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Mercati:
non si sono più rendite di posizione
29 Giugno 2009 23:42 MILANO - di
Eugenio Benetazzo
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Chi segue le mie indicazioni ed i miei outlook
macroeconomici si ricorderà molto bene di come dall'inizio del 2008
abbia sempre consigliato il posizionamento in titoli di stato
tedeschi, preferendoli di gran lunga ai titoli di stato italiani.
Chi avesse partecipato ai seminari finanziari di fine 2008 e di
inizio 2009 o chi avesse recentemente letto il libro intervista
Banca Rotta ha recepito di come il titolo di stato tedesco potesse
essere considerato come il titolo di stato più sicuro da detenere in
portafoglio per dormire sonni tranquilli.
A distanza di oltre sei mesi mi sento di non avallare ancora questa
ipotesi, in quanto ritengo, e non sono il solo, che anche il titolo
tedesco (Bund a 10 anni e Bobl a 5 anni) possa in futuro riservare
qualche spiacevole sorpresa (non è molto probabile, tuttavia è
possibile, soprattutto per quello che sto per raccontare tra poco).
Il detto di borsa che ha sempre condizionato ed orchestrato le mie
scelte di allocazione patrimoniale rimane sempre lo stesso:
preferisco essere troppo prudente che esserlo troppo poco. Questa
mia considerazione si origina da mutate valutazioni che
caratterizzano lo scenario macroeconomico e le potenzialità della
locomotiva tedesca. Iniziamo con lo snocciolare alcuni dati
tutt'altro che confortanti: dopo i primi cinque mesi del 2009, la
Germania presenta un deficit di bilancio drammatico, senza
precedenti dal dopoguerra ad oggi, oltre 80 miliardi di euro (oltre
il 4 % del PIL), esposizione che lascia presumere ad un consistente
aumento della fiscalità diffusa al pari di quanto sta già avvenendo
in Islanda, Irlanda e Regno Unito.
Il debito sul PIL è aumentato vertiginosamente, oltre l'80 % entro
il 2010, l'export tedesco ha subito una violenta contrazione di
oltre il 25 %, mentre il debito pubblico tedesco diventa il terzo
debito più grande del mondo dopo quello di Giappone ed USA (in
termini quantitativi). L'andamento della spesa pubblica ormai
incontrollata (500 miliardi solo per tamponare le difficoltà del
sistema bancario tedesco) inizia a far lievitare inquietanti
preoccupazioni sul futuro del paese sassone, non è casuale infatti
la corsa all'acquisto di lingotti d'oro da parte di piccoli
risparmiatori tedeschi che hanno portato la Germania a diventare il
primo compratore al mondo di lingotti d'oro nel primo trimestre
dell'anno (davanti a Svizzera ed USA): l'opinione pubblica è molto
sensibile all'argomento temendo un ritorno di ondate inflattive
stile anni trenta.
Recentemente la cartellonistica stradale nelle grandi città tedesche
è pervasa da una provocante propaganda del NSM (Neue Soziale
Marktwirtschaft) che ostenta come in 50 anni il debito pubblico
gravante su ogni bambino tedesco sia passato dai 188 euro del 1950
agli oltre 22.000 euro di oggi. Sostanzialmente iniziano ad emergere
istanze popolari che pretendono un sensibile ridimensionamento del
welfare tedesco. Anche la Germania adesso fa i conti con il turbocapitalismo e con la strategia scellerata di abbracciare "sine
ulla dubitatione" i processi di delocalizzazione industriale per
aumentare la competitività delle aziende tedesche: tutto questo
invece a distanza di tempo si trasforma in un radicale cambiamento
delle dinamiche produttive che mirano a distruggere e frantumare le
potenzialità dei distretti industriali tedeschi a favore del ponte
commerciale con la Cina.
Aumentano di settimana in settimana le richieste di aiuto dal mondo
imprenditoriale che esige prestiti e garanzie sui prestiti per
continuare a stare in piedi. In considerazione di quanto menzionato
sino ad ora e vista la caduta vertigionosa dei tassi di interesse,
non mi sentirei più tanto sereno nella detenzione di titoli di stato
tedesco, visto il recente mutamento dello stato di salute della
Germania. Infatti potrebbe essere poco prudente in questo momento di
mercato, esporsi finanziariamente con un paese che si sta
sgretolando molo velocemente e che soprattutto ha visto lievitare
vistosamente in poco tempo il proprio debito pubblico. Per questo
motivo consiglio più opportuno un posizionamento attraverso un fondo
obbligazionario di area governativa oppure un fondo di liquidità che
diversifichi al proprio interno con titoli di stato sia dal punto di
vista geografico che temporale (quindi con scadenze di rimborso di
varia lunghezza).
In molti lettori mi scrivono chiedendomi su come intenda investire
il mio patrimonio visti i recenti rialzi di borsa e l'inconsistenza
di rendimento odierno di una operazione pronti contro termine o di
un BOT: la risposta non è univoca ma varia con il mutare delle
condizioni di mercato, ad esempio vi posso anticipare come verrà
investito il patrimonio dell'arca di noè finanziaria (una holding di
investimento configurata in società per azioni) che abbiamo
costituito lo scorso anno assieme ad oltre 50 piccoli investitori,
ognuno dei quali ha investito attraverso microconferimenti di
capitale: un terzo del patrimonio verrà utilizzato in una gestione
flessibile curata tra tutti noi azionisti per l'ingresso sui mercati
azionari ed obbligazionari, un terzo sarà allocato in un fondo di
private equity che investirà in piccole e medie imprese del trivento,
ed infine l'ultimo terzo verrà utilizzato per l'acquisizione di un
impianto fotovoltaico di recente realizzazione con 500 KW di potenza
in Puglia.
Lo scopo è quello di essere il più diversificati possibile, non solo
con investimenti mobiliari tradizionali, ma anche con investimenti
in capitale di rischio legati ad attività imprenditoriali concrete e
redditizie. Ormai il rischio di un evento Cigno Nero sul mercato
(dal nome della teoria economica avanzata dal Prof. Nassim Taleb, il
quale definisce un evento Cigno Nero come un evento finanziario di
portata planetaria che nessuno è in grado di ipotizzare) espone
tutti noi a possibili fenomeni di polverizzazione della ricchezza,
pertanto investimenti considerati fino a qualche mese fa da
cassettista sicuro (come l'acquisto di un bund) dovrebbe essere
completamente rivisitati sulla base di mutate condizioni di mercato
dell'intero pianeta. Di certo chi era abituato a vivere con rendite
di posizione dovrà iniziare a cambiare radicalmente le proprie
abitudini ed aspettative di rendimento.
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Fonte
-
www.eugeniobenetazzo.com |
UN LUGLIO DI PASSIONE.
POI IL TORO VA IN VACANZA
30 Giugno 2009 01:55 MILANO - di Gaetano Evangelista ______________________________________________
Nell’immediato, il rialzo partito
dai minimi del 9 marzo è qualcosa di più di un semplice bear
market rally, come pur viene inteso dai più. Possiamo invece
ormai definirlo un «bull market ciclico». Dunque non un Toro
strutturale, ma sufficientemente robusto da durare più a
lungo di quanto la maggior parte degli investitori sia
disposta a ritenere.
L’idea è che la correzione delle ultime settimane abbia già
scaricato gli eccessi e possa essere seguita da una nuova
carica del Toro (o Torello come qualcuno lo chiama),
destinata tuttavia a esaurirsi nell’ultima decade di luglio.
Non prima, però, di aver raggiunto o quasi la mitica quota
1.000 punti sull’indice americano S&P 500 (ora siamo
all’incirca intorno a quota 915). Difficilmente, poi, questa
barriera sarà superata prima dell’autunno.
È poi improbabile che l’economia risenta della minaccia
inflazionistica, pur da molti temuta, prima del 2010: se
infatti l’offerta di moneta è in crescita in tutto il mondo
industrializzato, sull’altro piatto della bilancia c’è un
deficit di domanda rispetto all’offerta aggregata che, di
fatto, azzera il pricing power delle imprese; si aggiunga
poi la disoccupazione, prevista in aumento almeno fino alla
fine dell’anno (ricordiamo che quello del lavoro rappresenta
l’80% dei costi di impresa nel mondo occidentale), e un
utilizzo della capacità produttiva ai minimi storici. Si
capisce perciò bene come difficilmente i prezzi al consumo
svolteranno verso l’alto nella seconda metà dell’anno. Ne
consegue che gli attuali timori di aumenti dei tassi
ufficiali sono, ad avviso di chi scrive, del tutto
infondati.
IL MONDO NUOVO. Se quello descritto è lo scenario di fondo
del mondo occidentale, qualcosa di diverso percorre le le
aree emergenti del pianeta. Ai lettori offriamo perciò
subito la classifica dei mercati che riteniamo più degni di
acquisto: India, Indonesia e la Grande Cina, che poi
significa Cina stessa, Hong Kong e Taiwan. Naturalmente
nella lista possono entrare anche Vietnam (il cugino povero
della Cina), Thailandia e Corea. Saranno loro i mercati del
futuro e i motivi sono presto detti: gli Emergenti sono
cambiati, si sono cioè ristrutturati rispetti a dieci o
venti anni fa: hanno surplus di bilancio, flussi di capitali
attivi con i quali poi finanziano l’Occidente.
Inoltre hanno una popolazione giovane, a differenza delle
rughe sempre più profonde che si vedono tra i cittadini
dell’Europa, del Giappone e, anche se un po’ meno, negli
Stati Uniti. In India in particolare, miglior mercato in
forza relativa rispetto a tutti gli altri, stanno iniziando
a vedersi i benefici del «dividendo della pace» con il
tradizionale «nemico» pakistano. Se poi guardiamo
all’America Latina, la classifica vede in cima Colombia,
Perù e Brasile.
LA GRANDE PAURA. Sappiamo bene quanto gli investitori
faticano sempre ad adeguare «tempestivamente» il loro
modello comportamentale alle escursioni di mercato. Sia al
rialzo sia al ribasso. Dopo aver registrato, a fine 2008, la
performance trimestrale più drammatica e pesante degli
ultimi vent’anni, ci ritroviamo oggi, fra l’incredulità
pressoché generale, a celebrare la migliore performance
trimestrale del decennio. Era esagerato il ribasso dello
scorso autunno o è insensato il recupero degli ultimi mesi?
Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni. Il mercato
ha scontato lo scorso autunno uno scenario da Grande
Depressione, e ha corretto bruscamente le sue valutazioni
quando ci si è accorti che i fondamentali dell’economia
erano i peggiori del Dopoguerra, ma non peggiori degli anni
’30.
Fortunatamente, l’assenza di rigidità monetarie tipiche di
quell’epoca e l’intervento più deciso e massiccio delle
autorità di politica economica hanno scongiurato l’Armageddon.
Come risultato, la contrazione del Pil americano è rimasta
contenuta al 2,5% negli ultimi quattro trimestri di cui si
dispone di dati: qualcosa di simile, dunque, a quanto
sperimentato in occasione delle recessioni del 1973-1974 e
di inizio anni ’80.
In virtù della capacità dei mercati azionari di anticipare
di un paio di trimestri l’andamento dell’economia (vedere
grafico in alto) è probabile che il Pil peggiorerà nel
corrente trimestre, per stabilizzarsi nel terzo e migliorare
nell’ultima frazione dell’anno. Ma la «cura dimagrante»
subìta dagli investitori in questo decennio (-3,2% il
ritorno medio composto annuo del Dow Jones) ha pochi eguali.
Quindi è probabile che il «bear market secolare» sia in
essere, ma chi investe oggi in Borsa fra un decennio sarà
più felice di chi ha comprato 10 anni fa.
Fonte
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Borsa&Finanza
SIAMO AL GIRO DI
BOA
30 Giugno 2009 02:06 MILANO - di Michela Mercante ______________________________________________
Nessuno ci crede, nessuno si fida.
Non è bastato un rally, il migliore degli ultimi dieci anni,
a dare qualche certezza in più sulle Borse. Si naviga in
acque sconosciute. Così, al giro di boa dei primi sei mesi
dell’anno, i dubbi e le perplessità restano ancora molto
forti. Salvo un plauso comune verso i Paesi Emergenti, certo
più volatili dei mercati maturi, ma ricchi di promesse e,
soprattutto, di fondamentali «macro» e «micro» meno
compromessi.
«Quel che vediamo - spiega Andrea Delitala, responsabile
investment advisory di Pictet - è un film un po’ truccato. I
mercati beneficiano degli interventi dei governi e di un
processo di ricostituzione delle scorte, che però è ben
diverso da un rialzo delle vendite e, quindi, da una ripresa
strutturale della domanda».
BICCHIERE A METÀ. Già, la ripresa strutturale, ma quando
arriverà? «Per ora - aggiunge Delitala - siamo sotto
antibiotici». Non meno severa è l’analisi di Donatella
Principe, responsabile di Markets & Products Intelligence di
Schroders: «Il mercato ha enfatizzato alcuni segnali di
stabilizzazione, come il miglioramento di parte dei dati
macro e il risultato degli stress test, superati peraltro
solo al 50 per cento. Ma il movimento dei prezzi è stato
eccessivo». Meglio, dunque, non illudersi troppo. «L’estate
- precisa Principe - sarà ancora all’insegna del rally, ma
poi ci si renderà conto che il futuro prospetta una ripresa
lenta. La semplice lettura dei p/e medi fa capire che siamo
andati troppo avanti».
Prudenza non vuol dire comunque scappare dalle Borse, ma
adeguare il portafoglio a più corretti orizzonti. Ad
esempio, per Marco Pirondini, responsabile globale
investimenti di Pioneer, il bicchiere è mezzo pieno: «Mi
aspetto un mercato volatile e laterale, perciò consiglio
settori anticiclici come utility, tlc e healthcare». Più
esplicito Gianluca Gabrielli, direttore investimenti di
Soprano Sgr: «Punto su società con una solida posizione
finanziaria e buoni flussi di cassa. Del resto, in uno
scenario di deflazione il criterio di scelta sui titoli è
l’assenza di debito». Ecco perciò, secondo l’esperto di
Soprano, una lista di nomi da non trascurare: «In Italia,
Parmalat ed Eni, il cui debito resta sostenibile, e poi
Fiat, che a fronte della crisi del comparto ha saputo
diversificarsi; tra le small Brembo e Recordati. E infine
negli Usa le big Pfizer, Fedex e Chevron».
