I
principali
listini perdono in media l'1,5%
(ANSA)
- MILANO, 18 Aprile
Lunedi'
nero per le principali Borse europee. I listini continentali hanno visto
andare in fumo una capitalizzazione di 109 mld di euro. Tutti i principali
listini hanno registrato perdite medie intorno al punto e mezzo dopo
un'apertura da brivido.
Fonte
Ansa
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Il punto di vista
di Studio CFA
Nelle Previsioni 2005 e in Studio CFA News del 28 Febbraio 2005
avevamo scritto che le Principali Borse mondiali sarebbero salite fino a
circa metà Marzo 2005. Nonostante gli eventi degli ultimi giorni
sembrano darci ragione, raccomandiamo a tutti la massima cautela e
serenità nell'affrontare questo momento di mercato e aggiungiamo, che la
nostra previsione non è ancora del tutto confermata
|
Il rialzo dei tassi
gela
i consumi USA
Nonostante
i molti sforzi fatti per tenerla su, venerdì scorso
la
Borsa
di New York è crollata su se stessa. E sorte analoga hanno avuto le Borse
europee. All´origine di questi scivoloni...
17
Aprile 2005 - 04:33 Milano (di Giuseppe Turani)
Nonostante i molti sforzi fatti per tenerla su, venerdì scorso
la Borsa
di New York è crollata su se stessa. E sorte analoga hanno avuto le Borse
europee. All´origine di questi scivoloni abbastanza impressionanti ci sono
alcune cattive notizie arrivate dal mondo dell´hi-tech (dove le imprese
faticano a ottenere risultati incoraggianti per gli investitori), ma soprattutto
c´è un dato statistico, relativo ai consumi americani, che forse dirà poco al
grande pubblico, ma che invece è cruciale, fondamentale per gli specialisti.
La
scorsa settimana, quando il dato sui consumi americani è uscito, e era un
brutto dato, i mercati si sono spaventati, molti operatori vi hanno visto l´inizio
della recessione e quindi sono scappati dal listino, vendendo quello che avevano
in mano.
Ma
le cose stanno veramente così? Probabilmente no. Per capirci qualcosa bisogna
fare alcune premesse. I dati relativi ai consumatori americani sono molto
importanti per due ragioni: intanto perché i consumi, negli Stati Uniti, sono
il 70% del Prodotto interno lordo, sono insomma il 70% dell´economia. Inoltre,
sono anni che la congiuntura americana (e quindi del mondo) è sostenuta dagli
acquisti dei consumatori di quel paese. Ovvio che un rallentamento nel ritmo di
acquisti negli Usa generi spavento e panico.
Ma
vediamo i dati. A marzo i consumi americani sono saliti appena dello 0,3% contro
attese (degli esperti) per una crescita dello 0,8. E già qui c´è una prima
delusione. Ma se da questo dato si tolgono le auto (si tratta di un mercato
molto volatile), il materiale da costruzione (idem) e i carburanti (dove le
variazioni di prezzo possono falsare il dato), se si va insomma al dato
"core" dei consumi, si vede che a marzo sono scesi dello 0,1% rispetto
a febbraio. Quindi c´è stato uno stop nella lunghissima corsa dei consumatori
americani.
Ma
non è finita. A questo punto gli economisti hanno preso in mano i dati hanno
scoperto quanto segue. Nel terzo trimestre del 2004 i consumi americani erano
cresciuti (dato annualizzato) alla velocità del 5,2%. Nel quarto trimestre
(sempre del 2004) la crescita era già scesa al 4,2. Nel primo trimestre del
2005 la crescita (sempre annualizzata) è stata solo del 3%. Si vede benissimo,
da questa piccola serie di dati, che il consumatore americano sta frenando i
suoi acquisti e in maniera abbastanza robusta. Nel primo trimestre del
2005 in
pratica i consumi sono cresciuti quasi il 50% in meno rispetto alla velocità
con cui aumentavano sei mesi prima.
Sulla
base di questi dati, gli economisti (con qualche differenza fra di loro, come è
naturale) stimano che l´economia americana nel 2005 presenterà questo profilo.
Crescita del 3,2% nel primo trimestre, del 3% nel secondo e poi di poco
superiore al 2 nel terzo e nel quarto trimestre. Nella seconda parte dell´anno,
cioè, l´economia americana crescerà a una velocità pari a meno della metà
di quella dello scorso anno. Grande frenata. A che cosa è dovuta?
Nessun
mistero. Non c´è, secondo me, alcuna recessione in vista. Sta semplicemente
accadendo quello che
la Federal Reserve
voleva. E cioè far rallentare l´economia. Da mesi continua a aumentare il
costo del denaro e i consumatori, come si vede dai dati citati, hanno capito la
lezione: e stanno riducendo rapidamente la velocità con cui corrono a fare
acquisti. E ancora di più lo faranno nei prossimi mesi.
Tutto
questo che cosa comporta, visto che i consumatori americani (con il loro
spaventoso indebitamento per fare acquisti) sono quelli che hanno tenuto in
piedi la congiuntura? Due cose:
1
- Nei prossimi mesi arriveranno molti altri dati che segnaleranno un
rallentamento dei consumi. E questo farà pensare a una recessione e quindi
renderà nervose le Borse, che sono capaci di grandi scatti isterici. Insomma,
Borse agitate, con violenti su e giù. Quindi per chi non ha nervi più che
saldi è consigliabile andare a pescare con gli amici invece di trafficare
intorno al listino. In realtà non è in arrivo (almeno per ora) alcuna
recessione: l´economia americana sta solo passando da una crescita folle del
4,5% a una del 3 (che è quella che le compete e che le consentirà di sistemare
un po´ i suoi conti con l´estero).
2
- E´ un fatto, però, che nella seconda parte dell´anno l´Europa (e
l´Italia)
avranno a che fare con un´economia americana che andrà a una velocità
dimezzata rispetto a quella che aveva ancora poche settimane fa. E quindi non
potrà certo essere l´economia americana a trascinare quella europea. Anzi, il
rallentamento americano avrà effetti depressivi sulla nostra economia. E
quindi, a meno di un miracolo, il secondo semestre, da questa parte
dell´Atlantico,
non sarà di ripresa, ma piatto o addirittura in calo.
