Ecco
perchè Buffet e Soros appoggiano Kerry
14
Ottobre 2004
00:46 Roma
(WSI)
«Io e Bush non abbiamo la stessa filosofia politica». L'Oracolo di Omaha ha
parlato, lapidario e tranchant come suo solito. E si è messo a consigliare John
F. Kerry. La scelta ha stupito tutti.
Warren
Buffett, il secondo uomo più ricco d'America dopo Bill Gates (che egli
considera un suo figlioccio) il più grande investitore di Wall Street dei tempi
moderni che possiede pacchetti importanti della Corporate America (Cola Cola,
American Express, McDonald's, Wal-Mart, il Washington Post, solo per citarne
alcuni), è senza alcun dubbio il grande saggio della finanza. Le ha imbroccate
tutte o quasi, l'ultima sulla bolla internet.
Aveva
detto che sarebbe scoppiata quando tutti gli altri, compreso il neo premio Nobel
per l'economia, Edward C. Prescott, sostenevano che i valori di borsa non erano
gonfiati, e aveva ritirato gli investimenti della sua Berkshire Hathaway dai
titoli roventi. E' stato l'unico tra i grandi a sfuggire al grande bagno.
Dunque, sul suo fiuto economico nessuno nutre dubbi. Ma il salto in politica?
Nella
sua lunga storia di successo non si era mai esposto. Conservatore persino nella
gestione del portafoglio, non ha mai scelto un partito politico, ma semmai degli
uomini. E se ne è sempre vantato, anche quando ha annunciato il sostegno allo
sfidante democratico. L'anno scorso aveva scelto Arnold Schwarzenegger che lo
aveva ufficialmente nominato consigliere personale, per aiutarlo ad affrontare
il rompicapo del budget della California.
E
proprio in quell'occasione, Buffett si era preso una reprimenda del Wall Street
Journal perché aveva sostenuto tesi che la bibbia della Borsa riteneva poco
liberiste. La rottura con
la Bushnomics
è avvenuta su un tema che sta
particolarmente a cuore allo gnomo del Nebraska: il taglio delle tase sui
dividendi. Nel maggio del 2003, Buffett aveva scritto un articolo sul Washington
Post definendo la legge, poi approvata dal Congresso, «un perfetto esempio di
economia del voodoo» che avrebbe alimentato trucchi contabili stile Enron e
avrebbe spostato ancor di più i benefici fiscali sui ricchi.
Sì,
proprio lui si è messo alla testa di una vera e propria campagna contro i
ricchi che diventano più ricchi grazie a una politica economica che ritiene
sbagliata. C'è dietro l'eco della campagna combattuta da anni per la
trasparenza e una nuova governance delle imprese. Buffett è stato uno dei più
duri accusatori di una finanza che aveva trasformato gli imbrogli in sistema. Si
è sempre vantato di aver fatto i soldi grazie ai dividendi, e di percepire uno
stipendio di soli 100 mila dollari l'anno come amministratore della Berkshire.
Miliardario
e moralista, sostenitore di una etica degli affari vecchio stampo che diffida
delle stregonerie finanziarie moderne e, quando compra, lo fa soppesando i
valori reali. In uno dei suoi ultimi messaggi agli investitori, ascoltati come
vaticini, ha apprezzato Google (non è vero, dunque, che detesta la new economy),
perché è un motore di ricerca che funziona. E', in altri termini, un prodotto
reale.
Che
cosa non gli piace, dunque, di Bush? Ha diffidato fin dall'inizio del coté
affaristico del quale si è circondato. Non condivide una politica fiscale
troppo iniqua. E, soprattutto, teme gli effetti che gli squilibri nella finanza
pubblica e nei conti con l'estero, provocheranno sull'economia americana e
mondiale.
La Berkshire
ha in portafoglio 12 miliardi di valute
estere: euro, yen, sterline, franchi svizzeri, ma non dollari. Perché Buffett
è convinto che il biglietto verde è destinato a restare debole a lungo, non ci
sono alternative per ridurre un disavanzo con l'estero che arriva al 5% del
prodotto lordo.
A
Kerry ha consigliato di aggiustare la politica fiscale e soprattutto di tappare
il buco nel bilancio federale, passato in tre anni da un surplus di qussi il 3%
a un deficit di oltre il 4%. Una ricetta risolutiva, lo sfidante democratico non
ce l'ha. Ma per Buffett la riproposizione della Bushnomics, a questo punto, è
troppo rischiosa.