LE TERRE PROMESSE. Eppure questo rally, di cui si scrutano
gli incerti destini, qualcosa di particolare l’ha messo in
luce: la galoppata degli Emergenti. Si dirà, capita sempre;
ma il fatto nuovo è che siamo di fronte a una sorta di
decoupling non borsistico, ma macro. Del resto, il mondo non
sarà più quello di prima: il G8 avrà sempre meno influenza e
il G20 sempre di più, in attesa che si capisca il destino
del dollaro. E proprio gli Emergenti sono diventati un «must»
del portafoglio. Spiega Francesco Fonzi, portfolio manager
di Credit Suisse: «La nostra area di investimento
privilegiata rimane quella emergente. Paesi caratterizzati
da minori squilibri finanziari e meno coinvolti nella crisi
subprime. Inoltre, demografia e classe media in ascesa
favoriranno flussi di investimento finanziari crescenti. E
In cima alla classifica dei Paesi preferiti - aggiunge -
mettiamo il Brasile, per stabilità politica e valutaria».
Già, Asia e Sudamerica, future terre promesse. Non più come
negli anni Ottanta e Novanta, quando la ricerca di
performance si scontrava con continui rischi di instabilità
finanziaria. Oggi, quei Paesi sono creditori dell’Occidente.
Si pensi al Brasile, con in cassa 200 miliardi di dollari di
valuta pregiata; o alla Cina, con quasi due trilioni. Anche
Hanspeter Ehrsam, analista di Lemanik spezza una lancia a
favore degli Emerging, però «solo dopo una correzione, che
dovrebbe essere pari a circa la metà del trend rialzista
partito dai minimi di marzo». E per un corretto stock
picking? «Evitare i titoli dell’immobiliare, eccessivamente
valutati - risponde secco Ehrsam - Molto meglio le big
dell’hi-tech».
LA CORREZIONE. Tra i misteri insondabili di questa fase c’è
appunto quello di capire quale sarà il respiro, a breve,
delle Borse. Che nell’ultimo mese si sia vista una
correzione non ci piove. Ma pare già finita. Si fa di conto
per capire quanto manca per tornare ai massimi di giugno:
pochi punti percentuali per Wall Street, qualcosina di più
per l’Europa. E solo allora si capirà se c’è forza per
andare oltre: forse sarà l’ultima carica del Torello prima
di uno storno ben più consistente delle scorse settimane.
A breve, semmai, conviene segnarsi in agenda la prossima
stagione delle trimestrali Usa: sarà probabilmente la vera
cartina di tornasole. Massimo Valsangiacomo, analista di
Banca del Sempione, delinea per esempio lo scenario
seguente: «Il recente rally non è sostenuto dai
fondamentali, sia micro sia macro. Si intravede la luce in
fondo al tunnel, ma non c’è ancora una ripresa dell’economia
reale. Perciò è meglio incrementare l’azionario solo sulla
debolezza. Tra i settori consiglio le risorse di base della
francese Arcelor Mittal e l’energia alternativa della
tedesca Solarworld. Poi, unica scelta russa, Gazprom».
Altrettanto cauto Sergio Bertoncini, strategist di Credit
Agricole Asset Management: «Stiamo riscoprendo i settori più
difensivi, le cui valutazioni sono tornate abbastanza
interessanti: quindi telecom, consumer staples e healthcare.
Le utility invece rimangono un settore abbastanza tirato».
Di più, secondo Bertoncini, vale la pena di rimanere
«costruttivi sull’area asiatica». Mentre nella seconda parte
dell’anno, anche l’economia Usa dovrebbero tornare «a dare
segnali di maggiore stabilizzazione, a tutto vantaggio della
Borsa».
IL PARTITO OTTIMISTA. Ovviamente non manca chi, come Massimo
Fuggetta, responsabile degli investimenti e socio fondatore
di Horatius Sim, preferisce indossare da subito gli occhiali
rosa. «Noi siamo molto bullish sul mercato - dice - anche se
permangono rischi di fragilità. Infatti, abbiamo accresciuto
la nostra posizione sull’azionario e vantiamo con orgoglio
una performance del +15% da inizio anno. E nonostante il
rally, siamo convinti che il mercato rimane cheap: molti
fondamentali sono ancora a sconto e per riuscire a
individuare i titoli giusti bisogna guardare le valutazioni
rispetto a utili, cash flow e valore di libro».
Certo, se il peggio è davvero alle spalle, e magari non ce
ne siamo accorti, si rischia solo di mangiarsi le mani a non
avere osato di più. «Per quanto riguarda gli earning -
prosegue Fuggetta - i valori attuali sono bassi rispetto a
un valore normalizzato. Il p/e dunque può risultare alto, ma
perché gli utili sono molto depressi. Scontando i valori a
5-6 anni, invece, ci sono titoli che hanno potenzialità di
rendimento anche del 200 per cento. Ma bisogna saperli
selezionare: tra i settori più massacrati il consumer
discretionary ha valori molto bassi con ottime opportunità.
E occasioni ci sono anche tra i finanziari, molto a sconto
rispetto ai fondamentali».
Già che dire dei finanziari, origine e causa di tutto il
disastro? Fabio Trussardi, analista di Ubs Wmr ed esperto di
banche e assicurazioni, è prudente: «Nel secondo trimestre
mi attendo revenues per le banche sotto pressione, a causa
dei tassi bassi e dei minori asset under management. Poi mi
attendo accantonamenti in crescita. E, in questo scenario,
le banche italiane sono più sensibili rispetto alla media
europea ai tassi di interesse, quindi saranno le prime a
beneficiare di un rialzo del costo del denaro. Tra le big
preferisco Unicredit, mentre i piani industriali di Intesa
Sanpaolo (atteso per fine agosto, ndr) e Ubi (per settembre)
potrebbero rivelarsi dei triggers sui rispettivi titoli». E
che dire infine delle assicurazioni?
«Il settore a livello europeo - prosegue Trussardi - tratta
in media a sconto rispetto all’universo bancario, pur
presentando migliori trend di crescita: trattano infatti a
7,1 volte l’utile atteso 2009 con uno sconto medio del 30%
rispetto alle banche. A livello di price/book value lo
sconto rispetto alle banche è del 18 per cento. Infine, ed è
interessante, il Roe atteso sul 2009 del settore bancario è
al 7,1%, per le assicurazioni al 14,3 per cento. Sul 2010,
rispettivamente all’8,6% e al 17%».
Hanno collaborato: C. Gaiaschi, M. Malandra, C. Meoni, G.
Raimondi e G. Petrucciani.
Fonte
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Borsa&Finanza
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Finanza
e riforme: un quadro desolante
29 Giugno 2009 23:47 LUGANO - di
Alfonso Tuor
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Mentre la crisi economica diventa di giorno in giorno
più acuta, si susseguono le proposte di riforma delle regole e dei
meccanismi di sorveglianza del sistema bancario in vista del vertice
del G20 in programma negli Stati Uniti in settembre.
I Paesi occidentali si propongono di giungere con una posizione
unica, che dovrebbe essere definita, almeno nelle grandi linee, nel
vertice del G8 che si terrà in Italia il mese prossimo. L’obiettivo
di trovare una posizione comune si presenta di difficile
realizzazione. L’Unione Europea, a causa dei veti incrociati tra i
diversi Paesi, ha deciso per il momento di non decidere. In
particolare, non vi è consenso sulla creazione di un organo di
sorveglianza sovranazionale.
Dall’altra parte dell’Atlantico, il presidente Obama ha presentato
un pacchetto di riforme che ora dovrà passare al vaglio del
Congresso. Le proposte americane hanno raccolto critiche a destra e
a manca, tranne che a Wall Street, poiché, come giustamente ha
scritto l’economista Luigi Zingales, «premiano i responsabili della
Caporetto finanziaria» (ossia, i principali responsabili
dell’attuale crisi). Pur non entrando nei meandri, spesso di natura
tecnica, delle diverse proposte, si possono comunque esprimere
alcune considerazioni.
Sia le autorità politiche americane sia quelle europee non vogliono
trarre le debite lezioni dal disastro provocato dal settore
finanziario. In termini più crudi, la crisi non ha intaccato il
potere d’influenza dei gruppi di pressione legati al settore
finanziario. La logica delle diverse proposte non mira a favorire le
attività finanziarie utili al buon funzionamento dell’economia e a
penalizzare quelle che producono effetti negativi o addirittura che
sono foriere di nuovi disastri. In parole povere, non vi è alcuno
sforzo per individuare quali attività e quali strumenti della nuova
ingegneria finanziari siano utili e quali nocivi o addirittura
distruttivi per lo sviluppo dell’economia reale.
Eppure, i problemi sul tappeto sono chiari. La crisi ha evidenziato
che si è manifestato un rischio sistemico che non è stato nemmeno
lontanamente intravisto da alcun organo di sorveglianza.
Si propone
che il compito di vegliare, perché non si ripeta un’evenienza
simile, venga dato negli Stati Uniti alla Federal Reserve, che
dovrebbe anche coordinare la pletora di organi diversi di
sorveglianza e in Europa alla Banca centrale europea.
Questa proposta è assolutamente ragionevole, poiché gli istituti di
emissione dovrebbero avere non solo il compito di governare il ciclo
economico attraverso gli strumenti classici della politica
monetaria, ma anche di garantire la stabilità del sistema
finanziario con il quale interagiscono quotidianamente.
L’attuale crisi mette però in luce che le banche centrali non hanno
previsto la crisi. Questo fallimento non è dovuto ad incapacità
(come si usa dire, ad un errore umano), ma al fatto che la
deregolamentazione finanziaria e la nuova ingegneria finanziaria
hanno cambiato radicalmente i meccanismi di funzionamento sia del
settore sia dei mercati finanziari.
Negli Stati Uniti sono cadute le distinizioni tra banca commerciale,
che raccoglie risparmio e concede crediti, e banca di investimento,
che non può raccogliere direttamente il risparmio delle famiglie e
che si finanzia quindi sul mercato monetario e su quello dei
capitali e opera in settori di attività a maggiore rischio.
La
deregulation ha inoltre permesso la creazione di quello che viene
chiamato il «settore bancario ombra», che sono gli Hedge Fund, le
società di Private Equity e le società industriali, come General
Motors o General Eletric, che hanno attività finanziarie di
dimensioni spesso maggiori di quelle di una banca e hanno un
notevole impatto sulla dinamica dei mercati.
Inoltre, la diffusione dei processi di cartolarizzazione (ossia
della vendita sui mercati di pacchetti di crediti) e quella dei
nuovi strumenti finanziari (derivati, ecc.) hanno alterato il
funzionamernto degli stessi mercati. Quindi, sarebbe occorsa una
riflessione se questi cambiamenti rappresentano un progresso oppure
un regresso.
Nulla di tutto ciò: i provvedimenti prospettati vanno tutti nella
direzione di sottoporli a qualche forma di regole e di sorveglianza.
Ciò ha spinto persino George Soros, che sulla speculazione e non
sulla creazione di ricchezza vera ha costruito le sue fortune, a
bocciare il piano di Obama, come assolutamente insufficiente. George Soros ha scritto: «Non basta che i derivati vengano scambiati in un
mercato regolato, ma occorre che l’emissione di questi strumenti e
il loro commercio siano sottoposti ad una sorveglianza simile a
quella che vige per i mercati azionari».
Inoltre il finanziere americano aggiunge: «Certi prodotti derivati,
come i credit default swap, che servono solo ad aumentare i margini
di profitto degli ingegneri finanziari che li creano, dovrebbero
essere semplicemente vietati, poiché in realtà sono uno strumento di
distruzione economica».
Le proposte americane sono all’acqua di rosa non solo sulle
conseguenze della deregolamentazione e della nuova ingegneria
finanziaria, ma anche sull’uso dei mezzi propri da parte delle
banche e sulle remunerazioni nel settore finanziario. E’ convinzione
diffusa che il capitale proprio delle banche sia una riserva a
disposizione in caso di difficoltà dell’istituto. Niente di più
lontano dalla realtà. Le banche usano il capitale proprio (ossia le
proprie riserve) e addirittura si indebitano per speculare sui
mercati.
Ad esempio, le perdite di UBS derivano da operazioni condotte
dall’istituto con i mezzi propri. Le grandi banche che si sono mosse
come se fossero state dei grandi Hedge Fund con i capitali propri,
ricorrendo per di più pesantemente alla leva, speculavano e ancora
speculano sui mercati. Questa prassi stravolge la logica delle norme
che impongono requisiti minimi di mezzi propri per fronteggiare
situazioni di crisi.
Le proposte sul tappeto sia in Europa sia negli Stati Uniti non
sfiorano nemmeno questa questione, che è stato un fattore dirompente
dell’attuale crisi. Altrettanto vale per le remunerazioni dei
manager bancari che incitano all’assunzione di rischi nella
consapevolezza che interverranno i cittadini attraverso gli Stati a
pagare le eventuali perdite. Ciò vale pure per le agenzie di rating
che hanno continuato ad assegnare la massima credibilità (ossia la
tripla A) ad emissioni con cui venivano finanziate le ipoteche subprime americane.
Insomma, un quadro desolante, che conferma il potere del settore
finanziario, cui sono già andati la più parte degli aiuti elargiti
finora dai diversi Paesi. Le proposte ora fatte non risolvono i
problemi. Nemmeno quelli delle banche che pensano di aver scampato
il pericolo di una più severa regolementazione.
