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INDICE ARTICOLI

PARTE 2

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Scenario macroeconomico USA

Economia USA, cosa sta accadendo

FED e mercato immobiliare USA

Bernanke teme la tegola in testa

Senario macro USA e blocco occidentale

Smetto quando voglio

Macro USA e sentiment operatori finanziari

Economia e mercati: seguite l'America

Strategie di investimento

Wall Street: ecco il campione del top down

Sentiment operatori finanziari

Il mercato vede nero? Comprare

   

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ANSA   +++   BCE: TASSI DI RIFERIMENTO AL 3,0%   +++   Tassi Bce saliranno ancora, ritmo sarà dettato da economia   +++   USA, TASSI FERMI - LA FED HA VOTATO. PER LA STAGFLAZIONE   +++   FED: BERNANKE, DEFICIT CORRENTE NON PREOCCUPA   +++   ANSA

Martedì  2  agosto  2006   Mercoledì  3  agosto  2006   Venerdì  4  agosto  2006
   
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   Economia USA, cosa sta accadendo

5 Agosto 2006 Siena - di Antonio Cesarano
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Deludenti i dati sul mercato del lavoro Usa di luglio. • La maggiore attenzione della Fed sulla crescita, depone a favore di una pausa il prossimo 8 agosto . • La Fed potrebbe implementare un ulteriore ma ultimo rialzo dei tassi a settembre o ottobre, nel caso di dati negativi sui prezzi al consumo core. • Lo scenario di politica monetaria unito a quello di rallentamento della crescita risulta favorevole ai bond. • Il dollaro potrebbe riposizionarsi fino alla soglia di 1,30 vs. Euro.

I dati sul mercato del lavoro Usa di luglio sono risultati deludenti sia con riferimento alla rilevazione effettuata tra circa unità (c.d. household data da cui viene tratto il calcolo del tasso di disoccupazione) sia relativamente al campione rappresentato principalmente da aziende ed amministrazione pubblica (c.d. establishment data da cui viene calcolata la variazione dei nonfam payrolls). La variazione degli occupati non agricoli è risultata pari a 113.000 ossia sostanzialmente pari alla variazione media mensile registrata nel secondo trimestre (112.000). I settori più deludenti sono risultati quello delle vendite al dettaglio e quello governativo: in entrambi i casi vi è stata crescita zero degli occupati nel mese. Negativa inoltre la contribuzione del settore manifatturiero.
Il tasso di disoccupazione è salito al 4,8% (precisamente al 4,75%) in seguito ad una diminuzione del numero degli occupati (- 34.000). Il dato non è stato invece inficiato da una dinamica anomala della forza lavoro: le unità fuoriuscite dalla forza lavoro sono state infatti pari a 29.000 ossia un valore piuttosto vicino alla media delle variazioni degli ultimi 3 anni (circa 92.000 unità). La durata media della disoccupazione è passata da 16,2 a 17,3 settimane, il livello più elevato da febbraio. I salari medi orari hanno registrato una variazione annua del 3,8% da 3,9%, risultando in lieve calo pur rimanendo molto vicino ai massimi da circa 5 anni.
I dati in esame pertanto segnalano la possibilità che il rallentamento dell’economia già iniziato nel secondo trimestre si estenda anche al terzo, con ripercussioni negative sulla spesa delle famiglie anche in seguito al contestuale rallentamento del settore immobiliare, che tra il 2005 e gli inizi del 2006 ha rappresentato un supporto importantissimo per la spesa. Il dato di venerdi' pertanto risulta piuttosto netto nel richiamare l’attenzione della Fed maggiormente sulla variabile crescita piuttosto che sui prezzi.
E’ pur vero che la dinamica salariale rimane ancora piuttosto temibile, ma allo stesso tempo il tasso di disoccupazione si è riportato ai massimi da febbraio 2006, collocandosi su un livello meno preoccupante sotto il profilo dei prezzi. Inoltre gli ultimi discorsi di esponenti della Fed hanno evidenziato una crescente preoccupazione per l’andamento della crescita manifestando implicitamente la volontà di non voler eccedere nel rialzo dei tassi se non strettamente necessario.

Alla fine dello scorso anno, Yellen, membro votante della Fed nel 2006, indicò nel range 3,5-5,5% il livello in cui si collocava il livello di neutralità dei fed funds. Di conseguenza mancherebbero solo ulteriori 25pb. per arrivare alla parte alta del range citato. Alla luce anche dei dati odierni, ribadiamo la possibilità che la Fed mantenga i tassi fermi al 5,25% il prossimo 8 agosto per le seguenti ragioni:
1) i dati sulla crescita hanno quasi unanimemente confermato il rallentamento in atto già nel secondo trimestre,
con ridimensionamento anche di alcuni importanti indicatori anticipatori tra cui l’ism non manifatturiero; 2) le aspettative di inflazione, misurate sia con riferimento alle breakeven dei Tips sia ai sondaggi effettuati dall’università del Michigan, risultano essere contenute; 3) la Fed ha manifestato l’intenzione di non eccedere nella fase di rialzo dei tassi per evitare di incidere negativamente sulla crescita, già attesa in rallentamento su un tasso di crescita più sostenibile rispetto a quello esplosivo evidenziato nel primo trimestre. Tuttavia, la possibilità di implementare un ulteriore ma ultimo rialzo da 25 pb. rimane in essere nel mese di settembre e soprattutto ottobre, quando i dati sui prezzi al consumo core potrebbero essere particolarmente temibili a causa dell’effetto confronto dell’importante componente affitti.
In questo contesto appaiono sempre più favorevoli le condizioni per un graduale riposizionamento strategico sui bond per le seguenti ragioni: 1) scenario di rallentamento della crescita Usa ; 2) tensioni geopolitiche che potrebbero intensificarsi alla vigilia delle elezioni di medio termine Usa di novembre; 3) la fase di rialzo dei tassi Fed funds non dovrebbe superare la soglia del 5,5%, scenario peraltro già quasi completamente scontato dal mercato.

Per il Dollaro, dopo la riunione della Bce di ieri che ha segnalato la possibilità di ulteriori rialzi dei tassi ad ottobre e dicembre, rimane aperta la possibilità di raggiungere la soglia di 1,30 nel mese di agosto, basata sull’assunzione che l’ipotesi che la Fed effettui una pausa il prossimo martedì sia corretta. Tale soglia potrebbe però ancora risultare invalicabile, rimanendo aperta la possibilità che la Fed effettui un ulteriore rialzo dei tassi a settembre o ottobre per le ragioni citate.

Fonte - MPS Finance - Servizio Research and Strategy

 

 

 

 

 

La stretta dei tassi USA finirà al 5,5%

3 Agosto 2006 8:44 New York - di Cheo Cordia
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Lawrence Meyer è vice-presidente della Macroeconomic Advisers e senior advisor del G7. Dal 1996 al 2002 ha lavorato al fianco di Alan Greenspan nel board della Federal Reserve. Il suo è un punto d’osservazione privilegiato per prevedere le mosse della banca centrale americana, oggi alle prese col dilemma di un’inflazione sui massimi e una crescita in rallentamento nel secondo trimestre.

