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La
borsa di Shanghai crolla
I
risparmiatori in difficoltà puntano tutto sul mercato immobiliare, al top dei
prezzi. E 16 banche hanno dovuto concordare un giro di vite sui mutui. In Cina
il mercato azionario è entrato nella sua "stagione-Enron": crac
finanziari e tangenti.
31
Marzo 2005 01:33 Pechino (di
Federico Rampini)
L´economia
più dinamica del mondo e la Borsa più depressa: la Cina riesce ad avere i due
record insieme. Da quattro anni detiene il primato mondiale con una crescita
annua del Pil sempre superiore al 9%. Nello stesso periodo le due Borse locali -
Shanghai per le grandi imprese e Shenzhen per le piccole - hanno chiuso in
perdita. Questa settimana la frana ha raggiunto nuovi abissi, con l´indice di
Shanghai ai minimi da sei anni, ridisceso ai livelli del maggio 1999.
La
lunga crisi della Borsa cinese, quasi speculare al boom ininterrotto dell´economia
reale, è diventata un problema di massa: il paese ha uno dei più alti risparmi
del pianeta e una parte della liquidità del ceto medio è investita in azioni.
Il primo ministro Wen Jiabao ha rivelato di aver commissionato un sondaggio su
Internet attraverso Xinhuanet. com e la crisi dei mercati è arrivata al primo
posto fra le preoccupazioni.
Gli
economisti cinesi indicano varie cause per il calo dei listini negli ultimi
mesi. La politica creditizia è diventata meno espansiva, perché il governo sta
cercando di sgonfiare la bolla speculativa dei settori più surriscaldati come
il mercato immobiliare. Le banche obbediscono. Questa settimana sedici banche di
Shanghai (la città dove i prezzi del metro quadro hanno raggiunto punte
estreme) hanno concordato un giro di vite sui mutui, escludendo dai prestiti chi
rivende gli appartamenti entro un anno dall´acquisto. E´ una conferma di
quanto sia sfrenata la speculazione in questo settore; ma è anche un segnale
che il sistema creditizio stringe i freni, e anche la Borsa ne risente.
Un´altra
causa contingente dei ribassi è l´imminente arrivo di un´ondata di nuove
privatizzazioni - in particolare nel settore bancario - che finiranno col
drenare liquidità penalizzando le altre società quotate; le quotazioni
anticipano l´evento e si aggiustano al ribasso.
Queste
cause congiunturali non spiegano però un declino che ha quattro anni di
anzianità alle spalle, ed è iniziato molto prima che il governo prendesse
misure contro le «bolle». Il comportamento deludente della Borsa è tanto più
sorprendente, se confrontato con l´exploit messo a segno all´epoca della «crisi
asiatica», quando il mercato cinese fu un rifugio di stabilità in mezzo al
panico generale. Nell´ottobre 1997, mentre crollavano come birilli valute e
Borse asiatiche (prima la Thailandia, poi Malaysia, Singapore, Indonesia, Corea
del Sud), il listino azionario di Shanghai continuava a salire. Lo sosteneva l´inconvertibilità
del renminbi, solidamente agganciato al dollaro e difeso con determinazione
dalla banca centrale di Pechino. In quel frangente fu stridente il contrasto fra
Shanghai e Hong Kong.
La
piazza finanziaria dell´isola, ben più sviluppata e sofisticata, fu contagiata
dal crollo generale e perse il 40% mentre quella di Shanghai guadagnava il 6%.
Nel mezzo di quella crisi sembrò che le autorità cinesi potessero vincere una
sfida ambiziosa: togliere a Hong Kong il suo ruolo finanziario e «riportarlo»
a Shanghai che era stata la vera capitale economica fino all´avvento del
comunismo. La chiave per spiegare questi quattro anni di declino, sta proprio
nelle misure prese - o non prese - dal governo nell´ottica del sorpasso
Shanghai-Hong Kong. Le autorità di Pechino inizialmente hanno scelto di
allargare le dimensioni della Borsa nazionale con un massiccio afflusso di
imprese pubbliche.