Aggiustamenti
cosmetici non servono a nulla. Il prosieguo di questa crisi, che si
prospetta molto lunga, ce lo dirà con i fatti e costringerà a
riformare in profondità non solo le regole di funzionamento del
settore finanziario, ma anche quelle del sistema monetario
internazionale.
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Fonte
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Corriere del Ticino |
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Martedì
07 Luglio
2009 |
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Giovedì
09 Luglio
2009 |
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Sabato
11 Luglio
2009 |
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Normativa europea
per gli hedge fund
30-06-09 - di Valerio Baselli ______________________________________________
Si prevedono tempi duri per gli
hedge funds. Lo scorso 30 aprile, infatti, è stata
pubblicata da parte dalle autorità europee una proposta di
direttiva con l’obiettivo di creare un quadro di riferimento
continentale in materia di fondi speculativi. La crisi dei
mercati ha indubbiamente intaccato l’immagine delle autorità
finanziarie. L’emergere di rischi sistemici, provocati anche
dalla lacune dei meccanismi di supervisione e controllo, ha
spinto i legislatori ad intervenire anche a livello
sovranazionale, con l’intento di prevenire nuove crisi di
sistema a seguito di operazioni speculative e transazioni
finanziarie non soggette a monitoraggio.
Molti operatori di mercato, tra cui Assogestioni,
sostenevano da tempo la necessità di una normativa a livello
di mercato unico che regoli il settore dei prodotti
alternativi e che consenta la creazione di un mercato e un
brand europeo per questi prodotti. Se fino a poco tempo fa
queste istanze avevano trovato più di una resistenza da
parte della Commissione europea e in alcuni Stati membri, il
mutato clima economico ha portato ad un atteggiamento più
favorevole verso la disciplina di questo tipo di prodotti
(più rischiosi) e ha spinto alla presentazione di una
proposta di direttiva.
La direttiva presentata, in sostanza, propone di regolare i
gestori e non i prodotti in sé. Essa si focalizza sulla
regolamentazione dei gestori di fondi di investimento
alternativi, intesi come tutti gli organismi di investimento
collettivo che non rientrino nell’ambito di applicazione
della direttiva Ucits, ovvero non definibili come fondi
comuni di investimento armonizzati. L’obiettivo del
legislatore europeo è quello di ottenere un controllo
globale ed efficace dei rischi a vantaggio della stabilità
dei mercati e del sistema finanziario nel suo insieme.
Questo, inoltre, potrebbe anche rappresentare il primo passo
verso la creazione di un mercato transnazionale per questo
tipo di prodotti.
La normativa proposta pone molta enfasi sul monitoraggio e
il controllo del rischio tramite obblighi informativi,
limiti alla leva e possibilità di delega. Altra novità
contenuta dalla direttiva è la creazione di una sorta di
passaporto europeo per quei gestori che operano nei termini
della stessa e offrono i propri prodotti agli investitori
professionali.
Lo schema prevede che, nel caso venga accolta, la direttiva
debba essere obbligatoriamente applicata a quei gestori che
offrono i propri prodotti anche al di fuori del Paese
d’origine. Mentre per gli altri è discrezionale renderla
obbligatoria o no.
Nel suo complesso la proposta di direttiva pone alcuni
importanti punti fermi soprattutto nel riconoscimento della
necessità di normare i comportamenti e offrire protezione al
sistema finanziario. Essa si presenta quindi come primo
tassello nel quadro del rafforzamento della cooperazione
della autorità di vigilanza, uno dei cardini della più ampia
riforma dei meccanismi di controllo e presidi del rischio
post crisi messa in campo dall’Unione Europea.
I tempi per l’entrata in vigore delle nuove norme saranno
comunque lunghi; la parola passerà infatti al Parlamento
europeo ed al Consiglio dell’Unione europea. Se la proposta
fosse approvata entro il 2009, dovrebbe entrare in vigore
nel corso del 2011 ed essere poi seguita dalle norme
attuative.
Fonte
-
MorningStar
|
Azionario:
il mercato alla prova di nuovi test
07 Luglio 2009 02:19 BIELLA - di
Maurizio Milano
________________________________________
La reazione tecnica di forte rimbalzo dai minimi del
6-9 marzo – dopo un primo bimestre in forte lettera ed una discesa
dei principali indici azionari mondiali verso i livelli del 1996
(Usa), 1997 (Europa) ed addirittura 1994 (Italia) – ha consentito
finora un recupero generale superiore al 40% (per il FTSE/Mib
addirittura +68%), con gli indici che hanno toccato dei massimi di
periodo nel corso del mese di giugno, per poi ritracciare di una
manciata di punti percentuali nelle ultime 3-4 settimane.
La fase in corso si deve considerare come una pausa fisiologica, e
non si possono neppure escludere ulteriori discese, che
scatterebbero qualora gli indici dovessero rompere i supporti
corrispondenti ai minimi di metà maggio e nuovamente in fase di
test. Tale eventualità comporterebbe una prosecuzione del movimento
correttivo per un altro 5-6%, con obiettivo i livelli toccati dagli
indici verso metà aprile.
Nonostante la recente debolezza, il trend di fondo rimane rialzista
ed il bear market rally dovrebbe riprendere una volta che si sia
esaurita la fase di consolidamento in atto. Un segnale in tal senso
si avrebbe col superamento delle resistenze testate nella prima
decade di giugno (al momento prematuro): ciò farebbe scattare nuovi
acquisti che spingerebbero il mercato azionario verso i livelli di
fine settembre-inizio ottobre 2008 – livelli da dove era partito il
crash di ottobre-novembre successivo al fallimento di Lehman –, che
rimangono il grande obiettivo del bear market rally in corso. Da un
punto di vista operativo sono ancora possibili acquisti sulla
debolezza ma il focus deve ora spostarsi su una exit strategy che
consenta di alleggerire l’esposizione all’avvicinarsi degli
obiettivi, portando a casa gli utili realizzati ed abbassando il
profilo di rischio.
I livelli da tenere sott’occhio sono i seguenti: i primi supporti
importanti sono individuabili in area 1750/75 per il Nasdaq
Composite, a 8250 per il Dow Jones industrial, in area 850/75 per
l’S&P500, a 2280-2320 per il DJEurostoxx50, in area 18100/400 per il
FtseMib ed a 9500 per il Nikkei225. Si tratta di livelli molto
vicini, e se gli indici non riusciranno a riportarsi velocemente al
di sopra dei messimi della scorsa ottava vi è il rischio crescente
di una loro perforazione, eventualità che aprirebbe la strada ad una
seconda gamba correttiva. Gli obiettivi per gli indici sopra-citati,
in tal caso, sarebbero i seguenti: 1650/70, 7800, 800/15, 2180,
17100 e 9000, rispettivamente. Un segnale di miglioramento si avrà
invece al superamento dei massimi toccati la scorsa ottava,
eventualità che riproporrebbe il test dei massimi di inizio giugno,
al di sopra dei quali il rally riprenderebbe con vigore verso gli
obiettivi.
Tra gli argomenti che fanno pensare che la fase in atto non sia il
preludio di una nuova ondata ribassista si possono elencare: 1) la
correzione in atto non ha rotto alcun supporto significativo e, se
rapportata all’entità del recupero dai minimi di marzo, è del tutto
fisiologica (anzi, c’è ancora spazio di discesa senza compromettere
la successiva ripresa degli acquisti); 2) la volatilità implicita
rimane sui minimi di periodo, a ridosso dei livelli di metà
settembre 2008, precedenti al grande crash (un campanello di allarme
si avrebbe su risalite del Vix sopra 40,30-43 e del Vxn sopra 40,50,
al momento poco probabile); il mercato obbligazionario rimane
stabilmente sotto ai massimi 2009, e non sono ipotizzabili
apprezzamenti marcati dei corsi; il settore bancario in Borsa rimane
abbastanza stabile, ancorché al di sotto dei massimi di periodo
(segnala comunque una relativa serenità degli operatori); la tenuta
dei prezzi del greggio e delle materie prime (anche se sono sotto i
massimi di giugno) conferma una visione non così nera sugli scenari
economici.
Insomma, il sistema finanziario ancorché fragile tiene; l’economia
reale anche se destinata a peggiorare ancora nei prossimi mesi non
dovrebbe comunque avvitarsi in una spirale
deflazionistica/recessiva; il sentiment degli operatori è ormai
portato a giudicare positivamente anche i dati negativi, purché un
po’ meno negativi del previsto; non emergono alternative credibili
all’investimento azionario, per di più pensando al fatto che corsi
rimangono ancora ben al di sotto dei livelli di inizio ottobre 2008
e che quindi incorporano ancora uno scenario decisamente
pessimistico. Insomma se nei prossimi mesi si avrà una conferma
della tenuta del sistema, pur in un contesto recessivo, l’azionario
dovrebbe gradualmente recuperare tutte le perdite accumulate nei
passati mesi di ottobre-novembre, durante la fase acuta, emozionale
della crisi. Il bear market rally, insomma, ha ancora un po’ di
strada da percorrere. Senza illudersi, però, di essere alla vigilia
di un mercato Toro. Per questo, infatti, dovremo attendere ancora
parecchio tempo.
 |
Fonte
-
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella |
Pessimismo mascherato
– la lezione del VIX
Monday, 6 July, 2009 at 15:53 -
by John Christian Falkenberg ______________________________________________
I mercati azionari sembrano ancora
in buona forma, ma il mercato delle opzioni segnala un netto
aumento dei timori per la fine della teoria dei “germogli
verdi”.
La volatilità sulle opzioni sugli indici azionari funge
anche da segnale del posizionamento del mercato e non
soltanto dei rischi di movimenti in una direzione o
nell’altra. Di recente, la volatilità implicita nelle
opzioni put è risultata molto più alta di quella su opzioni
call e il differenziale fra le due volatilità ha raggiunto
un picco. E’ normale che tale volatilità sia più alta per
una put che per una call: acquistare un contratto put
protegge da un calo delle quotazioni, mentre una call
costituisce una scommessa sulla salita dei corsi. Dal punto
di vista di un gestore professionale, è più efficiente
acquistare direttamente le azioni se si crede in un rialzo,
mentre è meno costoso acquistare una put in caso di timori
su di un calo generalizzato del mercato.
La volatilità dell’indice è una misura direzionale: tende a
salire quando il mercato scende e a scendere quando esso
sale; la risalita del mercato e la fine della fase di panico
hanno quindi portato ad un calo precipitoso del VIX, tanto
rapido quanto era stata la sua “esplosione” nei mesi
precedenti: di recente, la maggiore misura di volatilità è
ritornata ai livelli immediatamente precedenti al crollo di
Lehman Brothers, ossia sotto a 30. Tale “cambio di regime”
ha offuscato la dinamica del differenziale fra le volatilità
di put e call, che tuttavia rimane chiara: il differenziale
attuale, a quasi 9 punti, è altamente inusuale ed è il
massimo raggiunto dal fallimento di Lehman; segnala
l’intensa attività di “assicurazione” da scossoni del
mercato, un’attività che è stata mascherata sinora dal
crollo verticale della volatilità del mercato. Non si tratta
di un segnale univoco, ma di un’altra indicazione ch eil
mercato è meno “bullish” di quanto potrebbe sembrare a prima
vista.
Fonte
- Macromonitor
IL MERCATO SCOMMETTE
SUL RIBASSO DELL'AZIONARIO
07 Luglio 2009 02:29 NEW YORK - di WSI ______________________________________________
Anche se in netto calo, l'indice
VIX suggerisce che i mercati finanziari non sono ancora
tornati alla "normalita'". Stranamente alto il numero di
persone che pensa che il peggio sia alle spalle: molti
trader preferiscono proteggersi.
Il maggiore calo subito dal mercato delle opzioni dal 1998
ad oggi, nasconde in realta' una crescente ansieta' nei
confronti della tanto attesa ripresa economica, con l'umore
degli operatori che e' piuttosto pessimista. E' infatti dal
fallimento di Lehman Brohters che i trader non pagano cosi'
tanto per aggiudicarsi contratti ribassisti, con un numero
sempre maggiore di persone che scommette su un calo
dell'azionario dopo il rally iniziato i primi a marzo.
Gli operatori stanno infatti investendo ingenti somme di
denaro, le maggiori da agosto 2008, nel tentativo di
proteggersi contro le previsioni di un calo del 10%
dell'indice allargato Standard & Poor’s 500 rispetto invece
alle scommesse di un rialzo dei prezzi.
Agosto 2008 corrisponde ad un solo mese di distanza dal
crollo della banca newyorchese. Il premio sui cosiddetti
contratti "put" e' aumentato anche dopo che l'indice di
volatilita' Chicago Board Options Exchange Volatility Index,
meglio noto con l'acronimo VIX, ha registrato un tonfo del
40% solo nell'ultimo trimestre.
Afflitti dalle preoccupazioni secondo cui gli Stati Uniti
non riusciranno ad emergere presto dalla peggiore recessione
vista in mezzo secolo, negli ultimi tempi i trader
preferiscono intascare i profitti accumulati sulle azioni
componenti l'S&P 500, che ha guadagnato il 40% da inizio
marzo.
Ma all'allargamento del gap tra le opzioni rialziste e
quelle ribassiste fa da contraltare un ritracciamento
marcato del'indice VIX, sceso sotto i livelli toccati quando
Lehman e' fallita. Non e' un caso che l'andamento anomalo si
verifichi proprio nella settimana in cui le societa'
americane si preparano a pubblicare i conti relativi al
secondo trimestre.
"E' troppo alto il numero di persone che pensa che il peggio
sia alle spalle e che ci aspetta un futuro migliore", ha
detto a Bloomberg Peter Sorrentino, di Huntington Asset.
"Quindi e' come se molti di noi si stessero dicendo 'Qui
qualcosa non va'. Probabilmente e' meglio proteggersi da
eventuali rischi".
