresceranno ancora,
alimentando i tassi di interesse e i prezzi reali per i
consumatori, compromettendo la ripresa economica.
In uno scenario di questo tipo, ad arricchirsi saranno solo i
trader.
Fonte
estera
-
DailyFinance.com. |
Fonte
-
WallStreetItalia.com |
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L'entusiasmo
ha nascosto i rischi
15 Giugno 2009 08:39 MILANO - di
*Alessandro Profumo
L'autore è
amministratore delegato di UniCredit Group
________________________________________
Il risk management è una componente cruciale di ogni
strategia di creazione di valore e di massimizzazione del rendimento
del capitale investito da un'impresa. La crisi finanziaria iniziata
nell'estate 2007 ne ha rammentato la centralità. Da un lato ha
ribadito l'importanza del risk management per la crescita
sostenibile del valore e della profittabilità di un'impresa.
Dall'altro, ha reso tangibili i rischi di un suo malfunzionamento, e
ha sollevato giusti interrogativi sull'affidabilità complessiva
delle metodologie di risk management del sistema bancario.
Non è un elemento di poco conto, poiché l'evoluzione delle tecniche
di valutazione e gestione del rischio e lo sviluppo di mercati
liquidi per la sua negoziazione hanno innescato una profonda
trasformazione del settore bancario negli ultimi anni. Sono proprio
queste componenti che hanno agevolato un crescente trasferimento al
mercato di alcuni dei rischi cui la banca è tipicamente soggetta,
ponendo le basi per la nascita e l'espansione del modello bancario
cosiddetto originate-to-distribuite basato sulla cartolarizzazione
dei crediti. Questa trasformazione ha avuto l'effetto benefico di
liberare capitale bancario per l'attività creditizia, ma ha anche
trasformato parte dell'industria finanziaria in una sorta di grande
stanza di compensazione dei rischi. Un eccesso di entusiasmo ha
portato molti a dimenticare che la gestione del rischio, benché
evoluta e sofisticata, può migliorare le capacità di valutarlo e
prezzarlo e di selezionare i rischi da trattenere e da cedere al
mercato, ma non può eliminare i rischi stessi.
A mio avviso, ne emerge che una delle cause della
recente crisi potrebbe essere collegata proprio al fatto
che si sia ingenerata una errata convinzione che una
modellistica sempre più sofisticata e la diffusa
liquidità dei mercati potessero consentire una crescita
indefinita senza rischi. Questo diffuso errato
convincimento potrebbe avere pericolosamente ridotto la
prudenza di molte istituzioni, eccessivamente fiduciose
di poter cedere integralmente al mercato ogni rischio
non desiderato e rimanere esenti da ogni conseguenza.
La crisi, invece, ha rimarcato i limiti degli strumenti
di gestione del rischio e, allo stesso tempo, ha reso
evidente che non si può assumere che l'ampia liquidità
necessaria a una aggressiva strategia di
cartolarizzazione dei crediti sia sempre disponibile. In
questo contesto mi pare sia emerso che la selezione del
livello e della tipologia di rischio da assumere e della
quota da gestire direttamente, oltre che la sua
effettiva gestione, sono e continueranno a essere la
principale fonte di creazione di valore per tutte le
aziende, in particolare nel settore finanziario e
creditizio.
Forte di questa convinzione, credo che sia opportuno
intervenire per migliorare la cultura e le tecniche di
risk management applicate dal sistema bancario alla luce
delle criticità emerse dalla crisi, e che banche e
regolatori lavorino insieme in tale direzione. Non si
tratterà semplicemente di rivedere indiscriminatamente
al rialzo i requisiti di capitale a fronte delle diverse
tipologie di rischio - intervento che certamente
rafforzerebbe la stabilità finanziaria delle banche
compromettendone la redditività - ma di migliorare
significativamente le capacità valutative e predittiva
dei sistemi di risk management in modo da garantire una
maggiore coerenza tra le coperture di capitale e gli
effettivi rischi assunti.
Mi pare che fra le aree di miglioramento che sono emerse
in maniera evidente dalla crisi vi è il tema dello
stress-testing, una tecnica di simulazione finalizzata a
studiare le conseguenze di condizioni di rischio
estreme. I modelli attuali tendono a valutare gli
effetti di crisi future sulla base dell'osservazione
delle dinamiche passate. Queste tecniche, seppur
affidabili in condizioni di rischio confrontabili allo
status quo, non sono in grado di prevedere gli effetti
di situazioni estreme e, di conseguenza, quelli di una
crisi particolarmente severa.
Ritengo cruciale che i modelli di stress-testing
valutino con maggiore attenzione i potenziali effetti di
condizioni di rischio particolarmente negative che,
seppur di remota realizzabilità (cosiddetto tail risk),
possono causare un marcato e generale peggioramento
delle condizioni complessive del mercato. Ciò fornirebbe
una migliore rappresentazione dei rischi complessivi cui
le banche sono soggette e le aiuterebbe a indirizzare in
maniera più adeguata le opportune azioni di
immunizzazione o di trasferimento dei rischi al mercato.
Inoltre, mi pare che sia emerso con chiarezza che il
risk management deve uscire da una dimensione di mera
compliance ai vincoli imposti dai regolatori, per
diventare uno strumento quotidiano di supporto ai
manager nella loro attività decisionale, sebbene senza
sostituirsi in alcun modo alla loro capacità di
valutazione discrezionale e indipendente.
In conclusione, se la qualità dei manager e la loro
sensibilità al rischio sono gli elementi più importanti
su cui le banche devono investire per ottimizzare il
loro profilo di rischio e massimizzare la loro capacità
di creazione di valore, mi pare che un sistema di risk
management affidabile ed efficiente sia di estrema
importanza e valore per consentire ai manager stessi di
assumere decisioni informate e razionali.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Sabato 20
Giugno
2009 |
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Martedì 23
Giugno
2009 |
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Martedì 30
Giugno
2009 |
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Qualcuno
impedisca che si formino le bolle
18 Giugno 2009 08:26 MILANO - di
George Soros
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Non sono a
favore di una regolamentazione eccessiva. Dopo esserci spinti troppo
in là sulla strada della deregulation, contribuendo alla crisi che
stiamo vivendo, dobbiamo resistere alla tentazione di sbilanciarci
troppo sull'altro versante. I mercati sono imperfetti, è
vero, ma i regolatori lo sono ancora di più. Non sono soltanto
umani, sono anche burocratici e soggetti a influenze politiche: per
questo la regolamentazione va mantenuta a livelli minimi.