Ma
può accadere un miracolo? Dovrebbe crescere la domanda interna: i consumatori
europei, cioè, dovrebbero mettersi a comprare con più vigore. Vigore che per
ora non si è visto. Quindi il secondo semestre, qui in Europa, potrebbe essere
anche peggio del primo
Fonte
La Repubblica
FED:
i
tassi saliranno ma senza accelerazioni
La
Banca Centrale
Usa ha confermato il termine 'measured' con cui intende procedere sulla via
delle strette creditizie. Ma nel Fomc c'e' disaccordo.
12
Aprile 2005 - 21:40 New York (Ansa)
La Federal Reserve
continua a monitorare l'andamento dell'inflazione riconoscendo che il rischio
di una crescita dei prezzi al consumo è leggermente aumentato. E' quanto emerge
dai verbali completi dell'ultima riunione del Fomc del 22 marzo scorso.
Dal
documento emerge anche che si è avuto un intenso dibattito sul mantenimento del
termine "misurato" con cui finora
la Fed
ha definito il suo orientamento di graduale rialzo dei tassi.
Secondo
alcuni membri del Fomc, infatti, tale espressione risulterebbe
"limitativa". E sebbene queste preoccupazioni non siano nuove - stando
a quanto sottolineato dagli stessi rappresentanti del Comitato - "ora
diventano più pressanti in quanto si ritiene che sono aumentate le probabilità
che il Comitato possa avere necessità di accelerare il ritmo" della
stretta monetaria.(ANSA).
Fonte
Ansa
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DEFICIT
USA: +61%
Mld $ a Febbraio 2005
A
febbraio il deficit commerciale Usa e' aumentato a $61 miliardi. Il consensus
prevedeva $59 mld.
12
Aprile 2005 - 14:30 New York
(Ansa)
Nel
mese di febbraio il deficit della bilancia commerciale USA e’ aumentato del
4.3% rispetto al mese precedente attestandosi alla quota record di $61 miliardi.
Il
dato e’ stato comunicato dal Dipartimento del Commercio.
Il
deficit si e’ rivelato maggiore delle stime degli analisti che erano per un
lieve aumento a $59 miliardi.
Le
importazioni hanno segnato un incremento dell’1.6%, mentre le esportazioni
sono rimaste invariate.
Il
deficit Usa nei confronti della Cina si e’ allargato a $13.9 miliardi, cifra
nettamente superiore rispetto a quella dello stesso mese dello scorso anno di $8.3
miliardi.
Nei
primi due mesi dell’anno, le importazioni dall’industria tessile cinese sono
in rialzo di circa il 62% rispetto allo stesso periodo del 2004.
|
Borsa:
New
York pesante, cede su timori di stretta tassi
23
Aprile 2005 - 23:20 New York
(Ansa)
Dow
Jones e Nasdaq mettono asegno pesanti perdite toccando nuovi minimi dell'anno
sulla sciadei timori di una prossima stretta dei tassi da parte dellaFederal
Reserve, a causa di una inflazione in rialzo a marzo,ben oltre le previsioni.
Così il Dow Jones cede l'1,14% a 10.012,36 punti, mentreanche Nasdaq (-0,96% a
1913,76 punti) e Standard & Poor's 500 (-1,33% a 1.137,50 punti) segnano
pesanti perdite.
L'indice
dei prezzi generali al consumo registra a marzo unprogresso su base mensile
dello 0,6% ovvero la più alta daottobre, ma soprattutto a preoccupare è il
dato relativo altasso 'core', quello cioé depurato della voce alimentari
eenergia, in crescita dello 0,4%, sui livello più alti da circatre anni. Le
buone trimestrali presentate da alcune società hanno solorischiarato
parzialmente il panorama della Borsa Usa, mentre ilcomparto tecnologico si
giova, oltre che dei risultati di Intel(+0,13% a 22,66 dollari) e soprattutto di
Yahoo (+4,31% a 34,65dollari), ugualmente sopra le attese. Bene anche Google,
inrialzo del 3,5%, a 198,1 dollari.
Guardando
all'andamento degli altri titoli, Caterpillar saledel 3,64% a 88,04 dollari,
mentre si segnala il tonfo del 25,07%a 8,01 dollari, registrato dal gruppo di
componenti per le tlcAvaya. La società ha ridotto l'outlook sui profitti 2005.
Bene Ford (+0,65% a 9,34 dollari), nonostante utili in decisocalo; GM continua
la sua discesa a 25,82 dollari (-1,03%) dopola perdita record di 1,1 miliardi
del primo trimestre.
Giornata-no
anche per il comparto finanziario, al trainodello scenario di tassi più alti
che vanno a scapito delleattività di finanziamento. Bank of America cede
l'1,56% a 44,23dollari e Morgan Stanley il 2,98% a 50,19 dollari, che ha
anchecomunicato il proseguire dell'emorragia di impiegati seguitaalle
contestazioni rivolte al numero uno Philip Purcell; aicinque manager
dimissionati nei giorni scorsi si sono uniti oggialtri otto addetti al trading
presso investitori istituzionali. Giù anche JP Morgan Chase (-0,54% a 34,76
dollari),malgrado abbia comunicato - escludendo i costi del takeover diBank One
ed un patteggiamento legale - utili superiori alleattese degli analisti.

Fonte
ANSA
|
Economia
USA:
ritorno
alla realtà
Lo
scossone in borsa, finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver tolto quel
velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato da autorità
politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. Meglio cosi'.
20
Aprile 2005 - 03:04
Lugano (di Alfonso Tuor*)
Sembra
agli sgoccioli il periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari,
che aveva tra l’altro fatto sì che si fosse ridotta ai minimi storici per un
lungo periodo di tempo la volatilità dei mercati azionari (ossia la misura
delle variazioni degli indici). È quanto sembra indicare la correzione delle
borse registrata di recente.
