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INDICE ARTICOLI

 

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Borse e mercati - Sentiment e previsioni

Attenti, non siamo ancora fuori dal tunnel

Macro USA e Borse

L'economia è ferma, ma la Borsa riparte

Macro USA - Situazione e previsioni

La grande depressione dell'epoca post-industriale

 Macro USA - Situazione e previsioni

Il declino dell'America di Bush

 Valute - USD

Shock da dollaro

 Macro USA - Situazione e previsioni

USA: deflazione; Un lontano ricordo di 47 anni fa

 

+++  USA:ECONOMIA; BUSH, PAESE HA BISOGNO DI UNO STIMOLO VIGOROSO  +++  LE BORSE MONDIALI SFIDANO LA CRISI CONGIUNTURALE  +++

  giovedì  01  maggio  2003   sabato 03  maggio  2003  
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  Attenti, non siamo ancora fuori dal tunnel

07 Maggio 2003   16:25  New York  (di Francesco Leone)

 

Dal Wall Street Italia cartaceo, settimanale di economia e finanza allegato tutti i mercoledi' a Metro, ecco l'intervista a Steven Ricchiuto, capo economista di ABN Amro.

La prima stagione degli utili americana e’ terminata. Le aziende hanno riportato in generale buoni profitti. Siamo finalmente alla fine del tunnel della recessione?

Alcuni segnali sono certamente incoraggianti, ma è ancora troppo presto per dire se la ripresa sarà sostenibile. Gli utili societari dei primi tre mesi dell’anno sono stati guidati dal calo dei prezzi dell’energia e dal taglio dei costi. Tuttavia un trend di lungo periodo deve essere fondato sulla ripresa del fatturato, e questo per il momento non si è ancora visto. Inoltre le società energetiche non potranno mostrare profitti cosi’ buoni nei prossimi mesi. E’ possibile quindi che assisteremo a risultati volatili prima di imboccare definitivamente la via della ripresa degli utili e degli investimenti aziendali.

Qual è la sua visione per quanto riguarda la crescita dell’economia americana nel resto del 2003? Quanto importante sara’ l’indebolimento del dollaro?

Un dollaro debole è un fattore positivo per la crescita degli utili societari ma non necessariamente per l’economia. A livello globale sia l’Asia che l’Europa mostrano ancora di avere un ritmo di crescita debole per essere molto ottimisti negli USA. I nostri modelli indicano un crescita modesta negli Stati Uniti che potrebbe accelerare negli ultimi tre mesi dell’anno, quando si cominceranno a vedere gli effetti degli stimoli fiscali.

Quando vedremo gli investitori tornare ad essere ottimisti sui mercati finanziari?

Per quanto riguarda il mercato del credito, i primi segnali positivi li abbiamo già visti con i rendimenti delle obbligazioni societarie, che si sono avvicinati a quelli dei titoli di Stato. Sul fronte delle borse sarà invece necessario aspettare ancora un po’, diciamo nove o dodici mesi per essere realistici.

Quali sono gli indicatori economici da osservare con maggiore attenzione per cogliere il momento di svolta della Borsa?

Il fattore fondamentale e’ costituito dal mercato del lavoro. Quando le aziende riprenderanno ad assumere e il tasso di disoccupazione comincerà a calare, sarà possibile essere ottimisti sull’investimento azionario.

Riprodotto dal giornale Wall Street Italia del 7 maggio 2003 . Con 450.000 copie e 1,4 milioni di lettori, Wall Street Italia e' il primo settimanale finanziario free press al mondo

07 Maggio 2003   16:25  NEW YORK  (di Francesco Leone)

 

 

 

  L'economia è ferma, ma la Borsa riparte

07 Maggio 2003   13:08  New York  (di *Michele Pezzinga)

 

L’economia non riparte, ma i mercati azionari per il momento non sembrano preoccuparsene troppo. I più recenti dati congiunturali, relativi ai mesi di marzo e aprile, non hanno infatti offerto segnali rassicuranti, soprattutto dal lato dell’occupazione e degli investimenti; ma per loro evidentemente vale il beneficio del dubbio che siano ancora le vicende “geopolitiche” a pesare, un’attenuante destinata comunque a venir meno con i dati di maggio. In questo senso, tra un mese circa dovremo affrontare test molto più impegnativi in grado di farci finalmente capire come si stanno muovendo gli scenari.

Eppure nell’immediato i mercati - stavolta non fa molta differenza, che si tratti dell’azionario o dell’obbligazionario, in particolare del segmento corporate - stanno continuando ugualmente a salire; più che un convinto ottimismo, a spingerli probabilmente basta il venir meno dell’eccessivo premio per il rischio che nei mesi scorsi li aveva penalizzati, sui timori di un conflitto prolungato, capace di infiammare l’intero Medio Oriente o di riavviare la minaccia terroristica, e carico di conseguenze per le quotazioni del greggio: tutti eventi che poi per fortuna non si sono realizzati.

