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INDICE ARTICOLI

 

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Elezioni USA

Ecco perchè Buffet e Soros appoggiano Kerry

Macro USA

Team america: no ai paragoni col passato

FED e mercato creditizio

FED: Greenspan, debito consumatori non preoccupa ..

Finanza italiana - Risparmio gestito

La beffa

 

+++  USA: la campagna elettorale entra nel vivo +++  Bush e Kerry, al via l'ultima sfida prima del voto  +++

venerdì  1  ottobre  2004   venerdì  15  ottobre  2004   lunedì  25  ottobre  2004
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  Ecco perchè Buffet e Soros appoggiano Kerry

14 Ottobre 2004   00:46  Roma (WSI)

 

«Io e Bush non abbiamo la stessa filosofia politica». L'Oracolo di Omaha ha parlato, lapidario e tranchant come suo solito. E si è messo a consigliare John F. Kerry. La scelta ha stupito tutti.

Warren Buffett, il secondo uomo più ricco d'America dopo Bill Gates (che egli considera un suo figlioccio) il più grande investitore di Wall Street dei tempi moderni che possiede pacchetti importanti della Corporate America (Cola Cola, American Express, McDonald's, Wal-Mart, il Washington Post, solo per citarne alcuni), è senza alcun dubbio il grande saggio della finanza. Le ha imbroccate tutte o quasi, l'ultima sulla bolla internet.

Aveva detto che sarebbe scoppiata quando tutti gli altri, compreso il neo premio Nobel per l'economia, Edward C. Prescott, sostenevano che i valori di borsa non erano gonfiati, e aveva ritirato gli investimenti della sua Berkshire Hathaway dai titoli roventi. E' stato l'unico tra i grandi a sfuggire al grande bagno. Dunque, sul suo fiuto economico nessuno nutre dubbi. Ma il salto in politica?

Nella sua lunga storia di successo non si era mai esposto. Conservatore persino nella gestione del portafoglio, non ha mai scelto un partito politico, ma semmai degli uomini. E se ne è sempre vantato, anche quando ha annunciato il sostegno allo sfidante democratico. L'anno scorso aveva scelto Arnold Schwarzenegger che lo aveva ufficialmente nominato consigliere personale, per aiutarlo ad affrontare il rompicapo del budget della California.

E proprio in quell'occasione, Buffett si era preso una reprimenda del Wall Street Journal perché aveva sostenuto tesi che la bibbia della Borsa riteneva poco liberiste. La rottura con la Bushnomics è avvenuta su un tema che sta particolarmente a cuore allo gnomo del Nebraska: il taglio delle tase sui dividendi. Nel maggio del 2003, Buffett aveva scritto un articolo sul Washington Post definendo la legge, poi approvata dal Congresso, «un perfetto esempio di economia del voodoo» che avrebbe alimentato trucchi contabili stile Enron e avrebbe spostato ancor di più i benefici fiscali sui ricchi.

Sì, proprio lui si è messo alla testa di una vera e propria campagna contro i ricchi che diventano più ricchi grazie a una politica economica che ritiene sbagliata. C'è dietro l'eco della campagna combattuta da anni per la trasparenza e una nuova governance delle imprese. Buffett è stato uno dei più duri accusatori di una finanza che aveva trasformato gli imbrogli in sistema. Si è sempre vantato di aver fatto i soldi grazie ai dividendi, e di percepire uno stipendio di soli 100 mila dollari l'anno come amministratore della Berkshire.

Miliardario e moralista, sostenitore di una etica degli affari vecchio stampo che diffida delle stregonerie finanziarie moderne e, quando compra, lo fa soppesando i valori reali. In uno dei suoi ultimi messaggi agli investitori, ascoltati come vaticini, ha apprezzato Google (non è vero, dunque, che detesta la new economy), perché è un motore di ricerca che funziona. E', in altri termini, un prodotto reale.

Che cosa non gli piace, dunque, di Bush? Ha diffidato fin dall'inizio del coté affaristico del quale si è circondato. Non condivide una politica fiscale troppo iniqua. E, soprattutto, teme gli effetti che gli squilibri nella finanza pubblica e nei conti con l'estero, provocheranno sull'economia americana e mondiale. La Berkshire ha in portafoglio 12 miliardi di valute estere: euro, yen, sterline, franchi svizzeri, ma non dollari. Perché Buffett è convinto che il biglietto verde è destinato a restare debole a lungo, non ci sono alternative per ridurre un disavanzo con l'estero che arriva al 5% del prodotto lordo.

