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Il referendum su King George
7 Novembre 2006
Washington - di Vittorio Zucconi
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Insegna un comandamento della democrazia
americana che la politica è sempre e soltanto politica locale e dunque anche il
contrario è vero: tutto ciò che è locale può essere letto in chiave nazionale,
come infatti avverrà questa sera quando i primi risultati cominceranno a
sgocciolare dai 50 stati della repubblica americana.
I non moltissimi americani che oggi si prenderanno la pena di andare ai seggi
(la media storica di affluenza alle elezioni legislative negli Usa non supera il
39%) sanno che il loro voto, non importa se sia per il ragioniere capo di una
contea del Wyoming o per il governatore di un grande stato, sarà letto come
l´ultimo hurrah, o come la bocciatura definitiva per un uomo che neppure
partecipa al voto, per George W. Bush.
Ogni consultazione elettorale midterm, cioè a metà di un quadriennio
presidenziale, può sempre essere letta come un referendum sul capo della nazione
in carica, come in Italia si tentano di leggere elezioni comunali o provinciali
in chiave nazionale, e questo fanno naturalmente i vincitori. Se, nonostante la
scontata rimonta finale dei repubblicani nei sondaggi, l´opposizione democratica
dovesse conquistare la Camera e, cosa assai meno probabile, anche il Senato,
sentiremo i "bushisti" minimizzare e spiegarci che si trattava di elezioni
condizionate dalle personalità dei singoli candidati e gli "anti bushisti"
gridare invece alla rivolta popolare contro il piccolo "King George".
Ma in questo novembre del 2006, la presenza dell´uomo che ha rilegittimato la
guerra come scelta discrezionale, vivendone poi la scontata catastrofe, è stata
troppo massiccia e invasiva perchè lui stesso non abbia accettato di
trasformarla in un ‘giudizio di Dio´ sulla propria presidenza. Per
settimane, mentre i sondaggi indicavano un tracollo dei suoi repubblicani, Bush
aveva ostentato indifferente ottimismo e respinto gli inviti a gettarsi nella
mischia. Alla fine, tolta la giacca e rivestita la camicia sbottonata che è la
sua uniforme da comizio, è tornato on the road per ripetere gli appelli, gli
slogan, le formule che gli avevano fatto vincere la presidenza nel 2004.
Colui che era già oggettivamente il
bersaglio delle elezioni, ha voluto diventarlo anche soggettivamente, mettendo
la propria faccia accanto a quei non molti candidati repubblicani che non lo
consideravano radioattivo. Così sigillando la certezza che sarà lui, e
non un assessore alla viabilità o un giudice di pace in paese, a perdere, se i
suoi perdessero. Un atto di coraggio, o di disperazione, che ha ancora un volta
dimostrato quanto abile sia Bush come campaigner, come propagandista, in
proporzione purtroppo inversa alla sua abilità come statista. Probabilmente
perchè la sua strategia del «dividere per conquistare» serve a vincere le
elezioni, ma non governare.
Un gesto, tuttavia, inevitabile, perchè tutti i candidati avevano fatto della
sua presidenza il bastone al quale appoggiarsi o, nel caso dei repubblicani,
l´elefante in salotto che si finge di non vedere. Proposte, idee, slogan di
destra, sinistra o centro hanno, in questa stagione elettorale, ceduto il campo
a una formula assai più semplice: non votate per Mister X, perchè è dalla parte
di Bush.
L´asse della politica americana non si è spostato secondo oscillazioni
ideologiche, si è allontanato dal Presidente. Se poi questa scelta di essere
contro, come tutti i democratici e molti moderati hanno fatto, o di fingere di
non averlo mai conosciuto, come tanti repubblicani trasformati nel Pietro
spaventato del Vangelo, pagherà, lo sapremo nella notte.
Ciò che deciderà, mentre i professionisti torneranno a spiegarci sussiegosamente
perchè ancora una volta abbiano sbagliato le loro previsioni, saranno quattro
fattori pratici, concreti, lontani dagli arzigogoli e dalle apologie.
1) In quanti andranno a votare, perchè la scarsa affluenza sarebbe il segnale
che la formidabile macchina elettorale repubblicana avrà girato a vuoto e dunque
vinceranno gli altri.
2) Quanti voti saranno realmente contati e quanti saranno stati soppressi,
stravolti o semplicemente inghiotti da quel «buco nero» del sistemi di voto, dei
brogli high tech e dei computer che stanno angosciando coloro che sentono, come
Thomas Friedman sul New York Times, il lezzo di ciò che avvertimmo nella Florida
del 2000, il sentore da repubblica delle banane e dei brogli.
3) Quanti elettori indipendenti, cioè non registrati nè come repubblicani nè
come democratici, andranno a votare, perchè i non iscritti, che nettamente
favoriscono l´opposizione e avversano Bush, sono anche coloro che poi meno «si
turano il naso» e vanno alle urne. I sondaggi tendono sempre a sopravvalutare
l´opinione degli indipendenti che poi non si traduce in voti.
4) Quali delle insolenze, delle accuse false, della campagne denigratorie, delle
accuse più infamanti scagliate da spot elettorali costati in questa stagione
circa 3 miliardi di dollari, un record assoluto, saranno stati più efficaci.
E avranno ridimostrato che mentre i bravi cittadini untuosamente si dichiarano
disgustati dalle propaganda in negativo e auspicano proposte concrete e
dibattiti seri, si fanno poi puntualmente e pavlovianamente condizionare dalle
accuse più infamanti. La propaganda "negativa" costruita sul gossip funziona,
esattamente come la maldicenza funziona sempre meglio di un elogio.
Ci sarà quindi più tecnologia che ideologia, più malumore che buona volontà in
questa elezione straordinariamente importante perchè sarà l´ultima dell´era Bush.
Ma soprattutto perché potrebbe riportare l´America a quello che i suoi fondatori
tentarono di costruire con la Costituzione e che ha permesso la sopravvivenza
della democrazia sostanziale per due secoli: un governo equilibrato e diviso tra
i suoi poteri, capace di fare ciò che ogni buon medico giura di fare. Prima di
tutto, non nuocere al paziente.
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Fonte - La Repubblica |
WALL STREET:
LEGGERA FLESSIONE PER IL
RIBALTONE POLITICO 8 Novembre 2006 -
NEW
YORK ______________________________________________
Apertura in calo per gli
indici americani sulla scia delle elezioni di meta’ mandato, che
hanno visto i democratici aggiudicarsi abbastanza seggi da prendere
il controllo della Camera. Il Dow Jones (INDU) cede lo 0.27% a
12124, l'S&P500 lo 0.30% a 1378, il Nasdaq e' in ribasso dello 0.42%
a 2366.
Seppur il risultato era ampiamente atteso, gli analisti giudicano il
cambio della leadership in un’ottica negativa per l’azionario in
quanto tendera’ a produrre un ambiente ostile per i business. Il
controllo del Senato resta ancora incerto, mentre si attendono i
risultati decisivi degli Stati del Montana e della Virginia.
La vittoria dei democratici avra’ di certo ramificazioni nel settore
farmaceutico, in quello energetico e possibilmente anche
nell’industria della difesa.
In mattinata il petrolio ha recuperato parte del terreno ceduto
nelle passate sessioni, non a sufficienza, comunque, per
riconquistare la soglia dei $60. Nei primi minuti di contrattazione,
i futures con scadenza dicembre segnano un progresso di 25 centesimi
a $59.18 al barile. Alle 16:30 ora italiana verranno comunicati i
dati sulle scorte.
