Giovedì 02 agosto 2007 |
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Domenica 05 agosto 2007 |
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Mercoledì 08 agosto 2007 |
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Addio alla favola della finanza
senza rischi
06 Agosto 2007 New York
- di Massimo
Gaggi
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Prestare denaro senza fare troppo
caso alla solvibilità del debitore era diventato così comune che
ormai questi mutui avevano anche un soprannome: «Ninja loans», con
riferimento non alle tartarughe dei cartoni animati ma alle iniziali
di «No Income, No Job or Assets» (in italiano, uno che non ha un
lavoro, né un reddito né un patrimonio). Che alla fine per il
mercato del credito sia arrivata la resa dei conti, non è — quindi —
cosa che sorprende più di tanto gli operatori di Wall Street. Quello che li allarma è la
velocità con la quale è mutato lo stato d’animo dei risparmiatori e
la difficoltà di capire quanto sia vasto l’incendio: è già
andato ben oltre i confini dei mutui «subprime », quelli concessi ai
clienti meno affidabili, ha bruciato alcuni «hedge fund» e sta
asfissiando coi sui fumi la banca d’affari Bear Stearns.
Arriverà fino ai grandi istituti
di credito? Chuck Prince, il capo del gruppo Citibank (ora
rinominato semplicemente Citi), la più esposta ma anche la più
grande delle banche commerciali americane, minimizza i
problemi e assicura che l’istituto «continuerà a danzare» nel
mercato dei prestiti. La festa, insomma, non sarebbe finita:
un’affermazione un po’ sopra le righe che non ha tranquillizzato i
risparmiatori. A tenere col fiato sospeso gli operatori finanziari
in attesa dell’odierna riapertura della Borsa di New York, non è
tanto lo scivolone di venerdì scorso (meno 2%) quanto il repentino
cambiamento d’umore del mercato.
Nonostante tutti gli
scricchiolii, la «bolla» immobiliare scoppiata da un anno e la grave
crisi del mercato «subprime», ancora due settimane fa gli
investitori ostentavano ottimismo, con l’indice Dow Jones che il 19
luglio aveva segnato un altro record storico, superando per la prima
volta quota 14 mila. Poi, giorno dopo giorno, è iniziata la fuga
dagli investimenti più remunerativi ma a più alto rischio che da
anni riempiono i portafogli di «hedge », fondi comuni e anche delle
banche. Cosa è successo?
Nessuno ha le idee chiare perché questa è una caduta diversa dalle
precedenti: la prima crisi da quando i mercati finanziari sono stati
trasformati (ed enormemente dilatati) dall’introduzione dei derivati
e di altri strumenti finanziari sempre più sofisticati.
«Questa è la prima correzione del
nuovo mercato del credito: l’ultima avvenne in epoca precedente allo
sviluppo delle istituzioni e degli strumenti finanziari che oggi
dominano il mercato » spiega sul New York Times, Jack Malvey,
economista di Lehman Brothers. La sensazione è che fino a un certo
punto gli scricchiolii siano stati ignorati nella convinzione che
questo «nuovo mercato» del credito fosse strutturalmente molto meno
esposto alle crisi finanziarie: i nuovi strumenti consentono
infatti di diluire tutti i rischi. Il caso tipico è proprio quello
dei mutui: l’istituto che li concede spezzetta poi il credito e lo
trasferisce ad altri fondi e banche che a loro volta «impacchettano
» il tutto sotto forma di obbligazioni che vengono rivedute sul
mercato.
Negli ultimi giorni il crollo
della American Home Mortgage, la crisi di Bear Stearns e
l’intervento per il salvataggio di una banca tedesca, hanno mostrato
che le cose non stanno esattamente così: è vero che con la
«nuova finanza» i rischi sono stati diluiti, ma non fino al punto di
«vaccinare» il sistema dalle conseguenze di un’ondata di prestiti
concessi in modo avventato. E’ una delle disfunzioni indotte da una
trasformazione del mercato che un capitalismo ben funzionante
dovrebbe vedere e correggere tempestivamente: i controlli sulla
solvibilità dei debitori sono spesso venuti meno perché l’istituto
che emetteva il mutuo era più interessato alle provvigioni che alle
condizioni di prestiti destinati comunque ad essere trasferiti ad
altri. I quali, in genere, li compravano «a scatola chiusa», sempre
sulla base della convinzione che il rischio sarebbe poi stato
diluito attraverso l’emissione di obbligazioni.
Ora che si è tornati coi piedi per
terra, si scopre che il nuovo mercato dei derivati, oltre al
positivo effetto di diluizione dei rischi, si tira dietro anche un
problema, in qualche modo speculare rispetto a questo vantaggio: una
volta che emerge una crisi, è difficile individuare e circoscrivere
i focolai perché i prodotti finanziari «avariati»— nel nostro caso i
mutui — possono essere finiti ovunque. Detto questo, sono in
molti a ritenere che la crisi attuale potrebbe rivelarsi salutare.
Certo, ci saranno perdite significative per molti investitori, ma
l’impatto complessivo sul sistema non dovrebbe essere troppo
pesante: al di fuori degli Usa le economie continuano a crescere e
anche l’America dà segni di vitalità: esportazioni in ripresa e Pil
in aumento nonostante la crisi immobiliare e lo stallo
dell’industria delle costruzioni.
Domani, martedì, toccherà alla
Federal Reserve dire la sua sui tassi d’interesse: a Wall Street
molti sperano in una riduzione che faccia tornare un po’ di fiducia
(e di liquidità) nel mercato, ma, tra gli esperti, i più ritengono
che il capo della Banca centrale, Ben Bernanke, rinvierà all’autunno
il taglio del costo del denaro, lasciando che l’attuale «credit
crunch» faccia pulizia nel mercato dei prestiti.
La situazione è, comunque, molto
delicata, con tanta gente che cammina sul filo del rasoio: non solo
i gestori di «hedge fund» che stanno vendendo yacht e ville
hollywoodiane e i banchieri costretti a cancellare le vacanze
estive: su un piano generale — e quindi anche per l’Europa e
l’Italia — il problema principale potrebbe venire, più che dalle
banche, dal consumatore americano: fin qui ha comprato di
tutto, molto al di là dei suoi mezzi. Un suo comportamento più
prudente veniva auspicato da tempo, mase ora—tra crollo dei valori
immobiliari, benzina alle stelle e rubinetto del credito
asciutto—comprimerà bruscamente gli acquisti, saranno guai per
tutti.
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Fonte - Corriere della
Sera |
E
ANCHE GOLDMAN SACHS SBAGLIA
14 Agosto 2007, Milano
- di Andrea
Greco ______________________________________________
Errare è umano. Ma quando
sbaglia uno dei Masters of the universe – così Wall Street
chiama gli operatori un gradino sotto la divinità – non solo
gli altri sogghignano. È anche un segno che la turbolenza
seguita all´implosione dei cattivi mutui tocca proprio
tutti. Goldman Sachs, forse la più potente banca
d´affari al mondo che affilia (o ha affiliato) il meglio di
tecnici, ambasciatori, strateghi, ieri ha reso noto che tre
suoi fondi hanno inciampato nella crisi dei crediti subprime.
Il fondo azionario
Geo, la cui dotazione di 5 miliardi di dollari è calata di 1,4
miliardi (quasi il 30% del valore) da due settimane, ha
bisogno di risorse fresche per 3 miliardi. Colpa, per
l´istituto, delle condizioni del mercato, degli scambi e
dell´alta volatilità, che ha fatto "saltare" gli algoritmi di
analisi strategica quantitativa con cui la gestione del fondo
si orienta. Saranno tre nuovi partner a ripianare le
perdite: Cv Starr&Co, il gestore di fondi hedge Perry
Capital e il miliardario Eli Broad. Un buon affare, secondo
l´istituto: «L´attuale valore assegnato dal mercato al fondo
presenta uno sconto non motivato dai fondamentali – riporta
una nota – l´investimento darà a Geo maggiore flessibilità per
beneficiare delle opportunità che riteniamo esistano nelle
attuali condizioni». Già che c´era, la banca d´affari ha
ammesso che «è deludente» l´andamento dei suoi due fondi Naeo
e Global Alpha, un hedge multistrategia da 8 miliardi di
dollari gestiti ancora con criteri quantitativi (statistiche e
indicatori per leggere le fasi di mercato e le inversioni di
tendenza). Qui si parla di ribassi del 40% in un anno, oltre
metà negli ultimi sei mesi. Ma non giungeranno nuovi
quattrini, c´è solo il convincimento che «allo stato i due
fondi hanno l´occasione di cogliere attivamente le opportunità
di mercato». Pare fede incrollabile, ma la parola di Goldman
Sachs presso gli investitori pesa. Così l´operazione
trasparenza è stata ripagata con acquisti sul titolo bancario,
che nel finale ha ripiegato, con perdite frazionali. Il gruppo fondato nel 1869
da due immigrati tedeschi è leader mondiale in tutte le
attività di banca d´affari, e ha come caratteristica
l´arruolamento di personaggi con un passato di prim´ordine
nelle istituzioni. A volte il percorso avviene all´inverso,
come in Italia, dove Goldman Sachs ha avuto tra le sue teste
d´uovo Mario Draghi e Massimo Tononi (oggi in Bankitalia e al
Tesoro). E oggi ha per consulenti Mario Monti e Gianni Letta.
Il massimo dell´interscambio tra alte sfere – sempre nel
rispetto formale di ruoli e funzioni – è in patria: l´ex
presidente Robert Rubin guidò il Tesoro Usa nei due mandati di
Bill Clinton, il penultimo leader Henry
Paulson ricopre lo stesso ruolo pubblico nell´amministrazione
Bush, da un anno. Ed è stato accusato di avere sottovalutato
la portata della crisi dei mutui facili negli States.
«L´impatto sarà contenuto, anche nelle perdite – aveva detto
Paulson il 1° agosto – Le economie godono di ottima salute.
Nei fatti, si sta solo riprezzando il
rischio».
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Fonte - La
Repubblica
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Crisi dei
subprime: cosa non
funziona
20 Agosto 2007
Londra - di Marco Onado
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Le oscillazioni, stile montagne
russe, dei mercati finanziari che seminano in questi giorni il
panico nei mercati sono molto di più di una inaspettata correzione
dopo un periodo di crescita incontrastata che durava da 5 anni.
