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Ansa 3
Maggio 2005 - h. 21,45
La
Fed , la banca centrale
Usa, ha alzato oggi il tasso di riferimento di un quarto di punto, al 3%,
come previsto dagli analisti. E' l'ottavo rialzo consecutivo da giugno
2004. La politica di rialzo della Federal Reserve continuera' a essere
graduale, conferma il Federal Open Market Committee (FOMC). Con la
decisione odierna, sale a un punto percentuale il differenziale fra il
costo del denaro negli Usa e quello dell' Eurozona, fermo all'attuale
livello del 2,0% dal 2003.
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Ansa 5
Maggio 2005 - h. 20,12
L'attuale
anomalia che i tassi a lungo termine continuano a essere bassi
e'
dovuta ad un contesto internazionale, dice Alan
Greenspan. In particolare, per il presidente della Fed, sono le pressioni
esercitate da piu' parti in tutto il mondo in questa direzione. Greenspan
lo ha detto a una conferenza sui problemi bancari a Chicago. Il presidente
della Fed ha poi spronato le aziende a difendersi dal caro-petrolio con
investimenti che le rendano piu' efficienti dal punto di vista
energetico.
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Tassi USA: la
Federal Reserve li alza dello 0,25%
Come
ampiamente atteso dal mercato, la
Federal Reserve ha
alzato il tasso sui fed funds al 3.00%.
03 Maggio 2005 - 20:15 New
York (Ansa)
Come ampiamente atteso dal mercato, il
Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Federal Reserve,
ha aumentato il costo del denaro degli Stati Uniti.
Il target sui fed
funds e' stato infatti alzato di 25 punti base al 3%. Si tratta
dell’ottavo incremento consecutivo. Il primo della serie e' stato deciso
nel meeting del Fomc del 30 giugno del 2004.
Nel documento ufficiale che accompagna
la decisione, il Fomc conferma il termine "measured pace", per descrivere
il passo con cui intende procedere sulla via dei cambiamenti alla politica
monetaria accomodante.
Ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open
Market Committee oggi ha deciso di alzare il target sui federal funds di
25 punti base al 3%.
La Commissione ritiene che,
anche dopo tale azione, la politica monetaria resta accomodante e che,
insieme alla sottostante crescita robusta della produttivita', sta
fornendo un costante supporto all'attivita' economica. I dati recenti
suggeriscono che il robusto passo della crescita della spesa e’ in qualche
modo rallentato in parte come conseguenza del precedente aumento dei
prezzi energetici.
Le condizioni del
mercato del lavoro, tuttavia, continuano a mostrare un graduale
miglioramento. Le pressioni inflazionistiche sono negli ultimi mesi sono
aumentate e il “pricing power” e’ piu’ evidente.
La Commissione ritiene che, attraverso
un'appropriata azione di politica monetaria, i rischi al rialzo e al
ribasso per l'ottenimento sia di una crescita sostenibile che di una
stabilita' dei prezzi, dovrebbero essere tenuti sostanzialmente
bilanciati.
Con l'inflazione che
dovrebbe mantenersi contenuta, la Commissione ritiene che la
politica accomodante possa essere rimossa ad un passo che dovrebbe essere
verosimilmente misurato. Cio' nonostante, la Commissione rispondera' ai
cambiamenti delle prospettive economiche nel modo necessario per adempiere
ai suoi obblighi di mantenimento della stabilita' di prezzi.
A votare a favore
dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Alan Greenspan,
Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Susan S. Bies; Roger W.
Ferguson, Jr.; Richard W. Fisher; Edward M. Gramlich; Donald L. Kohn;
Michael H. Moskow; Mark W. Olson; Anthony M. Santomero; e Gary H. Stern.
In un'operazione collegata, il Comitato
dei Governatori (Board of Governors) ha approvato un incremento di 25
punti base del tasso di sconto al 4%. Nel prendere questa
decisione, il comitato ha approvato le richieste formulate dai Comitati
dei Direttori (Boards of Directors) della Federal Reserve Bank di Boston,
New York, Philadelphia, Cleveland, Richmond, Atlanta, Chicago, St. Louis,
Minneapolis, Kansas City, Dallas e San Francisco.
Ed ecco il testo
originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve
di aumentare il tasso interbancario al 3%:
The Federal Open Market Committee decided
today to raise its target for the federal funds rate by 25 basis points to
3 percent.
The Committee believes that, even after
this action, the stance of monetary policy remains accommodative and,
coupled with robust underlying growth in productivity, is providing
ongoing support to economic activity. Recent data suggest that the solid
pace of spending growth has slowed somewhat, partly in response to the
earlier increases in energy prices. Labor market conditions, however,
apparently continue to improve gradually. Pressures on inflation have
picked up in recent months and pricing power is more evident.
The Committee perceives that, with
appropriate monetary policy action, the upside and downside risks to the
attainment of both sustainable growth and price stability should be kept
roughly equal. With underlying inflation expected to be contained, the
Committee believes that policy accommodation can be removed at a pace that
is likely to be measured. Nonetheless, the Committee will respond to
changes in economic prospects as needed to fulfill its obligation to
maintain price stability.
Voting for the FOMC monetary policy
action were: Alan Greenspan, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman;
Susan S. Bies; Roger W. Ferguson, Jr.; Richard W. Fisher; Edward M.
Gramlich; Donald L. Kohn; Michael H. Moskow; Mark W. Olson; Anthony M.
Santomero; and Gary H. Stern.
In a related action, the Board of
Governors unanimously approved a 25-basis-point increase in the discount
rate to 4 percent. In taking this action, the Board approved the requests
submitted by the Boards of Directors of the Federal Reserve Banks of
Boston, New York, Philadelphia , Cleveland
, Richmond
, Atlanta
, Chicago
, St. Louis
, Minneapolis
,
Kansas City, Dallas , and
San Francisco
.

Fonte
Ansa
|
America:
radiografia
vera dell'economia
Mentre
molti commentatori economici affermano che il mercato ha già scontato il peggio,
questo tipo di conclusione non è evidente ne’ dal punto di vista del sentiment,
ne’ per ciò che concerne le valutazioni. Ecco come stanno davvero le
cose.
15 Maggio 2005 -
19:01 New York (di Charlie
Minter)
A quanto pare l’economia è destinata a
rallentare in guisa significativa o addirittura ad entrare in recessione, e
questo oltretutto non è adeguatamente scontato dai mercati. E’ questa la
conclusione a cui si perviene analizzando alcuni indicatori che si sono rivelati
buoni anticipatori nel prevedere i precedenti cicli economici. Le motivazioni
sono quelle che seguono.
Il PMI Index, che scende da un po’ di tempo,
anticipa la produzione industriale di cinque mesi circa. A sua volta, la
produzione industriale anticipa l’occupazione del settore manifatturiero di
circa quattro mesi. Ciò vuol dire in sostanza che il PMI anticipa l’occupazione
di circa nove mesi. Inoltre i prezzi dell’energia in rialzo tendono ad
anticipare l’economia di un anno circa, il che vuol dire che l’aumento
sperimentato sta già facendo i suoi effetti, anche se i prezzi del greggio
dovessero immediatamente ripiegare.
Abbiamo anche rilevato nei precedenti commenti
che un periodo di restringimento della politica monetaria è quasi sempre seguito
da un rallentamento economico o peggio ancora da recessione, unitamente ad un
calo del mercato azionario. Associato a ciò è il calo della crescita anno
su anno della base monetaria MZM dell’1.6%, un livello che tipicamente ha
condotto ad una rallentamento economico negli ultimi 40 anni. Un altro studio
indica una correlazione del 47% fra la crescita reale di M2 e le vendite
interne.
Ciò è ammesso dal Conference Board, il quale assegna a
questo elemento la seconda ponderazione più elevata nell’ambito del suo
leading
indicator. La crescita
reale dell’aggregato M2 è scesa da un tasso annuo del 4.4% nel primo trimestre
2004 a solo lo
0.6% nel primo trimestre di quest’anno. Uno studio simile rileva una
correlazione del 44% fra un appiattimento della curva dei rendimenti (la
differenza fra il rendimento del Bond decennale e il rendimento del T-Bill a tre
mesi) e un conseguente rallentamento delle vendite al dettaglio. Il
differenziale era di 359 punti base nel secondo trimestre 2004, è sceso a 183 bp
nel primo trimestre 2005 ed è sceso ora a 118 bp. Difatti, il Conference Board
assegna a questo indicatore la più elevata ponderazione nell’ambito dei suoi
dieci leading indicator.
Lo stesso Leading Indicator è ora in ribasso rispetto ad un anno fa, e negli ultimi 40
anni un simile evento ha sempre condotto ad un rallentamento economico o ad una
recessione. Oltretutto questi indicatori sono stati confermati da un
indebolimento del quadro economico a livello globale. Il Leading Indicator
dell’OCSE è sceso pesantemente, mentre l’economia giapponese sta nuovamente
rallentando vistosamente, nonostante di fatto non siamo mai cresciuta negli
ultimi 17 anni. Sebbene la maggior parte degli economisti affermi che l’economia
è in buona salute, noialtri assegniamo molto peso agli indicatori citati.
Mentre un numero di commentatori economici
afferma che il mercato ha già scontato il peggio, questo tipo di conclusione non
è evidente ne’ dal punto di vista del sentiment, ne’ per ciò che concerne le
valutazioni. Infatti, come è
noto, i commenti sui programmi che girano sulla CNBC sono perennemente
bullish. Anche chi è noto per essere ribassista su questi canali, di
fatto è soltanto un po’ meno ottimista, piuttosto che essere propriamente
pessimista. Se non si riescono a trovare gli Orsi, come fa il sentiment ad
essere bearish? In prossimità dei precedenti minimi di mercato il sondaggio di
Investors Intelligence mostrava i Bears al 55% o anche più, mentre i Bulls erano
al 20% o anche meno.
Attualmente gli Orsi sono al 28%, mentre il 46% degli
analisti è classificabile come Bull. In aggiunta, in prossimità dei precedenti minimi di
mercato la liquidità degli Equity Mutual Funds era all’incirca pari al 10% del
patrimonio netto, contro l’ultima lettura del 4.1%. Il VIX resta relativamente
basso con il suo 16%, mentre per quanto riguarda le valutazioni, il P/E dello
S&P500 è sempre a quota 19, molto meno del 2000, ma sempre nella parte alta
del range dei 71 anni che hanno preceduto la fine degli anni ’90. Un mercato
ribassista termina con una capitolazione di massa del pubblico, e non con un
quadro compiacente come si rileva oggi. Quando
oltretutto si considera i persistenti squilibri economici e finanziari, pensiamo
che il mercato permanga seriamente vulnerabile a consistenti ribassi nei tempi a
venire.