Sul fronte degli utili, sono
attesi i risultati del colosso delle infrastrutture network Cisco
Systems (CSCO) e di Cablevision (CVC). Federated Department Stores
(FD) e’ in ribasso a causa della deludente trimestrale, attestatasi
a livelli infeiori al consensus. A soffrire e’ anche UTStarcom (UTSI),
azienda produttrice di dispositivi per la comunicazione wireless,
per aver posticipato la presentazione del rapporto trimestrale a
causa di una revisione sulle pratiche relative alle stock option.
Sorride invece la societa’ della radio satellitare Sirius Satellite
Radio (SIRI), che ha riportato una perdita piu’ contenuta di quella
prevista dagli analisti
Sugli altri mercati, sul valutario, poco variato l’euro nei
confronti del dollaro a 1.2753. L’oro arretra di $2.70 a $625.00
l’oncia. In calo i titoli di Stato. Il rendimento sul Treasury a 10
anni e’ salito al 4.6210%.
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Fonte - ANSA |
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Gli sceicchi ci ricattano, ecco
perchè
12 Novembre 2006 Milano - di Renato
Brunetta
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La quarta guerra mondiale sarà
sull'energia. Senza arrivare agli eccessi del film Mad Max, dove l'ordine
sociale è devastato dalla fine dell'era del petrolio, il futuro del mondo si
gioca sulle sempre più scarse risorse energetiche. È comprensibile, dunque, che
mezza Europa sia stata presa dal panico dopo il blackout della scorsa settimana.
L'elettricità alimenta i nostri frigoriferi, i boiler dell'acqua calda, i
telefoni, perfino qualche mezzo di trasporto. Ma la luce delle nostre case che
viene a mancare per qualche ora, a causa di un incidente tecnico di
interconnessione della rete elettrica europea, non è il problema. Come nelle
case di tutti noi, dove un cortocircuito fa scattare il salvavita, così nelle
reti transnazionali, nel caso di un incidente tecnico, il transito viene
interrotto giusto il tempo di riparare il guasto o di trasferire l'elettricità
su altre linee.
Lo sviluppo della tecnologia è destinato a ridurre l'incidenza di questi
incidenti. E, in fondo, anche un piccolo blackout può avere effetti benefici: la
leggenda vuole che, durante quello di New York del 1965, gli americani privati
del televisore si siano dedicati a più gratificanti attività da cui derivò un
minibabyboom.
LA
SCARSITA' DI RISORSE Il vero
problema per il futuro del mondo è legato alla scarsità delle risorse
energetiche nel medio-lungo termine. L'energia, infatti, non è un prodotto come
tutti gli altri.
Semmai è superprodotto: da un lato è un bene di consumo finale che serve a
ciascuno di noi per viaggiare, scaldarsi, cucinare, lavarsi, divertirsi o,
semplicemente, poter vedere di sera e di notte; dall'altro è un input di
produzione indispensabile, che entra a tutti i livelli nella filiera produttiva
dei beni intermedi e di consumo. Questo sito non potrebbe essere online senza
energia. Il computer su cui è stato redatto questo articolo non funzionerebbe
senza elettricità. Ma anche i pomodori non potrebbero arrivare sulle nostre
tavole, se non ci fossero la corrente per alimentare le pompe che irrigano i
campi, il gasolio per far camminare i camion e il gas per scaldare il soffritto
del nostro sugo.
Insomma, a meno di non voler tornare all'era del fuoco e della meccanica umana,
l'energia è fondamentale per tutti gli aspetti della vita di oggi. E ci
condiziona non solo in termini di produzione e consumo: l'energia incide anche
sulla nostra ricchezza. Più sale il prezzo del petrolio, più cara sarà la
bolletta del gas, ma soprattutto diventeranno più costosi questo giornale, i
pomodori da sugo e qualsiasi altro bene per la cui produzione occorre un minimo
di energia.
100
MILIONI DI BARILI AL GIORNO
Quali sono gli scenari energetici
futuri? L'outlook mondiale 2006 dell'Agenzia Internazionale per l'Energia rivela
che, sulla base delle tendenze attuali, il futuro dell'energia è sporco,
insicuro e costoso. Senza svolte politiche sostanziali per cambiare le tendenze
in atto nel settore energetico, la domanda globale dell'energia primaria
aumenterà del 53% tra oggi e il 2030. Più del 70% dell'aumento della
domanda viene dai paesi in via di sviluppo - Cina e India in testa - e sarà a
discapito del mondo sviluppato, Europa e Stati Uniti. Le importazioni di
petrolio e di gas nei paesi Occidentali e in Asia incrementano anche più
velocemente della domanda. La richiesta mondiale di petrolio dovrebbe
raggiungere i 116 milioni di barili al giorno nel 2030, rispetto agli attuali 84
milioni. Da questi pochi dati si comprende che la realtà del mercato
dell'energia sta cambiando sensibilmente e la velocità del cambiamento è sempre
più accelerata. I prezzi del petrolio - e del gas, il cui corso è direttamente
legato a quello del greggio - nel 2006 sono stati di almeno 3-4 volte più alti
che nel 2002. In questo contesto, l'Europa - e ancor più l'Italia - è in una
posizione di estrema debolezza.
Il Vecchio continente, infatti, non è
produttore (se non per una parte limitata), non ha fornitori affidabili e la sua
domanda di energia è in costante aumento. In una situazione così squilibrata del
mercato energetico, è l'offerta che fa il bello e cattivo tempo: paesi
prevalentemente instabili e inattendibili - Russia, Iran, Arabia Saudita, Sudan,
Nigeria, Angola, Venezuela, per citarne solo alcuni - determinano la quantità
offerta e il prezzo. Il meccanismo di funzionamento è semplice e economicamente
perverso: anziché far agire la concorrenza - prezzi al ribasso e produzione in
aumento - vige il regno dell'oligopolio o addirittura del monopolio. L'Opec -
l'organizzazione dei produttori di petrolio - stabilisce la quantità prodotta e,
di conseguenza, il prezzo sui vari mercati. Quei pochi paesi che ne sono fuori -
come la Russia - corrono da free rider incassando enormi profitti.
Quel che è peggio, i produttori hanno anche una fortissima leva politica
bidirezionale: da un lato, giocano con le crisi internazionali per condizionare
il prezzo dell'energia; dall'altro, usano la scarsità delle risorse come
strumento per ricattare l'Occidente. Bastino due esempi: l'Iran che, con
l'intimidazione nucleare, fa esplodere il prezzo del petrolio e si garantisce la
sopravvivenza economica anche in caso di sanzioni; e la Russia che, con la
minaccia della chiusura dei rubinetti del gas verso l'Europa, mette a tacere
qualsiasi critica sulle violazioni dei diritti umani e sulla destabilizzazione
imperialiste nei paesi ai suoi confini.
In altre parole, chi offre energia detiene il potere non solo sul mercato
energetico, ma anche sul mercato mondiale della geopolitica. L'Europa ha cercato
di rispondere a questa drammatica situazione (bontà sua...) con un "Libro verde"
sull'energia pubblicato nel marzo scorso. La Commissione europea ha invitato gli
Stati membri a fare di tutto per arrivare a una politica energetica europea
articolata su tre obiettivi principali: la sostenibilità (lottare attivamente
contro il cambiamento climatico, promuovendo le fonti di energia rinnovabili e
l'efficienza energetica), la competitività (migliorare l'efficacia della rete
europea tramite la realizzazione del mercato interno dell'energia) e la
sicurezza dell'approvvigionamento (coordinare meglio la domanda di
energia della Ue nel contesto internazionale). Una volta tradotto questo lungo
documento dall'eurocratese, due sono i messaggi che escono: occorre più energia
"pulita" ed è indispensabile una "politica estera dell'energia".