Mr Meyer, c’è chi parla di una stretta monetaria che proseguirà fino al 6% per fine anno.
Sono esagerazioni. Perché le aspettative sull’inflazione, cioè quello che interessa veramente alla Fed, sono basse, e il mercato del lavoro mostra segnali di rallentamento. Vedrà, Ben Bernanke alzerà i tassi al 5,5% nella riunione di martedì 8 agosto e poi si fermerà.

Eppure la Fed appare molto indecisa sul da farsi.
Non c’è dubbio, è una bella sfida per i nostri banchieri centrali. Ma sono convinto che non si faranno spaventare dalla fiammata dei prezzi, che mi sembra passeggera e comunque legata, direttamente e indirettamente, alla congiuntura del caro-petrolio.
C’è chi dice che sia colpa della politica monetaria eccessivamente espansiva di Greenspan.

La congiuntura americana è in questa situazione perché i tassi sono stati alzati dall’1% al 5,25% senza pause. Ma prima c’era il rischio deflazione, che forse è stato leggermente sopravvalutato.
Adesso c’è il rischio di una stagflazione? L’inflazione cresce, ma l’economia continua a viaggiare bene. Certo, nel secondo trimestre è rallentata al 2,5% ma sono convinto che il ritmo di crescita salirà al 2,75% nel secondo semestre. Sempre che anche i nostri politici facciano un buon lavoro.

E le Borse come reagiranno alle prossime mosse della Federal Reserve? Gli operatori sono nervosi. Un conto è alzare i tassi quando la crescita è forte, è diverso quando sta cominciando a frenare come negli ultimi mesi. Bernanke lo sa benissimo, ma penso che non si curerà molto dei mercati azionari. Che comunque, quando la Fed fermerà la stretta, torneranno a marciare in Europa e negli Stati Uniti.
 

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

 

Oggi la BCE alza i tassi al 3%

3 Agosto 2006 8:48 Milano - di La Lettera Finanziaria
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Oggi la Bce alzerà il costo del denaro. Si tratterà di un rialzo di 25 punti base, tale da portare al 3% i tassi di interesse in Eurolandia. Il rialzo di oggi, dato per scontato dal mercato, sarà il quarto dallo scorso dicembre. L’attenzione degli analisti è ora concentrata sulla conferenza stampa di Jean Claude Trichet, alla ricerca di indicazioni sulle mosse future.
Su questo punto infatti le ipotesi che circolano tra le maggiori banche d’affari sono diverse. Ma quella prevalente è che, da qui, fino a fine anno, l’istituto di politica monetaria di Francoforte alzerà il costo del denaro ancora due volte, portando così i tassi di interesse al 3,5%. Più difficile prevedere il timing. Di sicuro, le scelte della Banca Centrale europea dipenderanno sempre di più dai dati macroeconomici in uscita nelle prossime settimane. Secondo gli analisti di Ubm, è molto difficile che un nuovo ritocco all’insù venga fatto il 31 agosto. Appare più probabile invece che, qualora venga messa in cantiere, una nuova stretta possa arrivare in occasione della riunione di ottobre, quando il flusso dei dati macroecomici sarà più consistente.
Se la strada della Bce è dunque orientata verso una politica rialzista; al contrario, la Federal Reserve, in presenza dei segnali di un raffreddamento dell'economia stelle e strisce, sembra intenzionata a prendersi una pausa. Gli ultimi interventi degli esponenti della Fed, Yellen e Poole, hanno solo riconfermato l’incertezza sull’esito della riunione dell’8 agosto indicando che i tassi sono ormai prossimi al punto di arrivo.
La curva dei Fed Funds futures assegna una probabilità del 32% ad un rialzo il prossimo martedì, e una probabilità di appena il 50% di toccare il 5,50% entro settembre. Venerdì è giunta la prima stima sul Pil Usa del secondo trimestre che ha messo a segno un deludente +2,5% contro le attese di +3% e il +5,6% registrato nel primo trimestre. Nell'ultima riunione in cui la Fed aveva portato i tassi al 5,25% il presidente della Banca centrale Usa Ben Bernanke aveva del resto lasciato intendere l'eventualità di uno stop osservando che la frenata in atto dell'economia Usa disinnescava di per sè la mina inflazione e che, in merito alla futura strategia di politica monetaria bisognava tenere conto dei rialzi già effettuati.
E in tema di politica monetaria, nell'ultimo aggiornamento di 'Congiuntura e Previsioni' presentato dall'area studi del Gruppo Capitalia viene messo in evidenza come le politiche monetarie rimarranno restrittive ma differenziate tra le principali aree economiche: se negli Stati Uniti, il restringimento è prossimo alla fine, anche se dovesse seguire un altro intervento della Fed il prossimo 8 agosto, in Giappone e in area Euro, è ancora in fase iniziale e si prevede possa proseguire anche nel prossimo anno.
Secondo le stime di Capitalia "una temporanea sosta alla tendenza al rialzo sui rendimenti potrebbe però venire, nel breve termine, dall'acuirsi delle tensioni geopolitiche che stanno interessando Asia (i lanci missilistici della Corea del Nord e le sanzioni proposte dal Giappone) e Medio Oriente (il conflitto tra Israele ed Hezbollah, con i bombardamenti in Libano e la possibilità di un allargamento a Siria e Iran).
L'avversione al rischio che caratterizza le fasi di tensione porterebbe infatti un flight-to-quality verso i titoli governativi, considerati più 'sicuri', con una conseguente flessione, ancorchè limitata nel tempo, dei rendimenti". Puntando gli occhi sull'area euro, il tasso finale previsto da Capitalia si collocherebbe al 3,75%. Le previsioni del gruppo bancario sono in linea con le aspettative secondo cui oggi 3 agosto la Bce porterà il tasso refi al 3%.
L'ipotesi più probabile sembra dunque quella della gradualità "considerando, sottolinea Capitalia, che i rischi sulla crescita, nel medio periodo, rimangono ancora al ribasso". "Alla luce dell'evoluzione congiunturale più recente - evidenzia ancora il gruppo - ci sembrano aumentate le probabilità che il 3,50% possa essere raggiunto entro l'anno: ciò consentirebbe un drenaggio più rapido della liquidità e la contemporanea affermazione di un comportamento orientato senza incertezze al mantenimento della stabilità dei prezzi, con un indubbio effetto positivo sulle attese di inflazione".
 

Fonte - La Lettera Finanziaria
 

 

 

 

