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Una nuova corsa asiatica al nucleare ?
14 Ottobre 2006 NewYork - di Amy Goodman
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La
Corea del Nord ha effettuato il suo primo test nucleare, scatenando un’ondata di
condanne da parte della comunità internazionale. Amy Goodman ne parla con il
giornalista free-lance Tim Shorrock (‘The Nation’, ‘AlterNet’, ‘Asia Times’,
‘Mother Jones’…), che si occupa delle vicende Stati Uniti-Corea del Nord da
oltre 20 anni.
Il test è stato effettuato alle 10:36 ora locale di lunedì mattina. Secondo le
dichiarazioni di un ufficiale superiore statunitense, la Cina avrebbe ricevuto
un avvertimento 20 minuti prima del test e a sua volta lo avrebbe riferito a
Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. L’Istituto geologico statunitense ha
comunicato di aver registrato una scossa sismica di magnitudo 4.2 della scala
Richter nella penisola coreana.
Qualche minuto più tardi, l’agenzia di stampa ufficiale della Corea del Nord, la
Korean Central News Agency (KCNA), ha reso noto che il test sotterraneo “è stato
un trionfo” e “che non ha comportato nessuna dispersione di radiazioni”.
L’agenzia lo ha definito "un evento storico, fonte di grande gioia per il nostro
esercito e il nostro popolo".
L’operazione ha suscitato dure condanne
a livello internazionale. Gli Stati Uniti hanno definito il test un "atto
provocatorio". La Cina ha espresso il proprio “risoluto dissenso", affermando
che "si tratta di un gesto di sfida alla comunità internazionale". Il primo
ministro giapponese Shinzo Abe lo ha definito "un gesto imperdonabile" e ha
dichiarato che la regione sta "entrando in un’era nucleare nuova e pericolosa ".
Gli ufficiali militari della Corea del Sud hanno ordinato ai propri soldati di
stare in allerta.
La settimana scorsa, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva
esortato la Corea del Nord a non effettuare alcun test, minacciando, in caso di
rifiuto, conseguenze non meglio specificate.
Pyongyang si è ritirata dal Trattato di non proliferazione nucleare nel 2003,
rinunciando per un anno a partecipare a negoziazioni aventi lo scopo di
arrestare le proprie ambizioni.
Il test effettuato cade in occasione del nono anniversario della nomina del
leader Kim Jong Il a capo del Partito dei Lavoratori coreano. E arriva proprio
un giorno prima dell’elezione del ministro degli esteri sudcoreano Ban Ki Moon a
segretario generale delle Nazioni Unite.
AMY GOODMAN: Tim Shorrock è un giornalista
indipendente, si occupa dei legami Stati Uniti-Corea da decenni. È in
collegamento telefonico con noi dalla sua casa nel Tennessee. Benvenuto a
Democracy Now!, Tim.
TIM SHORROCK: Grazie.
AMY GOODMAN: Potresti parlarci del significato di questo test nucleare?
TIM SHORROCK: Beh, si tratta di un evento di enorme rilievo per la Corea, per
gli Stati Uniti e per tutti i paesi dell’estremo oriente, ma
non credo sia stata una sorpresa per
nessuno. Si sa che la Corea del Nord da anni sta sviluppando ordigni nucleari e
sta cercando disperatamente di usare il suo plutonio e le sue armi per ottenere
negoziazioni bilaterali e instaurare un nuovo legame, si dice, con gli Stati
Uniti. Un paio di anni fa, i coreani hanno mostrato ad un gruppo di
scienziati statunitensi che stavano producendo plutonio. Quindi, sappiamo che da
tempo miravano a produrre armamenti, e alla fine l'hanno fatto. Questo fa della
Corea del Nord l’ottava potenza nucleare del mondo (nota di WSI: in realta' e'
la nona, dopo Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna, Israele, Cina, India
e Pakistan) – il che rappresenta un balzo clamoroso, soprattutto nell’unica
parte del mondo dove le armi nucleari sono state impiegate in una guerra.
AMY GOODMAN: Esiste qualche ragione per credere che ciò avrebbe potuto essere
evitato?
TIM SHORROCK: Sì. Come ho detto, i
nordcoreani hanno chiesto in tutti i modi possibili negoziazioni bilaterali con
gli Stati Uniti, ma l’amministrazione Bush, sin dall’inizio del suo mandato, si
è sempre rifiutata di dialogarvi. In un primo tempo, penso che l’idea
fosse che la Corea del Nord sarebbe crollata sotto il suo stesso peso. Molti
ricorderanno che quando l’ex presidente sudcoreano Kim Dae-Jung – a lungo
dissidente del regime militare ed eletto presidente della Corea del Sud alla
fine degli anni novanta, il primo a creare un vero legame politico-economico con
la Corea del Sud, mai esistito dai tempi della guerra di Corea – arrivò alla
Casa Bianca, subito dopo l’insediamento di Bush, quest’ultimo rifiutò
pubblicamente le politiche del Presidente sudcoreano, le cosiddette "Sunshine
Policies" (vedi nota 1 a fondo pagina), affermando di non potersi fidare in
nessun modo dei nordcoreani. Dal quel momento in poi, i legami si sono
deteriorati.
Poco dopo l’11 settembre, i nordcoreani decisero di abbandonare il precedente
accordo stipulato con gli Stati Uniti, e ribadirono costantemente la richiesta
di confronti e negoziazioni bilaterali con gli Stati Uniti. Bush si è sempre
rifiutato.
AMY GOODMAN: Potresti illustrarci la
sostanziale differenza tra il Clinton e Bush nel modo di trattare con la Corea
del Nord?
TIM SHORROCK: Beh, l’amministrazione
Clinton accettò di negoziare direttamente con il governo. Alla fine del 2000,
poco prima del cambio di amministrazione, l’ex segretario di Stato Madeleine
Albright si trovava a Pyongyang, dove si incontrò con il presidente nordcoreano.
A quel tempo, la corea del Nord e gli Stati Uniti avevano stipulato un accordo
secondo il quale la prima avrebbe sospeso il proprio programma nucleare in
cambio di aiuti economici e di migliori rapporti con gli Stati Uniti. Mentre la
Albright si trovava nella capitale nordcoreana, vennero avviate negoziazioni con
l’obiettivo di bloccare i test nucleari e la produzione di missili. Tali
negoziazioni franarono quando Bush s’insediò, e da allora la sua amministrazione
ha regolarmente rifiutato qualsiasi trattativa diretta con i nordcoreani.
E tutti i paesi facenti parte di questi negoziati a sei – Russia, Cina,
Giappone, soprattutto Russia, Cina e Corea del Sud, naturalmente – hanno sempre
affermato la necessità di trattative e confronti diretti tra i due paesi. Si
tratta dell’unico modo per risolvere la questione, perchè la Corea del Nord si
vede in conflitto non con altri paesi ma direttamente con gli Stati Uniti. I
nordcoreani considerano le armi nucleari l’unico modo per garantire la propria
sopravvivenza.
AMY GOODMAN: È curioso che il trambusto attuale giunga in un momento in cui gli
Stati Uniti hanno aumentato la pressione sull'Iran e non sulla Corea del Nord. È
stata focalizzata l’attenzione su un paese che le armi nucleari non le possiede
ancora, nonostante tutte le indicazioni portassero ad “occuparsi” di Pyongyang.
TIM SHORROCK: Certo. Penso che fossero già stati predisposti diversi piani, che
fossero stati delineati diversi campi d’azione. Tuttavia, l’amministrazione Bush,
talmente presa dall’Iraq e dalla pianificazione degli scenari in Iran, abbia
deliberatamente tralasciato ogni cosa. Credo sia un grave errore, che mostra il
fallimento delle politiche di Bush nel nord-est asiatico.
AMY GOODMAN: Tim, parliamo della Cina e
del Giappone. È stata la Cina a mettere in guardia gli Stati Uniti non appena la
Corea del Nord ha rivelato l’intenzione di condurre il recente test nucleare.
TIM SHORROCK: Esatto. Gli Stati Uniti
contano sulla Cina per limitare ogni ambizione di Pyongyang, per metterle
pressione. La Corea del Nord e la Cina sono alleati. Durante la guerra di Corea,
i cinesi entrarono nel conflitto per impedire agli Stati Uniti di occupare e
prendere il controllo dell’intera Corea. Respinsero gli Stati Uniti al
38° parallelo e persero milioni di soldati. Quel legame è stato molto forte, e
in realtà continua ad esserlo. I cinesi sono ovviamente preoccupati su cosa
potrebbe succedere se la Corea del Nord acquisisse armi nucleari, sul fatto che
il Giappone potrebbe in seguito procurarsene, e così via. E oggi hanno assunto
una posizione molto critica riguardo questo il test in questione.
Ciononostante, poiché esiste questo
legame – dobbiamo ricordare che gli stessi neocon che ci hanno portato in Iraq,
e premono affinché gli Stati Uniti intervengano in Iran, vedono la Cina come la
sfida strategica, ossia il vero nemico – negli ultimi 5-10 anni in Asia è in
corso questo infinito balletto tra cinesi e americani, ognuno vuole imporre la
propria influenza. Da una parte abbiamo la Cina, non direttamente
alleata, ma ora più o meno sorprendentemente coinvolta economicamente e
politicamente sia con la Corea del Sud sia con la Corea del Nord. Anche numerose
nazioni del sud-est asiatico hanno instaurato stretti legami con la Cina.
Dall’altra parte, invece, abbiamo Stati Uniti e Giappone che stanno
congiuntamente fortificando i propri eserciti per cercare di contrastare
l’avanzata di Pechino. Esiste questa dinamica per cui i cinesi sono preoccupati
sia per sé che per il fatto che la Corea del Nord possa essere loro alleata in
questa disputa.
C’è un articolo molto interessante oggi molto citato, scritto da uno studioso
cinese di nome Shen Dingli, che ripercorre la storia dei legami della Cina con
la Corea del Nord e il motivo per cui un test nucleare potrebbe risultare
vantaggioso per entrambi i paesi. Si rivela come la Corea del Nord abbia
obbligato gli Stati Uniti a collocare centinaia di truppe e missili ed altre
forze in Corea del Sud, in prossimità del nord-est cinese – il che rassicura la
Cina. Credo sarà molto difficile che la Cina rinneghi definitivamente il proprio
legame con i nordcoreani e insorga contro il loro paese.
Sarà interessante vedere nei prossimi
giorni e nelle prossime settimane cosa in effetti succederà, poiché non credo
che la Cina trasformerà la Corea del Nord in un proprio nemico. Magari
appoggeranno qualche tipo di sanzione economica, ma oltre a ciò dubito davvero
che possano votare a favore dell’impiego della forza o di blocchi navali e cose
del genere.
AMY GOODMAN: Tim, concludendo... tutto ciò è accaduto un giorno prima
dell’elezione del ministro degli esteri sudcoreano Ban Ki Moon a segretario
generale delle Nazioni Unite...
TIM SHORROCK: L’ultima volta che i nordcoreani hanno testato missili nucleari è
stato il 4 luglio – è evidente che sono ben coscienti del valore simbolico
temporale. È anche interessante sapere che il primo ministro giapponese Abe si è
trovato in visita a Seul lo stesso giorno del test.
Credo che il ruolo del Giappone sia
piuttosto critico. Il predecessore di Abe, dopo tutto, aveva mandato su tutte le
furie la Cina, la Corea del Sud e molti altri paesi per aver visitato il
sacrario dove sono sepolti i criminali di guerra giapponesi. Penso che i legami
tra il Giappone e la Cina e tra il giappone le due Coree siano labili proprio
per questo. Perciò, non è un buon momento per dare vita a un’alleanza
contro la Corea del Nord capeggiata dagli Stati Uniti .
Ci vorrà tempo. Ma credo che l’unica
cosa che impedirà di arrivare ad una crisi vera e propria sia che gli Stati
Uniti accettino di negoziare direttamente con Pyongyang.
AMY GOODMAN: Tim, grazie per essere stato con noi.
nota 1. Con “Sunshine Policy” si intende il
fondamento delle politiche della Repubblica di Corea che hanno lo scopo di
raggiungere pace nella penisola coreana per mezzo della riconciliazione e della
cooperazione tra il Nord e il Sud (NdT).
Traduzione a cura di Arianna Ghetti
per Nuovi Mondi Media
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Fonte - Democracy Now! |
IL GREGGIO
AI MINIMI DELL'ANNO
5 Ottobre 2006 NEW YORK
- di Luca Testoni
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Il balzo a sorpresa delle scorte Usa
affonda il barile ai minimi dell’anno (il Brent tocca i 57,7 dollari
a Londra, prima di tornare sopra i 59 in serata). E si intravede la
soglia psicologica dei 55 dollari, livello attorno al quale
l’analisi tecnica individua la trendline che ha sostenuto la fase
rialzista degli ultimi due anni e che fa da supporto alle
quotazioni. Sotto tale soglia, la caduta potrebbe così aumentare di
velocità.