La riforma
dovrebbe essere impostata su tre princìpi. Il primo è
che i regolatori, dal momento che i mercati tendono a
creare bolle speculative, devono accettare di assumersi
la responsabilità di impedire che tali bolle si gonfino
a dismisura.
L'ex presidente
della Federal Reserve Alan Greenspan e altri hanno
espressamente rifiutato questa responsabilità. Se
i mercati non sono in grado di riconoscere una bolla, è
la loro tesi, nemmeno i regolatori ne sono in grado. È
vero, ma le autorità devono comunque assumersi questo
compito, anche sapendo di essere destinate a sbagliarsi.
Potranno contare sul beneficio di un feedback da parte
dei mercati, che consentirà loro di ricalibrare
costantemente la propria azione e correggere gli errori.
Il secondo
principio è che, per controllare le bolle, non è
sufficiente tenere sotto controllo la massa monetaria,
bisogna tenere sotto controllo anche la disponibilità di
credito.
E questo non può essere fatto solo ricorrendo a
strumenti monetari, bisogna usare anche sistemi di
controllo del credito come depositi di garanzia e
requisiti patrimoniali minimi. Attualmente questi
valori vengono stabiliti indipendentemente dagli umori
del mercato. Il compito delle autorità consiste anche
nel reagire a questi umori. I depositi di garanzia e i
requisiti patrimoniali minimi devono essere aggiustati
in base alle condizioni del mercato. I regolatori
dovrebbero variare il rapporto prestito/valore sui mutui
commerciali e residenziali allo scopo di ponderare il
rischio e prevenire bolle immobiliari.
Il terzo
principio è che bisogna ridefinire il concetto di
rischio di mercato.
La teoria del
mercato efficiente sostiene che i mercati tendono verso
l'equilibrio e le deviazioni avvengono in modo casuale:
inoltre, i mercati teoricamente dovrebbero funzionare
senza discontinuità nella sequenza dei prezzi. In queste
condizioni i rischi di mercato possono essere equiparati
ai rischi relativi ai singoli operatori di mercato.
Fintanto che essi riescono a gestire adeguatamente i
propri rischi, i regolatori non dovrebbero avere nulla
da ridire.
Ma la teoria del
mercato efficiente è irrealistica. I mercati sono
soggetti a squilibri che i singoli operatori possono
ignorare se pensano di poter liquidare le proprie
posizioni. I regolatori non possono ignorare questi
squilibri. Se
troppi operatori sono sullo stesso lato, diventa
impossibile liquidare le proprie posizioni senza
provocare una discontinuità o, peggio, un collasso. In
quel caso le autorità potrebbero essere costrette a
intervenire in soccorso. Questo significa che nel
mercato esiste un rischio di sistema, oltre ai rischi
che la maggior parte degli operatori di mercato
percepivano prima della crisi.
La
cartolarizzazione dei mutui ha aggiunto un aspetto nuovo
al rischio di sistema. Gli esperti d'ingegneria
finanziaria dicevano che quello che stavano facendo era
ridurre il rischio diversificandolo geograficamente: in
realtà lo stavano incrementando creando una situazione
di agency problem. Gli agenti avevano più interesse a
massimizzare il reddito da commissioni che a proteggere
gli interessi dei detentori dei titoli. Questa è la
verità che è stata ignorata sia dai regolatori che dagli
operatori di mercato. Per evitare che il fenomeno
si ripeta è necessario che gli agenti abbiano un
interesse diretto, ma il 5% proposto dal governo è più
simbolico che sostanziale. Il requisito minimo a mio
parere sarebbe il 10 per cento. Per consentire possibili
discontinuità nei mercati, i titoli detenuti dalle
banche dovrebbero avere un rating di rischio più alto di
quello stabilito dagli Accordi di Basilea.
Le banche dovrebbero pagare la garanzia implicita di cui
godono sfruttando meno la leva finanziaria e accettando
restrizioni sul modo d'investire i soldi dei
correntisti; non dovrebbe essere consentito loro di
speculare per proprio conto usando soldi altrui.
Probabilmente
non è pratico separare le banche d'affari dalle banche
commerciali, come fecero gli Stati Uniti nel 1933 con la
legge Glass-Steagall. Ma dev'esserci una barriera
interna che separa il proprietary trading (l'attività di
compravendita titoli che una banca effettua per conto
proprio) dal commercial banking.
Il proprietary
trading dev'essere finanziato con il capitale proprio
della banca. Se una banca è troppo grande per essere
lasciata fallire, i regolatori devono impegnarsi ancora
di più per proteggere i suoi capitali da rischi
indebiti. Devono regolamentare i compensi dei
trader che agiscono per conto diretto della banca,
creando un bilanciamento tra rischi e ricompense. In
questo modo si potrebbe dirottare il proprietary trading
verso gli hedge fund, che sono un contesto più
appropriato a gestirlo. Anche gli hedge fund e gli altri
grandi investitori devono essere attentamente monitorati
per accertarsi che non creino pericolosi squilibri.
Per concludere,
ho opinioni molto marcate sulla regolamentazione dei
derivati. L'opinione prevalente è che questo tipo di
prodotti finanziari andrebbe scambiato su mercati
regolamentati. Non è sufficiente. L'emissione e lo
scambio di derivati devono essere regolamentati
rigorosamente, come i titoli azionari.
Le autorità
devono garantire che i derivati siano omogenei,
standardizzati e trasparenti. I derivati personalizzati
servono solo a migliorare il margine di profitto di chi
li ha concepiti. Anzi, alcuni tipi di derivati non
dovrebbero proprio essere commercializzati. Penso in
particolare ai Cds (credit default swaps).
Si pensi alla
recente bancarotta della AbitibiBowater e a quella della
General Motors. In entrambi i casi, alcuni
obbligazionisti detenevano dei Cds e avevano da
guadagnare più da un fallimento che da una
riorganizzazione. È come comprare un'assicurazione sulla
vita intestata a qualcun altro e detenere una licenza di
ucciderlo. I Cds sono strumenti di distruzione che vanno
messi al bando.
 |
Fonte
- Il Sole 24 Ore
|
Gestori, pausa per
le Borse
18-06-09
MILANO
-
di Sara Silano ______________________________________________
Tokyo ottiene più consensi di
Europa e Stati Uniti.