FED: verso tassi fermi, primo stop in 2 anni

8 Agosto 2006 8:43 New York - di ANSA
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La Federal Reserve si appresta a mettere fine alla stretta monetaria varata a giugno 2004. Oggi, per la prima volta negli ultimi due anni e dopo 17 rialzi consecutivi, la Fed dovrebbe lasciare i tassi fermi al 5,25% per dare un po' di respiro all'economia. Secondo gli analisti, la debole crescita economica registrata nel secondo trimestre e la creazione di appena 113.000 posti di lavoro in luglio, spingono la Fed ad una pausa già nel board dell'8 agosto, anche se - avverte Goldam Sachs - la decisione non è così scontata come nelle occasioni precedenti.
Una eventuale pausa della stretta monetaria negli Usa andrebbe in direzione opposta alla strada intrapresa dalla Bce che, per contenere i rischi di inflazione in un contesto di crescita economica vicina al potenziale, ha deciso giovedì scorso di alzare di un quarto di punto (effettuando il quarto rialzo in otto mesi) i tassi di interesse, portandoli al 3%, cioé al livello del 1999. E la stretta europea non sembra destinata ad esaurirsi, nonostante gli inviti alla cautela giunti dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi): nei prossimi mesi, se la ripresa continuerà la Bce "ridurrà progressivamente il carattere accomodante della politica monetaria".
L'economia statunitense si trova ad affrontare dei rischi contradditori: il rallentamento dell'economia, che chiama una pausa del ciclo rialzista, ed un'accelerazione dell'inflazione, che invece invita ad un aumento dei tassi. Gli stessi responsabili della Fed sembrano perplessi, tanto che la scorsa settimana le chance di un rialzo sembravano ancora al 50%. Poi, però, è arrivata la doccia fredda dei dati sull'occupazione, che hanno evidenziato un aumento della disoccupazione dal 4,6% al 4,8%. E così venerdì scorso, i mercati scommettevano che ci fossero solo un 14% di possibilità che la Fed decidesse di alzare.
"La debole crescita del secondo trimestre e la creazione di pochi posti di lavoro in luglio indicano che la Fed deciderà una pausa", afferma Nariman Behravesh, analista di Global Insight. Per Goldamn Sachs, comunque, uno stop non è scontato, viste le pressioni inflazionistiche: "Per contenere i prezzi, la Fed potrebbe optare per una ulteriore lieve stretta". La maggior parte degli operatori, invece, crede che la banca centrale statunitense decida, almeno per il momento, di correre il rischio dell'inflazione per supportare la crescita, anche alla luce delle recenti affermazioni del presidente della Fed Ben Bernanke, secondo il quale un rallentamento della crescita permetterà di contenere i rischi al rialzo dei prezzi.
Lo stesso Bernanke ha indicato in aprile la possibilità che "al momento giusto" la Fed si conceda una pausa per ottenere un maggior numero di informazioni, e questo - sostengono gli analisti - non si traduce in un stop definitivo dei tassi. Per Lehman Brothers, il Fed Funds alla fine del 2006 sarà al 5,75%, per poi scendere nel 2007. Secondo Moody's, invece, la prossima mossa della Fed sarà un ribasso dei tassi, fra la fine di quest'anno e l'inizio del 2007. E se negli Usa ci si avvia verso una pausa, in Europa la Bce sembra aver intrapreso la strada dei rialzi.
Il presidente della Bce, Jean Claude Trichet ha ribadito più volte che se la ripresa continuerà e lo scenario sarà confermato ci saranno nuovi rialzi, che dovrebbero arrivare - secondo gli analisti - in ottobre ed in dicembre. Obiettivo quello di contenere l'inflazione. Una linea, quella di Trichet, ribadita anche oggi dal membro del consiglio direttivo Lorenzo Bini Smaghi che, in un'intervista a Il Sole 24 Ore, ha osservato che la stretta della Bce è destinata a continuare nei prossimi mesi.

 

Fonte - ANSA

 

 

 

 

 

Mercoledì  2  agosto  2006   Martedì  8  agosto  2006   Mercoledì  9  agosto  2006
   
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   Bernanke teme la tegola in testa

6 Agosto 2006 Milano - di Vincenzo Sciarretta
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L’edilizia frena e getta un’ombra sulle prospettive di crescita della locomotiva Usa. Ben Bernanke, il numero uno della Federal Reserve a cui è affidato il compito di traghettare l’economia americana dall’età delle bolle a ripetizione a una situazione di normalità, si trova a fronteggiare un incalzante dilemma: una scelta troppo intransigente sul fronte dei tassi può avere conseguenze nefaste per lo sviluppo; ma un atteggiamento troppo compiacente sul fronte tassi può scatenare una recrudescenza delle tensioni inflative. «La riunione della prossima settimana - spiega Laurence Meyer, ex membro di alto rango della Fed - è tra le più incerte della storia recente degli Stati Uniti. Non sarei sorpreso se l’effettiva decisione sui tassi maturasse proprio durante il summit, e non con largo anticipo come accade di solito».
Meyer si riferisce all’incontro di martedì 8 agosto, durante il quale il direttorio dell’istituto centrale sarà chiamato a decidere se alzare il costo del denaro di altri 25 punti base, portandolo al 5,5%, o se mantenerlo al livello attuale. Il consensus degli analisti, equamente divisi sulle due ipotesi, conferma l’alto grado di problematicità della riunione e della conseguente decisione. Proprio durante le ultime settimane sono uscite statistiche preoccupanti. Da un lato l’economa è in rallentamento, dall’altra l’inflazione è in accelerazione. La Banca centrale tentenna perché non sa se accordare la priorità alla crescita, lasciando fermi i tassi, o se troncare di netto il rischio inflazione, tirando ancora una volta le briglie della politica monetaria.
A questo punto la variabile più importante diventa lo stato di salute del settore immobiliare. Grazie al meccanismo del rifinanziamento dei mutui ipotecari gli americani hanno estratto dalle proprie abitazioni circa 439 miliardi di dollari nel 2003, circa 633 nel 2004 e circa 720 l’anno scorso. Denari che sono stati poi utilizzati per mantenere alti i livelli di consumi, facendo da volano alla congiuntura. Ma l’edilizia è ora a un punto di svolta. A confermare la minaccia di uno sboom sono in primo luogo i costruttori.
L’indice che misura le aspettative di vendita di nuove abitazioni, redatto dall’Associazione Nazionale dei Costruttori, è precipitato a livelli che, in passato, hanno coinciso con una contrazione del settore. Ulteriori conferme giungono poi dal mercato. Le abitazioni finite, ma in attesa di un acquirente, sono cresciute del 39% da giugno 2005. Insomma, le scorte aumentano a ritmi allarmanti, mentre i prezzi hanno smesso di salire e incominciano a cedere terreno (-1,3% a giugno). In più le quotazioni dei titoli delle costruzioni di Wall Street hanno subìto forti cali.

IL MERCATO RESIDENZIALE. Il mercato residenziale è vulnerabile perché acquistare casa è sempre più difficile per il rincaro sia dei prezzi delle abitazioni sia del costo del denaro. Perciò molti analisti consiglierebbero a Ben Bernanke grande cautela nel mettere mano alla leva dei tassi. «La Fed - chiarisce Paul Kasriel, capo economista della Northern Trust di Chicago - ha alzato il tasso base di 425 punti base in 25 mesi. Bisogna tornare al principio degli anni ’80 per trovare qualcosa di analogo. Insomma, la stretta già realizzata è importante, e avrà degli effetti ritardati sull’economia.
Già così la crescita è incanalata verso un sentiero di marcato rallentamento. Secondo me, l’espansione, che ha viaggiato oltre il 3,5% nel recente passato, scenderà sotto il 3% nei trimestri a venire. Ma capisco anche l’apprensione della Fed. L’inflazione ha accelerato. L’indicatore maggiormente vigilato dalla Banca centrale, il deflatore della spesa personale per consumi depurato delle componenti volatili di energia e alimentari, ha raggiunto il preoccupante livello del 2,9% rispetto al 2,1% del primo trimestre. Tuttavia l’inflazione dovrebbe calare in risposta a un’economia meno esuberante, senza la necessità di una cura monetaria aggiuntiva».
Della stessa opinione John Silvia, capo economista di Wachovia, che abbraccia la tesi della frenata morbida: «L’inflazione tendenziale sfiora il 4%, una quota giudicata inaccettabile da Bernanke. La dinamica dei prezzi potrebbe però moderarsi naturalmente e io penso che già nel 2007 il carovita avrà sufficienti chance di tornare entro valori accettabili. Evitando di reagire in modo eccessivo ai dati di oggi, e focalizzando l’attenzione sulle aspettative future, la Fed eviterebbe di soffocare l’edilizia e la spesa per consumi». Ad ogni buon conto gli operatori di mercato prevedono che entro ottobre il costo del denaro salirà di altri 25 punti base. Non è però certo se la stretta avverrà martedì prossimo oppure a ottobre. Se l’analisi degli esperti è corretta, l’edilizia e il tessuto produttivo dovrebbero essere in grado di assorbire la stretta monetaria, decelerando in modo composto.