In
pratica, questo scossone, invero finora di dimensioni molto ridotte, sembra aver
tolto quel velo di ottimismo, non suffragato dai dati reali, propagandato
da autorità politiche e monetarie, dalla stampa e dagli analisti finanziari. E
infatti è «sorprendente» notare come siano svanite nel giro di pochi giorni
le certezze sulla forza della crescita statunitense e le preoccupazioni di una
resurrezione dell’inflazione e come addirittura i timori sulle conseguenze
dell’aumento del prezzo del petrolio siano state repentinamente sostituite
dalla paura che l’attuale ribasso del greggio rappresenti un’ulteriore
conferma del forte rallentamento dell’economia mondiale.
E
questo repentino mutamento d’umore è testimoniato dai mercati dei capitali,
dove, e soprattutto negli Stati Uniti, i tassi a lungo termine hanno ripreso a
scendere dopo un significativo rialzo, che alcuni prevedevano dovesse continuare
a causa del diffondersi di aspettative di inflazione. C’è
quindi da domandarsi se stiamo passando da un eccesso di ottimismo ad un eccesso
di pessimismo. Molto probabilmente la risposta corretta è che stiamo assistendo
ad un ritorno alla realtà.
O,
se si vuole, ad una specie di «risveglio» che permette di osservare con
freddezza le reali condizioni di salute dell’economia americana.
Si teme che le famiglie americane, appesantite da un indebitamento senza
precedenti, stiano riducendo i loro consumi, che finora hanno trainato
l’intera economia mondiale. Si teme inoltre che il ridimensionamento dei
consumi delle famiglie non venga compensato da un aumento degli investimenti
aziendali.
In
proposito, il campanello d’allarme è stato suonato dai deludenti risultati di
IBM e di altre società che hanno risentito di una contrazione degli ordinativi.
Si teme anche che un rallentamento della
crescita americana non possa essere evitato da misure di politica monetaria né
da misure fiscali, visto il crescente indebitamento dello stato federale; e
neppure da un maggiore dinamismo di Europa e Giappone, le cui economie
invece stanno già da tempo vistosamente rallentando.
Insomma,
l’economia mondiale sta assistendo alla perdita di forza del motore
statunitense senza poter intravvedere altre economie e altri paesi in grado di
fungere da traino e con una situazione internazionale caratterizzata da
squilibri insostenibili nel tempo, come quello rappresentato dal disavanzo
estero degli Stati Uniti.
Quello
che sta cominciando a delinearsi con sempre maggiore chiarezza è che siamo
ancora nel bel mezzo del ciclo apertosi nel 2000 con il crollo delle borse,
con l’emergere di forti sovracapacità produttive e con l’indebolimento
della domanda dovuta alle ripercussioni sui livelli salariali e occupazionali
dei paesi industrializzati della crescente apertura dei mercati.
Quindi,
il boom che ha fatto sì che il 2004 fosse un anno di grande crescita
dell’economia mondiale (la maggiore degli ultimi 25 anni) si basava sugli
eccezionali tassi di crescita dei paesi emergenti e sull’espansione
statunitense, che era però «drogata» da politiche monetarie e fiscali
insostenibili nel tempo. Ora sembra avviato un lento ritorno alla
realtà che inevitabilmente sarà chiamato a rimettere in discussione anche i
principi su cui si è retta la politica economica degli ultimi anni.

Fonte
- Il
Corriere del Ticino
Borse
USA:
scattano
le condizioni di ipervenduto
Dopo
il brutto scrollone delle ultime sedute, a Wall Street le condizioni di oversold
finalmente si sono fatte sentire. Per cui molti titoli sono stati in grado di
mettere a segno recuperi dei prezzi. Ma bastera' per scongiurare altri ribassi?
19
Aprile 2005 - 17:47 New York (Ralph
Acampora*)
*Ralph
Acampora
e' il Managing Director, Global Equity Research di Prudential Securities a New
York
A Wall Street le condizioni di oversold
(ipervenduto) finalmente si sono fatte
sentire, per cui molti titoli hanno messo a segno recuperi dei prezzi. I dati
sui fondamentali del mercato (breadth) erano lunedi' sera leggermente positivi.
Il rendimento dei Treasuries a 10 anni sembra si voglia avvicinare verso un
target al ribasso di breve termine di quota 4.10%.
Il
dollaro continua a essere in una fase di stallo, per via della resistenza di
breve termine dell'inizio di febbraio posta a quota 85.46. Per quanto riguarda
l'oro, il supporto di breve termine di $423 mantiene il metallo giallo agli
attuali livelli.
Il
greggio comincia a consolidare nella fascia bassa dei 50 dollari al barile.
Serve pero' di piu' per negare il target al ribasso rappresentato dal livello
48.50/49.00.
COMMENTO
Il
mercato finalmente ha risposto favorevolmente alle condizioni di ipervenduto. Il
recente estremo sell off che ha creato tanti trend verso un ribasso accelerato,
adesso ha messo le basi per un energetico rimbalzo di breve periodo. La domanda
piu' importante che abbiamo pero' e' questa: "Riuscira' il rally a negare,
dagli attuali livelli, il danno compiuto sul mercato, e saranno in grado i piu'
importanti indici di borsa di sorpassare le piu' visibili area di offerta viste
in precedenza"?
Siccome
non crediamo che tutto il danno compiuto sara' effettivamente riparato, questo
rally adesso ha secondo me un obiettivo in due stadi: primo, i trader
agggressivi dovrebbero aprire posizioni lunghe in anticipazione di un rimbalzo
potenzialmente rapido; e secondo, gli investitori dovrebbero approffitare di
ogni rafforzamento dei prezzi per alleggerire le posizioni che recentemente
hanno sofferto un danno tecnico di medio e lungo termine (cioe' titoli che hanno
rotto il trend al rialzo di due anni e/o sfondato al ribasso rispetto a top
significativi).
Fonte -
Prudential
Securities
|
Allarme
petrolio come nel settanta
L’Agenzia
Internazionale dell’Energia sostiene che occorre ridurre la domanda. Con
possibili misure di restrizioni alla circolazione di auto, mediante la
limitazione dell’uso dei trasporti privati, solo nei paesi ricchi. Eppure...
05
Aprile 2005 - 15:59
Milano
L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha lanciato un messaggio che evoca
la crisi del petrolio degli anni Settanta. Il barile ha toccato a New York a 58
dollari – un rincaro del 65 per cento rispetto allo scorso anno. E le
previsioni sono pessimistiche perché questo alto prezzo non frena né i consumi
degli Stati Uniti, né quella dei grandi paesi asiatici, Cina ed India in testa.