L'ALTERNATIVA È L'ATOMO
Su questi due punti, da marzo a oggi,
non si sono fatti passi avanti. L'energia è un settore strategico per eccellenza
e gli Stati membri non vogliono cedere la loro sovranità. Ma il rischio di una
quarta guerra mondiale deve portarli a cambiare idea e in fretta. Sull'energia
"pulita" non ci sono molte alternative: secondo l'Agenzia Internazionale per
l'Energia, l'energia nucleare può essere più economica e più ecologica del
carbone, del gas e del petrolio. Il nucleare il governo di Romano Prodi
lo sa bene, ma fa irresponsabilmente finta di nulla - è la garanzia per ridurre
la dipendenza dal gas importato e contemporaneamente limitare le emissioni di
Co2. Occorre immediatamente investire su questo, anche con una forte spinta
dell'Unione europea.
UN UNICO
COMPRATORE
Quanto alla "politica estera
dell'energia", il dialogo unico con i partner energetici è fondamentale per
garantire la sostenibilità, la competitività e la sicurezza degli
approvvigionamenti. L'Europa, oggi, è in posizione di subordinazione e
debolezza: troppo divisa, l'Ue subisce il ricatto di paesi come la Russia e
l'Algeria che si coalizzano per rafforzare la loro posizione dominante.
Troppo egoisti, gli Stati membri dell'Ue - e l'Italia di Romano Prodi che vola a
Mosca con il cappello in mano ne è un esempio - cercano di fare accordi solitari
con la Russia, salvo rimetterci perché le condizioni sono penalizzanti o perché
Mosca preferisce altri.
Ecco perché occorre, non solo parlare, ma anche agire come "un sol uomo": è
necessario che l'Europa divenga "compratore unico" di energia, perché solo il
monopsonista è in grado di "personalizzare" le relazioni contrattuali con i
fornitori in funzione delle proprie esigenze. Questa particolare qualità di
"grosso compratore" permette, dal lato della domanda, di diminuire i rischi
dovuti all'inadempienza dell'offerta oligopolistica e alle condizioni imposte da
questa. Il monopsonista, inoltre, può sfruttare la sua posizione di unico
acquirente di fronte ad una pluralità di potenziali venditori, e quindi ottenere
migliori condizioni sul mercato. La forza contrattuale con la quale l'Europa
monopsonista si porrebbe sul mercato energetico le consentirebbe di stabilire -
o meglio imporre - le variabili in gioco: prezzo, quantità e qualità. Senza
dimenticare la politica.
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Fonte - Libero |
Il declino del potere USA
26 Novembre 2006 New York - di Anthony
Giddens
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Per coloro che volevano vedere il potere degli Stati Uniti ridursi nel mondo -
ebbene, il desiderio si è avverato. Le cose possono cambiare davvero
velocemente. Solo qualche anno fa, il dibattito era tutto imperniato attorno al
nuovo impero americano.
C´era chi seriamente vedeva gli Stati
Uniti come una Nuova Roma, come un sistema di influenza che si estendeva in
tutto il mondo, senza rivali in vista. Molto tempo è stato dedicato a
tentare di individuare un modo per dare forma a un mondo più multipolare da
parte di chi temeva l´ampiezza della dominazione americana nel periodo post
Guerra fredda.
L´idea di una Nuova Roma è stata sempre un´esagerazione. Ma l´influenza degli
Stati Uniti è stata minata anche dalla politica di un regime convinto che
l´America potesse e dovesse perseguire i propri interessi in maniera più o meno
indipendente dal resto del mondo. La debacle repubblicana alle ultime elezioni
per il Congresso è l´ultimo elemento che porta a scartare questa idea.
Gli eventi in Iraq e in Afghanistan hanno evidenziato con grande chiarezza i
limiti del potere militare americano. Le iniziali vittorie militari hanno
colpito anche per la loro rapidità. Ma in nessuno di questi casi gli Stati Uniti
hanno dimostrato di essere in grado di creare stabilità politica e sociale,
per non menzionare neppure le riforme durature. L´Iraq da solo si è mangiato la
maggior parte delle risorse militari statunitensi disponibili.
Ora ci rendiamo conto che gli Stati Uniti possono combattere solo una guerra
difficile per volta, se hanno in corso altrove operazioni che possono essere di
ostacolo. E ciò dovrebbe bastare quanto all´argomento Nuova Roma. Persino
l´impero romano originale sapeva fare di meglio.
Gli Stati Uniti hanno sperperato una parte consistente dei buoni rapporti che
avevano con il resto del mondo e del loro esteso potere culturale. Nei sondaggi
in diverse parti del mondo, il prestigio di questa Nazione è sceso al punto più
basso in molti decenni. Gli Stati Uniti sono stati l´attore principale nel Medio
Oriente, ma non è fuori luogo dubitare che tale status si protragga nel futuro.
La barzelletta che circola a Washington è: «La guerra in Iraq è finita e l´Iran
ha vinto». Il ritiro americano (e britannico) dall´Iraq, quando avverrà,
rappresenterà una sconfitta, qualunque sia la veste che gli si vorrà dare.
Le cose per gli Stati Uniti sembrano
andare meglio dal punto di vista economico. Restano una società molto dinamica,
capace di adeguarsi al cambiamento. Tuttavia, all´orizzonte potrebbero
essere in agguato problemi non di poco conto. Quando Bill Clinton lasciò la
presidenza, il bilancio del Paese era in equilibrio. Ora si ritrova con un
debito estero massiccio. Le disuguaglianze sono cresciute durante gli anni di
Bush, come risultato diretto delle politiche di questo governo: benefici fiscali
per i ricchi e tagli ai programmi sociali.
Quali conseguenze avrà un´America indebolita per il resto del mondo? Sarebbe
confortante pensare che ciò possa condurre a un rafforzamento della regola
internazionale e del multilateralismo. Gli Stati Uniti saranno probabilmente
costretti ad appoggiarsi di più ad altre nazioni o organismi
internazionali e, se fosse eletto un presidente democratico, è pensabile che lui
o lei torni a una politica internazionale del Paese orientata come quella
precedente all´amministrazione Bush.
Questo potrebbe in parte verificarsi, ma
vi è uno scenario incombente molto più preoccupante. Come risultato delle
politiche di Bush, in parte, ma anche a causa di altre forze che agiscono nella
società mondiale, l´ordine internazionale è in crisi. L´autorità delle Nazioni
Unite è scesa come mai in tanti anni - e si tratta di un´istituzione non facile
da riformare. Nessuno è in grado
di giustificare, ad esempio, l´attuale composizione del Consiglio di sicurezza
dell´Onu, che riflette il mondo com´era nel 1945, invece di quello odierno. Le
riforme di una certa portata sono tuttavia ostacolate ogni volta dalla diversità
dei singoli interessi nazionali in gioco.
Ma più preoccupante di tutto ciò è il
fatto che due ordini di pericoli che ci troviamo di fronte sono sul punto
sfuggire a ogni controllo: la proliferazione nucleare e il cambiamento
climatico. La Corea del Nord è in possesso di una rudimentale arma nucleare e
sta testando i sistemi di lancio. L´Iran sarà in grado di produrre armi nucleari
in pochi anni e sembra non esserci niente che la comunità internazionale possa
fare per impedirlo.
È probabile che altri paesi del Medio Oriente li seguano e tra questi
occorrerebbe includere l´Egitto, la Siria e l´Arabia Saudita. In Asia ci sono
tre grandi potenze nucleari, che diventano quattro se s´include la Russia. Lo
sarebbe pure il Giappone, se decidesse di esercitare le sue capacità. Se gli
eventi del mondo procederanno lungo l´attuale corso, è solo questione di tempo.
Nemmeno il più agguerrito fautore della politica del deterrente nucleare
potrebbe sostenere che questi sviluppi rendano il mondo più sicuro.