Queste
ultime però non sono la parte più efficiente dell´economia cinese. Il settore
statale continua ad annoverare grandi aziende decotte, «dinosauri» dell´era
maoista che vivono di sussidi. Quotandosi in Borsa queste società non hanno
favorito il decollo di Shanghai. Anzi, molti manager pubblici con l´avallo del
governo hanno usato la Borsa come sostituto dei fondi statali. Si sono fatti
sussidiare dal risparmiatore anziché dal Tesoro.
Intanto
molti imprenditori giovani e competitivi prendevano la strada di mercati
alternativi: la maggior parte andavano a quotarsi a Hong Kong, i più arditi al
Nasdaq o al New York Stock Exchange. Anche perché nel frattempo il governo di
Pechino non ha fatto le riforme più importanti: leggi a tutela degli azionisti
di minoranza, regole di trasparenza, sanzioni contro il falso in bilancio,
costruzione di autorità di vigilanza forti, di tribunali competenti sui reati
finanziari. Un ritardo delle riforme forse non casuale né innocente: gli
intrecci di affari e i conflitti d´interessi tra la nomenklatura comunista e la
nuova borghesia capitalistica cinese sono noti.
Le
conseguenze di questa inazione sono scoppiate negli ultimi mesi: la Cina è
entrata nella sua «stagione-Enron», con una miriade di scandali che hanno
messo a nudo le carenze strutturali delle sue Borse. I due casi più gravi hanno
colpito due aziende di Stato in altrettanti settori chiave dell´economia. La
China Aviation Oil - una società di trading incaricata di gestire gli
approvvigionamenti petroliferi per le compagnie aeree nazionali - è stata
travolta da un buco di 550 milioni di dollari, persi in speculazioni sui
derivati, aggravato da insider trading perché il management ha raccolto un
aumento di capitale nascondendo tutto agli azionisti.
Il
fatto che questa società fosse quotata a Singapore non cambia la percezione dei
mercati: gli ordini venivano da Pechino. L´altro scandalo ha colpito il 16
marzo la China Construction Bank, che ha dovuto licenziare il suo presidente per
aver intascato tangenti. Ora il premier Wen Jiabao ha messo le riforme dei
mercati tra le priorità del suo governo.
Forse
un po´ tardi per rassicurare i risparmiatori cinesi. Chi non ha affatto bisogno
di rassicurazioni, paradossalmente, sono gli investitori più sofisticati: gli
stranieri. Il gruppo olandese Ing ha appena comprato il 20% della Bank of
Beijing, incurante degli scandali. Per le multinazionali che vogliono essere sul
mercato più dinamico del mondo, le quotazioni di Borsa non sono un criterio
decisivo.

Anche
Pechino ha paura della bolla
I
dubbi dell’America sullo sviluppo asiatico: attenti al boom speculativo. Fa
discutere il livello senza precedenti degli investimenti pubblici, pari al 45%
del Pil. Memento: il crollo di Corea e Thailandia nel ’97.
28
Marzo 2005 - 18:58 Washington
(di
Ennio Caretto)
Sull’economia della Cina, con cui ha un deficit dei conti correnti record,
130 miliardi di dollari circa, l’America incomincia a nutrire qualche dubbio.
C’è chi vede nel colosso asiatico non soltanto il futuro rivale economico,
prima ancora dell’Ue, ma anche un pericolo per l’attuale stabilità
finanziaria internazionale. Si parla di una «bolla cinese», una super-tigre
che potrebbe crollare all’improvviso come le tigri Sud Corea, Thailandia e
altre crollarono nel ’97, ma con conseguenze ben più gravi date le sue
dimensioni.
Forse,
dichiara l’economista Morris Goldstein, è un eccesso di pessimismo o
d’invidia ma non è del tutto ingiustificato. Il giudizio «contro»
scaturisce dal ritmo in teoria insostenibile dell’espansione economica cinese.