Oggi la regola sui mercati è “comprare sui minimi” più che
“vendere sui massimi”. Per questa ragione, la correzione dopo il
recente rally non dovrebbe essere molto ampia. Tuttavia, è
probabile che le Borse si prendano una pausa prima di ripartire.
E’ questa l’opinione dei gestori intervistati da Morningstar
nell’ultimo sondaggio tra 22 delle principali case di
investimento che operano in Italia.
Nell’Ue non è ancora tempo di rally
Negli ultimi tre mesi le Borse europee hanno guadagnato il 22,6%
(indice Msci Europe), grazie al settore finanziario e dei
consumi ciclici, che erano stati i più colpiti dalla crisi. Ora,
però, la maggior parte dei gestori (63,6%) prevede una fase di
consolidamento, caratterizzata da molta volatilità. E’
convinzione diffusa che la risalita dei listini dai minimi di
marzo, non sia un segnale anticipatore della fine della
recessione. Al contrario la situazione economica rimane
difficile e si prevede una contrazione del Prodotto interno
lordo superiore al 4% nel 2009.
Wall Street cerca di rianimarsi
Come per il Vecchio continente, la maggior parte dei gestori
prevede che la Borsa americana oscillerà attorno agli attuali
livelli nei prossimi sei mesi a causa del protrarsi della
debolezza economica. In particolare, preoccupa la situazione
occupazionale, con il tasso dei senza lavoro che ha toccato il
9%. Inoltre, il settore finanziario mostra segnali contrastanti.
Da un lato alcune istituzioni hanno ottenuto il via libera per
la restituzione dei fondi ricevuti attraverso il Tarp (il fondo
di salvataggio creato per sostenere il sistema creditizio
americano); dall’altro gli stress test hanno messo in luce uno
scenario critico se la congiuntura peggiorerà. I gestori
prevedono che la crescita rimarrà al di sotto del suo
potenziale, con conseguente ripresa più lenta degli utili
societari. Wall Street, tuttavia, è un mercato più dinamico con
un numero di collocamenti e aumenti di capitale superiori
all’Europa, che potrebbero favorire il ritorno degli
investitori.
Timide schiarite in Giappone
Tokyo è la Borsa che a giugno raccoglie i maggiori consensi tra
i gestori (il 41% prevede un rialzo contro il 27% dell’Europa e
degli Stati Uniti). Le ragioni sono congiunturali. La produzione
industriale è cresciuta per due mesi consecutivi ed è in aumento
l’attività manifatturiera. Tuttavia, la situazione occupazionale
rimane debole, compromettendo le spese delle famiglie. Qualche
supporto potrà venire dal piano di stimolo varato dal Governo,
ma la ripresa arriverà solo quando ripartiranno in modo durevole
le esportazioni. Per queste ragioni, quello nipponico è anche il
mercato che presenta la percentuale più alta di pessimisti, il
13,6% (9% in Europa e Stati Uniti).
La riscoperta dei bond più rischiosi
L’aumento della propensione al rischio degli investitori ha
provocato un rally delle obbligazioni non governative, con la
conseguente flessione dei prezzi dei titoli di Stato e
l’accentuazione della curva dei rendimenti. L’opinione dei
gestori sul mercato del reddito fisso non è unanime. Alcuni
preferiscono le emissioni pubbliche nella convinzione che
possano ancora beneficiare dei piani di stimolo all’economia;
altri invece si sono spostati su quelle societarie, anche se in
modo molto selettivo. Sul fronte dei tassi ufficiali, i fund
manager sono convinti che non vi saranno ulteriori riduzioni, ma
la politica monetaria rimarrà espansiva. Per questa ragione i
prezzi delle obbligazioni non dovrebbero subire variazioni
significative.
Uno su due tifa euro
L’incertezza economica e finanziaria rende difficile fare
previsioni sull’andamento dei mercati valutari. Tuttavia, il 50%
dei gestori è convinto che il dollaro continuerà a deprezzarsi
nei confronti dell’euro per effetto dell’indebitamento
americano, della riduzione dell’avversione al rischio e della
diversificazione dei portafogli internazionali.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra l’8 e il 15 giugno,
22 delle principali società di diritto italiano ed estero
operanti sul territorio, che contano per circa il 90% degli
asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti
Gestielle, Anima Sgr, Axa Im, Banca Profilo, Bipiemme Gestioni,
Bnp Paribas Am Sgr, Clariden Leu, Eurizon Capital, Euromobilare
Sgr, Fideuram Investimenti, Ing IM, Investitori Sgr, JC&Associati,
Julius Baer, Pictet Funds, Pioneer Im, Prima Sgr, Sella
Gestione, Sgam, Threadneedle, Vontobel.
Fonte
-
MorningStar.it
FEBBRE DA BOND
24 Giugno 2009 02:40 MILANO
-
di di Camilla Gaiaschi ______________________________________________
Tutti pazzi per i bond: sia per
le convertibili, tappa intermedia verso l’equity sia per i
corporate, per lungo tempo sogno proibito del retail, scottato
dalla stagione di Cirio e Parmalat.
Altri tempi. Il «muro» è caduto, almeno per gli emittenti di
rango. I volumi delle emissioni da gennaio hanno già superato
quelli degli ultimi due anni. E dopo la prima ondata per gli
istituzionali, è partita la nouvelle vague dei piccoli
risparmiatori, che apprezzano cedole più grasse di Bot e Btp.
Basta vedere l’accoglienza riservata nei giorni scorsi alle
obbligazioni Eni (Fitch ha confermato AA- sul debito).
Molte blue chips italiane sono già al lavoro. I nomi delle
possibili candidate non si sprecano: Telecom Italia, Enel,
Generali, Atlantia ed Edison. E proprio la corsa ai bond del
Cane a sei zampe fa capire che il trend promette di esser ben
più di una moda passeggera. Il gruppo guidato da Paolo Scaroni
ha avviato il collocamento lunedì 15 con l’obiettivo di
raccogliere almeno 1 miliardo di euro: giovedì 18 le richieste
hanno sfiorato i 4 miliardi e l’aver alzato l’asticella
dell’offerta, fino a 2 miliardi, non ha evitato la strada del
riparto.