A provocare l’ennesimo ribasso del Brent (ormai lontano dai 78
dollari di inizio agosto) sono stati i dati del Dipartimento
dell’energia Usa: la scorsa settimana le scorte di greggio sono
cresciute di 3,36 milioni di barili, a quota 328,1 milioni, mentre
ci si attendeva una riduzione di oltre un milione di barili. A
frenare la caduta del greggio non è bastata la prospettiva di un
taglio produttivo Opec lasciata intendere dal Kuwait.
Il mercato non reagisce nemmeno ai cali di produzione che alcune
major hanno anticipato sul terzo trimestre. A dover mordere il freno
nell’estrazione saranno la norvegese Statoil, che paga il
progressivo prosciugarsi dei giacimenti nel Mare del Nord,
ConocoPhillips e Bp: su entrambe pesa lo stop forzato dei pozzi
dell’Alaska, a Prudhoe Bay, ma per la compagnia inglese si tratta
del sesto trimestre consecutivo di calo produttivo, mentre per
Conoco i guai nel Nord America hanno contato solo per una frazione
del calo complessivo della produzione.
Insomma, la spinta ribassista ha più forza dei livelli di
estrazione. Secondo Barclays Capital, «il mercato dei future al
Nymex la scorsa settimana ha registrato un ulteriore calo delle
posizioni in acquisto speculative al netto di quelle in vendita. Il
livello è ai minimi da marzo». Addirittura, nei future per il
gasolio da riscaldamento, prevalgono i contratti di vendita a
termine. «Questo potrebbe indicare che la pressione ribassista -
aggiunge Barclays - provocata dalla speculazione è finita».
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Fonte -
Bloomberg - Finanza&Mercati |
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Saper leggere il prezzo della benzina
7 Ottobre 2006 New York - di Micheal T.
Klare
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Il prezzo del petrolio grezzo, che nel corso
dell’estate minacciava di superare gli 80 dollari al barile, ultimamente è sceso
per la prima volta in sei mesi – anche se per poco – sotto i 60 dollari, un
ribasso del 23% rispetto ai picchi di luglio. Secondo il Dipartimento
dell’Energia Usa, il prezzo della benzina nel Midwest, che fino a poco tempo fa
era salito vertiginosamente fino a 3 dollari alla pompa, ora si mantiene su
scala nazionale a un minimo di 2.20 al gallone (addirittura 1.89 in una stazione
di servizio di Jackson, nel Missouri).
Al tempo stesso, un’altra percentuale cresce rapidamente.
Secondo un recente sondaggio Gallup, il
42% degli Americani "concorda che l’amministrazione Bush ha deliberatamente
manipolato il prezzo della benzina per far sì che scendesse poco prima delle
elezioni autunnali". Due terzi degli intervistati sono esponenti del partito
Democratico, per il quale la questione del costo del petrolio alla pompa si è
rivelato un’argomentazione vincente.
Tali opinioni potranno sembrare faziose,
ma non mancano di logica. Dopotutto, il presidente Usa Bush e il suo vice Cheney
sono saliti al potere grazie al solido legame con l’industria energetica
(grande sostenitrice del partito repubblicano Usa) e hanno subito favorito la
compagnia Halliburton prima nell’esercito, poi in Iraq, e più tardi ancora a New
Orleans; la Chevron aveva già battezzato una sua petroliera a doppio scafo con
il nome di Condoleeza Rice, in onore del primo consigliere per la sicurezza
nazionale (ora segretario di Stato). Infine, sia il primo ambasciatore americano
in Afghanistan dopo la caduta dei talebani sia l’attuale ambasciatore (leggi:
viceré) di Baghdad, Zalmay Khalilzad, erano già consiglieri di Unocal, la
compagnia che aveva trattato, senza successo, per la costruzione di un condotto
di gas naturale attraverso l’Afghanistan dei talebani.
Inoltre, Dick Cheney, responsabile del
governo per la politica energetica nazionale, seguì tale progetto – com’è noto,
per quanto lui neghi – organizzando incontri segreti con i dirigenti di Big Oil,
nel 2001. Vari funzionari di Exxon Mobil, Conoco, Shell e BP America si
incontrarono con gli assistenti di Cheney, e il direttore generale di BP fu
ricevuto da Cheney in persona. La Chevron fu una tra le molte compagnie
energetiche che, secondo il GAO (Government Accountability Office), "fornirono
dettagliate raccomandazioni sulla politica energetica" allo staff del vice
presidente Usa – mentre gli tutti ambientalisti venivano, è ovvio, completamente
ignorati.
Le compagnie petrolifere – com’è altrettanto noto – hanno fatto un bel po’ di
quattrini grazie ai profitti sproporzionati degli ultimi anni (e i petrolieri
grazie agli esagerati benefit aggiuntivi), con la benedizione
dell’amministrazione Bush; non si può quindi escludere che i funzionari di
Washington possano aver abusato del proprio potere per ottenere qualche mese di
energia a basso costo in cambio di un altro paio di anni di mega-profitti. Non
esiste al momento però nessuna prova che lo confermi.
Quanto agli altri motivi che hanno
portato alla caduta del prezzo della benzina, se ne conoscono diversi –
soprattutto grazie a Michael Klare, ospite fisso delle pagine di 'Tomdispatch' e
autore del noto Blood and Oil. Riportiamo di seguito le sue risposte alle
domande che tutti noi abbiamo per la testa.
Tom Engelhardt
Ma che diavolo sta succedendo? Appena un paio di mesi fa, il prezzo della
benzina alla pompa si aggirava sui 3 dollari al gallone; oggi scende a poco a
poco verso i 2 – e alcuni osservatori prevedono cifre ancora più basse prima
delle elezioni di novembre. Il netto
calo del costo della benzina è una buona notizia per il consumatore, che
attualmente non ha più in tasca nemmeno un soldo per cibo e generi di prima
necessità. Ma è una buona notizia anche per Bush, il cui indice di gradimento ha
conosciuto un’improvvisa impennata.
Che sia il risultato di una cospirazione segreta tra la Casa Bianca e Big Oil
per sostenere la causa repubblicana nelle prossime elezioni, come qualcuno
suggerisce? Ma come si inserisce un’eventuale guerra contro l’Iran in questa
equazione tra costi e benzina? E ancora, cosa ci dicono i prezzi in discesa
sulla teoria del “peak oil”, secondo la quale abbiamo già raggiunto il limite
massimo di disponibilità energetica sul pianeta?
Dopo che il prezzo dei carburanti ha
iniziato a scendere rapidamente verso la metà di agosto, molti esperti hanno
tentato di giustificare tale caduta, ma nessuno è ancora riuscito a fornire una
spiegazione del tutto convincente.
Il che rende plausibili le asserzioni
secondo le quali l’amministrazione Bush e i suoi alleati di vecchia data
nell’industria petrolifera starebbero manipolando i prezzi dietro le quinte.
Secondo il mio punto di vista, il risultato determinante di questa flessione dei
prezzi è stato semplicemente quello di attenuare considerevolmente “l’elemento
paura” – la preoccupazione che il costo del greggio raggiungesse i 100 e
più dollari al barile per via dell’allargamento della crisi in Medio Oriente, o
che l’amministrazione Bush colpisse gli stabilimenti nucleari in Iran, o ancora
che si scatenassero nel Golfo del Messico altri uragani come Katrina che
avrebbero danneggiato le piattaforme petrolifere al largo della costa.
All’inizio dell’estate, quando il prezzo del petrolio cominciò la sua scalata,
molti analisti avevano previsto per la fine della stagione o l’inizio
dell’autunno uno scontro tra Stati Uniti
e Iran (che coincideva grossomodo con l’altrettanto prevista intensa
stagione degli uragani). Questo
spinse commercianti e petrolieri a riempire i depositi con petrolio al prezzo di
70-80 dollari al barile. Costoro si aspettavano infatti di poter trarre grossi
profitti dalla vendita delle scorte, nel caso in cui i rifornimenti dal Medio
Oriente fossero stati sospesi e/o eventuali tempeste avessero devastato il Golfo
del Messico.
Poi fu la volta della guerra in Libano.
Inizialmente la crisi sembrò confermare le previsioni, aumentando soltanto la
paura di un conflitto esteso a tutta la regione, che coinvolgesse anche l’Iran.
Il prezzo del greggio raggiunse livelli da record. Nei primi giorni di guerra,
l’amministrazione Bush assecondò tacitamente Israele nell’azione contro il
Libano, credendo di poter in tal modo porre le basi per una campagna analoga
contro gli obiettivi militari iraniani. Ma il successo riscosso da Hezbollah nel
respingere l’esercito israeliano, sommato alle terrificanti immagini delle
vittime civili trasmesse, costrinse i leader statunitensi ed europei a
intercedere ponendo fine alle ostilità.
Non
sapremo mai esattamente cosa spinse la Casa Bianca a cambiare rotta in Libano,
ma il rincaro del prezzo del petrolio – e l’idea che il peggio dovesse ancora
arrivare – giocarono sicuramente un ruolo determinante nelle valutazioni del
governo americano. Non appena fu chiaro che la resistenza contro gli
israeliani era più forte del previsto, e che gli iraniani sarebbero stati capaci
di provocare danni di ogni sorta (tra cui, potenzialmente, lo scompiglio più
totale del mercato mondiale del petrolio),
i più saggi tra le schiere del partito
repubblicano conclusero senza esitazione che un’ulteriore escalation o
estensione della guerra avrebbe immediatamente spinto il prezzo del greggio
oltre i 100 dollari al barile. Il costo della benzina alla pompa sarebbe quindi
salito a 4-5 dollari al gallone, assicurando la sconfitta repubblicana alle
prossime elezioni. Questo naturalmente succedeva all’inizio dell’estate,
molto prima dell’arrivo della stagione degli uragani; sarebbe bastato aggiungere
anche solo una tempesta della stessa potenza di Katrina a questo scenario per
segnare il destino dei repubblicani Usa.
Ad ogni modo, alla fine Bush ha dato il suo consenso al segretario di Stato
Condoleezza Rice per condurre, assieme all’Europa, le trattative per fermare la
guerra in Libano, e da allora ha evitato qualsiasi accenno evidente a un
possibile attacco all’Iran. Sempre attento a non scartare in maniera esplicita
l’opzione militare quando si parla di impianti nucleari in Iran, da giugno il
presidente Bush insiste fermamente nel dare una possibilità all’intervento
diplomatico. Nel frattempo, siamo quasi riusciti a superare la stagione degli
uragani, e non una singola tempesta-catastrofe ha finora colpito gli Stati
Uniti.
Per tutte queste ragioni, nell’immediato
si sono dissipati i timori di uno scontro con l’Iran, di una possibile
estensione del conflitto ad altre regioni petrolifere del Medio Oriente, e di
eventuali uragani provenienti dal Golfo del Messico – di conseguenza il prezzo
del greggio è crollato. In aggiunta, sembra che l’economia mondiale stia
rallentando in maniera percepibile – situazione aggravata, in parte, dai
prezzi in aumento delle materie prime – portando quindi a una minore richiesta
di petrolio. Risultato? I commercianti al dettaglio hanno a portata di mano
abbondanti scorte di benzina: da qui – per la legge della domanda e dell’offerta
– i prezzi in discesa.
Trovare energia in aree di difficile accesso
Per quanto ancora prevarrà questa
combinazione di fattori?
Ipotesi migliore: il rallentamento nella
crescita economica mondiale continuerà ancora per qualche tempo, portando il
costo della benzina ad un ulteriore calo. Questo potrebbe favorire i venditori
al dettaglio giusto in tempo per Natale – stagione degli acquisti che si
prevede in generale leggera ripresa rispetto allo scorso anno, proprio grazie
alla benzina più economica.
Ma una volta trascorso il periodo
elettorale, Bush avrà meno interesse a mantenere contenuta la sua retorica nei
confronti dell’Iran, e si potrebbe assistere a una netta ripresa degli attacchi
ad Ahmadinejad. Se per la fine dell’anno non ci saranno progressi sul fronte
diplomatico, dovremo aspettarci un’accelerazione dei preparativi per la guerra –
che in realtà è già in moto – nel Golfo Persico (scenario già visto all’epoca
dei preparativi militari di fine 2002 - inizio 2003, prima dell’invasione
dell'Iraq). Tutto questo naturalmente porterà a un intensificarsi della “paura”
e all’inversione della tendenza dei prezzi della benzina, che però ripartiranno
al rialzo da un livello di molto inferiore ai 2 dollari al gallone.