L'Economist ha scritto che questo è un buon periodo per una stretta
creditizia e ha lodato i vantaggi di condizioni più rigorose,
seguendo la saggezza convenzionale secondo cui le crisi sono utili
perché conducono a una più corretta valutazione delle merci e delle
attività finanziarie.
L’Economist ha ragione
?
C'è una caratteristica particolare
nelle ultime crisi (e in particolare in questa) che rende questa
posizione meno accettabile, almeno dal punto di vista di chi
sopporta oggi le perdite e di chi ha intascato i guadagni durante la
fase di boom.
Ci sono quattro caratteristiche dell’attuale
sistema finanziario che vale la pena ricordare:
1) L’enorme crescita delle
attività finanziarie e derivati in tutto il mondo.
Alla
fine del 2005 le attività finanziarie totali si attestavano al
livello sorprendente di 3,7 volte il PIL mondiale(1). L'ammontare
nozionale di tutti i derivati era doppio del volume di tutte le
attività finanziarie, il che significa 11 volte il PIL globale.
Ricordiamo che i derivati finanziari non esistevano fino a
trent’anni fa.
2) Lo
storico basso livello dei tassi d’interesse negli ultimi anni, dalla
metà degli anni ‘90 (come effetto della politica monetaria
condotta da Greenspan ed il suo tentativo di alimentare la crescita
del mercato finanziario).
Come conseguenza delle condizioni
monetarie favorevoli, anche il prezzo per il rischio richiesto dal
mercato è rimasto a livelli molto bassi. I due grafici seguenti
(IMF, ibidem) mostrano chiaramente la situazione anormale degli
ultimi anni.
3) Il peso crescente delle azioni
e dei bond in percentuale del totale delle attività
finanziarie (quindi la diminuzione dei prestiti dalle banche
e dagli altri intermediari finanziari).
A livello mondiale (e
nell'Unione Europea), i prestiti bancari costituiscono il 50 per
cento del totale delle attività finanziari, ma negli Stati Uniti ed
in Giappone il rapporto è molto più basso. Negli Stati Uniti
soltanto 1 dollaro su cinque è preso a prestito da una banca.
4) La diminuzione dei
bond governativi (cioè degli asset risk-free) rispetto al debito
totale.
Mentre il rapporto medio a livello mondiale è del
50 per cento e in Europa del 35 per cento, in Nord America è del 26
per cento, con una tendenza al ribasso. Gli ultimi due punti stanno
a significare che i portafogli delle famiglie sono sempre più
composti da titoli soggetti sia a rischio di mercato che a rischio
di credito.
Questi sono gli ingredienti della magia dell’innovazione
finanziaria degli ultimi decenni: in breve, le banche hanno creato
un volume sorprendente di debito, frazionandolo in vari tipi di
strumenti finanziari, con gradi diversi di
garanzia.
Dove sta il rischio
?
Questi strumenti sono state
comprati da una vasta gamma di banche più piccole, fondi pensioni,
compagnie di assicurazione, hedge funds, altri fondi e anche
investitori privati, tutti incoraggiati ad investire dal rating
generalmente alto dato a questi strumenti. Secondo una
importante scuola di pensiero, questo finanziamento "arm-length" è
il più efficiente per collocare le risorse. Altri possono ricordare
Dickens il quale molti anni fa definì il credito come un sistema
"con cui una persona che non può pagare trova un'altra persona che
non può pagare che garantisce che può pagare".
In effetti, i
sistemi finanziari globali si sono dimostrati molto elastici agli
shock reali e finanziari negli ultimi venti anni ma ciò che
preoccupa soprattutto le banche centrali è che – diversamente da
quanto accadeva nei vecchi tempi bank-based – semplicemente non
sanno dove sta il rischio. Lo testimonia questa dichiarazione nel
giugno 2007 nella Relazione della Banca per i Regolamenti
Internazionali (p. 167):
" Posto che le grandi banche siano
riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei
prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente
detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La
verità è che non lo sappiamo.".
Onesto, ma assai preoccupante.
Chi ci perde ?
La sola cosa che sappiamo è che le
perdite cadranno sulle spalle degli investitori finali, e non
saranno condivise con le banche come è successo in forme di finanza
in cui gli intermediari assumevano un peso superiore e dunque
sopportavano direttamente un rischio maggiore. Il punto è che i
profitti delle banche negli ultimi venti anni hanno raggiunto record
storici. Il rendimento del capitale netto è stato normalmente a
livelli con due cifre (la prima è preferibilmente due) e sarà
probabilmente solo intaccato dalla correzione in atto sui mercati.
In altre parole, la pazzia del credito è finita, una dieta era più
che necessaria, ma quelli che dovranno tirare la cinghia non sono
quelli che si sono ingrassati negli anni passati.
L’allocazione del
finanziamento.
L'efficienza allocativa del
finanziamento "arm-length" merita almeno un secondo giudizio. Le
implicazioni di policy di ciò che è sotto i nostri occhi sono almeno
tre.
Primo, ancora una
volta, è emerso un problema di rating. Le valutazioni del rischio
del credito sono stato fatte su supposizioni troppo ottimistiche,
usando dati non sempre statisticamente significativi ed ignorando
sistematicamente la possibilità di distribuzioni statistiche
irregolari in corrispondenza di eventi estremi. Quando le
banche non si fanno carico dei rischi sui loro libri, ma li vendono
soltanto, la fragmentazione delle responsabilità conduce a ciò che
L'Economist ha definito come "troppo denaro prestato a condizioni
troppo convenienti e troppo facilmente a troppe persone". Le banche
non dovrebbero disfarsi dei rischi cosí facilmente: una porzione del
rischio (per esempio usando la regolamentazione sui requisiti di
capitale) dovrebbe rimanere nei bilanci delle banche.
Secondo, i titoli emessi erano
molto meno negoziabili di quanto le banche avevano fatto credere ai
loro clienti. I bond più sofisticati venivano scambiati raramente;
alcuni erano fatti su misura dalle banche d'investimento per clienti
specifici e non erano mai commercializzati. Il mark-to-market
(la valutazione ai prezzi di mercato) era quindi solo la conseguenza
di una valutazione soggettiva frutto di complicati modelli costruiti
al computer e di ipotesi altrettanto soggettive. La formazione del
prezzo da parte del mercato, il vero cuore di un mercato finanziario
basato sui titoli era semplicemente un'illusione. Gli investitori
finali non sono adeguatamente protetti quando i loro titoli sono
trattati in mercati sottili e non-regolamentati.
Terzo, c'è un problema di
trasparenza nel mercato della vendita al dettaglio delle attività
finanziarie. Poiché i prodotti finanziari stanno diventando sempre
più sofisticati, la maggior parte degli investitori non è
consapevole del rischio effettivamente sopportato.
Ci sono due reazioni ipocrite che
emergono: chiedere maggior trasparenza e una maggior educazione
finanziaria. La prima strada dovrebbe condurre
soltanto a un ulteriore appesantimento degli attuali prospetti
informativi, già oggi leggibili solo da chi ha conseguito un PhD in
finanza (meglio se di un'annata molto recente). La seconda strada è
perfino più assurda (come ci si poteva aspettare subito sostenuta
dal Presidente Bush) poiché è semplicemente impossibile colmare il
divario tra il livello attuale di educazione finanziaria ed il
livello di finanza da scienziato nucleare utilizzata negli attuali
prodotti. La sola soluzione è usare regolamentazioni (e in
particolare le regole di comportamento degli intermediari) in modo
da rendere più conveniente per gli intermediari vendere prodotti
finanziari semplici. Un vasto campo di ricerca (particolarmente nel
Regno Unito, promosso dal Ministero del Tesoro e dalla FSA, l’organo
di vigilanza) prova che la filosofia dell’attuale regolamentazione
crea una forte propensione verso la complessità e l'opacità.
Non
solo maggior educazione finanziaria
E’ arrivato il
momento di cambiare rotta e creare adeguati incentivi affinché gli
intermediari finanziari siano spinti a vendere prodotti più semplici
agli investitori finali. Solo a questo punto un più alto livello di
educazione finanziaria sarà efficace. E’ bene anche che gli
economisti finanziari guardino più attentamente e in una maniera più
dickensiana a ciò che succede all'ultimo anello della "magia" della
creazione del credito.
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Venerdì 10 agosto 2007 |
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Venerdì 10 agosto 2007 |
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Pulizia
etnica in
borsa
23 Agosto 2007 Siena -
di Antonio Cesarano
*Antonio
Cesarano e' Head of Research and Strategy MPS Finance BM
S.p.A.
________________________________________
Per poter comprendere
quanto accaduto e soprattutto cercare di immaginarne i potenziali
risvolti è importante cercare di comprendere a grandi linee qual è
stato il meccanismo finanziario che ha innescato la crisi di
liquidità verificatasi nei giorni scorsi. Quanto accaduto assume una
rilevanza maggiore se si considera che solo fino a poche settimane
fa uno dei principali fattori addotti come spiegazione della
continuazione del rialzo sui mercati azionari era rappresentato
proprio dalla presenza di un elevato livello di liquidità nel
sistema, come del resto testimoniato dagli aggregati
monetari delle principali economie mondiali.
Come è stato
possibile che la liquidità sia improvvisamente
“evaporata”? Buona parte della spiegazione risiede in
una delle tante forme di attuazione delle operazioni c.d. di carry
trade, che in ultima istanza beneficiano del differenziale tra il
costo del finanziamento ed il tasso di remunerazione delle attività
acquistate con i fondi presi a prestito.
Ebbene, tipicamente gli
hedge fund utilizzando lo yen come valuta di finanziamento
sfruttando livelli di tasso prossimi allo zero e dirottano i fondi
verso i paesi che invece presentano tassi più elevati.
Quanto
accaduto negli ultimi giorni ha invece a che fare in buna misura con
la creazione di veicoli finanziari strutturati in modo da investire
su titoli collegati a mutui previo finanziamento soprattutto sul
mercato delle commercial paper. Di seguito un apprendimento del
funzionamento dei veicoli che per brevità di lettura può essere
anche saltato passando alla successiva sezione.
