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Elezioni:
se sarà Bush 2 come reagirà la Borsa ?
02
Novembre 2004
21:35 New York
(di
*R. Guglielmetti)
*Riccardo
Guglielmetti e' il Chief Executive Officer di Wall Street Italia. Questo
articolo e' basato su un suo intervento dai nostri uffici di New York in onda
nella maratona elettorale organizzata dalla trasmissione Porta a Porta su RAI 1.
In generale i mercati si sono mostrati indifferenti nell’anno successivo
alle elezioni presidenziali USA: a seconda del periodo considerato, gli indici
mostrano una variazione da –1,6% (dal 1833) a +3,1% (dal 1929). Se pero’
scomponiamo questo dato a seconda del partito di chi e’ stato eletto, gli
scenari cambiano.
Infatti
dal
1929 in
poi, l’indice S&P500 e’ cresciuto di
piu’ l’anno successivo all’elezione del candidato del partito democratico
(+9%) rispetto al candidato del partito repubblicano, quando invece gli indici
hanno perso in media il 3,4%. Una possibile spiegazione risiede nel fatto che ci
sono state piu’ recessioni nei periodi di presidenza repubblicana (in media 2
recessioni su 3).
Indipendentemente
da chi viene eletto, i mercati tendono ad avere una performance migliore nel
terzo e quarto anno di presidenza. Sempre dal 1929 ad oggi, l’indice S&P
e’ salito in media del 17,7% e del 9,4% nel terzo e quarto anno di presidenza
democratica. Nel caso dei repubblicani, il mercato e’ salito dell’11,3% e
del 4,7% rispettivamente. Cio’ dipende da molti fattori, fra i quali
l’adozione da parte del presidente di politiche pro-crescita economica, al
fine di facilitare la sua rielezione.
Un’analisi
del comportamento degli indici dal dopoguerra alle ultime elezioni rivela che al
mercato non piace quando un presidente in carica non viene rieletto. Nei casi in
cui questo e’ avvenuto (nel 1976 con Gerald Ford, nel 1980 con Jimmy Carter e
nel 1992 con George Bush padre), l’S&P500 e’ sceso in media di quasi il
5% l’anno successivo al cambio di presidenza. Al contrario, la rielezione del
candidato in carica ha fatto aumentare l’indice del 7,5% nelle sei volte che
si e’ verificato questo risultato.
Con
il risultato delle elezioni di oggi quanto mai incerto, e’ utile analizzare
quello che successe ai mercati quattro anni fa, quando per oltre un mese non si
seppe chi sarebbe stato eletto presidente. I mercati hanno avuto una reazione
negativa alla situazione di stallo in cui si erano venuti a trovare: dal 7
novembre, giorno delle elezioni, fino al 14 dicembre, il giorno successivo al
ritiro di Al Gore, l’S&P500 perse il 6,4%, mentre il Nasdaq Composite
oltre il 20%.
Nello
stesso periodo, il dollaro perse oltre il 3% nei confronti dell’Euro (ma
guadagno’ il 4,2% nei confronti dello Yen), ed il prezzo del petrolio passo’
da $32,86 per barile a $27,99 (un calo di quasi il 15%). Chi guadagnarono furono
i Treasuries: l’obbligazione a 10 anni guadagno’ oltre il 5%. Ovviamente,
non furono solo le elezioni ad influenzare l’andamento dei mercati: diverse
societa’ annunciarono in quel periodo un forte calo nei loro utili e nelle
aspettative future, mentre le vendite al dettaglio del mese di novembre ebbero
un calo inaspettato dello 0,4%.
Rimane
il fatto che l’impasse in cui si venne a trovare il paese non ebbe un
influenza positiva sui mercati. Ed e’ molto probabile che un’altra
situazione di stallo, caratterizzata da battaglie legali in piu’ stati,
avrebbe conseguenze disastrose per l’andamento dei mercati finanziari,
specialmente se teniamo conto del particolare periodo storico ed economico che
stiamo vivendo.