Molti esperti dicono che abbiamo solo
una finestra di dieci anni circa prima che il processo del surriscaldamento
globale sia irreversibile nel breve termine. Anche in questo caso, è possibile
che un nuovo governo statunitense abbia un atteggiamento più positivo del
governo Bush. Ma sarà comunque molto difficile invertire i modelli dello stile
di vita americano radicati in profondità, che fanno degli Stati Uniti il paese
che più inquina al mondo in rapporto ai suoi abitanti. Allo stesso tempo,
nel protocollo di Kyoto non rientrano né la Cina né l´India. Toccherà a tutti
prepararci all´impatto del cambiamento climatico, invece di tentare di
minimizzare il suo avanzamento.
Attenzione quando si avvera quello che si voleva. Non credo che il mondo sarà
più sicuro o più ordinato senza la leadership americana. La Ue non è certamente
pronta per indossare le scarpe degli Stati Uniti come polizia del mondo. Come
faremo quindi? I prossimi anni si presentano come un periodo molto difficile e
incerto per il mondo, qualunque cosa succeda ancora. Dobbiamo augurarci tutti
che la prossima presidenza degli Stati Uniti sia in grado di riparare alcuni dei
danni fatti da quella precedente. Ma come arriveremo a una maggiore cooperazione
tra le altre principali potenze, quando non si è in grado di raggiungere neppure
un limitato accordo all´interno della Wto? Non vedo risposte certe.
|
Traduzione di Guiomar Parada |
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Fonte - La Repubblica |
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Gli Stati Uniti continuano a correre
5 Novembre 2006 Milano - di Giuseppe Turani
________________________________________
L´Italia del 2007 dipenderà, certo,
dalla Finanziaria e dal comportamento dei vari soggetti. Ma in buona misura la
cornice del quadro dentro il quale il nostro paese dovrà muoversi verrà
determinata dalla congiuntura internazionale. E questo significa che in buona
parte dipenderà dall´America e dalla Germania.
Di quest´ultima si dice sempre che nel 2007 dovrà rallentare la sua crescita (e
oggi non si trova nessuno disposto a sostenere il contrario) per la semplice
ragione che ha già deciso di aumentare l´Iva (per ragioni di bilancio) e questo
dovrebbe far cadere i consumi interni, frenando l´aumento del Pil.
Qualche eretico, però, sostiene che questa è una storia tutta da vedere e da
vivere. In questi ultimi mesi la Germania ci ha sempre sorpreso, e in bene. Il
paese non è più quello di tre-quattro anni fa. Si è molto ristrutturato ed è
diventato maledettamente competitivo. Quindi non è affatto detto che l´anno
prossimo rallenti. Si vedrà. Diciamo che è un punto interrogativo per quanto
riguarda il nostro futuro (la Germania è il nostro più ricco cliente).
L´America, invece, si presenta con un profilo francamente indecifrabile. Fino a
quindici giorni fa tutti erano pronti a giurare che negli Stati Uniti la grande
frenata era già cominciata e che, semmai, c´era da controllare che non finisse
in un crash improvviso. Colti dibattiti hanno animato i giornali per decidere se
l´America era avviata verso un soft-landing, cioè un atterraggio morbido, o
verso un crash-landing.
Ebbene, gli ultimi dati sull´occupazione sembrano indicare una terza via.
Stretta fra la necessità di fare un soft-landing e il pericolo di un
crash-landing, l´America avrebbe scelto di non atterrare affatto e di continuare
a volare. E questo nonostante i 17 aumenti consecutivi del tasso di interesse
messi a segno negli ultimi mesi dalla Federal Reserve, e da cui ci si attendeva
appunto l´inizio di un buon soft-landing.
Al punto che oggi l´America fa venire in mente la vecchia barzelletta del nonno.
Che poi è questa. Un tale incontra un amico con la faccia scura e gli chiede
cosa sia accaduto. Questi risponde: «Il nonno è caduto dal terzo piano». «Ma
com´è successo?». «Era sul balcone ed ha perso l´equilibrio, però è rimasto
impigliato con la giacca nel balcone sotto». «Ma allora si è salvato!» «La
giacca si è rotta ed ha continuato a cadere, ma è finito sul tendone della
pizzeria sotto casa. Poi è rimbalzato ed è finito su un lampione, ma ha perso la
presa ed è finito su un camion che passava, ma è rimbalzato ancora...» «Ma
insomma alla fine si è salvato?» «No, ci siamo stufati e l´abbiamo tirato giù a
fucilate, se no non era più finita».
Ecco, credo che la Federal Reserve prima o poi tirerà giù il nonno, cioè
l´economia americana, a fucilate. I suoi sforzi, infatti, finora sembrano essere
serviti a ben poco. Anzi, forse sono serviti solo a creare negli Stati Uniti una
sorta di sviluppo squilibrato. Nel senso che i continui e sistematici aumenti
del costo del denaro sono serviti a sgonfiare la bolla immobiliare (e questo va
bene) e far rallentare un po´ la congiuntura, ma tutto il resto continua a
correre e qui e là si stanno manifestando tensioni inflazionistiche.
Questo sospetto viene osservando i dati sull´occupazione nel mese di ottobre.
Intanto, si prende nota del fatto che la disoccupazione è ai minimi dal 2001 a
oggi e questo, per un´economia in forte frenata, o addirittura sull´orlo di un
crash come volevano certi analisti, è abbastanza singolare. Ma poi basta
scomporre i numeri sull´occupazione per vedere che c´è davvero qualche problema.
I nuovi addetti, le nuove buste paga, sono state, in ottobre, 92mila e questo
contro un´attesa di 128mila. Un dato basso, quindi, deludente.
Ma questa è solo una parte della verità. I 92mila nuovi posti di lavoro
risultano dopo aver conteggiato i 39mila posti di lavoro persi nell´industria
manifatturiera e i 26mila nelle costruzioni (e ciò a causa della bolla
immobiliare sgonfiata). Il resto dell´economia (cioè il comparto servizi) ha
quindi creato in un solo mese quasi 160mila nuovi posti di lavoro.
In pratica, abbiamo un´America che viaggia a due velocità. Il settore
immobiliare sta facendo marcia indietro, l´industria ristagna e questo sul
totale ci consegna un´economia in rallentamento. Invece nel suo comparto più
moderno, più vivace, quello dei servizi, l´America continua a correre come una
disperata. E tutto questo genera i primi segnali di tensioni inflazionistiche.
Se un´azienda cerca un programmatore informatico, non lo pagherà meno solo
perché ci sono un po´ di carpentieri a spasso.
Da qui la necessità, per la Federal Reserve, di usare di nuovo il fucile. Chi
pensava che la stagione dei continui rialzi nel costo del denaro fosse finita
(e, anzi, si aspettava un´inversione di tendenza e il ricorso ai ribassi dei
tassi per aiutare un´economia in crisi), probabilmente dovrà ricredersi.
Insomma, la locomotiva America correrà ancora per un po´, certamente per qualche
altro trimestre. E questo a noi, buoni esportatori, può solo far piacere. Sempre
che si riesca, intanto, a fare un po´ d´ordine in casa nostra.
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Fonte -
La Repubblica |
PLUNGE
PROTECTION TEAM
9 Novembre 2006 -
NEW
YORK ______________________________________________
A giudicare da come si
comportano, le autorita’ americane credono che lo scalpitante
mercato toro di quest'autunno sia soltanto un semplice rally
illusorio antecedente l’inevitabile crollo.
Hank Paulson, Segretario del Tesoro Usa ed esperto dei mercati
finanziari, che ha costruito in Goldman Sachs una fortuna da $700
milioni, sta riattivando il “Plunge Protection Team” (PPT), il
gruppo di prevenzione per un considerevole calo dei mercati, con
l’intento di sostenere gli indici azionari, il mercato valutario e
quello dei futures nel caso di una possibile crisi. Noto anche come
“gruppo di lavoro del mercato finanziario”, fu creato nell’ottobre
del 1987 da Ronald Reagan proprio per prevenire il ripetersi di un
crollo di Wall Street.