Sorrentino, che prevede che l'S&P 500 arrivera' a perdere
oltre il 10% rispetto al prezzo di chiusura della settimana
scorsa di 896.42 punti, ha acquistato opzioni che potra'
riscattare se l'indice dovesse scivolare sino a quota 775 a
dicembre. Il livello al quale Sorrentino potra' esercitare
il contratto sottointende un calo del 14%.
Dopo aver bruciato quasi $11 mila miliardi in una fase
ribassista durata 17 mesi, il mercato azionario statunitense
ha recuperato il 24% dal 9 marzo a oggi, sulle speculazioni
che gli utili aziendali miglioreranno entro la fine
dell'anno e che per quella data l'economia avra' ripreso a
crescere.
L'indice S&P 500 ha guadagnato il 15% nel secondo trimestre
del 2009, il maggiore rialzo degli ultimi dieci anni, dopo
che la Federal Reserve e il governo hanno sborsato $12800
miliardi per rispondere ai quasi $1500 miliardi di perdite
subite dalle maggiori societa' finanziarie del mando.
Il rimbalzo ha fatto si' che i trader pagassero sempre meno
per le opzioni e ha spinto il VIX, indicatore della
cosiddetta "volatilita' implicita" dell'S&P 500, in netto
ribasso. Il 29 giugno scorso il paniere e' infatti scivolato
sui minimi in area 25.35 dai 44.14 punti raggiunti il 31
marzo. Il dato si confronta con il massimo di 80.86 toccato
dal VIX in novembre, quando gli investitori scommettevvano
su una variazione dei prezzi del paniere allargato del 23%.
La cifra suggerisce una possibilita' del 68% che l'S&P
scambiera' in ribasso o in rialzo di sino al 7.3% nei
prossimi 30 giorni, stando agli schermi di Bloomberg. Se da
un lato i prezzi delle opzioni Usa sono nettamente calati
nell'ultimo periodo, restano pur sempre il 38% sopra la
media di 20.19 registrata dall'indice nei suoi 19 anni di
storia, un segnale chiaro, secondo Carl Mason, head of U.S.
equity derivatives strategy di BNP Paribas SA, che i mercati
finanziari devono ancora tornare alla "normalita'".
Fonte
- WSI
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Borse
& Mercati: tutti in cerca di
profitti
09 Luglio 2009 01:12 MILANO - di
C. Gaiaschi e C. Petrucciani
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Sul bilancio di metà anno delle Borse continua a
prevalere la prudenza. È presto per ipotizzare un’inversione di
tendenza. Anzi, stando al consensus generale, il super-rally messo a
segno dai mercati negli ultimi tre mesi non è altro che un movimento
correttivo all’interno di un mercato ancora dominato dall’Orso.
Certo, i segnali di ottimismo non mancano. Il rischio sistemico
sembra ormai alle spalle e dal fronte macro arrivano dati
incoraggianti, soprattutto negli Stati Uniti. Ma se da un lato è
vero che i minimi toccati a marzo 2009 difficilmente saranno
infranti, dall’altro è pur vero che per vedere un ritorno definitivo
del Toro bisognerà aspettare un recupero dei fondamentali. O meglio,
un ritorno alla crescita degli utili aziendali.
E l’ormai imminente earning season potrà far luce su quanto bisogna
aspettarsi in questo secondo semestre del 2009. Nel frattempo gli
addetti ai lavori preferiscono navigare a vista, puntando
soprattutto sulle emissioni obbligazionarie di tipo corporate che, a
dispetto del recente restringimento degli spread, offrono ancora un
rendimento tale da coprire abbondantemente il premio per il rischio.
E il consiglio degli esperti è focalizzarsi soprattutto sui bond
investment grade, con un’attenta selezione e una buona
diversificazione del portafoglio.
Nei confronti dell’equity, invece, occorre avere un approccio di
tipo tattico. Le valutazioni azionarie non sono cheap come lo erano
tre mesi fa, per cui nei prossimi mesi ci potrebbe essere una
correzione delle Borse nell’ordine del 10-15 per cento. Ma eventuali
storni dovranno essere sfruttati per entrare gradualmente sul
mercato. Secondo gli esperti, infatti, in un’ottica di medio-lungo
periodo l’azionario oggi rappresenta un’occasione di investimento
irripetibile.
In particolare, l’attenzione va incentrata sulle aziende con un
basso livello di indebitamento e con buone valutazioni rispetto agli
utili, cash flow e valore di libro. Certo, per quanto riguarda gli
utili, le valutazioni oggi sono piuttosto basse rispetto a un valore
normalizzato. Di conseguenza il p/e di molte aziende può risultare
alto. Ma se si scontano i valori degli earning a 5-6 anni, allora è
possibile individuare molti titoli con valutazioni fortemente a
sconto e con potenziali di rialzo a tripla cifra. E se tra le aree
core gli esperti guardano con maggiore attenzione agli Stati Uniti,
tra le piazze emergenti sono pronti a puntare tutto sul Brasile e la
Cina.
Questo in estrema sintesi quanto emerso dal consueto forum
organizzato da Borsa&Finanza. Alla tavola rotonda hanno partecipato:
Stefano Rossi, amministratore delegato di Edmond de Rothschild Sgr;
Nicola Trivelli, direttore investimenti di Sella Gestioni; Luca
Ramponi, direttore investimenti di Aureo Gestioni, Luca Simoncelli,
portfolio manager di BlackRock; Renato Guerriero, capo della branch
italiana di Dexia Asset Management; Nicola Pegoraro, direttore di
Carige Asset Management. Ma ora passiamo la parola ai gestori.
1 Nonostante il rally delle Borse partito dai minimi di marzo, il
bilancio dei primi sei mesi 2009 rimane in negativo, almeno per le
piazze principali. Quali sono le vostre aspettative per la seconda
parte dell’anno? Il mercato continuerà a essere dominato dall’Orso?
O siamo di fronte a una potenziale inversione di tendenza?
Trivelli: Nel medio termine rimaniamo moderatamente positivi sull’equity.
Ma è presto per parlare di inversione di tendenza e prima di entrare
pesantemente sull’azionario preferiamo aspettare una correzione dei
corsi nell’ordine almeno del 10-15% rispetto ai massimi toccati
nelle ultime settimane. Escluderei, comunque, il rischio di vedere
nuovi minimi al di sotto di quelli toccati a marzo.
Ramponi: Anche io credo che dopo la significativa rivalutazione dei
listini sia necessaria una fisiologica fase di consolidamento, con
un possibile incremento della volatilità. Solo dopo l’estate le
Borse potrebbero tornare a crescere, ma a patto che ai buoni segnali
congiunturali già registrati negli Stati Uniti e in Asia si
accompagni un ritorno alla crescita degli utili aziendali, elemento
imprescindibile per trasformare l’attuale rimbalzo in una tendenza
positiva di medio-lungo termine.
Simoncelli: Per quanto ci riguarda, in questa seconda parte del 2009
manteniamo aspettative positive sull’equity. Il rally azionario che
si è sviluppato soprattutto nei mesi di marzo-aprile ci appare aver
perso momentum nel breve termine. Ci attendiamo quindi maggiore
volatilità nei mesi estivi e migliori opportunità di ingresso.
Guerriero: A dispetto del rally messo a segno dalle Borse a partire
dai minimi di marzo, Dexia è rimasta sempre in sottopeso azionario
da inizio anno, in quanto non ci convincevano né i dati macro né i
fondamentali delle aziende. Di conseguenza, abbiamo sempre ritenuto
che il rimbalzo fosse un bear market rally. Allo stato attuale,
comunque, abbiamo ridotto il sottopeso sull’equity, che era molto
pronunciato a inizio anno, e pensiamo che sia opportuno restare
prudenti. La situazione potrebbe cambiare nel terzo trimestre
dell’anno.
Pegoraro: In queste ultime settimane il mercato azionario ha dato
chiari segnali di stanchezza e da qui in avanti potremo assistere a
un ritorno della volatilità e a un andamento erratico delle
principali piazze finanziarie internazionali. Ma è un fatto normale
dopo l’esuberanza degli ultimi tre mesi. Detto questo, comunque, non
crediamo che l’equity tornerà a testare i minimi di marzo.
Rossi: Mi trovo pienamente d’accordo con quanto espresso in
precedenza dai miei colleghi. Considerando i segnali di
stabilizzazione provenienti dal fronte macro, difficilmente i
mercati torneranno sui livelli che abbiamo visto a marzo. Molto
probabilmente le Borse si muoveranno in trading range. E se gli
indicatori congiunturali dovessero confermare la fine della
recessione, allora ci potrebbe essere anche una ripresa graduale dei
listini.
2 Che tipo di atteggiamento consigliate di assumere nei confronti
dell’equity: meglio restare alla finestra o accumulare sulle
eventuali fasi di debolezza? Ed eventualmente su quali aree
geografiche e settori conviene focalizzarsi?
Trivelli: Le valutazioni di oggi non sono così attraenti come lo
erano a marzo. Di conseguenza preferiamo avere un atteggiamento
prudente nei confronti dell’equity. Ma con un approccio di tipo
tattico, ovvero accumulando gradualmente nelle fasi di correzione. E
i Paesi emergenti dovrebbero rimanere uno dei temi più interessanti
per un investimento di medio periodo, grazie a fattori strutturali
come la crescita demografica e l’aumento dei consumatori. È
necessario però attuare una selezione fra i diversi Paesi.
Riteniamo, infatti, che il rischio degli stati dell’Europa dell’Est
insieme alla Russia sia molto elevato a causa dei dubbi sulla tenuta
del sistema finanziario. Per quanto riguarda la Russia, inoltre, è
necessario sottolineare l’eccessiva dipendenza dal gas e dalle
materie prime. Le aree che riteniamo interessanti sono l’Asia e
l’America Latina, in particolare Cina e Brasile, per l’incremento
dei consumi interni e per le politiche di sostegno economico. Siamo
prudenti, invece, sull’India, dopo il rally delle ultime settimane
legato alle elezioni.
Ramponi: Condivido. La strategia più adeguata all’attuale scenario
appare un accumulo graduale di azioni nell’arco dei prossimi 6/12
mesi, magari con importi più sostanziosi quando si avranno evidenze
di un ritorno alla crescita dei profitti delle società quotate,
probabilmente tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010. E anche
secondo noi Asia e America Latina si candidano insieme agli Usa a
guidare l’uscita dalla recessione. Il Brasile, per esempio, potrebbe
continuare a offrire opportunità d’investimento con un debito
pubblico in rapporto al Pil quasi dimezzato negli ultimi 7-8 anni e
un’economia sorretta da una buona domanda interna. In termini di
settori, invece, la nostra attenzione va ai titoli dell’energia,
alla tecnologia, agli industriali e infine alle tlc.
Simoncelli: Adottando un approccio di tipo tattico, pensiamo di
poter entrare nuovamente in maniera più aggressiva sull’equity nelle
prossime settimane. Per un investitore con ampio orizzonte
temporale, invece, le valutazioni di lungo termine indicano un
profilo di rischio-rendimento atteso molto interessante per i
mercati azionari. Un ingresso graduale è sempre consigliabile e
siamo propensi ad acquistare su eventuali fasi di debolezza. Le
condizioni per favorire gli investimenti azionari in chiave
strategica sono sicuramente confermate. I mercati emergenti di Asia
e America Latina sono generalmente meglio posizionati, mentre tra i
mercati sviluppati preferiamo l’America all’Eurozona. In termini di
settori, invece, privilegiamo tecnologia, energia e salute, mentre
siamo più tattici, ma comunque ben posizionati, sul settore
minerario.
Guerriero: Non c’è dubbio che ogni occasione di storno rappresenti
nella teoria un’opportunità di ingresso, in maniera graduale. Allo
stesso tempo, comunque, riteniamo che il market timing sia
un’utopia, mentre è molto più intelligente scegliere un’allocazione
di lungo periodo accompagnata da una gestione molto dinamica
dell’allocazione tattica, eventualmente unita a tecniche di
salvaguardia del capitale. Da marzo a maggio abbiamo assistito a un
mercato che ha beneficiato di ingenti aiuti governativi, di sostegno
alla riduzione dei tassi da parte delle banche centrali e di un
ritorno alla volatilità pre-Lehman. Si è diffusa molta fiducia sulla
ripresa economica e finalmente sta aumentando la propensione al
rischio degli investitori. Inoltre, gli indicatori di revisione
degli utili, intesi come quoziente tra revisioni al rialzo/revisioni
al ribasso, mostrano qualche segno di vitalità, principalmente nei
mercati emergenti. Infine, stiamo osservando che i produttori
manifatturieri stanno ricostruendo le loro scorte, ma è altrettanto
importante notare che se non riparte la domanda si rischia una nuova
caduta dei mercati. Per quanto riguarda settori e titoli di maggiore
interesse, nel corso del recente rally le azioni che hanno fatto
meglio sono state quelle ad alto beta e con poca qualità. E
sinceramente ci risulta difficile pensare che questi rappresentino
la nuova leadership del mercato per i prossimi mesi. Di conseguenza
stiamo costruendo un portafoglio barbell tra titoli growth e value
dando più peso ai primi nel breve periodo. Per quanto riguarda le
maggiori aree geografiche siamo neutrali su Usa e Canada, positivi
su Europa e mercati emergenti, molto positivi sul Pacifico e molto
negativi sul Giappone. I nostri settori europei favoriti sono
energia, telecom e media; seguono semiconduttori, farmaceutici,
healthcare e materiali. Siamo ancora negativi, infine, su banche e
capital goods.
Pegoraro: Al di là del possibile, e probabile, storno che si
dovrebbe verificare nelle prossime settimane, raccomandiamo un
accumulo progressivo sulle azioni emergenti e sull’equity dell’area
euro. Allo stesso tempo, comunque, riteniamo fondamentale avere in
portafoglio anche posizioni su obbligazioni convertibili e corporate
high yield. Per quanto riguarda le aree geografiche, l’Asia potrebbe
mettere a segno una discreta ripresa economica, mentre sull’Est
Europa restano nuvole di tempesta; la stessa Russia ha gravi
problemi finanziari e si è confermata troppo dipendente dal
petrolio. L’America Latina, invece, ha mostrato fino a ora una buona
resistenza alla crisi. Nei prossimi mesi, dunque, potrebbe soffrire.