Nel frattempo, in attesa di bussare al portafoglio dei privati,
le corporations del Vecchio Continente sfruttano la congiuntura:
la minor pressione delle banche sul mercato obbligazionario,
combinato con i rendimenti modesti dei sovereign (e la bassa
propensione al rischio della domanda) ha offerto, sia in Europa
che sul mercato Usa, una finestra di opportunità per le società
che, di questi tempi, non sono in condizioni di bussare
all’azionario.
Uno dei casi di scuola della settimana è senz’altro Telecom
Italia, che lunedì 15 ha avviato il collocamento della sua
quarta emissione da inizio anno: un bond da 2 miliardi di
dollari per il mercato americano, prezzato nel giro di un
giorno. Mercoledì 16 è stata la volta di Edf, con un’emissione
per il retail da 1 miliardo di euro: una cifra del genere i
piccoli risparmiatori francesi non la vedevano dagli anni
Ottanta.
L’euforia è proseguita anche il giorno seguente, con il ritorno
sul mercato, dopo mesi di assenza, del «junk»: ad avviare la
procedura di consenso dei creditori, per un maxi-bond da 2,7
miliardi di euro, è stata Wind, su cui Fitch ha prontamente
annunciato però un rating watch negativo. Lo stesso giorno
Campari, ha messo a segno un private placement da 250 milioni di
dollari. Mentre Unicredit, secondo alcuni rumors, avrebbe già
terminato il road show per un emissione di covered bond per
l’importo di 1 miliardo di euro. Insomma, una vera e propria
valanga di offerte, in Italia come all’estero.
«Ogni giorno - spiega Tommaso Federici, gestore di Banca Ifigest
- c’è un emissione. All’inizio dell’anno eravamo tra i pochi a
partecipare alle aste, ora c’è la corsa e il riparto è
inevitabile». Ma cosa è successo nel frattempo? «Notiamo il
ritorno a una certa propensione al rischio da parte degli
investitori - aggiunge - certamente incoraggiati dall’andamento
positivo dei mercati».
Due dunque le ragioni: da una parte l’offerta delle imprese che,
in difficoltà ad accedere alle linee di credito bancario, sono
costrette ad emettere nuovo debito per rifinanziarsi.
Dall’altra, la domanda degli investitori, frutto anche della
ripresa dei mercati azionari, che si stanno spostando dai titoli
più granitici a quelli dal rating meno pregiato.
L’andamento dei rendimenti lo dimostra: a gennaio un bond con
rating tripla A offriva un premio di 176 pb rispetto ai titoli
governativi, oggi il premio è di 90. Il rendimento dei titoli a
tripla B ha cominciato a scendere solo a fine febbraio, passando
da 605 pb agli attuali 431.
Secondo gli operatori ci sarà spazio per un’ulteriore
contrazione: «La riduzione degli spread è il riflesso di un
processo di assorbimento del rischio - spiega Francesca
Ciaramidara, gestore Zenit Obbligazionario -- quando le società
sono tornate ad emettere debito, alla fine dello scorso anno, i
rendimenti erano più che remunerativi rispetto a quello che
evidenziavano i Cds. Le società offrivano cioè un premio
aggiuntivo per incentivare il mercato».
E il mercato ha risposto, abbandonando i più «sicuri» titoli di
Stato, a favore di azionario e obbligazionario corporate. Che la
percezione del rischio si sia ridotta emerge dall’andamento
dell’Itraxx Europe Index, l’indice che raccoglie i credit
default swap (cds) di 125 blue chips europee: se lo scorso 9
marzo (giorno dei minimi toccati dalle Borse) erano necessari
226 euro per garantire un bond da 1000 euro dall’eventualità di
default, oggi ne bastano 138 euro.
Così la crescente domanda di bond ha riportato i rendimenti
verso i fondamentali, ma gli esperti concordano sul fatto che
esiste ancora un margine di extra-rendimento, che rende
l’obbligazione corporate particolarmente appetibile per il
piccolo risparmiatore.
A due condizioni, però: «diversificare il portafoglio e stare
attenti al rendimento - spiega Rocco Bove, Credit Portfolio
Manager Prima Sgr - questo perché in passato gli yield offerti
al retail sono stati meno generosi di quelli offerti agli
istituzionali, più attenti al confronto con i rendimenti di
mercato e in possesso di maggiori strumenti di valutazione. Per
questo motivo è importante che l’investitore non si fermi al
livello assoluto di rendimento, ma che verifichi che il tasso
offerto sia in linea con quello di emissioni analoghe».
In ogni caso, il ritorno del corporate è certamente un buon
segnale. Tradizionalmente, infatti, il rafforzamento del mercato
del credito preannuncia una ripresa strutturale e duratura dei
mercati: «È vero che la domanda verso questo tipo di prodotto è
stata incoraggiata dal rialzo dei listini di marzo, ma in
un’ottica di lungo termine è vero il contrario - aggiunge Bove -
e cioè che dopo una crisi il primo mercato a rafforzarsi è
quello del credito.
Le aziende hanno infatti bisogno di liquidità per sopravvivere e
investire e quindi continuare a generare valore per i propri
azionisti. Senza credito, insomma, non c’è ripresa stabile dell'equity.
La corsa ai titoli obbligazionari di queste settimane può essere
considerata l’inizio della ripresa del ciclo economico».
Fonte
-
Borsa&Finanza
I migliori anni sono
passati?
24-06-09
-
di Sara Silano ______________________________________________
Un venticinquenne è un giovane
forte e nel pieno delle energie. Lo stesso non si può dire
dell’industria italiana del risparmio gestito, che ha appena
compiuto 25 anni. Il 21 giugno 1984, infatti, veniva lanciato
Gestiras, dall’omonima società che oggi si chiama Allianz global
investors. Non che questo comparto non abbia avuto successo, al
contrario da dieci sottoscrittori è passato a 300 mila e il
valore della quota è quintuplicato. Tuttavia, il settore arriva
a celebrare l’anniversario affaticato e scosso da profondi
sommovimenti, dopo essere passato dall’euforia degli anni
Ottanta, alla crescita del decennio successivo e alla profonda
crisi dell’ultimo periodo.