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Il fenomeno dei veicoli finanziari conduit, SIV,
SIV-lite
Il veicolo (chiamato conduit, Siv
(Strucutred Investment Vehicle) o anche Siv-lite nel caso di veicoli
con più alto grado di rischio collegato al più elevato livello di
leva utilizzato) investe in titoli generalmente con rating elevato
(spesso AAA) e finanzia tali operazioni in buona misura attraverso
l’emissione di titoli a breve termine (mediamente con scadenza
intorno ai 3 mesi), rappresentati in larga misura da commercial
paper. Tali veicoli sono in gran parte sponsorizzati da
banche che in molti casi concedono anche linee di credito che
vengono utilizzate dal veicolo nel caso di temporanee situazioni di
tensione sul mercato monetario tali da rendere più conveniente
l’utilizzo della linea di credito piuttosto che il rinnovo delle
commercial paper in scadenza. Il profitto in buona misura risiede
nel differenziale di tasso tra attivo e passivo ricollegabile alla
diversa durata del passivo (breve) rispetto all’attivo (lungo
termine) ed all’elevato livello di rendimento offerto dall’attivo
pur in presenza di titoli con elevato livello di rating.
Quest’ultima condizione è stata ritrovata in buona misura
nell’investimento direttamente (ABS) o indirettamente (CDO) in
titoli aventi come sottostante (ossia come garanzia collaterale) i
flussi derivanti dai mutui Usa. Le commercial paper emesse per
finanziare tali acquisiti a loro volta presentano pertanto una
garanzia implicita rappresentata dalle attività finanziarie
acquistate. Pertanto vengono denominate Asset Backed Commercial
Paper, ossia le c.d. ABCP.
La breve spiegazione del
meccanismo di funzionamento di tali veicoli finanziari porta
pertanto alle seguenti considerazioni:
1) per il veicolo è fondamentale
avere un efficiente mercato delle commercial paper tale da
consentirgli rinnovi continui delle stesse per poter ripagare quelle
in scadenza. E’ per tale ragione che il mercato delle ABCP ha
assistito ad un vero e proprio boom dalla fine del 2004 in poi (si
veda grafico allegato), parallelamente alla maggiore diffusione dei
veicoli citati. Stando ai dati forniti dalla Fed, l’ammontare delle
commercial paper in circolazione a metà agosto ammontava a circa
2100Mld$ di cui circa 1000Mld$ è rappresentata da ABCP. Nell’ambito
di questi ultimi circa 500Mld$ (in base a stime di Citigroup) è
situato in conduit europei. Infine, secondo la Fed, solo il 10% del
totale delle commercial paper è rappresentato da titoli emessi da
aziende non finanziarie;
2) l’acquisto di titoli aventi
come sottostanti i mutui rappresenta l’anello principale di
congiunzione tra economia reale (vedi mercato immobiliare) e mercato
finanziario. Secondo quanto riportato da Standard&Poor’s
circa il 23% dell’attivo dei SIV è rappresentato da titoli aventi
come sottostante mutui residenziali. Di questi ultimi circa la metà
fanno riferimento agli Usa.;
3) le banche sponsor non compaiono
direttamente né tantomeno inseriscono in bilancio i titoli
acquistati dal veicolo. Si limitano a concedere una linea di
credito.
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Il punto di partenza
di quanto verificatosi negli ultimi giorni è stato comunque
rappresentato dal rallentamento del settore immobiliare Usa con
forti cali dei prezzi delle case tali da metter in crisi i mutuatari
statunitensi che avevano contratto mutui a tasso variabile, spesso
strutturati in modo tale da comportare rate molto contenute nei
primi anni (solitamente non oltre il terzo anno) e rate più elevate
negli anni successivi dipendenti dall’andamento dei tassi di
mercato.
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L’home equity extraction
I rialzi delle rate
verificatosi nei mesi scorsi in seguito al contestuale incremento
dei tassi (la Fed nel giro di due anni ha portato i tassi dall’1% al
5,25%), è stato inizialmente tollerato attraverso la continuazione
dell’estrazione di valore dagli immobili. In altri termini i
mutuatari hanno chiesto un prestito aggiuntivo offendo come garanzia
il valore incrementato dell’immobile. Il meccanismo si è però
interrotto quando anche i prezzi delle case hanno iniziato la fase
discendente. In capo ai mutuatari sono pertanto rimasti un valore
del debito complessivo più elevato e soprattutto livelli di rata in
alcuni casi prossimi al 100% del loro reddito. Di conseguenza sono
stati costretti a vendere la propria abitazione per passare in
affitto. Successivamente, essendo la vendita piuttosto ardua vista
l’ampia offerta nel frattempo creatasi, sono stati costretti a
vedersi pignorata la propria abitazione.
Il forte rialzo dei prezzi delle
case ha anche contribuito alla nascita e/o allo sviluppo di società
specializzate nell’erogazione di mutui di elevata entità (i c.d.
jumbo mortgage ossia quelli di entità superiore ai 417.000$ pari
alla soglia oltre la quale per legge i mutui non possono essere
riacquistati dalle relative agenzie Freddie Mac e Fannie Mae) e/o
verso clientela con più elevato merito creditizio. Si sono pertanto
diffusi i c.d. mutui subprime che in larga misura sono a tasso
variabile (c.d. ARM Adjustable Rate Mortgage) in quanto in tal modo
è stato più facile strutturare il meccanismo di riduzione della rata
nei primi anni di vita del mutuo e renderlo pertanto sostenibile per
il mutuatario. Non a caso un report del FMI su questo tema datato
luglio 2007, parafrasando una nota canzone, titola un paragrafo
“Brothers in ARMs”.
Le difficoltà dei
mutuatari si sono a loro volta tradotte nella percezione di minore
sicurezza dei titoli garantiti dai mutui stessi. Di conseguenza i
veicoli hanno dovuto difficoltà a rifinanziare le proprie posizioni
sul mercato delle commercial paper per assenza di compratori.
Pertanto hanno fatto ricorso massicciamente alle linee di credito
accordate dalle banche sponsor mettendo in forte difficoltà queste
ultime nel reperimento dei fondi che in diversi casi ammontavano a
diversi miliardi di Euro o di Dollari. Ecco allora che la situazione
di difficoltà dei veicoli si è trasferita alle banche sponsor, in
aiuto delle quali sono arrivate le banche centrali offrendo loro
liquidità ed accettando come garanzia (collateral) titoli che sul
mercato non trovavano più compratori né tantomeno soggetti disposti
ad accettarli come garanzia.
In questo contesto occorre fare due
precisazioni: 1) diversi titoli detenuti dai veicoli presentano
spesso il rating massimo AAA trattandosi in buona parte di tranche
c.d. senior, ossia quelle meno esposte al rischio di insolvenza dei
creditori. E’ però accaduto che, malgrado i titoli continuassero ad
essere caratterizzati da continuazione del flusso di pagamenti, ne è
però fortemente peggiorata la possibilità di vendita se non a prezzi
molto inferiori a quelli solo di qualche settimana fa. In altri
termini, il rating è stato attribuito facendo riferimento al rischio
di credito sottostante. Il problema di questi giorni fa invece
riferimento ad un rischio di mercato in quanto ad un certo punto gli
operatori non li hanno più accettati né in acquisto né tantomeno in
garanzia, generando appunto una crisi di liquidità. La percezione di
un basso rischio creditizio ha ad esempio portato Moody’s ad
emettere un report a fine giugno scorso in cui i SIV venivano
definiti “un’oasi di pace nel vortice dei subprime”.
La
possibilità che le turbolenze di mercato potessero portare a rischi
di liquidità seri a carico di soggetti fortemente esposti nel
settore dei mutui via Abs e/o CDO, secondo quanto riportato
dall’Economist era stimata praticamente essere nulla (per gli amanti
della statistica 25 sigma, un valore bassissimo se si considera cha
il fondo Long Term Capital Market fallito nel ’98 stimava una
probabilità di default collocata a 7 sigma!).
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Se questa è la dinamica di quanto
accaduto è risultato piuttosto singolare verificare come il processo
di globalizzazione finanziario abbia generato riflessi soprattutto a
carico di banche europee, in primo luogo quelle tedesche. Negli
Ultimi anni infatti è stato soprattutto in questo paese che diverse
banche hanno dato vita a veicoli strutturati nel modo prima
descritto con diversi vantaggi in termini di assorbimenti
patrimoniali e anche di profitto.
Perché mai
l’operatività descritta dei veicoli si è diffusa soprattutto negli
ultimi anni? In parte la ragione risiede nella perduranza di
condizioni di curva dei tassi molto piatta: in altri termini il
tasso di interesse offerto da un titolo governativo a lungo termine
è solo di poco superiore a quanto offerto da titoli con scadenza ben
più breve. Ecco allora la necessità di cercare di sfruttare al
massimo il differenziale tra breve e lungo termine investendo in
titoli che ottimizzassero il livello di rendimento incamerato con un
livello di rischio (almeno creditizio) pari a quello di un treasury
sulla base del rating attribuito.
Perché mai ha interessato
principalmente le banche tedesche? Secondo quanto riportato dal Wsj
in parte il fenomeno si ricollega alla minore concentrazione del
settore bancario tedesco che presenta più di 2100 istituzioni
finanziarie. A titolo di confronto ad esempio il regno unito
presenta 440 istituzioni, la Spagna 359. I veicoli inoltre
hanno preferito investire in titoli in Dollari dal momento che il
mercato Usa offre condizioni più favorevoli sotto il profilo della
liquidità sia degli asset sia delle fonti di finanziamento
(commercial paper). Inoltre
avere attivo e passivo denominati nella stessa valuta elimina il
rischio valutario.
Gli eventi dei prossimi giorni
aiuteranno probabilmente ad avere maggiore chiarezza sull’entità e
sulla ramificazione del fenomeno dei veicoli finanziari. Al momento risulta
probabilmente ostico anche per le banche centrali riuscire ad avere
in tempo reale un quadro preciso dell’entità degli asset in
circolazione e dei soggetti coinvolti, trattandosi di soggetti (i
veicoli) che non rientrano nei bilanci bancari e quindi non tali da
offrire un adeguato livello di trasparenza. L’assenza di certezza
sotto questo punto di vista ha acuito il problema della crisi di
liquidità anche di fronte ad asset con rating molto elevato,
comportando la preferenza verso approdi sicuri rappresentati dai
titoli governativi Usa e tedeschi.
