|
|
 |
|
 |
|
|
. |
|
|
|
|
|
Martedì
03 Marzo
2009 |
|
Venerdì
06
Marzo
2009 |
|
Martedì
10 Marzo
2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
| |
|
Che
alternativa, tra perdere soldi o
perderne ancora di più
01 Marzo 2009 17:31 MILANO - di
Alessandro Fugnoli
________________________________________
Decidere se comprare o vendere azioni in un clima come
l’attuale non è facile, ma verrà a un certo punto un momento in cui
sarà ancora più difficile. Sarà quando la contrazione dell’economia
globale, che ora procede a grande velocità, inizierà a rallentare.
Quel giorno potrebbe non essere lontano. Attenzione, non stiamo
parlando di una ripresa, per la quale bisogna aspettare nella
migliore delle ipotesi il 2010, ma di un semplice rallentamento
della discesa. Mettiamo che quello che oggi scende alla velocità del
45 per cento anno su anno, come le esportazioni giapponesi, inizi a
scendere del 30. O che quello che scende del 35 per cento, come le
vendite di camion in Europa, inizi a scendere del 20. O che il Pil
americano, che sta rimpicciolendo a una velocità annualizzata del
5-6 per cento, inizi a scendere solo del 2-3 per cento, un livello
che, al punto in cui siamo, ci scalderebbe i cuori.
Oggi, mentre tutto precipita, chi è ancora lungo da prima della
crisi è ormai sintonizzato sul futuro profondo in termini di
prospettiva d’investimento. Tutti gli altri, comprensibilmente, si
guardano bene dall’entrare nel mercato se non per rapide sortite. E’
abbastanza facile restare a guardare, così come è facile e per
adesso redditizio stare short.
Che sia fra due mesi, fra quattro o fra sei, verrà però il momento
in cui dovremo decidere se il rallentamento della discesa sarà
l’inizio della fine della crisi o se non sarà piuttosto una trappola
per perdere altri soldi. Lo strategist di JP Morgan Thomas Lee in
una nota recente (First Do No Harm, 23 febbraio) ricorda che durante
la Grande Depressione vi furono figure tragiche diverse da quella,
facilmente immaginabile, di quanti entrarono lunghi nella crisi e
videro il loro patrimonio polverizzato.
Accanto a costoro (moltitudini) ci furono, come seconda figura
tragica, quelli che vendettero brillantemente prima del crash del
1929 ma non resistettero alla tentazione di rientrare
aggressivamente qualche mese dopo a borsa dimezzata (più o meno come
è adesso rispetto a un anno fa), convinti di fare un grandissimo
affare. Tra questi ci fu William Durant, fondatore di General Motors
e uno degli uomini più ricchi d’America.
Durant comprò nel 1930, poi
comprò ancora (a margine) man mano il mercato scendeva negli anni
successivi, fino a finire in bancarotta. Negli ultimi anni della sua
vita sopravvisse grazie a una pensione straordinaria che gli fu
erogata da GM.
Una terza figura ancora più tragica fu, sorprendentemente, quella di
Jesse Livermore, uno dei più brillanti speculatori dell’epoca. Dopo
avere guadagnato i primi soldi da ribassista nel crash del 1907,
Livermore entrò correttamente da short nella Grande Depressione,
arrivando ad accumulare il patrimonio astronomico di 100 milioni di
dollari dell’epoca. La depressione, che noi oggi immaginiamo come
una discesa lineare verso l’abisso, fu data prematuramente per
terminata ben sette volte e produsse altrettanti bear market rally
(scambiati evidentemente sul momento per inversioni di tendenza). Il
rally della primavera del 1930 fu del 48 per cento, quello
dell’estate del 1932 fu addirittura dell’80 per cento.
Uno di questi rally fu fatale a Livermore, che perse quasi tutto e
cadde in una depressione profonda per anni fino a togliersi la vita
nel 1940. Non morì sul lastrico e lasciò alla moglie Nina 5 milioni,
ma la sua autostima era crollata.
Fra poco più di due mesi, in maggio, il Tesoro americano avrà
completato lo stress test delle grandi banche. E’ impossibile
prevedere l’esito, anche perché a non essere chiara non è solo la
patrimonializzazione attuale effettiva delle banche ma anche la
volontà del Tesoro di andare fino in fondo nell’esigere tutto il
capitale necessario.
Quello che è certo è che in maggio il quadro apparirà più chiaro. Si
sapranno cioè i nomi dei destinati all’inferno della
ricapitalizzazione pubblica, di quelli assegnati al purgatorio della
ricapitalizzazione privata e di quanti potranno raggiungere il
paradiso della certificazione di solidità.
In maggio sarà un ricordo l’orrore del primo trimestre. I dati macro
relativi li avremo già avuti in aprile e lo stesso sarà per i
risultati delle società.
Può darsi (è una pura ipotesi) che l’annuncio dei risultati dello
stress test coincida con qualche dato macro istantaneo che indichi
un rallentamento nella velocità di discesa dell’economia globale. In
quel caso potremmo avere gli ingredienti per un rally,
la cui forza
dipenderà dal grado di ipervenduto accumulato prima. Se invece i
dati macro continueranno a essere straordinariamente pesanti come
sono ora il rally non ci sarà, ma una stabilizzazione temporanea
forse sì. Ben difficilmente, infatti, il Tesoro reagirà allo stress
test in un modo che nuocerà ai mercati.
Qualunque decisione operativa si vorrà prendere da qui a maggio
(maggio incluso) sui portafogli dovrà essere tattica, non
strategica. Chi vorrà cavalcare il rally eventuale dovrà evitare di
metterci troppi soldi. I venti contrari macro continueranno a
soffiare ancora per parecchi mesi.
Chi vorrà mettersi short
approfittando di un rimbalzo dovrà usare altrettanta moderazione e
tenersi davanti il grafico di borsa del 1932 per ricordare di che
cosa sono capaci i bear market rally.
Per il breve termine torniamo alla nota di JP Morgan. Thomas Lee
espone una considerazione interessante su come distinguere un vero
segnale di inversione di tendenza del ciclo economico e di mercato
da un falso segnale. Per comprare strategicamente, afferma, è bene
aspettare la conferma di un indicatore, lo spread tra il rendimento
dei bond AAA e quello dei bond BAA. Nella Grande Depressione questo
spread si allargò fino al luglio del 1932 e l’inizio del suo
restringimento anticipò la svolta positiva del mercato azionario.
Ora succede che da qualche settimana questo spread, che si era
andato allargando per tutti i mesi precedenti, ha preso a
restringersi, dando quindi un segnale positivo.
E’ un ragionamento interessante in linea teorica, a nostro avviso,
ma ci sono questa volta alcuni importanti elementi che inducono a
prudenza. I mercati sembrano avere assimilato fin troppo bene la
nozione che in questo ciclo la volontà politica di governi e
regolatori è tutta sbilanciata contro l’azionario e a favore dei
crediti.
Non c’è solo la garanzia esplicita sul debito delle banche, ma anche
quella implicita, che forse prima o poi verrà resa ufficiale, del
debito della grande industria. I corporate bond verranno anche
sostenuti, con ogni probabilità, da acquisti diretti da parte delle
banche centrali nell’ambito del quantitative easing. Sull’azionario,
al contrario, si scaricano tutti i populismi di destra e di sinistra
sull’azzardo morale (da cui sono evidentemente esenti i compratori
di bond).
Al di là delle razionalizzazioni moralizzatrici concettualmente poco
solide, la scelta di privilegiare i bond è da una parte obbligata
(per non mettere a rischio il sistema nel suo complesso) e
dall’altra razionale. Il mercato ha capito molto bene come stanno
funzionando le cose e si butta nell’azzardo morale dell’acquisto di
corporate bond di tutte le qualità (il retail le qualità alte e gli
istituzionali le altre). Non si tratta certo di un bull market
strepitoso, ma è quel tanto che basta a ridurre gli spread tra
qualità alte e qualità basse.
Oltre a questo va considerato l’index bias, ovvero il fatto che le
agenzie di rating, declassando continuamente i debitori, producono
una sorta di drag negli indici. Se da una classe di rating si
sfilano man mano i soggetti più deboli, quelli che rimangono
appaiono migliori. In pratica, un recupero piccolo piccolo da
ipervenduto e da effetto annuncio (questa volta positivo) per i
dettagli sul piano per le banche è legittimo, ma per adesso non
andremmo oltre.
Negli anni Trenta non tutti persero soldi. Alcuni, come Keynes, dopo
avere perso quasi tutto nel crash, riuscirono a rifarsi e a
diventare perfino molto ricchi. Keynes, a un certo punto, riprese a
comprare. Mise tutto quello che gli era rimasto in borsa con una
leva di due a uno e piramidò (reinvestendo sistematicamente gli
utili realizzati). Andò bene perché seppe aspettare il momento
giusto, con Roosevelt già presidente.
 |
Fonte
- Il Rosso e il Nero
|
Ritorno
dal baratro le Borse ci sperano
01 Marzo 2009 17:49 MILANO - di
Giuseppe Turani
________________________________________
In questi giorni la scena economica internazionale sembra un
po´ una di quelle commedie degli equivoci in cui non si capisce mai
bene chi è chi e che cosa fa.
Speranza e disperazione si muovono insieme e spesso dentro le stesse
persone e le stesse istituzioni.
In parte questo è dovuto al
disorientamento (nessuno capisce bene a che punto siamo della crisi:
a metà strada, verso la fine, solo all´inizio?), e
in parte al fatto
che, avendo sbagliato tutti nei mesi scorsi, nessuno si fida più
della propria intelligenza e del proprio acume.
Tutto questo si è visto benissimo venerdì scorso alla Borsa di Wall
Street (che dovrebbe essere il luogo dove ci sono quelli più attenti
e più esperti). Quando è arrivato l´annuncio che il Pil del quarto
trimestre negli Stati Uniti era sceso non del 3,8, come si pensava
qualche settimana fa, ma del 6,2 per cento, molti hanno pensato che
la fine del mondo fosse davvero cominciata. Con un crollo del Pil di
queste proporzioni, con i consumi in discesa verticale, e con
600-700 mila posti di lavoro bruciati ogni settimana, che cosa si
può pensare di diverso? Solo la fine del mondo (o il suo inizio) può
spiegare numeri di questo genere.
Dopo, nel giro di qualche ora, gli animi si sono un po´ rasserenati,
e le quotazioni (pur restando basse) si sono in parte riprese.
Perché? Ma perché nella testa degli operatori si è fatta strada
l´idea che forse Obama si stava comportando come deve fare ogni
bravo amministratore delegato di azienda. Quando uno arriva in
un´azienda che fino al giorno prima era stata gestita da un altro,
che cosa fa? Scarica sul bilancio del predecessore tutta
l´immondizia che trova in giro per gli uffici, tutte le poste di
bilancio dubbie, tutte le perdite che gli riesce di scovare. Dopo di
che, «ripuliti un po´ i conti», come si dice, si riparte.