N.B. Un certo numero delle
correlazioni citate in questo commento sono frutto del lavoro dell’economista Ed
Hyman di ISI e di Paul Kasriel di Northern Trust. Tuttavia, le conclusioni sono
di chi scrive.

Fonte Smartrading per Wall Street Italia
Paradosso del dollaro:
i
poveri finanziano i ricchi
Le fasi di transizione come quella che stiamo
vivendo, in cui il vecchio ordine sta morendo e quello nuovo non è ancora nato,
sono accompagnate sempre da grandi sconvolgimenti economici e finanziari e,
talvolta, anche politici e militari.
10 Maggio 2005 -
10:53 Milano (di Francesco
Arcucci)
Il dollaro a partire dagli anni ’40 è
diventato la moneta di riserva utilizzata dal mondo intero, cioè la moneta in
cui si effettuano i pagamenti per le grandi transazioni internazionali, si
regolano le posizioni debitorie e creditorie fra Paesi e sono denominati i
crediti verso l’estero delle Banche centrali. Questa funzione è stata
esercitata dal dollaro più che dalle altre monete come sterlina, franco
francese, marco o yen in grazia del fatto che gli Stati Uniti erano diventati la
prima economia del mondo.
Ma nel secolo appena iniziato i rapporti di
causalità si sono capovolti. Oggi gli Stati Uniti rappresentano la prima
economia del mondo, nonostante il loro deficit e il loro debito verso l’estero,
solo perché il dollaro rimane la moneta di riserva. La prosperità degli Stati Uniti dipende
dall’accumulo da parte degli altri Paesi di crediti in dollari che finanziano
la Confederazione
nordamericana.
Nel secolo appena trascorso il resto del mondo
accumulava dollari per poter acquistare beni prodotti in America. In questi
ultimi anni è il contrario. Il resto del mondo, e specie le banche centrali
asiatiche, accumulano dollari affinché gli americani acquistino beni prodotti
altrove.
Ancora venti anni fa l’America con le sue
esportazioni era il più grande creditore del mondo. Oggi l’America con le sue
importazioni è diventato il più grande debitore del mondo e lo status del
dollaro come moneta di riserva svolge una funzione paradossale: quella di
consentire ai ricchi americani di venire finanziati dai poveri cinesi e indiani.
Se questa capacità del dollaro scomparisse
dall’oggi al domani i consumi in America sarebbero limitati alla produzione
interna e i finanziamenti sarebbero limitati al risparmio nazionale: ne
seguirebbe una terribile recessione del tipo di quella che ha colpito
la Russia nell’agosto del
1998.
Ma siccome il dollaro rimane moneta di riserva, il
finanziamento dei ricchi da parte dei poveri continuerà, sfidando le leggi
dell’economia che postulano il contrario. E’ chiaro che in queste condizioni una
crisi del dollaro può essere solo ritardata, con il risultato di renderla più
grave, ma non può essere evitata perché le ragioni per le quali il dollaro è
diventato moneta di riserva (e cioè che l’America inondava il mondo con prodotti
a basso costo ed elevata qualità) non sussistono più.
Oggi la fabbrica dei
manufatti del mondo è situata in Giappone, in Cina, a Taiwan, in Corea del Sud e
anche in India. Sono le monete di questi Paesi che dovrebbero godere dello
status di moneta di riserva: solo chi le detiene ha la certezza di poter
acquistare l’enorme gamma di beni prodotti in Asia.
E’ evidente che l’economia
di un mondo nel quale non si accumulano le monete dei Paesi più capaci di
produrre e vendere i loro beni, ma del Paese che, acquistando in larga scala
tali beni, incorre in deficit e debiti sempre più grandi è destinato a
schiacciarsi contro un muro. In conclusione: se è vero che gli Stati Uniti
possono finanziare il loro enorme deficit di parte corrente e il loro
grandissimo debito verso l’estero sfruttando lo status del dollaro quale moneta
di riserva (e questo lo sanno tutti), è altrettanto vero che non può continuare
ad essere moneta di riserva la moneta di un Paese che incorre sistematicamente
in deficit e debito verso l’estero (questo ancora lo capiscono in pochi, ma è
destinato a diventare sempre più chiaro con l’andare del tempo).
L’economia mondiale si trova di fronte ad una
difficile transizione: da una fase in cui il dollaro è ancora il centro del
sistema monetario internazionale, ad una situazione nella quale ci sarà un nuovo
sistema monetario internazionale. Ma le fasi di transizione di questa portata,
in cui il vecchio ordine sta morendo e quello nuovo non è ancora nato, sono
accompagnate sempre da grandi sconvolgimenti economici e finanziari e, talvolta,
anche politici e militari. E’ stato così, ad esempio, nei Paesi
dell’Europa orientale in transizione dall’economia centralizzata all’economia di
mercato. Oggi i motivi che hanno propiziato la funzione del dollaro come centro
del sistema monetario internazionale non esistono più. Il dollaro è rimasto
ancora attualmente centro del sistema monetario internazionale, ma per i motivi
sbagliati, con l’effetto paradossale che sono i poveri del mondo (cinesi:1000
dollari pro capite) a finanziare i ricchi (americani: 38000 dollari pro capite).
La situazione è insostenibile. Il cambiamento è necessario, ma come ogni
grande cambiamento, sarà una rivoluzione. E purtroppo le rivoluzioni, anche
quando riescono, sono parti dolorosi.

La Repubblica - Affari &
Finanza per Wall Street
Italia
Fonte Wall
Street Italia.com
Buffet:
parla
l'oracolo. E mette in guardia
Il
guru di Omaha e' ottimista sull'economia americana nel lungo periodo. Ma
ribadisce le sue forti preoccupazioni soprattutto sulla bolla immobiliare,
ma anche su terrorismo, dollaro e gli effetti destabilizzanti degli hedge
fund.
03 Maggio 2005 - 19:36 New York
La temperatura era sotto zero sabato
mattina a Omaha, dove ha sede il quartier generale di Berkshire Hathaway,
la societa’ di Warren Buffett.
Ma l'atmosfera era
ben calda all'interno del Qwest Center Arena, dove circa 20.000 azionisti
si sono radunati da tutto il mondo per ascoltare Buffett ed il suo vice, Charles Munger,
rispondere per circa sei ore alle domande degli intervenuti.
Neppure uno degli
azionisti ha chiesto se per qualche ragione Berkshire potesse essere
trascinata nello scandalo sulle presunte manipolazioni degli utili
effettuate da American International Group. Perfino i money managers
presenti tra il pubblico, le cui domande hanno toccato il soggetto, si
sono tenuti sostanzialemtne vaghi.
Buffett ha annunciato
all'inizio dell’assemblea che, a seguito della richiesta da parte delle
autorita’ inquirenti sul caso AIG, non avrebbe riferito quanto lui o altri
dirigenti di Berkshire hanno rivelato ai magistrati.
Gli azionisti della
societa' di Buffett sono dei veri "credenti": per loro, l'idea che il guru
di Omaha possa aver commessso (o sia stato a conoscenza di) qualche reato
e' semplicemente assurda.
Nelle sue risposte, Buffett ha espresso
chiaramente come resti preoccupato riguardo al deficit della bilancia
commerciale Usa e all'andamento del dollaro, ribadendo pero’ il suo
ottimismo sulla forza dell'economia statunitense nel lungo periodo.
Sia lui che Munger hanno poi lanciato nuovi allarmi
circa la "bolla" del settore immobiliare, l'effetto destabilizzante degli
hedge funds sui mercati finanziari e la possibilita' di un altro attacco
terroristico contro gli Stati Uniti.
Entrambi hanno dichiarato che nel
settore farmaceutico restano numerose incognite e che sia General Motors
che Ford affrontano seri problemi per quanto riguarda i costi sanitari e
pensionistici. Gli hedge fund, inoltre, potrebbero
aggravare in modo pesante un'eventuale situazione ribassista dei mercati.
Il New York Stock Exchange, a loro giudizio, quotandosi in borsa fornira’
un disservizio agli investitori.
Come sempre, Buffett,
nel rispondere alle domande degli investitori, e' ricorso ad un periodare
corposo ed elaborato, mentre Munger ha risposto con frasi secche. I due
spesso sono in disaccordo sulle questioni politiche e sociali, ma per
tutta la durata del meeting sono apparsi come gemelli.

Fonte Wall
Street Italia.com
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Wall Street: mercati euforici,
l'inflazione fa meno paura
18 Maggio 2005 - 22:15 New
York (Ansa)
Dopo la buona performance di
martedi’, gli indici azionari americani hanno accelerato sulla via dei
rialzi spinti dalle notizie positive giunte dal fronte economico e dal
settore energetico. Il Dow Jones ha guadagnato l'1.28% a 10.464,
l’S&P500 l'1% a 1185, il Nasdaq e’ avanzato dell'1.32% a 2030.
L’ultimo rapporto sui prezzi al consumo ha sgonfiato i timori su una
ripresa dell’inflazione, negli ultimi mesi "sorvegliato speciale" degli
operatori. Le paure di aumenti pronunciati dei prezzi, infatti, hanno
contribuito non poco a tenere sotto pressioni gli indici soprattutto per
le possibili mosse della Federal Reserve relative a nuove strette
creditizie.
L'indice dei prezzi al consumo nel mese di aprile ha registrato una
crescita dello 0.5%, rivelandosi leggermente superiore alle attese degli
analisti (+0.4%). Tuttavia il dato ''core'' (depurato dalle componenti
piu' volatili, quali alimentari ed energia) e' rimasto invariato. Gli
analisti si attendevano un aumento dello 0.2%. Nel mese di marzo
l’indicatore era avanzato dello 0.4%.
L’indicatore lascia cosi’ presagire ad una politica della Fed di tipo
moderato. La banca Centrale usa potra’ quindi agire sul rialzo dei tassi
d'interesse in maniera graduale.
Buone notizie sono giunte anche dal settore energetico: oggi va
segnalato il nuovo, pesante calo del petrolio, sotto pressione in
seguito alla comunicazione dei dati sulle scorte.