In sintesi
Dopo il tentativo di ricostruzione
del complesso intreccio che collega il mondo reale (mercato
immobiliare nella fattispecie) con quello finanziario, cerchiamo di
affrontare l’arduo compito di immaginare l’evoluzione futura degli
eventi. Innanzitutto i primi due eventi importanti saranno la
riunione della Bce del 6 settembre e quella della Fed del 18 dello
stesso mese. Nel primo caso, in presenza ancora di turbolenze sui
mercati è possibile che la Bce rimandi ad ottobre il rialzo
preannunciato ad agosto, pur sottolineando che trattasi di rinvio e
non di cancellazione. Del resto, proprio ad agosto Trichet si era
premurato di metter nero su bianco il fatto che la Bce avrebbe
“attentamente monitorato” gli sviluppi sui mercati che già ad inizio
agosto si stavano manifestando.
Per quanto riguarda la Fed ,
probabilmente l’intenzione di Bernanke è quella di provare a
mantenere i tassi Fed Funds fermi al 5,25% ed utilizzare, come già
fatto, lo strumento del tasso di sconto per venire incontro alle
esigenze delle banche in caso di necessità. Per quanto
riguarda i Fed Funds, proviamo a mettere sul piatto i pro ed i
contro di un eventuale taglio: da un lato aiuterebbe i mutuatari a
tasso variabile (i famigerati “Brothers in ARMs” utilizzando la
parafrasi del Fmi) ma in questo caso occorrerebbero manovre corpose
(almeno di 50pb) e ravvicinate per avere un impatto concreto ed
immediato. Dall’altro lato il repentino calo dei Fed Funds potrebbe
aumentare le condizioni di liquidità del sistema contribuendo
potenzialmente a creare nuovo terreno fertile per una nuova ondata
di carry trade.
Per
poter cercare di navigare in questo complesso contesto la Fed
potrebbe appunto scegliere di manovrare per ora solo il tasso di
sconto con opportune operazioni di iniezione/drenaggio di liquidità
in base alle necessità degli operatori. In questo modo riuscirebbe a
recuperare il tempo necessario per valutare l’impatto di quanto
accaduto sull’economia reale. In questo caso riteniamo che
l’impatto potrebbe essere manifesto sulla spesa per consumi già nel
trimestre in corso e gradualmente anche nei prossimi due
trimestri.
Fino ad
ora i consumi avevano trovato supporto soprattutto nelle favorevoli
condizioni del mercato del lavoro, riuscendo così ad evidenziare una
buona tenuta anche dopo il venir meno del supporto offerto invece
dal settore immobiliare mediante l’estrazione di valore dagli
immobili. In prospettiva le aziende potrebbero far fronte
agli aumentati costi di finanziamento nonché al calo della domanda
ridimensionando i costi del personale. Si tratta di un rischio che
potrebbe emergere in modo gradualmente crescente soprattutto nei
prossimi due trimestri, dal momento che il mercato del lavoro
tradizionalmente rappresenta un indicatore ritardato del ciclo
macroeconomico. Di conseguenza, la Fed potrebbe operare un primo
taglio dei tassi Fed Funds non prima di novembre o più
realisticamente dicembre. Laddove i mercati dovessero però
avvitarsi, allora il taglio conseguente dei Fed Funds suonerebbe
come un provvedimento di estrema ratio che implicitamente recherebbe
l’ammissione del fatto che i rischi di ridimensionamento della
crescita sono già in atto.
Una precisazione a
questo punto è doverosa: il fenomeno del “repricing del rischio”
avvenuto nei giorni scorsi era stato a più riprese auspicato dai
banchieri centrali e probabilmente rimarrà in essere anche dopo il
superamento dell’attuale crisi. Dal loro punto di vista l’importante
però è che tutto si svolga senza generare panico e quindi senza
arrivare a compromettere i fondamentali macroeconomici. Le forti
iniezioni di liquidità degli ultimi giorni sono in buona misura
finalizzate a tale obiettivo.
In altri termini dal punto di
vista dei banchieri centrali il corretto funzionamento dei mercati
(e di conseguenza il supporto per la continuazione di favorevoli
condizioni di crescita) passa di tanto in tanto attraverso la
pulizia di eccessi che per qualche operatore possono tradursi anche
in sonore perdite. Se tutto andrà come le banche centrali auspicano,
probabilmente a fine anno il forte livello di liquidità insieme alla
sensazione di scampato pericolo che in genere consegue a fasi
estremamente turbolente come quella degli ultimi giorni, potrebbe
comportare il ritorno del sereno sui mercati finanziari per qualche
mese.
Per
verificare se anche questa volta (come ad esempio accadde nel 1998)
si verificherà una situazione di tal tipo occorrerà attenderà almeno
un mese circa, fino alla prossima riunione della Fed del 18
settembre. Nel frattempo, su un orizzonte temporale più lungo esteso
anche al 2008, occorrerà altresì verificare se i fondamentali macro
presentino o meno i primi sintomi della fine del lungo ciclo
espansivo, principalmente negli Usa. Quanto accaduto nel
settore immobiliare presenta potenzialmente i requisiti per
comportare un impatto più marcato sulla crescita. Pertanto negli
ultimi mesi dell’anno occorrerà ancor di più distinguere tra
posizioni tattiche di un mese o due e quelle più strategiche in
ottica 2008.
Infine uno
sguardo sul mercato obbligazionario: gli eventi degli ultimi
giorni si sono risolti in un movimento brusco soprattutto sul
mercato monetario. I tassi a lungo termine sono anche essi scesi ma
molto meno di quelli a breve. Le curve potrebbero mantenere una
pendenza più accentuata rispetto a quella praticamente nulla cui ci
avevano abituato da molto tempo. In area Euro il processo di
irripidimento potrebbe comunque essere graduale visto che la Bce
ancora non ha completato il ciclo rialzista. Nel caso Usa il
processo di steepening potrebbe essere più accentuato rispetto
all’area Euro ma in ogni caso meno violento rispetto all’era
Greenspan: gli operatori stanno gradualmente familiarizzando con una
gestione della politica monetaria caratterizzata da minori
inversioni brusche in cambio di più lunghi periodi di stazionarietà
dei tassi.
 |
Fonte - MPS Finance BM
S.p.A. |
LA MINA
CONDUIT
25 Agosto 2007, Milano
- di
Felice Meoli __________________________
Un «condotto» verso il
nulla. È stato eloquente il titolo dell’Economist sulla
questione conduit, che sta rubando la scena ai mutui subprime
americani. Se infatti in Italia solo UniCredit presenta
uno small conduit fuori bilancio - che secondo Morgan Stanley
non può destare preoccupazioni - in Europa la pratica di
nascondere questi veicoli sembra essere molto più diffusa.
Come afferma Mps «sarà probabilmente ostico anche per le
banche centrali riuscire ad avere in tempo reale un quadro
preciso dell’entità degli asset in circolazione e dei soggetti
coinvolti, trattandosi di veicoli che non rientrano nei
bilanci bancari e quindi non tali da offrire un adeguato
livello di trasparenza». Alla fine di marzo, secondo
Citigroup, nei conduit europei erano presenti oltre 500
miliardi di dollari di Abcp. Il mercato globale delle Abcp è
stimato sui 1.200 miliardi. Ma l’ingegneria non si è fermata
ai conduit semplici: la finanza strutturata ha dato alla luce
i Siv, Structured Investment Vehicles, simili ma con una leva
maggiore, utilizzati per arbitraggi. Moody’s, a maggio, stimava i
volumi di alcuni dei maggiori Siv europei: Solitaire di Hsbc
possiede attività per 17 miliardi di dollari ed è esposto per
il 70% ad asset americani. Amstel di Abn, con un volume di
14,9 miliardi di dollari, presenta un esposizione a
Cdo/Cbo/Clo per l’84 per cento. Una delle più attive in questo
mercato è Deutsche Bank. A marzo, in un documento depositato
presso la Sec (la Consob americana), Deutsche stimava
un’esposizione a perdite su prodotti strutturati per 2,3
miliardi di dollari. E pochi giorni fa si è rivolta
per la prima volta alla nuova «discount window», aperta dalla
Fed per gestire la crisi, per un prestito dall’entità
imprecisata. A Deutsche fanno riferimento tre conduit (Bills,
Rheingold e Rheinmain) per un totale, secondo una stima di
Moody’s datata ottobre dello scorso anno, di 12 miliardi di
dollari. Secondo Domenico Picone, analista di Dresdner
Kleinworth, «se il fermento sulla finanza strutturata
persisterà, è probabile che molti conduit europei e americani
si troveranno a vendere i loro asset per far fronte alle
scadenze delle commercial paper». Oggi è diventato
difficilissimo trovare investitori disposti a rifinanziare le
commercial paper. Per cui i veicoli sono stati costretti ad
appoggiarsi sulle banche sponsor, alle quali sono venute in
aiuto le banche centrali, che hanno accettato come garanzia
titoli che non solo non avevano acquirenti, ma che non erano
voluti neanche come collateral. Oltre a essere in una
crisi di liquidità, siamo in una crisi di fiducia, «anche di
fronte ad asset con rating molto elevato», che sta
«comportando la preferenza verso approdi sicuri rappresentati
dai titoli governativi Usa e tedeschi», conclude Mps.