Ecco, a molti venerdì scorso è venuto in mente che, forse, quel 6,2
per cento di crollo del Pil nel quarto trimestre del 2008 (ultimo
dell´era Bush) potrebbe essere il frutto di una pulizia di bilancio
ordinata da Obama. E quindi hanno ripreso un po´ di coraggio. Forse
il mondo non finisce e, anzi, forse quel 6,2 per cento di crollo del
Pil è proprio il peggio di questa crisi. E sta alle nostre spalle.
Da ora in avanti si vedranno ancora dati brutti, si son detti gli
ottimisti, ma sempre meno brutti e mai più brutti come quel 6,2 per
cento di arretramento del Pil. Come un paziente la cui febbre è
arrivata a 41, ma che poi comincia a scendere.
E, subito dopo, ecco che dagli stessi uffici da dove erano partite
le vendite, la paura e la sensazione di essere alla fine
dell´economia e delle Borse, ha cominciato a volare (spinta dal
vento di dotte analisi) la speranza. Da qui a fine anno, si è detto,
la Borsa (intesa come indice Standard & Poor´s) potrebbe anche
recuperare il 25 per cento.
Tutto questo, dalla fine del mondo a un boom del 25 per cento, nel
giro di poche ore e a opera delle stesse persone e istituzioni. Una
vera commedia degli equivoci e della confusione.
In realtà, nessuno sa niente. E, anzi, le persone più avvedute
stanno maturano un´altra sensazione, molto inquietante. Si ha
l´impressione, cioè, che non sia ancora stato afferrato il bandolo
della matassa. Da Obama a Tremonti tutti fanno qualcosa (o molto) o
fanno finta di fare, ma tutto sommato senza mai arrivare al cuore
del problema: senza mai arrivare cioè ai maledetti titoli tossici.
Ci sono grandi dibattiti su come liberarsene, feroci divergenze di
opinioni, ma i mesi passano, i governi corrono a salvare una banca
di qui e una di là, ma i titoli tossici sono sempre lì, dentro i
portafogli delle banche. Letali e misteriosi. Si sa che quello è il
veleno che è finito nei pozzi e che ha creato questo immenso dramma.
Ma la sensazione è che la bonifica dei pozzi non sia nemmeno
cominciata e che, anzi, nessuno sappia esattamente che cosa fare.
Per essere più precisi: non si sa nemmeno a quanto ammontino e che
cosa possano valere. Si sa che del veleno è finito nelle conduttore,
ma non si sa se si tratta di un chilo o di una tonnellata.
Soprattutto, i bonificatori non si sono ancora messi all´opera. Si
spera che prima o poi tutto finisca in modo naturale e spontaneo.
Probabilmente è anche per questo che i mercati (e gli operatori che
ci stanno sopra) passano nell´arco delle stessa giornata (o dello
stesso pomeriggio) dall´ottimismo al pessimismo più cupo. Sono su un
mare in tempesta, al buio, e non sanno niente di dove può essere la
terra o il porto più vicino. E una qualsiasi buona notizia li fa
sperare mentre un qualsiasi «cattivo numero» li getta nello
sconforto più nero. Sono in preda a incubi e a sogni (come quello
che vede un rialzo del 25 per cento entro fine anno).
Purtroppo, andrà avanti così ancora per molto. I governi, sembra di
capire, un po´ non sanno fare luce su questo disastro e un po´ non
vogliono (perché le loro colpe, insieme a quelle delle banche,
sarebbero troppo grandi). E quindi si va avanti giorno per giorno,
sperando che la «novità» di domani non sia troppo drammatica o
troppo pesante. Nel frattempo, pezzi importanti del sistema
industriale vanno in crisi e impiegheranno anni e anni per
riprendersi.
 |
Fonte
- La Repubblica
|
IL SENTIMENT NON NEGATIVO
INVITA ALLA CAUTELA
01 Marzo 2009 23:16 NEW YORK
-
di Bernie Schaeffer ______________________________________________
Il sondaggio settimanale condotto da Investors
Intelligence (II) misura il sentiment di numerose pubblicazioni
di analisi del mercato azionario. Il sentiment è espresso in
termini di percentuali di Tori e Orsi. Con lo S&P500 che di
recente ha lambito i minimi di novembre, è il momento di
riesaminare questa misura.
Questo tipo di indicatori vanno esaminati in termini contrarian.
Storicamente, il momento migliore per comprare è quando il
pessimismo è rampante, mentre il momento migliore per vendere è
quando gli investitori sembrano tutti ottimisti. Con il mercato
che negli ultimi 15 mesi ha realizzato una performance a dir
poco orribile, ci si dovrebbe aspettare una diffusa negatività.
E' proprio così?
Se si osserva insieme il sondaggio di II con l'andamento del
mercato negli ultimi mesi, si nota come essi si siano mossi a
braccetto. Ma quello che più irrita del recente andamento è il
calo dei ribassisti sperimentati congiuntamente al ribasso del
mercato: lo S&P ha toccato i minimi di novembre e ci saremmo
aspettati che fosse la percentuale di rialzisti - e non quella
di ribassisti - a raggiungere nuovi minimi. Al contrario,
l'ottimismo è cresciuto:
Questo andamento è sufficientemente temibile da indurci a
rivedere il comportamento sperimentato in occasione dei
precedenti minimi di mercato. Con riferimento al periodo
compreso fra la fine del 2002 e l'inizio del 2003, si nota come
in occasione del secondo minimo di ottobre anche i rialzisti
scesero ad un nuovo minimo rispetto al dato di luglio; poi, a
marzo dell'anno successivo, il sentiment sfiorò la lettura
precedente senza superarla. In altre parole il rapporto fra tori
e orsi realizzò un higher low prima dell'inversione verso l'alto
del mercato.
Risalendo all'inizio degli anni '90, mercato e bull/bear ratio
al principio calarono congiuntamente, come ci si dovrebbe
aspettare. Poi il mercato rimbalzò prima di realizzare un nuovo
minimo, e questa volta il rapporto fra tori e orsi scese in
prossimità del precedente minimo. Questo punto contrassegnò il
minimo del mercato e l'estremo di pessimismo per II.
In definitiva gli ultimi due minimi primari del mercato sono
stati contrassegnati da un picco di pessimismo. Siamo
correntemente sui minimi ma il pessimismo è lungi dall'aver
raggiunto un estremo, per cui ci sembra ragionevole restare
cauti. L'ideale sarebbe assistere ad un'impennata del
pessimismo, e di certo continueremo a seguire con attenzione
questo indicatore di sentiment.
Fonte
-
SmartTrading
|
|
Mercoledì
11 Marzo
2009 |
|
Venerdì
13 Marzo
2009 |
|
Sabato 14 Marzo
2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Le
obbligazioni bancarie
subordinate: un primer - 1
Tuesday, 3 March, 2009 at
11:29 - di
Charles Dexter Ward
________________________________________
Nel contesto estremamente difficile in cui versa l’intero mondo del
credito, le obbligazioni bancarie subordinate rappresentano
indubbiamente il segmento più complesso da analizzare e quello più
pesantemente penalizzato in termini di performance: anche in questo
primo scorcio del 2009 mentre i bond High Yield facevano registrare
un importante rimbalzo e il mercato investment grade ritrovava
slancio grazie ad un mercato primario molto attivo, i bond
finanziari subordinati sono rimasti al palo, prigionieri dell’enorme
incertezza che circonda questi strumenti.
Prima di addentrarci in qualche dettaglio tecnico vediamo di mettere
qualche punto fermo di carattere molto generale: semplificando
all’estremo possiamo dire che i bilanci dell’intero sistema
finanziario sono chiamati ad assorbire due tipi di perdite, legate
tra loro ma di cui la prima ha un carattere di eccezionalità mentre
la seconda ha caratteristiche più cicliche:
• Le perdite legate allo sboom della bolla del credito (parte
eccezionale), numeri su cui le stime sono assolutamente virtuali e
sono state riviste almeno 15 volte negli ultimi quindici mesi;
• Le perdite legate al dowturn dell’economia globale che per le
banche si traduce in un inevitabile aumento delle sofferenze su
prestiti;
Pur senza avere certezza sui numeri, appare piuttosto evidente che a
livello di sistema queste perdite sono potenzialmente in grado di
mangiare l’intero capitale del sistema finanziario, ragione per cui
da una parte i governi stanno studiando le forme più efficienti per
ri-capitalizzare il sistema finanziario e dall’altra l’intero mondo
delle obbligazioni finanziarie subordinate ha finito per essere
schiacciato in questo vortice.
Già, perché a questo punto è essenziale puntualizzare che il debito
subordinato delle banche ha una natura ibrida e pur essendo
formalmente debito, in presenza di determinate circostante si può
trasformare in uno strumento di capitale su cui potenzialmente
possono scaricarsi parte delle perdite dell’emittente.
Chiarito il
quadro di riferimento va fatta subito una prima precisazione:
l’universo dei subordinati bancari è estremamente variegato ed è
indispensabile operare moltissime distinzioni in termini di
strumenti, emittenti e quadro normativo di riferimento.
Questa estrema eterogeneita e complessita tecnica non ha certo
aiutato i livelli sul secondario visto che in mancanza di una
risposta univoca e chiara sul futuro di questi strumenti gli
investitori non hanno ad oggi gli strumenti per una valutazione
corretta delle opzionalità incorporate in questi titoli:
correndo
ancora una volta il rischio si semplificare eccessivamente possiamo
dire che i maggiori rischi legati a questi strumenti sono
riconducibili a due macro categorie:
• Il cd. extension risk , quindi legato al puntuale esercizio delle
call option da parte dell’emittente, che ha la facoltà ma non
l’obbligo di rimborsare anticipatamente le proprie obbligazioni. Il
meccanismo incentivante per le banche per l’esercizio delle call si
basava su una penalizzazione in termini di spread a cui questi
titoli vanno incontro in caso di mancato esercizio dell’opzione e su
un generico rischio reputazionale derivante dal mancato rispetto del
patto implicito con i sottoscrittori dei titoli che assumeva per
prassi la prima data di call come scadenza reale del titolo. Come è
facile capire questo tema è delicatissimo e sarà oggetto in seguito
di specifico approfondimento;
• Il rischio di mancato pagamento della cedola, sia nella forma più
soft di semplice rinvio temporale, sia nella forma più radicale di
perdita definitiva al diritto di incasso della cedola.
Le
obbligazioni bancarie
subordinate: i
Lower Tier 2 e l’extension risk
Tuesday, 24 March, 2009 at
8:30 - di
Charles Dexter Ward
________________________________________
I bond Lower Tier 2 rappresentano il gradino più alto nella scala
dei subordinati bancari: formalmente non sono classificabili come
debito bensì come capitale, ma in questo caso parliamo di capitale
debole o di bassa qualità, nel senso che ai fini della solidità
patrimoniale di una banca la capacità di questi strumenti di
assorbire perdite è molto limitata; rovesciando la prospettiva, dal
punto di vista del sottoscrittore questi sono strumenti con una
rischiosità relativamente bassa. Cerchiamo di esser più chiari in
questa relazione inversa tra qualità di capitale e rischiosità.