L’Agenzia
perciò sostiene che occorre ridurre la domanda ed enuncia possibili misure di
restrizioni alla circolazione di auto, mediante la limitazione dell’uso dei
trasporti privati, che dovrebbero essere applicate dai paesi ricchi. Per quelli
in via di sviluppo, invece, essa presenta la raccomandazione, rivolta
soprattutto agli stati asiatici, di cessare di sovvenzionare il prezzo del
petrolio al consumo. Infatti molti di questi paesi, per motivi sociali,
praticano prezzi politici dell’energia, addossando all’erario la differenza
fra il costo e il prezzo al consumo.
I
sussidi con l’aumento del prezzo del barile sono diventati sempre più onerosi
per le loro finanze pubbliche; ma Cina, Indonesia e Malesia hanno aumentato il
prezzo della benzina e del gasolio per i consumatori fra il 6 e il 30 per cento,
meno della metà dell’aumento del greggio. Il costo delle sovvenzioni evita la
restrizione, a volte dolorosa, dei consumi energetici delle famiglie, ma riduce
la disponibilità della finanze pubbliche di mezzi per gli altri interventi
sociali, mentre non limita la domanda di petrolio, il cui aumento per la metà
dipende dall’Asia.
E’
difficile che i governi asiatici si decidano a modificare le proprie politiche,
ma il razionamento del traffico negli anni Settanta, con le targhe alterne e le
domeniche a piedi non servì a risolvere i problemi della crisi energetica,
risolti poi dal mercato. Il prezzo alto infatti stimolò un aumento
dell’offerta, mediante l’esplorazione di nuovi pozzi e nuovi gasdotti,
indusse gli europei (ma non gli americani) all’uso di motori più efficienti e
sviluppò risorse energetiche alternative, come quella nucleare. Ciò indusse i
produttori di greggio a moderare i prezzi, per timore di perdere quote del
mercato energetico globale. E’ questo il principale segnale che attualmente
manca.

Fonte -
Il Foglio
Petrolio:
scorte in calo dopo dieci settimane
Nella
settimana conclusasi il 15 aprile le scorte di greggio sono calate di 1.8 mln di
barili. Il dato sorprende gli analisti.
20
Aprile 2005 - 17:30
Milano (Ansa)
Le
scorte settimanali di greggio negli Usa hanno registrato la prima flessione da
dieci settimane, portando il petrolio a rialzare la testa a New York sino a 53
dollari barile, per poi peraltro leggermente ripiegare. Secondo i dati diffusi
dal Dipartimento dell' Energia Usa, infatti, le scorte di greggio sono scese di
1,8 milioni di barili nella settimana conclusa il 15 aprile scorso.
Gli
analisti si attendevano invece un aumento di 1,4 milioni di barili. Anche le
scorte di benzina sono risultate in calo, perdendo 1,5 milioni di barili, contro
le attese di -275.000 degli analisti.
Sui
mercati internazionali è tornato dunque ad affacciarsi il timore di un' offerta
insufficiente rispetto alla forte domanda globale, tanto più che oggi
la Cina
ha riportato ancora una volta un ritmo vertiginoso di crescita, attestatasi al
+9,5% nel primo trimestre.

Fonte
Ansa
|
Broker
alla guerra del petrolio
Stimare
i prezzi è una lotteria. Goldman Sachs indica valori oltre 100 dollari. Merrill
Lynch e Jp Morgan pronosticano una retromarcia a breve con rischio bolla. Per
l’Fmi barile stabile a 52 dollari nel 2005.
08
Aprile 2005 - 01:34
Milano (di Luca Testoni)
Il petrolio è alle stelle e le previsioni sui prezzi delle grandi banche
d’affari si trasformano in una lotteria che ne fa precipitare la credibilità.
La scorsa settimana Goldman Sachs ha stupito il mercato alzando dell’80% le
previsioni sul picco massimo raggiungibile dal barile. La stima sul super-spike
price (la punta massima) è arrivata all’incredibile quota di 105 dollari il
barile.
Del
tutto opposta la valutazione della rivale Merrill Lynch. David Bowers,
strategist europeo della banca d’affari ha fatto un parallelo tra la bolla
tecnologica del 2000 e l’attuale livello dei prezzi delle commodity. Qualcosa
di più di un campanello d’allarme: «Mentre tutti parlano di petrolio a 100
dollari - commenta ironicamente Bower - occorre non perdere di vista la
possibilità di una rapida retromarcia dei consumi Usa e potremmo rivedere il
barile a 35 dollari».
Insomma,
la bolla potrebbe scoppiare. John Normand, capo degli strategist di Jp Morgan,
condivide la posizione di Merrill: «Dopo il secondo trimestre 2005 - ha
spiegato ieri - i prezzi del petrolio (e dei metalli) scenderanno dai record».
Complici il rallentamento della Cina e il rafforzamento del dollaro. Per contro
il Fondo monetario - pur escludendo punte a 100 dollari - ritiene che la media
dei prezzi nel 2005 si attesterà a 52,23 dollari al barile.
Chi
avrà ragione? Difficile dire, perché dietro le quinte (e rigorosamente off the
record), gli analisti confessano: «Fare previsioni sul petrolio oggi significa
sparare nel mucchio. E ognuno lo fa secondo le proprie convenienze». Con la
rischiosa conseguenza di un azzeramento di credibilità delle stime.
Vittorio
Mincato, amministratore delegato dell’Eni, dettò la strada lo scorso autunno
quando, dopo aver sbagliato le previsioni, decise di arrendersi: «Il prezzo del
barile? Serve la sfera di cristallo». Intanto la corsa del greggio fa bene ai
conti dell’Eni in proporzione maggiore rispetto ai competitor, e ha portato il
titolo al nuovo massimo storico (ieri 20,80 euro, con un guadagno del 2,51%).
Segno che il mercato crede che il barile non scenderà tanto presto.