Arrivati a questo punto, possiamo dire
che il recente calo del prezzo dei carburanti e l’apparente improvvisa
abbondanza relativa di petrolio smentiscano la tesi secondo la quale avremmo già
raggiunto il “peak oil”? La teoria del peak-oil, che è andata catturando
sempre maggior attenzione fino a quando il prezzo alla pompa è tornato a
scendere, sostiene che le riserve di petrolio del pianeta sono limitate e che,
non appena avremo consumato circa la metà delle riserve mondiali originarie, la
produzione raggiungerà un livello massimo o “di punta”, superato il quale la
disponibilità giornaliera entrerà in una fase decrescente senza ritorno,
nonostante gli sforzi sul fronte dell’esplorazione e delle nuove tecnologie di
estrazione.
La maggior parte degli analisti
concordano che la produzione mondiale di petrolio raggiungerà prima o poi il suo
culmine massimo, ma stabilire quando arriverà quel momento è questione ancora
aperta. Un numero sempre maggiore di esperti – molti dei quali hanno fondato
l’ASPO (Association for the Study of Peak Oil) – hanno recentemente dichiarato
che circa metà dell’originaria eredità del pianeta, consistente in 2 mila
miliardi di barili di petrolio convenzionale (allo stato liquido), sia stata già
consumata. Siamo arrivati a quel famoso peak-oil, o ci siamo comunque molto
vicini. Possiamo dunque aspettarci un imminente calo della produzione.
Nell’autunno 2005, quasi a conferma di
questa tesi, il direttore generale di Chevron, David O'Reilly, finì su giornali
e riviste a con la seguente dichiarazione: "Una cosa è certa: l’era del petrolio
a basso costo è finita... La richiesta è alle stelle, come mai prima d’ora...
Allo stesso tempo, molti bacini di petrolio e gas sul pianeta si stanno
esaurendo. Nuove riserve energetiche sono presenti in luoghi in cui tali
risorse sono difficili da estrarre – dal punto di vista fisico, economico, e
anche politico. Se l’aumento della richiesta si scontra con un’offerta sempre
più limitata, il risultato non potrà che essere lo scatenarsi di un’agguerrita
competizione per le risorse stesse".
Non è questo però lo scenario cui stiamo
assistendo. Le riserve di petrolio oggi, in effetti, sono più abbondanti di sei
mesi fa. Sono stati rinvenuti nuovi promettenti giacimenti di gas e di greggio
nel Golfo del Messico, e allo stesso tempo un contributo alle riserve mondiali è
stato dato anche dalla realizzazione di nuovi condotti – tra cui il
Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), da 4 miliardi di dollari, che va dal mar Caspio alla
costa mediterranea della Turchia. Possiamo quindi pensare che la teoria del
peak-oil sia ormai superata o che per lo meno il momento del picco sia ancora
lontano?
La situazione attuale non dovrebbe
affatto farci concludere che la teoria del peak-oil sia sbagliata. Tutt’altro.
Come suggeriva il direttore generale di Chevron, O'Reilly, le scorte
energetiche rimanenti sul pianeta sono situate per lo più "in zone in cui le
risorse sono difficili da estrarre – dal punto di vista fisico, economico, e
anche politico". Così è come stanno le cose.
Per fare un esempio, la tanto proclamata nuova scoperta nel Golfo del Messico,
la cosiddetta “Sorgente Jack No. 2” di
Chevron, è situata a 5 miglia di profondità tra mare e roccia, e circa 175
miglia a sud di New Orleans, in un’area in cui negli ultimi anni, come abbiamo
visto, gli uragani Ivan, Katrina e Rita hanno raggiunto la massima potenza,
infliggendo enormi danni alle piattaforme petrolifere al largo della costa.
Per quanto Jack No. 2 possa sembrare promettente a seguito della macchina
pubblicitaria dell’industria petrolifera, è piuttosto ingenuo escludere che in
futuro non potrà subire l’azione di uragani forza 5, soprattutto in tempi in cui
il riscaldamento globale agisce nel Golfo del Messico generando tempeste ancor
più violente. Naturalmente, Chevron non investirebbe miliardi di dollari in
costose tecnologie per sfruttare una sorgente energetica così precaria se sulla
terraferma o nei pressi della costa ci fossero opportunità migliori – la maggior
parte delle riserve facilmente accessibili, però, sono ormai esaurite, lasciando
ai magnati ben poca scelta.
E parliamo pure del condotto BTC,
altrettanto decantato, che nel mese di luglio ha trasportato il suo primo carico
di petrolio, paternamente assistito dai più alti funzionari statunitensi.
Il condotto si estende lungo un percorso
di 1.040 miglia da Baku, nell’Azerbaijan, al porto mediterraneo di Ceyhan, in
Turchia, attraversando non meno di sei potenziali o effettive zone di guerra:
l’enclave armena di Nagorno-Karabakh, nell’Azerbaijan; la Cecenia e il Dagestan
in territorio russo; l’Ossezia del Sud e l’Abkazia, aree musulmane separatiste
in Georgia; infine, le regioni curde in Turchia. Sono questi i luoghi in
cui chiunque sia sano di mente costruirebbe un condotto petrolifero? Certamente
no, se non fosse alla disperata ricerca di petrolio, e se i giacimenti più
sicuri non si stessero prosciugando.
In realtà, quasi tutti gli altri nuovi giacimenti acquisiti o presi in
considerazione dagli Stati Uniti e dalle compagnie energetiche internazionali –
come la riserva ANWR in Alaska, le giungle colombiane, la Siberia
settentrionale, l’Uganda, il Chad, l’isola di Sakhalin all’estremità orientale
della Russia – sono situati in aree difficilmente accessibili, ecologicamente
sensibili, o semplicemente pericolose. La maggior parte di questi giacimenti
verranno sfruttati e produrranno rifornimenti di petrolio supplementari, ma se
si è costretti ad appoggiarsi a queste zone significa che il peak-oil è già
realtà e che, in generale, il prezzo del petrolio, nonostante alcune flessioni,
tenderà a salire, perché i costi di produzione in queste insidiose zone
continueranno a salire a loro volta.
La vita sull’altopiano del peak-oil
I teorici del peak-oil, tuttavia,
affermando a scopo retorico che “il momento fatidico sarà... un picco
decisamente a punta”, rendono un disservizio un po’ a tutti. Descrivono
un grafico in cui la curva di produzione sale semplicemente e rapidamente verso
l’alto giungendo a un apice, cui segue una discesa altrettanto netta e ripida.
Forse, guardando indietro tra 500 anni,
questo periodo potrà essere raffigurato proprio così sui grafici dei produttori
mondiali di petrolio. Ma per noi che lo viviamo adesso, il “picco” sembra più
che altro un altopiano – che durerà forse una decina d’anni o più –
all’interno del quale la produzione globale di greggio attraverserà
occasionalmente alti e bassi senza sostanziali impennate (come sostiene chi
rifiuta la teoria del peak-oil) o cadute precipitose (come predetto invece dai
suoi più accaniti sostenitori).
In questo “periodo di mezzo”, eventi
particolari – un uragano, lo scoppio di un conflitto in una regione petrolifera
– limiteranno temporaneamente i rifornimenti, facendo salire il costo dei
carburanti; la realizzazione di nuovi bacini o condutture – o più semplicemente,
come sta accadendo oggi, l’attenuazione dei timori immediati e un incremento
temporaneo delle scorte energetiche – produrranno un calo dei prezzi.
Alla fine, inevitabilmente, raggiungeremo l’estremità dell’altopiano, e il
declino previsto dai teorici potrà avere inizio.
Nel frattempo, viviamo su questo
altopiano, nel bene e nel male. Se quest’anno la stagione degli uragani passerà
senza tempeste di rilievo, e se i prossimi mesi trascorreranno senza nuove gravi
crisi in Medio Oriente, allora è probabile che il 2007 inizierà con un ribasso
del costo dei carburanti come non si vedeva da tempo. Ma che non è, in
realtà, sintomo di una comprovata tendenza. Dato che le riserve mondiali di
petrolio non saranno mai più realmente abbondanti, basterà un nuovo sussulto a
riportare il prezzo del greggio sugli 80 dollari al barile e oltre. Questo è il
mondo in cui viviamo; la situazione non migliorerà fino a che non riusciremo a
dare vita a un nuovo sistema energetico, basato su fonti alternative al petrolio
e combustibili rinnovabili.
Micheal T. Klare è docente all’Università di
Hampshire, Massachusetts, dove insegna Pace e Sicurezza Mondiale. È autore di 'Blood
and Oil: The Dangers and Consequences of America’s Growing Dependence on
Imported Petroleum' e di 'Resources Wars, The New Landscape of Global Conflict'.
Traduzione a cura di Francesca Campisi
per Nuovi Mondi Media
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Fonte - www.tomdispatch.com |
Mercoledì
4
ottobre 2006 |
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Lunedì
9
ottobre 2006 |
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10
ottobre 2006 |
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ALLARME TASSI AL 4%
4 Ottobre 2006 Milano -
di La Lettera Finanziaria
Il denaro facile è morto. Questa la sensazione degli economisti di
Morgan Stanley, secondo i quali la Bce si appresterebbe a condurre una
vera e propria campagna di rialzi del costo del denaro in Eurolandia.
"Nell'Eurozona, il ciclo del denaro facile è alla fine'', spiegano gli
analisti della prestigiosa banca d'affari, secondo i quali Fraconforte
alzerà il tasso refi al 3,25% domani 5 ottobre, per poi portarlo a fine
anno al 3,50%.
Ma gli interventi non finiscono qui perché, dicono gli economisti di
Morgan Stanley ''c'è il rischio significativo che la Bce non si fermerà
al livello di supposta neutralità. Noi lo ipotizziamo al 3,5%, ma
Francoforte porterà il costo del denaro all'interno di un sentiero
restrittivo anche nel 2007. Alcuni membri del Board della banca centrale
vedono infatti il livello di neutralita' al 4% e anche oltre''. Per
Morgan Stanley quindi, l'impostazione restrittiva della Bce, che segue
quella praticata dalla Fed drenando liquidità, renderà più vulnerabili i
prezzi dei bond e il mercato obbligazionario potrebbe avviarsi lungo un
classico sentiero ''bearish''.
D’altra parte, un aumento dei tassi di un quarto di punto al 3,25% viene
dato per certo da tutti gli analisti, secondo i quali la Bce, nella
riunione del consiglio direttivo in programma il 5 ottobre a Parigi,
sceglierà di continuare la stretta in modo graduale.
I dubbi degli esperti riguardano invece l'orientamento per il 2007 della
banca centrale europea. Su un pool di 30 economisti interpellati dalle
agenzie di stampa Afx news e France Presse, 29 prevedono un aumento al
3,25% e uno solo punta su una mossa unica di 50 punti base nell'incontro
in programma dopodomani. Per 28 economisti, la Bce continuerà la stretta
con un secondo aumento da un quarto di punto al 3,5% a inizio novembre.
Riguardo alla riunione di Parigi, dice Jonathan Loynes di Capital
Economics, "qualsiasi cosa che non fosse un aumento di un quarto di
punto, sarebbe un vero shock per i mercati e farebbe sorgere gravi dubbi
sulla capacità di comunicazione della Bce".
Nella conferenza stampa di dopodomani, gli osservatori studieranno
quindi molto attentamente le parole del presidente della Bce,
Jean-Claude Trichet il quale, dopo aver parlato di un atteggiamento
"molto vigile" nello scorso appuntamento con la stampa (a fine agosto)
per preparare l'aumento di giovedì prossimo, dovrebbe ora annunciare
l'intenzione di "monitorare con molta attenzione" tutti i rischi
inflazionistici. Questa frase, secondo molti analisti, segnalerebbe
l'intenzione di aumentare nuovamente i tassi di interesse fra due mesi,
in dicembre.
Anche un lieve cambiamento di tono potrebbe essere indicativo:
"un'espressione alternativa - dice Julian Callow di Barclays Capital -
potrebbe essere 'monitorare con attenzione', il che suggerirebbe che la
Bce non è sicura se aumentare nuovamente i tassi in dicembre". Inoltre,
se Trichet ribadirà la necessità, a fronte di una crescita economica in
linea con le previsioni, di "una graduale rimozione della posizione
accomodante della politica monetaria", questo sarebbe un chiaro segnale,
dicono gli esperti, che la Bce non si fermerà al 3,5% di dicembre.
L'aumento dei tassi di un quarto di punto previsto dopodomani a Parigi
sarebbe il quinto per la Bce da quando è partita la stretta nel dicembre
scorso e riporterebbe il tasso di riferimento al livello del novembre
2002. Il 3,5% che dovrebbe essere raggiunto in dicembre si
collocherebbe, secondo gli esperti, nella parte bassa di una gamma
'neutrale' di tassi che viene considerata la più adeguata alla luce dei
rischi per crescita e inflazione del 2007 e che potrebbe rappresentare
il picco della stretta. "Il ciclo restrittivo - prevede Peter Vanden
Houte di Ing - riprenderà solo dopo che il temporaneo rallentamento
della crescita previsto per il 2007 si sarà concluso, probabilmente
verso la fine di quell’anno".