Ma
il saggio del Nebraska non è l'unica star della finanza a spendersi per Kerry.
A fianco del senatore democratico è sceso in campo, con un piglio meno tecnico
e molto più militante, George
Soros. Ungherese di nascita, ebreo, di una
famiglia sfuggita prima al nazismo poi al comunismo, allievo di Karl Popper nei
suoi anni giovanili a Londra, tanto da chiamare Open Society il think tank
aperto a Budapest nel 1991, il grande speculatore, il terrore dei cambi
valutari, l'uomo che nel 1992 mise in ginocchio la sterlina e poi la lira,
accelerando una delle più catastrofiche crisi del dopoguerra, ha passato il
bastone del comando ai figli e si è lanciato in una vera e propria crociata
contro Bush.
Lo
attacca sull'Iraq senza andare troppo per il sottile: «Abbiamo creato più
terroristi di quanti ne abbiamo uccisi». Denuncia come catastrofiche le
conseguenze dei twin deficits (pubblico ed estero). Ha speso 25 milioni di
dollari di tasca propria, tanto che i repubblicani lo accusano di essersi «comprato»
il Democratic Party.
Certo
è che Kerry, partito con meno quattrini di Bush e senza il sostegno che il
presidente aveva nella business community, si trova adesso pieno di fondi e di
consensi ben al di là di quelli tradizionali (Hollywood, Broadway e l'alta
finanza ebraica di Wall Street). C'è chi attribuisce a Soros persino ambizioni
politiche personali. Non è da escludere, ma, giunto ormai a 74 anni, preferisce
fare il kingmaker.
Certo,
ha introdotto una tale novità nella campagna elettorale che Newsweek gli ha
dedicato una copertina dal titolo intrigante: «Può un miliardario battere Bush?
Come George Soros aiuta a trasformare la politica americana». In fondo sia lui
sia Buffett, due leggende della finanza, sono uomini d'altri tempi, del primo
secolo americano. Quanto potranno influenzare l'America del nuovo secolo?
Nella
notte, i duellanti per
la Casa Bianca
si sono affrontati sulle questioni interne,
soprattutto sull'economia. Il presidente arriva alle elezioni sull'onda di una
ripresa economica e di una campagna irachena costellata di errori. Esattamente
al contrario del padre. Paga sul piano elettorale la carenza di posti di lavoro
(il primo presidente in 72 anni, dai tempi di Hoover, ad aver distrutto più
posti di lavoro di quanti ne abbia creati).
E
quella che Kerry chiama la middle class squeeze, perché per la prima volta in
30 anni, cioè dai tempi di Nixon, il reddito medio delle famiglie si è
ridotto. Nessuno dei due, in realtà, ha una ricetta a lungo termine (come
sottolineava ieri il Financial Times) in grado di affrontare il grande
cambiamento economico-sociale che attraversa l'America, generando ondate di
incertezza e vulnerabilità incomprensibili da questa parte dell'Atlantico, in
una Europa che ristagna galleggiando nella sua aurea mediocritas.
Ma
anche sull'economia, come sulla guerra, il mondo è diverso visto dal Vecchio e
dal Nuovo Continente. Quella che agli europei appare come l'iperpotenza
arrogante che impone il suo tallone imperiale sull'universo intero, agli
americani sembra un paese fragile, assediato da un mondo ostile e aggressivo,
incerto sul futuro, in difesa, non all'attacco. Forse, se anche noi assumessimo
il punto di vista degli altri (invece di chiedere di farlo solo agli yankee)
potremmo guardare con un'ottica diversa anche alla sfida tra Bush e Kerry.

fonte
Wall Street Italia.com
Team
america:
no
ai paragoni col passato
18
Ottobre 2004
00:45 Verona
(di
*Gianpaolo Colloridi)
Giampaolo
Colloridi, che si definisce "osservatore economico", ci ha inviato
questo articolo (della serie Team America) che volentieri pubblichiamo.