Da qualche mese in America è aumentato il numero degli economisti ed esperti
che ammoniscono che, a causa sua, la Cina potrebbe essere a rischio. A loro
parere, il miracolo economico (anche l’anno scorso il prodotto interno lordo
crebbe del 9,5%) non ha fondamenta molto solide: numerose grandi banche sono
pericolanti, una parte dell’edilizia è nelle mani degli speculatori, e i
consumi non crescono a sufficienza. Ieri il New York Times ha denunciato
un’altra debolezza: gli investimenti pubblici in infrastrutture sono al
livello di guardia, il 45% del Pil. Gli ammiratori di Pechino ribattono che lo
Stato in Cina fa quello che fece in America negli anni 50: creare una rete
stradale - nel 2020 supererà quella americana - e un sistema di centrali
elettriche, fabbriche e miniere per promuovere il «boom» economico anche nelle
province emarginate. Ma i critici osservano che l’offerta potrebbe superare
presto la domanda, e comunque questi investimenti rendono sempre meno. Citano
l’economista Xu Xiaonian della China Europe Business School di Shanghai: «Nel
’90, un dollaro investito in infrastrutture dava il 50% di reddito, adesso dà
il 20%. Secondo Nicholas Lardy dell’Institute of International Economy, nessun
Paese ha mai investito in infrastrutture quanto la Cina: il Giappone sfiorò il
40% del Pil ma è sceso al 30%; l’India si tiene sotto il 25%; l’America -
che punta sui consumi come motore dell’economia - investe il 15%. Lardy è
tuttavia d’accordo con Pechino che l’economia cinese debba crescere del 7% o
più annuo per contenere la disoccupazione ed evitare disordini sociali, e che
industrializzazione e modernizzazione richiederanno più anni di quanto si
pensi: «I parametri normali non valgono». La leadership cinese ha dimostrato
di essere consapevole dei potenziali squilibri, passando da un aumento del 27%
nel totale degli investimenti statali nel 2004 a uno del 16% nel 2005, invitando
sempre più capitali privati stranieri, incentivando i consumi interni, tutti
indizi di un graduale cambiamento di strategia. Ma non ha abbandonato
l’ancoraggio dello yuan al dollaro, come richiesto dall’amministrazione Bush,
perché significherebbe rivalutarlo e nuocere alle esportazioni, né ha accolto
gli altri suggerimenti americani. Il problema di Taiwan esploso di recente ha
reso più improbabile che la Superpotenza di domani vada incontro a quella di
oggi.

Corriere della Sera
Ma
la Cina sosterrà l'America ?
La
bilancia del commercio estero degli Stati Uniti, stando ai dati di gennaio,
sembra avvalorare la profezia del miliardario americano Warren Buffett: potrebbe
essere imminente un crollo del dollaro. Infatti il deprezzamento...
15
Marzo 2005 - 14:48 Milano
La bilancia del commercio estero degli Stati Uniti, stando ai dati di gennaio,
sembra avvalorare la profezia del miliardario americano Warren Buffett: potrebbe
essere imminente un crollo del dollaro. Infatti il deficit commerciale americano
di gennaio (58 miliardi di dollari), risulta di un terzo superiore a quello del
gennaio 2004. Le importazioni sono aumentate, le esportazioni sono rimaste ferme
al livello di dicembre.
Il
deprezzamento del dollaro non sembra sufficiente a migliorare la bilancia con
l’estero degli Stati Uniti, che ha chiuso il 2004 con il deficit di 660
miliardi, il 6 per cento circa del prodotto lordo americano, sinora coperto da
un abbondante flusso di capitali esteri. L’incremento delle importazioni è
innanzitutto prodotto da merci provenienti dai paesi asiatici (soprattutto
Giappone, Corea del Sud, Cina, Taiwan) che hanno agganciato la loro moneta al
dollaro per poter continuare a esportare.