Fonte -
La Lettera Finanziaria
|
LA
BCE ALZA I TASSI DI 25 PUNTI BASE
5 Ottobre 2006 Siena -
di MPS Finance
Oggi l’evento più importante è la riunione della Bce, che si dovrebbe
concludere con un rialzo dei tassi di 25 pb e la riunione della Boe che
dovrebbe lasciare i tassi invariati al 4,75%. Più importante sarà la
conferenza stampa di Trichet successiva alla riunione, che dovrebbe
confermare la prosecuzione del rialzo del tasso di riferimento.
Tassi di Interesse: in area euro tassi di mercato in calo su tutta la
curva, sebbene il comparto a medio lungo termine resti quello più
penalizzato. Si restringe lo spread sul tratto 2-10 anni tornato intorno
ai 12pb, mentre il forte calo del prezzo del petrolio ha determinato un
calo delle breakeven. Oggi è attesa la riunione della Bce, che dovrebbe
confermare l’attesa di un rialzo di 25pb, con possibile rialzo dei tassi
di mercato che dovrebbe però risultare più accentuato sulla parte a
breve termine, con un appiattimento della curva sul tratto 2-10.
Negli Usa tassi di mercato nuovamente in calo dopo i dati macro peggiori
delle attese. Inoltre Bernanke ha dichiarato che il rallentamento del
settore immobiliare dovrebbe togliere circa l’1% alla crescita del
semestre in corso. Al momento l’oscillazione del tasso decennale si
mantiene ricompressa nel range 4,55/4,65%. I dati sul mercato del lavoro
di venerdì possono comportare movimenti nel breve, se particolarmente
disallineati rispetto al consensus. Il forte calo delle materie prime
potrebbe però ridimensionare la percezione dell’impatto atteso del
rallentamento del settore immobiliare e contribuire a prese di profitto
nel corso di ottobre, con primo obiettivo 4,72%. Nel frattempo,
verificheremo soprattutto domani la tenuta del supporto a 4,5% sul
decennale.
Valute: il Dollaro continua a non risentire del flusso di dati macro che
segnalano un rallentamento dell’economia, come nel caso dell’indice Ism
non manifatturiero. La ragione principale potrebbe risiedere nel forte
calo delle materie prime attraverso due canali di trasmissione: 1)
percezione di un rallentamento meno accentuato rispetto a quanto
segnalato da altri indicatori; 2) gli hedge funds stanno evidenziando
difficoltà di fronte al forte ridimensionamento delle commodity e di
conseguenza accelerano la chiusura di posizioni lunghe di Euro vs.
Dollaro anche per ragioni di carry sfavorevole, ancor più evidenti dopo
oltre due mesi di oscillazioni piuttosto contenute. Per oggi, per quanto
possa sembrare noioso, si riconferma pertanto il trading range
1,265/1,275. In apprezzamento lo Yen dopo che il membro della BoJ,
Toshiro Muto, ha dichiarato che la banca centrale aumenterà i tassi
gradualmente fino a quando i prezzi al consumo continueranno a crescere.
Ha altresì aggiunto che al momento la banca centrale non ha deciso
quando ci sarà il prossimo rialzo. Contro Euro un primo supporto passa
da 149 circa, mentre quello più importante è situato a 148,55.
Materie Prime: dopo una sessione caratterizzata dal segno meno, il
prezzo del greggio Wti chiude la sessione sopra i 59 $/b. A convincere
gli speculatori, è stata la diffusione della notizia secondo cui l’Opec
sarebbe pronta a ridurre la produzione di greggio per evitare forti cali
dei prezzi. Secondo il Financial Times Kuwait, Iran, Venezuela e Nigeria
si sono informalmente accordati a ridurre la produzione di 1 Mln b/g.
Ricordiamo che il presidente Opec è il ministro del petrolio della
Nigeria. Poco peso è stato dato al rialzo delle scorte statunitensi che
continuano così a mantenersi sopra la media di periodo. Il rialzo è da
imputare anche alla ripresa dell’attività della Prudhoe Bay in Alaska.
In controtendenza i settori industriali e dei preziosi, con rame ed oro
in calo del 2,7% e 2,48% rispettivamente.
Fonte -
MPSFinance
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Attenzione al ciclo del dividendo
17 Ottobre 2006 0:40 Milano - di Francesco
Arcucci
_______________________________________________
All’inizio del 2000 il grande rialzo del
mercato azionario di New York, che era cominciato nell’agosto del 1982 con
l’indice Dow Jones dei titoli industriali a 776, ha toccato un massimo.
Per la verità il Dow Jones dei Trasporti ha registrato un picco nell’aprile del
1999 a 3783. Il Dow Jones ha continuato a salire fino al 14 gennaio 2000 a
11.722 e l’indice Standard & Poor’s ha raggiunto un massimo a 1540 il 24 marzo
del 2000. Tutti questi indici sono scesi nettamente fino all’ottobre 2002, ma
poi hanno ripreso a salire al punto che l’indice Dow Jones dei Trasporti ha
superato, nel dicembre 2004, il massimo dell’aprile 1999 e ha continuato ad
apprezzarsi fino ad un nuovo picco registrato all’inizio di maggio 2006.
In quegli stessi giorni il Dow Jones si è avvicinato di nuovo a 11.700, mentre
lo Standard & Poor’s, sempre nelle stesse sedute, toccava 1330 rispetto a 1540
del 24 marzo 2000. I valori di maggio 2006, dopo una flessione durata fino al 18
luglio (Standard and Poor’s a 1219), sono stati reiterati in questi ultimi
giorni e anzi superati, seppur di poco.
Se
questi sono i principali paletti della borsa americana e se l’economia degli
Stati Uniti è nel complesso piuttosto forte e stabile, perché allora pensare ad
un probabile ribasso dei corsi di borsa?
Il motivo è che, studiando la storia
economica e quella del mercato azionario di New York in particolare, si può
identificare un fenomeno che ricorre con la massima affidabilità. Questo
fenomeno si chiama "ciclo del dividendo". Storicamente, cioè, il rapporto fra
dividendo e prezzi oscilla fra il 3%, in corrispondenza dei valori massimi
dell’indice, e il 6%, in corrispondenza dei valori minimi dell’indice. I
movimenti di lungo termine del mercato azionario si svolgono in cicli, anche se
non regolari, da situazioni di sopravvalutazione (rapporto dividendo/prezzi
eguale o inferiore al 3%) a situazioni di sottovalutazione (rapporto
dividendo/prezzi eguale o superiore al 6%). Questo ciclo del dividendo è una
costante da quando il mercato azionario americano esiste e cioè quasi da 200
anni.
Nel 2000, nel pieno della bolla
speculativa, il dividendo scese addirittura a 1,70%, ma anche adesso lo troviamo
a 2,25% che corrisponde ai valori dell’indice vicino ai massimi piuttosto che
vicino ai minimi.
Neanche la forte flessione dalla primavera 2000 all’ottobre 2002 ha mai prodotto
una situazione di sottovalutazione e il successivo rialzo dei prezzi ha
abbassato ulteriormente il valore del rapporto in parola.
Il motivo per il quale questo contesto
di sopravvalutazione del mercato azionario è in essere da più di sei anni è che
la Fed ha iniettato nel sistema economico moltissima liquidità al fine di
ostacolare le forze naturali della correzione dei prezzi di borsa. Al posto
della correzione dei corsi si è creata la più grande massa di debiti pubblici e
privati che mai sia stata registrata negli Stati Uniti.
In
particolare si è ecceduto drammaticamente nella concessione di crediti anche ad
imprese e famiglie scarsamente solvibili. Mutui al 110% del valore degli
immobili, mutui in cui è previsto solo il pagamento degli interessi, concessioni
di carte di credito a pensionati, studenti e casalinghe già indebitate e con un
pessima storia alle spalle di mancati rimborsi sono diventati la norma negli
Stati Uniti. E’ questa grande massa di liquidità che ha ostacolato la sequenza
del ciclo da sopravvalutazione a sottovalutazione.
Siamo rimasti per anni in fase di sopravvalutazione e la Fed si rifiuta di
rallentare la creazione di liquidità per paura di una recessione economica. Un
po’ lo sta già facendo da qualche mese, ma con grande timidezza. Prima o poi la
battaglia per tenere lontane le forze della correzione sui mercati azionari sarà
perduta poiché il ciclo del dividendo ha una sua logica intrinseca (fondata
sulle ondate di ottimismo e pessimismo della popolazione) che nessuna banca
centrale può contrastare indefinitamente.
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Fonte - La Repubblica |
Parla Soros: Hedge Funds fuori
controllo
17 Ottobre 2006 11:31 Tokyo -
di Stefano Carrer
_____________________________________________
Sono
"troppo numerosi" e fanno "troppo leverage”, ossia agiscono
attraverso un eccesso di indebitamento: perciò non si può negare che
costituiscano un "rischio sistemico" per i mercati finanziari.
Gli hedge funds sono sempre
più in sospetto, specialmente dopo che le perdite da $6 miliardi del
fondo Amaranth hanno alzato la soglia di allarme su un settore
cresciuto senza trasparenza fino a un vortice di $1.500 miliardi.
Ma se a dirne male è proprio
il pioniere e il campione dell'investimento speculativo e
alternativo, l'opinione assume una valenza particolare:
George Soros, 76 anni, è l'uomo che lanciò il suo hedge fund nel
lontano 1969,è il finanziere d'assalto che mise in ginocchio la
Banca d'Inghilterra e la sterlina nel mercoledì nero del 16
settembre 1992, è il “criminale di guerra economica” (parole del
primo ministro malese di allora) della crisi finanziaria asiatica
del '97. Poi, certo, è anche l'uomo che con le sue fondazioni spende
400 milioni di dollari l'anno per promuovere la diffusione della
democrazia in modo “soft” e che finora ha elargito 4 miliardi di
dollari in iniziative benefiche.
A Tokyo per presentare
l'edizione giapponese del suo libro «The Age of Fallibility»
(tradotto con un altro titolo: «Il collasso dell'ordine mondiale»),
Soros misura parole che suonano piuttosto preoccupanti per il mondo
finanziario, mentre per i destini più generali del globo le
sue tesi appaiono anch'esse allarmanti, almeno finché non ci sarà
una svolta nella politica estera americana oggi guidata dalla sua
bestia nera, George Bush.
Ritiene che gli hedge funds stiano ponendo le basi per una
destabilizzazione dei mercati finanziari, oppure le rinnovate
preoccupazioni odierne le paiono eccessive?
Io sono ovviamente un sostenitore degli hedge funds come modalità
operativa e strumento importante per consentire agli investitori di
fare profitti. Ma quando diventano troppo numerosi e assumono un
ruolo di fattore importante sul mercato, sorgono pericoli. E
il pericolo consiste
principalmente nel leverage: non sono solo hedged, ma anche
leveraged. Proviamo a immaginare che il mercato consista solo di
hedge funds: allora la loro performance corrisponderebbe a quella
media generale del mercato, eccetto per l'uso del leverage. Un uso
improprio della leva finanziaria può provocare “dislocations”.
Di qui le paure di default, specie legate a strumenti assicurativi
ed esotici con cui non sono nemmeno in familiarità perché sono nati
solo recentemente. Sì, io
penso che c'è un rischio di “sistemic dislocations”.
Nel giugno scorso la magistratura ha bloccato i tentativi della Sec
di introdurre maggiore trasparenza. Cosa pensa degli sforzi delle
autorità di regolamentazione in questo senso?
Penso che le autorità siano ben consapevoli di questo. Ci sono
sforzi di portare sotto controllo il rischio. Ciò comporta però a
mio parere la necessità di portare sotto controllo l'uso del
credito, non tanto quella di mettere sotto tiro gli hedge funds in
quanto tali.
L'Asia è sotto i riflettori. Cosa pensa del clima per gli
investimenti stranieri in Giappone?
Non sono più coinvolto direttamente nelle decisioni sugli
investimenti. Penso che ci siano varie società giapponesi che, dopo
aver fatto grandi progressi di ristrutturazione, costituiscano oggi
interessanti occasioni di investimento. Sempre che il prezzo non sia
eccessivo.
Della Cina che opinione ha?
In generale, è un peccato
che il governo non approfitti della nuova situazione economica di
prosperità per aprire il sistema. Il che potrebbe portare a gravi
problemi politici nel caso di una eventuale crisi economico
finanziaria. Penso che Pechino dovrebbe consentire al renminbi di
fluttuare liberamente: lo stanno ammettendo al rallentatore,
perché la preoccupazione numero uno del governo è la stabilità.
Sono in tanti a preoccuparsi per la corsa cinese all'accaparramento
delle materie prime...
Non vorrei dare l'impressione di dire che anche questo è colpa di
Bush. Pero' il fatto che non sia stato consentito ai cinesi di
acquistare la compagnia petrolifera californiana Unocal ha fornito
loro la perfetta scusa per andare a fare accordi anche con i regimi
più duri in giro per il mondo.