Al tempo stesso, e come anche qui auspicato, continua a scendere il petrolio, a beneficio del potere d’acquisto reale delle famiglie e dei margini delle imprese; e si indebolisce ancora il dollaro, un evento che, forse perchè si sta realizzando in modo composto e graduale, non sembra per il momento generare grosse apprensioni sui mercati finanziari USA, anzi viene giudicato un significativo elemento di rilancio per l’economia americana e le sue aziende più esposte a livello globale. E, fatto ancor più curioso, non se ne vedono i riflessi di mercato nemmeno per i concorrenti esteri legati alle valute più forti, in particolare quelli presenti nell’area euro, penalizzati dallo sfavorevole movimento del cambio.

La verità è che stiamo forse attraversando una fase confusa, in cui mancano, oltre che visibilità e chiarezza, anche idee; ma soprattutto condizionata da un’enorme massa di liquidità inoperosa alla ricerca di rendimenti soddisfacenti. Meriteremmo mercati stagnanti, ma il venir meno dei timori che avevano depresso le quotazioni nei mesi precedenti ci fa ugualmente assistere ad un costante e tutto sommato gradito recupero.

Lo stesso comunicato della FED al termine dell’incontro sui tassi di ieri sera sembrerebbe intonato a questo clima. I recenti segnali su produzione e occupazione sono apparsi deludenti – si dice - ma il venir meno delle tensioni geopolitiche ha favorito la discesa dei prezzi del greggio, mentre sono risaliti sia la fiducia dei consumatori, sia i mercati azionari e obbligazionari. Tutto ciò “dovrebbe favorire con il tempo un migliore clima economico”. Tempi e intensità di questo miglioramento appaiono però incerti, anche se nei prossimi trimestri i rischi di sorprese positive o negative sembrerebbero bilanciarsi; non così però per i rischi di inflazione, decisamente più contenuti, il che ha spinto la FED ad adottare nuovamente un orientamento espansivo di politica monetaria.

Se nel precedente incontro di metà marzo l’idea era che l’incertezza geopolitica non consentisse di prendere una chiara posizione, stavolta l’impressione è che Greenspan, pur preferendo attendere i dati congiunturali di maggio prima di decidere, tema sostanzialmente che la debolezza possa protrarsi ancora e che sia quindi necessario procedere a fine giugno con un altro taglio. Per alcuni sarà aggressivo, mezzo punto secco, in modo da dare un’ulteriore sferzata alle aspettative degli operatori. A giustificarlo, già nei giorni scorsi, sono stati segnali per nulla incoraggianti, soprattutto sul fronte critico del mercato del lavoro: in aprile sono andati perduti altri 48mila posti di lavoro, ben 80mila nel settore privato, con una punta di 95 mila in quello manifatturiero. Da inizio anno, i nuovi occupati sono scesi di oltre mezzo milione di unità, ed una nuova caduta, sia pur più lieve, è già pronosticata anche per maggio.

Se i sondaggi condotti sulle famiglie sono più confortanti, poichè mostrano già una ripresa di assunzioni, le richieste di sussidio settimanali sono ormai attestate da un mese oltre la media delle 440mila unità, mentre i licenziamenti di aprile sono nuovamente balzati oltre quota 146mila, in netta risalita rispetto agli 85mila circa di marzo. Preoccupante è stata anche la discesa dell’indice dei direttori degli acquisti registrata in aprile, ben sotto le attese e soprattutto lo spartiacque di quota 50 (siamo finiti a 45,4), sia pur bilanciata dal recupero dello stesso indice rilevato nel settore dei servizi (da 47,9 a 50,7).

A Wall Street si è però deciso di attendere i segnali di maggio prima di trarre conclusioni affrettate, dando più peso al confortante rimbalzo della fiducia delle famiglie e alle sorprese positive giunte sul fronte degli utili aziendali, che ora stanno viaggiando, per le realtà appartenenti all’indice S&P 500, su ritmi superiori al 13% su base annua.

Il deprezzamento del dollaro sta indubbiamente iniziando a far sentire i suoi benefici, anche sui fatturati, ora tornati a crescere di quasi il 10% in termini nominali, e tra un po’ giungeranno anche i vantaggi dei minori costi dell’energia; non bisogna però dimenticare che una risalita degli utili 2003 intorno al 15% annuo era già da lungo tempo anticipata, e questo spiega perchè le quotazioni azionarie non siano così depresse come in altre passate fasi critiche di mercato.