Man mano che ci si avvicina alle azioni ordinarie la qualità del
capitale aumenta, aumenta la rischiosità degli strumenti e di
conseguenza aumenta il premio per il rischio richiesto per
sottoscrivere/detenere questi titoli. Va sottolineato che quando
parliamo di qualità poi si fa riferimento a finalità di controllo e
a limiti normativi che ricordiamo impongono alle istituzioni
finanziarie tutta una serie di rapporti di congruità tra “capitale”
e impegni iscritti a bilancio.
Tornando ai nostri Lower Tier 2 possiamo, dire che questi titoli
hanno la struttura di un bond classico con una scadenza
prestabilita. Non ci sono clausole che consentono differimento
temporale delle cedole. Spesso, ma non sempre, questi titoli hanno
una opzione call scritta a favore dell’emittente che tipicamente
dopo cinque anni dall’emissione ha la facoltà ma non l’obbligo di
rimborsare anticipatamente il proprio debito. A questa struttura si
fa riferimento usando l’espressione 10nc5, ovvero scadenza decennale
senza opzione call per i primi 5 anni (Non Call 5). A completare il
quadro di riferimento spesso, in caso di mancato rimborso
anticipato, la cedola da fissa diviene variabile, con uno spread che
normalmente subisce un incremento di circa una cinquantina di punti
base. Cerchiamo di approfondire meglio questo punto poiché è
estremamente delicato ed è il punto dove ruota l’intera questione
dell’extension risk.
Pur consapevoli di correre il rischio di un’eccessiva
semplificazione, cerchiamo di riassumere il tutto in poche semplici
considerazioni. Questi titoli sono stati emessi sfruttando una
piccola ipocrisia di sistema: per la finalità dei controlli faceva
testo la scadenza naturale dei titoli, mentre gli investitori hanno
sempre vissuto nella convinzione (indotta, ovviamente) che al di
quanto fosse scritto nei prospetti, esistesse una sorta di tacito
patto per cui tutte le emissioni finanziarie venissero rimborsate
alla data della prima call.
In gioco era il rischio reputazionale
delle banche che non rispettando questo tacito patto avrebbero
compromesso irreparabilmente la propria capacità di raccogliere
finanziamenti presso gli investitori.
La stringente attualità ha
sconvolto le regole del gioco costringendo tutti gli operatori ad
un’affannosa corsa all’analisi dei prospetti per capire quali sono
le effettive clausole contrattuali al di la quanto fosse da sempre
ritenuto un dato di fatto, una regola non scritta. Le regole del
gioco reali sono semplici, almeno per i Lower Tier 2:
le banche si
trovano nella condizione di dover scegliere se esercitare l’opzione
di rimborso anticipato o no.
In moltissimi casi questa opzione è out of the money, ovvero il suo
esercizio non è economicamente conveniente. Questo perché a causa
della crisi finanziaria gli spread hanno subito un violentissimo
allargamento e le banche si troverebbero nella strana situazione di
richiamare anticipatamente dei titoli che andrebbero finanziati a
condizioni ben più onerose visti i correnti livelli di spread.
Questo in estrema sintesi il ragionamento che è alla base della
decisione di Deutsche Bank che nel dicembre dello scorso anno ha
gelato i mercati con la decisione di non esercitare una call su una
sua emissione LT2. Il caso DB non è stato il primo in ordine
temporale visto che già un anno fa il Credito Valtellinese non aveva
onorato una call, ma per un puro motivo dimensionale e di visibilità
il caso DB ha avuto un impatto e una risonanza molto ampia, di fatto
rappresentando il precedente con cui bisogna confrontarsi quando si
ragiona di extension risk.
Prima di proseguire occupandoci degli ultimi sviluppi su questo
importante segmento di mercato va chiarito che fino ad ora ci si è
sempre e comunque mossi all’interno dei rischi “contrattuali” di
questi strumenti: l’extension risk è previsto nella documentazione
di questi titoli e la crisi dei mercati non ha inventato o prodotto
nulla di nuovo: ha semmai di fatto sottolineato il mispricing di
questi strumenti in cui questo rischio era stato completamente
sottovalutato attraverso un atto di fede secondo cui per non
incorrere in un generico rischio reputazionale tutte le banche
avrebbero avuto tutto l’interesse a richiamare il debito. Sorvolando
su alcune complicazioni regolamentari legate alla scelta
dell’esercizio della call, si era creato un processo
autoreferenziale dove ad un livello di spread molto basso esisteva
un interesse convergente dell’emittente e dell’investitore a
richiamare i bond visto che il costo di rifinanziamento era
estremamente basso. Fin qui puro mispricing iniziale a cui ha fatto
seguito un aggiustamento che è finito per andare in overshooting,
visto che si è passati improvvisamente da tutto a niente: il mercato
ha infatti iniziato a temere che a questo punto nessuna opzione call
venisse esercitata esasperando il discorso in senso opposto. Il
cambio di passo qualitativo si è avuto a metà febbraio quando sul
mercato dei LT2 si è abbattuta un’ulteriore tegola con il caso Bradford&Bingley; in estrema sintesi, a fronte di un intervento di
salvataggio/nazionalizzazione della banca inglese, sono di fatto
stati apportati cambiamenti unilaterali alla contrattualistica
sottostante le emissioni Lower Tier 2 di B&B con il risultato di una
subordinazione extracontrattuale di questi strumenti dove anche il
mancato pagamento delle cedole non avrebbe più costituito un evento
di default.
Per quanto appaia assolutamente legittimo considerare quanto
accaduto ai bond della banca inglese un caso isolato e frutto di una
situazione molto particolare, è altrettanto vero che tutto questo
non ha fatto altro che creare ulteriori dubbi ed incertezze in un
segmento di mercato già in grave crisi d’identità.
 |
Fonte
-
Macromonitor
|
AIG (SCANDALOSA):
GOVERNO CORRE ANCORA IN AIUTO
02 Marzo 2009 19:53 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Washington ancora in aiuto del colosso assicurativo con un
ulteriore sforzo di $30 mld. Potrebbe non essere l'ultimo.
Tesoro ricevera' partecipazione in due controllate.
American International Group, considerata troppo importante per
essere lasciata fallire, otterra' $30 miliardi di capitale
fresco dal Tesoro, dopo aver annunciato la maggiore perdita mai
registrata da una societa' statunitense. Il rosso degli ultimi
tre mesi dell'anno si e' attestato a $61.7 miliardi, in
peggioramento dai $5.29 miliardi dell'analogo periodo
precedente.
Il nuovo accordo, che prevede un ulteriore sforzo da parte del
governo nel tentativo di soccorrere il colosso assicurativo
evitandone il fallimento, potrebbe mettere a repentaglio altri
fondi dei contribuenti. Ma Tesoro e Federal Reserve precisano
che il prezzo da pagare, nel caso di non intervento, "sarebbe
estremamente elevato". In una nota le autorita' citano il ruolo
di AIG sia come compagnia assicurativa di circa 100 mila
societa', municipalita' e fondi pensione, un'esposizione che
potrebbe potenzialmente potrebbe colpire 100 milioni di
americani, che come controparte di alcune delle principali
societa' del paese.
"Il governo ha accettato tutti i rischi al ribasso, con una
piccola possibilita' di ricavarne un guadagno", sostiene Phillip
Phan, professore di management alla Johns Hopkins Carey Business
School, a Baltimore. "Stanno cercando di proteggere il sistema
finanziario globale da un completo sfacelo".
La compagnia - gia' salvata in un primo momento dal collasso a
settembre, con un pacchetto di finanziamenti che l'anno scorso
e' salito a $150 miliardi - e' stata costretta a chiedere
nuovamente aiuto dopo non essere riuscita a vendere un numero
abbastanza alto di controllate, tale da permettere di ripagare
il debito con il governo. La societa', spiegano Tesoro e Fed in
un comunicato congiunto, potrebbe aver bisogno di un'ulteriore
iniezione di capitale in futuro, nel caso in cui i mercati
finanziari non dovessero dare segnali di miglioramento.
Le banche si affidano ai prodotti finanziari di AIG per
assicurare circa $298 miliardi di asset tramite contratti
derivati annuali, facendo della societa' "un'istituzione
destinata ad un fallimento sistematico", che secondo il Tesoro
deve dunque essere sostenuta a tutti i costi.
AIG paghera' il primo prestito federale, del valore di circa
$38.9 miliardi, il 31 dicembre prossimo, in parte grazie ai
proventi derivanti da un accordo stipulato con il Tesoro che
prevede la partecipazione sino a $26 miliardi del governo nelle
due controllate piu' importanti nelle polizze sulla vita. In
cambio AIG ha ottenuto la riduzione delle linee di credito a
disposizione, a non oltre $25 miliardi da $60 miliardi. Aig
manterra' il possesso di Alico e Aia, ma la Fed di New York
avra' alcuni diritti di governance. La societa' in crisi dara'
inoltre al governo i diritti al cash flow derivante da decine di
migliaia di polizze. Le controllate potrebbero poi essere
vendute del tutto, o potrebbe essere ceduta al Tesoro solo una
quota. Intorno alle 18.45 italiane i titoli della societa'
guadagnano il 7% a $0.49, dopo il calo del 99% subito negli
ultimi 12 mesi.
Il ruolo degli Stati Uniti e' passato da quello di prestatario
su breve termine, nell'ambito del primo piano di salvataggio che
prevedeva un prestito spalmato su due anni con un interesse
calcolato aggiungendo l'8.5% al Libor a tre mesi, a quello di
investitore a lungo termine. L'ex amministratore delegato di
AIG, Maurice "Hank" Greenberg, ha dichiarato che i termini del
primo prestito erano troppo cari perche' la societa' potesse
recuperare.
Il governo ha accettato un tasso di interesse inferiore sui
prestiti concessi ad AIG e di scambiare 40 miliardi di azioni
privilegiate in cambio di azioni privilegiate non cumulabili,
che "assomigliano ad azioni comuni", secondo quanto si legge sul
comunicato di Fed e Tesoro. Aig emettera' titoli privilegiati
convertibili pari al 77.9% dell'azionariato, che verranno
custoditi da un trust indipendente che avra' come unico
beneficiario il dipartimento guidato da Timothy Geithner.
Secondo una fonte, delle diverse opzioni che aveva davanti il
governo, il salvataggio consente di scongiurare un collasso
economico che avrebbe causato il fallimento della societa'.
JIM ROGERS SENZA PIETA':
LASCIATE FALLIRE AIG
03 Marzo 2009 17:15 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Il leggendario investitore miliardario suggerisce (giustamente)
di abbandonare al fallimento il gruppo assicurativo per poter
uscire dalla crisi. "Meglio far saltare una societa' anziche' il
Paese intero".
L’investitore miliardario Jim Rogers ha dichiarato durante
un’intervista rilasciata al network finanziario CNBC che il
gruppo assicurativo AIG dovrebbe essere lasciato fallire.
"Mantenendo il supporto governativo sull’azienda, e su altri
istituti finanziari malati, si rischia di compromettere
l’economia americana".
Ieri AIG ha comunicato una perdita trimestrale di $61.68
miliardi (la maggiore che si sia mai registrata da una singola
azienda nella storia) e richiesto un nuovo aiuto al governo (il
quarto) per un’ulteriore iniezione di capitali per un valore di
$30 miliardi, che vanno ad aggiungersi ai $150 mld. Gia’
ottenuti in precedenza.