Paulson ha dichiarato che negli anni del boom il gruppo non ha
operato in maniera attiva, e che da ora in poi, avra’ un centro di
comando nel comparto del Tesoro Usa, svolgendo un ruolo primario
nella monitorizzazione dei mercati globali. Si terranno incontri
sistematici ogni sei settimane che coinvolgeranno, oltre allo stesso
Paulson, anche il capo della Federal Reserve e della SEC, nonche’
altri personaggi chiave.
Paulson ha affidato al team il compito di analizzare i rischi che
potrebbero derivare dagli hedge funds e dal mercato dei derivati,
vigilando continuamente sulle abilita’ del governo nella risposta ad
una crisi finanziaria.
In passato il PPT e’ stato materia di leggende oscure, e per lungo
tempo la sua esistenza e’ stata negata. Ma l’ex stratega della Casa
Bianca, George Stephanopoulos, ha ammesso apertamente che il gruppo
e’ stato coinvolto durante l'amministrazione Clinton per sostenere i
mercati durante la crisi finanziaria in Russia nel 1998 e del LTCM
(Long Term Capital Management), e quasi certamente anche in
relazione agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.
Il team ha un accordo informale con le maggiori banche per poter
iniziare a comprare titoli se dovessero insorgere seri problemi. Nel
1998 si assistette ad una crisi globale del mercato delle valute.
Sotto la guida della FED, le banche si riunirono con lo scopo di
prevenire complicazioni sul mercato. Lo stesso potrebbe accadere nel
caso dell’azionario.
CRESCE AL RECORD STORICO LA BOLLA DEI
DERIVATI
17 Novembre 2006 -
NEW
YORK ______________________________________________
Il mercato globale dei
derivativi e' impazzito, al nuovo record di $370 trilioni nella
prima meta' del 2006. Si tratta della crescita piu' forte degli
ultimi 8 anni, soprattutto per via del trading nei credit-default
swaps, dice la Bank for International Settlements.
Derivatives Trading Soars to $370 Trillion, BIS Says (Update4)
By Hamish Risk
Nov. 17 (Bloomberg) -- The global market for derivatives soared to a
record $370 trillion in the first half of 2006, the fastest pace in
at least eight years, boosted by trading in credit-default swaps,
according to the Bank for International Settlements.
The amount of outstanding credit-default swap contracts jumped to
$20.3 trillion from $13.9 trillion at the end of last year, the
Basel, Switzerland-based bank said on its Web site today. The
securities are financial instruments based on bonds and loans that
are used to bet on an increase or decrease in indebtedness.
Trading in credit-default swaps helped spur record earnings for
banks including New York-based Morgan Stanley, Goldman Sachs Group
Inc. and Merrill Lynch & Co. this year. Derivatives accounted for
more than 60 percent of revenue and profit at London-based Barclays
Capital, Chief Executive Officer Bob Diamond said in May.
``The pace of growth is going to have continued unabated in the
second half of the year,'' said Kit Juckes, head of fixed- income
research in London at Royal Bank of Scotland Group Plc.
Investors who buy the contracts are paid the face value of the
underlying debt in exchange for the defaulted notes should the
company fail to adhere to debt agreements. A decline in the cost of
the contracts indicates an improvement in the perception of credit
quality; an increase signals deterioration.
Contracts Cheaper
Banks and hedge funds say it's cheaper and easier to use the
contracts than buying or selling the underlying securities.
Derivatives based on the debt of more than 3,000 companies are
actively traded, according to Markit, a London-based provider of
prices. Estimates on the size of the market are based on the assets
underlying the contracts.
Within the credit derivatives market, trading on indexes based on
groups of companies soared as much as 86 percent, the report said.
``Greater standardization, deeper liquidity and more efficient
pricing'' is helping to boost trading, said Sunil Hirani, chief
executive officer of New York-based Creditex Group Inc., one of the
brokers that matches buyers and sellers in the market. ``The number
of participants will continue to grow.''
Greenspan Comments
Alan Greenspan, the former chairman of the Federal Reserve, has been
saying since 2002 that derivatives reduce risks by making financial
markets resilient to shocks. In May he told a Bond Market
Association gathering in New York that derivatives are the most
significant change on Wall Street ``in decades.''
The rapid growth of derivatives is also raising concerns that their
ease of use may lead to market abuse such as insider trading related
to leveraged buyouts, after unusual price changes occurred prior to
the announcement of takeovers in the U.S.
Derivatives are financial obligations derived from stocks, bonds,
loans, currencies and commodities, or linked to specific events like
changes in the weather or interest rates.
Trading in derivatives overall grew 24 percent in the first six
months, compared with 5 percent in the second half of 2005, the BIS
said.
Interest-rate swaps, which make up 70 percent of the derivatives
market, rose the most in Europe, growing 27 percent in the first
half compared with 18 percent in the U.S., the report said.
The BIS, formed in 1930, monitors financial markets and regulates
banks. The bank polled 62 institutions for its semiannual report.
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Fonte - To contact the reporter on this
story: Hamish Risk in London hrisk@bloomberg.net . |
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Immobiliare: è peggio di quel che
appare
12 Novembre 2006 New York - di Charlie
Minter
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Non sottolineeremo mai a sufficienza che
il calo del settore immobiliare è fondamentale sia per l’economia che per il
mercato azionario, e da questo punto di vista, il futuro è tutt’altro che roseo.
Ad una conferenza tenutasi di recente,
il dr. Horton, CEO della Donald Tomnitz, ha affermato che il settore immobiliare
è inserito in una “spirale della morte”. In risposta ad una domanda del
pubblico, ha dichiarato che i costruttori adesso vendono gli immobili giusto per
disfarsi del terreno di proprietà, dal momento che è più facile venderlo con una
casa costruita sopra che non senza. Ad un altro dirigente di una
compagnia edile è stato chiesto se il settore ha raggiunto il minimo, ed egli ha
risposto che ciò non è probabile quest’anno e nemmeno il prossimo: forse, nel
2008.
All’inizio della settimana Toll Bros. ha
ridotto le stime di consegna di abitazioni per il 2007 a causa di uno
smaltimento di ordini arretrati e alle rallentate prospettive del mercato: i
primi sono calati del 25% e gli ordini del 55%. Le disdette sono superiori alle
stime. Il CEO ha affermato: “continuiamo a cercare un segnale di inversione, ma
niente si scorge ancora all’orizzonte”.
Secondo la Beazer Homes “molti mercati
negli Stati Uniti continuano a sperimentare elevati livelli di invenduto
ricollocato sul mercato, bassi livelli di domande per le nuove abitazioni,
significativi incrementi dei tassi di disdetta e sconti in aumento”. Gli ordini
della compagnia sono calati del 58%.
Nei precedenti commenti abbia commentato tutta una serie di dati deprimenti del
settore che non ripeteremo per non annoiare il lettore. Ma queste dichiarazioni
provengono dagli stessi leader del settore, e tutte non fanno prevedere la fine
del ribasso. Dal momento che il mortgage equity withdrawals (MEW) è stato un
notevole fattore di sostegno nella spesa dei consumatori nell’attuale ripresa
economica, un consistente calo del MEW avrebbe un notevole impatto su questa
spesa nel prossimo futuro.
Anche in una espansione non accompagnata
dal boom dell’immobiliare come in questo momento, la componente immobiliare del
PIL reale anticipa il PIL al netto dell’immobiliare di circa due trimestri. Per
cui gli effetti della recessione del settore immobiliare non si sono ancora
avvertiti pienamente nel resto dell’economia. Ecco perché molti osservatori
stanno trascurando il problema ritenendolo non significativo. Inoltre man mano
che il minimo del settore è spostato nel tempo, il minimo dell’economia deve
egualmente essere traslato in avanti.