Insomma, la nostra impressione è che pur in assenza di uno shock traumatico come quello dell’11 settembre, ma pur sempre avendo dovuto confrontarsi con un evento bellico carico di incertezze e rischi collaterali, la situazione attuale ricordi per certi versi quella di un anno fa; come allora il recupero delle Borse deve fare i conti con i dubbi sulla ripresa economica, mentre anche stavolta, forse più che mai, si ripropone il problema di quale ruolo possa giocare un’enorme massa di liquidità che, pur in caccia disperata di rendimenti soddisfacenti, non sembra ancora disposta a rientrare massicciamente in Borsa. Allora fu soprattutto la “geopolitica” a far deragliare un circolo virtuoso di ripresa – non a caso, proprio in primavera l’Iraq entrò concretamente nel mirino dell’Amministrazione Bush e il greggio concluse la sua discesa “virtuosa” - stavolta pesano invece le incognite della Sars e i timori che gli interventi di politica monetaria, se necessari, possano però risultare inefficaci.

Stimolati sarebbero solo i consumi, a spese però di un ancor più elevato indebitamento netto delle famiglie e di un persistente squilibrio dei conti con l’estero. Forse stavolta i mercati si muoveranno diversamente rispetto all’anno scorso, ma memori della non felice esperienza di allora preferiremmo attendere ulteriori verifiche congiunturali prima di avventurarci in facili ottimismi. Quanto all’Europa, sicuramente la forza del cambio si rifletterà, in negativo, sulla crescita degli utili; ma è ancora da capire se la Banca Centrale deciderà di contrastare questo effetto sfavorevole con una politica monetaria più espansiva.

La riunione di domani è forse prematura per chiarire questo dubbio: dubitiamo infatti che vi sia già un consenso per un taglio, probabilmente destinato a concretizzarsi solo in giugno. Il rischio è quello di tassi euro ancora a lungo fermi e di un cambio più forte; nel qual caso sarà molto difficile che i listini europei, pur più volatili, possano battere Wall Street.

*Michele Pezzinga e' capo strategist di Eptasim. 

07 Maggio 2003   13:08  NEW YORK  (di *Michele Pezzinga)

 

 

 

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USA:ECONOMIA; BUSH, PAESE HA BISOGNO DI UNO STIMOLO VIGOROSO

(ANSA) - NEW YORK, 5 MAG - La ripresa dell'economia americana passa per l'approvazione da parte del Congresso degli Stati Uniti di un intervento "coraggioso" in materia fiscale. 

Ad annunciarlo è il presidente George W. Bush che, innanzi ad una platea di piccoli imprenditori a Little Rock, la capitale dell'Arkansas, ribadisce - dopo le uscite della scorsa settimana - la necessità di una rapida adozione del pacchetto di stimolo incentrato su forti tagli al fisco presentato all'inizio dell'anno. "La questione - ha osservato Bush - non è se occorra o no un taglio alle tasse ma quanto ingente debba essere". Il Paese - ha proseguito - ha bisogno di un intervento "vigoroso" e non di scarsa importanza. Per questo l'inquilino della Casa Bianca ha invitato il Congresso ad approvare un "pacchetto di stimolo coraggioso" in tempi brevi: "ne abbiamo bisogno ora - ha commentato - non tra tre o quattro anni". 

Il presidente degli Stati Uniti è poi tornato sulla disoccupazione - salita ad aprile al 6% - la quale potrà essere vinta solo facendo ripartire l'economia. E questo - ha aggiunto Bush - sarà possibile solo riducendo le tasse e "facendo sì che la gente possa tenere il proprio danaro che non appartiene al governo. Il modo migliore per far correre l'economia - ha sostenuto - è far si che gli americani possano contare sul proprio danaro per rilanciare i consumi" e,con questi, l'occupazione. Prima di congedarsi dalla platea di Little Rock, Bush è tornato sul tema a lui caro dell'eliminazione della doppia tassazione dei dividendi azionari - bocciata, fra gli altri dal finanziere Warren Buffet - da attuare al più presto perché "ingiusta" per le aziende e per i semplici investitori.(ANSA).  

 

 

 

FED: GREENSPAN ATTORE IN SPOT PUBBLICITARI PER CONSUMATORI

 

(ANSA) - NEW YORK, 19 MAG - Ribalta televisiva e radiofonica per Alan Greenspan, numero uno della Federal Reserve e 'Grande vecchio' della finanza statunitense. Il presidente della Banca Centrale sarà il protagonista di alcuni 'spot' trasmessi in televisione a alla radio - in lingua inglese e spagnola - studiati per invitare i cittadini americani a fare maggiore attenzione alle loro finanze e ai loro criteri di spesa. 