Rossi: Ancora una volta mi allineo con quanto espresso sinora dai
miei colleghi. Indubbiamente, l’attuale fase di ribasso delle Borse
va sfruttata per un ingresso graduale sull’equity. E anche io credo
che in un’ottica di medio-lungo termine i mercati emergenti offrano
opportunità più interessanti, come tutti i settori legati alle
infrastrutture e alle energie rinnovabili, che hanno un trend di
crescita di lungo termine. Il mercato azionario cinese beneficia
anche di costanti flussi positivi di raccolta su fondi specifici.
Guardiamo con interesse anche ai settori difensivi come il food e l’healthcare.
3 Insomma, per un ingresso massiccio sull’equity conviene aspettare
il nuovo anno. Nell’attesa, ci sono ancora occasioni interessanti
nel mondo dei corporate bond? E qual è invece la vostra view su
convertibili e inflation linked?
Trivelli: Il tema dei corporate bond continua a essere uno dei più
interessanti. La nostra attenzione va soprattutto alle emissioni
financial, mentre sul settore degli industriali e delle auto
potrebbero esserci maggiori tensioni in questa seconda parte
dell’anno. Anche convertibili e inflation linked continuano a dare
spunti di interesse. A oggi l’inflazione non sembra un rischio, ma
probabilmente avremo dati in peggioramento verso la fine dell’anno;
di conseguenza, gli inflation, specialmente in Europa, potrebbero
diventare interessanti. Per quanto riguarda i convertibili, invece,
il tema è estremamente attuale: offrendo un approccio mediato al
rischio azionario, si rivelano particolarmente interessanti in
periodi di alta volatilità, come quello che stiamo vivendo. Allo
stesso tempo, però, presenta maggiori criticità a causa della minore
liquidità del mercato.
Ramponi: Anche noi continuiamo a vedere occasioni nel settore dei
corporate bond, in particolare negli high yield. Ma l’occasione va
colta consapevoli dell’elevato rischio connesso. Per portafogli più
prudenti conviene accumulare sui titoli investment grade nei
prossimi due-tre trimestri. Interessanti molte emissioni bancarie,
ma da selezionare con grande attenzione, soprattutto in relazione
alla liquidità degli strumenti. Sulle obbligazioni legate
all’inflazione abbiamo investito molto negli ultimi sei mesi, ma nel
frattempo lo scenario è cambiato e abbiamo preso profitto. Sul
finire del 2008, infatti, si scontava un’inflazione attesa negativa
per i prossimi anni. Oggi invece le attese si sono invertite e il
mercato si aspetta inflazione positiva a livelli simili a due anni
fa. Solo una correzione significativa delle attese inflative
potrebbe condurci a un nuovo investimento e non crediamo che
nell’arco dei prossimi 12-18 mesi l’inflazione possa salire in modo
significativo. Gli aggregati monetari e la capacità produttiva non
utilizzata lo indicano chiaramente. Rispetto alle obbligazioni
convertibili, lo scarso livello di liquidità di questi strumenti ci
suggerisce ancora prudenza.
Simoncelli: I corporate bond rimangono indubbiamente ancora
interessanti. Nonostante gli spread si siano ridotti in maniera
sostanziale le valutazioni sono ancora favorevoli, soprattutto sulla
componente investment grade. In particolare, vediamo ottime
opportunità legate all’analisi dei fondamentali e ci aspettiamo una
maggiore dispersione di performance tra titoli e settori. Non
riteniamo altrettanto interessanti, invece, le inflation linked e le
convertibili.
Guerriero: Per quanto ci riguarda, siamo strutturalmente lunghi sul
credito, sia corporate sia high yield. È vero che entrambe le asset
class hanno già performato bene, ma non bisogna dimenticare che i
differenziali si erano allargati molto già dal 2007. Attualmente
siamo ai livelli di settembre 2008 e siamo convinti che un
portafoglio di qualità sia ben remunerato in termini sia finanziari
sia di rischio default. Siamo neutrali, invece, sulle obbligazioni
convertibili, mentre riteniamo che ci possa essere del valore nelle
inflation linked; ma visto che queste obbligazioni sono generalmente
a scadenza lunga bisogna prestare molta attenzione al ciclo dei
tassi.
Pegoraro: Anche noi siamo positivi sul comparto dei corporate bond.
Trattandosi però di un rischio difficile da diversificare è il caso
che l’investitore privato si avvicini a questa asset class
attraverso fondi attivi o Etf. E, contrariamente a quanto espresso
dai miei colleghi, siamo positivi anche sulle convertibili e sulle
obbligazioni legate all’inflazione.
Rossi: Dal nostro punto di vista, nel mercato dei corporate bond
restano estremamente appetibili le emissioni investment grade. I
tassi di default sono sensibilmente più bassi e le società hanno
dimostrato di voler salvaguardare il proprio merito di credito,
anche con operazioni straordinarie sul capitale. Inoltre, gli spread
restano ancora elevati rispetto alla media storica e questo rende le
emissioni societarie più interessanti rispetto ai titoli
governativi, ma in un’ottica di medio periodo. Interessanti anche le
inflation linked, ma non va trascurata la minore liquidità rispetto
a titoli nominali e la tendenza a sottoperformare durante le fasi di
flight to quality. Rimane, infine, ancora valido anche
l’investimento in obbligazioni convertibili, ma solo come sostituto
dell’equity.
4 Nelle ultime riunioni, Fed e Bce hanno lasciato invariato il costo
del denaro. Quali sono le vostre attese sui tassi di interesse per
fine 2009?
Trivelli: Credo che le banche centrali non avranno la forza di
toccare i tassi al rialzo fino al prossimo anno. Tuttavia, il
problema dell’exit strategy rimane un punto focale nel secondo
semestre. Nel caso in cui i governi non considerino seriamente un
rientro nel medio periodo da questa fase di peggioramento dei
deficit, la Bce non avrà altre armi se non quella del rialzo dei
tassi.
Ramponi: La Bce ha diffuso stime di decrescita del Pil della zona
euro tra il -4% e il -5% per il 2009. Se a queste cifre associamo un
tasso di inflazione praticamente nullo, è difficile pensare che la
Banca centrale europea possa rialzare i tassi prima del 2010. La
Federal Reserve, invece, ha sempre dichiarato che manterrà i tassi
bassi almeno fino a quando non sarà sicura dell’uscita degli Usa
dalla recessione. Un termometro, anche storicamente, attendibile
potrebbe essere il mercato del lavoro. E fino a quanto non si
arresterà la forte perdita di occupati, la Fed non dovrebbe
intervenire sui tassi d’interesse.
Simoncelli: La nostra previsione è di tassi d’interesse invariati e
su livelli quindi espansivi per l’intero 2009. Anche per il 2010,
comunque, ci sembra prematuro parlare di una vera e propria
inversione di tendenza, con politiche marcatamente restrittive. Gli
squilibri strutturali sul fronte macro sono tali da giustificare
tassi d’interesse contenuti per parecchio tempo. Piccoli
aggiustamenti saranno possibili a fine 2010.
Guerriero: Sia per la zona euro sia per gli Usa le nostre previsioni
sono di status quo per i tassi. Ciò si giustifica con un’economia
ancora debole e con un andamento dell’inflazione non preoccupante.
Se le cose dovessero aggravarsi nella zona euro, invece, non sarebbe
da escludere un ulteriore ribasso del costo del denaro.
Pegoraro: Ritengo improbabile che la Bce possa tagliare
ulteriormente i tassi. Anzi, penso che nel breve-medio termine dovrà
procedere a progressivi rialzi, magari già dall’inizio del 2010. La
situazione dei tassi americani, invece, è assai fluida e una spinta
al rialzo sui tassi potrebbe arrivare dalle tensioni generate dalle
nuove emissioni di bond del governo statunitense: il collocamento
dei titoli sul mercato potrebbe non essere semplicissimo e avvenire
a tassi crescenti, mentre la scelta di monetizzare il deficit,
stampando in sostanza nuova moneta, avrebbe ricadute su inflazione e
tassi di cambio, che potrebbero spingere verso l’alto i tassi a
breve.
Rossi: Per quanto riguarda la Federal Reserve, siamo convinti che i
tassi rimarranno bassi per molto tempo. Contrariamente a ciò che
sconta il mercato monetario, ovvero rialzi già entro il prossimo
anno, appare poco verosimile che una Banca centrale ritiri l’impulso
monetario dato all’economia americana prima che questa abbia
confermato un ritorno alla crescita. L’obiettivo della ripresa ci
sembra prioritario rispetto a quello del controllo dei prezzi.
Inoltre, andrebbero prima rimosse le politiche di quantitative
easing. La Bce, invece, avendo dato inizio al ciclo di easing un
anno dopo la Fed, si trova ancora nella condizione di valutare
l’opportunità di ulteriori tagli. Il Refi Rate, oggi all’1%,
potrebbe subire un ulteriore taglio di 25 punti base. Tutto,
comunque, dipenderà dalla variabile crescita: da monitorare
indicatori come il Pmi, ordini all’industria e Ifo.
5 Dopo la corsa degli ultimi tre mesi, quali sono le vostre
aspettative su petrolio e materie prime? Il loro rialzo è destinato
a continuare? E quale sarà l’impatto sui mercati?
Trivelli: Il petrolio ha recuperato bene dai minimi di dicembre 2008
(sia a New York sia a Londra tratta intorno ai 70 dollari al barile,
ndr) e crediamo che rimarrà a livelli relativamente elevati,
malgrado le difficoltà dell’economia nel prossimo anno. È comunque
nelle economie emergenti che continueremo a vedere consumi in
crescita. Ulteriori incrementi del prezzo del greggio potrebbero
riportare sul mercato i timori di un aumento dell’inflazione, che
comporterebbe un rallentamento della ripresa economica. Il tema
delle materie prime in generale si mantiene interessante nel medio
periodo, anche se esporrà a molta volatilità dei prezzi.
Ramponi: La rivalutazione delle materie prime può continuare solo se
ci saranno conferme congiunturali importanti. Nel breve termine, il
venir meno del ciclo di ricostituzione delle scorte e delle
dinamiche speculative che hanno amplificato l’attuale trend
dovrebbero favorire un ridimensionamento dei prezzi.
Simoncelli: Nel breve termine le materie prime si sono mosse molto e
in maniera repentina. Anche noi, quindi, ci aspettiamo una fase di
consolidamento. Ci sono tuttavia fattori strutturali a supporto
delle materie prime che ci inducono a prevedere un rialzo delle
quotazioni nella fase finale dell’anno.
Guerriero: Effettivamente le quotazioni del petrolio sono salite
tanto in questi ultimi tre mesi. Di conseguenza è assolutamente
lecito attendersi una piccola pausa. In particolare, le nostre stime
vedono un greggio tra 50 e 65 dollari al barile a fine del 2009 e
tra 50 e 75 dollari al barile a fine 2010.
Pegoraro: Le nostre stime non discostano di molto da quelle dei
colleghi. Nello specifico, riteniamo che il petrolio si attesterà
tra i 60 e i 70 dollari al barile e che alcune commodity
recupereranno parte del terreno perso negli ultimi mesi, anche se
non rivedremo certo alcuni picchi anomali registrati nel 2007.
Rossi: Anche noi vediamo un petrolio oscillare all’interno di un
range prossimo ai valori attuali. L’Opec è soddisfatto dell’attuale
livello. Inoltre a questi prezzi i Paesi dipendenti da questa
materia prima possono uscire dalla grave recessione in atto e
l’economia mondiale può mantenere una crescita prospettica di lungo
termine. Per quanto riguarda le altre materie prime, invece, molto
dipenderà dalla velocità di uscita dalla recessione e dai consumi
delle economie emergenti nel breve termine. In un’ottica di lungo
periodo, comunque, abbiamo una view positiva.
6 Quali sono invece le vostre aspettative sul cambio euro/dollaro? E
sullo yen?
Trivelli: Le grandi emissioni di Treasury, accompagnate da
un’industria debole e dal settore dell’export ancora in difficoltà,
hanno avuto l’effetto di indebolire il dollaro nei mesi passati.
Strutturalmente la valuta statunitense non ha motivi per rafforzarsi
nel prossimo futuro; tuttavia, l’amministrazione americana deve fare
attenzione a non lasciarla indebolire troppo, pena il rischio di
vedere superato il concetto di divisa di riferimento.
Ramponi: La fragilità del dollaro nelle ultime settimane esprime il
forte deterioramento del bilancio americano, messo sotto pressione
da un debito pubblico destinato a lievitare ulteriormente.
Continuiamo a coprire dal rischio cambio tutti gli asset espressi in
dollari statunitensi. Anche lo yen appare poco sorretto dai
fondamentali dell’economia nipponica che ha visto nel 2008 dimezzare
le esportazioni.
Simoncelli: Lo yen ci appare sopravvalutato e quindi crediamo
tenderà a indebolirsi. Bisogna comunque considerare la relazione
molto forte tra valute e propensione/avversione al rischio sui
mercati finanziari. L’euro potrebbe soffrire in caso di sorprese
negative nei nuovi dati macroeconomici, ma sicuramente con un’ottica
di lungo periodo il dollaro americano presenta un profilo a maggiore
rischio.
Guerriero: In questo momento abbiamo una posizione neutrale nei
confronti del cambio euro/dollaro. Se da un lato, infatti, un
eventuale taglio dei tassi Bce, accompagnato da una uscita dalla
recessione degli Stati Uniti, potrebbe favorire un recupero del
dollaro, dall’altro bisogna considerare che l’elevato debito
pubblico statunitense, unito alle politiche di quantitative easing,
potrebbe influenzare negativamente il valore del dollaro nel lungo
periodo.