Fonte - Bloomberg -
Finanza&Mercati |
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ECCO LE BANCHE PIU' ESPOSTE SUI DERIVATI
28 Agosto 2007, Milano
- di
Nicola Borzi __________________________
Dietro la grande paura
scatenata sui mercati internazionali dalla crisi dei mutui
subprime Usa comincia a intravvedersi qualche punto fermo. Se
restano ancora incerti molti degli identikit degli investitori
che, acquistando tranche di cartolarizzazioni residenziali
statunitensi e derivati sintetici, finiranno con il restare
col cerino in mano, non così è invece per gli intermediari che
negli scorsi anni hanno realizzato ingenti profitti sulla
strutturazione e vendita di collateralized debt obligation
(Cdo) sulle ipoteche maggiormente a rischio. Sono queste le
società più esposte all'inevitabile frenata (che già ha
iniziato a manifestarsi) delle emissioni di questi titoli nei
quali gli elevati rendimenti – come sempre in finanza – si
sono coniugati con pari livelli di rischio. La "top ten". La classifica
dei principali intermediari dei Cdo di finanza strutturata,
quella classe di collateralized debt obligation che comprende
nel proprio paniere di titoli sottostanti le Rmbs, cioé le
cartolarizzazioni di mutui residenziali, è stata fornita al
«Sole 24 Ore» da Dealogic, uno dei principali operatori
internazionali di database finanziari. Il mercato statunitense di
questi derivati strutturati è il principale a livello
mondiale: dal primo gennaio al 22 agosto ha visto emissioni
per 145,5 miliardi di dollari, a fronte dei 10,45 del Vecchio
continente. Ebbene, da inizio
anno, come mostra la tabella, più della metà delle emissioni è
stata intermediata da tre grandi operatori, Merrill Lynch (con
una quota che sfiora un quinto del controvalore complessivo),
Citi (13,3%) e dalla svizzera Ubs (13%). In Europa, pur a
fronte delle ridotte dimensioni del mercato, la concentrazione
dei primi tre operatori di Cdo è anche maggiore: l'olandese
Abn Amro ha gestito in meno di otto mesi il 23% delle
emissioni, per un controvalore che però è meno di un
dodicesimo di quello intermediato dal leader Usa, seguita
ancora da Merrill Lynch (22,3%) e dalla belga Kbc (18,5%).
Un mercato opaco. Prima di valutare quale possa
essere l'impatto della frenata delle emissioni di Cdo di
finanza strutturata sui conti di questi operatori, occorre
però prestare attenzione ad alcune peculiarità di questo
mercato. I dati appena esposti includono altre asset class,
oltre le Rmbs, nei panieri dei derivati. Non è possibile
indicare per ciascuna emissione quanta parte del sottostante
sia formata da cartolarizzazioni di mutui subprime sia perché
i portafogli non sono fissi ma variano nel tempo, sia perché i
manager non sono tenuti a rivelare la composizione specifica
dei sottostanti, ma solo a darne indicazioni generiche.
Nessun dato sui
ricavi. Un'altra caratteristica che rende particolarmente
opaco questo mercato, oltre alla deregulation di questi
strumenti, è la totale mancanza di indicazioni sul livello e
la composizione delle commissioni che le banche d'affari
ricavano dalle attività di originazione del sottostante (si
possono creare Cdo di Cdo e così via in serie), dalla
strutturazione dei derivati e dalla vendita degli stessi.
Inoltre le banche possono sottoscrivere gli stessi Cdo e
riceverne gli interessi, sia in proprio che come controparte
degli special purpose vehicles o entities (Spe/Spv), i veicoli
finanziari fuori bilancio utilizzati per la gestione di questi
strumenti finanziari. Inoltre i manager che gestiscono
gli Spe/Spv ricavano margini legati alle performance del
portafoglio dei veicoli, margini che possono essere retrocessi
alle banche. Infine, altre commissioni vanno ai trustee.
Emissioni in
brusca frenata. Tuttavia, secondo gli ultimi dati aggiornati
al primo semestre, il controvalore globale dei Cdo emessi tra
aprile e giugno (141,5 miliardi di dollari) è in frenata sia
sul trimestre precedente che sullo stesso trimestre del
2006. Per i Cdo di finanza strutturata, quelli che
possono essere realizzati sulla base dei mutui subprime, nel
secondo quarto del 2007 il calo sul trimestre precedente è
stato del 25,8%. Prima luce dalle prossime trimestrali. È
ancora presto per poter dire quanto la stretta peserà sui
conti delle grandi banche d'affari. Ma la stagione delle
trimestrali è ormai alle porte: sarà quella la cartina di
tornasole dell'impatto sulla redditività degli operatori.
|
OCCHIO AI DERIVATI
29 Agosto 2007, New
York - di
WSI ______________________________________________
Il mondo dei prodotti
derivati è certamente vasto e complesso e riuscire a trovare
delle statistiche in grado di fornire la reale misura della
piramide finanziaria mostruosa che si è venuta a creare in
questi anni non è cosa facile. Abbiamo però scovato una
recente analisi della BIS (Bank of International Settlement)
la quale alla tabella 19 ha riportato una stima di quale
potrebbe essere l’ammontare di derivati in giro per il mondo
al 31 dicembre 2006 ed il numero certamente fa drizzare i
capelli: 415 trilioni di dollari.
Questo significa 8 volte il
Pil dell’intera economia mondiale, venti volte il valore di
tutte le azioni americane e 5 volte il totale dei Treasury in
circolazione, cioè 5 volte il debito americano.
Tutto questo va certamente inserito in un contesto
di crescita economica tumultuosa e di maggiori opportunità di
investimento oltre che di evoluzione dell’ingegneria
finanziaria. Un esempio per tutti: poter scommettere tramite
Etf sul ribasso dei mercati azionari rappresenta un grande
passo avanti per tutti gli investitori che non devono più
imbarcarsi in complicate operazioni di vendita allo scoperto.
La crescita delle masse non è però stata ordinata e
nemmeno controllata se è vero che da diversi anni la Fed sta
tentando invano di mappare il fenomeno. Nel 1998 il nozionale
dei derivati, sempre secondo Bis, era pari a 80 trilioni di
dollari, oggi siamo, dopo quasi 10 anni, 5 volte più in alto.
E che proprio gli ultimi anni siano stati i più “selvaggi”
lo dimostra la percentuale di crescita del 39.5% dal 2005 al
2006 dei derivati emessi, un tasso 10 volte superiore quello
medio della crescita economica mondiale. Ma allora la domanda
che sorge spontanea è: dove sta il rischio? Il rischio, per
ora solo teorico, lo illustreremo la settimana prossima con
dati che dimostrano in modo inequivocabile come le basse
valutazioni di P/E della banche americane non dipendono solo
dalla crisi dei subprime.
 |
Fonte -
SmartTrading.it. |
|
Processo agli
Hedge
28 Agosto 2007 Milano -
di Elena Bonanni
________________________________________
Di certo, dal crollo dell’Ltcm,
l’industria degli hedge non è più troppo abituata a curarsi le
ferite. Abituata, com’era, a masse sempre in aumento e performance
golose: secondo Mondo Hedge infatti, i patrimoni gestiti, a fine
marzo 2007, avevano un valore di 1.569 miliardi di dollari, rispetto
ai 185 del 1995. Ma
ora, dopo una crisi di liquidità che non si vedeva da tempo e
un’estate da incubo, gli hedge dovranno fare i conti con uno degli
autunni più difficili della loro storia.
E fronteggiare
gli attacchi di chi, a torto o a ragione, li sbatte sul banco degli
imputati. A partire dalla critica sulla scarsa trasparenza dei dati.
I numeri ufficiali (performance e nav) di questo agosto di passione,
infatti, inizieranno ad arrivare solo da fine settembre. Un capo
d’accusa che però viene respinto da chi opera nell’industria. «Il
fatto che il nav arrivi in ritardo è un problema relativo - afferma
Stefano Bestetti di Hedge Invest - Un investimento in un fondo hedge
deve essere inteso nel medio periodo: non ha senso entrare e uscire.
Inoltre, le società elaborano durante il mese delle stime per tenere
aggiornati i sottoscrittori sull’andamento settimanale».
AUTUNNO CALDO? C’è chi, poi, teme
che l’emergenza non sia finita e che nei prossimi mesi altri fondi
saranno costretti a correre ai ripari mettendo sotto assedio i
listini. D’altra parte un monito l’ha già lanciato Moody’s, che vede
nella crisi di liquidità la possibilità che un mega hedge fund vada
a picco con ripercussioni anomale sui mercati. Dobbiamo
prepararci ad altre turbolenze? La storia non è così semplice. «Non
sono d’accordo con Moody’s - afferma Grazia Orlandini, responsabile
investimenti di Mps Alternative - la crisi c’è ora. Il mercato si
sta stabilizzando, a meno che la Fed non cambi atteggiamento. Molti
hedge hanno già delevereggiato, la possibilità di ulteriori problemi
potrebbe arrivare eventualmente solo dai riscatti che inizieranno a
vedersi in maniera consistente a dicembre».
I primi rimborsi sul
fronte dei fondi italiani (soprattutto fondi di fondi) che in
generale hanno una tempistica mensile inizieranno, però, a emergere
già da ottobre. Poi, tra novembre e dicembre arriveranno anche
quelli dei fondi esteri. «Tuttavia va tenuto in conto - continua
Orlandini - che, nel complesso, il saldo finale per l’investitore è
dato sì dalle perdite di questo mese, ma anche dai buoni guadagni
precedenti. In luglio l’industria hedge e i mercati hanno tenuto.
Così le perdite sono state compensate, in un contesto in cui tutte
le asset class sono scese». Ma è chiaro che, per liberarci
completamente dell’incubo default dovremo attendere almeno fino alla
fine dell’anno. Tuttavia, prima di emettere sentenze e farsi
prendere dal panico è bene capire dove nascono i rischi e perché.
NON È SOLO LA LEVA. Sotto il nome
di Hedge Fund finisce un po’ di tutto. Proprio per la loro stessa
natura di «strumenti non tradizionali e non regolamentati». Si apre
qui un secondo problema di trasparenza per l’investitore privato (il
quale in Italia, vale la pena ricordare, ha una soglia minima
d’ingresso di 500mila euro) che, vista la complessità dei prospetti
e degli strumenti in portafoglio, difficilmente può essere veramente
consapevole del tipo di rischio che assume. Quindi, meglio
osservare con attenzione chi si ha davanti.
«Chi ha sofferto di
più - afferma Massimo Maurelli, presidente per l’Italia di Aima
(associazione non profit internazionale per l’industria degli hedge
fund) - sono quei fondi che, pur chiamandosi hedge, in realtà fanno
prevalentemente attività di carry trade (e non di hedging) e che in
più hanno usato molta leva». Sì, perché il carry trade si fa con le
valute, ma anche con i derivati di credito, come i Cdo. Se il
derivato, per esempio, mi dà una cedola del 5% e il finanziamento mi
costa il 4% ho un margine dell’1% che diventa del 20% se vado 20
volte a leva. Negli ultimi tre anni questa tipologia di hedge ha
guadagnato molto ma, quando i subprime hanno iniziato a
scricchiolare, la leva è risultata fatale.