Segnali
in questo senso sono emersi anche ieri. L’export russo, che in generale è
rallentato per problemi di distribuzione, in marzo è cresciuto dell’11% verso
la Cina. Washington
, invece, comincia a preparare gli americani a un’estate in cui pagheranno la
benzina come non l’hanno mai pagata (2,28 dollari il gallone). Mentre l’Opec
negozia con
la Ue
per creare un tavolo comune di gestione del mercato, di cui i signori del
greggio perdono progressivamente il controllo.
Intanto,
«le posizioni in acquisto sui futures al Nymex - spiega Roberto Zagatti, di
Borsafuture.com - sono coperti solo al 42% da small traders». Il che significa
che «gli speculatori sono poco presenti e che l’euforia deve ancora arrivare».
Il prezzo del future a settembre batte quello dei mesi precedenti. Nella
lotteria del greggio, i più scommettono sull’autunno.

Finanza & Mercati
Il
tonfo Fiat
l'effetto domino
Si
sta disegnando la nuova mappa dei poteri economici. Intanto il Cavaliere ha già
cominciato a riposizionarsi: una volta perso il governo, Berlusconi può
preparare l’ingresso in Telecom. Piccoli Jaki crescono: o no?
21
Aprile 2005 00:36 Roma (di
Stefano Cingolani)
Assalto alla Fiat con un vero e proprio panic selling in Borsa. Scalata alla
Rcs. Bordate del contropatto in Bnl. Attacchi e contrattacchi in Antonveneta con
Bpl oltre il 26% mentre Abn sale sopra il 20%. Chi dubita che la finanza sia una
guerra condotta con altri mezzi, viene smentito da quel che accade a piazza
Affari e dintorni (spesso più nei dintorni). Già, ma cosa accade? Non c'è
un'unica strategia dietro le guerre in corso sul piccolo mercato italiano. O no?
Leggendo le cronache, alcuni analisti amanti di grandi scenari sostengono che è
in corso un assalto di outsiders (come Caltagirone) e new comers (come Ricucci)
alla cittadella dell'establishment, approfittando di una serie di debolezze (l'azionariato
Rcs e la crisi Fiat) o di dissidi interni (tra Geronzi e Fazio).
In
conseguenza di tutto ciò, si assiste a un riequilibrio geoeconomico con lo
spostamento dell'asse settentrionale da ovest a est e il tentativo di Roma di
uscire dalla sua lunga fase di emarginazione, coincisa con la fine delle
Partecipazioni statali. Si potrebbe dire che l'Italia è di nuovo afflitta dalla
sindrome descritta da Francesco Guicciardini. I signorotti locali litigano,
chiedono aiuto all'estero, gli eserciti stranieri varcano in forza le Alpi, un
papa cerca di riunire gli italiani al grido di «fuori i barbari», ma la lega
santa fallisce perché gli alleati tornano a scontrarsi su interessi in
conflitto.
In
queste analisi c'è, senza dubbio, della verità. Ma perché tutto sembra
accelerarsi e scatenarsi proprio adesso? Pura coincidenza o qualche fattore
“esterno” fa da catalizzatore? Di fattori, in realtà, ce ne sono almeno
due: la parabola politica di Silvio Berlusconi e la parabola economica degli
Agnelli. E scusate se è poco. E' attorno a questi soli calanti che si accendono
bagliori rossastri. Ma con una differenza di fondo: all'eclisse politica del
cavaliere potrà seguire un'espansione del suo potere finanziario, per il club
degli Agnelli, invece, sarà molto più difficile salvare quel ruolo chiave che
ancor oggi mantengono.
Berlusconi
ha già cominciato a riposizionarsi con la vendita del pacchetto Mediaset che ha
fatto scendere la quota di Fininvest al 34%. Lo ha fatto, dicono gli analisti,
per molti motivi: sistemare i figli di entrambi i matrimoni, approfittare della
quotazione borsistica (ha venduto al massimo, se solo avesse atteso un paio di
giorni avrebbe perso un bel po' di quattrini), mettere al sicuro la sua azienda
da vendette politiche se vince la sinistra e prepararsi una polizza per il
futuro.
Con
due miliardi liquidi in cassa si possono fare molte cose, si possono muovere
passi consistenti nella diversificazione di Fininvest. Oggi è una finanziaria
che ha in portafoglio come asset principali Mediaset, Mondadori e Medusa
distribuzioni, quindi molto concentrata sui media che resteranno il core
business, ma non più il business pressoché esclusivo. Su come Berlusconi
impiegherà il suo tesoro, in Borsa si favoleggia molto. Ma l'opinione più
diffusa è che guardi a Telecom Italia. Come capo del governo non può farlo,
apriti cielo, ma come capo dell'opposizione chi glielo potrà impedire? Tanto
meno se lascerà la politica sullo sfondo.
Comprerà
anche una quota sostanziosa nel Corriere della sera? Nell'incontro con Paolo
Mieli, Berlusconi ha giurato che resta fuori dall'assalto a fortezza Bastiani.
Con la scalata a Rcs, non c'entra nulla. Nessuno può giurare che non c'entrino
nulla uomini a lui vicini. Per esempio Salvatore Ligresti. Il costruttore
milanese è già nel capitale con Fondiaria, la sua compagnia di assicurazioni.
Ha atteso a lungo prima di avere un posto a tavola, e ha fatto sedere la figlia
Jonella. Ma non gli basta, vuole entrare in plancia di comando.
In
borsa si sta agitando molto Stefano Ricucci che avrebbe raggranellato tra il 7,5
e l'8 per cento. Giura di muoversi per proprio conto. Se no per conto di chi? Si
era guardato a Francesco Gaetano Caltagirone, con il quale l'immobiliarista è
legato nel contropatto di Bnl. Ma il costruttore romano ha detto di non aver
comprato né venduto azioni Rcs negli ultimi 12 mesi e si tiene congelato il suo
2% fino alla fine di quest'anno.
La
battaglia di (via) Solferino dipende dall'altro grande tramonto, quello degli
Agnelli. A settembre, condivideranno con le banche la proprietà del gruppo
Fiat, cioè il grosso del loro investimento. Al quale si sono dimostrati legati,
ma non fino al punto di gettare tutti i loro quattrini in una fornace che li
trasforma in fumo. Con i colpi subiti in borsa, il titolo è sceso ai minimi di
4,39 euro.