"Qualora AIG andasse in bancarotta, dovremo fare i conti con due
o tre anni orribili dal punto di vista economico, ma e’ molto
meglio far fallire una sola societa’ che l’intero Paese" ha
dichiarato Rogers. "AIG ha mila miliardi di dollari in
obbligazioni, abbandonatela al fallimento, poi saranno i giudici
a risolvere il caso e ripartire una volta per tutte.
Diversamente non ne usciremo mai".
Guarda l'intervista a Jim Rogers...
Fonte
- WallStreetItalia
|
Assicurazioni
& crisi, c'è bisogno di nuovo capitali
03 Marzo 2009 15:28 ROMA - di
Andrea Greco
________________________________________
Sembra di vedere il sequel del film bancario di ottobre e
novembre scorsi. Un film ancora del genere drammatico, ma con il
ruolo dell’attore protagonista stavolta assunto dalle assicurazioni.
Stessi sintomi, stesse reazioni del mercato, stessi tentativi di
cura. Le grandi compagnie internazionali, dapprima negli Stati Uniti
e ormai anche in Europa, hanno contratto il morbo che fiacca i
patrimoni di vigilanza, quelli necessari a garantire l’adempimento
degli impegni.
Le perdite sulle partecipazioni azionarie e l’elevata necessità di
capitale delle attività vita sono un circuito vizioso che fa ormai
pubblicamente parlare di ricapitalizzazioni e nazionalizzazioni
anche per i grandi assicuratori. Quelli che fino a dicembre avevano
sperato di lasciare la maglia nera della crisi agli operatori
creditizi.
Solvency è il concetto su cui tutti nel settore si arrovellano, come
sei mesi fa il mondo bancario si accorse della centralità del Core
Tier 1. La prova del passaggio di testimone è avvenuta anche sui
listini, dove da inizio gennaio l’indice Eurostoxx assicurativo ha
perso il 33% circa, più dell’Eurostoxx bancario (meno 27%). La
sottoperformance ha un’eco tra le agenzie, che da giorni vanno
revisionando al ribasso il merito di credito dei principali
assicuratori. «Sulle Borse gli investitori cominciano a prezzare
l’eventualità che servano degli aumenti di capitale alle
assicurazioni dice Massimo Figna, fondatore e gestore del fondo
Tenax. Al di là delle incognite che ciò crea su chi metterà i nuovi
fondi, se mani private o pubbliche, c’è il fatto certo che gli utili
si diluiranno. E più si aspetta, se l’azionario scende, maggiore
sarà la diluizione, perché occorrerà emettere più azioni».
I big europei sono perfettamente sintonizzati su queste frequenze.
Allianz, che giovedì ha fornito i conti d’esercizio chiusi con una
perdita di 2,44 miliardi di euro e gravati ancora dai problemi di
Dresdner Bank (ma almeno è l’ultima volta, visto che la banca di
gruppo è stata ceduta a Commerzbank) si è affrettata a informare, in
conference call, che la situazione finanziaria è stabile, come
dimostrato da un valore del 159% dell’indice di solvency.
Tanto è bastato perché l’azione a Francoforte tornasse a salire,
fino alla chiusura in rialzo del 12%. Il mercato ha preferito vedere
la buona notizia patrimoniale piuttosto che la cattiva notizia di
conto economico, dove nel quarto trimestre Allianz ha perso 3,1
miliardi, quasi il doppio del consensus citato da Bloomberg e pari a
1,68 miliardi. «Negli ultimi mesi l’attenzione si sta incentrando
quasi solo sulla solidità patrimoniale delle compagnie, piuttosto
che sul conto economico, principalmente per l’incrementato del costo
del reperimento di capitale sul mercato – dicono gli analisti del
settore assicurativo di Intermonte –. Semplificando moltissimo,
meglio zero utili ma margini di solvibilità costanti piuttosto che
utili a fronte di erosione patrimoniale».
Sempre all’insegna del bisogno di capitale è stato il rendiconto
2008 di Axa, la maggior rivale di Allianz insieme a Generali nel
continente. Il 19 febbraio il gruppo francese, nel comunicare una
perdita del secondo semestre di 1,24 miliardi e un taglio del 67% al
dividendo, ha informato di avere chiesto l’autorizzazione a emettere
azioni privilegiate per 2 miliardi, che dovrebbero essere
sottoscritte da Mutuel Axa, le mutue primo socio a Parigi.
Una ricapitalizzazione "mascherata", cui si aggiungono misure
difensive «per preservare i livelli di patrimonializzazione se i
mercati dovessero continuare a deteriorarsi», come ha detto l’ad
Henri De Castries. Il deterioramento si vedeva già a fine anno, con
l’indice solvency di Axa sceso dal 131% al 127%. E visto l’andamento
di gennaio e febbraio è difficile che quel rapporto sia salito, a
oggi. Gli standard impongono almeno la copertura al 100% del
patrimonio, ma nelle fasi più critiche tale soglia è considerata
insufficiente dagli investitori. Tra l’altro, Axa computa nel
patrimonio anche le plusvalenze degli immobili, che hanno un impatto
stimato tra il 5 e il 10% sul relativo indice.
Così non fa Generali, la cui solvency tuttavia è tra le più basse
del sistema. Il Leone è l’ultimo grande assicuratore a non avere
fornito i conti d’esercizio lo farà il 20 marzo ma la solvency è
stimata in calo attorno al 115%. Potrebbe aiutare a rafforzarla
l’incorporazione di Alleanza, dotata di una solvency del 175% che
porterà qualche punto percentuale in più al gruppo.
E anche i conti 2008, per quanto in frenata, si dovrebbe chiudere in
utile poco sotto il miliardo di euro, per dare luogo a un dividendo
dimezzato. Se non altro, nell’attesa nervosa, il gruppo triestino
registra una positiva notizia: il bond da 750 milioni aperto e
chiuso nella giornata di giovedì ha riscontrato richieste pari al
quadruplo dell’offerta, per cui il tasso spuntato dall’emittente è
sceso leggermente, fino al 4,875%. Anche il rifinanziamento dei
debiti è un tema cruciale in questa fase, sia per le condizioni
critiche del mercato corporate sia per i costi crescenti della
raccolta.
I problemi, come si vede, sono tanti. E settimana scorsa, al Pan
european insurance forum, le 11 maggiori compagnie continentali
hanno redatto un documento per far sentire la loro voce sulle misure
che le autorità pubbliche stanno prendendo a fronte della crisi dei
mercati. Ne sono uscite cinque raccomandazioni chiave: sana gestione
del rischio e del capitale, supervisione unitaria sui gruppi
multinazionali, convergenza sulle regole contabili, più trasparenza
sui prodotti strutturati, interventi pubblici che non distorcano i
mercati. Anche in questa sede tutta "privata", insomma, si para il
colpo dell’arrivo delle mani pubbliche. Che, a meno di imprevedibili
ripartenze convinte delle Borse, diventa ogni giorno più concreta.
 |
Fonte
- La Repubblica
|
LE 19 DELLO STRESS
TEST
05 Marzo 2009 16:59 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Ecco la lista completa degli istituti di credito sotto
osservazione per la verifica dell'adeguatezza patrimoniale e
della capacita' di reazione alla crisi. JP Morgan guida la
classifica in termini di assets, presenti anche...
Nello "White Paper" del Dipartimento del Tesoro, relativo al
programma di supporto agli istituti di credito in difficolta’
(CAP - Capital Assistance Program), si legge che al momento 19
grosse banche americane sono sottoposte allo "stress test",
ovvero l’esame condotto dal governo per verificarne
l’adeguatezza patrimoniale e la capacita’ di reazione nel caso
di un peggioramento della crisi.
Il test sara’ condotto alle organizzazioni che vantano capitali
superiori ai $100 miliardi, stando a quanto riferito nei giorni
scorsi dalla Federal Reserve.
Nella lista degli istituti sotto osservazione, ad occupare le
primissime posizioni sono JP Morgan, con asset per 2.175
miliardi di dollari, Citigroup, con 1.947 miliardi e Bank of
America, con 1.822 miliardi. Seguono Wells Fargo (1.310 mld),
Goldman Sachs (885 mld), Morgan Stanley (659 mld)).
Piu’ in basso troviamo il gruppo assicurativo Metlife (502 mld),
mentre all’undicesima posizione c’e’ GMAC, l’ex braccio
finanziario della casa automobilistica General Motors, con asset
totali per 189 miliardi di dollari.
Di seguito la lista completa degli istitui e le rispettive quote
sugli assets (in miliardi di dollari):
1. JPMorgan Chase 2,175
2. Citigroup 1,947
3. Bank of America (1) 1,822
4. Wells Fargo 1,310
5. Goldman Sachs 885
6. Morgan Stanley 659
7. MetLife 502
8. PNC Financial Services 291
9. U.S. Bancorp 267
10. Bank of New York Mellon 238
11. GMAC 189
12. SunTrust 189
13. State Street 177
14. Capital One Financial Corp. 166
15. BB&T 152
16. Regions Financial Corp. 146
17. American Express 126
18. Fifth Third Bancorp 120
19. KeyCorp 105
Fonte
- WallStreetItalia
BANCHE: RISCHI A
ORIENTE, SERVIRANNO ALTRI $50 MLD
05 Marzo 2009 20:55 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Ma alcuni istituti gia' si oppongono alle stime di JP Morgan.
Per le autorita' di controllo gli investitori dovrebbero fare
una distinzione tra i singoli paesi dell'Europa dell'Est.
Esposizione gestibile per Unicredit e Intesa.
Le banche del Vecchio Continente con un'esposizione ai mercati
dell'Europa Centrale e Orientale potrebbero avere bisogno di
altri $50 miliardi di capitale entro il 2010, alimentando
ulteriormente il dibattito sulla vulnerabilita' delle banche con
un'ampia presenza nella regione.
Le stime fornite dagli analisti di JP Morgan hanno
immediatamente attirato la protesta di alcune delle banche
citate nel report, che definiscono semplificative le analisi sul
loro conto e negano di avere bisogno di capitale fresco. Secondo
i calcoli dell'indagine, 32 istituti bancari europei potrebbero
essere costretti a ricorrere ad aumenti di capitale dell'ordine
di 32-40 miliardi di euro.
Sarebbe un altro duro colpo per le banche, gia' alle prese con
270 miliardi di euro di svalutazioni dei cosiddetti asset
tossici, si legge nel report. La potenziale esposizione degli
istituti dell'Europa Settentrionale e' stimata a 8 miliardi di
euro, quella delle banche austriache a 5 miliardi di euro e
quella delle banche greche a 4 miliardi di euro.
Le previsioni di JP Morgan si basano sulle analisi condotte
sulle banche che presentano un'esposizione materiale ai paesi
dell'Europa Centrale e Orientale, come pure agli Stati che
facevano parte dell'Unione Sovietica.