L'EIA (Energy Information Administration) ha riportato che nella
settimana conclusasi il 13 maggio le scorte di greggio sono salite di
4.34 milioni di barili (contro le attese di un incremento di 1 milione
di unita'). In aumento anche le scorte di benzina, mentre quelle di
distillati sono risultate inferiori alle attese degli analisti.
Il rapporto ha innescato un'ondata di vendite. Il future sul greggio con
scadenza giugno e' sceso ben al di sotto dei $48 al barile, chiudendo in
ribasso di $1.72 a quota $47.25.
Passando alla cronaca societaria,
particolarmente brillante il settore tecnologico, trainato dalla buona
prova di Hewlett-Packard e da una nota di Merril Lynch. La banca
d’affari ha espresso commenti positivi sul comparto, rivedendo il
giudizio da Underweight a Market Weight. Alla base della decisione, le
attese di un aumento della spesa per i prodotti IT (“Information-Technology”)
e di un’accelerazione della crescita degli utili.
Per quando riguarda Hewlett-Packard, il titolo del colosso informatico
e’ avanzato di oltre il 4%. A determinare il buon rialzo sono stati i
risultati trimestrali, migliori delle stime, e le dichiarazioni del
nuovo CEO, Mark Hurd (subentrato a Carly Fiorina), su un piano di
ristrutturazione delle operazioni del gruppo.
Tra gli altri titoli del Dow Jones che hanno registrato significativi
rialzi vanno citati Alcoa, Du Pont, General Motors e IBM. In rosso,
invece, Merck, Johnson&Johnson ed Exxon Mobil. Sotto pressione anche il
numero uno al mondo delle infrastrutture per semiconduttori, Applied
Materials: l'azienda ha riportato un calo del 18% degli utili
trimestrali e ha offerto un’outlook inferiore alle previsioni.
Sugli altri mercati, l'euro e' in rialzo nei confronti del dollaro. Nel
tardo pomeriggio di martedi’ a New York il cambio tra le due valute e’
$1.2676. In rialzo anche l’oro. Il future con scadenza giugno e’
avanzato di $1.90 centesimi a $421.90 all’oncia. In netto progresso i
titoli di Stato. Il rendimento sul Treasury a 10 anni e’ sceso al 4.08%
dal 4.12% di martedi’.

Fonte Wall
Street Italia.com
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L'america
pronta a partire
25 Maggio
2005
Il mercato americano
ha aspettato con ansia ieri la pubblicazione dei verbali della Federal
Reserve che si è riunita lo scorso 3 maggio per pronunciarsi in materia di
politica monetaria.
Le cosiddette “minute” della Fed sono
degli interessanti spunti per gli economisti per avere qualche indicazione
più precisa sullo stato di salute dell’economia statunitense.
Ebbene, il quadro tracciato dalla banca
centrale americana ha tratteggiato una situazione, che registra una
frenata “transitoria” per lo più dovuta agli elevati prezzi del petrolio.
Ma si tratta solo di una nuvola passeggera, assicurano dal Fomc (il
Federal Open Market Committee, vale a dire il comitato monetario della
Fed), che mostra comunque la sua intenzione di proseguire con graduali
rialzi dei tassi d’interesse, non ancora su “livelli adeguati” e visto che
non vi sono preoccupazioni di
rilievo sull’inflazione.
E in effetti, “gli
indicatori dell'inflazione 'core' segnalano un andamento che probabilmente
rimarrà sotto controllo”, osserva la Federal Reserve ,
aggiungendo che anche il
''ristagno del mercato del lavoro e il calo del greggio possono mantenere
contenuta la dinamica dei prezzi”.
Insomma, negli States
è in atto una “crescita stabile e prezzi ugualmente stabili”, confermati
dai dati macroeconomici diffusi successivamente: è per questo che la Fed ha deciso di continuare sulla
strada rialzista ''a un ritmo moderato”, aumentando, proprio in occasione
della riunione di maggio, il costo del danaro di un quarto di punto al
3%.
In occasione
dell'ultimo Fomc, inoltre, alcuni componenti hanno riservato critiche
all'espressione ''ritmo misurato”, ritenendo che possa limitare
eccessivamente la flessibilità dell'operato del direttivo, ma la
maggioranza ha constatato, come emerge dalle minute, che l'espressione in
effetti non preclude la possibilità per la Fed di rialzare i tassi, così come
di effettuare una eventuale pausa.
Se da un lato si conferma l'ottimismo sulle
prospettive economiche del medio periodo, dall'altro c'e' un riferimento
diretto al mercato edilizio, che viene definito con tanto di virgolette,
'hot', cioè bollente.
In particolare, quello che sembra sempre
suscitare più di un semplice allarme e' quell'insieme di ''segnali di
possibili eccessi speculativi” nel real estate di alcune aree del
Paese.

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Cina:
siamo
sicuri che sia un'ascesa pacifica ?
Credere
nell’inevitabilità di un conflitto può trasformarsi in una delle sue cause. Sarà
così anche per Usa-Europa-Cina? Nelle ultime settimane, Pechino ha annunciato un
aumento del 12,6% delle sue spese militari di difesa. Per
cui...
01 Maggio 2005 -
04:05 New York (di Joseph S.
Nye*)
*Joseph S. Nye, ex
segretario aggiunto alla Difesa degli Stati Uniti è professore nell’università
di Harvard e autore di Soft Power. Un nuovo futuro per l'America (Einaudi,
2005).
Nelle ultima settimane, la Cina ha annunciato un aumento del 12,6%
delle sue spese militari di difesa; il direttore della CIA, Porter Gross,
ha riportato il peggioramento dell’equilibrio militare nello stretto di Taiwan e
il presidente Bush ha chiesto agli europei di non togliere il loro embargo sulla
vendita di armi in Cina. Tuttavia, i leader cinesi parlano di “crescita
pacifica” della Cina o, più di recente, di “sviluppo pacifico”.
Analisti come John Mearsheimer dell'Università
di Chicago hanno dichiarato categoricamente che la Cina non potrà crescere
pacificamente e predicono che “gli Stati Uniti e la Cina hanno alte probabilità di
confrontarsi in una intensa competizione riguardo alla sicurezza con un
considerevole potenziale bellico".
Gli ottimisti sottolineano che la Cina si è impeganta ad avviare politiche
di buon vicinato sin dagli anni ' 90,
ha risolto numerose dispute per i propri confini,
ha assutno un ruolo rilevante nelle istituzioni internazionali e ha riconosciuto
i vantaggi di utilizzare il soft power. Ma gli scettici replicano che
la Cina sta meramente
aspettando che sua economia getti le basi per un’egemonia futura.
Chi ha ragione? Non lo sapremo per molto
tempo, ma i partecipanti al dibattito dovrebbero ricordare il monito di
Tucidide fece più di duemila anni fa dicendo che credere nell’inevitabilità di
un conflitto può trasformarsi in una delle sue principali cause.
Entrambe le parti, credendo che la conclusione
sarà una guerra con l’altro, organizza dei preparativi militari ragionevoli che
l’avversario interpreta come una conferma dei suoi peggiori timori.
Di fatto, l’"ascesa della Cina” è una
definizione non appropriata. “Ri-nascita” sarebbe più esatto, vista la sua
grandezza e la sua storia, il Regno Centrale è stato per molto tempo la potenza
principale nell’est asiatico. Industrialmente ed economicamente,
la Cina è stato il leader
mondiale (sebbene senza respiro globale) dal 500 al 1500. Solo nell’ultimo
millennio è stata surclassata da Europa e Stati Uniti.
L'Asia Development Bank (Banca dello sviluppo
asiatico) ha stimanto che nel 1820, all’inizio dell’era industriale, l’Asia
rappresentava i tre quinti della produzione mondiale. Verso il 1940, questa si è
ridotta a un quinto, nonostante il fatto che l’Asia rappresentasse i tre
quinti della popolazione mondiale. La rapida crescita economica ha portato la
produzione di nuovo ai due quinti del totale mondiale e la banca ipotizza che
l’Asia potrà ritornare ai suo livelli storici entro il 2025.
L’Asia, naturalmente, include il Giappone,
l’India, la Corea e altri
stati, ma la Cina svolgerà
il ruolo molto più importante. I suoi alti tassi di crescita annuali dell' 8-9 %
hanno portato a una triplicazione del suo PIL nelle ultime due decadi del XX
secolo.
Tuttavia, la Cina ha un lungo cammino davanti a sé e
dovrà affrontare molti ostacoli. L’economia degli Stati Uniti è, per
grandezza, approssimativamente il doppio di quella della Cina. Se l'economia
americana cresce solo di un 2% all’anno e quella cinese di circa il 6%
potrebbero arrivare alla parità in qualsiasi momento a partire dal 2025, anche
se non sarebbero uguali per composizione e sofisticazione.
La Cina avrà ancora un enorme settore
rurale sottosviluppato e non uguaglierà le entrate pro capite degli Stati Uniti
almeno fino al 2075 (dipende dai parametri di comparazione). La
Cina è ben lontana dallo sfidare direttamente la superpotenza
americana come fece la
Germania del Kaiser significò quando sorpassò l’Inghilterra nei
due anni anteriori alla Prima Guerra Mondale.
Inoltre, le semplici
proiezioni di crescita economica possono essere ingannevoli. I paesi tendono a
beneficiare delle tecnologie importate nelle prime tappe del loro dispiego
economico e i tassi di crescita generalmente rallentano quando le economie
raggiungono livelli più alti di sviluppo. In aggiunta, l’economia cinese soffre
di imprese statali inefficienti, di un sistema finanziario instabile e di
infrastrutture inadeguate.
Nello stesso tempo, i
politici si ingegnano per confondere le proiezioni economiche. La creazione
dello stato di diritto e delle istituzioni per la partecipazione politica è
regredita rispetto alla crescita economica; e la crescente disuguaglianza, la
migrazione interna massiccia, una rete di sicurezza sociale inadeguata e la
corruzione possono fomentare l’instabilità politica. In effetti, alcuni
osservatori temono una instabilità provocata da una Cina debole e non una Cina
"in ascesa".
Mentre l’economia della Cina cresce, è
probabile che il suo potere militare aumenti, e questo farà sì che
la Cina appaia più
pericolosa agli stati confinati e che complicherà le relazioni degli Stati Uniti
in Asia.
Uno studio della RAND prevede che per il 2015
la spese militare cinesi saranno sei volte quelle del Giappone e il suo capitale
militare accumulato sarà approssimativamente cinque volte più alto (a parità di
potere d’acquisto).