02 Novembre 2004
21:35 New
York (di
*R. Guglielmetti)
fonte
Wall Street Italia.com
Fondi:
chi
vince e chi perde con Bush presidente
03
Novembre 2004
023:48 Milano
(di
*Sara Silano)
*Sara
Silano è Vicecaposervizio di Morningstar in Italia
Supera i 20 miliardi di euro il patrimonio dei fondi azionari italiani
specializzati sugli Stati Uniti, più degli asset dei prodotti specializzati
sull’area Euro. E nell’ultimo anno, caratterizzato da uno scarso favore per
Wall Street, tali fondi hanno, comunque, raccolto 913 milioni. Nonostante i
gestori non si attendano un grande impatto dell’esito delle elezioni sulla
Borsa, sono in molti gli investitori che si chiedono se è il caso di rivedere
il portafoglio.
A
differenza delle azioni, i fondi non sono strumenti di trading, ma di
investimento. Per questa ragione non ha senso modificare la propria asset
allocation solo per effetto di eventi contingenti. Tuttavia (...) può essere
interessante sapere dove investono i 471 fondi azionari Nord America distribuiti
in Italia.
Più
volte è stato ricordato che la vittoria di George W. Bush dovrebbe favorire i
titoli farmaceutici, energetici, finanziari e della difesa, mentre la sconfitta
di John Kerry potrebbe avere un effetto contrario su tecnologici e industria
delle costruzioni, che sarebbero stati aiutati da una vittoria del
democratico.
Analizzando
la composizione dei fondi emerge che il settore della salute pesa in media per
il 14,1% sul portafoglio complessivo, l’energia per il 7,1%, banche e
assicurazioni per il 18%. Per quanto riguarda la tecnologia, l’hardware è
rappresentato per il 10,6%, il software per il 5,21%, mentre il comparto
dell’industria, che comprende tra l’altro la difesa e le costruzioni, ha un
peso del 28,6%.
Andando
più in profondità nell’analisi, è possibile individuare i fondi del
“partito di Bush” e quelli del “partito di Kerry”, ossia i prodotti che
sovrappesano i comparti che dovrebbero beneficiare del risultato elettorale.
E’ “repubblicano” Janus Twenty Fund, che è investito per quasi il 50% nel
settore farmaceutico e finanziario e per un altro 17% nell’industria. I
tecnologici, invece, pesano appena per il 12%. Ancora, nel fondo CAF US
Opportunities del Crédit Agricole, i titoli dell’industria rappresentano il
40,8% e quelli dell’energia oltre il 17%, mentre nel Vontobel US value, i
comparti finanziario e industriale rappresentano circa l’85%.
Al
“partito di Kerry” si possono attribuire i fondi Sogelux Fund equities US
concentraded core e Franklin Aggressive Growth, tutti con una percentuale di
titoli tecnologici superiore al 30%. Al contrario, il peso di finanziari e
industriali è di gran lunga inferiore alla media. In generale, i fondi con uno
stile growth sono più vicini al partito del candidato repubblicano a differenza
di quelli value.
Concentrando
l’attenzione sui 62 fondi di diritto italiano, emerge che è BPU Pramerica
Azioni USA il fondo che punta maggiormente sui titoli energetici quotati a Wall
Street (16% del portafoglio), mentre Ducato Geo America Valore è il più
esposto sui finanziari (34,7%) e un altro fondo di Mps, il Ducato Geo America
Crescita sul comparto della salute (22%). Quest’ultimo è anche sovrappesato
sui titoli tecnologici (28,7%). Ma il fondo con il paniere più hi tech è
Generali USA growth, nel quale hardware e software pesano per oltre il 50%.
Guardando
alle performance dei fondi azionari Nord America da inizio anno, si nota come il
“partito di Bush” sia stato più premiante. Il rendimento medio è stato
dello 0,37%, ma i prodotti piè esposti a finanziari, industria e energia hanno
guadagnato in media il 10%, mentre quelli con un orientamento growth hanno
sofferto perdite tra il 2 e il 10%.

Morningstar
Fatto
il Presidente ora
parla Greenspan
Dopo
la riconferma di Bush, veniamo al sodo.
Tre
microrialzi dei tassi dello 0,25% in quattro mesi non hanno ottenuto
nessun risultato reale ne' sul mercato dei cambi,
ne' su quello del
deficit della bilancia commerciale.