Quando poi teniamo in considerazione anche la natura anticipatori di indicatori
come la curva dei rendimenti, gli aumenti dei tassi a breve termine
sperimentati, e il calo del Leading Indicator del Conference Board, diventa
molto rischioso ritenere che l’economia sperimenti un atterraggio morbido
peraltro storicamente raro.
Il fatto che la maggior parte di
indicatori coincidenti e ritardatari sembrino ancora positivi incoraggia la
massa a ritenere che l’economia gode di buona salute. Ma è sin troppo evidente
che questi indicatori si collochino sul picco. D’altro canto, per
definizione il Leading Indicator anticipa. In definitiva, quando consideriamo
l’atroce scenario del settore immobiliare, congiuntamente ad altri indicatori
anticipatori, concludiamo che c’è la concreta possibilità che il calo
dell’economia duri più a lungo di quanto atteso.
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Fonte - Smarttrading |
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Sabato
11
novembre 2006 |
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Martedì
21
novembre 2006 |
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Sabato
25
novembre 2006 |
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Borsa: toro vero o mascherato?
3 Novembre 2006 Milano - di *Alessandro
Fugnoli
*Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
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Il rialzo delle
borse appare solido da tutti i punti di vista. E’ pienamente sostenuto dalla
crescita degli utili. Non ha l’handicap di un sentiment troppo positivo (le
rilevazioni lo danno da neutrale a moderatamente positivo). Ha il sostegno di un
quadro macro molto forte in Europa.
Negli Stati Uniti i due mesi più deboli del 2006 sono ormai alle spalle e
l’economia sta già riaccelerando. Quanto all’Asia, il Giappone non delude e la
Cina costringe ancora una volta il Fondo Monetario a rivedere verso l’alto le
stime di crescita (il 2006 si concluderà con un 10.5 per cento che si fa
allegramente beffe dei tentativi di raffreddamento dei mesi scorsi). Le
politiche monetarie globali rimangono complessivamente pro crescita (solo negli
Stati Uniti si sfuma appena nel restrittivo).
Il petrolio, infine, costa il 25 per
cento in meno di due mesi fa.
Anche nel migliore dei mondi possibili, tuttavia, è buona
regola consolidare. Non essendoci uragani, guerre o aviarie all’orizzonte il
consolidamento di novembre sarà in tono decisamente minore e dovrà accontentarsi
di problemi di seconda scelta. Il primo
gruppo di problemi riguarda la crescita. I dati deboli di settembre e, in
parte, di ottobre sono stati alla base dell’inizio di consolidamento negli
ultimi giorni e offriranno ancora qualche spunto per rattristarci nella prima
metà di novembre. A ben vedere è tutto stranoto. Si sapeva da luglio che ci
sarebbe stata in America una fase di pronunciata debolezza, coincidente con la
contrazione delle costruzioni, cha ha un impatto immediato sulla produzione
industriale. Il secondo problema su cui
il mercato avrà modo di arrovellarsi sarà, se ci sarà, il passaggio del
Congresso ai democratici con il corollario di intensificata retorica (e
qualche possibile realizzazione) in materia di tasse (per il big oil, i
dividendi, i capital gain), protezionismo anti-cinese, legislazione anti hedge
funds, aumento del salario minimo e attacco alle case farmaceutiche.
Il terzo problema sarà, sia pure in
misura contenuta, il petrolio. Fa freddo (in America). I paesi Opec
stanno iniziando a tagliare sul serio la produzione. La domanda è molto forte
(conferme indirette vengono dai continui nuovi massimi dell’uranio e dal forte
recupero del gas naturale). Quella parte di mercato che continua a credere che
il prezzo del greggio sia tenuto artificiosamente basso con vendite
pre-elettorali di scorte (o aiutini sauditi) riaprirà posizioni al rialzo subito
dopo il voto.
Il quarto problema potrebbe essere un
ritorno di attualità delle questioni geopolitiche, in primo luogo il
nucleare iraniano. In queste ultime settimane l’amministrazione Bush ha tenuto
in proposito un profilo straordinariamente basso con l’obiettivo di non fare
risalire in nessun modo il petrolio prima del voto e di non concentrare
l’attenzione degli elettori sulla questione mediorientale. Dopo il voto questa
remora sparirà e i toni dello scontro torneranno a salire. Dopo Thanksgiving
tutte queste preoccupazioni, nel complesso, torneranno sullo sfondo. I dati
macro cominceranno a registrare la riaccelerazione in corso, a partire da quelli
di sentiment. Le vendite di Thanksgiving e di Natale si preannunciano molto
buone. I negozi e le mall hanno poche scorte, faranno meno sconti del solito e
ordineranno presto nuova merce.
Le preoccupazioni
politiche, dal canto loro, svaniranno presto, non perché inconsistenti ma perché
premature. Il nuovo Congresso si insedierà a fine gennaio e il presidente
manterrà il diritto di veto su una parte importante della produzione legislativa
per altri due anni. Il petrolio recupererà, ma con molta fatica, appesantito
com’è dalle scorte abbondanti. Solo un inverno veramente freddo potrà
fare toccare di nuovo i 70 dollari, altrimenti non si andrà sopra i 65. Un
rialzo contenuto del greggio non farà male al mercato azionario e darà la
possibilità ai petroliferi e minerari di unirsi al rialzo di fine d’anno e
rafforzarlo.
Quanto alla geopolitica, la ripresa dello scontro con l’Iran sarà accolta con un
certo scetticismo dai mercati. In ogni caso i tempi dilatati della risoluzione
Onu e delle sanzioni rinvieranno riacutizzazioni serie delle tensioni al 2007.
L’SP 500 ha la forza per chiudere l’anno vicino a 1400. Se andrà oltre entrerà
in zona di sopravvalutazione e aumenterà i problemi per il primo trimestre, che
dovrà fare i conti con un marcato rallentamento europeo e con una crescita
americana che perderà una parte della velocità che sta prendendo in questo
quarto trimestre 2006.
Non dimentichiamo che l’economia americana crescerà sotto il
potenziale (cioè sotto il 3 per cento) per tutta la prima metà dell’anno
prossimo. Solo una volta riportata sotto controllo l’inflazione ritornerà, nel
secondo semestre, alla sua velocità di crociera (ma non oltre). Il 2006, quindi,
si chiuderà bene, ma il 2007 si aprirà per le borse con meno energia ed
esuberanza rispetto a quello che abbiamo visto quest’anno da gennaio a maggio,
quando il Pil americano cresceva a una velocità superiore al 5 per cento.
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Fonte - Il Rosso e il Nero |
Wall Street ? correrà per altri 5
anni
7 Novembre 2006 New York - di Corriere
della Sera
________________________________________
Le blue chip di Wall Street continueranno a correre per un
altro quinquennio, nonostante il recente record dell'indice Dow Jones.
Lo crede Whitney Tilson, brillante
giovane gestore americano, incoronato da SmartMoney come uno dei «30 più
influenti personaggi nel mondo degli investimenti».
Responsabile di un hedge fund dal 1999, ora ha lanciato anche due fondi comuni,
Tilson Focus e Tilson Dividend, che seguono la stessa filosofia «value»,
cioè «comprare a 50 ciò che vale 100» (www.tilsonmutualfunds.com).
Perché questa decisione di rivolgersi anche ai piccoli risparmiatori? «Il
business dei fondi comuni è ancora buono. Ha alcuni svantaggi rispetto a quello
degli hedge fund - le commissioni di gestione inferiori e la regolamentazione
maggiore - ma presenta anche aspetti favorevoli. Il primo è che si possono
raccogliere più sottoscrizioni e accumulare patrimoni ingenti; e poi c'è meno
competizione fra gestori. Se batti di cinque punti il tuo benchmark diventi un
eroe, mentre negli hedge fund non se ne accorge nessuno. C'è poi un motivo
personale...»