 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

NY: case invendute ai massimi di 10 anni

22 Agosto 2006 14:53 NEW YORK (WSI)
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Anche se il prezzo medio degli immobili residenziali ha raggiunto a Manhattan la cifra record di $880.000, i newyorkesi proprietari di casa cominciano a provare i brividi per il rialzo del tassi e la paura per l'andamento dell'economia.
Il mercato immobiliare di Manhattan (la zona piu' lussuosa di New York City) - con un prezzo medio che in questi giorni viene calcolato a quattro volte la media nazionale americana - ha sempre fatto storia a se'; ma ormai qualcosa sembra scricchiolare anche qui, e con una certa evidenza. Gli appartamenti e le case in vendita, infatti, rimangono inveduti sul mercato per mesi.
Nonostante il prezzo medio di una casa a Manhattan abbia raggiunto un nuovo record assoluto nel secondo trimestre 2006 a $1.083 al piede quadrato, il numero di appartamenti in vendita ha raggiunto il massimo assoluto degli ultimi 10 anni, cioe' dal 1996, stando ai dati di Miller Samuel, una societa' di ricerche di New York specializzata sul mercato immobiliare. L'invenduto e' salito da 3.922 unita' alla fine del 2004 a 7.640 nel secondo trimestre di quest'anno.
Mentre la domanda si raffredda e i tassi di interesse Usa sono in crescita, e' chiaro che il mercato immobiliare di una delle citta' americane dove la speculazione e' stata piu' frenetica e aggressiva, sta attraversando una fase molto delicata che potrebbe avere come conseguenza un netto raggiustamento dei prezzi al ribasso. In ogni caso, nel secondo trimestre del 2005 servivano in media 102 giorni per vendere una casa offerta sul mercato a Manhattan, New York, alla fine del giugno 2006 di giorni ne servivano gia' 144.

 

Fonte - Wall Street Italia

 

 

USA: occhio ai dati del settore immobiliare

23 Agosto 2006 14:29 SIENA (MPS Finance)

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• Rendimenti in calo in area Euro, pressoché stabili negli Usa.
• Ritornano gli acquisti sul biglietto verde.
• Poco mosso il prezzo del greggio.
Negli Usa oggi sono attesi i dati relativi alle vendite di abitazioni, con il mercato che si aspetta una conferma del processo di rallentamento del settore.
Tassi di Interesse: in area Euro, ieri i rendimenti hanno continuato a scendere su tutta la curva. Il movimento è stato innescato dal dato relativo all’indice Zew, risultato molto inferiore alla stima mediana degli analisti intervistati da Bloomberg, ed è proseguito sulla scia di notizie poco incoraggianti relative ad un allarme terroristico all’aeroporto di Luton. La foratura del supporto di 3,86% sul decennale potrebbe spingere i rendimenti fino al 3,78%.
Oggi non ci sono dati macro di rilievo in area Euro, con i titoli obbligazionari che potrebbero essere guidati dall’andamento del prezzo del greggio con in calendario i dati relativi alle scorte del i petrolio. Negli Usa i rendimenti sono rimasti pressoché stabili in assenza di dati macro di rilievo, con la pendenza negativa lievemente aumentata a circa 5pb. Rialzo di modesta entità per le breakeven sui Tips.
Ieri Moskow, presidente della Fed di Chicago, ha dichiarato che la banca centrale potrebbe essere costretta a continuare il rialzo dei tassi per ridurre l’inflazione corrente e contenere le aspettative future. I rischi legati all’inflazione rimangono al momento troppo elevati, a causa soprattutto del settore immobiliare ed energetico. Guynn, presidente della Fed di Atlanta, ha dichiarato che è rimasto deluso dall’interpretazione di alcuni commentatori dopo l’ultima riunione del FOMC, secondo cui la Fed sarebbe meno preoccupata dell’inflazione, anche se condivide pienamente la strategia sinora attuata. Per ciò che riguarda il tasso decennale, il livello 4,79% (media mobile esponenziale a 200 giorni) dovrebbe agire da buon supporto e dar luogo ad un rimbalzo dei rendimenti.
Valute: Dollaro in rialzo contro Euro, con il cross che si è portato in prossimità del primo supporto a 1,2782. Qualora tale livello venisse rotto al ribasso, il prossimo supporto è situato intorno ad 1,27. In calo l’Euro/Yen dopo aver toccato i massimi storici nelle sedute precedenti. Per oggi, il supporto dinamico più vicino passa da 148,53.
Materie Prime: poco variate le quotazioni petrolifere dopo che l’Iran ha dichiarato che il paese è pronto a seri negoziati per discutere del pacchetto di incentivi offertogli in cambio dell’interruzione del programma nucleare. Oggi sono attesi i dati sulle scorte di greggio Usa che, secondo la stima mediana di Bloomberg, dovrebbero continuare a scendere, calo che interesserà soprattutto le scorte di benzine. Le dichiarazioni iraniane hanno ridotto l’appetibilità dei metalli preziosi. Il prezzo dell’oro è sceso dello 0,18%, l’argento lo 0,65% ed il platino lo 0,35%.
 

Fonte - MPS Finance
 

 

 

 

 

 