I
fondi fuggono. La famiglia dovrà muoversi, forse prima del previsto e l'erede
designato dall'Avvocato, John Jacob Elkann detto Jaki, deciderà cosa fare da
grande. Non siamo in grado di dire se sopravviverà un marchio Fiat nell'auto e
se l'Italia continuerà a essere un produttore significativo. Non ci siamo mai
spinti a decretare una fine prematura, né abbiamo mai sottovalutato la crisi
del gruppo. Ma gli Agnelli sembrano avviarsi verso lo stesso sentiero imboccato
da altre grandi famiglie del capitalismo colpite dalla sindrome dei Buddenbrook.
In
questa prospettiva, dovranno scegliere che cosa tenere delle loro partecipazioni
e soprattutto di quelle definite “sensibili”: Mediobanca, Rcs, Stampa. Sulle
quali le banche, una volta diventate azioniste Fiat, eserciteranno una influenza
importante. Con strategie, in realtà, diverse. Intesa e Capitalia, ad esempio,
sono in Rcs e vogliono contare, possibilmente di più. Unicredito è fuori, ma
in compenso si sta giocando la sua partita dentro Mediobanca, in competizione
con Capitalia. Un tourbillon che sta eccitando gli animal spirits (quei pochi
ancora rimasti a piazza Affari e dintorni). E proprio per contendersi l'eredità
degli Agnelli, stanno affilando i coltelli finanzieri più o meno d'assalto,
banchieri e vecchi e nuovi, amici e nemici di Berlusconi. E i tanti Rastignac
che fioriscono in ogni fine impero.
Dunque,
fra un anno, con Prodi a palazzo Chigi, alcuni vedono Berlusconi trasformarsi
nell'uomo più ricco e potente d'Italia, colui attraverso il quale passeranno
tutte le partite decisive.
La Fininvest
sarà la nuova Ifi e il Cavaliere il nuovo Avvocato: sarà lui a pranzare con i
potenti del mondo, invitato fisso alla Casa Bianca (almeno finché resta Bush),
punto di riferimento per la diplomazia italiana (bon gré mal gré, anche se
alla Farnesina ci sarà un ulivista), perno per l'equilibrio proprietario
nell'unico colosso economico rimasto, cioè Telecom che ha ormai sostituito
la Fiat
come campione nazionale.
Accanto
al nuovo impero del Cavaliere, ci saranno le banche. Alle tre grandi attuali
(Intesa, Unicredito, Sanpaolo), si aggiungerà una quarta banca nazionale:
Capitalia. Se lo scontro su Antoveneta si concluderà con la vittoria di
Gianpiero Fiorani (convinto di poter raggiungere qualcosa in più del 51%), gli
olandesi usciranno e vorranno avere un ruolo maggiore nella banca romana. Fazio,
che tanto ha concesso alla Popolare di Lodi, non potrà più esercitare la sua
moral suasion contro Abn. Né potrà fermare il Bilbao in Bnl. I più «mercatisti»
immaginano che di qui a un anno partirà anche la fusione tra due delle
maggiori. Un attento osservatore, il quale per anni ha avuto un ruolo politico
di primo piano, è pronto a scommettere che dopo questa battaglia nulla sarà più
come prima nel sistema bancario italiano.
Tra
gli uomini nuovi (relativamente), avrà un ruolo importante Caltagirone.
Innanzitutto perché possiede due miliardi cash da mettere sul tappeto, e poi
perché gode di ottimi sostegni trasversali dal centro cattolico alla sinistra
di governo (eccellenti i rapporti con le amministrazioni di Roma e di Napoli).
Potrà sperare di diventare il Bouygues italiano. Al grande costruttore
francese, l'appoggio di Chirac e la non ostilità di Mitterrand ha fruttato la
principale catena televisiva privatizzata.
Oltre
che un ruolo guida nei grandi lavori e nelle infrastrutture pubbliche.
Caltagirone vuole crescere nei giornali, lo ha detto e ripetuto. Ha bussato al
Corriere e non gli hanno aperto, ha bussato alla Stampa con 400 milioni in mano
e gli hanno detto no grazie. Al Gazzettino gli fanno vedere i sorci verdi. Ma è
solido e tenace. In questo nuovo riassetto dei grandi poteri, che ruolo avrà
la Confindustria
? Montezemolo le ha assegnato una funzione federatrice: mettere insieme un mondo
imprenditoriale frammentato e lacerato da interessi e visioni in conflitto.
Come
punto di partenza per un patto dei produttori (ma per carità guai a chiamarlo
così) del secondo millennio. La crisi strutturale dell'industria e la pessima
congiuntura, rendono debole questa prospettiva. Il «fare squadra», allora,
dipende dalla possibilità di innovare il sistema contrattuale, uno scatto di
reni alla Lama-Agnelli (ma senza scala mobile, per carità). Molto dipende da
come andrà a finire la vicenda Fiat auto, una zavorra che pesa come piombo
sulle ali di Montezemolo. Ma più in là i nostri amanti di scenari finanziari,
non osano spingersi.

Fonte
Il Riformista
L'auto
finisce
in banca (anche in USA)
General
Motors, l’azienda che doveva salvare
la
Fiat
,
scivola tra i debiti. Il taglio delle spese di investimento nei nuovi modelli,
per destinare le somme alla maggiore spesa sanitaria, rende assolutamente
precario il futuro del colosso.
20
Aprile 2005 - 14:15
Milano
La General Motors
, la casa americana che doveva salvare
la Fiat
, ha presentato un bilancio del primo trimestre in profondo rosso. La perdita di
1,1 miliardi di dollari contrasta con la previsione di Rick Wagoner secondo cui
si sarebbe raggiunto il pareggio o quasi pareggio. C’è pure un’analogia con
la Fiat
che fa tanto pensare: il rosso deriva tutto dal settore auto, che ha perso nel
trimestre 1,98 miliardi (in pratica due miliardi). E la quota maggiore del
risultato negativo nel settore è sul mercato domestico, dove tocca 1,56
miliardi. Un risultato così brutto non s’era verificato dal
1992, in
cui la grande casa sfiorò il fallimento.