La storia
George Soros nasce nel 1930 a Budapest da una famiglia dell'alta
borghesia ebraica. Nel '47 si trasferisce a Londra per studiare alla
London School of Economics, dove ha avuto come docente il filosofo
Karl Popper, dal quale è stato fortemente influenzato. Nel '56 parte
per New York e nel '69 fonda la Quantum Fund,per anni la famiglia di
fondi più capitalizzata del mondo.Tra le iniziative che lo hanno
reso celebre, la speculazione che il 16 settembre del 1992 mette in
ginocchio Banca d'Inghilterra e sterlina. Diventa il «criminale di
guerra economica» (parole del primo ministro malese di allora) della
crisi finanziaria asiatica del '97. Al tempo stesso alle opere
benefiche (ha elargito oltre 4 miliardi di dollari).
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Fonte - Il Sole 24 Ore |
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Ecco gli effetti dello sboom immobiliare USA
24 Ottobre 2006 Roma
- di *Giovanni Ajassa
________________________________________
Nel
gergo anglofilo della pubblicistica economica un trilione sta per mille
miliardi. Il valore in dollari del prodotto interno lordo degli Stati Uniti è
stato pari a 12,4 trilioni di dollari nel 2005. Il valore in dollari raggiunto a
metà del 2006 dall’indebitamento delle famiglie americane si è attestato a 12,4
trilioni di dollari.
Il numero è stato recentemente
aggiornato dalla Federal Reserve nella pubblicazione periodica sul flusso di
fondi tra i settori istituzionali. Tenendo conto della sfasatura di un semestre
tra i due dati, ad ogni dollaro di prodotto degli Stati Uniti corrisponde oggi
poco meno di un dollaro di debito delle famiglie americane. Non è poco.
Guardando all’Italia, i dati ci dicono che il PIL del 2005 è stato pari 1,4
trilioni di euro mentre l’indebitamento delle famiglie italiane alla fine dello
scorso anno si è attestato intorno agli 0,4 trilioni di euro. Per un euro di
prodotto lordo da noi ci sono meno di 30 centesimi di debito familiare. Meno di
un terzo rispetto a quanto accade in America. La peculiarità delle
famiglie USA vale anche nel confronto rispetto a paesi del Vecchio Continente
finanziariamente più sofisticati del nostro.
In Francia, ad esempio, il rapporto tra debiti finanziari delle famiglie e
prodotto interno lordo si è attestato nel 2004 intorno al 40%. In Germania è
pari al 70%. In Spagna è del 63%. Nella media dell’area dell’euro ci si colloca
intorno al 55%, ben al di sotto del grado di indebitamento raggiunto ora negli
USA.
Ciò che colpisce del debito delle
famiglie americane, oltre al livello, è la dinamica. Alla metà degli anni
Novanta il rapporto tra i debiti finanziari delle cosiddette "household" e il
PIL era pari al 66% negli USA. Saliva al 72% nel 2000. Oggi ci avviciniamo al
100%. E dall’inizio del nuovo millennio la progressione annuale di
crescita dei debiti delle famiglie americane non è mai scesa al di sotto del 9%
con punte reiterate dell’ordine del 12%.
Nell’ultimo quinquennio il debito degli americani è salito a ritmi esattamente
analoghi a quelli della crescita del prodotto non negli USA, ma in Cina.
E’ questa l’impressione che coglie chi legge i
numeri pubblicati nella prima delle 85 tabelle riportate nel bel documento della
Fed sul flusso dei fondi. Andando avanti nella pubblicazione, si scopre che
il grosso del debito delle famiglie
americane è fatto di mutui sulla casa. Parliamo di 9,3 trilioni di dollari. Con
un cambio di 1,25 dollari per euro, si tratta di un ordine di grandezza non
molto inferiore al valore del PIL dell’intera area euro nel 2005.
Per parecchi anni la crescita dell’economia
americana ha tratto vantaggio da un poker di elementi: la continua ascesa dei
prezzi e delle quantità scambiate sul mercato degli immobili, il vivace
andamento degli investimenti in costruzioni, i bassi tassi di interesse, la
capacità tutta americana di estrarre liquidità spendibile dalla rivalutazione
delle case attraverso un aumento dell’indebitamento familiare. Tra la fine del
2000 e la metà del 2006 la ricchezza immobiliare delle famiglie americane è
quasi raddoppiata passando da 11,4 trilioni a 20,3 trilioni di dollari.
Negli stessi anni un aumento speculare è stato segnato dalla consistenza dei
mutui residenziali in capo alle "household" che in cinque anni e mezzo è
pressocché duplicata rispetto ai 4,8 trilioni di dollari del 2000. La Fed ha
stimato che una parte maggioritaria degli aumenti dei mutui degli anni recenti
sia legata a operazioni di rifinanziamento rese possibili dalla concomitanza tra
i bassi tassi di interesse e il costante apprezzamento delle quotazioni
immobiliari. E tra il 2000 e la metà del
2006, oltre ai mutui, è aumentato anche il credito al consumo. L’ammontare in
questione è salito del 33%, da 1,7 a 2,3 trilioni di dollari. Tradotto in euro,
il credito al consumo di cui godono le famiglie americane equivale al PIL della
Francia.
Negli USA, debiti e mattone hanno
prodotto molta crescita, ma anche crescenti squilibri. La propensione al
risparmio delle famiglie americane è divenuta negativa nel 2005: dal +2%
sul reddito disponibile registrato ancora nel 2004 si è scesi al 0,4% dello
scorso anno e al 0,7% stimato per quest’anno. Facendo i conti in dollari, nella
prima metà del 2006 il deficit di risparmi rispetto al reddito disponibile degli
americani, una volta proiettato sul base annua, supera i 60 miliardi rispetto ai
35 del 2005.
L’eccedenza dei consumi sul reddito
delle famiglie si riflette sul disavanzo di parte corrente degli USA che si
avvia quest’anno ad avvicinare la soglia del 7 per cento sul PIL. I risparmi
negativi degli americani premono sulla capacità produttiva del paese e creano
spinte inflattive di origine interna che si leggono negli aumenti effettivi
della cosiddetta "core inflation". Dal lato del cambio, le pressioni
verso un maggiore deprezzamento del dollaro sono state contenute dalla corrente
di acquisti di titoli americani da parte degli investitori stranieri,
soprattutto asiatici. Ma i dati sul
flusso dei fondi aggiornati dalla Riserva federale segnalano che l’appetito del
resto del mondo per la carta del tesoro americano sta diminuendo.
Negli ultimi due anni il peso crescente del
debito delle famiglie e la delicata situazione del mercato immobiliare hanno
indotto la Fed ad usare prudenza nella manovra di rialzo dei tassi di interesse.
Oggi le cose appaiono complicarsi ulteriormente. Si osservano i segni di
rallentamento dei consumi privati che decelerano nel II trimestre ad un tasso
annuo di incremento del 2,6%. Si tratta di movimenti attesi, considerando gli
effetti ritardati di un biennio di aumenti dei tassi di "policy". Ciò che attira
maggiormente l’attenzione è la netta correzione di rotta del mercato immobiliare
e dell’industria delle costruzioni.
Il "Beige book" pubblicato dalla Fed lo
scorso 12 ottobre parla di un diffuso raffreddamento del settore degli immobili
residenziali. L’ultimo bollettino mensile della NAR, l’associazione degli
agenti immobiliari americani, segnala ad agosto un calo dei prezzi registrati
nelle vendite di case esistenti pari a poco meno del 2% su base annua. Con
riferimento allo stesso periodo del 2005, il prezzo medio di una casa scende da
229mila a 225mila dollari. Il numero delle vendite diminuisce di circa il 13%
rispetto ad un anno fa. Gli immobili non nuovi che risultano invenduti salgono
di più di un milione di unità in un anno, dai 2,8 milioni di agosto 2005 ai 3,9
milioni di agosto 2006. Riguardo alle case nuove, sui conti del secondo
trimestre del PIL americano il contributo degli investimenti in costruzioni
residenziali è stato negativo ed ha sottratto quasi ¾ di punto ad una crescita
annualizzata complessiva di 2,6 punti percentuali.
Di fronte alla flessione
dell’immobiliare qualcuno ha paventato il rischio che l’economia americana possa
entrare in recessione. Si tratta di apprensioni eccessive. Secondo Philippe d’Arvisenet,
global chief economist di BNP Paribas, è ragionevole prevedere un netto
rallentamento, ma non ci sono fondati motivi per attendersi una recessione negli
Stati Uniti. Nelle previsioni compiute dagli economisti del gruppo
transalpino la crescita degli USA potrà calare dal 3,3% stimato per il 2006
all’1,6% previsto per il 2007.
Il calo dipenderà, soprattutto, dalla
correzione del mercato immobiliare e dagli effetti depressivi che saranno
mediati dalla pesante situazione debitoria delle famiglie americane. Una
condizione dei mercati finanziari internazionali certamente migliore di quella
della fine degli anni Novanta e la possibilità di un ammorbidimento della
politica monetaria della Fed contribuiranno a contenere la misura del
rallentamento americano. La decelerazione dell’economia USA non sarà di aiuto
per le economie europee.
L’ultimo Rapporto di Previsione edito da Prometeia stima che lo "shock" di una
riduzione del 20% del prezzo delle abitazioni degli USA potrebbe ribassare di
circa mezzo punto percentuale la crescita europea nel giro di tre anni. Il
rischio dovrà essere mutato in opportunità. All’Italia, che colloca sul mercato
statunitense l’otto per cento delle proprie esportazioni, la prospettiva di un
rallentamento americano servirà di ulteriore stimolo per mettere le cose in
ordine in casa nostra. E diversificare le fonti interne ed esterne di una
crescita più solida.
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Fonte - Affari & Finanza - La Repubblica |
TASSI USA:
LA FEDERAL RESERVE LI LASCIA INVARIATI
25 Ottobre 2006 20:13 New York
- di Wall Street Italia
______________________________________________
Come ampiamente atteso dal mercato, il
Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Federal
Reserve, ha lasciato invariato il costo del denaro degli Stati
Uniti.
Il target sui fed funds e' dunque fermo al 5.25%. Nella riunione
dello scorso 8 agosto, la decisione di non ritoccare i tassi, poi
confermata in quello del 20 settembre, aveva chiuso la serie di
rialzi durata per ben due anni. Il primo rialzo della serie fu
deciso nel meeting del Fomc del 30 giugno del 2004.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano
del documento ufficiale della Federal Reserve:
La crescita economica ha subito un rallentamento nel corso
dell’anno, riflettendo parzialmento il raffreddamento del settore
immobiliare. Proseguendo, sembra che l’economia debba espandersi ad
un tasso moderato.
I segnali relativi all’inflazione core sono stati piuttosto elevati,
e gli alti livelli dell’utilizzazione delle risorse hanno il
potenziale di sostenere ulteriori pressioni inflazionistiche.
Tuttavia, queste sembrano dover calmarsi nel tempo, come conseguenza
dell’abbassamento dei costi energetici e sulla scia delle
aspettative contenute sull’inflazione, nonche’ grazie alle azioni di
politica monetaria ed altri fattori capaci di contenere la domanda
aggregata.
Tuttavia, il Comitato ritiene che alcuni rischi inflazionistici
ancora restano. La modalita’ e i tempi di qualsiasi azione di
politica monetaria che potrebbe essere necessaria per contenere tali
rischi dipenderanno dall’evoluzione dell’outlook inflazionistico e
delle crescita economica, cosi’ come sara’ implicato dalle
informazioni rilasciate quotidianamente.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono
stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman;
Susan S. Bies; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S.
Mishkin; Sandra Pianalto; William Poole; Kevin M. Warsh; e Janet L.
Yellen. A votare contro e’ stato Jeffrey M. Lacker che avrebbe
preferito un incremento di 25 punti base del target sui fed funds
nel meeting giornaliero.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione
della Federal Reserve di lasciare il tasso interbancario al 5.25%:
The Federal Open Market Committee
decided today to keep its target for the federal funds rate at 5-1/4
percent.
Economic growth has slowed over the course of the year, partly
reflecting a cooling of the housing market. Going forward, the
economy seems likely to expand at a moderate pace.
Readings on core inflation have been elevated, and the high level of
resource utilization has the potential to sustain inflation
pressures. However, inflation pressures seem likely to moderate over
time, reflecting reduced impetus from energy prices, contained
inflation expectations, and the cumulative effects of monetary
policy actions and other factors restraining aggregate demand.
Nonetheless, the Committee judges that some inflation risks remain.
The extent and timing of any additional firming that may be needed
to address these risks will depend on the evolution of the outlook
for both inflation and economic growth, as implied by incoming
information.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke,
Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Susan S. Bies; Donald
L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto;
William Poole; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen. Voting against
was Jeffrey M. Lacker, who preferred an increase of 25 basis points
in the federal funds rate target at this meeting.