E cosi' il vecchio Alan...
03
Novembre 2004
14:29 Roma (WSI)
(WSI)
- Sistemato l'inquilino della Casa Bianca, con la riconferma di George Bush, i
mercati aspettano che Alan Greenspan torni a fare il suo lavoro.
Molto
più che il testa a testa nei sondaggi tra i due candidati, a creare
incertezza a Wall Street è stata la scelta del governatore della Federal
Reserve di evitare ogni mossa che potesse minimamente influenzare l'esito del
voto. Una scelta che ha creato non poco nervosismo, anche perché i problemi
(il prezzo del denaro, il dollaro in caduta libera rispetto alle altre monete,
il deficit commerciale con l'estero) e le necessarie soluzioni, prescindono in
gran parte da nome e dalle idee del presidente.
Si
riparte dunque mercoledì prossimo, con la riunione dell'organo esecutivo
della Fed che quasi sicuramente rialzerà di un'ulteriore 0,25% il costo del
denaro portandolo al 2%. Un altro passetto verso quota 3% che gli stessi
economisti della banca centrale definiscono «livello neutrale» rispetto
all'economia reale. Una riavvicinamento necessario per consolidare una
crescita economica che poggia su squilibri troppo grandi (tassi d'interesse
bassi e deficit pubblico alle stelle) per poter sembrare rassicurante.
I
tempi dei passi successivi sono tutti da decifrare: il prezzo del petrolio
pesa e minaccia d'importare inflazione, le ultime dichiarazioni della Fed
lasciano intendere che si teme molto questa eventualità. Ma ci sono altri
elementi che suggeriscono una risalita meno rapida: il dollaro sempre più
debole è ancora considerato come il principale elemento di riequilibrio per
un deficit con l'estero ormai abnorme. Se le merci straniere costano sempre di
più agli americani, le importazioni dovrebbero finalmente ridursi e nel
contempo dovrebbero crescere le esportazioni a stelle e strisce.
Meccanismo
virtuoso che rischia di non entrare mai in azione se i tassi d'interesse
dovessero salire troppo decisamente facendo aumentare la domanda di dollari.
Così come sul fronte tassi più alti significa oneri finanziari in crescita
le famiglie americane, il cui indebitamento supera il 100% del reddito
disponibile.
Una
soluzione facile non c'è, non si può sbagliare e nemmeno essere troppo
timidi. Critica che viene rivolta al Greenspan di questi mesi, che con tre
microrialzi dello 0,25% in quattro mesi non ha ottenuto nessun risultato reale
né sul mercato dei cambi, né su quello del deficit della bilancia
commerciale. Solo con il «mago» di nuovo in grado di segnare la rotta in
modo netto a Wall Street si parlerà di transizione finita.
Il Riformista
|
Il rally dei listini
può durare fino a Natale
I
buoni dati sull'occupazione Usa danno ottimismo per la campagna di vendite di
fine anno. E gli entusiasti parlano di
un'onda lunga, destinata a segnare la seconda era di Bush
e un nuovo corso dei mercati finanziari.
08
Novembre 2004 11:32
Milano (di
Giuseppe Turani)
Il rally borsistico c'è e è partito da almeno una decina di giorni.
Probabilmente andrà avanti ancora per qualche settimana. Fino alla fine di
novembre, dicono i prudenti. A fronte dei quali, naturalmente, ci sono gli
entusiasti che parlano di un'onda lunga, destinata a segnare la seconda era di
Bush e un nuovo corso dei mercati finanziari.
In
realtà, è forse bene stare con i piedi per terra. Questo rally che stiamo
vivendo ha alla sua base almeno un paio di ragioni precise:
1
- La prima è che le grandi banche d'affari, in maggioranza, vanno a chiudere i
loro bilanci in novembre. E questo, quindi, è il mese in cui tirano su le
quotazioni perché devono, appunto, mettere in conti in fila. Per Wall Street è
una sorta di tradizione. Sotto questo aspetto niente di straordinario.