A proposito del dibattito sulla Dow Theory, vorrei fare una premessa di
valore: ovvero che, dal mio punto di vista, è profondamente errato fare
paragoni con il passato, e passo subito a spiegare il perché soffermandomi di
volta in volta su quattro aspetti: quello meramente economico, quello tecnico,
quello istituzionale e quello “ontologico al mercato” (vedi l' articolo TEAM
AMERICA: CATASTROFISTI E ORSI IN AGGUATO
e le risposte di Alessandro Giannotti (Consultique) TEAM
AMERICA: DOW THEORY, ECCO L'INTERPRETAZIONE;
di Maurizio Milano (Banca Sella) TEAM
AMERICA: IL 2005 SARA' TORO O ORSO?;
di Alessandro Magagnoli (Financial Trend Analysis) TEAM
AMERICA: CREDERE AI BOND O A GREENSPAN?;
e infine di Luciano Priori Friggi TEAM
AMERICA: ALTRI SEGRETI DELLA DOW THEORY).
1.
Un grafico da solo dice molto su ciò che sta accadendo, ma non altrettanto su
ciò che potrà accadere se non si tiene conto anche dello stato dei
fondamentali. E, diversamente dal passato in cui le economie occidentali
vivevano senz’altro una fase di sviluppo economico, la loro situazione attuale
è diversa. Il mercato è più efficiente ma, proprio per questo, è vicino alla
saturazione. Lo spazio a disposizione è poco per una sufficiente descrizione
dei sintomi ma, semplificando, potremmo dire che negli ultimi anni il ciclo
economico ha tirato avanti perché sono affiorati nuovi mercati: quelli
dell’Est Europeo e del Sudamerica prima; alcuni paesi emergenti, poi;
l’economia cinese (e paraggi) oggi. Ma il loro contributo non ha fatto altro
che aumentare l’efficienza del sistema produttivo mondiale (aumentando per ciò
ulteriormente l’offerta) mentre lo stock di domanda ha continuato sì a
crescere ma in maniera meno che proporzionale.
Lo
testimonia la modifica qualitativa della domanda, sbilanciata sempre più verso
i servizi piuttosto che verso l’acquisto di beni reali (che è poi la ragione
per cui si assiste e si continuerà ad assistere all’enorme squilibrio della
bilancia commerciale USA). Il problema di fondo – che senz’altro non si
evince dal grafico del DJIA – consta quindi nella contemporaneità di un
eccesso di offerta e una sostanziale carenza di domanda; le cui conseguenze
tardano a manifestarsi solo grazie alla montagna di liquidità immessa nel
sistema che, per dirla con Keynes, resta tuttavia “intrappolata”.
L’eccesso
di offerta spiega come, nonostante il sensibile aumento dei prezzi delle materie
prime a cui si è assistito nell’ultimo triennio, non vi siano sostanziali
pressioni inflazionistiche. Ma ciò denuncia contemporaneamente una pressione
concorrenziale indotta dalla carenza di domanda rispetto alla produzione. E,
malgrado molte società continuino a fare utili e i listini si mantengano nella
zona alta, il numero di società quotate il cui bilancio è in perdita è
senz’altro incongruo.
2.
Sotto il profilo tecnico l’apparente inspiegabilità di un lungo periodo (lo
scorcio del 2003 e buona parte del 2004) trascorso dai mercati azionari in un
range così ristretto, a dispetto dell’assai più alta volatilità registrata
sul mercato dei cambi, quello obbligazionario e delle commodities (per non
parlare delle vicende geopolitiche) si spiega con i grafici di lungo termine. Da
essi si evince con chiarezza assoluta che il DJIA si trova a ridosso di una
trend line rialzista quasi ventennale. Tutti i minimi degli scorsi anni (quelli
registrati nel ’98, nel ’99 e financo quelli del 2002) erano rimasti
confinati al di sopra di questa trend line. E, soprattutto, ogni volta che ci si
avvicinavano sprigionavano immediate reazioni verso l’alto.
Da
circa un anno, invece, l’indice sta flirtando con questa trend line,
cominciando a sondarne la tenuta con una consapevolezza: una discesa sotto di
essa difficilmente troverà un baluardo nei minimi disegnati nel 2002, dal
momento che significherà l’abbandono di un trend rialzista ventennale. Per
questa ragione, ad esempio, le borse non hanno fatto neppure quel sussulto che
ci si sarebbe aspettati al cospetto di una strage come quella perpetrata nella
scuola russa: perché nell’attuale situazione tecnica un cedimento potrebbe
sfuggire al ruolo della semplice correzione tecnica e rivelarsi, altresì,
fatale.
3.
Di ciò, ne è evidentemente consapevole l’intero apparato istituzionale.