I messaggi pubblicitari, che per la prima volta vedono al centro della scena un presidente della Federal Reserve, giungono in un periodo difficile per l'economia americana e mirano a rendere i cittadini più attenti agli acquisti: negli ultimi 12 mesi - secondo le autorità statunitensi - le bancarotte personali hanno raggiunto livelli record e, a livelli particolarmente elevati, sono arrivati anche i mutui immobiliari scoperti. Semplice e diretto - come suo costume - il testo che Greenspan è chiamato ad interpretare: "Prendere decisioni finanziare basate su informazioni aiuterà a costruire un futuro più stabile per te e la tua famiglia".(ANSA).  

 

 

 

 

 

 

  La grande depressione dell'epoca post-industriale

21 Maggio 2003   03:46   ROMA  (WSI)

 

Tutti i dati macroeconomici pubblicati nelle ultime settimane puntano con decisione verso una sola conclusione: deflazione.

Gli indicatori mostrano che la tendenza è chiara da tempo, ed era stata segnalata da molti osservatori come il nuovo grande pericolo per lo sviluppo dell'eurozona. E negli Stati Uniti suona, a più riprese, un autentico campanello d'allarme.

Il 14 maggio Washington comunica i prezzi all'importazione, che per il mese di aprile registrano un calo del 2,7%, il maggior declino nella storia di questo indice nato 14 anni fa; anche depurandolo della componente petrolio, crollata del 16,2% in seguito alla conclusione della vicenda Iraq, resta una diminuzione dello 0,9%.

Il giorno dopo tocca ai prezzi alla produzione, che da sempre anticipano di circa 6-12 mesi l'andamento di quelli al dettaglio; anche in questo caso il valore (-1,9%) è un record negativo da quando nel 1947 il governo ha cominciato a calcolare l'indice. E il Core Index, quello cioè che non tiene conto dei prodotti alimentari ed energetici in quanto maggiormente volatili? In calo dello 0,9%, la maggiore contrazione dell'ultima decade.

Lo spettro della Grande Depressione prende definitivamente corpo il 16 maggio, quando il Dipartimento del Lavoro rende noti i prezzi al consumo; indice generale in calo dello 0,3%, il più consistente degli ultimi 19 mesi, e quello core invariato per il secondo mese consecutivo, fenomeno che non si registrava dal 1982.

Ancora qualche numero da brivido: su base annua - cioè aprile 2003 su aprile 2002 - l'indice core complessivo è all'1,5%, il minor tasso di crescita dal marzo 1966, mentre quello relativo alle spese per consumi personali viaggia al di sotto dell'1%, il che ci fa tornare indietro alla Seconda Guerra Mondiale.

Aggiungiamo che il prezzo delle case è calato per la prima volta dalla fine del 2001 ed il quadro è ormai chiaro. Talmente chiaro che la Federal Reserve, nel comunicato di commento alla riunione del 6 maggio, quindi prima che fossero pubblicati questi dati, parla di «una sostanziale caduta dell'inflazione» e la giudica un welcome, cioè per nulla benvenuta; in questo aggettivo c'è tutta la preoccupazione per un malessere che sta degenerando in una grave patologia.

E se l'unica vera economia capitalistica del pianeta è afflitta da questo inaridimento del tessuto economico, come si può immaginare che la altre aree ne restino immuni o dispongano di armi più efficaci per combatterlo?

Le soluzioni al problema provengono necessariamente da oltreoceano e l'Europa vi si deve rapidamente adeguare, smettendo abiti mentali ormai desueti; poiché siamo in una crisi da sovraddimensionamento dell'offerta occorre innanzitutto elevare la domanda dei maggiori consumatori: gli Stati.

Essendo quelli europei già in forte deficit, occorre reperire nuove risorse finanziarie: una riforma del sistema previdenziale su scala continentale libererebbe enormi energie. Ma ancora più importante è come investire questi mezzi, dove indirizzare la spesa pubblica, se limitarsi a generare una domanda generica e di breve respiro o stimolare una domanda specifica, focalizzata sui settori capaci di promuovere una reazione a catena duratura.

Una frase di Henry Ford accompagna in questi giorni una campagna pubblicitaria: «C'è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti». Individuare queste nuove tecnologie - propagare i collegamenti Internet per la pubblica amministrazione e per i privati incrementandone la velocità con il cablaggio delle città e il passaggio all'Adsl, sviluppare la ricerca nel campo delle biotecnologie, pianificare la progressiva espansione delle fonti energetiche alternative - e puntarvi sopra molte fiches è forse l'unica, realistica e produttiva manovra anti-deflazionistica.