A Kerry ha consigliato di aggiustare la politica fiscale e soprattutto di tappare il buco nel bilancio federale, passato in tre anni da un surplus di qussi il 3% a un deficit di oltre il 4%. Una ricetta risolutiva, lo sfidante democratico non ce l'ha. Ma per Buffett la riproposizione della Bushnomics, a questo punto, è troppo rischiosa.

Ma il saggio del Nebraska non è l'unica star della finanza a spendersi per Kerry. A fianco del senatore democratico è sceso in campo, con un piglio meno tecnico e molto più militante, George Soros. Ungherese di nascita, ebreo, di una famiglia sfuggita prima al nazismo poi al comunismo, allievo di Karl Popper nei suoi anni giovanili a Londra, tanto da chiamare Open Society il think tank aperto a Budapest nel 1991, il grande speculatore, il terrore dei cambi valutari, l'uomo che nel 1992 mise in ginocchio la sterlina e poi la lira, accelerando una delle più catastrofiche crisi del dopoguerra, ha passato il bastone del comando ai figli e si è lanciato in una vera e propria crociata contro Bush.

Lo attacca sull'Iraq senza andare troppo per il sottile: «Abbiamo creato più terroristi di quanti ne abbiamo uccisi». Denuncia come catastrofiche le conseguenze dei twin deficits (pubblico ed estero). Ha speso 25 milioni di dollari di tasca propria, tanto che i repubblicani lo accusano di essersi «comprato» il Democratic Party.

Certo è che Kerry, partito con meno quattrini di Bush e senza il sostegno che il presidente aveva nella business community, si trova adesso pieno di fondi e di consensi ben al di là di quelli tradizionali (Hollywood, Broadway e l'alta finanza ebraica di Wall Street). C'è chi attribuisce a Soros persino ambizioni politiche personali. Non è da escludere, ma, giunto ormai a 74 anni, preferisce fare il kingmaker.

Certo, ha introdotto una tale novità nella campagna elettorale che Newsweek gli ha dedicato una copertina dal titolo intrigante: «Può un miliardario battere Bush? Come George Soros aiuta a trasformare la politica americana». In fondo sia lui sia Buffett, due leggende della finanza, sono uomini d'altri tempi, del primo secolo americano. Quanto potranno influenzare l'America del nuovo secolo?

Nella notte, i duellanti per la Casa Bianca si sono affrontati sulle questioni interne, soprattutto sull'economia. Il presidente arriva alle elezioni sull'onda di una ripresa economica e di una campagna irachena costellata di errori. Esattamente al contrario del padre. Paga sul piano elettorale la carenza di posti di lavoro (il primo presidente in 72 anni, dai tempi di Hoover, ad aver distrutto più posti di lavoro di quanti ne abbia creati).

E quella che Kerry chiama la middle class squeeze, perché per la prima volta in 30 anni, cioè dai tempi di Nixon, il reddito medio delle famiglie si è ridotto. Nessuno dei due, in realtà, ha una ricetta a lungo termine (come sottolineava ieri il Financial Times) in grado di affrontare il grande cambiamento economico-sociale che attraversa l'America, generando ondate di incertezza e vulnerabilità incomprensibili da questa parte dell'Atlantico, in una Europa che ristagna galleggiando nella sua aurea mediocritas.

Ma anche sull'economia, come sulla guerra, il mondo è diverso visto dal Vecchio e dal Nuovo Continente. Quella che agli europei appare come l'iperpotenza arrogante che impone il suo tallone imperiale sull'universo intero, agli americani sembra un paese fragile, assediato da un mondo ostile e aggressivo, incerto sul futuro, in difesa, non all'attacco. Forse, se anche noi assumessimo il punto di vista degli altri (invece di chiedere di farlo solo agli yankee) potremmo guardare con un'ottica diversa anche alla sfida tra Bush e Kerry.

fonte Wall Street Italia.com

 

 

 

  Team america: no ai paragoni col passato

18 Ottobre 2004   00:45  Verona (di *Gianpaolo Colloridi)

Giampaolo Colloridi, che si definisce "osservatore economico", ci ha inviato questo articolo (della serie Team America) che volentieri pubblichiamo.