Qualunque sia la precisione
di tali valutazioni sulla crescita militare cinese, il risultato dipenderà anche
da quello che faranno gli Stati Uniti e gli altri paesi. La chiave del potere
militare nell’era dell’informazione dipende della capacità di accumulare,
processare, disseminare e far interagire sistemi complessi di vigilanza nello
spazio, computer ad alta velocità e armi “intelligenti”. La Cina e gli altri paesi svilupperanno
alcune di queste capacità ma, secondo molti analisti militari, è improbabile che
la Cina chiuda subito la
breccia con gli Stati Uniti.
L’incapacità della Cina di competere con gli
Usa a livello globale non significa che non potrà sfidare gli USA nell’est
asiatico o che la guerra per Taiwan sia inverosimile. I paesi deboli a volte
attaccano quando si sentono messi all'angolo come fece il Giappone a Pearl
Harbor o la Cina quando
entrò in guerra con la
Corea nel 1950.
Se, per esempio, Taiwan
dichiarasse la sue indipendenza, la
Cina probabilmente interverrebbe con le forze armate senza
considerare il costo economico o militare percepito. Ma sarebbe poco probabile
che vincesse e una politica prudente da parte di entrambi potrebbe rendere
questa guerra improbabile.
Gli Usa e la Cina non hanno bisogno di entrare in
guerra. Non tutte la potenze emergenti intraprendono una guerra - e un esempio è
stato il sorpasso americano dell'Inghilterra alla fine del XIX secolo. Se
l’ascesa della Cina si mantiene pacifica, promette grandi benefici al suo stesso
popolo, ai suoi vicini e anche agli americani.
Ma, ricordando il consiglio
di Tucidide, sarà importante non confondere le teorie degli analisti con la
realtà e continuare a segnalarlo ai leader e ai popoli.

Fonte:
http://www.project-syndicate.org/commentaries/commentary_text.php4?id=1898&lang=1&m=series
Traduzione a cura di Nuovi Mondi Media
Cina,
i
capitalisti si inchinano a Hu Jintao
A
Pechino, nel tempio del comunismo, va in scena una mega "convention" di
Fortune. L´erede di Mao parla a una platea di 800 banchieri e industriali
occidentali: "Stiamo diventando il nuovo motore della crescita
mondiale".
17 Maggio 2005
- 11:52 Pechino (di Federico
Rampini)
Nel 1793 Lord George Macartney,
ambasciatore di re Giorgio III in Cina, rifiutò di sottoporsi alla
cerimonia del kow-tow, il ripetuto inchino di sottomissione
all´imperatore; ci pensarono poi le cannoniere britanniche a ottenere
l´apertura dei mercati cinesi. I rapporti di forza sono cambiati e ieri
800 amministratori delegati e top manager, ambasciatori del capitalismo
occidentale, sono accorsi a Pechino a omaggiare il presidente cinese Hu
Jintao che ha le chiavi del mercato più promettente del mondo.
L´occasione è il Global Forum 2005
organizzato dal magazine economico americano Fortune, con il titolo «China
and the New Asian century» ( la
Cina e il nuovo secolo asiatico). Hu Jintao ha accolto i
vip nel tempio del potere cinese: nel salone d´onore dell´Assemblea del
Popolo, in piazza Tienanmen. Quando è salito sul podio il presidente
della Repubblica popolare, gli 800 industriali e banchieri sono scattati
in piedi per un´ovazione: l´entusiasmo era quello che Mao Zedong
raccoglieva sulla stessa piazza fra le Guardie rosse della rivoluzione
comunista.
In sala era rappresentata una bella
percentuale del fatturato di tutto il pianeta: i presidenti di gruppi
industriali dalla General Motors alla Bmw alla Sony, i giganti della
distribuzione Wal-Mart e eBay, i chief executive delle banche americane
Citigroup, Morgan Stanley e Goldman Sachs.
In tutto, 77 fra le 500 più grandi
multinazionali del mondo hanno inviato i loro vertici. Hu Jintao non li ha delusi.
« La Cina e l´Asia
stanno diventando il nuovo motore della crescita mondiale - ha detto il
capo dello Stato e del partito comunista - . Entro 15 anni il nostro Pil
sarà quadruplicato e raggiungeremo un reddito pro capite di 3.000 dollari
(il triplo dell´attuale, ndr). Già oggi siamo un mercato da 560 miliardi
di dollari all´anno, e abbiamo attirato in Cina 500.000 imprese
straniere».
Sono cifre che i
capitalisti riuniti all´Assemblea del Popolo conoscevano a memoria prima
di arrivare a Pechino. In volo sui loro jet privati avranno studiato
l´ultimo rapporto del Credit Suisse First Boston secondo cui i consumi dei cinesi cresceranno del
18% all´anno per dieci anni di fila, contro una crescita del 2% annuo dei
consumi americani. Naturalmente gli americani partono da un livello
molto più alto, rispetto al potere d´acquisto del cinese medio. Tenuto
conto della dimensione della popolazione, tuttavia, gli economisti del Credit Suisse First
Boston si spingono fino ad affermare che entro il decennio «i consumatori
cinesi avranno sostituito quelli americani, come principale traino della
domanda economica globale», diventando un mercato da 3.700 miliardi di
dollari, per di più molto aperto ai prodotti stranieri.
Il Forum di Fortune è una conferma
dell´attrazione fatale che spinge le multinazionali verso la Cina. L ´anno scorso questo
paese è stato la principale meta degli investimenti mondiali, con un
afflusso di capitali di 153 miliardi di dollari (di cui 61 miliardi
in investimenti esteri diretti, in particolare creazioni di nuove
fabbriche). Oggi la
Cina ha addirittura bisogno di moderare questa invasione
di capitali stranieri. Oltre agli investimenti produttivi infatti si è
creata una corrente di «denaro caldo» speculativo, alimentata dalle attese
di una rivalutazione della moneta cinese, il renminbi. Ieri il governo ha smentito che sia
imminente una modifica del cambio. Il premier Wen Jiabao, riferendosi alle
pressioni esercitate dagli americani perché la Cina rivaluti (rendendo così un po´ meno competitive
le sue esportazioni) ha ribattuto che «la riforma della politica del
cambio è una questione che rientra nella nostra sovranità. Politicizzarla,
aumentare le pressioni attraverso i mass media, non aiuterà a risolvere i
problemi».
I problemi sono anzitutto il gigantesco
deficit estero degli Stati Uniti, ormai oltre 600 miliardi di dollari.
Cedendo alle pressioni protezionistiche, George Bush venerdì scorso ha
deciso di reintrodurre delle limitazioni quantitative (quote) su alcuni
prodotti di abbigliamento «made in China»: camicie, pantaloni e
maglieria. È una battuta d´arresto rispetto all´apertura delle
frontiere che era scattata in tutto il mondo il primo gennaio scorso, in
applicazione di accordi firmati dieci anni fa. I cinesi hanno reagito
accusando Washington di «mettere in pericolo tutto il sistema degli scambi
multilaterali». Il ministro del
Commercio estero Chong Quan ha detto che la misura protezionistica decisa
da Bush «tradisce lo spirito e la sostanza degli accordi firmati nel Wto,
e intacca la fiducia dei cinesi nelle regole internazionali».
Ha aggiunto che la Cina si riserva di prendere delle
contromisure. Da che parte stiano, in questa contesa, gli 800
ambasciatori del capitalismo mondiale riuniti a Pechino, non è difficile
indovinarlo. Il 60% delle
esportazioni «made in China» in realtà sono fabbricate qui da
multinazionali americane, giapponesi, tedesche, francesi, inglesi, e
perfino da aziende italiane. La guerra mercantile contro la Cina finirà per colpire anche
loro.

Fonte La Repubblica
|
In
Italia scoppia la moda
dei
titoli cinesi
Da Intesa a Pioneer e
SanPaolo, cresce la raccolta dei fondi che investono sull’economia di Pechino.
Non solo azioni, ma anche i bond. Non è (non ancora) un’invasione come quella di
pantaloni e magliette, ma cresce a vista d'occhio.
08 Maggio 2005 - 16:42 Milano (di Federico Fubini)
Quando a gennaio la Banca popolare di Milano ha tenuto il
suo Forum annuale sul risparmio, la star dell’evento aveva un nome
impronunciabile per molti presenti. Ma Xd Chen, capoeconomista (cinese) di Bnp
Paribas per l’Asia, l’hanno ascoltato tutti: spinta dal boom industriale
e commerciale, celebre per le proteste a lei rivolte dai politici occidentali e
per il successo nei media, la
Cina sta diventando l’ultimo beniamino dei risparmiatori
italiani.
Non è, non ancora,
un’invasione come quella di pantaloni e magliette. Sono primi passi, in genere
mossi da buoni padri di famiglia relativamente cauti e agiati. Ma nell’Italia
stordita dai postumi della bolla hi-tech, scossa da Parmalat, Cirio o Argentina,
l’Impero di mezzo dà segni di poter diventare una moda. In piena inversione di
tendenza.
Nei primi tre trimestri del
2004 in Italia i
fondi hanno segnato una raccolta complessivamente negativa per 6
miliardi. Oggi rappresentano l’11% del portafoglio dei risparmiatori: nel
2000 erano il 16%. Eppure l’amore per Pechino e dintorni è un’altra storia:
«Obiettivo Cina», il fondo lussemburghese di San Paolo asset management, vale 80
milioni ma è cresciuto fra il 5 e il 10% solo negli ultimi mesi.
Intesa Private Banking, per venire incontro
alle tante richieste, ha di recente costituito un’emissione obbligazionaria
strutturata (capitale e cedola minima garantiti a 5 anni) legata alle vicende
delle Borse cinesi, a quella indiana e allo Standard & Poor’s 500: in due
settimane i risparmiatori hanno assorbito tutti i 50 milioni. Per non
parlare dei fondi gestiti con Merrill Lynch, Jp Morgan o Fidelity. In realtà,
già nell’annus horribilis 2003 Pioneer Greater China Equity, un fondo azionario,
aveva centrato in Italia una raccolta positiva netta di 50 milioni (intanto
«Giappone» e «Pacifico» erano negativi di oltre 30). Con successo ripetuto poi
nel 2004 e 2005.
I numeri sono per ora
relativamente trascurabili, la tendenza però no: Intesa, Pioneer e San Paolo da
soli rappresentano più di metà del risparmio gestito in Italia. E la stessa
Bipiemme Gestioni investe nell’azionario della «Grande Cina» per 20 milioni di
euro, distribuendo anche fra i piccoli.