Durante il crollo del 2002 l’Authority di vigilanza del sistema previdenziale
inglese dichiarò pubblicamente di essere disposta a chiudere un occhio sulla
non congruità dei ratios patrimoniali dei fondi pensione e dei fondi
assicurativi. Per quanto negli altri paesi non sia stato fatta una dichiarazione
ad altrettanto chiare lettere, non è peregrino immaginare che in qualche
riunione nei paraggi di Basilea sia stato siglato un accordo collegiale tra
governi ed istituzioni di più paesi per evitare un incontrollabile “effetto
Argentina” stante l’importanza rivestita dal sistema previdenziale nelle
moderne economie.
Così
si spiegherebbe come le borse siano ritornate su questi livelli, riportandosi
(ma riportando anche il sistema tutto) sopra i livelli di sicurezza. A questo
punto, però, sembra che non si sappia più cosa fare. Perché se l’economia
“non spinge”, le borse non possono comunque più salire. La prospettiva
sembra appunto questa: un protrarsi ad libitum dell’attuale fase di impasse,
con la speranza che il ciclo economico mondiale (e quello occidentale in
particolare) abbia un moto di orgoglio. Ma qualora gli indici dovessero
cominciare a sforacchiare con più insistenza la suddetta trend line, c’è da
scommettere che le istituzioni più accorte, memori dello scampato pericolo del
2002, saranno le prime a dare la stura alle vendite.
4.
Nel 1973 non esistevano futures sugli indici di borsa. Le esperienze accumulate
nell’ultimo decennio ne hanno accentuato enormemente l’importanza dal
momento che il loro utilizzo (passivo) ai fini di copertura è sempre più
modesto. L’espansione di benchmark, fondi indice e incertezze geopolitiche
hanno invece insegnato il ricorso massiccio a questi strumenti in chiave attiva:
ovvero a fini strumentali e direzionali. Relativamente al primo caso, le
istituzioni hanno imparato l’uso delle tecniche di Reversal Cash&Carry
(acquisto di futures e contestuale vendita di azioni) a volte perpetuato per
settimane, col che spesso si spiegano i movimenti concentrati in poche battute
intervallati da estenuanti immobilismi, nonostante certi listini, come il Dax e
l’EuroStoxx50, siano aperti per 11 ore.
Relativamente
al secondo caso, ai fini della valorizzazione del NAV dei fondi mobiliari,
assicurativi e previdenziali, la detenzione di futures viene infatti
contabilizzata con lo stesso peso delle azioni sottostanti, con l’enorme
vantaggio di poter “uscire” dal mercato, e con ciò variare il gradiente del
portafoglio in funzione del benchmark in pochi secondi, anziché in alcune ore
come avverrebbe con il sottostante. Ciò fa sì che anche per questa via
confronti con il passato non siano percorribili.
Perché
se allora si vendeva o comprava, si vendevano o compravano azioni. Oggi, esse
rappresentano il “sottostante”. Il che significa che ci si può trovare di
fronte a un listino che sale trainato dai futures mentre le azioni vengono però
scaricate, e viceversa (cash&carry). Così che non è dato sapere se, pur
trovandosi in prossimità dei massimi dell’anno, l’insieme del mercato sia
più o meno “carico” di azioni.
In
conclusione, c’è da sperare che la crucialità di questi livelli, un vero e
proprio Rubicone di ingresso a un Bear Market di lungo termine, sia percepita
con così tanta consapevolezza da essere difesa ad oltranza. Ma con altrettanta
consapevolezza si dovrà tener conto dell’enorme rischiosità che comporta un
atto di fede del genere.

18
Ottobre 2004
00:45 Verona
(di
*Gianpaolo Colloridi)
fonte
Wall
Street Italia.com
FED:
Greenspan, debito consumatori
non preoccupa troppo ma per alcune categorie oneri sono già a punto
limite
19
Ottobre 2004
16:06 Roma (Ansa-Bloomberg)
(ANSA-BLOOMBERG)
- ROMA, 19 OTT - L' attuale livello di debito dei consumatori statunitensi
allo stato attuale "non preoccupa eccessivamente". Lo ha
sottolineato oggi il presidente della Fed, Alan Greenspan, il quale ha
peraltro aggiunto che alcuni cittadini sono particolarmente esposti, al punto
da non poter più sopportare ulteriori oneri.
Più in generale in ogni caso Greenspan ha ricordato che da mezzo secolo a
questa parte negli Usa il debito è cresciuto più di quanto non siano
contemporaneamente aumentati i redditi.