Molte parole sono state spese per spiegare la crisi cronica
dell’industria che ha portato a venti mesi di deflussi netti e
tante ricette sono state scritte per uscirne. Ben poco, però, è
cambiato fino a tempi recenti, perché la sopravvivenza sembrava
comunque assicurata, anche se i gruppi bancari, azionisti delle
società di gestione più grandi, preferivano vendere obbligazioni
strutturate e polizze anziché fondi.
Poi è scoppiata la crisi creditizia, con conseguente crollo
delle Borse e recessione economica. Il settore bancario è stato
il più colpito, non solo in Italia, ma a livello globale. A
Piazza affari la capitalizzazione dei titoli creditizi si è
dimezzata dall’autunno 2007 ad oggi ed è stato analogo il calo
degli utili. Per le banche, dunque, è sempre più necessario
recuperare redditività, anche attraverso le dismissioni di asset
considerati non più strategici. Le dismissioni delle società di
gestione rientrano in questo disegno e non sono motivate, come
molti hanno auspicato, dalla necessità di separare la produzione
dalla distribuzione, tanto più che le banche hanno bisogno della
raccolta diretta (tramite obbligazioni e altri prodotti simili)
per rimettere in quadro i bilanci.
Mentre nel resto del mondo vanno in scena le fusioni tra asset
manager, l’ultima è stata quello tra BlackRock e Barclays global
investors, in Italia è cominciata la stagione delle dismissioni
(MontePaschi ha già concluso l’operazione con il fondo di
private equity Clessidra, mentre circolano indiscrezioni su
Euromobiliare asset management e su Fideuram). Non è da
escludere che arrivino anche le aggregazioni, che potrebbero
aumentare le economie di scala, ma non necessariamente ridurre i
costi per gli investitori, come insegna l’esperienza
internazionale (recentemente l’Economist ha dedicato un articolo
al tema, mettendo in guardia dagli svantaggi delle grandi
dimensioni nel settore del risparmio). Tuttavia, senza un
cambiamento nel sistema distributivo che favorisca gli strumenti
trasparenti e l’investimento di lungo periodo, difficilmente il
risparmio gestito potrà ripartire
Fonte
-
MorningStar.it
|
Come
si scrive la quiete dopo la tempesta
(finanziaria)
24 Giugno 2009 10:05 MILANO - di
di Lorenzo Bini Smaghi
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Il Consiglio europeo ha approvato modifiche
significative nel dispositivo istituzionale dell'Unione Europea per
la supervisione e la regolamentazione finanziaria. Sono
indubbiamente riforme importanti in particolare, ma non solo, nel
contesto della crisi finanziaria iniziata nell'agosto 2007. E la Bce
è interessata a queste riforme, in particolare all'aspetto
macro-prudenziale, vale a dire alla creazione di un Comitato europeo
per il rischio sistemico.
La supervisione macro-prudenziale trae origine dal fenomeno di
rischio sistemico. Nel 2000 Andrew Crockett – all'epoca direttore
generale della Banca dei Regolamenti Internazionali e presidente del
Forum per la Stabilità Finanziaria – aveva descritto in modo
particolarmente illuminante la natura e la necessità di una politica
di supervisione macro-prudenziale. Crockett sosteneva che dovevamo
«consolidare un cambiamento di prospettiva già in atto, e integrare
la prospettiva micro-prudenziale con una maggiore consapevolezza e
attenzione nei confronti dell'aspetto macro-prudenziale».
Nella sua definizione, lo scopo della supervisione macro-prudenziale
era di limitare la probabilità di fallimento, e i relativi costi, di
porzioni significative del sistema finanziario (suscettibili di
rischio sistemico). Sull'altro versante, l'obiettivo
micro-prudenziale può essere considerato come quello di limitare la
probabilità di fallimento di singoli istituti (suscettibili di
rischio idiosincratico).
Dalla prospettiva odierna, la distinzione pare rilevante così come
lo era dieci anni fa. Tuttavia l'esperienza della crisi attuale e la
storia delle crisi passate, nonché le trasformazioni dei sistemi
finanziari moderni, ci chiedono di andare oltre. Dovremmo per
esempio chiederci quale deve essere la portata della supervisione
macroprudenziale. Distinguerei due dimensioni. La prima è l'analisi
e il monitoraggio del rischio. La seconda è il contenimento dei
rischi già identificati, il quale richiede strumenti specifici.
Quale quadro istituzionale dovrebbe sorreggere la supervisione
macroprudenziale? Un tale quadro implica inevitabilmente due attori
principali: la banca centrale e l'autorità di vigilanza sulle
istituzioni e sui mercati finanziari. Quest'ultima ha le
informazioni sui singoli operatori e sugli andamenti dei mercati, ed
è responsabile per la stabilità delle istituzioni creditizie. La
banca centrale dispone delle capacità analitiche per valutare il
rischio macroeconomico e gli sviluppi globali dei mercati
finanziari. Un sistema ben funzionante richiede un flusso completo
d'informazioni: dall'autorità di vigilanza alla banca centrale, per
fornire tutte le informazioni rilevanti per monitorare e analizzare
i rischi, e viceversa, dalla banca centrale all'autorità di
vigilanza per fornirgli il risultato dell'analisi del rischio e
accertare che le misure appropriate siano state implementate. È
essenziale che ci sia una ripartizione chiara di responsabilità, per
fornire alle due istituzioni gli incentivi adatti a conseguire
risultati attraverso la cooperazione, evitando conflitti che portano
a risultati disastrosi. Per semplificare l'analisi delle opzioni
disponibili, baserò la mia analisi sulla Turner Review. In breve, la
Turner Review assegna alla banca centrale la responsabilità di
effettuare l'analisi dei rischi sistemici, ma considera tre modelli
diversi per quel che riguarda l'attuazione delle misure per
contenere tali rischi.
Nel Modello 1, la banca centrale identifica i rischi sistemici e fa
raccomandazioni all'autorità di vigilanza microprudenziale che
stabilisce le azioni da mettere in atto per affrontare tali rischi.
Nel Modello 2, non solo la banca centrale è incaricata di
identificare i rischi, ma è anche in grado di prendere le misure
macroprudenziali appropriate o di richiedere all'autorità di
vigilanza micro-prudenziale di metterle in atto.
Nel Modello 3, un comitato congiunto, composto da rappresentanti
della banca centrale e dall'autorità di vigilanza, decide le misure
da adottare.