«L’economia cinese vive un
boom che desta l’attenzione dei risparmiatori», nota il direttore commerciale di
Bipiemme Gestioni Maurizio Riboni. Più cauto, Antonello Di Mascio, responsabile del marketing di Intesa
private banking, parla anche di una «bolla di aspettative» legata all’«effetto
mediatico» della Cina. «L’opportunità è reale - avverte -, ma si rischia di
confondere la crescita dell’economia con i risultati di Borsa». E Sandro Pierri, di Pioneer Investments,
invita alla cautela, con investimenti dall’orizzonte di almeno cinque anni,
limitati ed evitando di puntare su singoli titoli.
C’è un’ironia nell’infatuazione strisciante
degli italiani. Piazza Affari nel 2004
ha messo a segno una fra le migliori prestazioni delle
economie avanzate, Shanghai e Shenzhen fra le peggiori di quelle
emergenti. Dal giugno 2001,
vittime di torbide privatizzazioni, i due listini sono caduti del 50%.
Appesantiti per di più dalla forte svalutazione dello yuan sull’euro, senza
peraltro vera libertà di circolazione dei capitali.
Di qui la scelta dei
gestori italiani di puntare sulle imprese della Repubblica popolare quotate a
Hong Kong. Perché il boom c’è: purché la voglia di novità, quando Pechino dovrà
liberalizzare le partite finanziarie e rivalutare, non scotti nuove dita
imprudenti da questa parte dell’Eurasia.

Fonte
Corriere della Sera
Ansa 5 Maggio 2005 - h. 21,05 New York
Il giovedì nero dell'auto americana vede
la caduta dei due giganti di Detroit, GeneralMotors e Ford Motor,
che subiscono l'onta del declassamento deldebito al di sotto
dell'investment grade, a livello di 'junk',spazzatura. Standard &
Poor's non esita e, appena due giorni dopo la diffusione dei dati delle
vendite di aprile negli Usa, decide di intervenire ulteriormente sui
rating, dichiarando a questo punto
l'inaffidabilità creditizia delle due società.
Alla fine dello
scorso mese, infatti, General Motors e Ford hanno segnato nuovi cali dei
rispettivi posizionamenti sul mercato, con cali del 3,9% e dell'1,5%, a
causa della concorrenza esercitata dalla tedesco-americana DaimlerCrysler
e della nipponica Toyota.
Naturale il panico tra gli investitori
dopo il provvedimento dell'agenzia di valutazione, diffusa a mercati
aperti, così i due titoli si appesantiscono, con General Motors che
cede il 5,2% (+16% alla vigilia con l'effetto Kerkorian) e Ford il 6,5%.
"Il downgrade - scrive Scott Sprinzen, analista di S&P's,quanto a
primo produttore di auto al mondo - riflette le conclusioni sull'incapacità delle strategie del
management di ridurre gli svantaggi competitivi". La società non
dovrebbeavere difficoltà di liquidità sul termine, ma l'iniziativa diKirk
Kerkorian, che ieri ha annunciato di voler salire al 9% di Detroit, è "un
elemento d'incertezza", anche se non l'unico.
La scure di S&P's, che si è
abbattuta su una montagna di debiti pari a 291,8 miliardi dollari
(il cui giudizio passa da'BBB-/A-3' a 'BB/B-1', con outlook negativo),
sconta anche altro tipo di valutazioni. Il braccio finanziario,
la Gmac , pur
altamente redditizia ha beneficiato finora di tassi d'interesse bassi, ma
dopo la stretta monetaria della Fed, inizieranno ad avvertirsi
maggiormente le pressioni sui margini. Inoltre, dopo il profit warning di
marzo, Gm ha diffuso una trimestrale in perdita per 1,1 miliardi di
dollari, senza fare alcuna previsione sul 2005,lasciando ipotizzare una
pesantissima situazione.
"La profittabilità
del gruppo si manterrà ancora bassa per tutto l'anno - rileva ancora
Sprinzen - e le prospettive di un ritorno alla reddività stanno diventando
sempre più incerte". "General Motors è delusa dal taglio di rating", è il
commento asciutto della società, che si limita a ricordare di"avere cash e
liquidità adeguati", sufficienti per il pagamento anche degli oltre 500
milioni alla Fiat per lo scioglimento della partnership. Intanto proprio
oggi si è diffusa la notizia che il numero uno Richard Wagoner, e quello
della Toyota, Fujio Cho, si incontreranno il prossimo 14 maggio in
Giappone.
"Gm è in una fase critica e forse c'é
qualcuno nel governo giapponese che potrebbe fare qualcosa per farla
uscire dalla crisi", commenta a Milano il presidente di Toyota, Hiroshi
Okuda. Il merito di debito della Ford e di tutte le società
collegate, pari a 161,3 miliardi, passa a BB+/B-1 da BBB-/A-3,con
l'outlook negativo. S&P's, in particolare, è scettica sull'azione del
management del gruppo di vincere le sfide competitive in atto, dopo aver
subito tra l'altro il sorpasso nelle vendite in Nord America da parte
della Toyota.
"I dubbi -spiega in
caso caso Sprinzen - sono tutti sulla capacità del settore dei veicoli
sportivi (Suv) di generare la stessa redditività ottenuta nel passato". La
capacità di generare cassa - ed è la parte più dolente - "é mediocre,
capace nel settore automotive di attestarsi nel 2004 ad appena
1miliardo".
Fonte Ansa |
Ansa 5 Maggio 2005 - h. 22,15 New York
Dopo quattro sedute consecutive di
rialzi, gli indici azionari americani hanno terminato la giornata in
territorio negativo. A determinare l’inversione di marcia e’ stata
la bocciatura a "junk"
(spazzatura) del rating sul debito delle case automobilistiche General
Motors e Ford da parte di Standard&Poor’s. Il Dow Jones ha ceduto lo
0.43% a 10340, l’S&P500 lo 0.26% a 1172, il Nasdaq ha chiuso invariato
a 1961.
Nella nota diffusa oggi, l'agenzia di
rating S&P ha giustificato la decisione sostenendo che le strategie
operative attuate dai gruppi automobilistici potrebbero risultare
inefficienti ai fini della risoluzione dei grossi problemi competitivi che
li affliggono. Relativamente a General Motors, il downgrade e’
arrivato all’indomani dell’ottima performance del titolo (+18%) scaturita
dalla proposta del miliardario Kirk Kerkorian di raddoppiare la quota di
partecipazione nel gruppo. Nella seduta odierna, il titolo ha chiuso con
una perdita di oltre il 5%.
GM si trova quindi in
una fase molto difficile, caratterizzata da mesi di vendite deboli, dalla
riduzione della quota di mercato, dal pesante calo del titolo (ai minimi
di 12 anni) e dall’impennata dei rendimenti sui relativi bond ai massimi
degli ultimi due anni. La decisione di Standard&Poor’s complica la
situazione finanziaria del gruppo, che sara’ soggetto ad un aumento dei
costi gestionali e a cospicue spese per l’ottenimento di prestiti.
Notizie contrastate
sono giunte dal fronte economico. Nel primo trimestre 2005 la produttivita' delle aziende
americane e' salita del 2.6% contro l'aumento dell'1.8% atteso dagli
economisti. Peggiori delle stime i dati sulle nuove richieste di sussidi di
disoccupazione: nella settimana conclusasi il 30 aprile, il
dato ha registrato un incremento di 11 mila unita' a 333 mila. Il
consensus di mercato era per un aumento piu’ contenuto, a quota 324 mila.
Cresce ora l’attesa
per la comunicazione del rapporto sull’occupazione, in calendario
venerdi’. Per il mese di aprile, le stime degli economisti sono per un
aumento degli occupati di 170 mila unita', contro le 110 mila registrate
nel mese precedente. Relativamente all’andamento dei singoli titoli, oltre
al gia’ citato calo di General Motors, segnalino, tra le altre blue chip,
la performance negativa di IBM: il colosso informatico ha annunciato un
piano di ristrutturazione che prevede spese per $1.7 milardi e la
riduzione di 13.000 posti di lavoro, prevalentemente in Europa.
Male anche la
farmaceutica Merck che ha ceduto quasi l’1% in seguito all’avvicendamento
del CEO. Negativo poi l’andamento di General Electric. La conglomerata
industriale ha concordato la vendita della divisione “self storage” alla
joint venture costituita da Extra Space Storage e Prudential Real Estate
Investors. L’ affare dovrebbe aggirarsi intorno ai $2.3 milardi da pagarsi
in cash. Si sono distinti in positivo, invece, Exxon Mobil, Intel e
Caterpillar..
Per quanto riguarda
gli utili societari, oramai alla fine della stagione, MCI ha riportato una
lieve perdita nel primo trimestre 2005. Il titolo ha comunque chiuso la
seduta in territorio positivo. Ricordiamo che in settimana il board del
gruppo telecom ha di nuovo accettato la proposta di acquisizione di
Verizon per $8.5 miliardi preferendola a quella di Qwest.
Fonte
Ansa
|
Kirk Kerkorian:
chi è costui ?
Il
profilo del miliardario di origine armena che punta deciso verso il colosso
automobilistico General Motors.
04 Maggio 2005 - 20:54
New York (Ansa)
Il miliardario di origine armena Kirk
Kerkorian ci riprova a dispetto dei suoi 87 anni e punta deciso verso
la General Motors
con il suo braccio finanziario Tracinda, mettendo sul piatto 868 milioni di
dollari. Dopo l' avventura nella Chrysler, l' ex pugile e pilota della
Royal Air Force nella II Guerra Mondiale annuncia un' offerta per rilevare 28
milioni di azioni, al prezzo unitario di 31dollari, pari al 5% circa del
capitale e quasi lo stesso quantitativo di titoli consegnati da GM nel 2000 alla
Fiat,nell' ambito della partnership strategica sciolta quest' anno.
Tracinda detiene già il 3,89% (pari a 22
milioni di azioni)della casa di Detroit e, ad' operazione conclusa, salirà a
quota 8,84%, collocandosi tra gli azionisti più rilevanti della società.