È stato il caso dei fondi Bear
Stearn. «La casa d’affari - spiega Grazia Orlandini - aveva
verosimilmente una quota limitata del portafoglio allocata in
subprime ma con una leva significativa. Il che vuol dire che le
perdite derivanti da esposizioni ridotte sono amplificate
dall’effetto moltiplicatore della leva ». D’altra parte il
deteriorarsi dei subprime era già noto da tempo e l’assunzione di
rischio è stata diversa nei singoli fondi. «Ecco perché -
continua Orlandini - è bene fare distinzioni tra hedge e hedge.
L’hedge fund Paulson, per esempio, prevedendo le difficoltà del
comparto in America aveva già da più di due trimestri assunto
posizioni corte sui subprime».
E molti fondi hanno persino
guadagnato. «Non è un’industria regolamentata. Molto dipende
dall’investitore che farebbe, però, meglio a passare per le liste
"approved" degli esperti: negli hedge la selezione è più difficile
perché il rischio non è rappresentato dal rapporto
rendimento/volatilità». Antonio Foglia, direttore di Banca del
Ceresio, per esempio, sulle pagine dei Quaderni Aiaf (una
pubblicazione dell’associazione degli analisti finanziar) distingue
più in generale tra hedge direzionali e non direzionali. «Per quanto
riguarda i fondi direzionali - scrive Foglia - non abbiamo notato
negli ultimi anni assunzioni di rischi significativamente diversi da
quanto frequentemente visto nel passato». Con l’eccezione dei fondi
activist, in genere più aggressivi, che costruiscono posizioni
illiquide (difficili da vendere), problematiche in caso di riscatti.
Un rischio che riguarda anche le strategie di arbitraggio messe in
atto dagli hedge più market oriented (non direzionali): gli
arbitraggi hanno quasi sempre all’attivo investimenti meno liquidi
di quelli al passivo e tutti gli operatori sono prevalentemente
posizionati in modo omogeneo.
IL NODO LIQUIDITÀ. Un problema che
si è palesato proprio quando, con le difficoltà del mondo subprime,
i Cdo in cui erano stati impacchettati i mutui non riuscivano più a
essere venduti né prezzati. Il motivo? Nessuno sapeva, data la
complessità di questi strumenti, cosa avrebbe comprato esattamente.
«Così i fondi - afferma Bestetti - si sono trovati con titoli che
non riuscivano a vendere o che venivano pagati la metà del loro
valore e con un uso della leva che amplifica le perdite». E,
per riuscire a far fronte agli impegni finanziari, sono stati
costretti a vendere anche altri asset come gli azionari, su cui già
pesava l’incertezza subprime. «La crisi generalizzata - dice
Orlandini - è dipesa anche da alcuni prime broker che di fronte al
caso Bear Stearns e, poi, al congelamento dei riscatti di Bnp
Paribas si sono fatti prendere dal panico e hanno richiamato
indistintamente le linee di credito». Non tutti i fondi però sono
dovuti rientrare precipitosamente, qualcuno ha negoziato e altri
avevano contratti blindati sulle linee di credito.
L’EFFETTO DOMINO. «Con la vendita
indiscriminata sull’equity e l’aumento dell’avversione al rischio -
spiega Orlandini - c’è stato un effetto a catena. Prima hanno
iniziato a soffrire i fondi quantitativi (tra cui Goldman Sachs,
ndr). Questi, che avevano posizioni di arbitraggio sui fondamentali
delle aziende, hanno ridotto le loro esposizioni, aggravando così le
perdite dei listini». Un trend che, a sua volta, ha colpito i
fondi con strategia Long/Short e gli Event driven (cioè i prodotti
che scommettono soprattutto sull’M&A). Appare chiaro che il
problema della liquidità va ben oltre gli hedge. Ma chiama in causa
anche il ruolo delle investment bank. Secondo Foglia, «nelle fasi di
volatilità dei mercati degli ultimi anni la liquidità, e in
particolare quella dei derivati Otc (tra cui i Cdo, ndr), dipende in
maniera cruciale dalla disponibilità delle poche investment bank»,
attive in qualità di prime broker (cioè finanziano gli hedge).
Queste investment bank,
però, spesso hanno una esposizione al rischio sul mercato simile a
quella degli hedge e operano con una leva finanziaria maggiore di
quella dei fondi speculativi. Paradossalmente, gli hedge potrebbero
essere loro stessi gli attori della stabilizzazione dei derivati di
credito. Tra i banchieri di Lugano c’è chi pensa di creare
degli hedge che sfruttino le inefficienze di prezzo dei derivati
create dal panic selling. «Il vero problema per una grande bolla -
afferma Maurelli - è che nei portafogli di banche e investitori
istituzionali di tutto il mondo, ci sono trillioni di dollari di
derivati di credito che sono difficilmente vendibili».
Come mai?
In realtà per i Cdo non esiste un efficace sistema per determinarne
il prezzo. «Il rischio per una crisi sistemica potrebbe quindi
nascere se gran parte di queste posizioni dovessero venire
smobilitate». Un processo che non è ancora iniziato. A ben vedere
gli hedge, seppure con i loro problemi di opacità, stanno già
affrontando il problema. Ma che dire di tutti quei soggetti (come
per esempio le «normali» banche), magari contagiati dal virus
subprime, che hanno sì obblighi di comunicazione ma non sono in
grado di rivelare in tempo la «malattia». «Il problema dei Cdo -
afferma Orlandini - non è ancora emerso nelle sue dimensioni».
Appare evidente il nodo più delicato: nessuno sa dove sono i
potenziali rischi. E, di fronte a soluzioni di regolamentazione e
autoregolamentazione che a molti appaiono difficilmente
percorribili, si pone la questione di una migliore
informazione.
 |
Fonte - Bloomberg -
Borsa&Finanza |
Venerdì 10 agosto 2007 |
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Domenica 12 agosto 2007 |
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Martedì 14 agosto 2007 |
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La crisi
delle borse
non
esiste
13 Agosto 2007 Roma
- di La
Repubblica
Gonfiate a dismisura dai giornali italiani le preoccupazioni
per i mercati finanziari. La Banca centrale europea "registra che le
condizioni del mercato monetario sono in via di normalizzazione e
che la liquidità è ampia".
________________________________________
Prima le borse asiatiche, che
hanno tenuto e alla fine hanno chiuso col segno più. Poi quelle
europee, in positivo per tutta la giornata. Infine anche Wall
Street, dove l'indice Dow Jones ha aperto a +0,31%. La reazione dei
mercati - attesa con ansia dopo la tesissima settimana della crisi
dei mutui Usa - è stata dunque positiva. Il merito è anche delle Banche
centrali, che hanno annunciato nuove immissioni di liquidità: la Bce
ha messo a disposizione 47,665 miliardi di euro e la Fed americana è
intervenuta ancora. Intanto il Fondo monetario internazionale
avverte: "Il 50% dei prestiti immobiliari concessi nel 2006 negli
Usa è a rischio".
Borse in ripresa. Dopo una partenza in
rialzo su tutte le piazze europee, i principali indici nel Vecchio
continente sono rimasti in crescita anche nel resto della seduta. In
alcuni casi, i recuperi sono stati significativi: Londra ha
registrato un aumento del 3,23%, Parigi del 2,21%. In crescita anche
Francoforte (+1,78%) e Zurigo (+1,39%). Bene Milano, dove il Mibtel
ha concluso la giornata guadagnando l'1,24%.
Positiva anche
l'apertura di Wall Street, per la quale c'era grande attesa. A New
York l'indice Dow Jones ha aperto a +0,31% e il Nasdaq a +0,90%. A
trainare i listini americani è stata anche l'ondata di fiducia
alimentata dai dati sulle vendite al dettaglio, che a luglio hanno
evidenziato una crescita superiore alle attese.
Gli interventi delle Banche
centrali. A spiegare la serie di rialzi ci sono anche gli interventi
delle Banche centrali, che hanno cercato di tranquillizzare i
mercati. Nel corso della mattinata c'è stato un nuovo
intervento della Bce per apportare liquidità. In un comunicato, la
Banca centrale europea "registra che le condizioni del mercato
monetario sono in via di normalizzazione e che la liquidità è ampia.
Con operazioni di aggiustamento, la Bce sta ulteriorimente
accompagnando la normalizzazione delle condizioni del mercato
monetario". L'intervento odierno, da oltre 47 miliardi, è il terzo
da giovedì 9 agosto. Solo la scorsa settimana la Bce ha iniettato
nel mercato la cifra record di 156 miliardi.
Nel pomeriggio è intervenuta anche
la Fed. La Banca centrale americana ha assegnato 2 miliardi di
dollari, una cifra comunque decisamente inferiore alle richieste,
che sfioravano i 53 miliardi. Sempre oggi, anche la Banca del
Giappone ha immesso altre considerevoli liquidità sui
mercati. L'operazione di sostegno, come annunciato
dall'Istituto di emissione nipponico, ha un valore di 600 miliardi
di yen (circa quattro miliardi di euro) e fa seguito a un intervento
di 1.000 miliardi di yen concordato venerdì con la Riserva federale
americana e la Banca centrale europea.
Dopo i 300 miliardi di liquidità
immessi nel sistema dagli istituti centrali di tutto il mondo, la
tesi che comincia a circolare con insistenza tra gli addetti ai
lavori è che i banchieri centrali, Fed in prima linea, potrebbero
anche ripensare la strategia sul costo del denaro, forse già questa
settimana. Il primo intervento potrebbe riguardare i tassi di
riferimento Usa, con un taglio fino a 50 punti base. Sul fronte
europeo invece, si ipotizza un annullamento dell'atteso rialzo che
l'Eurotower ha lasciato da tempo intendere per settembre.
L'allarme del Fondo monetario internazionale. Il 50% dei
prestiti immobiliari stipulati negli Stati Uniti nel 2006 è ad alto
rischio perché è stato concesso senza che venisse valutata a fondo
la possibilità che i richiedenti fossero effettivamente in grado di
rimborsare l'importo ottenuto e i relativi interessi. E' il quadro
che emerge da uno studio del Fondo monetario internazionale. Secondo
l'Fmi, negli Usa l'effetto congiunto del calo nei prezzi delle case
e dell'innalzamento dei tassi "creerà significativi shock nei
pagamenti per i mutuatari nel periodo dal 2007 al 2009".
 |
Fonte - La
Repubblica |
Mercati: non si
risolve così la crisi
18
Agosto 2007 Lugano - di *Alfonso
Tuor
*Alfonso
Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante
quotidiano svizzero in lingua italiana.