 

A proposito del dibattito sulla Dow Theory, vorrei fare una premessa di valore: ovvero che, dal mio punto di vista, è profondamente errato fare paragoni con il passato, e passo subito a spiegare il perché soffermandomi di volta in volta su quattro aspetti: quello meramente economico, quello tecnico, quello istituzionale e quello “ontologico al mercato” (vedi l' articolo TEAM AMERICA: CATASTROFISTI E ORSI IN AGGUATO e le risposte di Alessandro Giannotti (Consultique) TEAM AMERICA: DOW THEORY, ECCO L'INTERPRETAZIONE; di Maurizio Milano (Banca Sella) TEAM AMERICA: IL 2005 SARA' TORO O ORSO?; di Alessandro Magagnoli (Financial Trend Analysis) TEAM AMERICA: CREDERE AI BOND O A GREENSPAN?; e infine di Luciano Priori Friggi TEAM AMERICA: ALTRI SEGRETI DELLA DOW THEORY).

1. Un grafico da solo dice molto su ciò che sta accadendo, ma non altrettanto su ciò che potrà accadere se non si tiene conto anche dello stato dei fondamentali. E, diversamente dal passato in cui le economie occidentali vivevano senz’altro una fase di sviluppo economico, la loro situazione attuale è diversa. Il mercato è più efficiente ma, proprio per questo, è vicino alla saturazione. Lo spazio a disposizione è poco per una sufficiente descrizione dei sintomi ma, semplificando, potremmo dire che negli ultimi anni il ciclo economico ha tirato avanti perché sono affiorati nuovi mercati: quelli dell’Est Europeo e del Sudamerica prima; alcuni paesi emergenti, poi; l’economia cinese (e paraggi) oggi. Ma il loro contributo non ha fatto altro che aumentare l’efficienza del sistema produttivo mondiale (aumentando per ciò ulteriormente l’offerta) mentre lo stock di domanda ha continuato sì a crescere ma in maniera meno che proporzionale.

Lo testimonia la modifica qualitativa della domanda, sbilanciata sempre più verso i servizi piuttosto che verso l’acquisto di beni reali (che è poi la ragione per cui si assiste e si continuerà ad assistere all’enorme squilibrio della bilancia commerciale USA). Il problema di fondo – che senz’altro non si evince dal grafico del DJIA – consta quindi nella contemporaneità di un eccesso di offerta e una sostanziale carenza di domanda; le cui conseguenze tardano a manifestarsi solo grazie alla montagna di liquidità immessa nel sistema che, per dirla con Keynes, resta tuttavia “intrappolata”.

L’eccesso di offerta spiega come, nonostante il sensibile aumento dei prezzi delle materie prime a cui si è assistito nell’ultimo triennio, non vi siano sostanziali pressioni inflazionistiche. Ma ciò denuncia contemporaneamente una pressione concorrenziale indotta dalla carenza di domanda rispetto alla produzione. E, malgrado molte società continuino a fare utili e i listini si mantengano nella zona alta, il numero di società quotate il cui bilancio è in perdita è senz’altro incongruo.

2. Sotto il profilo tecnico l’apparente inspiegabilità di un lungo periodo (lo scorcio del 2003 e buona parte del 2004) trascorso dai mercati azionari in un range così ristretto, a dispetto dell’assai più alta volatilità registrata sul mercato dei cambi, quello obbligazionario e delle commodities (per non parlare delle vicende geopolitiche) si spiega con i grafici di lungo termine. Da essi si evince con chiarezza assoluta che il DJIA si trova a ridosso di una trend line rialzista quasi ventennale. Tutti i minimi degli scorsi anni (quelli registrati nel ’98, nel ’99 e financo quelli del 2002) erano rimasti confinati al di sopra di questa trend line. E, soprattutto, ogni volta che ci si avvicinavano sprigionavano immediate reazioni verso l’alto.

Da circa un anno, invece, l’indice sta flirtando con questa trend line, cominciando a sondarne la tenuta con una consapevolezza: una discesa sotto di essa difficilmente troverà un baluardo nei minimi disegnati nel 2002, dal momento che significherà l’abbandono di un trend rialzista ventennale. Per questa ragione, ad esempio, le borse non hanno fatto neppure quel sussulto che ci si sarebbe aspettati al cospetto di una strage come quella perpetrata nella scuola russa: perché nell’attuale situazione tecnica un cedimento potrebbe sfuggire al ruolo della semplice correzione tecnica e rivelarsi, altresì, fatale.