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Fonte -
Wall Street Italia.com |
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Lo scacchiere economico e i record di Borsa
25 Ottobre 2006 Milano
- di Maria Grazia Briganti
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Il Dow Jones tocca livelli mai
raggiunti, in un quadro macro che non è più quello che ha alimentato la crescita
dei mercati azionari negli ultimi anni. Per comprendere quali potranno essere
gli scenari futuri, bisogna tenere d’occhio la congiuntura e la liquidità
internazionale, senza trascurare i possibili effetti dell’elevato indebitamento
statunitense.
Immaginiamo di mettere su una grande scacchiera le pedine economiche che contano
nell’attuale quadro macro: la crescita del Prodotto interno lordo (Pil)
americano e mondiale, l’inflazione, i tassi di interesse, il prezzo del petrolio
e la massa di liquidità presente sul mercato. Ciascuna pedina può andare in
diverse direzioni e, a secondo di dove la spostiamo, cambia lo schema del gioco
e il risultato.
Negli ultimi anni lo scenario è stato
caratterizzato da una solida crescita economica, inflazione contenuta, tassi di
interesse bassi, prezzi del greggio e dell’oro alti e un’abbondante liquidità
che ha ridotto il premio per il rischio degli investimenti azionari e
obbligazionari. Il risultato è stato un rialzo delle Borse (l’indice Msci
globale ha guadagnato oltre il 40% in tre anni), che, però, non è stato
accompagnato da un crollo del reddito fisso, perché, nonostante il rialzo dei
saggi di riferimento da parte delle banche centrali, i rendimenti dei titoli
decennali sono rimasti vicini ai minimi storici.
Oggi questo scenario è mutato. La
congiuntura americana dà segnali di rallentamento (+2,6% il Pil nel secondo
trimestre contro il +5,6% del primo), ma quella mondiale è ancora sul sentiero
di una solida crescita: il Fondo monetario internazionale (Fmi) stima un
incremento del 5,1% nel 2006, trainato dai Paesi emergenti. L’inflazione è in
aumento su base annua, nonostante gli ultimi dati mensili siano stati migliori
delle stime. Negli Stati Uniti, la fase di rialzo dei tassi di interesse si è
interrotta e l’ultimo intervento il presidente della Federal Reserve, Ben
Bernanke, ha alimentato le attese per un taglio nei prossimi mesi. Il prezzo del
petrolio è sceso del 23% dai massimi dell’estate a causa della diminuzione della
domanda, del leggero incremento della produzione e di una riduzione della
componente speculativa.
Cosa accadrà nei prossimi mesi? Gli
economisti non sono concordi nel prevedere la direzione futura delle diverse
pedine. Come osserva Maurizio Novelli, economista di Rasini & C., l’enorme massa
di liquidità ha sostenuto lo sviluppo e le Borse negli ultimi quattro anni ed è
stata alimentata principalmente dalla crescita dei consumi statunitensi, resa
possibile dal ricorso all’indebitamento. La domanda privata ha accentuato lo
squilibrio della bilancia con l’estero per effetto dell’incremento delle
importazioni. A loro volta, i Paesi esportatori hanno utilizzato i dollari
accumulati per comprare titoli di Stato americani, finanziando il deficit
pubblico degli Usa. Insomma, è stato un periodo vissuto sul debito e sul ricorso
alla leva (ossia su una spesa superiore alla disponibilità finanziaria).
Nonostante i numerosi rialzi dei tassi
da parte della Fed, i consumi americani continuano ad essere elevati grazie
all’incremento dei salari. Di conseguenza, né la liquidità internazionale né
l’indebitamento si sono ridimensionati. Se, tuttavia, i consumi americani
frenassero, le conseguenze sull’economia potrebbero essere significative,
in quanto gli effetti del rallentamento potrebbero essere amplificati
dall’elevata leva, analogamente a quanto avviene per gli investimenti finanziari
speculativi.
E’ da capire, dunque, quale sarà la mossa della pedina economica americana
(anche se non bisogna trascurare altri fattori, primo fra tutti quello
denunciato dall’Fmi di misure protezionistiche che ostacolano il commercio
internazionale e quindi lo sviluppo). Secondo alcuni esperti, la congiuntura a
stelle e strisce dovrà “per forza” frenare; secondo altri la crescita si
manterrà sostenuta. Nel primo caso si potrebbe passare rapidamente da uno
scenario inflativo a uno deflativo, con conseguente spazio per un ribasso dei
tassi di interesse; nel secondo i rischi del caro-vita si faranno più pressanti,
costringendo le autorità monetarie a nuove strette.
I listini azionari, primo fra tutti il
Dow Jones che ha battuto i record di tutti i tempi, hanno già cominciato ad
assaporare la prospettiva di un taglio dei saggi di riferimento negli Stati
Uniti, ma non possono trascurare le voci di coloro che considerano le politiche
monetarie ancora troppo accomodanti, perché se queste diventeranno più
rigorose, il sistema, che è basato sull’indebitamento, mostrerà tutta la sua
debolezza.
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Fonte - Morningstar.it |
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Venerdì
6
ottobre 2006 |
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Venerdì
13
ottobre 2006 |
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Venerdì
20
ottobre 2006 |
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Wall Street fa già festa per i tagli di Ben
2 Ottobre 2006 New York - di Borsa&Finanza
per WSI +
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Come
ex-presidente della Federal Reserve di Atlanta, Bill Ford, conosce assai bene le
logiche che ispirano le decisioni della potente Banca centrale americana.
Anche per questo ritiene che le
probabilità di un taglio dei tassi d’interesse, a cavallo fra il 2006 e il 2007,
stiano crescendo sensibilmente.
L’economia degli Stati Uniti sta rallentando. I segnali sono inequivocabili.
Sarà un atterraggio morbido o si rischia lo schianto?
Sono favorevole a uno scenario di
atterraggio morbido. Ritengo che la frenata dell’edilizia provocherà un
rallentamento della crescita del Pil intorno al 2,5 per cento.
Se questo è il quadro congiunturale, quale sarà l’atteggiamento della Federal
Reserve nelle prossime riunioni? Al
prossimo incontro previsto il 24 e 25 ottobre il direttorio deciderà per un
nulla di fatto. Tuttavia entrerà
in agenda una prossima sforbiciata al costo del denaro. Credo che i tassi di
interesse verranno abbassati a partire dalla riunione di dicembre o in quella di
gennaio.
Da ex
banchiere centrale quante probabilità attribuisce alle ipotesi appena indicate?
Sulla base di quanto sappiamo oggi, direi che al 90% non ci sarà alcun
cambiamento di politica monetaria durante il meeting di ottobre. Per i
mesi successivi, se l’economia continuerà a mostrare segni di debolezza, la
possibilità che venga abbassato il saggio-base già nella riunione di dicembre
aumenta al 20-25%. A gennaio, se il quadro macroeconomico non darà chiari segni
di miglioramento, la decisione della Fed di tagliare i tassi ha almeno una
probabilità del 50 per cento.
I più pessimisti fanno notare che la
curva dei tassi in America è invertita. In altre parole i rendimenti a breve
sono maggiori di quelli a lunga. Sostengono, inoltre, che dal dopoguerra
ad oggi, le recessioni hanno ricevuto un impulso da politiche restrittive della
Fed che hanno causato, a un certo punto, l’inversione della curva. Che ne pensa?
È vero, di solito l’inversione della
curva preannuncia una recessione. Ma questa volta esistono almeno due ragioni
per nutrire un certo ottimismo. In primo luogo la curva appare più appiattita
che invertita. I rendimenti a breve e a lungo termine viaggiano entrambi intorno
al 5 per cento. In secondo luogo, il costo del denaro è ancora basso.
Vorrei fare un esempio per chiarire cos’è veramente una curva dei tassi
invertita che preannuncia recessione.
Faccia l’esempio. Nel 1980 quando partecipavo al board della Fed il tasso di
riferimento viaggiava tra il 18 eil 20% con i tassi a lungo termine al 12 per
cento. La distanza era di sei punti: quella era una situazione che anticipava
una futura crescita negativa.
In altre parole le condizioni attuali sono meno estreme. È esatto? Proprio ciò
che intendevo dire. I rendimenti oggi si aggirano al 5 per cento. Non è un
livello che spinge necessariamente alla contrazione dell’attività produttiva. A
esempio, i tassi sui mutui ipotecari per un rifinanziamento trentennale
gravitano intorno al 6 per cento. Ciò rallenta l’attività edilizia ma non la
uccide. È una situazione ben diversa dal 1980, quando erano al 14%. Al
contrario, oggi il denaro è ancora a buon mercato. Una situazione che non
impedirà ai consumatori di acquistare una nuova automobile a rate o finanziare
altre esigenze o neccessità di spesa.
Di recente il prezzo del petrolio è
scivolato fino a poco meno di 60 dollari il barile. Produrrà effetti positivi
sull’evoluzione della congiuntura? Si tratta certamente di una bella boccata
d’ossigeno. Soprattutto per i sondaggi del presidente Bush. Più seriamente, è
un’ulteriore sostegno alla tesi che prefigura un atterraggio morbido
dell’economia. È evidente che il calo del prezzo dei carburanti finirà per
restituire maggiore potere d’acquisto a famiglie e imprese. Accanto a
questo, un eventuale calo dei tassi d’interesse a 10 e 30 anni dovrebbe
scongiurare gravi shock nel settore immobiliare. Insomma, tutto gioca a favore
di un soft landing.
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Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza |
BENZINA
PER IL TORO
3 Ottobre 2006 8:25 Milano
- di Vittorio Carlini
È qui la festa? All’improvviso, cogliendo di sorpresa chi ama le
statistiche (settembre, il mese in cui «cadono» i titoli) e chi scrutava
i cieli della geopolitica e delle banche centrali (rischi di shock
petroliferi da uragano o da Teheran, squilibri valutari, strette
monetarie e fiscali), il Toro ha deciso che era arrivata la stagione dei
primati: Wall Street ha superato (almeno nell’intraday) le vette del
gennaio 2000, punto culminante della Bolla e l’Europa segue a ruota.
Piazza Affari è in fondo al plotone (+9,8% da gennaio) per due motivi:
l’effetto del caso Telecom, rimasta al palo mentre nel resto del
Continente le tlc hanno guidato il rally; il notevole peso dei
petroliferi, Eni in testa. E proprio il ribasso del greggio (e delle
altre commodity) ha ridato ossigeno al resto del mercato. Ma anche per
il listino italiano, non è da escludere uno sprint fuori stagione.
MENO OIL, PIÙ PIL. La chiave per interpretare il rally sta proprio in
questo slogan, adottato da B&F a inizio luglio, quando, al di là dei
venti della crisi libanese, si moltiplicavano i segnali di inversione
del mercato. «Oggi - conferma Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
- il greggio disponibile è più che abbondante. Per alcuni prodotti, tipo
il gas, addirittura ci sono seri problemi di stoccaggio». Nel prossimo
futuro, insomma, è difficile ipotizzare un duraturo forte balzo in
avanti dei prezzi.
Tony Dolphin, responsabile economico e strategico di Henderson Global
Investors si spinge a dire: «La corsa delle materie prime è destinata ad
arrestarsi. Il petrolio dovrebbe scendere attorno ai 50 dollari al
barile». Più prudente Stefano Fabiani, gestore azionario di Zenit sgr:
«Prevedo che il barile possa mantenersi nella fascia compresa tra i 55 e
i 65 dollari». Un prezzo definito «meraviglioso» dal ministro saudita
del petrolio, Alì Al-Naimi: i produttori incassano ottime plusvalenze e
si scongiura sia la recessione sia la fiammata inflattiva. Le compagnie,
dal canto loro, pianificano investimenti senza follie.
RALLY DA UTILI. Il risultato? Una volata finale dei listini. «Piazza
Affari - dice Massimo Luca Borlera, direttore investimenti per Sella
gestioni - dopo aver ritracciato, potrebbero fare un ulteriore balzo in
avanti. Il saldo finale annuale dovrebbe essere una crescita a doppia
cifra». «Per gli ultimi 3 mesi dell’anno - confrema Fabiani - le
prospettive per Piazza Affari sono buone: il mercato salirà». Ma non
sarà un fenomeno generalizzato.
Hanno tutto da guadagnare le aziende che potranno massimizzare il
risparmio dei costi, grazie anche agli sforzi di questi anni per
neutralizzare l’impatto delle commodities. Sarà, perciò, un rialzo
assicurato da profitti più elevati di quanto previsto ad inizio estate.
E chi, Fiat in testa (ma anche Indesit), arriva all’appuntamento con la
ripresa della fiducia europea, con un’offerta di prodotti in evoluzione.