In una nota, la holding che ha sede a Los Angeles informa di avere rotto gli
indugi, dopo i rumor di mercato su un possibile interesse per azioni GM, con l'
obiettivo di "fare chiarezza sui propri propositi", orientati solo "al semplice
scopo di investimento". Il prezzo
corrisposto rappresenta un consistente premio rispetto ai 27,77 dollari segnati
ieri da General Motors in Borsa e, non a caso, alla riapertura delle
contrattazioni le azioni hanno imboccato la via del rialzo, raggiungendo
e poi superando ampiamente i 31 dollari fino a un massimo di 32,96 dollari, per
poi stabilizzarsi a quota 32 dollari (+16%), tra volumi pari a 40 milioni di
pezzi, quasi cinque volte quelli della vigilia.
Un' ondata speculativa
certo, ma il mercato si chiede quali siano le reali intenzioni del finanziere
del Nevada sulla General Motors, che da parte sua oppone un secco no comment
sull' iniziativa. Il ricordo del 'caso' Chrysler è infatti ancora vivo: con un
primo investimento nel 1990, Kerkorian fa il suo ingresso nella società e
progressivamente sale fino a diventare il socio di riferimento con una quota del
14%.
Mentre è quasi pronto il
lancio dell' offerta d' acquisto per il controllo della compagnia, si fa avanti
la Daimler che nel 1998
riesce a celebrare le nozze, impugnate dal miliardario due anni dopo nel
2000. L ' uomo d'
affari denuncia una presunta condotta fraudolenta della società tedesca, ma
appena l' 8 aprile scorso, una corte distrettuale del Delaware respinge tutte le
sue richieste. Intenzionato a non mollare e a tentare un nuovo grado di
giudizio, Kerkorian chiede un risarcimento fino a tre miliardi di dollari per le
perdite subite nella fusione DaimlerChrysler:l'aggregazione, la principale
accusa, era stata presentata come un' operazione 'alla pari' al solo scopo di
evitare il riconoscimento di un premio agli azionisti della compagnia
automobilistica statunitense.
C'é già chi scommette che
il miliardario, che secondo le ultime classifiche di Forbes ha un patrimonio di
8,9 miliardi di dollari, farà sentire tutto il suo peso già in occasione dell'
assemblea dei soci di GM, in calendario ai primi di giugno nel Delaware,
paradiso fiscale dove hanno sede le grandi major a stelle e strisce.
Per Kerkorian si tratta di
una nuova giovinezza nella lunga esperienza finanziaria che parte dagli inizi
degli anni '60, per legarsi a doppio filo alle attivita' immobiliari e
alberghiere a Las Vegas e intrecciarsi ancora agli studios della MGM ceduti
insieme alla United Artists nel 1986
a Ted Turner e riacquistati dopo meno di 80 giorni perché
il fondatore della Cnn non riesce a far fronte ai pesanti debiti.
La MGM finisce negli anni
'90 al finanziere umbro Giancarlo Parretti e, come legata ad un elastico, torna
indietro, a causa della bancarotta dello stesso Parretti, per essere riceduta
nel1996.
E per finire, un divorzio
miliardario nel 2002, con assegni record pagati a moglie, figli e anche al
coniglio di casa che da solo consuma alimenti per 436 dollari al mese.

Fonte
Ansa
Mercati:
in
giro c'è troppo pessimismo
Con
i listini azionari che nelle ultime settimane hanno continuato a perdere
terreno, il sentiment negativo degli investitori e’ andato via via
peggiorando. Ma stando ad alcuni contrarian indicators, e’ il momento
migliore per fare acquisti in borsa.
02 Maggio 2005 - 00:16
New York (di Mark
Hulbert)
Con i listini
azionari che hanno continuato a perdere terreno nelle ultime settimane, il
sentiment degli investitori e’ andato via via peggiorando. Ma per i
contrarian investors, coloro che si muovono nella direzione opposta
rispetto alla maggioranza, e’ il momento migliore per fare
acquisti.
Gli ultimi dati sui
contrarian indicators piu’ seguiti a Wall Street mostrano un quadro
incoraggiante. Lo Hulbert Stock Newsletter Sentiment (HSNSI),
un indice che raccoglie numerose newsletter selezionate dall’Hulbert
Financial Digest, ha segnato di recente un valore negativo del 24.4%. Una
cifra inferiore allo zero indica che la media delle previsioni a breve sul
mercato azionario e’ short (si attende una riduzione dei corsi).
La settimana scorsa
e’ stata l’unica volta, da quando e’ iniziato il mercato orso nel marzo
2000, in
cui l’indice e’ sceso a un livello piu’ basso (-30.6%).
Per mettere le cose
in prospettiva, solo in un’altra circostanza l’indice e’ sceso sotto quota
–20% ed e’ accaduto nelle settimane precedenti il minimo fatto segnare dal
mercato azionario nel marzo 2003, quando il Dow Jones stazionava sotto gli
8.000 punti.
Da segnalare che
durante l’estate e l’autunno del 2002, quando il Dow crollo’ ai minimi del
mercato orso a 7.286, lo HSNSI non aveva mai fatto segnare valori negativi
inferiori al -15.1%. In altri termini il sentiment bearish (negativo) e’
ora decisamente di dimensioni maggiori di quanto lo fosse un anno fa.
Dal punto di vista
dei “contrarian indicators”, si tratta di un segnale incoraggiante. Il
messaggio che emerge dall’indice delle newsletter, quindi, e’ di aumentare
l’esposizione al mercato azionario.
Altri indicatori di
sentiment mostrano un quadro simile. Prendiamo ad esempio l’indagine
condotta dall’American Association of Individual Investors (AAII). Si
tratta di un’indagine in cui ai visitatori del sito dell’associazione
viene chiesto di indicare se sono bullish, bearish o se si aspettano una
correzione.
Nelle ultime
settimane coloro che hanno risposto al sondaggio si sono mostrati
decisamente piu’ bearish che bullish. Nella settimana che e’ terminata il
31 marzo, per esempio, il 51.0% degli intervistati ha dichiarato di avere
prospettive negative sul futuro dei mercati, mentre solo il 28.4% si e’
espresso in termini ottimistici.
Nonostante la
percentuale “bearish” da allora sia leggermente calata, questo 51.0%
rappresenta una delle piu’ alte percentuali mai registrate dalla AAII.
Delle 926 letture
settimanali che il gruppo ha raccolto a partire dall‘estate del 1987,
infatti, solo 20 hanno evidenziato un sentiment piu’ bearish di quello del
31 marzo. E si e’ trattato di settimane molto particolari.
Quindici di esse,
infatti, sono cadute tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991, durante la
forte correzione precedente la prima guerra del Golfo. Altre due si sono
verificate poco prima dell’inizio del bull market partito nel marzo del
2003. Una seconda accoppiata si e’ verificata rispettivamente al bottom
dell’ottobre 2002 ed in coincidenza dei minimi del luglio 2002.
Immediatamente dopo ciascuna di queste rilevazioni bearish, il mercato ha
accelerato al rialzo.
Solo una di queste 20
rilevazioni non e’ coincisa con un minimo di mercato: quella del 16 ottobre 1992 . Ma
anche in questo caso, la successiva performance del mercato si e’
caratterizata da una dinamica piuttosto rialzista.
Un’altra nota misura
di sentiment riguarda l’Advisory Sentiment index, stilato dalla Investors
Intelligence. I dati non sembrano convergere con le indicazioni
precedenti. Nell’ultima rilevazione, rilasciata mercoledi’ scorso,
l’Investors Intelligence mostra che che il 44.0% delle newsletter e’
bullish e solo il 29.7% bearish.
Siccome la
percentuale media di newsletter bearish in mercati in salita di solito e’
attorno al 35%, e’ possibile che vi sia ancora troppo ottimismo tra gli
investment advisors. Ma anche in questo caso, non mancano spunti
incoraggianti. Michael Burke, editor dell’Investors Intelligence, da’
infatti una lettura moderatamente ottimistica ai dati. Alla
fine del 2004, per esempio, la percentuale bullish era del 62.9% (molto
maggiore di quella attuale), contro quella bearish di appena il 19.6%. A
seguito di queste (e di alter) considerazioni, Burke ha dichiarato che "e’
molto probabile che la maggior parte delle vendite sia gia’ avvenuta".
|
Borse:
sempre
più scettici gli addetti ai lavori
La
forte esposizione degli hedge fund su GM e' un nuovo elemento di
preoccupazione. I rischi finanziari potrebbero mettere in gioco
la
Fed. Non c'e'
dubbio che sulle Borse la spinta rialzista di inizio anno si sia
esaurita.
12 Maggio 2005 - 16:50
Milano (di Michele Pezzinga*)
Michele Pezzinga è
strategist di CentroSim
Mercati in affanno
per colpa di Kerkorian e della sua offerta su GM? Così paradossalmente
sembrerebbe, a rileggere gli eventi degli ultimi giorni. Più che le
incertezze su economie ed utili, su cui peraltro noi continuiamo ad
insistere, pesano soprattutto i movimenti, veri o presunti, degli hedge
fund, costretti in alcuni casi ad alleggerire pesantemente le posizioni,
proprio in una fase in cui i riscatti cominciano a farsi sentire.
E all'origine dei
loro guai ci sarebbero soprattutto le vicende di General Motors, che nelle
scorse settimane avevano stimolato larghi acquisti di bond, a prezzi
ritenuti allettanti, a fronte di vendite allo scoperto di azioni,
sull'idea da un lato che l'ipotesi estrema del default fosse improbabile,
e dall'altro che comunque l'azienda avrebbe incontrato ancora forti
difficoltà operative, capaci di penalizzare ulteriormente le sue
quotazioni azionarie.
L'offerta a sorpresa
di Kerkorian, con il titolo volato del 18%, ha invece preso in contropiede
lo scoperto, che subito dopo essersi precipitosamente chiuso sulle azioni
ha dovuto affrontare la bomba del declassamento dei bond, un rovescio
stavolta disastroso soprattutto per le obbligazioni. Per alcuni
chiacchierati hedge funds il costo complessivo di questi movimenti è stato
significativo, mentre sui mercati ha pesato l'impatto del downgrading.
Gli effetti si sono
fatti sentire anche sui CDO (collaterised debt obligations, i panieri di
strumenti di credito, impacchettati e venduti a tranches, che includevano
in misura significativa GM e Ford, e il cui rating è stato anch'esso messo
in discussione da parte di S&P) e sui credit-default swaps, che
prezzano i crescenti costi legati alla protezione dai rischi di credito.
Si tratta però solo
di elementi di malessere, visto che è difficile immaginare come tutto ciò
al momento possa mettere a rischio la stabilità del sistema (ben altro
accadrebbe nel caso di un default di GM, ma non è certo un evento
all'ordine del giorno: per ora le pur depresse quotazioni dei suoi bond lo
scontano con probabilità di gran lunga inferiori al 10%).