3. Di ciò, ne è evidentemente consapevole l’intero apparato istituzionale. Durante il crollo del 2002 l’Authority di vigilanza del sistema previdenziale inglese dichiarò pubblicamente di essere disposta a chiudere un occhio sulla non congruità dei ratios patrimoniali dei fondi pensione e dei fondi assicurativi. Per quanto negli altri paesi non sia stato fatta una dichiarazione ad altrettanto chiare lettere, non è peregrino immaginare che in qualche riunione nei paraggi di Basilea sia stato siglato un accordo collegiale tra governi ed istituzioni di più paesi per evitare un incontrollabile “effetto Argentina” stante l’importanza rivestita dal sistema previdenziale nelle moderne economie.

Così si spiegherebbe come le borse siano ritornate su questi livelli, riportandosi (ma riportando anche il sistema tutto) sopra i livelli di sicurezza. A questo punto, però, sembra che non si sappia più cosa fare. Perché se l’economia “non spinge”, le borse non possono comunque più salire. La prospettiva sembra appunto questa: un protrarsi ad libitum dell’attuale fase di impasse, con la speranza che il ciclo economico mondiale (e quello occidentale in particolare) abbia un moto di orgoglio. Ma qualora gli indici dovessero cominciare a sforacchiare con più insistenza la suddetta trend line, c’è da scommettere che le istituzioni più accorte, memori dello scampato pericolo del 2002, saranno le prime a dare la stura alle vendite.

4. Nel 1973 non esistevano futures sugli indici di borsa. Le esperienze accumulate nell’ultimo decennio ne hanno accentuato enormemente l’importanza dal momento che il loro utilizzo (passivo) ai fini di copertura è sempre più modesto. L’espansione di benchmark, fondi indice e incertezze geopolitiche hanno invece insegnato il ricorso massiccio a questi strumenti in chiave attiva: ovvero a fini strumentali e direzionali. Relativamente al primo caso, le istituzioni hanno imparato l’uso delle tecniche di Reversal Cash&Carry (acquisto di futures e contestuale vendita di azioni) a volte perpetuato per settimane, col che spesso si spiegano i movimenti concentrati in poche battute intervallati da estenuanti immobilismi, nonostante certi listini, come il Dax e l’EuroStoxx50, siano aperti per 11 ore.

Relativamente al secondo caso, ai fini della valorizzazione del NAV dei fondi mobiliari, assicurativi e previdenziali, la detenzione di futures viene infatti contabilizzata con lo stesso peso delle azioni sottostanti, con l’enorme vantaggio di poter “uscire” dal mercato, e con ciò variare il gradiente del portafoglio in funzione del benchmark in pochi secondi, anziché in alcune ore come avverrebbe con il sottostante. Ciò fa sì che anche per questa via confronti con il passato non siano percorribili.

Perché se allora si vendeva o comprava, si vendevano o compravano azioni. Oggi, esse rappresentano il “sottostante”. Il che significa che ci si può trovare di fronte a un listino che sale trainato dai futures mentre le azioni vengono però scaricate, e viceversa (cash&carry). Così che non è dato sapere se, pur trovandosi in prossimità dei massimi dell’anno, l’insieme del mercato sia più o meno “carico” di azioni.

In conclusione, c’è da sperare che la crucialità di questi livelli, un vero e proprio Rubicone di ingresso a un Bear Market di lungo termine, sia percepita con così tanta consapevolezza da essere difesa ad oltranza. Ma con altrettanta consapevolezza si dovrà tener conto dell’enorme rischiosità che comporta un atto di fede del genere.

18 Ottobre 2004   00:45  Verona (di *Gianpaolo Colloridi)

fonte Wall Street Italia.com

 

 

 

 

FED: Greenspan, debito consumatori non preoccupa troppo ma per alcune categorie oneri sono già a punto limite

19 Ottobre 2004  16:06 Roma (Ansa-Bloomberg)

 

(ANSA-BLOOMBERG) - ROMA, 19 OTT - L' attuale livello di debito dei consumatori statunitensi allo stato attuale "non preoccupa eccessivamente". Lo ha sottolineato oggi il presidente della Fed, Alan Greenspan, il quale ha peraltro aggiunto che alcuni cittadini sono particolarmente esposti, al punto da non poter più sopportare ulteriori oneri. Più in generale in ogni caso Greenspan ha ricordato che da mezzo secolo a questa parte negli Usa il debito è cresciuto più di quanto non siano contemporaneamente aumentati i redditi. 