2
- Inoltre va detto che i dati recenti sull'occupazione sono buoni, anche se poi
alla lunga non risolvono molto. Però è evidente che con questi numeri (quasi
340 mila occupati in più a ottobre) un po' tutti si aspettano una buona
campagna di vendite natalizia. E quindi aziende con profitti non compressi. Ma,
anzi, in buonissima forma. E questo lascia capire che c'è spazio e che il rally
può correre, almeno ancora per un po'.
Se
l'analisi è questa, va detto che allora diventa difficile credere a un'onda
lunga che nel corso del 2005 dovrebbe portare gli indici chissà dove.
Anzi,
gli esperti preferiscono fermarsi sul rally di novembre. Su quello che verrà
dopo lasciano un punto interrogativo. E in effetti il dopo continua a essere
poco rassicurante. Per le solite, note ragioni.
1
- C'è un deficit commerciale da mettere a posto. E qui ci sono dichiarazioni
persino di Greenspan che spiegano la strada che verrà percorsa: si lascerà
scivolare il dollaro. Fin dove non lo sa nessuno, ovviamente, ma andrà giù
parecchio. C'è chi dice che la frontiera è collocata a quota 1,40 contro
l'euro. Ma c'è anche chi dice che si potrebbe andare oltre. In questi ultimi
anni Greenspan ha dimostrato di essere spregiudicato quanto basta (e forse anche
un po' di più).
2
- Ma se quello del dollaro è un problema, ancora più complicata è la
questione del deficit del bilancio federale. Tutti dicono che bisogna rientrare.
Ma non è detto che questo avvenga, anzi. Bush, a quanto pare, non ha intenzione
di tornare indietro dalle sue agevolazioni fiscali, come non ha molte intenzioni
di ridurre le spese di guerra. E quindi il disavanzo pubblico potrebbe anche
rimanere stabile o addirittura crescere.
Nessuno
lo sa. Però non si può escludere che nel corso del
2005 l
'America abbia bisogno di finanziarsi
massicciamente e che quindi si trovi nella necessità di emettere bond con tassi
più alti. Il che potrebbe, a un certo punto, rappresentare un'alternativa
all'investimento azionario (che sarà penalizzato anche dai tassi di interesse
più elevati).
Insomma,
non è affatto detto che nei prossimi mesi la situazione americana rimanga
"buona" come è oggi. Oggi il benessere americano è stato costruito
su un grandissimo disavanzo commerciale e su un altrettanto colossale disavanzo
pubblico. Bush spera che la ripresa, alla fine, riesca a auto-alimentarsi e
quindi a riassorbire almeno il disavanzo pubblico. Ma è sotto gli occhi di
tutti che finora questa operazione non è riuscita.
E
quindi alla fine bisognerà intervenire. Intervenire lasciando scivolare il
dollaro di parecchio rispetto alle quotazioni attuali e facendo salire i tassi
di interesse per rendere possibile e agevole il collocamento di titoli del
debito pubblico. Insomma, se si guarda al di là delle feste di Capodanno, si
vede che forse non tutto è rosa. Qui e là permangono minacciose nubi nere e
pesanti.

La Repubblica
L'America vive oltre i
propri mezzi
E
il calo del dollaro? Il solo interesse di
George Bush è che non tracolli a candela. Lo dice Robert Reich, democratico
intelligente, ex ministro del Lavoro di
Bill Clinton. E poi: "serve più rigore per salvare i ceti medi".
18
Novembre 2004 09:34
New
York (di
Massimo Gaggi)
Se l’Europa, preoccupata per l’indebolimento del dollaro, accusa gli Stati
Uniti per il deficit che ha accumulato sul fronte della spesa pubblica, commette
un errore di prospettiva: «Il deficit diventerà un problema grave nei prossimi
due anni, ma le sue dimensioni attuali sono ancora sostenibili, perché dietro
c’è un’economia in espansione e una capacità produttiva inutilizzata»
spiega Robert Reich, economista e ministro del Lavoro del governo Clinton, un
democratico che sul rigore delle politiche di bilancio ha idee meno severe dei
suoi compagni di partito.