Pegoraro: Per quanto ci riguarda, crediamo che il dollaro continuerà
a essere debole contro euro, con un cambio Eur/Usd che potrebbe
riportarsi a ridosso di quota 1,50. Lo yen, invece, potrebbe
rafforzarsi nei confronti della valuta statunitense per il
progressivo, anche se ancora marginale, abbandono del dollaro
americano da parte degli investitori istituzionali e pubblici
nipponici.
Rossi: Il mercato dei cambi sta vivendo un momento attendista.
Bisognerà valutare con molta attenzione la volontà della Cina e di
altri Paesi come la Russia di non utilizzare più il dollaro come
valuta di riferimento per gli scambi. Se ciò avvenisse porterebbe a
un ulteriore indebolimento della divisa statunitense.
7 Parlando invece dell’Italia, quali sono le vostre previsioni per i
prossimi sei mesi? E quali sono secondo voi i titoli e i settori da
privilegiare?
Trivelli: L’Italia non fornisce particolari spunti rispetto ai Paesi
dell’Europa, viste le stime di contrazione del Pil per il 2009 e il
2010. Potremmo vedere performance interessanti solo nel caso di un
forte rally del settore financial, che tuttavia non riteniamo
probabile nel prossimo futuro.
Ramponi: Il listino azionario italiano dovrebbe comportarsi
coerentemente con le altre Borse dell’Europa continentale, magari
agevolato dalla significativa presenza di titoli finanziari che
nell’ultima parte dell’anno potrebbero beneficiare di un eventuale
miglioramento sistemico sul fronte della dinamica dei profitti
aziendali.
Pegoraro: A tre mesi, il quadro rimane abbastanza incerto, ma
migliora in un orizzonte di sei mesi. Resta comunque il fatto che
l’economia italiana avrà maggiori difficoltà rispetto al resto
d’Europa a superare la crisi. Non è un caso che il nostro Pil è
quello che registra i tassi di decrescita più alti. A livello
settoriale è difficile fare ragionamenti. Conviene più che altro
analizzare i fondamentali delle singole società. Tra le big, mi
piacciono Enel ed Eni. Tra le società a media capitalizzazione,
invece, guardo con molta attenzione ad Ansaldo Sts, Campari e ad
alcune banche locali, come il Credito Emiliano. Tra le piccole e
piccolissime, infine, risultano interessanti Elica e Autostrade
Meridionali.
Rossi: Non facciamo previsioni di performance per il mercato
italiano, ma pensiamo che l’indice azionario possa fare meglio dei
titoli governativi. I settori che privilegiamo sono quelli delle
utility regolate, delle infrastrutture e dell’energia.
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Fonte
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Borsa&Finanza |
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Martedì
14 Luglio
2009 |
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Mercoledì
15 Luglio
2009 |
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Venerdì
17 Luglio
2009 |
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Euribor a tre mesi
per la prima volta sotto l’1%
Tuesday, 14 July, 2009 at 13:29 - di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Buone notizie almeno per chi deve
comprare casa: l’Euribor a tre mesi è sceso per la prima
volta sotto l’1%. Il tasso interbancario è adesso al di
sotto del tasso ufficiale di finanziamento a breve praticato
dalla BCE, fissato all’1% esatto. buone notizie, soprattutto
per i governi, ma molto parziali per chiunque altro.
La discesa è conseguenza di due fattori che hanno alterato
profondamente le dinamiche del mercato interbancario: da un
lato, le gigantesche iniezioni di liquidità delle banche
centrali; dall’altro, la ridotta volontà di prestare alle
aziende industriali ed ai consumatori finali, che mantiene
elevato il desiderio d’impiegare tali fondi su un mercato
liquido.
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Differenziale fra
tasso swap e rendimento dei titoli governativi sulla
scadenza quinquennale |
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Per chi pensasse che questa ripresa
sia conseguenza di un duraturo miglioramento della fiducia del
sistema bancario, ricordiamo la situazione di uno dei
“termometri della paura”, ossia il differenziale fra tassi swap
e i rendimenti dei titoli governativi. Mentre a breve termine
tale differenziale è negativo, come abbiamo già detto, i livelli
dello spread su scadenze più lunghe ha smesso di scendere a fine
maggio ed ha ricominciato a salire, tornando ai livelli di fine
febbraio. Questo significa che le banche sono più che
disponibili a prestarsi fondi a vicenda sul breve periodo, ma
che sono molto più caute nell’impiegare fondi a medio/lungo
termine. Il tasos swap è inoltre una delle basi per il calcolo
dei tassi praticati alla clientela e il differenziale fra questo
e i rendimenti dei titoli di Stato può essere visto anche come
un indicatore del la percezione del rischio di credito
all’economia industriale; la mancata stabilizzazione di questo
differenziale significa che la la politica monetaria di tassi a
zero sta aiutando i bilanci pubblici, riducendo drammaticamente
i rendimenti dei titoli governativi e quindi il costo del nuovo
debito emesso dagli stati, ma solo parzialmente i debitori
privati. La strada per la normalità è ancora lunga.
CDS, arrivano
gli sbirri
Wednesday, 15 July, 2009 at 8:30 - di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il Dipartimento di giustizia
americano ha messo sotto inchiesta il principale fornitore
di dati sul mercato dei CDS e gestore degli indici più
seguiti del mondo dei CDS : CDX ed Itraxx.
Non è ancora chiaro se si tratti di un’indagine “di
routine”, legata alle proposte di joint-venture fra Markit e
DTCC , o un’indagine legata ad attività collusive fra la
società ed i propri azionisti, le maggiori banche d’affari
del pianeta. Gran parte delle istituzioni finanziarie
impiegano le quotazioni di Markit come prezzo di
valorizzazione ufficiale dei CDS in bilancio, ma è
conoscenza comune quanto tali quotazioni siano a volte molto
distanti dai livelli effettivi di mercato, soprattutto in
caso di ampie variazioni improvvise. Le differenze erano
sempre state attribuite a problemi tecnici e dagli algoritmi
di composizione dei prezzi di chiusura, ma cominciano già a
fiorire teorie più sinistre al riguardo.
clipped from www.ft.com
The US Department of Justice has started investigating a data
provider and dealers in the credit derivatives market for
potential violations of the US Sherman Act, which prohibits
abuses of monopoly power or other forms of collusion.
Shareholders in Markit include JPMorgan Chase, Goldman Sachs,
Citigroup, Deutsche Bank, Bank of America and Morgan Stanley,
among others. Banks either declined to comment or were not
available for comment.
The US Department of Justice has started investigating a data
provider and dealers in the credit derivatives market for
potential violations of the US Sherman Act, which prohibits
abuses of monopoly power or other forms of collusion.
Shareholders in Markit include JPMorgan Chase, Goldman Sachs,
Citigroup, Deutsche Bank, Bank of America and Morgan Stanley,
among others. Banks either declined to comment or were not
available for comment.
La morte dell’asset
allocation Thursday, 16 July, 2009 at 9:39 -
by phastidio ______________________________________________
Facendo a pugni con la logica
economica, tutte le principali asset class stanno crescendo
in contemporanea.
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Addio alla
diversificazione |
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E’ l’effetto della terrificante
liquidità presente nel sistema, che ha una gran voglia di
inondare i germogli di ripresa, veri o presunti. Fonte
-
Macromonitor
Via il velo dai
prodotti illiquidi
16-07-09 - di Sara Silano ______________________________________________
Si infittiscono le proposte
normative a livello italiano e internazionale per colmare i
vuoti legislativi che la crisi ha fatto emergere in tutta la
loro gravità. Come ha ricordato il presidente della Consob,
Lamberto Cardia, nella relazione annuale alla comunità
finanziaria, “Il quadro regolamentare nei principali mercati
finanziari si è rivelato non preparato a prevenire e
fronteggiare le tensioni indotte dalla crisi e a gestire il
fallimento di imprese finanziarie di dimensione
transnazionale”. Nonostante l’Italia abbia un sistema
normativo piuttosto ampio, Cardia ha più volte ricordato
l’importanza di “rafforzare le difese dei piccoli
investitori”, anche in ragione del fatto che i prodotti
finanziari illiquidi, tra cui le obbligazioni bancarie,
rappresentano oltre un terzo del portafoglio delle famiglie
italiane”.
Il 14 luglio, giorno dopo la relazione annuale, l’autorità
di vigilanza sulla Borsa ha emanato un documento di
consultazione sui prospetti d’offerta o di ammissione alle
negoziazioni delle obbligazioni bancarie e più in generale
dei prodotti illiquidi, con l’obiettivo di delineare
linee-guida per un’adeguata rappresentazione del profilo di
rischio/rendimento e dei costi di questi strumenti. In
sostanza, si vogliono estendere i requisiti informativi
previsti per il settore delle obbligazioni, dei derivati Otc
(over the counter) e delle polizze assicurative, eliminando
la mancanza di trasparenza informativa che ha permesso agli
strutturati di proliferare prima della crisi. Il documento
segue quello del 2 marzo scorso riguardante i doveri degli
intermediari nella distribuzione di questi strumenti.
Va nella direzione della semplificazione per i clienti,
invece, il Kid (Key information document), il prospetto che
contiene le informazioni essenziali che l’investitore deve
conoscere prima di acquistare un fondo e che sarà uguale in
tutt’Europa. Il Cesr, che riunisce le autorità di vigilanza
dei Paesi Ue, ha messo in consultazione fino al 4 settembre
un documento elaborato dal gruppo di esperti sul risparmio
gestito presieduto da Cardia nel quale sono indicati i
dati-chiave che dovranno essere riportati (politica di
investimento, rischi, costi e rendimenti degli anni
precedenti).
Il Comitato ha anche espresso il suo parere in materia di
passaporto europeo per le società di gestione, rispondendo a
una richiesta della Commissione Ue. L’obiettivo è duplice:
aumentare l’integrazione dei mercati e potenziare le misure
a tutela degli investitori. In particolare il Cesr ha
suggerito alcuni requisiti organizzativi, di gestione dei
conflitti d'interesse e regole di condotta delle società di
gestione, in linea con i principi indicati dalla direttiva
sui servizi finanziari (Mifid). Inoltre, sono previste
misure specifiche da adottare nei rapporti tra sgr e banche
depositarie quando queste facciano parte di differenti Stati
dell'Ue; sistemi di gestione del rischio da parte delle
società di gestione e l’istituzione al loro interno di
specifiche strutture organizzative in grado di assicurare
efficienti meccanismi di controllo e un’adeguata diffusione
dei flussi di informazione. Non meno importante è la
cooperazione nella vigilanza al fine di assicurare un
corretto funzionamento del passaporto europeo.
Ancora il Cesr, entro la fine dell’anno pubblicherà un
rapporto in materia di “adeguatezza” degli investimenti
proposti dagli intermediari ai clienti, anche alla luce dei
problemi emersi con la vicenda Lehman Brothers. In sostanza
si tratta di un approfondimento della Mifid. In pratica, il
documento distingue tra prodotti “complessi” per i quali il
test di appropriatezza va sempre realizzato e “non
complessi” per i quali non serve se l’intermediario si
limita ad eseguire gli ordini impartiti dal cliente
(modalità execution only).
Infine, il 22 giugno lo Iosco, organizzazione internazionale
delle “Consob”, ha emanato alcuni principi per regolamentare
gli hedge fund, con raccomandazioni per aumentare le
informazioni a disposizione di autorità e investitori.
L’intervento è in linea con la programmata approvazione di
una direttiva europea in materia di fondi non armonizzati e,
ha detto Cardia durante l’assemblea annuale, “rappresenta un
importante passo verso la condivisione di nuovi standard in
un segmento dell’industria per sua natura globale e, sino ad
oggi, poco o nulla regolamentato”.
Fonte
-
MorningStar.it
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Gestori,
economia ancora malata
Sara Silano - di
16-07-09
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E’ stato un rally all’interno di un mercato “Orso”
quello che hanno vissuto le Borse internazionali nel secondo
trimestre. Ora i gestori scrutano l’orizzonte per capire se
l’economia si rimetterà in marcia. Secondo l’ultimo sondaggio,
condotto da Morningstar tra le principali case di investimento che
operano in Italia, i prossimi mesi saranno caratterizzati da
volatilità. Ed è per questo che la quota di azioni nei portafogli
bilanciati è ancora in (leggero) sottopeso.
Utili al punto di svolta in Europa
Rispetto a giugno, sono aumentati i gestori che prevedono una
discesa delle Borse europee nei prossimi sei mesi, passando dal 9 al
16,7%. La maggior parte degli intervistati, comunque, continua ad
essere convinta che i listini rimarranno volatili intorno agli
attuali livelli. Ci sono buone ragioni per sostenere che la stagione
degli allarmi-utili abbia raggiunto il picco, per cui la situazione
dovrebbe migliorare in futuro. Anche le valutazioni, con l’eccezione
delle società più cicliche, sono diventate più attraenti. Tuttavia
alcuni indicatori economici sono ancora in calo, in particolare
quelli sulla domanda interna, la produzione industriale e le
esportazioni.
Usa, prematuro parlare di ripresa
Su Wall Street il sentiment è più positivo rispetto alle Borse
europee. Per quasi il 40% dei gestori, infatti, il listino americano
salirà nei prossimi sei mesi (erano il 27% a giugno). Gli Stati
Uniti si trovano più avanti nel ciclo economico, anche se è presto
per parlare di ripresa. E’ vero, le revisioni al rialzo degli utili
hanno superato quelle al ribasso per la prima volta da giugno 2008,
ma ci sono ancora segnali di debolezza congiunturale, a partire dal
basso livello di utilizzazione degli impianti. Per questa ragione,
quasi un fund manager su due prevede volatilità nella seconda parte
del 2009.
Volatilità in Giappone
A giugno, la Borsa di Tokyo ha perso meno dei mercati mondiali
(-3,4% l’indice Msci Japan contro il -4,4% dell’Msci World in euro)
e per il 33% dei gestori potrebbe apprezzarsi nei prossimi sei mesi.