Oltre a questo, la maggior parte dell' indebitamento a carico delle famiglie americane è rappresentato da prestiti a tasso fisso. Il presidente della banca centrale Usa ha parlato anche del mercato immobiliare, affermando che una rapida discesa dei prezzi in questo settore è "quasi certamente da escludersi". Infine, il settore delle carte di credito: secondo Greenspan un aumento dell' esposizione anche in questo caso non vuol dire che l' indebitamento dei consumatori debba destare preoccupazioni. L' intervento odierno del presidente della Fed è in linea con precedenti affermazioni, con le quali la banca centrale ha fino a questo momento voluto ridimensionare i timori legati al massiccio indebitamento dei consumatori. Su questo punto, peraltro, molti osservatori hanno valutazioni opposte a quelle di Greenspan e considerano eccessiva l' esposizione debitoria, tenuto conto anche del fatto che il tasso di risparmio negli Usa é molto basso.

Greenspan ha parlato davati all' American Community Bankers, a Washington, rilevando inoltre che anche dopo l' aumento del costo del denaro (attualmente all' 1,75% a valere sui Fed Funds), "la ratio del servizio del debito almeno per ora è destinata a crescere solo in misura modesta". Infatti - ha precisato - "la maggior parte dei crediti al consumo e dei prestiti ipotecari sono a tasso fisso, con la conseguenza che i pagamenti del servizio del debito rifletteranno solo in misura graduale i cambiamenti apportati ai tassi di riferimento". Il presidente della Fed ha inoltre appunto raffreddato le preoccupazioni legate al possibile scoppio di una bolla speculativa nel settore immobiliare, pur tenendo conto del fatto che nel secondo trimestre di quest' anno la crescita dei prezzi é stata su base annua del 9,36%, come riscontrato dalle statistiche. 

Oltre a questo, ha detto ancora Greenspan, il rapporto fra l' indebitamento dei consumatori ed i loro redditi è attualmente pari a 1,2, un livello che in effetti può generare in via teorica qualche preoccupazione, ma che peraltro - ha sottolineato - almeno allo stato attuale non ha prodotto allarmi. L' intervento odierno di Greenspan si inquadra in una situazione in cui la spesa dei consumatori - su cui si basa gran parte della crescita economica negli Usa - appare agli occhi di molti osservatori arrivata ad un punto critico, dopo essere stata incentivata dalle politiche di rimborso fiscale, oltre che dai livelli eccezionalmente bassi del costo del denaro. Sono in parecchi a chiedersi se i consumi, a questo punto, non possano andare in 'tilt', anche perché trainati appunto da un ricorso massiccio all' indebitamento, utilizzando fra l' altro lo strumento del rifinanziamento dei mutui-casa.(ANSA). 

 

19 Ottobre 2004  16:06 Roma (Ansa-Bloomberg) 

 

 

 

 

 

 

  La beffa

Bond strutturati: uno scandalo, l'esenzione dal prospetto informativo fino al 2008. E la vigilanza resta divisa tra Consob e Bankitalia in modo che se scoppia qualche bubbone nessuno è responsabile perché era l´altro a dover vigilare.

27 Ottobre 2004  05:34 Roma (di Giovanni Pons)

  

Una massa di 300 miliardi di euro di risparmi degli italiani investiti in bond strutturati. Prodotti che alcune istituzioni finanziarie, le più serie, si sono rifiutati di collocare perché contenenti titoli di scarsa qualità che le banche vogliono scaricare dal proprio portafoglio.

Lamberto Cardia, presidente della Consob, nella sua prima relazione li ha indicati come un´area grigia, dove «è più difficile rappresentare in modo trasparente l´effettivo profilo di rischio rendimento». Si aggiungano gli scandali Cirio e Parmalat dove l´unica cosa che è stata appurata, da Consob e Bankitalia, è la scarsa informazione offerta ai risparmiatori presso gli sportelli bancari.

E a tutto questo la risposta del Parlamento italiano qual è? Esenzione dal prospetto informativo per i bond strutturati fino al 2008. E la vigilanza che rimane suddivisa tra Consob e Bankitalia in modo che se scoppia qualche bubbone nessuno è responsabile perché era l´altro che doveva vigilare.

Sapevamo che l´Italia non è all´avanguardia nella trasparenza dei mercati finanziari ma l´emendamento sui prospetti è proprio una beffa, frutto del nuovo asse Berlusconi-Banche.  

 

La Repubblica