________________________________________
La crisi è grave. Non sono bastate
le iniezioni di decine di miliardi di dollari per calmare i mercati
finanziari e allora si passa immediatamente alla riduzione del costo
del denaro. Infatti, il Comitato direttivo della Federal Reserve
americana, in una riunione straordinaria, ha tagliato di 50 punti
base il tasso di sconto e ha fatto capire che si prepara a
tagliare nei prossimi giorni anche il tasso giorno per giorno,
attualmente al 5,25%.
Appena appresa la notizia, le borse sono
rimbalzate violentemente. È dunque inevitabile interrogarsi se la
riduzione dei tassi è sufficiente per riportare la calma sui mercati
e per risolvere l’attuale crisi.
Vi sono buoni motivi per ritenere
che il taglio del costo del denaro fornirà un po’ di sollievo ai
mercati, ma non basterà per risolvere il problema dei crediti a
rischio su cui galleggia il sistema finanziario. Innanzitutto, il
taglio del tasso di sconto, che è il tasso al quale la banca
centrale concede prestiti al sistema bancario, è assimilabile alle
iniezioni di liquidità, cui le banche centrali sono ricorse
ripetutamente negli scorsi giorni. Più rilevante appare l’annuncio
che la Federal Reserve è intenzionata a tagliare anche i ben più
importanti Fed Funds, se non tornerà la calma sui mercati. In buona
sostanza, gli operatori oggi sanno che la banca centrale userà tutte
le armi a sua disposizione per sostenere i mercati.
Dunque, se
questo taglio dei tassi non basterà, la Federal Reserve suggerisce
ai mercati che taglierà ancora il costo del denaro (e le mosse della
Fed saranno presto imitate dalle altre banche centrali). In pratica,
Ben Bernanke segue le orme di Alan Greenspan e fa diventare il
salvataggio del sistema finanziario un obiettivo prioritario della
banca centrale.
Questa scelta, che è sicuramente
discutibile, dovrebbe comunque rassicurare i mercati e fungere come
una polizza di assicurazione. Per questo motivo è prevedibile che la
banca centrale dovrà tagliare più volte i tassi, poiché questa crisi
non è causata da una momentanea fase di paura dei mercati, che in
termini tecnici si potrebbe definire una temporanea crisi di
liquidità. Se così fosse, la calma sarebbe già tornata dopo
le iniezioni di decine e decine di miliardi di dollari effettuate
dalle banche centrali di mezzo mondo negli scorsi giorni.
In realtà, il cuore del problema è
la necessità di valutare nuovamente il prezzo dell’enorme quantità
di strumenti finanziari creati in questi anni per finanziare la
bolla del credito. E, come tutti sanno, l’operazione di
«rivalutazione» di questi strumenti non è ancora cominciata. Per gli
strumenti collegati al mercato immobiliare in questi giorni non
esiste nemmeno un prezzo di mercato. Per altri strumenti ancora più
sofisticati creati dalla finanza creativa degli ultimi anni la
rivalutazione è particolarmente ardua, perché non esisteva un prezzo
di mercato nemmeno prima di questa crisi, dato che il loro valore
era desunto da modelli matematici.
La disponibilità
della Fed di offrire capitali a prezzi inferiori e la promessa di
tagliare i tassi fino a quando non tornerà la calma sui mercati, dà
sollievo e tempo, ma non risolve il problema di coloro che (banche,
hedge funds, fondi di investimento, ecc.) devono ancora iscrivere a
bilancio le perdite derivanti dai «nuovi prezzi» di questi
strumenti. Per essere ancora più chiari, si stima che il mercato
americano delle ipoteche «subprime» ammonti a circa 1.300 miliardi
di dollari e che le perdite ammontino come minimo a 200 miliardi di
dollari. Sebbene rilevanti, queste cifre non appaiono enormi e
potrebbero essere assorbite.
Il problema è che su
questi 1.300 miliardi di dollari Wall Street ha costruito una serie
di strumenti finanziari che moltiplicano il valore delle somme in
gioco e il numero degli attori coinvolti. Quindi, o ci si illude che
sia possibile una ripresa del mercato immobiliare americano a breve,
oppure la mossa della Fed dà un certo sollievo, ma non risolve il
problema.
Inoltre, come abbiamo ripetutamente scritto, le obbligazioni
legate al mercato ipotecario americano rappresentano solo la punta
dell’iceberg dell’enorme bolla del credito facile degli ultimi anni
e su cui sono stati inventati strumenti finanziari nuovi e sempre
più sofisticati, come i numerosi veicoli di investimento
apparentemente autonomi creati dalle banche, come il fondo della
tedesca IKB, i veicoli strutturati di investimenton (SIV) che usano
pesantemente lo strumento della leva (ossia del debito) per
moltiplicare i risultati delle loro scommesse e così via. A questi
sono ancora da aggiungere gli hedge funds e i fondi di private
equity.
In
queste condizioni la decisione della Fed può dare un temporaneo
sospiro di sollievo, ma poco più. Per riportare la calma, bisognerà
abbassare i tassi a tal punto da ridare vigore all’attuale bolla del
credito. In pratica, bisognerà ricreare la bolla per evitare le
conseguenze del suo scoppio. Ed è quanto molto probabilmente faranno
le banche centrali, anche se in questo modo si mettono solo delle
toppe, ma non si risolve la crisi, poiché non si correggono i
comportamenti perversi della grande finanza che l’hanno
originata.
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Fonte - Corriere del
Ticino |
Martedì 14 agosto 2007 |
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Venerdì 17 agosto 2007 |
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Venerdì 17 agosto 2007 |
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Borse? no,
meglio stare alla finestra
21
Agosto 2007 Lugano - di Vincenzo
Sciarretta
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La notizia lo coglie
all’improvviso, come tutti. La Federal reserve ha appena deciso di
tagliare dello 0,50% i tassi interbancari. Ma per Marc Faber il
quadro generale rimane quello di prima: «Gli operatori mostrano troppa
faciloneria, danno per scontato che le Borse siano nel mezzo di una
correzione passeggera, che presto lascerà spazio a una ripresa.
Secondo me non ci sono le condizioni affinchè i listini possano
riprendere a salire con fiducia».
Svizzero di nascita, un
PhD in Economia con magna laude, l’estroso e dotto «guru» che abita
a Hong Kong, fra i pochi a prevedere l’ecatombe di queste settimane,
ha le idee chiare: «Anche se mi sbagliassi - prosegue - chi può
pensare che i listini azionari faranno nuovi massimi a breve? E
allora, perché rischiare la camicia, quando la prospettiva di
guadagno appare modesta? Meglio stare alla finestra e aspettare che
la tempesta faccia il suo corso».
Lei ha a lungo ammonito sui rischi
inerenti alla bolla del credito. Pare che il giorno del giudizio
sia arrivato… Probabilmente sì. Negli anni ’80 il rapporto fra il
debito e il pil degli Stati Uniti era di circa il 130%, ora siamo al
330 per cento. Magari salirà ancora fino al 400% ma poi il giorno
del giudizio arriverà. E forse è già cominciato in questi giorni.
Lei considera Alan Greenspan, l’ex
numero uno della Fed, come il responsabile di questa moltiplicazione
della carta finanziaria, non è vero? Certamente sì. Le sue enormi
immissioni di liquidità durante la seconda parte degli anni ’90, e
poi in risposta al crollo dei titoli tecnologici, finirà sui libri
di storia. È stato lui che ha creato la bolla del credito e quella
del settore immobiliare, punto e basta.
D’accordo. Ma ora cosa dovrebbero
fare gli investitori? Sono settimane da perdere il sonno… Insisto a
dire, e non da oggi, che i contanti sono lo sbocco migliore. Il
punto è che non si hanno mai abbastanza soldi quando i mercati
finanziari cominciano a cadere in verticale.
In molti, però, suggeriscono proprio
di comprare azioni, se la flessione dovesse essere ancora più
marcata. Lei cosa ne pensa? Io sono piuttosto pessimista sul futuro
dell’economia e delle Borse. Ma supponiamo che mi sto sbagliando e
che i fondamentali siano tuttora solidi. Penso comunque che dopo una
tale batosta, difficilmente gli indici guadagneranno nuovi massimi
in un breve arco di tempo. Perciò il rapporto rischio-rendimento non
è per nulla allettante.
Forse è opportuno vendere allo
scoperto? Gli specialisti senz’altro troveranno dei titoli che vale
la pena di vendere. In un articolo di un paio di mesi fa sul suo
giornale suggerivo di prendere in considerazione alcuni Etf che si
muovono in senso contrario rispetto all’S&P 500 e guadagnano
quando le Borse perdono terreno. Ma adesso quel suggerimento è
diventato più rischioso.
Teme un rimbalzo a breve? Esatto.
Bernanke potrebbe decidere di tagliare il costo del denaro pur di
salvare Wall Street, innescando forti correnti di copertura. Di
conseguenza, aprire posizioni corte non è adesso esente da rischi.
Quindi, il cash prima di tutto. C’è
qualche altro asset? Sì, gli asset meno correlati con i mercati
finanziari sono le proprietà agricole. Tenga a mente che le
granaglie, il bestiame e i coloniali hanno un grande avvenire,
grazie alla domanda di lungo termine che emerge dai Paesi asiatici e
all’uso di prodotti come gli eco-carburanti derivati dal mais, dallo
zucchero e da altri prodotti della terra. Mi rendo conto che non
sono investimenti adatti a tutti, ma in ogni caso raccomando ai
tanti gestori che stanno per perdere il posto di acquistare un largo
appezzamento agricolo e un trattore, così da non rimanere
disoccupati.