Gli stimoli governativi, infatti, hanno cominciato a produrre
effetto sui consumi privati e hanno determinato un aumento della
fiducia sul mercato domestico. Tuttavia, un manager su due prevede
un periodo di alta volatilità sul listino nipponico, dal momento che
il Paese non ha risolto i problemi strutturali. Inoltre è
caratterizzato da una bassa crescita demografica che non permette di
sfruttare a pieno la maggior quantità di denaro che c’è nel Paese
rispetto all’occidente e che deriva dal basso livello di debito
privato.
L’inflazione non fa paura
Nell’ultimo mese, i tassi a lunga scadenza sono scesi perché
rimangono dubbi sulla velocità della ripresa e si sono attenuate le
aspettative di inflazione. Nell’area Euro, il 61% dei gestori si
attende prezzi stabili, mentre negli Stati Uniti uno su due prevede
una discesa. Oltreoceano, i rendimenti sono prossimi allo zero, ma
la domanda di Treasuries rimane elevata a causa della diminuzione
dell’ottimismo sul ciclo economico, dopo i dati sull’occupazione e
la fiducia dei consumatori. Molti fund manager sono convinti che il
segmento delle obbligazioni societarie sia più interessante, anche
se meno di qualche mese fa, perché ci sarà ancora una moderata
riduzione del premio per il rischio.
Dollaro debole
Rispetto a giugno la percentuale di gestori che prevede un
apprezzamento dell’euro contro il dollaro è diminuito, passando dal
50 al 33%. Tuttavia, la maggior parte dei manager è convinta che il
biglietto verde rimarrà debole a causa delle manovre fiscali e della
politica monetaria espansiva. Secondo alcuni, la situazione della
divisa Usa segnala anche una graduale ripresa della congiuntura
mondiale, che porta con sé una minore domanda di monete “rifugio”.
Hanno partecipato al sondaggio,
condotto tra il 3 e il 10 luglio, 18 delle principali società di
diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per
circa il 70% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Allianz
Global Investors Italia, Anima Sgr, Axa Im, Bnp Paribas Am Sgr,
Clariden Leu, Euromobilare Sgr, Fideuram Investimenti, Henderson
Global Investors, Ing IM, Investitori Sgr, Julius Baer, Pioneer Im,
Schroders, Sella Gestione, Sgam, Threadneedle, Total Return,
Vontobel.
 |
Fonte
-
MorningStar.it |
La
crisi 2008 non tocca le
retribuzioni dei manager bancari e assicurativi
21 Luglio 2009 19:15 MILANO - di
Il Sole 24 Ore
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Nonostante la crisi finanziaria ed economica innescata
dal settore del credito, l'anno scorso in Italia le retribuzioni dei
manager dei maggiori gruppi bancari e assicurativi sono in generale
cresciute, almeno nella parte catalogata alla voce "emolumenti per
carica", mentre sono calati solo i bonus legati ai bilanci, che in
media hanno segnato una consistente contrazione degli utili. Ma
quello che più colpisce è che nel 2008 le remunerazioni di
amministratori e top manager del settore finanziario sono rimaste a
una distanza siderale, sono minimamente calata rispetto allo
stipendio medio dei lavoratori dei due settori. I presidenti dei
gruppi bancari hanno guadagnato da 10 a 57 volte in più di un loro
dipendente, mentre gli amministratori delegati da 16 a 166 volte.
Nel mondo delle assicurazioni le disparità sono state ancora
maggiori: i presidenti dei gruppi assicurativi hanno incassato
retribuzioni da 20 a 161 volte superiori a quelle della media dei
dipendenti, mentre gli Ad da 41 a 244.
Lo testimonia la seconda edizione dell'analisi elaborata
dall'Ufficio Studi della Uilca, il sindacato dei bancari e degli
assicurativi della Uil, condotta sui bilanci degli undici maggiori
gruppi bancari (Banca Desio e della Brianza, Banca Popolare dell'Emila,
Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare
di Spoleto, Banco Popolare, Carige, Intes Sanpaolo, Monte dei Paschi
di Siena, Unicredit e Unione Banche Italiane)e dei sette principali
gruppi assicurativi (Axa, Cattolica, Fondiaria-Sai, Generali, Muench
Rueckver,Unipol e Zurich Group) attivi in Italia, presentata oggi a
Milano da Massimo Masi, segretario generale Uilca, dalla
coordinatrice dell'Ufficio Studi Orietta Guerra e da Roberto Telatin.
La situazione delle banche
Tra il 2007 e il 2008 il settore del credito ha segnato una pesante
riduzione degli utili consolidati, tranne le eccezioni di Banca
Popolare di Spoleto e di Carige. Si va dal -32,02% di Unicredit sino
al caso del Banco Popolare che è passato dall'utile di 617 milioni a
un "rosso" di 333. A fronte di ciò, i presidenti degli undici Gruppi
bancari analizzati hanno visto ridursi i loro compensi totali del
9,4%, passando da 11,4 a 10,35 milioni, dunque in media da 1,04 a
0,94 milioni a testa. La diminuzione deriva dall'azzeramento dei
"bonus e altri incentivi" che è stata attenuata dalla crescita del
3,72% degli "emolumenti per la carica". Situazione analoga per gli
Ad dei Gruppi bancari: il calo totale delle retribuzioni è del
32,45% (da 30,98 a 20,93 milioni), dovuto al tracollo dell'83,05%
dei "bonus e altri incentivi" e a una crescita del 7,63% degli
"emolumenti per la carica", su cui influisce però la liquidazione
dell'ex consigliere delegato del gruppo Banco Popolare, Fabio
Innocenzi.
Il caso delle assicurazioni
Nel comparto assicurativo la performance meno negativa sul fronte
degli utili è stata quella di Zurich Group, con un calo del 47%,
mentre la peggiore è stata di Cattolica, passata da un utile di 57
milioni a una perdita di 87. Nel 2008 le retribuzioni degli
amministratori delegati hanno visto un calo di "bonus e altri
incentivi" del 48,53%, mentre gli "emolumenti per la carica" sono
saliti del 2,28% frenando la riduzione delle retribuzioni totali a
-23,86%. Invece i presidenti delle assicurazioni hanno visto
scendere tutte e quattro le categorie in cui sono dettagliati i
compensi con un calo complessivo del 15,96 per cento.
L'attacco del sindacato
«I dati esposti evidenziano che la tanto sbandierata riduzione dei
compensi del top management delle principali aziende finanziarie del
Paese non c'è stata in particolare sulla componente fissa, come
richiesto da tempo da varie parti e dalla Uilca in particolare», ha
spiegato Massimo Masi, segretario generale Uilca. «In sostanza, dove
sono intervenuti elementi esterni come la crisi, i compensi sono
scesi, mentre per la parte fissa, sulla quale incidono scelte e
decisioni assunte direttamente dalle aziende, le retribuzioni hanno
avuto un incremento. Tutto ciò in controtendenza, sotto il profilo
economico e morale, con quanto avvenuto in altri Paesi europei, tra
i quali in Germania sono previste sanzioni per i manager che
commettono gravi inadempienze e in Olanda si sta istituendo un esame
di stato per i dirigenti, ed extra europei, su tutti gli Stati
Uniti».
«La Uilca», ha continuato Masi, «non ha alcuna intenzione di
additare i singoli manager bancari e assicurativi, tra i quali molti
hanno contribuito a riformare e a consolidare i due comparti in
Italia. Ma la questione relativa al valore assoluto di certe
retribuzioni e il loro rapporto con quanto guadagna la media dei
lavoratori, 28mila euro lordi l'anno, ha assunto una dimensione
etica e morale, che ormai non può più essere ignorata dalle aziende,
dai loro vertici e dagli azionisti. La Uilca ribadisce che è
necessario agire in un'ottica di sistema, cambiando regole, metodi e
comportamenti, abbandonando pericolose logiche di profitto a breve
termine e recuperando una visione dell'impresa come di un soggetto
sociale al servizio dello sviluppo di una comunità e delle banche
come il tramite per raggiungere tale scopo. Ma le aziende bancarie e
assicurative finora hanno preferito adagiarsi, in attesa di superare
una tempesta, dopo la quale, quando finirà, il rischio è di trovarci
tutti più deboli e impreparati a cogliere la ripresa.
Intanto a tutti i livelli stanno ricominciando le politiche di
incentivazione senza controllo e le enormi pressioni sui lavoratori,
per vendere prodotti che garantiscono maggiori guadagni. La Uilca
continuerà a denunciare pratiche immorali e comportamenti lesivi
della dignità dei lavoratori, per i quali insiste nella richiesta di
politiche di sostegno del reddito, di valorizzazione professionale e
di crescita occupazionale».
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Fonte
-
Il Sole 24 Ore |
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Mercoledì
22 Luglio
2009 |
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Sabato
25 Luglio
2009 |
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Venerdì
31 Luglio
2009 |
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CIT, troppo
piccola per non fallire?
Wednesday, 22 July, 2009 at
10:05 -
by phastidio ______________________________________________
CIT, il gruppo statunitense
di servizi finanziari fondato 101 anni fa e
specializzato nei finanziamenti a piccole e medie
imprese, ha raggiunto nella giornata di lunedì 20 luglio
un accordo da tre miliardi di dollari con i suoi
obbligazionisti per evitare il fallimento. Tuttavia,
tale erogazione finanziaria potrebbe non esser
sufficiente a proteggere la società dalla scadenza di 10
miliardi di dollari in obbligazioni, che avverrà entro
il prossimo anno, dalle crescenti insolvenze sul
portafoglio crediti e dalla riduzione della quota di
mercato.
La compagnia ha comunicato che il finanziamento da 3
miliardi di dollari è il primo passo di un più ampio e
complesso processo di ristrutturazione, e chiederà ai
propri obbligazionisti di accettare una decurtazione del
valore dei propri crediti. In caso di mancata adesione a
tale proposta, la compagnia potrebbe adire alle
procedure di amministrazione straordinaria previste per
i casi di insolvenza. CIT è giunta sull’orlo del
collasso da oltre 3 miliardi di dollari di perdite negli
ultimi otto trimestri su mutui ipotecari, crediti a
studenti e insolvenze commerciali, e non essendo
riuscita ad ottenere un secondo salvataggio governativo
dopo aver ricevuto, lo scorso dicembre, fondi pubblici
per 2,33 miliardi di dollari. In seguito, la Federal
Deposit Insurance Corporation ha negato alla società la
garanzia pubblica sulle emissioni di obbligazioni, di
fatto inaridendo il fondamentale canale di finanziamento
di un prestatore come CIT, che è privo di una base di
depositi rilevante e deve quindi ricorrere all’emissione
di obbligazioni.
Nel secondo trimestre CIT ha sofferto perdite per 1,5
miliardi di dollari, secondo quanto comunicato martedì
21 luglio, derivante da cancellazione di avviamenti,
maggiori accantonamenti a fondi perdite su crediti e
cessione in perdita di crediti verso clienti, effettuata
per fronteggiare crescenti e pressanti fabbisogni di
liquidità.
La liquidità esistente di CIT non è sufficiente per
rimborsare il miliardo di dollari di titoli a tasso
variabile in scadenza il prossimo 17 agosto: da qui la
richiesta agli obbligazionisti di scambiare titoli
ottenendo 82,5 centesimi per ogni dollaro di valore
nominale delle vecchie obbligazioni entro il prossimo 1
ottobre. Nel secondo trimestre di quest’anno il livello
di liquidità della compagnia è sceso sotto il minimo di
funzionamento, ed anche in caso di positiva accoglienza
della proposta di scambio e decurtazione del valore
nominale delle obbligazioni, CIT necessiterà di un
significativo finanziamento aggiuntivo per poter
continuare ad operare.
In attesa di conoscere l’esito di questa proposta, la
compagnia ha ottenuto da alcuni obbligazionisti un
finanziamento-ponte per 3 miliardi di dollari, che paga
10 punti percentuali sopra il Libor, quest’ultimo con un
livello minimo (floor) pari al 3 per cento, e pagamento
di una commitment fee al consorsio di prestatori pari al
5 per cento. Il che significa che, malgrado oggi il
tasso interbancario sul dollaro sia pari a circa mezzo
punto percentuale, il costo effettivo del finanziamento
non sarà inferiore al 18 per cento. Gli obbligazionisti
che forniranno il finanziamento includono l’hedge fund
di Boston Baupost Group, Capital Research & Management
Co., Centerbridge Partners LP, Oaktree Capital
Management LLC, Pacific Investment Management Co. e
Silver Point Capital LP.
L’azione ha iniziato un movimento ribassista con forte
volatilità e quota oggi intorno a 1 dollaro, a fronte
degli oltre 61 dollari ad azione con cui è stato
effettuato l’ultimo aumento di capitale, nel febbraio
2007. L’obbligazione a tasso variabile in scadenza il 17
agosto quota intorno a 85 centesimi per dollaro di
valore nominale.
La forte carenza di liquidità ha forzato CIT a tagliare
le erogazioni di credito. Nel trimestre terminato il 30
giugno, i prestiti di CIT a piccole imprese sono
crollati dell’88 per cento, a 65,7 milioni di dollari, e
la società è scesa al quindicesimo posto nella
classifica dei prestatori alle PMI, dal primo posto
dell’anno precedente. CIT finanzia circa un milione di
PMI statunitensi.
A conferma dell’aggravarsi della crisi economica, CIT ha
sperimentato dalla fine di giugno un significativo
“tiraggio” di linee di credito accordate ai clienti, che
hanno evidentemente visto un aggravamento delle loro
condizioni di liquidità operativa. Ciò ha
“significativamente degradato” la posizione di liquidità
di CIT. Questa situazione, combinata con l’incapacità ad
accedere ai mercati del credito, ha portato la compagnia
alle soglie del collasso. Un fallimento di CIT
metterebbe 760 clienti manifatturieri a rischio di
fallimento e precipiterebbe una crisi per circa 300.000
dettaglianti.