Ora
non si sa che cosa accadrà di Gm, che mantiene ancora il primato di essere la
maggiore del mondo, in numero di veicoli prodotti, ma non sembra in grado di
venderli a un prezzo remunerativo. I costi sono resi estremamente elevati
dall’eccesso di capacità produttiva non utilizzata. E le politiche per
forzare le vendite di modelli considerati troppo vecchi possono essere attuate
solo con sconti sui prezzi; altrimenti la gente continuerà a comprare marche
come
la Toyota. Ma
gli sconti generano perdite.
Per
uscire dal dilemma, Gm avrebbe bisogno di nuovi modelli. Ma da poco ha sospeso
il lancio della vettura Zeta, perché non è in grado di sostenere i costi
dell’operazione. Il fatto è che Wagoner, mentre dovrebbe dedicarsi ai modelli
già approntati e bisognosi di lancio, deve anche occuparsi degli elevati e
crescenti costi per l’assistenza sanitaria al personale. Il sindacato è, su
questo, irremovibile. Ma il taglio delle spese di investimento nelle nuove auto,
per destinare le somme alla maggiore spesa sanitaria, rende precario il futuro
di Gm.
Alcuni
analisti scrivono che
la Gm
non può pensare di trasformarsi da fabbrica di auto, in grande azienda
sanitaria. Il problema finanziario si complica, in quanto, accanto alle spese
crescenti per la sanità e al fabbisogno per i nuovi modelli, vi è anche quello
per il ripiano delle perdite. Il rating di Gm è già al limite. Rasenta quello
dei titoli spazzatura. Il problema è sempre meno di Wagoner e sempre più delle
banche creditrici. L’auto, anche negli Usa, finisce in banca.

Il Foglio
|
Obbligazioni:
conviene
l'auto in panne
I
prezzi sono quasi sempre sotto la pari e i rendimenti lordi, a scadenza,
viaggiano su vette del 9-10%, anche per tragitti non molto lunghi. GM 2009 paga
il 9%, Fiat 2010 il 9,51%. Ma attenzione, perche' il rischio e' che...
27
Aprile 2005 - 04:42 Milano (di
Davide Angelini)
I motori non rombano, i prezzi crollano. E i rendimenti s’impennano. Sono
stati proprio i guai delle case automoblistiche americane ed europee, finite
sotto i riflettori in questi giorni, a riaprire definitivamente i giochi nel
mondo dei corporate bond. In meno di due mesi le distanze di rendimento (spread)
tra i super affidabili governativi e i titoli societari a tripla B (quelli con
affidabilità appena sufficiente) sono tornate ai livelli di ottobre 2003.
I
prezzi sono quasi sempre sotto la pari e i rendimenti lordi, a scadenza, su
vette del 9-10%, anche per tragitti non molto lunghi. GM 2009 paga il 9%, Fiat
2010 il 9,51%.
La
veloce marcia di riavvicinamento - oggi vanificata da nuove paure - era stata
spinta da un clima ben noto, dove il forte calo dei rendimenti aveva convinto un
numero crescente di investitori a ricercare strumenti che assicurassero una
maggiore redditività. Anche a costo di rischiare di più.
E
oggi quei rischi si affacciano alla finestra. Il continuo movimento dei prezzi
verso l'alto è ormai un ricordo: gli scambi di obbligazioni societarie
avvengono a quotazioni cedenti. E la marcia indietro è stata innestata,
appunto, dai prestiti delle case automobilistiche. Il loro ingente indebitamento
complessivo, le scarse prospettive di miglioramento dell'attività, le
indicazioni di bilanci tutt'altro che brillanti hanno indotto, da un lato, le
agenzie di rating a declassare il merito di credito di importanti emittenti, e
dall'altro gli investitori a cedere sul mercato i titoli in portafoglio,
evitando nel frattempo di acquistarne di nuovi, pur in presenza di rendimenti
assai elevati.
La
liquidità orfana è finita, ancora una volta, su investimenti a tripla o doppia
A. Insomma in questa fredda primavera (per la stagione e per i mercati) si
rivede il fly to quality , lo spostamento brusco verso strumenti che offrano
sicurezza, anche se pagano rendimenti molto bassi. Nei giorni scorsi, non a
caso, alcune emissioni corporate sulla rampa di lancio sono state bloccate. In
attesa di tempi migliori. Che fare, ora? Davvero bisogna diffidare di tutto e
comprare solo titoli governativi? E chi finanzierà le società, se i loro
prestiti obbligazionari verranno snobbati ancora a lungo? Se si è detentori di
titoli automobilistici, ma anche di altre emissioni societarie, occorre valutare
quale sia il peso che questi strumenti occupano all’interno del portafoglio.
Se
la loro presenza non supera il 5% non bisogna preoccuparsi eccessivamente.
Andando indietro con il pensiero, non è difficile ricordare che i prestiti
delle società telefoniche hanno subito qualche anno fa tracolli ben superiori a
quelli attuali dei costruttori d'automobili. Ma a queste disfatte fecero seguito
riprese delle quotazioni, incoraggiate dalle ristrutturazioni che hanno
interessato gran parte delle società. E che hanno consentito alle agenzie di
rating di riportare verso l'alto il grado d'affidabilità.
Se
invece i titoli automobilistici e i corporate rappresentano il 10 -15% del
portafoglio, è meglio valutare la propria capacità di assorbire ulteriori,
possibili cali dei prezzi di mercato. Chi è convinto di veleggiare in una
burrasca temporanea, come dovrebbe essere, può mantenere invariata la posizione
e, in qualche caso, incrementarla marginalmente se i rendimenti dovessero
raggiungere il 13-15% lordo. Se invece si è pessimisti e spaventati, forse
sarebbe meglio ridurre la loro quota, o, addirittura, azzerarla. Sapendo che
questo porterà a cospicue perdite in conto capitale.
La
situazione più favorevole, in questa fase, è per chi comincia da zero, dovendo
definire oggi una composizione del portafoglio. A questi investitori non tocca
fare i conti con le perdite in conto capitale, ma valutare bond che hanno perso
quota (e quindi costano poco) e che sono costretti ad offrire rendimenti di
tutto rispetto. Sempre sopra il 6%, come abbiamo visto, eccezion fatta per
Volkswagen che, dotata di una A-, può permettersi di stare sotto il 5%, anche
per la scadenza 2013.