O coloro che, vedi alcune utilities, rivedono i conti alla luce di uno
scenario dei tassi meno grigio del previsto. Tuttavia valgono due
avvertenze: la congiuntura rischia di essere breve, soprattutto se
robusta; l’effetto Finanziaria, avrà il suo peso. Ma su quali settori
puntare?
CEMENTIERI. Per Angelo Manca, gestore di Schroder Isf Italian Equity:
«Il comparto dei cemetieri trarrà beneficio dal calo della bolletta
energetica». Anche perché «l’impatto del petrolio sui costi - ricorda
Carlo Devanna, responsabile equity Europa per Credit Suisse AM Italia -
è notevole: il 20-25% circa». Le aziende hanno completato, del resto, un
ciclo di investimenti per compensare, con la maggiore efficienza degli
impianti e la crescita del fatturato nei Paesi emergenti, l’impatto del
caro greggio. Certo, Buzzi Unicem, Cementir e Italcementi hanno già
guadagnato da inizio anno il 41,30%, il 24,48% e il 26,5 per cento. Ma i
margini di crescita non sono esauriti. Per AbaxBank, Italcementi (outperform
con target price sul titolo a 22 euro) è avvantaggiata dalla
diversificazione negli emerging market (il 37% dell’ebitda nel primo
semestre). Discorso valido anche per Buzzi (presente in Messico, Europa
dell’Est e Algeria) che vanta la redditività più alta con un Ros al
21,2% (16,7% Cementir e 18,4% Italcementi). Per Man Securities è buy con
target price a 25 euro.
MULTINAZIONALI TASCABILI (E NON). La congiuntura tira. La Fiat alza
l’asticella dei suoi target; l’industria italiana che ha saputo fare il
salto nell’economia globale, come vendite ma anche come produzione,
accelera. Sono le multinazionali tascabili, da Sabaf a Gefran (Brescia),
a Carraro (Padova), evoluzione del made in Italy di cui Brembo (che di
recente ha avviato la produzione nella nuova fonderia in Polonia) è un
esempio simbolo. Ora la multinazionale dei freni può sfruttare il
rimbalzo del pil in Germania (nel secondo quarter le vendite verso
Berlino sono salite del 7,7%) e in Italia (+4,1 l’incremento dei
ricavi). E visto che Eurolandia, a differenza degli Usa, si trova a metà
(o poco oltre) del ciclo espansivo c’è spazio per correre. Ma non solo.
Brembo si è avvantaggiata, per esempio, della crescita del Brasile dove
le vendite sono aumentate del 48,9 per cento. Un discorso abbastanza
simile a quello riferito alla società guidata da Alberto Bombassei, può
farsi per Sogefi. L’azienda del gruppo De Benedetti, ha una forte
esposizione (84,8% dei ricavi nel primo semestre 2006) sul mercato
europeo.
BIANCO ALLA RISCOSSA. Tra i settori che più hanno sofferto sul lato dei
costi delle commodities c’è quello degli elettrodomestici. Per
fronteggiare il warning, le aziende si sono sottoposte ad un duro sforzo
di delocalizzazione produttiva ed organizzativa. Così sia De’ Longhi sia
Indesit Company possono sfruttare la riduzione dei costi dei polimeri e
dell’energia (l’indice Crb da agosto è sceso del 14,5%) e tradurla in
maggiori profitti. La società guidata da Marco Milani, ha chiuso il
primo semestre con l’utile netto a 19 milioni di euro, in crescita dello
0,5% rispetto allo stesso periodo del 2005. Mentre il fatturato ha
raggiunto 1,46 miliardi di euro in crescita del 5,1 per cento.
«L’incremento delle vendite - ha detto Milani - è diffuso su tutte le
aree con percentuali che variano dal più 1,3% dell’Europa occidentale al
più 9,6% dell’East Europe». Come dire, insomma, che anche in questo caso
l’accelerazione del Vecchio Continente giova.
Così, dopo la semestrale banca Akros ha alzato il giudizio su Indesit a
accumulate con un target di 10 euro, mentre per Ing il titolo è da
comprare fino a 13,75 euro. Discorso simile per De’ Longhi, che oltre ai
costi dell’energia utilizza molti polimeri per il suo Pinguino e per gli
altri piccoli elettrodomestici. Sull’azienda di Treviso gli analisti
hanno però giudizi più cauti: target price fino a 3,3 euro.
...E PIASTRELLE. Anche Marazzi (-11,3% dall’Ipo di febbraio) dovrebbe
risalire la china. «Si tratta - dice Borlera - del classico titolo
energy intensive». Qui la riduzione del prezzo delle materie prime si fa
sentire più che in altri casi. «Inoltre la società è esposta su mercati
molto ricchi come, per esempio, quelli del Medio Oriente». Per Cheuvreux
il prezzo obiettivo è 11,6 euro.
Fonte -
Bloomberg - Borsa&Finanza
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YARDENI: W.S. FINALE A TUTTO TORO
23 Ottobre 2006 9:45 New York
- di V. Sciarretta
Alla fine la Borsa statunitense ce l’ha fatta: nuovo record di tutti i
tempi, con il re degli indici azionari, il Dow Jones, che scavalca la
soglia psicologica di 12mila punti e trascina tutti i listini. E per il
futuro? La tendenza rimane favorevole sia al di qua che al di là
dell’Atlantico. Intanto perché è alle porte il famoso semestre d’oro,
quello che va da novembre ad aprile, che di solito è connotato da forti
apprezzamenti in risposta al buon andamento della raccolta dei fondi. Ad
esempio, dal 1987 ad oggi, la Borsa europea è stata negativa solo in due
occasioni: dal novembre 2000 all’aprile 2001, e dal novembre 2002
all’aprile 2003, ossia in piena mattanza dei titoli high-tech. Poi c’è
stato un caso di performance nulla a cavallo fra il 1994 e il 1995.
Negli altri 15 casi il ritorno è stato sempre positivo. In media, nei 6
mesi in esame, gli investitori hanno portato a casa il 9 per cento. Non
male.
IL FRONTE AMERICA. Il superguru di Wall Street Ed Yardeni che per la
fine del 2007 l’indice S&P500 è in grado di toccare i 1.600 punti, con
un balzo del 17% rispetto al livello corrente. La tesi d’investimento? A
sentire lo stratega di Oak Associates, «una crescita discreta, tassi
d’interesse stabili e una leggera espansione dei multipli spingeranno le
quotazioni verso massimi inesplorati».
Il fulcro sul quale Yardeni poggia il suo ottimismo è la risoluzione di
una serie di problemi e minacce pendenti. «Dal 2001 - dice - il prezzo
del petrolio è salito di 8 volte. Ciò ha messo le ali alle aspettative
d’inflazione. La Federal Reserve si è trovata costretta ad alzare i
tassi d’interesse, facendo pesare un’ipoteca sul settore immobiliare.
Ora siamo sul punto di assistere a un’inversione del processo storico -
prosegue - il greggio è arretrato a 60 dollari al barile, la politica
monetaria vive una fase di stabilizzazione, e l’edilizia ha forse già
superato il punto di massima vulnerabilità. Con minori apprensioni, la
Borsa può decollare». Nella previsione di Yardeni, il peso dell’oro nero
è determinante.
Sessanta dollari al barile è un prezzo caro, ma tutto sommato
accettabile e congruo con un mercato azionario al rialzo. Il picco di 80
dollari, invece, recava in sé eccessi dovuti a un apice di acquisti
speculativi. Basti dire che, secondo il New York Times, esistono almeno
450 hedge fund che si accapigliano ogni giorno sui prodotti energetici.
«Per parecchi mesi - conclude Yardeni - la tendenza del petrolio sarà
quella di una tenuta all’interno della fascia tra 55 e 65 dollari al
barile».
E QUELLO EUROPEO. Nei primi 11 mesi del 2006, i listini del Vecchio
Continente hanno portato a casa guadagni nell’ordine del 13-15%,
includendo i dividendi. Cio' nonostante, rischi di crolli non se ne
vedono. Le valutazioni sono tuttora in linea con i fondamentali: mentre
il grafico delle azioni segue una parabola ascendente, gli utili
aumentano a un tasso di pari entità. In più «le condizioni di liquidità
supportano le Borse», come spiega Kevin Gardiner, numero uno delle
strategie per il colosso bancario Hsbc. «La massa monetaria è elevata -
dice - l’attività di fusioni e acquisizioni sperimenta un forte
dinamismo sotto l’impulso del basso costo del denaro e della robustezza
dei bilanci. Tanto è vero che le scalate vengono pagate pronta cassa o
ricorrendo al debito, e non attraverso operazioni carta contro carta
com’è spesso avvenuto in passato».
Insomma, il buon momento delle piazze finanziarie europee prosegue.
«L’unico rammarico è che il pubblico dei risparmiatori, dopo essersi
dissanguato nella bolla della new economy, non ha invece affatto
partecipato alla ripresa degli ultimi 4 anni, come indica il flusso di
riscatti dei fondi - conclude Gardiner - Se la marea dovesse cambiare,
il tradizionale risparmio delle famiglie potrebbe fornire un ulteriore
tonico a una Borsa che già gode di ottima salute».
Fonte -
Bloomberg - Borsa&Finanza
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E basta con questo rialzo
26 Ottobre 2006 16:03 Milano - di
*Alessandro Fugnoli
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Basta, si sente dire, con questo rialzo di
Borsa adesso si esagera. Non confondiamo
una fortunata serie di circostanze (l’assenza di uragani, la temporanea
sovrabbondanza di petrolio, il punto morto sul nucleare iraniano, l’effimera
decelerazione dell’inflazione, i portafogli ancora sottopesati dopo lo shock di
maggio-giugno) con chissà quale avvio di una Nuova Era di prosperità perpetua.
E non dimentichiamo i fattori strutturali che pesano come macigni su tutti noi,
come il disavanzo delle partite correnti americane, l’esaurimento dei fattori
produttivi inutilizzati, il rallentamento della produttività, la non
espandibilità dei margini, il graduale ritiro del surplus di liquidità da parte
delle banche centrali.
Tranquilli, si sente rispondere, il rialzo di
borsa è appena agli inizi. Lo S&P 500 è al livello di sei anni fa, mentre gli
utili, da allora, sono raddoppiati, così come le case, l’oro e molte materie
prime. Tre mesi fa si parlava ancora di stagflazione e oggi ci troviamo in un
mondo perfetto di crescita in accelerazione e inflazione in calo, mentre per il
medio e lungo termine si prospetta un meraviglioso stato stabile con la crescita
globale perfettamente sincronizzata sulla crescita potenziale, senza sbavature
al di sopra o al di sotto della velocità di crociera. Uno scenario così perfetto
merita inoltre un’espansione dei multipli, si aggiunge.
Frastornati, andiamo a fare una piccola
verifica. Un anno fa, a quest’ora, lo S&P 500 stava a 1196.54. In questo momento
sta a 1379.80. La differenza è del 15.39 per cento. Notevole. E di quanto sono
saliti gli utili nel frattempo? Se guardiamo le 209 società (su 500) che avevano
riportato i loro dati a ieri sera la differenza è del 18 per cento. Alla fine,
quando avremo a disposizione tutti i dati, l’aumento sarà compreso tra il 16 e
il 17 per cento.
Fino a questo momento, dunque, il
mercato azionario si è comportato in modo esemplare, rispecchiando fedelmente
l’andamento degli utili (che, per il terzo anno consecutivo, battono le
previsioni). Il fatto che nell’ultima fase il rialzo dei corsi sia stato
particolarmente impetuoso non toglie legittimità al livello raggiunto. Non
bisogna confondere ipercomprato con caro.
Gli utili realizzati sono un fatto
roccioso. Finché le quotazioni seguono il loro andamento ci sono buone
probabilità di rimanere nell’ambito della ragionevolezza.
Dopo qualche anno di bull market, però, capita
puntualmente che settori grandi o piccoli del mercato spicchino il volo dalla
fisica alla metafisica. E’ la mistica dell’espansione dei multipli, salto di
fede verso la Nuova Era millenaria, da scontare tutta subito, con ingordigia.
E’ affascinante come all’inizio di un bull market quasi nessuno parli mai di
Nuova Era in arrivo e gli ottimisti si esprimano sempre con grande pudore. Dopo
qualche anno di rialzi, per contro, un meccanismo di intossicazione mentale si
impadronisce di menti anche brillanti e le induce a proiettare il bull market
nell’iperspazio.
Nei confronti dei discorsi sull’espansione dei multipli va adottato lo stesso
atteggiamento che una persona ragionevole dovrebbe avere verso la levitazione o
verso altri fenomeni paranormali. Nessuna preclusione a priori, ma una richiesta
di prove certificate da una pluralità di specialisti e vagliate con il massimo
rigore.
Al momento non vediamo nessuna giustificazione degna di questo nome per
imbarcarci su questo terreno infido. In particolare non vediamo scendere i
tassi, né a breve né a lungo, tanto meno nell’ipotesi di una riaccelerazione
dell’espansione in America e in Cina e in condizioni di pieno impiego in un
numero crescente di paesi.