In ogni caso,
l'effetto concreto è stato quello di provocare la solita, prevedibile
"fuga verso la qualità", cioè verso i bond a più elevato rating, e tra
questi i governativi che fanno da benchmark (con nuovi minimi di
rendimento per il Bund decennale, stamani al 3,34%, mentre quello del
Treasury è tornato al 4,22%), e qualche malumore in più sui comparti high
yield e sulle Borse in generale, dove oggi gli hedge ricoprono un ruolo
operativo essenziale.
E a giudicare dai
movimenti erratici di alcune realtà nostrane particolarmente volatili, da
Fiat a Fastweb o RCS, passando persino per alcune utilities, anche qui da
noi forse qualcuno è in balìa degli eventi... I pessimisti, prendendo
spunto dal passato, vorrebbero mettere in conto anche per questa fase di
deciso rialzo dei tassi qualche episodio, più o meno grave e/o isolato, di
crisi finanziaria; stavolta gli indizi puntano verso la vicenda GM ed suoi
effetti collaterali, ma il rischio sussiste anche altrove, visti i boom in
atto su molte materie prime, le quotazioni dell'energia o certi mercati
immobiliari.
Tuttavia, la stessa
esperienza storica mostra come l'evento venisse di solito superato con
l'intervento più espansivo delle Banche Centrali, a tutto vantaggio
dell'obbligazionario di più elevata qualità e, in seguito, anche
dell'azionario.
Quest'eventualità
rappresenta pertanto un altro elemento a favore di una conclusione
ravvicinata della stretta monetaria USA, con effetti ancor più favorevoli
per l'obbligazionario. Sulle Borse è comunque indubbio che si sia esaurita
la spinta rialzista di inizio anno: da allora a oggi Wall Street ha visto
l'S&P 500 cedere quasi il 4%, con il Russell 2000, che riflette
l'andamento delle mid cap, in caduta di quasi il 9%, poco meno del Nasdaq
Composite (-9,8%);
la
Borsa giapponese, pur con il superato Nikkei, ha perso il
3% circa, quella di Shangai il 5,4% e solo il DJ Stoxx 50 delle Borse
europee ha messo a segno un decente +2,8%, media tra il +4,7% del francese
CAC 40 ed il -0,1% del DAX di Francoforte.
In ogni caso, è ormai
consenso che le Borse stiano attraversando, al meglio, una fase di
congestione; non è però detto, come vuole lo stesso consenso, che per fine
anno se ne sia usciti con un altro discreto movimento al rialzo. I dubbi a
questo proposito stanno aumentando, anche tra i maggiori broker
internazionali.
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L’oracolo di Omaha
e la roulette russa nel mercato creditizio
Gli eventi degli ultimi giorni stanno
confermando che il multimilionario statunitense merita a pieni voti la fama di
oracolo di Omaha. Tre anni fa……
17 Maggio 2005 - 13,11
Milano (di Rocki Gialanella)
L’oracolo di Omaha, città dello stato del
Nebraska, conosciuto anche come Warren Buffett, lanciava tre anni or sono un
allarme severo sui rischi collegati all’uso improprio dei derivati nel mondo del
credito. Buffett non incriminava i derivati come strumenti finanziari,
attività legittime alla stregua di qualunque altro prodotto della finanza, ma
cercava di attrarre l’attenzione degli esperti sia sulle enormi difficoltà insite nel processo di
valutazione di tali prodotti, sia sulla conseguente impossibilità di rifletterne
il valore reale nei bilanci delle aziende. Gli ostacoli che gravavano sul
processo di valutazione dei derivati avrebbero – secondo Buffett – alterato la
trasparenza dei mercati nel medio- lungo periodo.
Io
posso firmare con voi investitori un contratto in virtù del quale mi pagherete
in funzione del numero di gemelli che nascano nello stato del Nebraska nel
2020’
,
spiegava l’oracolo qualche anno fa. La valutazione effettiva di tale contratto,
sosteneva Buffett, dipende in modo totale dal meccanismo di calcolo che
decidiamo di utilizzare. L’assenza di un accordo sui metodi da seguire per
valutare correttamente tale contratto, sosteneva ancora Warren Buffett,
determinerà una totale anarchia nel modo di riflettere i risultati dell’accordo.
Ciascun contraente si sentirà legittimato a valorizzare il risultato ottenuto in
ragione dei propri personalissimi bisogni.
Il
commento fatto da Buffett tre anni or sono non fa una grinza. Questi particolari
strumenti finanziari permettono di trasferire ad un soggetto terzo il rischio di
inadempimento relativo ad un qualunque credito. Qual è il problema
potenziale? Che una banca A conceda un credito a un’impresa B e trasferisca il
rischio ad un’unità C senza che il mercato sia cosciente di quanto sta realmente
accadendo. Di modo che questa entità C, apparentemente protetta, può rapidamente
trasformarsi in un soggetto che svolge la funzione di accumulatore di rischi.
Come ha recentemente sostenuto Alan
Greenspan, questi accumulatori del rischio possono subire pressioni – se la
situazione dovesse complicarsi – per procedere alla liquidazione di posizioni,
generando un effetto domino finanziario e creditizio.
Il
taglio del livello di affidabilità creditizia che ha interessato Ford e General
Motors, due delle maggiori emittenti di corporate bond al mondo, ha resuscitato
i timori che sembravano definitivamente scomparsi nel 2002. La probabile concentrazione dei rischi in
entità apparentemente protette suppone, agli occhi degli investitori, una
roulette russa che pilota il mercato verso una riduzione dell’appetito per gli
strumenti no risk free.
Il mercato finanziario ha ben sopportato i
rumors che hanno annunciato le difficoltà vissute da alcuni fondi a gestione
alternativa e altri strumenti speculativi. Passata la paura, gli analisti stanno
concentrando l’attenzione sulla capacità del mercato di sopportare un rialzo dei
tassi di interesse che faccia aumentare i differenziali di rendimento in un
contesto in cui la continua ricerca di rendimenti superiori a quelli offerti dai
titoli di Stato ha fomentato lo sviluppo e la diffusione di strumenti finanziari
complessi e rischiosi.

Fonte Fondi on
Line
Boom Hedge Fund: USA
grande debitore Cayman
Gli Stati uniti
d'America grandi debitori delle isole Cayman. Poco più di 44.000 abitanti,
disseminati su 260
chilometri quadrati di spiagge, alberghi, società
finanziarie e vegetazione caraibica, formalmente titolari della quarta
fetta al mondo del debito della più grande potenza mondiale.
Una illusione
contabile generata dalla crescita esplosiva e, per alcuni versi,
misteriosa dell'attività degli hedge fund che negli ultimi mesi, complice
il calo dei rendimenti a lungo termine in dollari Usa, hanno accentuato
gli investimenti in titoli del debito internazionale, con una spiccata
predilezione per le obbligazioni del Tesoro americano. Ma il paradosso
finanziario non si ferma qui.
I fondi di
investimento speculativi che, almeno in termini di sede legale,
proliferano nelle isole Cayman, finanziano i loro investimenti (stando
alle rilevazioni della Banca dei regolamenti internazionali) con il
credito ottenuto proprio da banche statunitensi. Una sorta di gigantesca
triangolazione che nel solo terzo trimestre dello scorso anno (l'ultimo
rilevato dalla Bri) ha prodotto un flusso di impieghi verso il settore non
bancario (oltre agli hedge fund, anche compagnie di assicurazione e
società veicolo) delle isole Cayman pari a 436 miliardi di dollari.
E "l'aumento delle
attività verso il settore non bancario nelle isole Cayman - sostengono
alla Bri - nel corso del 2004 sembra corrispondere approssimativamente con
quello degli acquisti di titoli del Tesoro Usa da parte di soggetti con
sede nelle stesse isole".
Fonte Ansa |
Bin
Laden vuole fare un'altra Hiroshima
Osama Bin Laden e la
sua organizzazione terroristica Al Qaeda sono determinati ad ottenere armi
nucleari «per provocare un’altra Hiroshima». E’ quanto ha dichiarato
Thomas Kean, presidente della Commissione statunitense che ha indagato
sugli attentati dell’11 settembre, in un’intervista rilasciata alla
trasmissione televisiva Meet The Press, in onda su Nbc. «Sono dieci anni -
ha spiegato Kean - che al Qaeda parla di questo. Osama Bin Laden ha
parlato di Hiroshima. L’ha studiata, ed è sempre stato convinto che è
stato con il lancio della bomba atomica su Hiroshima che la guerra tra il
Giappone e gli Stati Uniti si è conclusa. E questo perché dopo l’atomica,
il Giappone ha deciso di non andare avanti. Osama la vede allo stesso modo
per gli Stati Uniti, ritenendo che, se la stessa cosa accadesse in una
città americana, gli Usa deciderebbero di ritirarsi dal Medio Oriente».
L'obiettivo dello
sceicco del terrore sarebbe dunque raccogliere qualsiasi mezzo e materiale
per «per attaccare nello stesso modo una città americana». Sulla
possibilità che al Qaeda sia vicina al suo intento Lee Hamilton,
vicepresidente della commissione, ha sottolineato che non «si hanno ancora
informazioni».
«Conosciamo le sue
intenzioni, ma siamo meno sicuri su quelle che sono le potenzialità del
suo progetto. La parte difficile nell’ottenere un’arma nucleare è avere
accesso all’uranio arricchito. E non abbiamo alcun dubbio sul fatto che
Osama stia tentando di muoversi in questa direzione», ha dichiarato
Hamilton.
Fonte
Corriere.it
|
Smart money:
attenti ai rischi
Molti grandi gestori ritengono che non c'é
alcun rischio di correzione dei prezzi obbligazionari, e nessun rischio di calo
delle borse, perché a questi livelli dei tassi non ci sono reali alternative
all’investimento azionario. Eppure...
27 Maggio 2005 - 11,27
Lugano (di Alfonso Tuor*)
*Alfonso Tuor e' il
direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in
lingua italiana.
La revisione al ribasso delle previsioni di
crescita dell’OCSE unitamente al continuo calo dei tassi a lungo termine che
stanno toccando nuovi minimi in Europa e che continuano a scendere anche negli
Stati Uniti rende legittimo interrogarsi sullo stato di salute dell’economia
mondiale. Il quadro dipinto dall’OCSE vede l’economia europea nel suo
complesso destinata a stagnare, anche se la recessione è l’infelice prospettiva
di alcuni paesi, gli Stati Uniti continueranno a crescere, anche se ad un ritmo
più lento, mentre il motore della crescita rimane l’Asia.