Mentre
a Washington i membri del gabinetto Bush cadono uno dopo l’altro, il ministro
del Tesoro John Snow è in missione in Europa; negli incontri - che culmineranno
nel G20 di fine settimana, il vertice che riunisce «grandi» del G7, Paesi
emergenti e nuove potenze industriali asiatiche - parla soprattutto del «deficit
di crescita» del Vecchio continente e chiede ai partner di impegnarsi ad
espandere più rapidamente le rispettive economie. Dall’altra parte trova
interlocutori preoccupati - e anche irritati - per il repentino indebolimento
del dollaro che l’Amministrazione Usa non sembra interessata ad arginare, a
parte qualche dichiarazione di facciata.
Lo
spazio per un’intesa è esiguo: Washington sembra interessata solo a far sì
che lo slittamento del dollaro avvenga in modo ordinato, senza scossoni, ma
molti temono una crisi repentina. L’Europa non vuole crisi ma nemmeno
ulteriori cadute che rafforzerebbero troppo l’euro, facendole perdere
competitività anche rispetto ai Paesi asiatici ancorati alla valuta Usa. Reich
non vede le premesse per una riforma del sistema dei cambi, né ritiene che
l’Europa potrebbe mettere sul piatto la rinuncia a far crescere l’euro come
nuova valuta mondiale di riserva: «Farebbe comodo agli Stati Uniti, ma non è
nei vostri interessi: avere altri Paesi che usano la tua moneta come valuta di
riserva è come ottenere un prestito senza interessi dal resto del mondo».
Ma
i margini per riequilibrare la situazione, spiega il ministro che visse con
Clinton la stagione esaltante della «new economy», col bilancio federale in
surplus e la creazione di 22 milioni di posti di lavoro, oggi ci sarebbero
ancora: gli europei potrebbero sostenere la loro crescita con una politica più
espansiva, rischiando anche qualcosa di più dal lato dei disavanzi di bilancio,
mentre, nelle sue dimensioni attuali, il deficit federale Usa sarebbe ancora
gestibile: «Il disavanzo non è un problema insolubile quando, come accade ora,
l’economia ha ancora una rilevante capacità produttiva inutilizzata. Il punto
è che questa spesa aggiuntiva non coperta da entrate si somma a una domanda
interna già molto sostenuta e spinge i Paese verso un utilizzo pieno delle sue
capacità: uomini, fabbriche, uffici. Questo significa che entro due anni il
deficit diventerà un problema molto più grave perché genererà inflazione».
Negli
Usa un allarme su questo fronte è peraltro già scattato due giorni fa, con i
prezzi alla produzione che in ottobre hanno registrato l’incremento mensile più
alto degli ultimi 15 anni: molto più di quanto temuto per l’impatto del
caro-petrolio. Per Reich la vera questione non è quanto deficit ma quale
deficit: «Un disavanzo che riflettesse forti investimenti nella scuola, nelle
infrastrutture, nella ricerca, sarebbe meno dannoso perché servirebbe a
costruire un’economia più forte, ad espandere ulteriormente la capacità
produttiva». Ma oggi l’America spende «molto meno di 25 anni fa, in rapporto
Pil, per scuola, formazione professionale, ponti, strade, aeroporti». Perfino
nella ricerca (dove l’America rimane comunque l’indiscusso leader mondiale)
l’investimento pubblico è più che dimezzato in termini reali.
Insomma,
cosa devono aspettarsi gli americani visto che, deficit pubblico a parte, il
disavanzo dei conto con l’estero ha ormai travolto tutti i record? Dovrà
calare la domanda interna? Le famiglie dovranno «tirare la cinghia»,
nonostante le promesse di Bush? Reich, autore di «Perché i liberal vinceranno
ancora», un atto di fede e una riflessione sulla crisi del partito democratico
tradotto in un libro ora pubblicato anche in Italia, accusa Bush di aver
riconquistato
la Casa Bianca
con una «campagna di paura e con l’aiuto
della destra radicale che ha demonizzato i liberal, gli europei e chiunque
manifestava idee diverse» e avverte che lo schiacciamento dei ceti medi -
fenomeno iniziato alla fine degli anni ’70 ma che di recente ha subito
un’accelerazione in un’America sempre più polarizzata - è un trend
pericoloso per la democrazia.