   Smetto quando voglio

19 Agosto 2006 Milano - di *Alessandro Fugnoli

*Alessandro Fugnoli e' lo strategist Abaxbank.
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Troppi caffè, troppi aperitivi, troppi chili, ma l’importante è che so che posso smettere quando voglio. Ho il controllo della situazione. O così sembra. O così voglio credere.
La sottile linea rossa della dipendenza è invisibile e impalpabile. Mentre la si supera non suonano campanelli e non lampeggiano segnali. Ci si accorge di averla superata molto tempo dopo, quando disintossicarsi diventa molto faticoso. Il predecessore di Greenspan, Paul Volker, dovette mettere l’economia americana in terapia intensiva per due anni quando, all’inizio degli anni Ottanta, la vide arrivare al pronto soccorso in uno stato pietoso, con l’inflazione (nel 1980) al 13.5 per cento e la spirale prezzi-salari ormai quasi ingestibile.
Alla fine degli anni Sessanta, quella modesta accelerazione dei prezzi che si era cominciata a vedere appariva ancora innocente. Si pensava impossibile tornare all’inflazione conclamata, una malattia che l’America aveva vissuto solo in tempo di guerra. Per molto tempo i mercati obbligazionari pensarono ingenuamente che la cosa si sarebbe fermata lì e accettarono rendimenti reali che poi, a conti fatti, si rivelarono puntualmente negativi. La Fed, dal canto suo, si affannò a lungo a ripetere che si trattava di febbre passeggera, che non c’era da preoccuparsi troppo e che bastava togliere al CPI questo o quel prezzo per riportare l’indice a un livello più accettabile.
In realtà, nella seconda parte degli anni Sessanta, l’economia era ancora sana e il lungo viaggio nel pieno impiego e nell’aumento della spesa pubblica fu inizialmente senza scosse. La sottile linea rossa fu superata quando alla spesa crescente per il welfare l’America aggiunse un graduale ma incessante aumento delle spese militari per la guerra in Vietnam. Quelle stesse spese militari che nella seconda metà degli anni Trenta (in un contesto di enorme output gap) avevano avuto l’effetto positivo di fare ripartire l’economia senza creare inflazione, diventavano trent’anni dopo, ad output gap azzerato, fonte di inflazione prima e di stagflazione dopo.
Oggi l’output gap è di nuovo quasi azzerato, l’inflazione sta salendo ovunque e le banche centrali tollerano sforamenti crescenti degli obiettivi d’inflazione. Questi target possono essere più o meno formali e solenni, ma quello che colpisce è che vengono continuamente riconfermati mentre vengono regolarmente (e in misura crescente) disattesi.
I mercati obbligazionari (e azionari, il problema è anche loro) sembrano dal canto loro avere lo stesso atteggiamento compiacente e incredulo che avevano negli anni Settanta, salvo svegliarsi ogni tanto bruscamente (come in ottobre e in giugno), allarmarsi per un paio di settimane e poi tornare velocemente nello stato di torpore.

Detto questo, al momento ci sembra effettivamente giusto non considerare pericoloso il problema. Dal 2001 a oggi siamo passati da un caffè al giorno a due, poi a tre e, in America, a quattro (se un caffè corrisponde a un punto d’inflazione). L’atteggiamento da “smetto quando voglio” delle banche centrali ha senso e appare sincero. In un momento difficile in cui Europa e Asia devono dare il cambio all’America come motori della crescita globale è giusto che l’America cerchi di attenuare la decelerazione stando leggermente dietro la curva. Così come d’altra parte è giusto che Asia ed Europa facciano lo stesso se vogliono dare spazio ai consumi interni e alle importazioni.
Ci sono però due problemi, quanto meno potenziali. Il primo è che “smetto quando voglio” non è velleitario ed è possibile, ma il fatto che sia possibile non significa che sarebbe anche indolore. Chi è abituato a tre o quattro caffè sa che, per toglierne uno o due, deve accettare qualche giorno di minore lucidità o addirittura di leggera sonnolenza. Allo stesso modo, se la Fed volesse a un certo punto far scendere l’inflazione, in condizioni come le attuali dovrebbe ricreare un output gap e quindi accettare una crescita più bassa, sotto il potenziale.
Il secondo problema, più serio, è che quattro caffè possono non nuocere in sé, ma aumentano comunque il grado di vulnerabilità ad altri fattori di rischio che dovessero insorgere. Al momento le spese militari per l’Iraq sono rigorosamente sotto controllo (il Vietnam ha insegnato qualcosa), ma non appare sotto controllo l’esogena del petrolio.
Sul petrolio non siamo più di fronte agli shock da domanda dei tre anni passati, ma a uno stillicidio di shock da offerta (ultimo l’Alaska). In questo contesto a Iran e Venezuela non occorrerebbe molto per fare avvicinare il greggio ai 100 dollari. Non occorrerebbe fare, basterebbe minacciare.
In questo quadro sempre più fluido la sfida per le banche centrali e per i mercati è di impostare strategie che valgano sia per i tempi ordinari sia, eventualmente, per tempi straordinari in cui all’improvviso potremmo trovarci a vivere.
Per i tempi ordinari si può essere ottimisti. Chi parla di rischi di recessione per i prossimi mesi (per l’arresto dell’immobiliare e per la liquidità calante) è destinato a essere smentito. L’America che andava in quarta oggi va in terza (e ogni tanto andrà anche in seconda), ma il guidatore ha il pieno controllo del veicolo e non ha intenzione di rallentare ulteriormente. Prima di dare un altro colpo di freno la Fed aspetterà qualche mese (la Bank of England ha aspettato un anno prima di riprendere ad alzare i tassi)E’ un contesto che continua ad apparire più favorevole all’azionario che all’obbligazionario.
Quanto ai tempi straordinari, se mai verranno, bisogna distinguere tra crisi di qualche giorno e crisi più serie (come furono i due shock petroliferi del 1973 e del 1979). Nel primo caso i bond funzionano bene come parafulmine, nel secondo assolutamente no (il cash è di gran lunga preferibile). Chi vuole assicurarsi contro eventi geopolitici indesiderati deve comperare petrolio, non bond.

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank

 

 

 

 

  Venerdì  11  agosto  2006   Venerdì  11  agosto  2006   Martedì  15  agosto  2006  
       
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Avviso di frenata

24 Agosto 2006 Milano - (di Il Foglio)
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I bollettini di gran parte dei paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo hanno segnalato elevata crescita per il secondo trimestre del 2006, ma ora giunge la notizia che il prodotto interno lordo di Hong Kong, in tale periodo, è ristagnato sullo zero, rispetto al primo trimestre che aveva registrato un’espansione attorno al 9 per cento, come il pil della Cina.
L’economia di Hong Kong è legata strettamente a quella della Cina, di cui è il principale centro finanziario (le maggiori società della Repubblica popolare sono quotate a Hong Kong) e commerciale, oltre che uno dei maggiori porti di import-export. Il fatto che l’economia di Hong Kong abbia cessato di crescere perciò suona come una nota stonata. Sul ristagno di Hong Kong, è vero, giocano fattori locali. Il sito è congestionato e la liberalizzazione a macchia di leopardo della Cina fa emergere nuovi centri commerciali, portuali, finanziari che forniscono valide alternative. L’inflazione che caratterizza attualmente Hong Kong, dunque, è in parte un fenomeno locale. Ma la frenata è troppo brusca per poter essere spiegata interamente con fattori locali.
Hong Kong vive di luce riflessa soprattutto di due realtà: quella cinese e quella americana. Gli Stati Uniti sono il paese che assorbe il maggior volume di export cinese e il fiume di dollari che i cinesi ricavano da tale export affluisce, in gran parte, a Hong Kong. Ora gli Stati Uniti sono ancora in crescita, ma la loro economia sta decelerando. Comunque, l’export cinese non ha più i tassi di crescita di prima: troppo elevati per durare indefinitamente.
L’inflazione di Hong Kong non riflette solo la congestione locale, dipende anche dall’inflazione che, oramai, pervade la Cina, in relazione alla carenza di manodopera specializzata, ai costi dei trasporti, alla mancata rivalutazione dello yuan che genera un rincaro delle materie prime e dei prodotti energetici, corrispondente al rincaro che esse hanno in dollari. La media della crescita del pil del 2006 a Hong Kong sarà ancora sul 6-7 per cento, dato il buon andamento iniziale. Ma lo stop della sua economia è un rumore di fondo che fa capire che il quadro dell’economia mondiale si sta modificando.
 