Oltre a questo, la maggior parte dell'
indebitamento a carico delle famiglie americane è rappresentato da prestiti a
tasso fisso. Il presidente della banca centrale Usa ha parlato anche del
mercato immobiliare, affermando che una rapida discesa dei prezzi in questo
settore è "quasi certamente da escludersi". Infine, il settore
delle carte di credito: secondo Greenspan un aumento dell' esposizione anche
in questo caso non vuol dire che l' indebitamento dei consumatori debba
destare preoccupazioni. L' intervento odierno del presidente della Fed è in
linea con precedenti affermazioni, con le quali la banca centrale ha fino a
questo momento voluto ridimensionare i timori legati al massiccio
indebitamento dei consumatori. Su questo punto, peraltro, molti osservatori
hanno valutazioni opposte a quelle di Greenspan e considerano eccessiva l'
esposizione debitoria, tenuto conto anche del fatto che il tasso di risparmio
negli Usa é molto basso.
Greenspan
ha parlato davati all' American Community Bankers, a Washington, rilevando
inoltre che anche dopo l' aumento del costo del denaro (attualmente all' 1,75%
a valere sui Fed Funds), "la ratio del servizio del debito almeno per ora
è destinata a crescere solo in misura modesta". Infatti - ha precisato -
"la maggior parte dei crediti al consumo e dei prestiti ipotecari sono a
tasso fisso, con la conseguenza che i pagamenti del servizio del debito
rifletteranno solo in misura graduale i cambiamenti apportati ai tassi di
riferimento". Il presidente della Fed ha inoltre appunto raffreddato le
preoccupazioni legate al possibile scoppio di una bolla speculativa nel
settore immobiliare, pur tenendo conto del fatto che nel secondo trimestre di
quest' anno la crescita dei prezzi é stata su base annua del 9,36%, come
riscontrato dalle statistiche.
Oltre a questo, ha detto ancora Greenspan,
il
rapporto fra l' indebitamento dei consumatori ed i loro redditi è attualmente
pari a 1,2, un livello che in effetti può generare in via teorica qualche
preoccupazione, ma che peraltro - ha sottolineato - almeno allo stato attuale
non ha prodotto allarmi. L' intervento odierno di Greenspan si inquadra in una
situazione in cui la spesa dei consumatori - su cui si basa gran parte della
crescita economica negli Usa - appare agli occhi di molti osservatori arrivata
ad un punto critico, dopo essere stata incentivata dalle politiche di rimborso
fiscale, oltre che dai livelli eccezionalmente bassi del costo del denaro.
Sono in parecchi a chiedersi se i consumi, a questo punto, non possano andare
in 'tilt', anche perché trainati appunto da un ricorso massiccio all'
indebitamento, utilizzando fra l' altro lo strumento del rifinanziamento dei
mutui-casa.(ANSA).

19
Ottobre 2004
16:06 Roma (Ansa-Bloomberg)
|
La beffa
Bond
strutturati: uno scandalo, l'esenzione dal prospetto informativo fino al 2008.
E
la vigilanza resta divisa tra Consob e Bankitalia in modo che se scoppia qualche
bubbone nessuno è responsabile perché era l´altro a dover vigilare.
27
Ottobre 2004 05:34
Roma (di
Giovanni Pons)
Una massa di 300 miliardi di euro di risparmi degli italiani investiti in bond
strutturati. Prodotti che alcune istituzioni finanziarie, le più serie, si sono
rifiutati di collocare perché contenenti titoli di scarsa qualità che le
banche vogliono scaricare dal proprio portafoglio.
Lamberto
Cardia, presidente della Consob, nella sua prima relazione li ha indicati come
un´area grigia, dove «è più difficile rappresentare in modo trasparente l´effettivo
profilo di rischio rendimento». Si aggiungano gli scandali Cirio e Parmalat
dove l´unica cosa che è stata appurata, da Consob e Bankitalia, è la scarsa
informazione offerta ai risparmiatori presso gli sportelli bancari.
E
a tutto questo la risposta del Parlamento italiano qual è? Esenzione dal
prospetto informativo per i bond strutturati fino al 2008. E la vigilanza che
rimane suddivisa tra Consob e Bankitalia in modo che se scoppia qualche bubbone
nessuno è responsabile perché era l´altro che doveva vigilare.
Sapevamo
che l´Italia non è all´avanguardia nella trasparenza dei mercati finanziari
ma l´emendamento sui prospetti è proprio una beffa, frutto del nuovo asse
Berlusconi-Banche.
La Repubblica