Quale? «Negli ultimi otto anni centinaia di persone che
leggevano i miei articoli, scritti per la gente comune, chiamavano chiedendo di
investire nel mio hedge fund. Le ho dovute respingere perché non avevano il
milione di dollari necessario. Ora posso lavorare anche per loro».
Ma lo scrutinio quotidiano della performance di un fondo comune non interferisce
sulla politica di investimento di lungo termine di un gestore «value»? «È una
preoccupazione seria. Per questo c'è una penalità del 2% per chi esce dai fondi
entro un anno, per scoraggiare gli investitori di breve termine. Inoltre tengo
informati i clienti con periodiche lettere in cui spiego le mie scelte».
In articoli e conferenze lei diffonde le sue idee non solo ai clienti ma a
tutti, a differenza di guru come Warren Buffet. Perché? «C'è il rischio, è vero,
che le buone idee vengano copiate e che quelle cattive, quando diventano un flop,
creino imbarazzo. Ma credo sia giusto far capire ai clienti che dietro ogni
scelta di investimento c'è molta ricerca; e può capitare che questo solleciti
commenti di altri gestori o di gente che ne sa di più, per esempio chi lavora in
una società, e così si vengono a sapere altre cose utili. Comunque non riveliamo
tutte le nostre posizioni, soprattutto se stiamo accumulando acquisti su titoli
non a larga capitalizzazione sul cui prezzo ogni notizia può avere un sensibile
effetto».
Fra le azioni più presenti nel suo portafoglio c'è Wal-Mart, sotto accusa per le
sue politiche salariali. Non teme che il suo business soffrirà se vinceranno i
Democratici alle elezioni di novembre con la conseguente imposizione di nuovi
vincoli? «Il mio focus è sulle forze fondamentali che stanno alla base di un
business: nel caso di Wal-Mart conta la sua posizione dominante sul mercato, più
importante della politica. Inoltre le sue quotazioni hanno già sofferto
abbastanza il fatto che è un enorme bersaglio dei sindacati».
Per un investitore «value» è il momento di scommettere di
nuovo sul mattone? «Lo sto valutando. Ci sono diversi modi di giocare la carta
della casa. Un titolo interessante è Home Depot, rivenditore di attrezzi e
materiali per il fai-da-te, le cui quotazioni sono già scese molto. Una società
che ho in portafoglio è U.S.Gypson, produttore della lana di roccia usata nella
costruzione di case: i suoi prezzi sono crollati in Borsa da 120 dollari a 50,
anticipando la crisi dell'immobiliare, ma per me ne vale 90. Non compro i
costruttori di case, perché credo che il valore del loro patrimonio debba ancora
scontare il crollo dei prezzi che prima o poi ci sarà in alcuni mercati caldi,
per esempio Las Vegas e Miami. In queste due aree, i padroni di appartamenti
stanno nascondendosi che i prezzi sono già scesi del 20-40% e si rifiutano di
vendere, ma quando saranno costretti a farlo la verità verrà a galla».
Se davvero scoppia la bolla immobiliare, l'economia Usa scivolerà nella
recessione? «Non credo, perché la Federal Reserve farà di tutto per impedirlo.
Quando è scoppiata la bolla di Internet nel 2000, la Fed ha tagliato e tagliato
i tassi e la recessione del 2000/2001 è stata molto moderata. Anche ora la Fed,
dopo aver rialzato i tassi per tanto tempo, ha spazio per abbassarli di nuovo e
inondare il mercato di liquidità. Nel lungo periodo temo che l'economia
americana abbia seri problemi, come il deficit della bilancia dei pagamenti. Ma
nel breve lo scenario è ok, con il record di cash e profitti aziendali».
Come valuta il settore automobilistico, con General motors
quasi raddoppiata quest'anno in Borsa? «La domanda è se fra dieci anni ci
saranno ancora case produttrici americane. Credo che Toyota continuerà a
guadagnare quote di mercato negli Usa. Idee di investimento possono trovarsi
invece nella componentistica per auto. Abbiamo avuto in portafoglio Lear,
produttore di sedili per Suv e altre grosse cilindrate».
Lei sostiene che le azioni a larga capitalizzazione come Microsoft, McDonald's e
Costco, oltre a Wal-Mart e alla Berkshire Hathaway di Buffett, sono i migliori
affari, sottovalutati di circa il 30%. Non è questo in contraddizione con
l'indice Dow Jones ai massimi? «Il Dow Jones e l'altro indice delle large cap,
l'S&P500, stanno risalendo solo da tre mesi. Il rapporto prezzo/utili
dell'S&P500 è 18, contro il 35 del Nasdaq e il 36 del Russell 2000 (piccole
società). Cinque anni fa la situazione era opposta. Penso che la rivalutazione
delle large cap sia un fenomeno che durerà per i prossimi cinque anni».
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Fonte - Corriere della Sera |
SONDAGGIO:
DOVE VANNO LE BORSE ? 24 Novembre 2006 Milano
- di Sara Silano ______________________________________________
Il trend di fondo dei
mercati azionari rimane positivo, ma è possibile a breve una fase di
consolidamento dopo i forti rialzi registrati negli ultimi mesi
(+7,4% l’Msci World nel trimestre). E’ il parere della maggior parte
dei gestori che ha partecipato al sondaggio di Morningstar, condotto
dal 7 e al 13 novembre tra le principali case di investimento che
operano in Italia.
In attesa del riscatto del Giappone
La Borsa di Tokyo non ha cavalcato il rally delle principali piazze
finanziarie internazionali degli ultimi mesi, ma quasi l’80% dei
gestori è convinto che potrà salire in futuro, percentuale superiore
a quella di ottobre. Oltre alle motivazioni legate allo sviluppo
della domanda interna, i fund manager spiegano il loro ottimismo con
la convinzione che il listino nipponico colmerà il gap rispetto agli
altri mercati mondiali, in quanto gli investitori saranno attratti
dalle valutazioni dei titoli relativamente meno care.
Cambio di rotta sull’Italia
A novembre, gli ottimisti su Piazza Affari sono scesi a ridosso del
40% dal 67% del mese scorso. Un gestore su due, invece, si attende
una stabilizzazione intorno agli attuali livelli. E’ convinzione
diffusa che il mercato sia sostenuto dalle speculazioni sul
consolidamento nel settore bancario, ma esiste incertezza sul fronte
economico e preoccupazione su quello fiscale.
Europa e Wall Street, destini simili
E’ superiore al 60% la percentuale di gestori che prevede un
apprezzamento dei listini europei e americani nei prossimi mesi,
mentre il numero di pessimisti rimane contenuto sotto il 10%. I dati
nascondono giudizi eterogenei da parte dei fund manager. Secondo
alcuni, le Borse del Vecchio continente e quella statunitense non
offrono grandi occasioni di titoli a sconto; secondo altri le
valutazioni hanno raggiunto il livello di equilibrio sui mercati
occidentali, ma Wall Street è da preferire per il carattere più
difensivo e meno volatile. E’ diffusa la convinzione che fusioni ed
acquisizioni proseguiranno nei prossimi mesi, sostenendo le
quotazioni. Nello stesso tempo, i gestori si attendono un
rallentamento dell’economia globale, che, tuttavia, non dovrebbe
intaccare in modo significativo i bilanci aziendali.