Chi
compra oggi e non vuole rischiare molto può orientarsi al fatidico 5%. Che può
diventare un 15%, se appunto, non manca il fegato. A favore di questa scelta,
gli elevati rendimenti che offrono già ora questi strumenti e che, in tempi
ravvicinati, potrebbero aumentare ulteriormente. Consapevoli che si dovrà
ballare ancora a lunga con le difficoltà di un settore ancora nel tunnel.

Fonte
Corriere della Sera
Banche:
la
guerra dei giganti
Le
Opa degli spagnoli su Bnl e degli olandesi su Antonveneta sono figlie di un
riposizionamento globale della finanza. Dove, tra Usa ed Europa, i colossi fanno
a gara per crescere. Per non essere conquistati.
28
Aprile 2005 - 14:00
Milano (di Mario Deaglio)
Sarà
la tedesca Deutsche Bank, la svizzera Ubs o la statunitense Bank of America ad
acquistare una quota importante della National Bank of China? Difficile dirlo,
dal momento che il governo di Pechino, proprietario di questo gigantesco
istituto di credito cinese, sta trattando con tutte queste banche la possibile
vendita di quote azionarie prima del lancio della società in Borsa; in ogni
caso, per la comunità finanziaria le operazioni di questo tipo, transculturali
prima ancora che transcontinentali, segnano l’inizio di una nuova era.
È
in atto, infatti, un riposizionamento globale della finanza di cui le grandi
ondate di fusioni bancarie che scuotono Europa e America costituiscono
l’aspetto più visibile. Le leggi della banca, a differenza di quelle della
fisica, impongono che, per continuare a stare a galla, gli istituti di credito
diventino più «pesanti», ossia dispongano di maggior capitale; è probabile,
quindi, che molte banche, che oggi a noi sembrano grandi, in futuro siano
considerate soltanto medie e siano in ogni caso condannate a fondersi con altri
istituti di credito nel tentativo di raggiungere una massa critica sufficiente
per stare sul grande mercato del mondo.
Negli
Stati Uniti, il numero delle banche si è quasi dimezzato in vent’anni, in
Italia in un decennio è cambiato completamente il panorama bancario, dal Canada
all’India, dalla Gran Bretagna al Giappone grandi fusioni bancarie sono state
realizzate recentemente oppure sono allo studio. I tentativi del gruppo spagnolo
Bbva e dell’olandese Abn Amro, di prendere il controllo di Bnl e di
Antonveneta non sono affatto casi isolati bensì il riflesso di un grande
cambiamento mondiale.
Le
banche sono costrette al cambiamento dalla logica dei costi e ricavi in un
mercato finanziario sempre più concorrenziale. Nell’era dell’elettronica,
una parte crescente dei costi dell’attività bancaria è rappresentata da
spese fisse di natura informatica con operazioni in gran parte automatiche.
Siccome il costo informatico diretto di un cliente in più è praticamente
nullo, l’aumento del numero dei clienti consente di «spalmare» queste spese
riducendo il costo unitario delle operazioni; inversamente, solo banche con
molti milioni di clienti possono investire miliardi di euro in servizi sempre più
sofisticati.
L’effetto
dell’elettronica sulle dimensioni delle banche non si ferma qui: ha reso
istantanee le operazioni bancarie in ogni parte del mondo, acuendo la
competizione e riducendo i margini degli operatori. Siccome si guadagna meno su
ciascuna operazione, un elevato livello di profitti si raggiunge solo con un
gran numero di operazioni: solamente chi è in grado effettuare milioni di
operazioni riesce veramente a soddisfare le aspettative di profitto degli
azionisti e del mercato in generale. E se non si soddisfano queste aspettative,
si finisce immediatamente nei guai.
Il
mondo è quindi destinato a diventare il campo di battaglia sul quale si
affrontano pochi giganteschi gruppi bancari? Non corriamo troppo. Sulla strada
di un simile futuro ci sono almeno due grandi ostacoli. Il primo è connesso
alla natura dell’attività bancaria: al di là delle spese fisse
dell’informatica, tale attività prevede anche la conoscenza minuta della
clientela, specie al momento della concessione di credito, il che può essere
collegato più facilmente a dimensioni medie o medio-piccole. Alcuni casi
recenti, come quelli di Parmalat e Cirio, mostrano chiaramente che grandi banche
possono sbagliare grandemente; le piccole banche, dal canto loro, se la cavano
spesso con minore informatica (grazie all’acquisto di servizi da banche più
grandi) e minori sofferenze.
Il
secondo ostacolo è di natura politica: non bisogna soccombere all’illusione
che, in un mercato globale, le istituzioni nazionali non contino più o
rimangano indifferenti alle grandi trasformazioni economiche che li riguardano.
Cacciatori
e prede.
La Banca
d’Italia ha individuato nell’«italianità» delle banche uno degli
elementi di identità del sistema economico italiano e fa quanto è in suo
potere per conservarla; la stessa cosa, in maniera più o meno evidente, fanno
tutti gli altri Paesi (i sistemi bancari francese e tedesco sono largamente
chiusi agli investimenti esteri), mentre tutti sono contenti se le «loro»
banche si espandono all’estero.
E
non pensiamo che la privatizzazione e la comparsa sul mercato globale delle
banche cinesi possano lasciare inalterato il mondo finanziario: comporterà
probabilmente l’ascesa di Shanghai che si affiancherà a Hong Kong come centro
finanziario di portata mondiale, così come occorre prepararsi all’ascesa
dell’indiana Bombay e della brasiliana San Paolo.
Di
fronte a queste prospettive, è facile provare un leggero senso di vertigine.
Dobbiamo abituarci a considerare non solo che l’Europa non è più il centro
del mondo finanziario; ma forse non lo è quasi più nemmeno l’America.
Parafrasando un vecchio proverbio africano, è difficile dire quale banca sarà
una «preda» e quale sarà una «cacciatrice»; tutte, però, dovranno mettersi
a correre.
Fonte
Wall Street Italia.com