A mio parere, il terzo modello è il meno adeguato, perché rischia di
confondere le responsabilità della banca centrale e dell'autorità di
vigilanza. Eventuali dissensi tra la banca centrale e l'autorità di
vigilanza all'interno del comitato non potrebbero essere resi
pubblici, perché ciò minerebbe la credibilità delle decisioni. Ciò
significa che di fatto l'autorità di vigilanza ha un diritto di veto
sulla banca centrale. Se alle due componenti del comitato fosse
consentito di dissentire pubblicamente, il Modello 3 diventerebbe
molto simile al Modello 1 in cui le divergenze sono rese pubbliche e
l'autorità di vigilanza ha l'onere di spiegare perché non concorda
con la banca centrale e non agisce come essa suggerisce. Un altro
svantaggio del Modello 3 emerge quando l'autorità di vigilanza non è
indipendente dall'autorità politica. Non mi dilungherò sulla
necessità di tale indipendenza, ma a mio avviso la crisi recente se
non altro l'ha fortemente confermata. Guardando ai vari paesi
europei, sarebbe interessante verificare fino a che punto, durante
la crisi recente, i problemi d'insolvenza delle banche sono emersi
soprattutto laddove la vigilanza sul sistema bancario non è
effettuata dalla banca centrale, e laddove l'indipendenza
dell'autorità di vigilanza (anche in termini finanziari e
istituzionali) è meno protetta di quella della banca centrale.
Inoltre, nel contesto dell'Unione Europea, il Modello 3 sarebbe
particolarmente difficile da applicare in quanto richiederebbe un
accordo tra molteplici autorità di vigilanza nazionali, a meno che
non si arrivi a una situazione in cui le banche centrali e le
autorità di supervisione siano rappresentate ciascuna da una singola
istituzione europea. Nel sistema attuale le banche centrali possono
essere rappresentate dalla Bce, ma i supervisori non hanno ancora un
sistema analogo.
I Modelli 1 e 2 consentono di ripartire più chiaramente le
responsabilità, alla banca centrale e all'autorità di vigilanza. Nel
valutare i due modelli, un punto chiave di cui tenere conto riguarda
i potenziali conflitti d'interesse, in particolare quelli interni
alla banca centrale e all'autorità di vigilanza.
Consideriamo i conflitti d'interesse interni alla banca centrale,
che emergerebbero in particolare nel Modello 2, tra l'obiettivo
della stabilità dei prezzi e quello della stabilità
macrofinanziaria. Sorgerebbe un conflitto se la banca centrale
dovesse mirare ai due obiettivi con un unico strumento: il tasso
d'interesse. La banca centrale potrebbe essere spinta a usare tale
strumento non soltanto per conseguire la stabilità dei prezzi, ma
anche per contrastare l'emergere di rischi sistemici. Per esempio,
potrebbe rialzare anzitempo i tassi d'interesse per impedire che si
sviluppi una bolla finanziaria, mentre i sottostanti sviluppi
economici non lo richiedono. Il tasso d'interesse non è
necessariamente il modo più efficace per prevenire una bolla o per
farla scoppiare. Il conflitto d'interesse svanirebbe se la banca
centrale disponesse di due strumenti distinti, uno per ciascun
obiettivo. Il tasso d'interesse verrebbe utilizzato con l'obiettivo
della stabilità dei prezzi e le misure macroprudenziali con
l'obiettivo della stabilità finanziaria sistemica. Durante la crisi
attuale, la Bce ha dimostrato che una simile separazione è
possibile. Da un lato, il tasso d'interesse è stato usato per
conseguire la stabilità dei prezzi, e dall'altro le iniezioni di
liquidità sono state usate per stabilizzare il mercato monetario.
Ogni misura è stata adottata e giustificata pubblicamente in modo da
mantenere distinti i due obiettivi. Nell'insieme, l'esperienza
indica che il tasso d'interesse e gli strumenti macroprudenziali
sono piuttosto complementari e non fanno sorgere conflitti
d'interesse...
Il Rapporto de Larosière ha optato per il Modello 1. Ha suggerito la
creazione di un Consiglio europeo del rischio sistemico (Cers),
nell'ambito della Bce. Il consiglio generale della Bce è formato dai
governatori delle banche centrali dei 27 stati membri dell'Unione
Europea, più il presidente e il vice-presidente della Bce. Il
Consiglio sarebbe aperto a una serie di osservatori, come la
Commissione, le tre autorità che stanno per essere create a partire
dai tre Comitati Lamfalussy (per banche, mercati e assicurazioni), e
le 27 autorità di vigilanza nazionali. Il Cers potrebbe emettere
raccomandazioni miranti a identificare e a correggere vulnerabilità
sistemiche, mentre le autorità di vigilanza nazionali sarebbero
responsabili della loro applicazione. Come ho detto in precedenza,
questo modello genera problemi di uniformità di trattamente
all'interno del mercato unico. L'esperienza degli ultimi anni ha
mostrato che le autorità nazionali tendono a usare a propria
discrezione il margine di manovra lasciato dalla legislazione
europea. Ciò potrebbe accadere anche nel caso delle raccomandazioni
del Cers. Infine il Rapporto de Larosière non ha previsto
disposizioni separate per la zona euro. Saremo quindi nella strana
situazione in cui i paesi che non hanno adottato l'euro avranno due
livelli di analisi e di decisione sul rischio sistemico, uno a
livello dell'Unione Europea e l'altro a livello nazionale, mentre i
paesi della zona euro avranno solo quello dell'Unione Europea. A
meno che, com'è ovvio, la Bce non decida di colmare il vuoto e di
emettere essa stessa raccomandazioni specifiche per la zona euro e
per i paesi che vi partecipano. Una proposta chiave contenuta nel
Rapporto de Larosière è l'obbligo per i supervisori microprudenziali
nazionali di fornire alla Bce tutte le informazioni necessarie per
l'analisi dei rischi per conto del Cers.