Fonte - Il Foglio

 

 

 

 

 

   Economia e mercati: seguite l'America

28 Agosto 2006 Milano - di Giuseppe Turani 
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Ancora una settimana, e poi si riprende tutti a pieno ritmo, in tutto il mondo. La rentrée d’autunno ormai è arrivata e di fatto comincia un nuovo anno economico. E gli occhi degli uomini d’affari, dei manager, dei banchieri e anche delle gente su che cosa sono puntati? Sostanzialmente su un solo soggetto (lo stesso peraltro che è al centro dell’attenzione di tutti da molti anni), e cioè l’economia americana. A proposito della quale le opinioni non sono affatto concordi. Anzi, sui mercati finanziari ci sono vedute molto diverse e molto distanti.
Lo snodo è sempre quello: l’economia Usa, che in questi anni ha trascinato in avanti tutto il mondo, è sul punto di collassare pesantemente, trascinando tutti nella sua caduta, o sta solo frenando in modo educato e gentile?
Per ora non ci sono elementi per scegliere una o l’altra possibilità. Ma le preoccupazioni esistono. E sono molto solide. La creazione di nuovi occupati, ad esempio, è molto rallentata e ormai ci si aspetta soltanto sui 100 mila nuovi posti di lavoro al mese (una cifra inferiore farebbe suonare tutti i campanelli di allarme). Ma gli osservatori sono molto preoccupati per quello che sta avvenendo nel settore immobiliare. A Wall Street il crollo delle aziende immobiliari gira ormai intorno al 40 per cento e ci sono rispettate analisti che parlano per le case di un possibile crollo di dimensioni quasi bibliche: il peggiore degli ultimi quattro decenni. Se le cose andassero veramente così, la situazione comincerebbe davvero a assumere tinte fosche perché un crollo del comparto immobiliare avrebbe la conseguenza di allarmare i consumatori americani. Se la casa di mister Smith comincia a scendere del 30-40 per cento di valore, questo comporta che il signor Smith da quel momento si sente molto più povero di prima. E quindi è logico attendersi da parte sua una maggior prudenza negli acquisti e nelle spese.
Ma l’economia americana (e quindi quella mondiale) in questi ultimi anni sono state sostenute proprio dal contrario: e cioè dall’esuberanza (e anche un po’ dall’incoscienza) dei consumatori americani. Abituati per parecchi anni a vedere rivalutati tutti i propri beni, a partire proprio dalle case, alle azioni. Se questo trend si inverte, come sembra ormai più che certo, si può arrivare a un’inversione netta della congiuntura americana, con la possibilità di un crash di dimensioni piuttosto rilevanti.
Ma, si dirà, cose del genere si sono già verificate in passato. Solo per stare agli ultimi anni abbiamo avuto prima il crollo del Nasdaq (cioè dei titoli tecnologici), che ha lasciato dietro di sé rovine e lutti piuttosto estesi. E poi abbiamo avuto l’11 settembre, con l’attacco alle Twin Towers. Eppure l’economia americana ha continuato a correre (come la Borsa peraltro). Quindi che paura c’è?
I broker e i managers, per la verità, questa volta sono un po’ più preoccupati. Intanto perché alla Federal Reserve (la banca centrale americana) non c’è più il mago Alan Greenspan, cioè l’uomo al quale si attribuisce il merito di aver tirato fuori l’America da situazioni impossibili grazie al suo coraggio e alla sua capacità di fare scelte “sbagliate” nel momento giusto (cioè di allargare il credito quando sembrava giusto stringerlo).
Ma poi anche perché adesso tutto è diverso. A settembre usciranno i dati sull’inflazione in agosto (quella di luglio è andata molto bene), e si teme che possa emergere un’inflazione in crescita oltre i limiti di guardia. Se sarà così, allora saranno guai.
Un’inflazione in crescita, infatti, avrebbe il risultato di legare le mani alla Federal Reserve che non potrebbe più contrastare il rallentamento dell’economia (ormai evidente) attraverso una manovra classica: e cioè una riduzione del costo del denaro. In sostanza, l’America sta correndo il rischio di ritrovarsi a settembre stretta in una specie di morsa d’acciaio.
Da una parte un rallentamento della congiuntura più serio di quello che si è immaginato sin qui. E dall’altra parte un’inflazione in salita e che quindi va contrastata stringendo e non allargando il credito. Tutto questo potrebbe innescare, come capita in economia, una sorta di spirale in fondo al quale ci potrebbe essere nel giro di poche settimane un crash della congiuntura americana con conseguenze pesanti sul resto del mondo.
All’inizio di settembre, come si è detto, usciranno i dati sull’inflazione Usa in agosto e poco dopo, verso metà del mese, si riunirà proprio la Federal Reserve per valutarli e decidere che cosa fare. Intanto, la crisi dell’immobiliare continua a scavare come una talpa molto determinata e efficiente sotto i piedi dell’ottimismo americano con conseguenze che per ora sono imprevedibili, ma che certamente non vanno nella direzione di dare una spinta a un’economia che dà segni crescenti di stanchezza e di esaurimento.
Questo spiega perché i prossimi trenta giorni saranno vissuti con il cuore in gola. Forse i lunghi anni del boom americano (e mondiale) a ottobre saranno già un ricordo, e al loro posto dovremo fare i conti con una congiuntura difficile e pesante.

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

   Perchè siamo tutti più poveri

28 Agosto 2006 Lugano - di *Alfonso Tuor
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La settimana scorsa il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha lanciato un appello significativo al mondo della politica dei paesi occidentali: «Fate in modo che i vantaggi della globalizzazione vengano ampiamente redistribuiti all’interno dei vostri paesi in modo tale da contrastare il ritorno del protezionismo».

Le parole del Presidente della banca centrale americana, che esulano dal campo proprio della politica monetaria, sono particolarmente significative, poiché rispondono alla crescente insofferenza degli americani di fronte ad una ripresa, che oramai si protrae da cinque anni, ma che non si è tradotta in un aumento dei salari dei lavoratori.
Infatti i dati statistici indicano che il salario medio degli americani è stagnato e che quindi il tenore di vita dell’americano medio è diminuito o è al massimo rimasto invariato. Questo fenomeno, su cui ci siamo già soffermati, non è una prerogativa degli Stati Uniti, ma si manifesta anche in Europa. Esso si accompagna sia al di qua sia al di là dell’Atlantico con una maggiore insicurezza economica e con un aumento delle diseguaglianze sociali.

Le parole del presidente della banca centrale statunitense sono particolarmente significative, poiché per la prima volta da molti anni a questa parte una personalità di questo calibro ripropone la questione della distribuzione dei redditi, anche se l’invito viene motivato dall’esigenza di non dare fiato alle pressioni protezionistiche. Sta di fatto che il presidente della banca centrale statunitense ha riconosciuto implicitamente che la stagnazione dei salari e l’aumento delle ineguaglianze sono legate al processo di globalizzazione.