 Il Riformista

 

 

  Il declino dell'America di Bush

05 Maggio 2003   14:25   NEW YORK  (di Mario Cuomo)

 

Il presidente Bush ha dichiarato la vittoria in Iraq e ora ha lanciato una massiccia campagna per convincerci che con la stessa efficacia può sconfiggere il malessere economico abbattutosi sul nostro paese da quando è stato eletto nel 2000. L’economia è debole non per mancanza di capitali d’investimento ma semplicemente perché le aziende non lavorano a pieno ritmo. Oltre il 70% della nostra economia dipende dai molti milioni di consumatori americani.

Ma le loro risorse continuano a essere saccheggiate dalla disoccupazione e dai debiti accumulati con le carte di credito. In due anni il governo federale è passato dal più grande avanzo di bilancio della nostra storia a centinaia di miliardi di dollari di disavanzo annuo. Allo stesso tempo stati, città e contee si apprestano a vivere la peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione con un previsione di deficit per il prossimo anno di 100 miliardi di dollari. Ciò comporterà un incremento delle tasse locali, cioè un altro pugno ben assestato allo stomaco già dolente della nostra economia in declino.

A tutto questo il presidente risponde così: “niente paura, c’è un rimedio semplice e sicuro: enormi tagli fiscali, in particolare a beneficio dei già ricchi investitori i quali investiranno enormi risorse nell’economia e l’economia crescerà come per magia”. Infatti la chiamiamo la “magia della supply-side”. Già sentito? Direi proprio di sì.

Se la sentissimo per la prima volta questa argomentazione sorprendentemente semplicistica potrebbe anche avere un suo fascino, ma per quanti di noi ricordano gli anni di Reagan quando la “magia” fu introdotta per la prima volta e ricordano il disastro fiscale ed economico che produsse, è difficile credere che il presidente pensi davvero che ci si possa prendere in giro ancora una volta. Suo padre la sapeva più lunga: venti anni fa definì l’idea “economia vudù” e aveva perfettamente ragione.

Dopo che nel 1982 il presidente Reagan aveva convinto i Democratici del Congresso ad accettare il più grosso taglio alle tasse della storia, per lo più a vantaggio dei ricchi, David Stockman, all’epoca guru fiscale del presidente Reagan, e il suo collega Richard Darman, assistente del presidente Reagan, dissero che si trattava di un disastroso errore. Dopo di allora, il deficit e il caos fiscale prodotti dagli enormi tagli alle tasse, costrinsero il presidente Reagan ad aumentare le imposte sul reddito in sei differenti occasioni, ivi compreso il più grande aumento delle imposte nella storia americana che ebbe luogo nel 1983 nel tentativo di sfuggire alla maledizione del vudù. Sia il primo presidente Bush che il presidente Clinton furono costretti ad aumentare le imposte sul reddito in misura significativa per porre mano al tragico deficit determinato in parte dalla “ingenua” illusione chiamata “supply-side”.

Finalmente durante il secondo mandato del presidente Clinton il paese aveva recuperato l’equilibrio dei conti pubblici e prodotto il più grosso avanzo di bilancio della nostra storia proprio un mese prima dell’elezione del secondo presidente Bush.

Poi nel 2001 l’attuale presidente Bush e una dozzina circa di Democratici del Senato con uno scarso senso della Storia, furono nuovamente incantati dal vudù e una volta ancora decisero di tagliare le tasse sul reddito per lo più a beneficio dei ricchi, questa volta per un importo pari a circa 1.400 milioni di dollari. Oggi, ad appena due anni di distanza, siamo di nuovo impantanati in una pericolosa crisi economica e fiscale.

Non c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in questo quadro?

Lasciamo perdere la “magia” e cerchiamo di seguire una politica economica che abbia un senso. Niente nuovi tagli fiscali e rinviare quelli decisi nel 2001 e non ancora realizzati ovvero suddividerli in due parti: agevolazioni fiscali a beneficio dei lavoratori americani che spenderanno la maggior quantità di reddito disponibile perché ne hanno necessità e quindi in tal modo rilanceranno l’economia e, secondo aspetto, aiuti agli Stati e ai governi locali per evitare miliardi di dollari di aumenti delle tasse a livello locale.

Apparentemente non abbiamo imparato ad evitare le guerre: vediamo di non aggiungere a questa tragedia l’incapacità di trarre i giusti insegnamenti dai nostri più tragici errori economici e fiscali.

Saremmo condannati a morte sia dall’incapacità di guardare il futuro che dall’incapacità di guardare il passato.

Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

L'Unità

 

            

 

CAMBI: SOROS, DOLLARO DEBOLE FERISCE EUROPA E NON AIUTA USA

 

(ANSA) - NEW YORK, 20 MAG - Il miliardario americano di origine magiara, George Soros, boccia la politica monetaria statunitense, sostenendo come il dollaro debole di questi giorni ferisca l'Europa e non aiuti, in prospettiva, nemmeno l'America. 