CIT non è stata inclusa negli stress test del Tesoro
statunitense perché la somma degli attivi aziendali,
pari a circa 80 miliardi di dollari, era inferiore alla
soglia minima di attivo delle banche sottoposte ai test,
fissata in 100 miliardi di dollari.
Fonte
- Macromonitor
L'Asia corre
ma ha paura della Cina
21-07-09 - di Marco Caprotti ______________________________________________
L’Asia continua a puntare
sulla ripresa. L’indice Msci della regione (Giappone
escluso) nell’ultimo mese (fino al 21 luglio e calcolato
in euro) ha guadagnato il 7,3%. Gli analisti sono
concordi nel dire che quando inizierà il vero recupero
dell’economia, i primi a registrarlo saranno proprio i
Paesi di quella zona. A far ben sperare è anche il buon
andamento degli utili negli Stati Uniti. Il mercato
americano è il principale approdo per le merci che
arrivano dall’Oriente e una sua ripresa farebbe felici
le società che lavorano nell’export.
Resta però l’incognita della Cina. “La crescita del
Paese potrebbe rallentare di colpo”, spiega una nota di
Morningstar. “Gli investimenti del Governo potrebbero
calare del 10% nei prossimi 12 mesi”. Colpa, fanno
notare gli operatori, dell’eccesso di spesa che si è
registrato fino ad oggi. Pechino nel periodo da gennaio
a maggio di quest’anno ha investito il 33% in più
rispetto agli stessi mesi del 2008.
Il rischio che il Paese vuole evitare è quello di
un’esplosione dell’inflazione che una corsa troppo
veloce dell’economia porterebbe inevitabilmente con sé.
Per questo, l’approvazione di nuovi progetti legati alle
infrastrutture ha subito un forte ridimensionamento
rispetto al quarto trimestre dell’anno scorso. La
situazione potrebbe assomigliare a quella vista durante
la crisi finanziaria asiatica del 1998-1999. A
rimetterci, anche in termini borsistici, saranno le
aziende dei materiali da costruzioni e immobiliari.
Tutto questo non significa che le autorità locali
smetteranno di mettersi le mani in saccoccia. “Gli
investimenti verranno dirottati sul welfare e sui
consumi dei cinesi, con probabili benefici per le
società che lavorano in questi due comparti”, continua
la nota. “Un comparto che potrebbe salire, a quel punto,
sarebbe quello dei beni tecnologici che dovrebbero
registrare una forte crescita in tutta l’Asia.
Non si ferma, intanto la corsa delle debuttanti L’ultima
a preparare le carte per la quotazione è stata China
State Construction Engineering che con l’arrivo sul
listino conta di raccogliere l’equivalente di 5,1
miliardi di euro. Se l’operazione andasse a buon fine si
tratterebbe della maggiore Ipo nel Paese da marzo del
2008.
Le strategie dei
colossi hi-tech hanno battuto il momento
difficile del settore
23-07-09 - di Marco Caprotti ______________________________________________
In un momento di bonaccia dei
mercati internazionali e quando gli investitori
aspettano con impazienza i risultati societari, Ibm e
Intel riescono a stupire. In realtà è tutto il comparto
della tecnologia che, grazie anche alla sua
caratteristica anticiclica, riesce a dimostrarsi tonico.
Mentre l’indice Msci World in un mese (fino al 23 luglio
e calcolato in euro) è cresciuto del 4,6%, il
sottopaniere hi-tech è riuscito a guadagnare il 7,5%. La
performance è migliore se si allarga l’orizzonte fino
all’inizio dell’anno: 6,88% contro 28,7%.
“Nel segmento tecnologico stiamo assistendo a un momento
di stanca della domanda”, spiega una nota firmata da
Rick Hanna e Andy Ng, analisti di Morningstar,
“Tuttavia, alcuni colossi come Ibm e Intel sono riusciti
a aumentare le vendite di prodotti particolari. Questo
ha permesso loro di aumentare i profitti, nonostante un
calo del fatturato complessivo”. Il gruppo guidato dal
presidente e amministratore delegato, Samuel Palmisano,
nel secondo trimestre ha registrato un calo delle
vendite del 7% rispetto allo stesso periodo dell’anno
scorso. L’utile lordo, intanto, è cresciuto dell’11,7%,
merito della spinta che è stata data alle vendita di
software unita a un risparmio di costi e un migliore
impiego della forza lavoro.
“Riteniamo che la società sarà in grado di migliorare la
profittabilità grazie alle iniziative produttive che si
concentreranno sui segmenti a maggiore valore aggiunto
del comparto tecnologico”, continuano gli analisti che
sul titolo hanno un obiettivo di prezzo di 113 dollari
contro i circa 109 di questi giorni. Il target price
precedente era di 136 dollari. “Ma in questo caso
abbiamo voluto considerare anche uno scenario in cui la
domanda potrebbe indebolirsi a causa della situazione
mondiale”, precisano Hanna e Ng.
Ha saputo sfruttare bene i suoi prodotti anche Intel. La
società guidata da Paul Otellini nel secondo trimestre
ha avuto utili per 8 miliardi di dollari, in crescita
del 12% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
“In questo caso, però, c’è stato anche un pizzico di
fortuna”, dice il report che assegna alla società un
fair value di 23 dollari (in questi giorni il titolo
viene trattato intorno ai 19 dollari. “I produttori di
Pc, alla fine del 2008 avevano esaurito le scorte di
microchip e quindi hanno dovuto rifornirsi”.
A far ben sperare gli investitori, nel caso di Intel
sono anche le ottimistiche previsioni fornite dal
management del gruppo. Le revenue del terzo trimestre,
ha spiegato alla comunità finanziaria dovrebbero essere
superiori agli 8,5 miliardi di dollari. “Certo, molto
dipenderà dai tempi della ripresa mondiale”, dicono gli
analisti di Morningstar. “C’è da considerare però che
molte aziende stanno già lavorando a un’ipotesi di
recupero e, quindi, potrebbero aumentare gli
investimenti nella tecnologia”.
Fonte
-
MorningStar.it
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Il
peggio è alle spalle, ma molto è
cambiato
29-07-09 - di
Valerio Baselli
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Christopher Davis, analista di Morningstar, lo ha
definito in un ariticolo il “New normal”. È il mondo che ci aspetta,
finanziariamente parlando. Gli investitori che sperano nel ritorno a
breve dei rendimenti pre-crisi, rimarranno delusi. Almeno questo è
il pensiero di Bill Gross, autorevole gestore del fondo Pimco Total
Return, espresso in occasione della consueta Morningstar Investment
Conference, tenutasi gli ultimi giorni di maggio a Chicago.
Gross prevede infatti un nuovo scenario economico all’orizzonte,
caratterizzato da una lenta crescita economica, rendimenti per gli
investitori più bassi che nel passato e un livello di disoccupazione
e di inflazione più alto. Le ragioni che stanno alla base di questa
nuova e prolungata tendenza sono la maggiore regolazione
dell’economia da parte dei governi, l’accesso più difficoltoso al
credito e il crescente tasso di risparmio (che porterà quindi ad un
abbassamento dei consumi).
Questa visione del futuro prossimo è condivisa anche da Gordon B.
Fowler, responsabile investimenti di Glenmade. In un intervista
pubblicata sul sito Morningstar.com, Fowler ha infatti espresso un
pensiero molto simile a quello di Bill Gross: una crescita sostenuta
sarà molto difficile da raggiungere nel breve-medio periodo.
Insomma, secondo Gross, Fowler e altri esperti, sta nascendo un vero
e proprio nuovo ordine finanziario globale. Il vecchio schema, in
cui tutto era trainato dalla domanda dei consumatori americani, i
quali prendevano a prestito ingenti somme per comprare beni
all’estero, è destinato a chiudersi nel breve periodo. I consumatori
si sono infatti indebitati troppo e oggi le banche non sono più così
disposte a concedere prestiti. Ora il rischio maggiore è quello di
trasferire il debito insostenibile dai consumatori ai governi,
aumentando i deficit pubblici e creando inflazione. Gross prevede
inoltre il lento declino del dollaro come valuta di riserva col
passare del tempo.
Molti analisti sono perplessi su queste previsioni, ma una cosa è
sicura: la ripresa da questa crisi sarà molto più lenta rispetto
alle passate recessioni. Ciò significa che sarà più difficile per il
nostro portafoglio recuperare le perdite subite tra la fine del 2007
e l’inizio del 2009.
Ma allora come fare? I consigli degli esperti, Bill Gross in primis,
sono semplici e precisi. Innanzitutto, risparmiare di più, pensando
quindi al proprio tenore di vita futuro, anche in un’ottica
previdenziale. Poi, selezionare quegli investimenti a costi più
bassi; non solo con riguardo ai costi di gestione, ma anche alle
commissioni e alle spese di transazione. È molto importante anche
cercare di “pensare globale”, ovvero gli investitori dovrebbero
investire maggiormente all’estero (Cina a India su tutti), cercando
di diversificare così il proprio portafoglio ed essere meno
dipendenti dalle sorti del dollaro. Bisogna comunque sempre tenere
in mente che non esiste un’asset allocation corretta, ma essa cambia
in base all’età e alla propensione al rischio. Infine, non bisogna
sottovalutare il pericolo inflazionistico. A questo proposito, uno
dei migliori modi di proteggere il proprio capitale dalla perdita di
potere d’acquisto, è quello di tenere in portafoglio Btp indicizzati
all’inflazione.
Ultima indicazione, evidenziata anche nel corso della Morningstar
investment conference, è quella di non abbandonare l’azionario,
puntando anzi su società che presentano buone prospettive di
crescita nel lungo periodo. Storicamente, le fasi di mercato
ribassiste sono degli ottimi momenti in cui investire. Comprando a
saldo e aspettando, forse oggi più a lungo di ieri, un rialzo deciso
dei listini.
 |
Fonte
-
MorningStar.it |
Il
rischio dimenticato e il benessere
illusorio
30-07-09 - di
Sara Silano
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Per spiegare la crisi finanziaria si potrebbe
semplicemente dire che non esiste rendimento senza rischio e non
siamo indenni da periodi difficili, improvvisi e imprevedibili come
invece a volte ci illudiamo possa accadere. Una teoria che non è in
conflitto con quelle basate sullo scoppio della bolla immobiliare e
l’eccesso di debito di bassa qualità (mutui subprime).
Tyler Cowen, professore di economia alla George Mason University
della Virginia, sostiene, in un articolo pubblicato da
Morningstar.com, che la crisi può essere riassunta in tre passi: la
crescita drogata del benessere, la decisione di optare per
investimenti volatili e la sottostima delle nuove forme di rischio.
Negli anni Novanta il benessere è aumentato in modo esponenziale.
Dopo la caduta del comunismo, infatti, il commercio mondiale è
cresciuto, così come l’economia, in particolare quella di Paesi
emergenti, e i rendimenti delle azioni. La ricchezza si è riversata
sui mercati finanziari, grazie anche all’ammodernamento di molti
sistemi bancari “periferici” come quello spagnolo, islandese e
irlandese. Allo stesso tempo, l’ex celeste impero ha convogliato i
nuovi flussi sui titoli di Stato americani e sulle
cartolarizzazioni.
Questa situazione ha favorito gli investimenti in asset più
rischiosi da parte di una quota sempre maggiore ed eterogenea di
persone. Nuovi strumenti finanziari hanno avvicinato gli investitori
comuni ai derivati, alle materie prime e alle valute. Le banche, dal
canto loro, hanno aumentato il ricorso alla leva, ossia
all’indebitamento.
Il fenomeno è stato globale, perché si è diffuso a macchia d’olio un
clima di generale ottimismo nella possibilità che la ricchezza
potesse crescere all’infinito. Come insegna la finanza
comportamentale, gli investitori sono portati a sovrastimare il
giudizio degli altri investitori. Questo non vale solo per i piccoli
risparmiatori, ma anche per le grandi banche. Anche la frode di
Bernie Madoff si è potuta perpetrare negli anni, grazie alla fama
dell’ex presidente del Nasdaq e alla fiducia accordata via via da
investitori stimati e prestigiosi.
Un vecchio detto recita: “Sbagliando si impara”, ma questo non vale
se non si riconosce l’errore. O peggio ancora, se per porre rimedio
all’errore, ne viene commesso un altro più grande, come è accaduto
nel caso della bolla high tech, il cui superamento, grazie agli
interventi espansivi di politica monetaria, ha posto le condizioni
per una nuova bolla, quella del credito. Ma, purtroppo, per dirla
con un altro proverbio, “i nodi prima o poi vengono al pettine”. E
così è accaduto, facendo crollare il castello di sabbia.
Quando tutto questo finirà? Cowen sostiene che l’ostacolo principale
alla ripresa sia il fatto che gli investitori non vogliono tornare
sugli strumenti rischiosi, preferendo i titoli di Stato. Si è creato
un circolo vizioso per cui più i governi emettono obbligazioni, più
i risparmiatori temono pericoli all’orizzonte ed escono dalle Borse
per ripararsi nei lidi “sicuri”. In questo modo però i prezzi delle
azioni scendono non per ragioni fondamentali (ossia legati ai
bilanci aziendali) quanto per motivi irrazionali, aumentando la
volatilità dei titoli rappresentativi del capitale di rischio
(azioni). Questa situazione si riflette sull’economia reale nella
misura in cui le imprese si trovano a disporre di minori risorse da
investire nei processi produttivi.
Crollato il castello di sabbia, la ripresa ha bisogno di un ritorno
alla realtà, ossia che le banche ricomincino a svolgere il loro
ruolo di intermediari, che il rischio sia correttamente valutato e
che le risorse lascino i settori proliferati grazie
all’indebitamento, tanto nella finanza quanto nei consumi.
Purtroppo, il processo è difficile e doloroso, perché si traduce
nella perdita di posti di lavoro, ma è inevitabile e può anche
tradursi in nuove opportunità. L’importante è che per sanare un
errore non si cada in altri.
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