Tra il Rapporto de Larosière e le Conclusioni del Consiglio europeo
appena adottate, c'è stata una lunga discussione tra i paesi membri,
basata su una proposta della Commissione. I principali contenuti
sono stati conservati. Il Comitato - e non più il "Consiglio" - per
il rischio sistemico (Cers) ha il potere di fare raccomandazioni, ma
non di applicare direttamente i provvedimenti. Si appoggerà
analiticamente e logisticamente alla Bce. Quest'autunno la
Commissione presenterà proposte che preciseranno ulteriormente i
nuovi dispositivi istituzionali. Occorre infatti altro lavoro per
elaborare nei dettagli il quadro istituzionale del Cers, nonché per
le nuove autorità europee incaricate della supervisione
microprudenziale.
La crisi recente ha dimostrato l'importanza di poter disporre di una
supervisione macroprudenziale per promuovere la stabilità
finanziaria. C'è molto da fare per attrezzare le istituzioni
competenti con gli strumenti analitici in grado di valutare e
monitorare il rischio sistemico e con una cassetta degli attrezzi
adeguata per contenere tali rischi.
Più passa il tempo, e più i mercati finanziari mostrano segni di
stabilizzazione, più emerge il rischio che sfumi il senso d'urgenza
per le riforme. Più si rafforzano le tendenze nazionalistiche e le
gelosie istituzionali. Aumentano le forze che vogliono mantenere lo
statu quo. Se tali forze non vengono contrastate con fermezza,
questa crisi potrebbe diventare un'occasione persa. E la prossima
crisi potrebbe farsi più vicina.
L'autore fa parte del comitato esecutivo della Bce. Il testo è
tratto dalla relazione «Andare avanti: regolamentazione e
supervisione dopo la tempesta finanziaria» presentata al «Finlawmetrics
2009» in Università Bocconi.
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Traduzione
- Sylvie Coyaud
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Merton:
«Sui derivati non mi pento, non ho peccato»
26 Giugno 2009 09:32 MILANO - di
Vittorio Da Rold
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«No, non sono affatto pentito dei miei modelli
matematici per stabilire il valore dei prodotti derivati e nella
gestione dei rischi», dice sorridendo Robert C. Merton, seduto nella
sua poltrona della camera d'albergo del Four Seasons a Milano mentre
arrivano a getto continuo, annunciati da un bip, messaggi sul suo
blackberry. «No, non abbiamo bisogno di un nuovo paradigma
economico, ma al contrario dobbiamo usare la crisi come
un'opportunità per migliorare il sistema finanziario globale, dove
non ci sono porti sicuri e soprattutto senza guardare nel
retrovisore della storia, ai modelli degli anni 30».
Merton, premio Nobel per l'economia nel '97, è l'ideatore della
superformula, il modello di Black-Scholes-Merton sull'andamento nel
tempo del prezzo dei derivati, che elaborata negli anni 70, partendo
dagli studi di Robert E. Lucas, uno dei padri della scuola delle
"aspettative razionali", diventò dominante negli anni 90,
pretendendo di annullare il rischio dagli investimenti. Le cose sono
andate diversamente, con la peggior crisi dagli anni della Grande
depressione, con la scomparsa di un big come Lehman Brothers, e il
salvataggio del più grande gruppo assicurativo del mondo, l'Aig, per
85 miliardi di dollari.
Tutto questo parziale elenco d'errori non sconvolge Merton, che
ripete «come ogni virtù possa diventare un vizio se portato
all'estremo, come nell'applicazione dei modelli matematici nella
pratica finanziaria». «La matematica dei modelli era precisa, ma non
i modelli, essendo solo approssimazione alla complessità del mondo
reale».
Chiaro? Il problema è «l'uso o l'abuso dei modelli» che ha portato
ad assumere rischi sproporzionati da persone incompetenti, spesso
sedute nel board di aziende.
Un mix d'avidità di banchieri, d'inesperienza, d'incapacità di usare
correttamente le tecnologie. Eppure già a marzo 2008, Alan Greenspan,
che per 18 anni è stato il primo banchiere centrale del mondo, aveva
accennato a «modelli troppo semplici per catturare la realtà».
Un'accusa velenosa, ripresa il 23 ottobre davanti alla Commissione
Controllo della Camera, a Washington, quando aveva affermato che
tutta l'impianto intellettuale sorretto dalla matematica finanziaria
e premiato con un Nobel a Stoccolma era crollata come un castello di
carte. «La realtà è che nessuna banca centrale può funzionare senza
l'uso di modelli matematici», ribatte piccato Merton che ricorda
come non sia un problema di nuove regole o nuovi poteri di
controllo, magari sognando il ripristino della Glass-Steagall Act,
la legge che aveva separato le banche commerciali da quelle
d'investimento.
Il mondo della politica, invece, la pensa diversamente e sia negli
Stati Uniti, con la concessione di nuovi poteri di controllo alla
Fed sulla stabilità dei mercati, sia in Europa, con il recente via
libera anche della City all'adozione a Bruxelles di un European
Systemic Risk Board sotto la regìa della Bce, si va verso più poteri
e regolamenti. «No, non è la strada giusta quella della
super-regolamentazione. La finanza non è l'ancella dell'economia
reale: tra economia reale e finanza c'è lo stesso rapporto che passa
tra hardware e software, senza l'uno non c'è l'altro». Per questa è
importante capire che non è il «modello sbagliato, ma il modo come è
stato usato».
Merton, 65 anni, che lavora da un ventennio alla Harvard Business
School, dove si era trasferito dopo 20 anni dal vicino Mit, e dove
insegna tuttora, pensa che «la finanza resti un sistema distributivo
per trasferire il rischio» in modo ottimale. Ecco perché «la
cartolarizzazione è stata un buon lavoro», perché ha distribuito il
rischio tra vari soggetti e permesso a molti di accedere al credito.
Il problema è che a un certo punto si è rotto il nesso tra chi aveva
costruito il contratto e chi lo aveva spacchettato e venduto
acquistando rischi di cui non era a conoscenza. «Un problema vero -
ammette il Nobel - di mancanza d'accesso alla documentazione».
Merton, amico di Franco Modigliani e che oggi parlerà alla Bocconi
di Milano per il congresso 2009 della European Financial Management
Association (Efma), durante le tre giornate del congresso, sotto il
coordinamento scientifico di Stefano Gatti e Stefano Caselli, si è
fatto un'idea precisa del perché sia scoppiata la crisi. La
"tempesta perfetta" è arrivata dalla somma di tre fattori: il taglio
dei tassi operati da Greenspan; l'aumento dei prezzi delle case, che
ha portato alla bolla immobiliare; l'aumento dell'efficienza di
allocazione dei mutui, che ha portato il costo di queste operazioni
vicine allo zero. Prese a sé le tre cause non avrebbero provocato
alcuna conseguenza, messe insieme hanno messo in moto la valanga.