I calcoli di JP Morgan giungono un giorno dopo che le autorita'
di controllo dei mercati di sei paesi membri dell'Ue hanno
pubblicato un comunicato congiunto in cui minimizzavano i rischi
per le banche dell'Europa Occidentale con un'alta esposizione
all'Est Europa, sollecitando al contempo gli investitori a fare
una distinzione tra i singoli paesi della regione.
Le informazioni sui rischi rappresentati dall'Europa dell'Est
sono infatti, secondo gli analisti, spesso semplificati e non
corrispondenti al vero e "potrebbero avere delle implicazioni
negative per le banche che operano in questi paesi", osservano
nel comunicato le banche centrali di Bulgaria, Repubblica Ceca,
Romania e Slovacchia, cui si sono aggiunte le autorita' di
controllo di Ungheria e Polonia.
Secondo gli analisti, per le banche che hanno una
diversificazione maggiore, come le italiane Intesa Sanpaolo e
UniCredit Group, l'esposizione sembra piu' gestibile.
Fonte
- MarketWatch
|
|
Giovedì
19 Marzo
2009 |
|
Venerdì
20 Marzo
2009 |
|
Sabato 21 Marzo
2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
BORSE IN RIPRESA:
FINE DELLA CRISI O INVERSIONE DEL TREND?
11 Marzo 2009 17:21 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Analisti a confronto. Tutti concordano sul fatto che dipendera'
dall'economia e in particolare dalla crisi finanziaria. Roubini
allarmista, molti esprimono cautela, ma altri si sbilanciano:
sara' un forte rimbalzo.
La grande domanda che si pongono analisti e investitori ora e’
se il mercato sara’ in grado di rendersi protagonista di un
recupero sostenibile, sfruttando il momentum positivo partito
ieri e che sta proseguendo anche oggi, o se invece si tratta
dell'ennesimo fuoco di paglia, con gli indici che devono ancora
toccare il fondo.
Ma su una cosa sono tutti d'accordo: molto dipendera'
dall'economia e in particolare sara' importante capire se la
crisi bancaria e' davvero finita.
Molti preferiscono mantenere un approccio cauto. Non sarebbe
infatti la prima volta che il mercato rimbalza dopo un periodo
prolungato di forti vendite e gli investitori sono ancora al
corrente dei tanti problemi che l'economia si trova a dover
affrontare.
Tuttavia non mancano le prese di posizione piu' forti. Se da una
parte c'e' chi parla di falsa partenza, come il famoso
economista Nouriel Roubini, altri esperti hanno motivo per
credere che il peggio della crisi finanziaria sia ormai passato
e che il mercato riuscira' finalmente a rimbalzare.
Ieri l'S&P 500 ha messo a segno il maggior rialzo da novembre,
dopo che Citigroup ha annunciato di essere ben avviata, dopo due
mesi in utile operativo, a chiudere in utile un trimestre per la
prima volta dal 2007. La notizia ha alimentato le speculazioni
secondo cui il peggio della crisi bancaria sia alle spalle.
Quasi 1,2 mila miliardi di perdite e svalutazioni annunciate
dalle societa' finanziarie di tutto il mondo hanno spedito
l'indice di riferimento della Borsa Usa in ribasso del 20%
dall'inizio dell'anno.
Secondo l'economista Roubini, che e' stato tra i primi a
prevedere lo scoppio della crisi, si tratta di una falsa
partenza e il rimbalzo e' destinato a spegnersi sotto
l’incalzare di dati macro peggiori del previsto, di utili in
calo e di notizie shock in arrivo dai mercati e dalle societa'.
"Da sei mesi vado ripetendo che, nonostante la brusca caduta
delle Borse, ci sono forti rischi di nuovi rovesci. Nell’ultima
recessione l’economia tocco' il fondo nel novembre 2001, la
ripresa prese forza nel 2002, ma la Borsa si mosse solo nella
primavera del 2003, con 18 mesi di ritardo. Potrebbe capitare
ancora".
"Percio' - prosegue l'economista - e' probabile che nei prossimi
12-18 mesi vedremo nuovi minimi. Fino ad allora aspettatevi
tanta volatilita'".
Sicuramente piu' ottimisti invece gli analisti di Morgan Keegan,
che confermano il suggerimento sull’acquisto dei titoli bancari,
la cui valutazione appare "estremamente economica" - tenuto
conto che trattano ad un multiplo di 0.1-0.2 volte il book value.
La banca ritiene che il rally iniziato ieri possa continuare,
anche grazie alle rassicurazioni offerte dal Dipartimento del
Tesoro sulla concessione di capitali che dovrebbero porre fine
ai timori legati alla liquidita’ degli istituti.
Interpellato da MarketWatch, sito web finanziario americano, Jim
Raid, credit strategist di Deutsche Bank, sottolinea il fatto
che Citi non e’ stato il solo istituto finanziario ad annunciare
un ritorno degli utili. "I margini sono in aumento e la
concorrenza nel settore si e’ ridotta. Cio’ significa che nel
primo trimestre assisteremo ad un buon rialzo dei profitti per
diverse banche". Raid ha pero’ aggiunto che "e’ ancora da
considerare il modo in cui saranno valutati gli asset illiquidi
in bilancio, sperando che non controbilancino o superino la
profittabilita’ del core business".
Per i trader che basano le proprie analisi dei prezzi azionari
sulla serie Fibonacci, il fatto che l'S&P 500 non abbia bucato
quota 665 e' un segnale rialzista. L'indice ha fatto un balzo
del 7.9% da quando e' scivolato a 666.79 lo scorso 6 marzo. Se
dovesse scivolare sui livelli di 665 punti, il paniere
brucerebbe il 61.8% del rally iniziato 25 anni fa nel 1982.
Sente aria di rimbalzo il famoso analista tecnico John Bollinger,
noto per aver inventato le "bande" che portano il suo nome: "Si
sta formando un ottimo setup per un minimo di lungo termine sui
principali listini azionari. Per ora - continua Bollinger - si
tratta solo di una struttura in formazione, non ancora di un
minimo, ma se il mercato azionario riuscisse a dare un colpo di
reni, molti indicatori tecnici segnalerebbero ripresa. E a quel
punto si creerebbe un circolo virtuoso per un rally".
Quest'oggi il mercato sta tentando di estendere i guadagni del
6-7% realizzati ieri. Intorno alle 17 italiane il Dow sale dello
0.43% a 6955.96 punti, l'S&P 500 avanza dello 0.76% a 725.05
punti, mentre il Nasdaq dello 0.98% a quota 1371.65.
Se oggi il paniere dei titoli a grande capitalizzazione dovesse
chiudere in positivo, si tratterebbe della prima volta da inizio
febbraio in cui il Dow Jones riesce a mettere a segno due sedute
consecutive di rialzi. Ma di recente il mercato ha dimostrato di
non avere la forza per confermare il rimbalzo. E’ gia’ successo
cinque volte quest’anno che il Dow, dopo aver guadagnato piu’ di
200 punti in una singola seduta, abbia poi perso terreno in
quella successiva.
"Potrebbe essere un rimbalzo temporaneo, ma potrebbe essere
anche molto consistente. Prevedo un rialzo del 25-30% rispetto
ai livelli attuali" dice a Bloomberg Stanley Nabi, vice
presidente del gruppo Silvercrest Asset Management. "Se e' un
rally momentaneo o no, nessuno e' in grado di dirlo. Dipendera'
tutto dall'economia. Ma secondo me, almeno in un primo momento,
sara' un rimbalzo ampio dai livelli attuali".
Fonte
- WallStreetItalia
|
Bollinger:
sento aria di rimbalzo
11 Marzo 2009 01:14 MILANO - di
Massimiliano Malandra
________________________________________
John Bollinger non parla mai a caso. Studia e ristudia. E
adesso la pensa così: «Si sta formando un ottimo setup per un minimo
di lungo termine sui principali listini azionari». Sorpresa:
l’inventore delle famose «bande» che prendono il suo nome invita a
non farsi prendere dal panico. «Per ora - aggiunge - si tratta solo
di una struttura in formazione, non ancora di un minimo, ma se il
mercato azionario riuscisse a dare un colpo di reni, molti
indicatori tecnici segnalerebbero ripresa. E a quel punto si
creerebbe un circolo virtuoso per un rally. Ma niente illusioni,
fino a quel momento continueremo a vivere in un limbo fatto di
incertezza, debolezza e paura».
Mr. Bollinger, per ora si vedono solo crolli ma quali potrebbero
essere a suo parere i primi obiettivi di questo teorico rally?
I miei target coincidono con le medie mobili di breve, medio e lungo
termine. Quindi di quelle a 20 sedute, cioè 780 punti per l’S&P500 e
7.458 per il Dow Jones Industrial, a 50, rispettivamente a 831 e
8.118 punti, e infine la classica media di lungo a 200 sedute, che
ora passa a 1.066 punti per l’S&P500 e a 9.918 per il Dow. So bene
che sono strumenti tecnici semplici ma restano sempre validi. E
soprattutto sono molto importanti dal punto di vista psicologico.
Certo, ora tutte e tre le medie sono in caduta, ma quando saranno
tagliate al rialzo dagli indici sarà un doppio segnale importante,
sia tecnico sia di sentiment.
Con i chiari di luna che vediamo attualmente, quale asset allocation
suggerirebbe?
La mia indicazione è quella di iniziare gradualmente a incrementare
la parte azionaria. In questo momento il rifiuto della Borsa è ai
massimi, ma si può rivelare, in prospettiva, un errore grossolano.
Infatti, nel momento in cui ripartirà il rally, la sottoperformance
di questi portafogli diverrà evidente. Facendo perdere
all’investitore la possibilità di guadagnare dal movimento
rialzista. E questo, almeno dal punto di vista di un consulente
finanziario, quale mi considero, è un potenziale grave errore.
Il suggerimento è valido anche per chi ragiona in euro?
Direi propri di sì. Anzi, ancora di più. A mio parere, infatti, il
rafforzamento della moneta unica europea contro dollaro è ormai
finito da un pezzo. I tassi Usa sono ai minimi di sempre, così come
quelli dell’Eurozona, ma il governatore della Bce si è dichiarato
pronto a tagliare nuovamente. E siccome, come è sempre avvenuto,
saranno gli Stati Uniti a uscire per primi dalla crisi economica,
saranno i tassi di interesse Usa a salire per primi, tirando la
volata anche al dollaro. Quindi un investitore in euro potrà contare
anche sulla rivalutazione del buon vecchio biglietto verde,
indipendentemente dallo scenario azionario.
E le commodity? A questi prezzi non le sembrano essere diventate
irresistibili?
Certo. E quando invertiranno il trend daranno grandissime
soddisfazioni. Ma non penso sia questione di pochi giorni o di
qualche settimana. Ci vorrà un po’ più tempo perché le materie prime
consolidino su questi prezzi.
E per quanto riguarda oro e petrolio?
A questi livelli l’oro ha un’attrattiva modesta. Soprattutto dà da
pensare la divergenza enorme che si è creata fra il metallo e le
società aurifere. Quindi ci andrei molto cauto. Differente invece è
il discorso sul comparto energy. Sono titoli che rappresentano un
buy di lungo periodo e che a questi prezzi appaiono veramente
irresistibili.