Questa immobilità dell'Amministrazione verso il dollaro debole - ha spiegato nel corso di una intervista alla rete televisiva Cnbc - "fa male all'Europa e non aiuterà l'America:certo, aumenteranno le nostre esportazioni ma a chi andremo ad esportare?". Nel commentare in maniera negativa il comportamento del governo in materia di politica monetaria, Soros ha poi sottolineato come lui stesso si stia liberando della divisa americana, poco convinto delle mosse in materia valutaria del segretario al Tesoro, John Snow, da lui considerato responsabile di una politica non orientata al mantenimento del dollaro forte. (ANSA).  

 

20 Maggio 2003   23:41   NEW YORK  (ANSA) 

 

 

BUSH MANIPOLA IL DOLLARO PER VINCERE LE ELEZIONI

 

Per il guru della finanza George Soros, il dollaro debole "é frutto di una manipolazione operata dalle autorità americane nell'urgenza di assicurare la ripresa economica prima delle elezioni". 

Il miliardario americano lo ha affermato in un intervento presso l'università pubblica di Mosca, aggiungendo che l'amministrazione Bush "sta usando ogni mezzo per stimolare l'economia e ha ben percepito che il dollaro debole, mentre è un danno per Eurolandia, risulta un beneficio per l'economia stelle e strisce". "Visto che l'economia di Eurolandia è debole, se l'economia americana comincia a dare segni di risveglio - ha aggiunto Soros - gli investitori punteranno sugli asset denominati in dollaro" "Ma forse - ha aggiunto Soros - non hanno realizzato la violenza della reazione da parte dei mercati. 

Solo successivamente hanno capito che stanno facendo un gioco pericoloso". "E non sono sicuro che stiamo alla fine della storia - ha concluso Soros - perché le valute, quando cominciano a muoversi, hanno la tendenza a farlo in rafforzamento difensivo e generalmente si muovono in cicli di diversi anni".(ANSA).

20 Maggio 2003   23:41   NEW YORK  (ANSA) 

 

 

              

 

 

 

  martedì  20  maggio  2003   mercoledì  28  maggio  2003  
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  Shock da dollaro

02 Maggio 2003 17:10 New York (di US Equity & Macro LAB)  

 

Il dollaro ha toccato nuovi minimi nei confronti dell’euro mentre il Dollar Index ha rotto il precedente supporto che si collocava intorno a 97.5. Dal gennaio del 2002 il dollaro ha perso quasi il 20% del proprio valore nei confronti delle sei valute verso le quali viene misurato il Dollar Index e il 30% nei confronti dell’euro. Da inizio del 2003 il Dollar Index ha ceduto quasi il 5%, oltre il 6% verso l’euro. Dal 12 marzo, giorno in cui le borse hanno invertito il trend ribassista, il dollaro ha persino ceduto il 17% nei confronti del real brasiliano, il 5,5% verso il peso messicano, il 10% contro la valuta argentina.

Si stima che gli stranieri detengano circa 8 trilioni di dollari in asset americani e le perdite che stanno accusando a causa della svalutazione del dollaro sono molto elevate. Forse non è un caso che, nonostante il rialzo delle borse e la fiducia che sembra riemergere dopo il conflitto iracheno, il dollaro stia cedendo ulteriore terreno nei confronti delle altre valute. Per non sopportare il rischio di ulteriori perdite in conto valuta, chi continua a finanziare il crescente deficit delle partite correnti americano si trova infatti costretto a coprire il rischio di tasso di cambio. In altre parole vende dollari a termine mettendo pressione al biglietto verde. Nonostante la forza delle borse e la tenuta delle obbligazioni tali pressioni stanno spingendo il dollaro in una fase ribassista che sta trovando una pericolosa accelerazione.

Il deficit delle partite correnti ammonta oramai al 5% del PIL e per essere finanziato necessita di un flusso quotidiano di risparmi stranieri al ritmo di 60 milioni di dollari l’ora, quasi un miliardo e mezzo al giorno. Il prolungato e massiccio squilibrio nelle partite correnti ha contribuito a creare uno squilibrio altrettanto massiccio nella globale allocazione dei capitali. La dipendenza della bolla americana dai capitali stranieri, infatti, ha privato e continua a privare altri sistemi economici delle risorse necessarie per una espansione economica armonica e sostenibile, non dipendente nella sua totalità dalla spesa del consumatore americano.