I critici, però, non demordono e affermano che dopo la crisi neppure
la matematica finanziaria sia affidabile. Anzi, è erronea nei suoi
fondamenti, anche se raffinata metodologicamente. Senza contare che,
se usata con disinvoltura, come con le cartolarizzazioni e i
collaterali, porta ad affetti leva (negativi) spaventosi. Fermare i
derivati e i modelli collegati è come «fermare l'uso d'internet in
Iran: è semplicemente impossibile», ribatte Merton.
Invece di sognare l'impossibile ritorno a regole antiche che
controllino tutto nel mondo finanzario, Merton propone d'istituire
un'agenzia per i mercati finanzaria come quella che esiste in
America per i disastri aerei: la National Transportation Safety
Board (Ntsb). La nuova Agenzia, che si potrebbe chiamare National
Capital Market Safety Board, dovrebbe andare a controllare con
poteri assoluti ma limitati al caso specifico quando ci sia una
bancarotta di una banca, assicurazione o hedge fund. Al termine
dell'inchiesta, l'Agenzia dovrebbe stilare un rapporto senza avere
nessun potere di fare raccomandazioni. Tutto ciò per evitare che
«l'errore si ripeta» in futuro. Come, spetterà al Congresso
decidere.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Effetto
crisi: scende il
numero dei super-ricchi
26 Giugno 2009 16:58 MILANO - di
Raffaela Ulgheri
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Anche i ricchi piangono. In questi tempi di crisi per
le finanze mondiali gli individui con un patrimonio superiore al
milione di dollari, gli Hnwi (High net worth individuals), sono
diminuiti del 14,9% nel 2008 rispetto all'anno scorso. Nel nostro
Paese la riduzione è stata più marcata con una flessione del 20,8
per cento.
È quanto riporta la tredicesima edizione del World Wealth Report, il
rapporto annuale sulla ricchezza nel mondo elaborato da Merrill
Lynch Global Wealth Management e Capgemini, presentato oggi a
Milano, in contemporanea mondiale in diversi Paesi. I motivi di
questa contrazione sono sotto gli occhi di tutti. Il terremoto che
ha investito la finanza internazionale lo scorso autunno è arrivato
direttamente all'economia reale e ha provocato una serie di effetti
a catena trascinando anche le finanze di questa categoria ristretta.
Secondo l'indagine, si è tornati a livelli precedenti al 2005, con
una brusca discesa soprattutto degli ultra-Hnwi, ovvero i
"super-ricchi", coloro che vantano un patrimonio superiore ai 30
milioni di dollari, il cui numero è diminuito del 24 per cento. Nel
mondo la cerchia dei Paperoni, composta da 8,6 milioni di individui,
si trova ora a gestire un patrimonio finanziario di 32.800 miliardi
di dollari, il 19,5% in meno rispetto al 2007 anno in cui deteneva
una ricchezza pari a 40.700 miliardi. Merril Lynch e Capgemini,
però, sono ottimiste sul futuro: già nel 2013 dovremmo assistere a
una ripresa del numero di super ricchi, con un tasso di crescita
annuo dell'8,1% (anche se fino al 2007 era del 9,7%). Nord America e
Asia-Pacifico faranno da traino alla crescita in termini di
ricchezza. Queste regioni beneficeranno dell'incremento della spesa
al consumo negli Stati Uniti e della maggiore autonomia dall'esterno
dell'economia cinese, che fino a oggi si è sostenuta principalmente
sull'export.
Il caso italiano. L'Italia ha seguito il trend negativo attestandosi
su un valore di gran lunga inferiore alla media mondiale ma anche a
quella europea del 14,4 per cento. Nel nostro paese i milionari sono
passati da un totale di 206mila nel 2007 a 163.700 nel 2008,
diminuendo del 20,8%, un valore consistente dopo anni di costante
crescita (+1,1% nel 2006 e +3,8% tra il 2005 e il 2006). Tra i
fattori inibitori che si sono abbattuti sui grandi ricchi italiani
Merrill Lynch e Capgemini individuano la diminuzione del Pil reale
dell'1% nel 2008 (che potrebbe subire una contrazione del 3,6% nel
2009); il crollo del 51,3% della capitalizzazione di mercato
(l'indice S&P Mib ha chiuso il quarto trimestre 2008 in ribasso del
51% rispetto al quarto trimestre del 2007). Una diminuzione del 7,5%
dei prezzi sul mercato immobiliare.
Per contro la crisi finanziaria nel nostro paese è stata mitigata da
un pacchetto di stimolo approvato dal Governo (che trascina a
livello di indotto anche le finanze degli Hnwi) che, secondo il
rapporto, equivale a poco meno di un miliardo di euro netti, e la
forte campagna di sensibilizzazione determinata a far mantenere la
fiducia negli istituti di credito italiani con garanzia sui depositi
fino a 100mila euro.
I grandi ricchi hanno preferito investimenti più sicuri. La ricaduta
della crisi finanziaria ha portato a una flessione della fiducia, da
parte dei ricchi, nei confronti degli investimenti più rischiosi.
Hanno ridotto, infatti, la propria esposizione verso le azioni,
destinando nel 2008 una quota maggiore del loro patrimonio verso
investimenti più sicuri e semplici. Una maggiore quantità di risorse
finanziarie è confluita negli investimenti a reddito fisso, nella
liquidità e negli asset liquidi. È cresciuta anche la quota dedicata
al settore immobiliare, che è aumentato al 18% del portafoglio
totale globale degli Hnwi, in rialzo del 4% dal 2007. Anche gli
investimenti basati sulla liquidità hanno evidenziato un netto
incremento, passando al 21% dei portafogli complessivi (in rialzo
del 7% dal 2006).
In Giappone, un Paese in cui il tasso di risparmio è per tradizione
elevato, si è registrato il numero più elevato di passaggi a forme
di investimento basate sulla liquidità (30%). Per contro, gli
investimenti dei Paperoni nordamericani hanno evidenziato la quota
più bassa di liquidità o di depositi in percentuale sui loro
portafogli complessivi (14%), in rialzo di 3 punti percentuali dal
2007.
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