L’inevitabile corollario di
quest’analisi è che il «buco nero» dell’economia internazionale è il Vecchio
Continente che non esce dalla crisi, poiché non ha fatto le riforme strutturali,
ossia non ha liberalizzato il mercato del lavoro, non ha sufficientemente
deregolamentato alcuni settori di attività, ecc. Ma è veramente corretta questa
analisi che si basa sul confronto tra i risultati economici dell’Europa e quelli
degli Stati Uniti? E poi questi differenti tassi di crescita tra le principali
aree economiche del mondo sono sostenibili nel tempo? Vi è più di un motivo per
dubitarne.
Innanzitutto, il quadro
europeo non è omogeneo come quello americano, ma non vi è dubbio che in questi
anni in molti paesi europei (dalla Germania all’Olanda, dalla Spagna alla
Svezia) sono state varate importanti riforme strutturali. Quindi, anche se il
modello sociale ed economico europeo rimane diverso da quello statunitense, è
incontestabile che alcuni governi europei hanno cercato di adeguare le strutture
delle loro economie alle necessità dei tempi. La vera differenza tra Europa e Stati Uniti è
stata la risposta alla crisi deflattiva di questo inizio di secolo determinata
dallo scoppio della bolla speculativa delle borse e dalla crescente pressione
competitiva dei paesi a bassi salari. L’Europa non ha preso provvedimenti
straordinari ed, anzi, ha avuto una politica monetaria ingessata da una Banca
centrale europea che voleva costruirsi la propria credibilità.
Completamente diversa è stata la risposta
degli Stati Uniti: i tassi sono stati portati all’1%, si è passati ad una
politica di deficit spending e si è fatto scivolare il valore del dollaro.
Considerata la portata di questi interventi non può sorprendere che il tasso di
crescita americano sia stato e sia ancora oggi nettamente superiore a quello
europeo. Non deve nemmeno
sorprendere che negli Stati Uniti comincino a manifestarsi alcuni segnali
(invero ancora contraddittori) di rallentamento della crescita proprio in
concomitanza con l’esaurirsi degli effetti di queste politiche di stimolo.
La politica di Washington è stata possibile
perché gli Stati Uniti hanno potuto vivere al di sopra dei loro mezzi, come
dimostra una bilancia commerciale destinata a chiudersi quest’anno con un
disavanzo superiore ai 600 miliardi di dollari senza dover pagare alcun
prezzo. Questo deficit così come i differenziali di crescita tra le
diverse aree del mondo, come sottolinea con forza l’OCSE, appaiono
insostenibile. In altri termini, come sostengono gli economisti
dell’Organizzazione con sede a Parigi, la continuazione di questo trend renderà
ancora più gravi gli squilibri dell’economia internazionale, rendendo più
probabile lo scoppio di una crisi.
Ora tutto sembra contraddire questo scenario.
Ad esempio, il ritrovato vigore del dollaro sembra indicare che la capacità
degli Stati Uniti di attrarre i risparmi del resto del mondo è intatta. Anche il
rialzo delle borse sembra far ritenere che le prospettive di crescita
dell’economia sono buone. A disturbare sembra esserci, da un canto, la
stagnazione dell’economia europea, e dall’altro, il comportamento dei mercati
dei capitali dove i tassi continuano a scendere. Se i rendimenti delle
obbligazioni della Confederazione attorno al 2% e dei Bund tedeschi decennali
scesi al 3,3% possono essere in linea con le prospettive di crescita non
esaltanti dell’Europa, è molto più difficile capire la discesa dei tassi
americani, ora di poco superiori al 4%.
La nuova teoria degli analisti finanziari, che
ricorda molto quella della nuova economia prodotta da Internet, è che gli
investitori istituzionali starebbero comprando a mani basse le obbligazioni e
quindi spingendo al ribasso i rendimenti. Il corollario paradossale e
assurdo di questa teoria è che saremmo tornati nel «Paese del Bengodi», poiché non vi sarebbe alcun rischio di
correzione dei corsi delle obbligazioni, visto che le casse pensioni
continueranno a comprare, e nessun rischio di correzione delle borse, poiché a
questi livelli dei tassi non vi sono reali alternative all’investimento
azionario.
Il tutto è troppo bello per essere vero e soprattutto
sostenibile nel tempo. La vera spiegazione potrebbe però essere che i mercati
dei capitali non prevedono solo, come l’OCSE, che non vi sarà ripresa in Europa,
ma anche che la crescita statunitense è destinata a rallentare
sensibilmente. Ossia
potrebbero anticipare che l’esaurirsi degli effetti propulsivi delle manovre
economiche statunitensi riproponga lo scenario deflazionistico dell’inizio di
questo decennio.

La
Repubblica per
Wall Street Italia
Fonte Wall
Street Italia.com
Tornano i bond argentini,
boom dopo il crack
Il
governo di Buenos Aires ha effettuato la prima collocazione di titoli dopo il
default per il valore di un miliardo di pesos: interesse del 6,51%. Il
sottosegretario alle Finanze Nielsen: "Cosi' torniamo alla
normalità"
05 Maggio 2005 - 13,21
Buenos Aires (Repubblica.it)
A 34 mesi dal via al default, e mentre ancora
non si sono spente le polemiche dei risparmiatori che si sono ritenuti
'truffati' dall'offerta di Buenos Aires, il governo argentino ha effettuato ieri
la prima offerta di bond, in cui ha collocato titoli per un valore di un
miliardo di pesos ad un interesse del 6,51%, indicizzato al tasso d'inflazione,
ottenendo 158 richieste in tal senso per un valore di 2.165 milioni di pesos, in
pratica più del doppio del previsto.
Lo ha reso noto il
sottosegretario alle Finanze, Guillermo Nielsen assicurando che, con questa
operazione, l'Argentina "ha imboccato la strada della normalità", nell'ambito
dei mercati finanziari. Lo stesso ministro dell'economia ha definito
"eccellente" il risultato della collocazione.
Secondo gli specialisti, l'interesse
complessivo dei cosiddetti Boden 2014 si aggirerà attorno al 16,5% annuo in
pesos, in pratica circa l'8/9% se misurato in dollari.
Sempre secondo fonti del
mercato, il governo ha effettuato la collocazione dopo essersi assicurato che i
titoli sarebbero stati acquisiti dai fondi pensione e dalle banche locali. Nel corso di quest'anno, il governo si propone
di emettere altri Boden 2014 per 3.000 milioni di pesos e Boden 2012 per 1.000
milioni di dollari.

Fonte La Repubblica.it
Case:
nel
caso di scoppio della bolla
Dall’
Economist alla Bce sono in molti a mettere in guardia per l’ eccessivo aumento
dei prezzi sul mercato immobiliare. Rimane da verificare se ci sara', o meno, un
soft landing. Che e' comunque l' ipotesi piu' probabile.
11 Maggio 2005 - 00,46
Roma
(di Adriano Bonafede)
Di "bolla immobiliare" si parla ormai da più
di due anni. Dopo l’incredibile aumento dei prezzi avvenuto un po’ in tutto il
mondo tra il 1997 e il 2002, con punte superiori anche al 100 per cento, molti
esperti si sono accorti che ormai si correva verso lo sboom. Ovvero verso
una brusca virata e forse anche un declino dei prezzi. Da allora i segnali
d’allarme di sono moltiplicati: prima L’Economist, con il suo Osservatorio
internazionale, poi altri centri di ricerca e infine, più di recente
la Banca centrale europea
e anche la Banca d’Italia.
Ma il grido d’allarme non è servito a nulla.
I prezzi hanno continuato a salire anche negli ultimi due anni, come se
niente fosse. Ad oggi, proprio L’Economist ha calcolato che in
Irlanda l’incremento dei prezzi immobiliari è stato tra la fine del 1997 e la
fine del 2004 del 187 per cento. In Gran Bretagna del 147 per cento, in Spagna
del 131, in
Australia del 113,
in Francia del 90,
in Italia e Stati Uniti del 65 per
cento. Uniche eccezioni nel panorama internazionale
il Giappone e la
Germania , con incrementi negativi o pressoché uguali a zero.
Insomma la domanda di fondo
resta per ora inevasa: quando finirà questa folle corsa al mattone? C’è chi
sostiene che c’è ancora molto carburante per la macchina dell’aumento dei
prezzi. Infatti, se qualche dubbio si può nutrire per alcuni paesi come Irlanda,
Gran Bretagna, Australia e Spagna, gli stessi numeri direbbero che il 65 per
cento in più di Italia e Stati Uniti forse non è troppo. Anche perché negli anni
precedenti, fra il 1993 e il 1997 c’era stata una caduta anche nominale dei
prezzi. Non è un caso che, per quanto riguarda il nostro paese, l’Osservatorio
immobiliare Nomisma ha calcolato che soltanto da poco si sono raggiunti i prezzi
in termini reali del 1992, quando ci fu l’apice del precedente ciclo.
Ma altri dati sulla
capacità di spesa delle famiglie mostrano invece che non è mai stato così caro
in termini di tot annualità di reddito acquistare casa. In ogni caso un fatto è certo: il boom prima o
poi finirà. Non si sa quando (nessuno ha la sfera di cristallo), ma, come
diceva il Keanu Reaves di "Matrix Revolutions", «tutto ciò che ha un inizio ha
anche una fine». È accaduto così anche
al boom della Borsa, che sembrava interminabile, e invece poi è finito in un
bagno di sangue per i piccoli e grandi investitori. Eppure, anche per i mercati
azionari, più volte era stato lanciato in precedenza l’allarme per la loro
"esuberanza irrazionale", ma prima che la bolla scoppiasse passarono altri
duetre anni.
Il problema vero, però, non è se i prezzi si bloccheranno e
infine scenderanno, ma come questo avverrà: se con un soft landing o con una
brusca caduta. Ci sarebbe
soft landing se i prezzi si fermassero e magari scendessero di un po’, ma senza
strappi. Ci sarebbe un crollo se improvvisamente il ciclo immobiliare cambiasse
segno e prezzi scendessero. Quest’ultima eventualità, nonostante tutto, sembra
assai improbabile, soprattutto in paesi, come l’Italia e gli Usa, dove i prezzi
non sono cresciuti a ritmi esagerati.
Fonte
La Repubblica.it
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