I risparmi stranieri hanno finanziato in passato la bolla azionaria subendo come ricompensa una inattesa e infelice distruzione di ricchezza. Da tre anni stanno continuando a finanziarie la sempre più massiccia espansione della credit bubble, il cui punto di forza è rappresentato oramai dal settore immobiliare. Probabilmente anche questo secondo finanziamento finirà col risolversi in un'altra infelice distruzione di ricchezza. Convinti dal successo temporaneo della propaganda sulla nuova ripresa economica, gli stranieri sembrano non temere questa eventualità. Tuttavia, la diffidenza che li spinge adesso a coprirsi dal rischio di cambio tramite la vendita di dollari a termine, rischia di minare alla base il successo di quelle ottimistiche aspettative.

In valore assoluto, l’ammontare di risparmi stranieri richiesti per finanziare la credit bubble americana sta diventando sempre più ingente e insostenibile. Non possiamo sapere quale sia la soglia del deficit che finirà con l’assorbire tutti i risparmi del pianeta, forse il 7% come stimano gli editori di The Daily Reckoning, ma possiamo intuire che se il trend ribassista del dollaro non si fermerà, gli stranieri smetteranno di gettare i propri risparmi nel buco nero dell’inflazione creditizia americana molto prima del raggiungimento di quella soglia. Cosa succederà al verificarsi di questa eventualità è qualcosa che forse già da tempo turba i sogni del finora onnipotente Alan Greenspan.

In valore percentuale, la soglia del 5% del deficit delle partite correnti si rivela estremamente critica e in altre circostanze il suo superamento ha portato rapidamente all’evolversi di una situazione di instabilità in grado di generare una fuga di capitali stranieri superiore al controllo della banca centrale e quindi una crisi generalizzata del sistema bancario.

La trappola della liquidità nella quale si ritrovano oggi gli USA non è pertanto paragonabile a quella giapponese proprio per la dipendenza dai capitali stranieri che attualmente sta indebolendo il dollaro. Si tratta invece di una situazione ben peggiore che trova nel biglietto verde il proprio cardine, intorno al quale ruota il rischio di uno traumatico shock economico. Come abbiamo ripetuto più volte, i paralleli portano a pensare più alla recente esperienza dell’Argentina che non a quella giapponese.

Un ottimo articolo di Jim Willie dal titolo “Japan, Argentina, Weimar, or Muddle?” analizza proprio queste analogie ed espone con estrema chiarezza la possibilità che il termine della trappola americana della liquidità sfoci in una nuova repubblica di Weimar, con un’iperinflazione rampante e a nostro avviso estendibile rapidamente a tutto il pianeta.

“We are appoaching the Keynesian Monetarist end game” scrive nello stesso articolo Willie, ovvero: “ci stiamo avvicinando alla fine del gioco keynesiano monetarista”. Solo 22 centesimi di crescita vengono generati oggi per ogni dollaro di nuovo credito creato nel sistema economico americano mentre una porzione sempre più significativa del PIL è dedicata al pagamento degli oneri finanziari relativi a un debito in crescita esponenziale. La voce degli economisti austriaci, a lungo ignorata, ha sempre messo in guardia dai rischi a cui avrebbero portato le politiche fiscali e monetarie basate sulle rispettive teorie keynesiane e monetariste. Nonostante la totale negazione delle autorità ufficiali e degli analisti di regime (tranne Stephen Roach di Morgan Stanley), il sistema economico è sottoposto a una serie di squilibri crescenti che non hanno precedenti e che caratterizzano la continua espansione finanziaria, a servizio e sostegno della Credit Bubble, come "una partita persa in partenza con una posta in gioco molto alta" (Doug Noland: "it's a losing game with very high stakes").

In questa precaria situazione, una ulteriore caduta del dollaro spingerebbe le economie verso uno shock economico globale. Si può pertanto fare finta di niente come si è tornati a fare dai primi di marzo, ma solo a rischio di dover essere poi costretti a fare i conti con la realtà delle cose senza un sufficiente preavviso e una adeguata preparazione finanziaria.

US Equity & Macro LAB

 

 

 

 

 

 

Tassi USA: Greenspan li lascia invariati

06 Maggio 2003 20:15 New York (WSI)

 

Il Federal Open Market Committee della Banca Centrale Usa, presieduto da Alan Greenspan, ha deciso di lasciare invariati i tassi d'interesse sui Fed Funds all'1,25%, il minimo degli ultimi 41 anni.

La Fed pero' ha sorpreso il mercato con il suo comunicato, poiche' ritiene che si vada verso una situazione di ulteriore "debolezza" che potrebbe consistere in un rischio per l'economia, nel prossimo futuro.

La probabilita' insomma di futuri tagli viene presa in considerazione dalla Fed.