Ma molto probabilmente l’appello di Bernanke si fonda anche su altre preoccupazioni. La stagnazione dei salari e la crescita delle diseguaglianze sono fattori che ostacolano una crescita sana e duratura dell’economia americana. E infatti la ripresa di questi ultimi cinque anni si è fondata su un aumento dei consumi non dovuto ad un aumento di reddito delle famiglie, ma ad un aumento del loro indebitamento, favorito dal basso livello del costo del denaro e dalla crescita dei prezzi immobiliari.
Ora che la politica monetaria americana sta diventando meno accomodante, ora che si avvertono i primi scricchiolii della bolla formatasi nel mercato immobiliare e ora che il potere d’acquisto delle famiglie viene decurtato dall’aumento del prezzo della benzina, Ben Bernanke è preoccupato dalla possibilità di una forte riduzione dei consumi delle famiglie. In questo contesto non deve sorprendere che la massima autorità monetaria statunitense rilanci la tematica della distribuzione dei redditi.
Perseguendo una simile politica non si isolano solo le voci che invocano misure protezionistiche, ma si creano le premesse per garantire una crescita sana e duratura che si fonda sull’aumento dei redditi e non solo sull’aumento della produttività e degli utili. L’appello di Bernanke, che probabilmente anticipa una svolta rispetto alla politica economica seguita negli ultimi anni, non deve far riflettere solo il mondo della politica americano. Infatti la realtà in Europa non è sostanzialmente diversa da quella degli Stati Uniti.

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

Giovedì  17  agosto  2006   Sabato  26  agosto  2006   Domenica  27  agosto  2006
   
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   Wall Street: ecco il campione del top down

1 Agosto 2006 Milano - di Boris Secciani

Ed Yardeny è chief investment strategist di Oak associates. Da molti anni produce analisi sui mercati molto seguite dalla comunità finanziaria e con le sue ricerche aiuta gli investitori a gestire i propri portafogli. Prima di approdare a Oak associates ha lavorato per Equity group Lcc, Deutsche Bank, C.J. Lawrence, Prudential securities e E.F. Hutton. In quest’intervista, illustra ai lettori de Il Valore le sue più recenti strategie di investimento nell’attuale contesto economico.
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Qual è l’approccio utilizzato da Oak associates? «Oak gestisce un portafoglio di circa 30 miliardi di dollari per clienti istituzionali e privati. Utilizziamo un approccio alquanto aggressivo, con portafogli concentrati su non più di 25 titoli, che di solito teniamo per un periodo di tre-cinque anni».
Come fate a selezionare i titoli che comporranno il portafoglio dei vostri clienti? «Non facciamo screening del mercato utilizzando tecnologie quantitative, ci concentriamo soprattutto sulla capacità di generare una forte crescita dei profitti su un periodo di tre-cinque anni. Quando parlo di forte crescita, intendo un incremento a due zeri. Il nostro approccio è infatti tipicamente topdown e orientato a portafogli di tipo growth. Se un’azienda è in grado di produrre un simile tipo di crescita non ci preoccupiamo più di tanto dei multipli di mercato che può avere, a differenza di quanto farebbe un investitore value».
In quali settori investite attualmente? «Abbiamo vari portafogli: per esempio uno con un focus molto marcato sulla tecnologia, che ovviamente negli ultimi anni ha avuto performance piuttosto volatili, un altro invece più bilanciato che investe soprattutto in titoli di comparti quali l’energia e il settore manifatturiero, in grado di capitalizzare sul boom globale».
Visto la quantità di soldi che gestite e la concentrazione del portafoglio, si direbbe che non state investendo in small cap. «Effettivamente investiamo esclusivamente in large cap statunitensi e non allochiamo fondi neppure sui mercati emergenti. Avere trascurato small e mid cap, nonché altre piazze, negli ultimi anni ha ovviamente influito sulle nostre performance. Siamo però convinti che in futuro il nostro approccio riserverà grandi soddisfazioni agli investitori ».
Visto che utilizzate una metodologia top-down, che tipo di outlook avete sull’economia internazionale? «Decisamente positivo: è mia ferma convinzione che siamo nel mezzo di un boom globale, che sta portando a una maggiore prosperità in tutto il mondo. Per esempio negli Usa ci aspettiamo che la crescita del Prodotto interno lordo (Pil), per quest’anno e per il 2007, dovrebbe mantenersi intorno al 3%. La crescita mondiale non dipende però solo dagli Usa, ovviamente. Cina e India stanno attraversando una fase estremamente positiva, e si può dire lo stesso anche per l’Europa, grazie al forte export in settori quali quello dei beni in conto capitale. Idem per il Giappone: trascinato dalla Cina, sta vivendo una fase economica molto positiva».
In questo scenario le banche centrali, e in particolare la Fed, non possono guastare pesantemente la festa? «Non credo, sono convinto che quello del prossimo agosto sarà l’ultimo rialzo della Fed almeno per un po’ di tempo. Non enfatizzerei le paure di inflazione. Infatti gli alti prezzi delle materie prime sono stati finora riassorbiti dalla forte crescita della produttività. Questo trend continuerà: sono convinto che i dati sulla produttività per il secondo trimestre e per la seconda metà dell’anno saranno sorprendentemente buoni».
Neppure il rallentamento del mercato immobiliare, e dei consumi in generale, negli Usa può cambiare il quadro generale della situazione? «Non più di tanto. Se guardiamo per esempio al settore delle costruzioni e alle azioni del comparto, siamo già in fase di recessione. L’economia americana è però estremamente diversificata e reattiva: comparti quali i servizi finanziari, l’entertainment, le attività ricreative, o i trasporti sono in pieno boom. Ciò dovrebbe essere sufficiente a controbilanciare un’eventuale crisi localizzata. Per quanto riguarda i consumi invece c’è, e ci sarà probabilmente nel breve periodo, un rallentamento dovuto agli alti prezzi della benzina. Ma una volta però che la gente si abituerà a convivere con questo scenario riprenderà a spendere. Complessivamente ci sono degli elementi negativi nello scenario generale, ma sono più che compensati dalla crescita globale, che c’è e continuerà a essere presente».
Che obiettivo avete per il mercato in generale? «Il potenziale di apprezzamento dell’S& P 500 è più che buono: per i prossimi 12-18 mesi vediamo come realistico l’obiettivo a 1.400 punti. La crescita dei profitti è e dovrebbe continuare a rimanere robusta, il rapporto prezzo/utili (p/e) è ai livelli più bassi dal 1995».
Come mai allora l’azionario statunitense è cresciuto così poco rispetto ad altre realtà? «Si tratta in effetti di una situazione per certi versi frustrante: probabilmente sono strascichi che hanno condizionato negativamente gli investitori, in seguito allo scoppio della bolla degli anni ‘90. Dico sempre che negli ultimi anni abbiamo avuto un bull market dei profitti e un bear market dei multipli».
Secondo lei la situazione della liquidità globale continuerà a essere favorevole ai mercati? Non teme per esempio un deleveraging pesante da parte degli hedge fund ? «La situazione della liquidità è ancora ottima, c’è un’impressionante quantità di soldi sul pianeta e per quanto riguarda i rischi connessi all’attività dei fondi speculativi, sinceramente ho sentito ripetere più volte questa storia negli ultimi tre anni, ma a ben vedere non si è mai rivelata corretta».