Lei diceva che con ogni probabilità
le Borse non riusciranno a fare nuovi massimi a breve termine. Può
articolare meglio il suo punto di vista? Siamo in una fase di contrazione
del credito. Gli hedge fund scaricano le posizioni; il private
equity, le banche e le assicurazioni, che finanziavano le operazioni
a leva, ritirano i gettoni dal tavolo; la febbre da M&A, le
scalate a debito e il riacquisto di azioni proprie subiranno una
forte riduzione al ribasso. Come vede, non è un clima favorevole al
Toro.
Durante il grande rialzo partito nel
2002-2003, abbiamo avuto altre correzioni, veloci e raggelanti, ma
poi è sempre tornato il sereno. Mi viene in mente il capitombolo
dello scorso febbraio o quello di maggio-giugno 2006. Cosa c’è di
diverso stavolta? Partiamo da inizio 2007. Era già evidente la
terribile dinamica del comparto immobiliare. Forse qualche lettore
ricorderà che nel mio intervento di gennaio 2007, consigliai di
vendere allo scoperto la New Century Financial e la Accredited Home
Lenders, due società leader nei mutui ipotecari. Entrambe sono
praticamente finite a gambe all’aria. A ogni modo il mercato
azionario è riuscito a raggiungere nuovi massimi, per poi scivolare
indietro nel mese di febbraio.
In effetti ad aprile, gli indici
sembravano in equilibrio… Apparentemente, sì. In realtà la nuova
gamba rialzista dava adito a qualche sospetto. In testa alla corsa
vi erano i big dell’energia, le multinazionali con una grossa fetta
dei profitti all’estero e le società oggetto di scalata. Al
contrario, le compagnie finanziarie, che avevano guidato fino a quel
momento il mercato, stentavano, fino a che hanno cominciato a cadere
sotto il loro stesso peso.
Per quale motivo? Pochi se ne sono
accorti, ma è stato in quel momento che le condizioni del credito si
sono fatte meno accomodanti. È bene ricordare che dal 30 giugno 2004
al 29 giugno 2006, la Federal Reserve ha portato il tasso sui fondi
federali dall’1% al 5,25 per cento. Ma mentre ciò accadeva, le
banche allentavano le loro condizioni del credito proprio per
compensare la manovra della Federal Reserve.
Insomma, la Fed stringeva, ma la sua
azione risultava vanificata dalle banche? Sì, è una buona sintesi. In
seguito, le banche hanno patito delle perdite sui prestiti
sub-prime, e hanno reagito stringendo gli standard di accesso. A
quel punto, e solo a quel punto, il mare di liquidità nel quale
tutti avevano lussureggiato ha cominciato a prosciugarsi. A volte,
in passato, lei ha speso buone parole in favore di alcuni mercati
azionari emergenti.
Pensa che reggeranno l’urto? Ne
dubito. In un recente viaggio negli Stati Uniti ho scoperto che
molti fondi pensione e assicurazioni, che erano solite investire
esclusivamente entro il perimetro nazionale, si sono lanciate sulle
piazze estere. È abbastanza comune trovare fondi pensione con il 50%
del portafoglio investito oltreoceano. E siccome siamo in una fase
di svendita, tutto finisce in saldo, buono o cattivo che sia
l’investimento, inclusi i mercati emergenti.
Insomma, dobbiamo aspettare che la
tempesta passi nel porto sicuro del cash? È al momento la scelta
migliore.
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Fonte - Bloomberg -
Borsa&Finanza |
MA QUALE CROLLO. ECCO CHI FA SHOPPING A PIAZZA AFFARI
21 Agosto 2007 Milano -
di
Finanza&Mercati ____________________
Per qualcuno è un’estate di
occasioni in Piazza Affari: dai manager-imprenditori che
arrotondano il proprio personale portafoglio, ai piani di
buyback avviati nei giorni scorsi. A inaugurare la stagione
estiva dei riacquisti erano stati Tamburi investment partners
(Tip) e Mutuionline lo scorso 31 luglio. Poi era toccato al
gruppo Nice il dieci agosto. E, ieri, anche per
D’amico è entrato nel vivo il piano di riacquisto approvato
dal cda il primo agosto. Il programma del gruppo armatoriale
prevede l’acquisto fino a un massimo del 10% del capitale per
un periodo di 18 mesi, entro 31 dicembre del 2008, per un
controvalore di 75 milioni di euro. I «padroni», invece,
si sono dati da fare in Borsa a prescindere dai piani di
buyback, come emerge negli internal dealing di ieri. Ennio
Doris, patron di Mediolanum, nei giorni scorsi ha comprato
200.000 azioni per oltre un milione di euro. Luigi Zunino ha
acquistato altri 365.000 titoli della sua Risanamento per
1,895 milioni (ulteriori a quelli della scorsa settimana).
Francesco Caltagirone jr, presidente di Cementir, ha
acquistato il 13 agosto 16.937 azioni per 139.900 euro (lo
shopping di agosto arriva a 2,45 milioni di euro). La festa
degli internal dealing ha riguardato anche Pirelli&C Real
Estate, Banca Profilo, Banca Ifis, Polyint e Uniland, Seat
Pagine Gialle, Navigazione Montanari e Popolare
dell’Emilia-Romagna. Sintomo che gli imprenditori, dopo la
batosta degli ultimi giorni, credono in una futura ripresa dei
corsi azionari.
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Fonte - Bloomberg -
Finanza&Mercati |
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RIBASSO?
GLI INSIDER COMPRANO A MAN BASSA
29 Agosto 2007 New York
- di D.
HAUCK e M. PATTERSON ________________________________________________
L’agosto di quest’anno
verrà ricordato negli annali per la crisi subprime. Ma la vera
notizia in fatto di Borse potrebbe rivelarsi un’altra. Era
dall’estate del 1995 che i manager degli istituti finanziari
inclusi nell’indice S&P500 non compravano così tanti
titoli delle società per cui lavorano. Mentre i risparmiatori
vendevano le azioni in portafoglio per paura di un grande
crac, i cosiddetti insider non avevano alcun dubbio: la
discesa deimercati è stata un’ottima occasione fare acquisti a
prezzi scontati. Secondo gli analisti di Muzea Insider
Consulting Service, una società che vende i propri servizi
agli hedge fund, si tratta di un importantissimo segnale che
nei prossimi mesi il mercato è destinato a salire. La somma di
tutti gli acquisti effettuati dall’inizio di agosto fino a
ieri ammontava a 26,9 milioni di dollari. «Il fatto che le
persone che sanno come stanno andando veramente gli affari
siano ottimiste è un ottimo segnale - spiega Kevin Cronin, un
gestore di Putnam Investment - questo è indicativo di quanto
siano a buon prezzo i titoli finanziari». Fra le società che
sono state oggetto di pesanti acquisti figurano Wachovia,
American Express, Cit Group e American Capital Strategis.
La legge americana
prevede che le operazioni degli insider vengano comunicate con
non più di due giorni di ritardo alla Sec. «Il clima era molto
negativo; i piccoli risparmiatori spaventati hanno venduto
gran parte del loro portafoglio e adesso arriva anche la
notizia degli insider buying - dice George Muzea, socio
fondatore e presidente di Muzea Insider Consulting - Chi non
riesce a guadagnare in questo mercato non ci riuscirà mai».
Gli acquisti più significativi sono avvenuti nella
settimana terminata il 14 agosto. Secondo Ben Silverman,
direttore della ricerca di InsiderScore.com, siamo in presenza
della situazione più bullish di sempre in ambito
finanziario. InsiderScore.com ha messo a punto un
sistema che attribuisce un diverso valore alle operazioni
degli insider in base alla loro importanza all’interno
dell’azienda e al valore dell’ordine di acquisto. Nella
settimana terminata il 21 agosto il valore degli insider
buying ha superato quello degli insider selling come mai era
successo dal 2003, ovvero da quando InsiderScore.com ha
iniziato a compilare le proprie statistiche. Ernest Rady,
un dirigente di Wachovia, ha comprato titoli per 4,42 milioni
di dollari il 2 e il 3 agosto. Jan Leschly di American Express
ha effettuato acquisti per 2 milioni di dollari. In Cit Group
e American Capital a muoversi sono stati invece addirittura i
Ceo.
Fonte - Bloomberg -
Finanza&Mercati |
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BORSA: E IL NOTO GUFO FA IL MENAGRAMO
29 Agosto 2007
Milano - di G.R. ______________________________________________
«Allacciate le
cinture». L’avvertimento arriva da Robert Prechter, autore di
diversi libri sui mercati finanziari e profondo conoscitore
della Elliott Wave, teoria secondo cui i movimenti di Borsa
corrispondono a quelli dei comportamenti della «massa » e
passano dall’ottimismo al pessimismo in maniera prevedibile e
calcolabile.
In base allo studio di queste onde - un
vero e proprio credo per molti analisti tecnici - nelle prossime settimane si
concretizzerà una lunga fase di ribassi sui principali listini
mondiali. Si tratta di un calo potenzialmente paragonabile a
quello registrato tra il 1999 e il 2001, periodo durante il
quale Dow Jones perse circa il 50%, e il cui lento e faticoso
recupero si è concluso solo con il top di quest’anno.
Andando a
ritroso nel tempo - secondo gli iniziati di Elliott - un crack
simile è riscontrabile solo con il crash del 1929 (-90% il Dow
Jones), recuperato nel ’37, guarda caso anche in questa
occasione dopo otto anni. Di conseguenza, se è vero che la
storia spesso si ripete, bisognerà attendere il 2015 per
rivedere il mercato ai livelli attuali. Di riflesso inoltre,
la correzione accusata dalle Borse a inizio agosto sarebbe
solo una prima avvisaglia di quanto accadrà in futuro.
Ma come comportarsi di fronte a questo scenario? Il
consiglio di Prechter è quello di seguire il mercato (e
specialmente nei prossimi due mesi quando si avranno le
peggiori correzioni - vedi grafico), non solo liquidando i
titoli che si hanno in portafoglio, ma anche aprendo posizioni
ribassiste cioè vendendo allo scoperto titoli, corporate bond
o commodity per poi ricomprarli in seguito a quotazioni
inferiori. Una pratica oggi possibile con molti broker online
anche agli investitori non istituzionali. NB: La Elliott
Wave Theory e' criticata per la sua inattendibilita'. Per un
approccio neutrale si consiglia di leggere su Wikipedia le
sezioni Criticism and Controversy
Fonte - Bloomberg -
Finanza&Mercati |
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