La decisione, pur largamente prevista dal mercato, ha lasciato in parte perplessa Wall Street proprio per via del comunicato. Al punto che l'indice delle blue chips industriali, il Dow Jones (DJIA), che aveva superato quota 8.600 (+0,94%) pochi secondi prima dell'annuncio, subito dopo ha accusato un calo. Ma in seguito il Dow ha ricominciato a salire, sospinto da una massiccia serie di ordini di acquisto.

Dieci minuti dopo l'annuncio della Fed il Dow Jones era gia' in netto rialzo: +1,13% a quota 8.627. Ottima anche la reazione del Nasdaq (IXIC): +1,66%.

I future sui Fed Fund per tutta la giornata avevano continuato a scontare sotto il 20% la probabilita' di un taglio di 25 punti base, mentre davano all'80% quella di un nulla di fatto.

 

- GLI INTERVENTI DEL FOMC SUL COSTO DEL DENARO -

 

giorno mese anno

ritocco punti

livello tassi
     

 

 
30 Giugno 1999

+25

5,00%
24 Agosto 1999

+25

5,25%
16 Novembre 1999

+25

5,50%
02 Febbraio 2000

+25

5,75%
21 Marzo 2000

+25

6,00%
16 Maggio 2000

+50

6,50%
03 Gennaio 2001

-50

6,00%
31 Gennaio 2001

-50

5,50%
20 Marzo 2001

-50

5,00%
18 Aprile 2001

-50

4,50%
15 Maggio 2001 -50 4,00%
27 Giugno 2001 -25 3,75%
21 Agosto 2001 -25 3,50%
17 Settembre 2001 -50 3,00%
02 Ottobre 2001 -50 2,50%
06 Novembre 2001 -50 2,00%
11 Dicembre 2001 -25 1,75%
06 Novembre 2002 -50 1,25%
         
 

 

       

 

 

 

  USA: deflazione; Un lontano ricordo di 47 anni fa

19 Maggio 2003   19:48  New York  (ANSA)

 

ROMA, 19 MAG - La prospettiva di una deflazione economica, che sembra farsi più credibile negli Stati Uniti a seguito degli ultimi dati sull' andamento dei prezzi, è un lontano ricordo di ben 47 anni fa, perché l' ultima volta che si è manifestata negli States è stato nel 1955. Prima di allora, oltre che appunto nel '55, gli Stati Uniti conobbero una situazione deflazionistica nel 1954, nel '50, nel '49, nel 1939 e, risalendo piu' indietro nel tempo fino al 1914, nel corso di altri 15 anni. I dati sono stati diffusi dall' Ufficio statistiche del Lavoro e prendono in esame la situazione esistente da 89 anni a questa parte. 

L' indice dei prezzi al consumo, che tiene conto di un paniere di prodotti e servizi destinati al consumo individuale, come i generi alimentari, il carburante, le case e le assicurazioni sanitarie, ha registrato ad aprile una crescita del 2,2% su base annua. Dallo scorso mese di agosto, il tasso d' inflazione statunitense ha registrato incrementi dovuti più che altro ai prezzi petroliferi più elevati. Nelle ultime settimane gli economisti hanno appunto prospettato la possibilità di una deflazione, la quale a sua volta si manifesta quando il tasso di crescita dei prezzi scende sotto lo zero, una situazione opposta all' inflazione. Dal 1914 al 1955, negli Usa si sono avuti 89 mesi in cui questa situazione si è verificata, mentre il tasso medio d' inflazione è stato del 2,64% in questo stesso periodo, salito al 4,16% fra il 1956 ed il 2003. 

Negli ultimi 47 anni, inoltre, non si è avuto alcun mese caratterizzato da un tasso inflazionistico inferiore allo zero. Il periodo coincidente con la Grande Depressione è stato caratterizzato da un forte ribasso dei prezzi. Dal 29 ottobre del 1929, cioé dal 'crack' della Borsa, fino al 7 dicembre 1941, giorno dell' attacco a Pearl Harbour, i prezzi hanno registrato un calo medio mensile pari all' 1,17%. 

Il periodo più recente in cui si è manifestata la deflazione va invece dal settembre 1954 all' agosto 1955. La deflazione si associa ad una crescita bassa, ad una scarsa propensione delle aziende a fare nuovi investimenti, ad un' economia debole per quanto riguarda il mercato del lavoro. Tutte caratteristiche che contrassegnano l' attuale situazione congiunturale negli Stati Uniti, anche se occorrerà ancora aspettare prima di pronunciare eventualmente la parola deflazione, mai adoperata del resto dalla stessa Federal Reserve, quando di recente ha ammonito circa la possibilità che questo rischio si materializzi. (ANSA).

 

19 Maggio 2003   19:48  New York  (ANSA)