Tornando all’azionario, e con tutte le cautele dovute al momento
borsistico che stiamo vivendo, vede qualche settore particolarmente
forte?
In generale le azioni growth stanno performando meglio di quelle
value. Ma non durerà ancora per molto, credo. Quando i finanziari
inizieranno a riprendersi, il trend si invertirà nuovamente. Negli
Usa i tre settori su cui i grandi investitori stanno scommettendo, e
che quindi si stanno comportando bene, sono i tecnologici, le
telecom e l’healthcare.
Infine, quale potrebbe essere un’idea di investimento un po’ più
azzardata? Un po’ stile hedge fund per intenderci...
Un’operazione long-short che mi sentirei di consigliare a un
investitore esperto è questo: in acquisto sui titoli value e invece
in vendita - cioè short - su quelli growth nel momento in cui
partirà il rimbalzo. Per altre operazioni aspetterei che inizi
effettivamente il movimento. A quel punto nuovi leader di comparto
potranno emergere e soprattutto si vedrà quali saranno i settori che
traineranno le Borse. Ma fino a quel momento mi sembra prematuro e
soprattutto troppo azzardato fare scommesse in tal senso.
 |
Fonte
- Borsa&Finanza
|
Roubini:
S&P500, prevedo nuovi minimi
11 Marzo 2009 13:35 NEW YORK - di
Nouriel Roubini
________________________________________
Da sei mesi vado ripetendo che, nonostante la brusca caduta
delle Borse, ci sono forti rischi di nuovi rovesci. I rally
dell’Orso sono perciò destinati a spegnersi sotto l’incalzare di
dati macro peggiori del previsto, di utili in calo e di notizie
shock in arrivo dai mercati e dalle società. È probabile che gli
utili per azione per il 2009 (Eps) per i titoli S&P 500 oscillino
tra i 50 e i 60 dollari (ma qualcuno dice addirittura 40).
A quale multiplo prezzo/utili può corrispondere questo dato? È
sensato pensare che, in epoca di recessione a U, il multiplo
dovrebbe scendere tra 10 e 12. Perciò anche nel caso migliore (cioè
eps a 60, multiplo 12), l’indice non dovrebbe stare sopra quota 720.
Nel caso di un eps a 50, con un multiplo di 10 si scende, come è
ovvio, a quota 500. In parallelo, il Dow Jones potrebbe oscillare
tra i 7 e i 5.000 punti. Questi ragionamenti, però, io li facevo
quando l’S&P era vicino a 900, il DJ a 9.000, prima che venisse
infranta la barriera dei 7.000 punti.
Ma va preso in seria considerazione un altro scenario macro: la
depressione ad L. In tal caso non va esclusa, sia negli Usa che sui
mercati globali, un ulteriore calo dei listini nell’ordine del
40-50%. Ma in uno scenario del genere l’ultima cosa di cui
preoccuparsi è l’andamento del mercato azionario. Avremmo da
fronteggiare, infatti, un’emergenza disoccupazione a due cifre, non
inferiore al 15%. Di contro, si può pensare che la robusta azione di
stimolo dell’economia in Usa ed altrove porterà alla ripresa prima
del previsto.
È difficile credere, però, che le economie, alle prese con la
deflazione, possano registrare nel 2010 una ripresa accompagnata da
grossi utili aziendali; anche in uno scenario a U la crescita non
sarà superiore all’1% in Usa, vicina allo zero in Europa e Giappone.
Certo, è vero che il mercato azionario tende a toccare i minimi con
un anticipo tra i sei e i nove mesi prima della fine della
recessione. Perciò gli ottimisti che prevedono la ripresa nella
seconda metà del 2009 pensano ad una ripresa su basi già solide. Ma
questa recessione non finirà prima del 24esimo mese (dicembre 2009).
Più probabile che nel 2010 la disoccupazione aumenti ancora e che la
crescita si assesti tra lo 0 e l’1% cosicché si resti per tutto il
2010 in una recessione tecnica. In tal caso, il fondo, non verrà
toccato prima della fine del 2009 o nel corso del 2010.
Poi non sempre il mercato anticipa di 6-9 mesi la congiuntura.
Nell’ultima recessione l’economia toccò il fondo nel novembre 2001,
la ripresa prese forza nel 2002 ma la Borsa si mosse solo nella
primavera del 2003, con 18 mesi di ritardo. Potrebbe capitare
ancora: nel 2010 avremo una ripresa anemica, condizionata dalla
presenza di forze deflattive che freneranno i profitti.
È facile che nel 2010 ci saranno movimenti laterali, accompagnati da
più di una falsa partenza del rally del Toro. Perciò, è probabile
che nei prossimi 12-18 mesi vedremo nuovi minimi. E che la ripresa
si manifesterà solo quando ci saranno segnali convincenti del fatto
che la recessione ad U non degenererà in una depressione ad L. Fino
ad allora aspettatevi nuovi minimi e tanta volatilità.
 |
Fonte
- Finanza&Mercati
|
I gestori vogliono
un ritorno alla normalità
12 Marzo 2009 20:15 MILANO
-
di Sara Silano ______________________________________________
I gestori vogliono un ritorno
alla normalità
Ancora volatilità sui mercati, ma gli Usa preparano la ripresa.
Dollaro in corsa.
I mercati si riprenderanno quando gli investitori percepiranno
un ritorno alla normalità del sistema finanziario e avranno
scontato pienamente la recessione che si preannuncia più lunga e
profonda del previsto. E’ questa l’opinione dei gestori
interpellati da Morningstar nell’ultimo sondaggio sulle
previsioni per le Borse mondiali nei prossimi sei mesi.
Europa, tassi ai minimi e volatilità
Nella riunione del 5 marzo, la Banca centrale europea ha
tagliato i tassi di mezzo punto, portandoli al minimo storico
dell’1,5%, e non ha escluso ulteriori ribassi per risollevare
l’economia. Ma le Borse sono rimaste sotto pressione per le
cattive notizie che arrivano dal fronte delle banche, in
particolare quelle più esposte all’est Europa. Ormai, però,
fanno notare i gestori, le valutazioni sono scese molto, per cui
i mercati possono sopportare meglio ulteriori revisioni degli
utili e misure anti-recessive. E’ possibile quindi che nei
prossimi mesi si alternino salite e discese dei corsi azionari,
anche se i gestori lasciano trapelare un po’ più di ottimismo
rispetto al mese scorso. Quasi il 43% degli intervistati è
convinto che i mercati saliranno nei prossimi sei mesi contro il
28% di pessimisti.
Gli Stati Uniti vedono una piccola luce
L’America è entrata in recessione per prima e potrebbe uscirne
in anticipo rispetto all’Europa. Per questa ragione, il numero
di gestori che prevede un ribasso nei prossimi mesi è inferiore
rispetto al Vecchio continente (19%). Un aiuto dovrebbe venire
dal piano di stimoli fiscali dell’amministrazione Obama, mentre
c’è ancora grande incertezza sul sistema bancario. Quasi il 43%
dei fund manager è convinto che Wall Street salirà anche per la
sua capacità di resistere agli shock e per il suo carattere
difensivo.
Sol Levante in sofferenza
Sul Giappone è netta la spaccatura tra i gestori che prevedono
un rialzo (43%) e quelli che si aspettano un ribasso (33%).
L’economia nipponica è in rapido deterioramento, anche a causa
della dipendenza dal commercio mondiale, che è in rallentamento.
La situazione è aggravata dalla forza dello yen e da una domanda
interna anemica. Per queste ragioni, difficilmente la Borsa di
Tokyo riuscirà a riprendersi prima di quelle americana ed
europea.
Rendimenti bassi per i bond
Gli investitori obbligazionari devono fare i conti con tassi di
interesse in ulteriore discesa, soprattutto in Europa e Gran
Bretagna. In quest’area, dunque, i rendimenti dei titoli
rimarranno bassi ancora per un po’ anche se successivamente
potrebbero riprendersi non appena l’inflazione rialzerà la testa
in seguito alle politiche fiscali espansive dei governi. Circa
metà dei gestori prevede che i prezzi scenderanno nell’area
Euro, mentre il 62% stima una stabilizzazione attorno agli
attuali livelli negli Stati Uniti.
Il dollaro non perde la sua forza
Nell’ultimo mese è aumentata la percentuale di gestori che
prevede un apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro,
nonostante il fragile quadro economico e le politiche monetarie
e fiscali espansive degli Stati Uniti. Nel breve, il biglietto
verde beneficia dell’avversione al rischio degli investitori,
che li spinge verso asset difensivi e del processo di riduzione
dell’indebitamento nel sistema finanziario.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 2 e il 9 marzo,
21 delle principali società di diritto italiano ed estero
operanti sul territorio, che contano per circa il 85% degli
asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti
Gestielle, Allianz Global Investors, Axa Im Banca Profilo,
Bipiemme Gestioni, Bnp Paribas Am Sgr, Eurizon Capital,
Euromobiliare AM, Fideuram Investimenti, Ing IM, Investitori
Sgr, Julius Baer, Maxos sim, Mps Am, Pictet, Pioneer Im,
Schroders, Sella Gestioni, Standard Chartered Bank, Vontobel.
Fonte
-
Morningstar.it
STRATEGIE VINCENTI:
ORSO DI GIORNO, TORO DI NOTTE
13 Marzo 2009 20:15 NEW YORK
-
di Bloomberg ______________________________________________
Dal 1993 guadagni quadruplicati per chi avesse acquistato alla
chiusura e venduto il giorno seguente. La strategia opposta,
dettata dalla paura di non poter reagire ai cali dei mercati,
avrebbe portato una perdita del 53%.
Secondo la banca Goldman Sachs gli investitori dovrebbero
approfittare del buio e dormire sonni tranquilli: dal 1993 ad
oggi, infatti, conservare i titoli Usa di notte, per poi
venderli il giorno successivo, avrebbe significato guadagni
quadruplicati.
Acquistare l'ETF sull'indice Standard & Poor’s 500 (o investire
su un fondo che ricalca l'andamento del benchmark azionario Usa)
alla fine delle contrattazioni e venderlo il giorno seguente
avrebbe fruttato un rendimento del 309% dal 1993 ad oggi,
secondo quanto riferito in una lettera ai clienti dall'analista
Peter Berezin. La strategia opposta avrebbe originato una
perdita del 53%.
Gli investitori e i trader negli Stati Uniti sono infatti
diventati sempre piu' riluttanti a conservare i titoli di notte,
quando non sono in grado di reagire ai cali degli altri mercati
oltreoceano, spiega Berezin.
L'S&P 500 ha perso il 54% dai livelli record di ottobre 2007,
prima che lo scoppio della crisi creditizia e il fallimento di
alcune banche, tra cui Lehman Brothers, ha affossato i titoli
azionari, mentre l'indice della volatilita' Chicago Board
Options Exchange Volatility Index, il cosiddetto indicatore
della paura degli investitori, e' piu' che raddoppiato.
"Un numero sempre piu' alto di investitori preferisce non
mantenere le posizioni nella notte, il che significa vendere al
suono della campanella (compromettendo i profitti intraday) e
comprare all'apertura dei mercati", si legge nella nota. "Una
tale avversione al rischio 'notturno' e' probabile che sia piu'
elevata durante un periodo ribassista".