Una
situazione destinata a peggiorare: «Il deficit commerciale in sé non sarebbe
un problema. Il vero problema è che gli americani stanno vivendo al di sopra
dei loro mezzi, la spesa va molto oltre la capacità produttiva del Paese. Lo si
può affrontare solo in due modi: espandendo quella capacità produttiva o
tagliando la spesa. Credo che saremo costretti a fare tutte e due le cose, ma
non so sinceramente quando la politica prenderà atto della realtà.
E’
difficile per un Paese mantenere un esercito in guerra, combattere il
terrorismo, affrontare emergenze finanziarie come quella dei futuri disavanzi
delle pensioni e di Medicare, la sanità per gli anziani, finanziando al tempo
stesso gli investimenti necessari per garantire la crescita del Paese. Questi
investimenti sono vitali ma danno frutti dopo molto tempo mentre la politica ha
un orizzonte politico che al massimo arriva a quattro anni».

Corriere della
Sera
Greenspan:
la storia non è una guida infallibile
Il
Governatore della Fed ha ribadito i rischi
di un mancato rientro del deficit delle partite correnti Usa.
19
Novembre 2004
16:42 Siena (di
*Antonio
Cesarano)
*Antonio
Cesarano e' il Responsabile Desk Market Research di MPS Finance.
Il
discorso di Greenspan tenuto oggi a Francoforte nel corso dell'European
Banking Congress ha sottolineato i rischi derivanti da un mancato rientro del
deficit di partite correnti: minore preferenza attribuita agli asset in
Dollari degli investitori internazionali o alternativamente un rialzo dei
tassi di interesse Usa tale da mantenere inalterato l’appetibilità dei bond
Usa.
Greenspan
ha segnalato come la correlazione tra investimenti e risparmi domestici sia
diminuita nell’ultimo decennio rispetto al valore registrato dal dopoguerra
ad oggi (da
0,95 a
meno di 0,8), il che evidenzia un
allentamento generalizzato del classico legame tra investimenti e risparmi,
acuendo il problema del deficit di partite correnti soprattutto per i Paesi
con basso tasso di risparmio come gli Usa.
In
merito al tema del finanziamento del deficit, Greenspan ha dichiarato che non
si può fare affidamento solo sugli acquisti di Treasuries e Agencies bond da
parte delle banche centrali, dal momento che esigenze di diversificazione di
portafoglio potrebbero portare ad un certo punto ad un minor supporto da tale
fonte di finanziamento. Inoltre emerge in modo evidente un problema di
“inaccettabile concentrazione dei rischi”, essendo i Treasuries acquistati
sostanzialmente da un gruppo ristretto di banche centrali.
Ma
quando potrebbe verificarsi la diminuzione dell’appetibilità degli asset
Usa? Greenspan
ha dichiarato a tal proposito che nessuna risposta è convincente: “The
inability to anticipate changes in supply and demand for a currency is at the
root of the statistically robust finding that forecasting exchange rates has a
success rate no better than that of forecasting the outcome of a coin toss”.
(L’incapacita’ di anticipare i
cambiamenti nella domanda e nell’offerta di una moneta e’ alla base del
robusto risultato statistico che prevedere i tassi di cambio ha un indice di
successo non migliore rispetto a quello di prevedere il risultato del lancio
delle monete).
E’
innegabile però che occorre un recupero del tasso di risparmio negli Usa. A
sua volta tale processo richiede il rientro del deficit di bilancio. Greenspan
pertanto ha sottolineato che sono benvenute politiche finalizzate
all’incremento del personal saving rate.
In
tal caso, il riferimento implicito potrebbe essere alla manovra proposta da
Bush di parziale privatizzazione della National Security attraverso la
destinazione (su base volontaria) dei relativi fondi a personal accounts
esenti gestiti da operatori selezionati.
Infine
il capo della Fed ha sottolineato come in passato le forze di mercato sono
state in grado di ripristinare nel tempo un bilancia dei pagamenti Usa
sostenibile. Il capo della Fed però ha chiuso con una frase che suona da
monito: History is not an infallible guide to the future.

19
Novembre 2004
16:42 Siena (di
*Antonio
Cesarano)
|
Euro, Dollaro ed
effetto Cina
A
forza di comprare valuta americana, la banca centrale dei comunisti di Pechino
ci affoga dentro, e le sue riserve sono
ormai varie volte quelle degli Stati Uniti.