E’
anche difficile pensare che le banche centrali intendano ripetere l’esperienza
patologica del rialzo azionario del 1999-2000, trainato quasi esclusivamente
dall’espansione dei multipli. A quel tempo c’era almeno la giustificazione della
deflazione in Asia e del rischio di contagio al resto del mondo che richiedevano
energiche misure per rilanciare la domanda globale e il sentiment degli
operatori.
Oggi alla Fed fa sicuramente comodo che la borsa in rialzo bilanci almeno in
parte l’arresto del bull market immobiliare, ma i rischi di recessione e
deflazione sono infinitamente minori rispetto ai tempi della crisi asiatica. Per
la Fed un rialzo azionario basato sugli utili dovrebbe essere sufficiente.
Quanto al livello assoluto dei multipli, il fatto che oggi sia dimezzato
rispetto al 1999-2000 non significa che sia sbagliato oggi, ma che era sbagliato
allora. Se escludiamo del resto Nasdaq e S&P 500, pesantemente influenzati dalla
bolla della tecnologia, vediamo che gli altri indici a base più ampia sono da
tempo ai massimi storici e ben più in alto di sei anni fa.
Tirando le somme, non sentiamo alcun disagio per i livelli attuali dei mercati.
Non sentiamo nessuna urgenza di ridurre le posizioni. Sconsigliamo anzi di farlo
almeno fino alla fine dell’anno. Non vediamo rischi significativi nel probabile
ulteriore recupero del greggio (sul quale c’é molto short da chiudere) perché
fino a 65-67 dollari saliranno i titoli petroliferi senza che scendano tutti gli
altri (solo oltre quel livello ci potrà essere una reazione negativa del
mercato in generale).
Detto questo, non vediamo motivo per
porci obiettivi particolarmente ambiziosi. I prezzi delle azioni sono
equilibrati, sono saliti molto e potranno andare avanti inerzialmente ancora
qualche settimana. Si formerà, come sempre in questi casi, un po’ di schiuma. Il
primo trimestre del 2007 sarà però meno trionfale del primo trimestre 2006.
L’Europa subirà un arresto della crescita e per quanto tutti sappiamo che sarà
temporaneo non sarà bello vedere per settimane e settimane un susseguirsi di
dati mediocri. Prima o poi si tornerà anche a parlare di geopolitica. Il fatto
che ci siamo tutti voltati dall’altra parte non significa che l’Iran abbia
smesso di costruirsi la bomba (i lavori stanno in realtà accelerando).
Il 2007 si prospetta in ogni caso come il quinto anno di rialzo azionario. Per
riuscire a vedere un sesto anno nel 2008 sarà bene che l’espansione dei
multipli, se proprio avrà da esserci, sia la minore possibile.
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Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di
Abaxbank |
Sabato
14
ottobre 2006 |
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Venerdì
20
ottobre 2006 |
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Sabato
21
ottobre 2006 |
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Finanziaria amara per i fondi
2006-09-29
- di Sara Silano
La tassazione passa dal 12,5 al 20%. E
se non verrà cambiato l’attuale meccanismo di imposizione sul maturato,
l’industria domestica perderà ulteriormente terreno rispetto ai concorrenti
esteri. In tre anni sono migrati oltre frontiera 90 miliardi a fronte di
59 miliardi fuoriusciti dai prodotti italiani. E il dato è in crescita.
Oggi (venerdì), è previsto il varo della Finanziaria da parte del Consiglio dei
ministri. Tra le novità vi è la “armonizzazione” delle rendite finanziarie al
20%. In pratica, la tassazione dei titoli di Stato di nuova emissione, delle
obbligazioni in genere, dei guadagni derivanti dalla compravendita di azioni,
dei pronti contro termine e dei prodotti del risparmio gestito (fondi comuni
d’investimento, sicav, polizze assicurative, ecc.) aumenterà rispetto
all’attuale 12,5%, mentre quella sui conti correnti, i depositi bancari e
postali scenderà (ora è al 27%).
Per gli investitori in fondi, oltre dieci milioni di famiglie, si profila,
dunque, un inasprimento fiscale. Ad esempio, se un individuo ha investito 10
mila euro in uno strumento del risparmio gestito con un ritorno annuo del 6%,
con l’attuale aliquota ottiene un guadagno netto di 525 euro, che scendono a 480
con il nuovo regime.
Per l’industria italiana, l’aumento segna un ulteriore passo verso la perdita di
competitività rispetto ai concorrenti esteri a causa del diverso meccanismo di
imposizione. I prodotti domestici, infatti, sono tassati in capo al fondo, ossia
sul maturato, mentre quelli stranieri lo sono sul realizzato, cioè su quanto
effettivamente l’investitore guadagna al momento della vendita delle quote.
In una lettera a Romano Prodi, pubblicata il 28 settembre su alcune testate
giornalistiche, il presidente di Assogestioni, Guido Cammarano, ha sollecitato
un cambiamento dell’attuale meccanismo per evitare che il risparmio italiano
emigri oltre confine. Secondo le ultime statistiche dell’associazione di
categoria, il patrimonio gestito supera i 1.100 miliardi di euro, di cui circa
260 miliardi (23,6%) sono affidati a società estere o filiali straniere di case
italiane.
Il dato è in costante crescita. Nel solo secondo trimestre del 2006, i fondi
domestici hanno registrato riscatti per 14 miliardi a fronte di una raccolta
netta di 6,4 miliardi realizzata da quelli non domiciliati nel nostro Paese.
Negli ultimi tre anni i flussi diretti verso i prodotti italiani sono stati
negativi per 59 miliardi e sono migrati oltre 90 miliardi. Molte società
domestiche hanno ampliato la gamma lussemburghese o irlandese ed è in aumento il
numero di quelle che intendono costituire sicav oltreconfine per poter competere
sul mercato europeo ad armi pari (Anima sgr ha imboccato l’anno scorso questa
strada e Nextam Partners ha recentemente annunciato di aver avviato il processo
di istruttoria per farlo).
Il rischio che il risparmio italiano
venga gestito interamente fuori dal Paese è concreto, se non saranno equiparati
i meccanismi di prelievo, con conseguenze pesanti anche per le finanze
pubbliche. Come rileva Cammarano, infatti, per ogni miliardo che migra, lo Stato
perde un potenziale gettito fiscale di dieci milioni.
L’attuale sistema non giova a nessuno:
gli investitori pagano il prezzo di minori performance se il fondo ha un credito
d’imposta (una posta illiquida che si crea quando il risultato di gestione è
negativo), le società non sono competitive rispetto a quelle estere e sono
costrette a sostenere i costi della costituzione di veicoli domiciliati in altri
Paesi, l’erario ha minori introiti perché i capitali escono dall’Italia.
Eppure da anni giace in Parlamento una proposta di riforma che non è mai stata
approvata. Con l’innalzamento delle aliquote, la questione è diventata
improcrastinabile se si vuole evitare che i risparmiatori siano privati di uno
strumento d’investimento semplice e trasparente.
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Fonte - Morningstar.it |
Cambia al
mappa della finanza italiana
20 Ottobre 2006 Milano
- di Finanza&Mercati
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«Non siamo stati interpellati». Così
Corrado Passera, amministratore delegato di Intesa, ha commentato
gli ultimi sviluppi di Telecom Italia, e in particolare la
costituzione del patto di sindacato tra Olimpia, Mediobanca e
Generali. Sarebbe stato strano, d’altra parte, se Passera fosse
stato interpellato.
E non solo perché Intesa ha lasciato Olimpia qualche settimana fa.
Ma soprattutto perché l’«intesa di consultazione» stretta intorno a
Telecom - che ha avuto la sua elaborazione strategica in Mediobanca,
ma sulla quale si staglia l’ombra di Cesare Geronzi e della sua
Capitalia - si può considerare come la prima risposta all’operazione
Intesa-Sanpaolo.
La chiave di lettura più adatta per cogliere e interpretare i
prossimi movimenti tra i grandi e i piccoli potentati della finanza
italiana è infatti uno schema bipolare: da una parte il blocco
Intesa-Sanpaolo, con la sua capacità di attrazione e condizionamento
nei confronti di vaste aree del sistema creditizio; dall’altra
l’asse Mediobanca-Capitalia-Unicredito. E naturalmente Generali, che
ha nei tre istituti i principali azionisti.
Ma la compagnia del Leone fa anche parte di quella «terra di mezzo»
che, se davvero lo schema bipolare andrà a realizzarsi, è destinata
a essere riassorbita dalle manovre dei due schieramenti. Generali è
infatti azionista importante di Intesa, ma appare probabile che
questo rapporto andrà a definirsi.
Per un caso di eterogenesi dei fini, potrebbe essere l’Antitrust a
provocare questo chiarimento se vorrà individuare, e i segnali su
questo versante si moltiplicano, nella presenza di Generali nel
capitale del nuovo colosso bancario - con quanto ne deriva in
termini di concentrazione nei mercati delle assicurazioni e dell’asset
management - una delle difficoltà alla realizzazione della
maxi-fusione.
Naturalmente la «terra di mezzo» è assai più ampia e articolata,
andando a comprendere regni e principati dell’importanza, per
esempio di Rcs. Per non parlare poi di quella sorta di «truppe
irregolari» del polo Intesa che è rappresentata da Romain Zaleski,
presente sia nel capitale di Generali che in quello di Telecom con
quote, com’è nel modus operandi del finanziere, forse superiori a
quelle fin qui denunciate.
D’altra parte la mappa della finanza italiana sta entrando in una
fase di cambiamento destinata ad accelerare col passare delle
settimane, come se solo ora si avvertissero le conseguenze ultime
della successione alla poltrona di governatore della Banca d’Italia.
Chi, qualche mese fa, denunciava che l’uscita di Antonio Fazio non
aveva dato luogo ad apprezzabili mutamenti della situazione, ha
compiuto un errore di valutazione. Occorreva che maturasse una prima
grande operazione, come appunto quella tra Sanpaolo e Intesa, per
scatenare un effetto domino che toccherà raccontare per i mesi a
venire.
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Fonte -
Finanza&Mercati |
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Maxi processo per il crack Parmalat
24 Ottobre 2006 17:29 Parma - di WSI
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Sono
35.000 le parti civili ammesse al processo parmigiano per il crac Parmalat. Lo
ha deciso il gup di Parma Domenico Truppa che nel corso dell'udienza
preliminare, che si è tenuta nell'auditorium Paganini di Parma, ha letto
l'ordinanza di ammissione delle parti civili: 35 pagine in cui il giudice
ha motivato l'ammissione della procedura fallimentare della vecchia Parmalat e
l'esclusione della nuova Parmalat Spa, nata sulle ceneri del crac del gruppo di
Collecchio. Una soluzione che ha trovato il favore e l'apprezzamento del legale
della Parmalat Marco De Luca.
Sono invece state escluse le associazioni dei consumatori, in quanto
riconosciute non portatrici di interessi specifici. Una decisione che non è
piaciuta al 'Movimento difesa del cittadino', che ha accolto "con sorpresa e
disappunto" la decisione del gup. Rimangono nel processo però molti dei
risparmiatori che si erano affidati alle associazioni, visto che avevano
presentato anche a titolo personale la richiesta di ammissione come parte
civile.
Nell'ordinanza Truppa ha definito il
principio di responsabilità patrimoniale solidale, che permetterà a ogni parte
civile di rivalersi su ognuno dei singoli imputati. Particolarmente importante,
a questo proposito, la richiesta avanzata da più parti (che vede
d'accordo sia i legali della Parmalat sia quelli di Tanzi) di accorpare al
processo principale anche i vari tronconi secondari, Parmatour, Ciappazzi e
Ributti.
Oggi l'ex patron di Parmalat, Calisto Tanzi, ha partecipato all'udienza
preliminare del processo. Sia entrando nell'aula in mattinata, sia uscendo,
accompagnato dai suoi avvocati il 'cavaliere', come ancora lo chiamano tutti a
Parma, non ha voluto rispondere a nessuna delle domande dei cronisti che lo
attendevano. Per lui hanno parlato i suoi legali, Filippo Sgubbi e Giampiero
Biancolella, che hanno annunciato di aver depositato la richiesta per
l'accorpamento dei vari tronconi del processo parmigiano. L'udienza preliminare
ricomincerà il 22 novembre.
E stamani davanti Palazzo Chigi, a Roma, si è svolta una manifestazione del
'Comitato Italia', che raccoglie i truffati degli scandali finanziari del nostro
paese: i vari crac Parmalat, Cirio, Bond argentini. Truffati provenienti da
tutte le regioni, con striscioni tipo 'La vergogna d'Italia', che si sono messi
in contatto tra loro per lo più tramite il blog di Beppe Grillo, hanno chiesto
che il governo li sostenga nelle loro richieste di risarcimento alle banche.
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