Il differenziale tra i prezzi alla chiusura dei mercati e quelli
all'apertura si e' ampliato sino a 9 punti base da ottobre 2008,
secondo lo studio, a fronte di una media a lungo termine di 5
punti base. Un punto base equivale allo 0.01%. Questo significa
che la strategia proposta da Berezin avrebbe portato un ritorno
degli investimenti del 507% in questo lasso di tempo.
Il modo migliore per generare profitti e' dunque quello di
mantenere l'S&P500 nelle ore notturne, per poi adottare una
tattica "short" nell'arco delle normali contrattazioni.
L'analista riconosce che una strategia cosi' intensa ha tuttavia
anche dei costi. Chi vende allo scoperto non fa altro che
prendere in prestito titoli scommettendo sul ribasso degli
stessi, in modo da riacquistarli ad un prezzo vantaggioso prima
della scadenza del prestito.
Lo scorso 6 marzo l'indice allargato americano e' scivolato sino
a quota 666.79, sui minimi giornalieri di oltre 12 anni.
Dall'inizio dell'anno il benchmark ha bruciato il 20%.
"Anche se una persona e' solita rifarsi a strategie
caratterizzata da scambi meno intensi, le analisi riportate
sopra suggeriscono che il prezzo da pagare per chi volesse
evitare il rischio di conservare i titoli di notte e' alto", ha
scritto Berezin.
Fonte
-
Bloomberg
ANCHE I VERI CAPITALISTI
SOFFRONO
16 Marzo 2009 22:16 TORINO
-
di Sandra Riccio ______________________________________________
La crisi della finanza globale sta intaccando anche le
grandi fortune tanto che, oggi, molti Paperoni sono diventati
meno ricchi. I loro sonni, poi, non sono più tranquilli come un
tempo perché tormentati da una preoccupazione tutta nuova:
riuscire a mantenere i milioni scampati ai recenti tracolli
finanziari. «Prima della crisi i più benestanti avevano soltanto
il timore di non riuscire a spuntare interessi abbastanza alti»,
racconta Alfredo Piacentini, partner di Banque Syz & Co, banca
svizzera attiva nella gestione patrimoniale. Il crack di un
colosso sacro come la banca americana Lehman Brothers ha, però,
cambiato di colpo lo scenario e scatenato paure che prima non
esistevano. «Oggi i super ricchi sono martellati dal pensiero di
dove parcheggiare i propri soldi e sono a caccia di investimenti
sicuri che non facciano sfumare anche il capitale rimasto»,
riferisce Piacentini dalla sua sede sul lago di Ginevra.
Dove investono allora? In genere sono molto prudenti.
Tradizionalmente l'investitore danaroso non è uno speculatore e
si muove con molta cautela senza azzardare colpi di testa.
Questa crisi ha, però, colto impreparati anche loro e soltanto
pochi sono usciti in tempo dai mercati.
In questo momento molti dei grandi patrimoni hanno optato per il
passaggio a investimenti più sicuri come i titoli di Stato o le
obbligazioni societarie con una durata non troppo lunga, intorno
ai cinque anni. La fetta più grande dei grandi portafogli
(40-50%) dei ricchi è investita proprio in questo tipo di
prodotti. «Non rendono granché perché oggi pagano interessi che
in media vanno dal 2 al 4% annuo, ma di questi tempi è meglio
puntare sulla sicurezza senza guardare troppo al rendimento»,
dice Piacentini.
Agli investitori, l'esperto suggerisce di selezionare con
attenzione i Titoli di Stato e di privilegiare le emissioni di
Paesi come la Germania, la Francia oppure gli Stati Uniti e
anche l'Italia, su cui non vede grandi rischi. Per le società è
invece bene scegliere tra le grandi aziende solide come, per
fare qualche nome, i due gruppi alimentari Nestlé e Danone o la
casa farmaceutica Roche.
E le azioni? Anche molti milionari, come i piccoli
risparmiatori, sono fuggiti in massa da Borse e fondi di
investimento. Ora alcuni ricominciano a guardare ai titoli
quotati perché invogliati dai prezzi di saldo. Il suggerimento
dell'esperto di Banca Syz, in questo caso, è di non lanciarsi a
testa bassa soltanto perché i prezzi sono a buon mercato. «E'
bene essere molto prudenti sulla parte azionaria perché la
visibilità sugli utili è ancora bassa e all'orizzonte potrebbero
esserci altre brutte sorprese e, dunque, altri cali per i
listini». Se proprio si vuole fare acquisti in Borsa allora è
meglio scegliere tra società con una grande capitalizzazione e
con attività in settori non ciclici come Nestlè, Telecom Italia
o magari Eni. «In caso di ulteriori cali di Borsa verrebbero
penalizzate di meno», dice Piacentini che non vede una ripresa
dell'economia reale prima della seconda metà del 2010. «I
mercati potrebbero però anticipare la svolta già verso fine di
quest'anno».
Cosa fanno di diverso i mega milionari? Neanche a dirlo,
rispetto ai piccoli risparmiatori, oggi mostrano un maggiore
interesse per l'oro che di questi tempi è visto come un porto
sicuro. Il metallo prezioso nel portafogli dei più ricchi ci
finisce sotto forma di barre e monete, ma soprattutto attraverso
strumenti d'investimento come gli Etf o i certificati. Non in
grandi quantità perché la quota si ferma intorno a un 5%.
Fonte
- La
Stampa
|
|
Mercoledì
25 Marzo
2009 |
|
Sabato 28 Marzo
2009 |
|
Martedì
31
Marzo
2009 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
WALL STREET: LUCE
VERDE, CONFERMATI I SEGNALI DI INVERSIONE
23 Marzo 2009 15:00 BIELLA
-
di Maurizio Milano ______________________________________________
Sui principali indici Usa gli apprezzamenti rispetto ai minimi
superano gia' +20%. I rialzi continuano ad essere trascinati dal
settore bancario, in merito all’isolamento degli asset tossici.
Il rally raggiunge i primi obiettivi. E dovrebbe proseguire.
*Maurizio Milano e' il responsabile dell'Analisi Tecnica Gruppo
Banca Sella. Questo documento e' stato preparato da Gruppo Banca
Sella ed e' rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali
ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell'art. 31
del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive
modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non
implicano responsabilita' alcuna per Wall Street Italia, che
notoriamente non svolge alcuna attivita' di trading e pubblica
tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere,
a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) – Prosegue il rally dei mercati azionari. I segnali di
inversione a partire dai minimi del 6 marzo sono stati
confermati, e gli indici hanno raggiunto i primi obiettivi di
rimbalzo indicati. Rispetto ai minimi gli apprezzamenti, sui
principali indici Usa, è stato di circa un +20%. I rialzi
continuano ad essere trascinati dal settore bancario, per le
speranze di un piano concreto del governo in merito
all’isolamento degli asset tossici ed al conseguente inizio di
graduale ripristino del circuito del credito.
Dal minimo a 46,72 del 6 marzo (quasi l’89% in meno rispetto ai
picchi a 414,75 del febbraio 2007), lo scorso giovedì l’indice
si è spinto al test di 87, registrando un recupero dell’86%
rispetto ai minimi. La tenuta del supporto a 70 dovrebbe
consentire un veloce allungo in direzione della resistenza
critica a 100, il cui superamento darebbe finalmente un primo
segnale convincente di inizio di stabilizzazione per il settore
bancario. Solo quando avremo questo segnale potremo dire che il
peggio è alle nostre spalle – nel senso che il sistema tiene –,
nella consapevolezza comunque che la crisi economica non ha
ancora toccato il fondo.
Ma siccome le Borse anticipano di diversi mesi le inversioni dei
cicli economici, una stabilizzazione del settore finanziario in
un contesto di economia ancora in deterioramento sarebbe proprio
lo scenario che ci consente di dire che in Borsa abbiamo davvero
toccato il fondo. Una conferma di uno scenario in miglioramento
per l’investimento azionario si avrebbe da un calo della
volatilità implicita. Il Vix dovrebbe ridiscendere al di sotto
di 41 e quindi del supporto critico in area 35-37 – cioè sui
livelli di settembre 2008 precedenti al fallimento di Lehman –
per avere un segnale chiaro e forte che il rally in atto sarà
davvero sostenibile.
Un calo del Vix al di sotto del Vxn sarebbe poi il segnale che
stiamo uscendo dall’emergenza "finanziaria" e che quindi ci sono
spazi davvero ambiziosi di rimbalzo. Un bear market rally,
certamente, perché ipotizzare una ripresa a "V" dei listini è
sicuramente prematuro, ma comunque un rimbalzo di tutto
rispetto: un ritorno sui livelli di fine settembre vorrebbe dire
ancora un +40% dai prezzi correnti per l’S&P500. Per non negare
tale possibilità è necessario che gli indici difendano i
guadagni dell’ultima settimana.
L’S&P500 deve assestarsi al di sopra di 740, con obiettivo la
forte resistenza in area 800/35; il Dow Jones Industrial deve
mantenersi al di sopra di 7100 e dovrebbe salire oltre 7400/550
verso la forte resistenza in area 8000/300; il Nasdaq Composite
dovrebbe mantenersi sopra 1385-1400 e quindi risalire oltre
l’area 1495-1535 verso la forte resistenza in area 1600/50; il
DJEurostoxx50 deve assestarsi sopra 2000 e potrebbe risalire
verso la forte resistenza in area 2200/50; l’S&PMib deve
mantenersi sopra 14000, con possibili salite verso 16000 e
quindi a testare la resistenza a 17300; il Nikkei225 deve
assestarsi sopra 7600/800 e potrebbe risalire a 8350 e quindi
verso 8750/850. Solo il superamento delle resistenze indicate
fornirebbe però un segnale convincente che ci troviamo di fronte
all’inizio di un rimbalzo importante e sostenibile, il primo
dopo il crollo di ottobre-novembre e tante false partenze.
Sul fronte valutario, l’euro/dollaro è fuoriuscito in
accelerazione dalla parte alta della banda laterale tra
1,2330-1,2450 e 1,3000-1,3300 in cui si era mosso negli ultimi 2
mesi. Le quotazioni si sono spinte verso 1,3735, non lontano
dalla resistenza in area 1,4000-1,4170, che dovrebbe contenere
l’apprezzamento dell’euro nelle prossime sedute. La decisione
della Fed di iniziare politiche monetarie espansive non
convenzionali (il cosiddetto quantitative easing, cioè
l’acquisto di titoli governativi a fronte di stampa di
cartamoneta) ha avuto un effetto ovviamente benefico sui corsi
obbligazionari, "rimangiato" però da un deprezzamento del
dollaro, conseguenza "inevitabile" di tale decisione.
Il dollaro si è indebolito anche contro yen, scendendo
velocemente dalla resistenza in area 99,65-100 verso 93,55, per
poi recuperare verso 97. Prevedere l’andamento del dollaro per
le prossime settimane è ora particolarmente difficile, perché
molto dipenderà da come la Fed scaglionerà i propri interventi
(quando e quanto). Sembra comunque da escludere un dollaro in
caduta libera, perché non sarebbe funzionale agli interessi Usa.