Fonte - Il Valore

 

 


 

 

 

   Insider in fuga dai titoli dell'energia

04 Agosto 2006 New York - (di Finanza & Mercati)
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Per un marinaio, quando i topi abbandonano la nave è il momento di recitare le preghiere. A un investitore finanziario simili preoccupazioni sorgono quando i manager di una società, dei cui titoli hanno gonfio il portafoglio, iniziano a vendere quelle stesse azioni a mani basse. Si chiama insider selling e, quando prende piede, per il settore in questione è davvero un segnale preoccupante.
In questo caso, la brutta sorpresa riguarda il comparto del petrolio. In base a un’analisi della casa di investimento americana Leuthold Group, stilata sui filing depositati presso la Sec, si è registrato in maggio il picco di insider selling, considerando un campione allargato di 142 società energetiche. A riprova di quanto questo indicatore non vada preso con leggerezza, la stessa Leuthold è corsa ai ripari abbassando all’1% la quota dei propri investimenti nell’energia, rispetto al 13% di due anni fa.
Ma l’analisi americana ha messo in luce un fuggi-fuggi ancora più violento se si restringe il plotone di aziende monitorate a quelle operanti nella raffinazione del petrolio. In questo caso, la vendita di azioni da parte dei manager ha segnato il record in luglio, in pieno rimbalzo del barile. In particolare, ad abbandonare la nave sono stati l’attuale presidente e l’ex amministratore delegato (e tuttora chairman) di Valero che nelle prime due settimane del mese hanno venduto titoli per oltre 30 milioni di dollari.
Anche il comparto del gas sembra aver sentito odor di bruciato: il top management di Xto Energy, nella sola prima settimana di luglio, ha venduto titoli per circa 35 milioni di dollari. D’accordo - si giustificano le società - quando la remunerazione dei manager comprende lauti pacchetti di stock option, c’è anche da attendersi realizzi consistenti. Insomma, quando il bottino è ricco, ci sta che i topi lascino la nave. Ma qualche dubbio si fa strada quando si tuffano in massa, come quelli del «si salvi chi può».

 

 

Fonte - Finanza&Mercati


 


 

 



   Il mercato vede nero? Comprare

28 Agosto 2006 Milano - di Vincenzo Sciarretta
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PIAZZE EUROPEE IN CORSA VERSO NUOVI MASSIMI Secondo Ryan Kloster, analista di Lehman Brothers, «l’aspetto più curioso del grande rialzo azionario del 2002-2003 è la totale estraneità al fenomeno da parte del pubblico dei risparmiatori», tra i quali è prevalsa l’incertezza.
«I dati recenti, inoltre, evidenziano il permanere di un cupo pessimismo che contagia sia il pubblico dei risparmiatori sia i gestori - prosegue Kloster - Si tratta di un sentiment negativo che permane nonostante le Borse occidentali abbiano offerto, anche nel 2006, un ritorno di tutto rispetto». I numeri raccolti dagli uffici studi tra maggio e agosto, però, parlano addirittura di un vero e proprio record di vendite. Un dato che, solitamente, si accompagna ai minimi di mercato, e che in passato ha innescato discreti rally da parte delle principali piazze finanziarie.

PAURA D’INVESTIRE. A luglio i risparmiatori hanno sofferto di un attacco di panico persino superiore a quello seguente all’11 settembre o alla guerra dell’Iraq. Ma di cosa si tratta? Kloster registra meticolosamente gli acquisti di azioni estere da parte degli operatori. Per esempio annota mese per mese quante azioni estere hanno acquistato, sia direttamente sia attraverso i fondi, gli americani o gli europei.
L’idea è che quando c’è paura, i primi titoli a essere venduti sono proprio quelli stranieri. Un’ipotesi confermata dal bilancio degli acquisti netti crossboder (si veda il grafico in pagina), che mostra fughe disordinate in coincidenza con la prima e la seconda guerra del Golfo, in occasione della crisi asiatica e di quella russa, o del tracollo del peso nel 1995. «Ma ciascun apice di vendite - nota Kloster - ha poi determinato un’occasione d’acquisto». In particolare, il ritorno medio a livello globale dopo sei mesi è stato del 15% e dopo 12 mesi del 19,3 per cento. L’unico caso in cui 12 mesi dopo il picco di paura si registrava una perdita era quello seguito all’11 settembre.
Tutti gli altri episodi sono stati invece connotati da guadagni rilevanti. «Altrettanto significativo - continua l’esperto di Lehman - è il fuggi fuggi dai fondi comuni da parte delle famiglie», una situazione emersa l’ultima volta nel febbraio 2003 e che ha dato vita a un rialzo del mercato azionario globale del 12% nei tre mesi successivi al fenomeno e del 23% dopo sei mesi.

IL CASO ITALIA. L’Italia ricalca il modello generale alla perfezione. Ai tempi della bolla del 2000 non era inusuale registrare una raccolta mensile dei fondi azionari superiore a 5-6 miliardi di euro. Ora l’andamento è diametralmente opposto. A maggio i riscatti hanno toccato 3 miliardi di euro, a giugno 4 miliardi e ad agosto sono usciti 0,5 miliardi. Insomma, gli italiani proprio non vogliono sentir parlare di Borsa. E, osservando l’atteggiamento di francesi e tedeschi, si trovano in buona compagnia.
Secondo alcuni analisti, però, non si tratta di un fenomeno negativo: vuol dire che le azioni salgono perché i fondamentali sono solidi e non in risposta a una febbre speculativa. «Sono rinfrancato - commenta Kate Griffith di Ubs - Mentre alla fine degli anni ’90 gli operatori individuali erano in preda a una sorta di follia collettiva rispecchiata dall’afflusso di investimenti nei fondi comuni, oggi non c’è traccia di mania». Ora che le famiglie se ne stanno alla finestra, la parte del leone sul mercato spetta alle società impegnate in operazione di buy back o di M&A. «E siccome i bilanci sono stati ripuliti dai debiti - prosegue Griffith - dispongono di tutta la potenza di fuoco necessaria a sostenere processi che richiedono liquidità».

GESTORI E ANALISTI IN CRISI. Il pessimismo sul futuro dei mercati azionari non tocca solo i piccoli investitori, ma serpeggia pure tra i gestori dei fondi. Secondo la Bundesbank, in Germania i fondi bilanciati hanno sottopesato la componente azionaria durante tutta la salita degli ultimi 4 anni. E la tendenza riguarderebbe tutti i mercati continentali. Anche tra gli analisti sembra prevalere una visione negativa sul futuro del mercato, come mostra il rapporto tra giudizi negativi e positivi. Il parallelo con situazioni di panico vissute in passato viene riconosciuto anche dall’influente guru di Wall Street, Ed Yardeni, che nota come il numero preponderante di analisti pessimisti (vedere grafico in pagina) è a livelli paragonabili a quelli che nel 1998, nel 2001 e nel 2002-2003 condussero a buoni rimbalzi.

VERSO NUOVI MASSIMI. Recentemente Merrill Lynch ha fornito un quadro puntuale del sentiment dei partecipanti al mercato, pubblicando un sondaggio mensile condotto presso oltre 200 operatori professionali. Il risultato? Il numero di gestori con una riserva di cassa sopra la media è al massimo di sempre. Si profila cioè un quadro interessante, ben illustrato dal team di strateghi azionari della Morgan Stanley: «L’umore è virato dal rosa al nero in pochi mesi. A giungo-luglio si è arrivati a una specie di svendita di azioni. Oggi prevale l’attesa e molti soggetti preferiscono attendere un chiarimento». Nel frattempo, però, le Borse proseguono al rialzo. In caso di allungo, quindi, molti investitori ricchi di liquidità si troveranno ad acquistare titoli in un mercato al rialzo, innescando così una corsa agli acquisti. «Perciò - conclude il report - l’eventualità di nuovi massimi appare probabile».
 

 

Fonte - Bloomberg - Borsa&Finanza