21
Novembre 2004 14:36
Milano (di
Geminello Alvi)
L'altro ieri, proprio alla vigilia del G20, Greenspan ha aumentato i dubbi sul
dollaro. Ha previsto in un pubblico discorso un minor «appetito degli
investitori per strumenti finanziari denominati in dollari». E, visto che non
è uno sconsiderato ansioso, la dichiarazione significa che gli va bene che il
dollaro seguiti a calare. Del resto, tolto il velo delle ipocrisie, una delle
questioni che nel G20 più premeva agli Usa di assecondare era il riordino dei
cambi. Anzitutto con l'Oriente. E dunque sia Snow, il segretario al Tesoro, sia
Greenspan, in questi giorni hanno motivo di sorridere leggendo sui giornali
quanto accade.
In
fila agli sportelli della Bank of China di Shanghai floridi impiegati, sarte con
nonne al braccio, padri confuciani, operaie del sesso, tutti vogliono vendere
dollari e comprare Yuan. Come riconferma anche l'ottimo momento dei cambisti del
mercato nero. Il governo di Pechino fatica a contenere una rivalutazione dello
Yuan. La banca centrale a forza di comprare dollari ci affoga dentro, e le sue
riserve sono ormai varie volte quelle degli Stati Uniti. Al cumulo di dollari c'è
un limite, anche per i comunisti capitalisti.
Il
che conforta l'amministrazione Bush, che deve ridimensionare le importazioni
Usa, e giudica di aver finanziato abbastanza col suo indebitamento la crescita
mondiale. Fida insomma che i dollari finiti in Cina e altrove più numerosi
addirittura delle lattine di Coca Cola rivalutino le monete delle nazioni che
concorrono con gli Usa. Ovvio aiuto alle imprese americane e al rientro del
deficit, che Greenspan e Snow vedono con più ottimismo degli europei. Giudicano
forse che Cina e Asia abbiano ogni interesse a evitare crolli a precipizio del
dollaro. Il partito comunista ha da sistemare un circa 150 milioni di
sottoccupati nelle campagne e 10 milioni nelle imprese statali; e le sue banche
hanno sofferenze per il 40% dei crediti. Dunque non può permettersi di mollare
troppo il dollaro, smettendo di comprare titoli del Tesoro americano.
Ma
neppure
la Cina
può pretendere di mantenere il proprio
cambio ufficiale col dollaro dov'è, inalterato dal
1995, a
8,28
yuan. Questo il gioco dei cambi, che si
svolge tra Pechino e Washington, da dove si consiglia ai cinesi di rivalutare
per raffreddare i prezzi. E lascia a ministri e banchieri europei la parte
piuttosto goffa di lamentarsi per il calo del dollaro, «brutale» come ha detto
Trichet. Ma brutale è stata di nuovo la replica di Snow. Per il Tesoro
americano il dollaro debole deriva anche dalla minor crescita europea.
Maastricht
o no, l'Europa non doveva lasciare gli americani soli a tirare la congiuntura
mondiale. Replica su cui è lecito disputare; ma arriva mentre il sancta
santorum europeo di Maastricht viene ridicolizzato dalla beffa di Atene.
La Grecia
non era all'1,8% nel
1999, l
'anno preso in considerazione per l'entrata
nell'euro, ma per via di spese militari e criteri contabili era al 3,4% di
deficit. Fuori regola. Ma non si può certo ormai buttarla fuori dall'euro.
Forse
sarebbe stato meglio se anche l'Europa avesse badato un po' più alla Cina,
invece di bisticciare sempre con l'America. La svalutazione della divisa cinese
negli ultimi quattro anni è di circa la metà rispetto all'euro. Dunque se le
quote di mercato dell'Italia nel commercio mondiale sono cadute non è dipeso in
questi anni solo da un difetto di competitività. Tra l'altro la chiave di tutto
il gioco resta
la Cina. Solo
la rivalutazione dello yuan può per effetto
a catena concedere alle monete dell'Asia di rivalutarsi su dollaro. E speriamo
sull'euro. Ma dipende da un'Europa più pratica in questo G20 che si conclude
stamane.
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