Poche novità per Euro/dollaro
La quasi totalità dei gestori prevede una stabilizzazione del
rapporto tra l’euro e il dollaro attorno agli attuali livelli o un
apprezzamento della moneta unica. Pochi credono in un riscatto del
biglietto verde. Per Cristiano Busnardo, amministratore delegato di
Société Générale Am Italia, il rallentamento dell’economia nell’area
Euro atteso per inizio 2007 e l’attuale sopravvalutazione della
divisa locale inducono a ridurre le previsioni sul cambio a sei mesi
da 1.35 a 1.30. Rimane invece invariata la stima a dodici mesi
(1.30). Infine, è considerato “estremamente improbabile” un
rafforzamento della divisa americana data l’ampiezza del deficit
commerciale degli Stati Uniti.
Per i bond previsioni invariate
Più di un gestore su due si attende un calo dei prezzi delle
obbligazioni europee nei prossimi sei mesi a fronte di un 40% circa
che ipotizza una stabilizzazione attorno agli attuali livelli, in un
mercato dove la curva dei rendimenti si è ulteriormente appiattita
con differenziali tra breve e lunga scadenza sempre più ristretti.
Inoltre, gli operatori scontano un rialzo dei tassi da parte della
Banca centrale europea, nella riunione di dicembre. Per quanto
riguarda gli Stati Uniti, i fund manager sono equamente divisi tra
chi prevede prezzi stabili e chi in discesa. L’attenzione è rivolta
alle prossime mosse della Federal Reserve, che potrebbe interrompere
il ciclo rialzista se sarà confermata la riduzione delle pressioni
inflazionistiche.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 7 e il 13 novembre,
23 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti
sul territorio, che contano per circa l’80% degli asset gestiti in
Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Alpi Fondi,
Anima Sgr, Antonveneta Abn Ambro Sgr, Banca Fideuram, Banca Profilo,
Caam Sgr, Compagnie Monégasque de Banque, Dws Investments Italy,
Eurizon Capital Sgr, Euromobiliare Am Sgr, Henderson Global
Investors, Invesco, Investitori Sgr, Julius Baer Sgr, Meliorbanca
Sgr, Mps Am, Nextam Partners, Pioneer Im, Ras Am, Sgam Italia Sim,
WestLB Mellon Am.
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Fonte - Morningstar Italia |
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L’ombra
dell'orso
27 Novembre 2006 Milano - di Vincenzo
Sciarretta
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Anche se le
opportunità non mancano, le Borse mostrano sintomi di surriscaldamento e
appaiono vicine a una fase di consolidamento o correzione. Tra l’altro, escono
statistiche che sembrano preludere a un ripiegamento. Niente di grave, potrebbe
trattarsi di un semplice incidente di percorso, ma è giusto alzare le antenne.
Ad esempio, in America il rapporto tra azioni vendute e comprate dagli insider
ha raggiunto i livelli di marzo-aprile, che fu il preludio al capitombolo dei
listini di maggio-giugno.
SEGNALI CONTRARIAN. Gli insider
(azionisti rilevanti, amministratori e direttori), sono le persone meglio
informate sull’andamento dei conti di una società: quando vendono non è mai un
buon segno. D’altro canto, in Europa, si registra un picco di ottimismo fra i
gestori professionali, un evento che spesso porta male. Ci si riferisce
al sondaggio mensile di Merrill Lynch, da cui risulta che gli investitori
internazionali considerano le Borse europee sottovalutate e con le migliori
prospettive di crescita degli utili. Si direbbe un segnale incoraggiante, ma
purtroppo solo un anno fa, gli stessi operatori, guardavano con favore alla
Borsa nipponica che invece, da inizio 2006, ha un andamento assolutamente
piatto.
Insomma, quando circola troppa fiducia
il rischio è che sia rimasto poco denaro, quindi pochi compratori, in grado di
garantire una nuova fase rialzista. È però vero che, al di là della
piccola indigestione da ottimismo, i listini europei continuano a beneficiare di
fondamentali solidi. Dice Christian Stocker di Unicredit-HypoVereinsbank: «Il
dividendo medio dell’EuroStoxx50 è al 3,3% e salirà al 3,6% nel 2007. Per contro
il decennale tedesco offre una cedola del 3,7 per cento. Poiché il dividendo
cresce nel tempo, l’investimento in Borsa appare conveniente dal semplice
confronto fra reddito fisso e cedole azionarie». Anche Mario Spreafico di
Citigroup è convinto che non ci siano controindicazioni per la Borsa: «Anche se
le quotazioni appaiono tirate, per la semplice ragione che i listini corrono
senza soste da giugno».
Per farla breve, la tendenza è orientata
al rialzo, ma la probabilità di un’interruzione temporanea è in aumento.
Conviene perciò essere selettivi. «Eviterei in primo luogo le small-cap -
sostiene Alain Bokobza, stratega di Société Générale - Le compagnie a piccola
capitalizzazione hanno guidato la corsa a partire dal 2003. Erano a sconto
rispetto alle big, ma oggi trattano a premio: credo sia opportuno ridurre
l’esposizione. Mi piacciono invece i titoli del settore retail (largo consumo)
orientati al mercato interno. Farei anche attenzione al dollaro, penso sia
destinato a indebolirsi, con danno per le aziende legate all’export. Ribadisco:
meglio concentrarsi sull’attività continentale».
DOMANDA INTERNA. Favorevole al comparto delle vendite al
dettaglio è anche Ian MacFarlane di Bca-research, che aggiunge all’elenco le
società petrolifere e le tlc: «I prezzi delle telecom sono bassi a causa del
pessimismo che colpisce il comparto. Ma questi titoli sono scesi davvero troppo.
Per le oil company, gli operatori non capiscono appieno il loro valore. Di fatto
gli effetti del petrolio meno costoso si ripercuotono sul mercato azionario: i
multipli sono bassi e il return on equity del settore è al 27 per cento».
Un occhio di riguardo va poi accordato al Dax di Francoforte. Il governo di
Angela Merkel ha nel cassetto un taglio delle aliquote fiscali per le società.
Secondo voci ricorrenti diminuiranno dal 38,7 al 29,8 per cento. «Ciò accrescerà
gli utili medi delle aziende di circa il 5%», osserva Christian Stocker. Secondo
uno studio di Morgan Stanley, i maggiori vantaggi andrebbero a imprese con pochi
debiti e elevato carico fiscale come Basf, Porsche, Gea Group, United Internet,
Springer, Solarworld e Beiersdorf. Potrebbero invece subire contraccolpi Tui,
Deutsche Telecom, Lufthansa e Rwe.
REDDITI FINANZIARI. Stocker fa un’altra osservazione sul
regime fiscale tedesco che potrebbe giocare a favore del Dax: «Dal gennaio 2009,
la Merkel vuole introdurre un’aliquota forfettaria del 25% sui guadagni di
Borsa. Attualmente le plusvalenze sono esentasse per i privati che detengono i
titoli per oltre un anno. Dunque ci potrebbe essere una corsa agli acquisti
prima di quella data».
Infine, si può dare un’occhiata al consiglio natalizio di Credit Suisse sul
lusso. Alimentato dagli acquisti delle festività, il settore potrebbe prendere
il volo. «Il mercato è in pieno boom - si legge nel report - stimolato
dall’espansione in Giappone, Europa e America e ancor più da Cina, India e
Russia. Qui, la classe media in rapida ascesa, fa da volano alle vendite.
Inoltre, l’ingresso di Pechino nel Wto ha comportato l’abbattimento dei dazi sui
prodotti alcolici, dal 43,7% del 2001 allo zero attuale. Le vendite di cognac
sono così balzate del 58% negli ultimi 4 mesi. Senza contare che l’incremento
degli standard di vita farà da trampolino ai segmenti premium». Per questo
Credit Suisse raccomanda un paniere europeo di titoli del lusso e di produttori
di bevande e cioccolata. In cima alla lista Diageo, Lindt & Spruengli, Pernod
Ricard e Lvmh. Insomma, con un po’ di cautela e selettività sarà comunque un
buon Natale.
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Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza |
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