Lo scenario più probabile è quindi di un dollaro debole, o al
massimo laterale. Sul comparto obbligazionario, le politiche di
easing della Fed hanno sostenuto il corso del decennale, col
Treasury (decennale Usa, prezzo corrente a ridosso di 124)
balzato da 120 verso 126, all’interno comunque di una banda
laterale con estremi 119 – 127. Sembra prematuro ipotizzare un
prossimo allungo rialzista oltre 126-127, anche se le politiche
Fed dovrebbero comunque sostenerne il corso. Le prese di
beneficio scatterebbero con la rottura del supporto a 121 (poco
probabile).
Meno chiara la dinamica del Bund, visto che la Banca Centrale
Europea non imiterà, se non in ritardo e con minor vigore, la
politica Fed. Il Bund comunque balza da 122 verso 124,70,
all’interno ancora di una banda laterale tra 120 e 125,65. Un
segnale di perdita di spinta si avrebbe su discese al di sotto
di 122,00; il trend rialzista dominante riprenderebbe invece al
superamento dei massimi in area 125,65-126 (prematuro).
Fintantoché le Banche centrali stamperanno banconote per
acquistare titoli obbligazionari governativi e corporate è
chiaro che i tassi di interesse a lunga rimarranno schiacciati,
e di conseguenza i corsi dei titoli rimarranno elevati:
l’impressione che si stia formando una bolla, tuttavia, rimane.
Sul fronte petrolio/commodities, è probabile che la fase di
stabilizzazione/moderata positività in essere da fine dicembre –
che interrompe una forte discesa iniziata dai picchi di metà
luglio 2008 – prosegua anche per le prossime settimane.
Apprezzamenti marcati del petrolio (il crude quota a ridosso di
52 $/barile) e delle altre materie prime (l’indice CRB quota a
ridosso di 226) scatterebbero solo nel caso inizi un buon
rimbalzo dell’azionario.
Il forte rialzo dell’oro, sostenuto dal clima di generale
incertezza, ha portato al test dei massimi del marzo 2008 a
ridosso dell’area 1000-1033, per poi ripiegare verso 884 e
quindi rimbalzare verso 952/67. Discese sotto 884-900
segnalerebbero una diminuzione delle tensioni, con possibili
correzioni verso 845: solo un assestamento al di sotto di tale
supporto (prematuro) fornirebbe però un segnale distensivo
affidabile. Nuove tensioni al di sopra di quota 1000 (poco
probabile).
Fonte
- Gruppo
Banca Sella
Lo Zio Tim ha fatto
il miracolo?
Tuesday, 24 March, 2009 at 14:38
-
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Le performance di Tim Geithner comincia a somigliare a quella di
Ben Bernanke: il mercato s’impenna per un certo periodo e poi
torna all’abituale depressione. Il periodo di rally si riduce
sempre più ad ogni nuova ”soluzione ” annunciata, sino
all’apatia. Questa volta però la piega degli eventi è lievemente
sinistra.
Il nuovo stratagemma elaborato dal Segretario al Tesoro Usa
mostra tutti i sintomi classici del buco nell’acqua à la
Bernanke: l’indice sul credito sta ritornando rapidamente verso
i livelli di chiusura precedenti all’annuncio e nemmeno
l’azionario sembra passarsela troppo bene. Il piano comincia
sempre più a non sembrare né nuovo, né particolarmente
risolutivo; i dettagli trapelati lo rendono simile ad un
incrocio fra la mai abbastanza vituperata MLEC e la vecchia
struttura di Fannie e Freddie: perdite pubbliche, profitti
privati.
L’unica novità è che l’azzardo morale sembra essere ancora più
pronunciato che nelle proposte precedenti, visto che include un
paio di scorciatoie per svalutare i titoli “tossici”, adesso
ribattezzati “legacy loans” , facendo pagare il costo di tali
svalutazioni al contribuente senza dare assolutamente nulla in
cambio. il piano Geithner permette infatti di godere di prestiti
di fatto a fondo perduto, con cui comprare asset tossici, pardon,
legacy, dalle banche che li detengono a prezzi di carico ben
superiori a quelli di mercato; tali prestiti sarebbero da
ripagare esclusivamente con gli introiti delle attività
acquistate e con gli eventuali incassi in seguito ad una vendita
sul mercato. Nel caso non fossero profittevoli, le perdite
andrebbero essenzialmente ad intaccare il pochissimo capitale
versato nell’avvenutra dai fondi coinviolti, e per il resto si
scaricherebbero sul Tesoro.
La Voce del Padrone
sui mercati
Wednesday, 25 March, 2009 at 9:04
-
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Se qualcuno si volesse chiedere perché i mercati americani sono
scesi tanto brutalmente dopo il salto all’insù di ieri, la
risposta è semplice: interferenza, pardon, intervento
governativo. Ricordiamoci che la politica può dare come è
prendere - e ala lunga, prende più di quanto concede.
Il motivo del gran balzo di ieri è ormai conosciuto : il
regalino fatto ad alcuni privilegiati investitori da parte del
ministero del Tesoro americano. Il motivo del crollo di ieri è
invece legato alle prospettive di introduzione di legislazione
repressiva nei confronti delle compagnie petrolifere e
dell’imposizione di una carbon tax a livelli considerati
punitivi.
La differenza è che l’effetto positivo è durato soltanto qualche
ora, mentre la mazzata regolamentare e fiscale sul settore
energetico rischia di essere duratura ed affossare uno dei pochi
settori che ha retto alla crisi.
Fonte
-
Macromonitor
|
Obama
comincia a deludere, sarà un fiasco il piano salva-banche
24 Marzo 2009 15:20 LUGANO - di
Alfonso Tuor
________________________________________
«Sarà un fiasco» il nuovo piano salvabanche presentato ieri
dal ministero del Tesoro americano e «se questo piano fallirà, come
succederà senza alcun dubbio, Obama si giocherà gran parte della sua
credibilità». Questo giudizio a caldo di Paul Krugman, premio Nobel
per l’economia, è totalmente condivisibile.
Il Programma di investimento pubblico-privato, che a regime dovrebbe
raggiungere i 1000 miliardi di dollari, prevede due piani di azione:
uno per l’acquisto di prestiti in sofferenza e l’altro per
l’acquisto di titoli tossici detenuti dalle banche. Come tutti
ricordano, anche l’amministrazione Bush aveva tentato di seguire
questa strada, ma si era dovuta arrendere di fronte alla difficoltà
apparentemente insormontabile di stabilire il prezzo di acquisto di
titoli che non hanno mercato.
La valutazione del prezzo di questi titoli da parte dello Stato
avrebbe creato un secondo problema: se acquistati al valore dato da
alcuni indici di mercato, le banche non li avrebbero venduti, poiché
avrebbero dovuto immediatamente contabilizzare una perdita dovuta
alla differenza tra il prezzo in cui sono tenuti a bilancio e il
prezzo di vendita. La differenza – si riteneva – sarebbe stata di
dimensioni tali da far emergere chiaramente lo stato di insolvenza
del sistema bancario e da imporre una sua ampia e immediata
ricapitalizzazione. Se il prezzo fosse stato elevato, si sarebbe
trattato di un sussidio mascherato al settore bancario. Di fronte a
tali difficoltà l’amministrazione Bush accantonò il progetto e usò
parte dei 700 miliardi di dollari del Tarp per ricapitalizzare le
banche.
Ora l’amministrazione Obama cerca di rilanciare l’idea sposando la
tesi di Wall Street, secondo cui il valore di questi titoli è
superiore a quello che gli attribuisce oggi il mercato, e attraverso
la patrnership tra pubblico e privato cerca di mascherare il dato di
fatto che sta sovvenzionando il sistema bancario. Infatti la
partnership pubblico-privato funziona in modo tale che se il prezzo
di queste attività sale, guadagnano gli investitori privati; se
invece scende saranno i contribuenti a sopportare le perdite. Si può
dire che si tratta di un ulteriore passo nella politica di
trasferimento allo Stato e quindi all’intera collettività
dell’enorme buco nero che si nasconde nei bilanci delle banche.
Il meccanismo di funzionamento del piano è talmente macchinoso da
ritenere probabile che farà la fine del Tarp voluto da Bush e
Paulson, ossia non riuscirà a decollare. Ma anche se riuscirà a
partire è destinato a non raggiungere i due scopi per cui è stato
pensato. Il meccanismo di formazione del prezzo dei titoli tossici è
talmente distorto che non riuscirà a creare un prezzo di mercato
credibile. Eppure questo era l’obiettivo dell’amministrazione Bush e
dovrebbe essere anche quello di Obama. In secondo luogo, anche se il
piano avesse successo, estrarre 1’000 miliardi di dollari di titoli
tossici e di prestiti in sofferenza dai bilanci delle banche
americane produrebbe un risultato simile a quello di un bambino che
si propone di prosciugare il mare con un cucchiaio.
Con questa mossa il nuovo presidente americano rischia di giocarsi,
come sostiene Paul Krugman, la sua credibilità politica. Anche Obama,
come Bush prima di lui e come i governi dei Paesi europei, sembra
non riuscire, o meglio non avere il coraggio politico, di affrontare
di petto la questione di un sistema finanziario che è in stato
fallimentare. Quindi permette che il buco nero nascosto nelle pieghe
dei bilanci bancari continui a risucchiare migliaia di miliardi di
soldi buoni, che sarebbero invece estremamente utili per rilanciare
l’economia. Questo piano non è infatti destinato a produrre alcun
effetto benefico sull’economia americana, che si sta contraendo
rapidamente e che sta creando ogni mese 600’000 disoccupati in più.
Secondo alcuni, Obama ha voluto compiere un ultimo tentativo di
salvare il sistema bancario ed è pronto a cambiare strategia se non
vi saranno risultati entro la fine dell’anno. Il tempo dirà se
quest’ipotesi ha qualche fondamento. Sta di fatto che oggi Obama si
è invece piegato ai voleri di Wall Street. La decisione di Obama
delude anche perché la forte indignazione della popolazione
americana per la distribuzione di oltre 200 milioni di dollari di
bonus ai responsabili della bancarotta dell’American Insurance
Group, salvato dallo Stato con l’esborso di 160 miliardi di dollari,
creava le premesse politiche per l’adozione di quelle misure
drastiche indispensabili per sciogliere il nodo gordiano della crisi
delle banche.
Se la nuova amministrazione americana continuerà su questa strada
non solo l’uscita dalla recessione sarà sempre più lontana, ma alla
crisi economica si affiancherà una crisi politica ed etica dalle
dimensioni imprevedibili. Infatti, pure i cittadini americani sono
sempre più insofferenti di fronte ai dirigenti di Wall Street che
pretendono di continuare ad incassare bonus milionari dopo che i
loro istituti sono stati salvati dalla bancarotta grazie ai soldi
dei contribuenti. Anche sull’affermazione di questi principi
elementari Obama sta cominciando a deludere.
|
Fonte
- Corriere del Ticino
|
|