Ed
è da questo che nasce il paradosso, che fa dire al professor Nail Ferguson sul
New York Times Magazine: “La nostra moneta è il vostro problema”,
riferendosi appunto a questi paesi. Il Giappone nel
2004 ha
avuto un surplus commerciale di 160 miliardi
e la sua Banca centrale ha minimizzato il rialzo dello yen sul dollaro
reinvestendolo in titoli del Tesoro degli Stati Uniti.
La Cina
ha avuto un surplus commerciale di 40
miliardi di dollari e ne ha incassati altri 50 netti dagli investimenti esteri.
E ha mantenuto invariato il cambio del remimbi con il dollaro, con acquisti di
valuta americana da parte del suo ufficio cambi e delle banche: ormai è giunta
a possedere 500 miliardi di dollari di riserve.
Se
la sua moneta salisse di un terzo sul dollaro, le banche cinesi, in gran parte
statali, contabilizzerebbero una perdita finanziaria pari al 10 per cento del
prodotto lordo cinese. Molte subirebbero un crack. Continuare a investire in
dollari per questi istituti è rischioso, visto che si sta deprezzando, ma non
farlo comporta due effetti negativi: perdite ingenti nelle proprie riserve in
dollari e difficoltà per le esportazioni a causa del rialzo della moneta
nazionale. Dunque è improbabile che questi paesi smettano di sostenere il
dollaro. Non è la loro moneta, ma è il loro problema.

Il Foglio
Il
super Hedge Fund delle
famiglie USA
E´
del tutto evidente che in America si è in presenza di una gigantesca
"bolla" speculativa. Gli americani sono dentro a un boom che essi
stessi alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma dal quale sembra che non
vogliano uscire.
Gli
hedge fund, poco noti al grande pubblico (perché sono riservati ai grossi
capitali), non godono in genere di buona fama. Li si accusa di essere troppo
speculativi e troppo spregiudicati (e in effetti sono nati proprio per questo,
per giocare pesante).
Adesso,
si è scoperto che esiste un Hedge Fund
(ignoto fino a pochi giorni fa) che in realtà è il più grande di tutti
(forse addirittura di tutti gli altri messi insieme). Questo Grande Hedge Fund
non ha un indirizzo e nemmeno un consiglio di amministrazione: infatti è
costituito dall´insieme delle famiglie americane, che si comportano appunto
come il più tremendo degli hedge fund.
La
scoperta è stata fatta da alcuni analisti della banca Abn-Ambro, che si erano
messi a studiare l´economia americana nel 2004. Quello che hanno trovato spiega
molte cose sull´economia a stelle e strisce e lascia anche correre qualche
brivido lungo la schiena.
Ma
vediamo di che cosa si tratta. Nel corso del 2004 i cittadini americani,
nonostante abbiano speso moltissimo (sono i loro consumi a aver tenuto a galla,
in parte, l´economia mondiale), alla fine si sono ritrovati con un saldo
positivo di 1200 miliardi di dollari (differenza fra il reddito e le spese).
E
qui la partita potrebbe essere considerata finita, con soddisfazione di tutti.
Ma non è così. Infatti i cittadini americani, non contenti di aver speso un
sacco di soldi nel corso del 2004, hanno anche investito moltissimo. Si è
calcolato che abbiano speso per investimenti 1600 miliardi di dollari.
Poiché
nello stesso periodo avevano "risparmiato" (differenza fra redditi e
spese) solo 1200 miliardi di dollari, è evidente che si sono ritrovati in
rosso. Grosso modo per più di 300
miliardi di dollari (prima abbiamo un po´ arrotondato le cifre, per
semplicità).
E
qui comincia la storia del più Grande Hedge Fund del mondo. Dove hanno trovato
infatti le famiglie americane i 300 miliardi di dollari mancanti per il loro
bilancio 2004? Molto semplice:
sono andati in banca e se li sono fatti dare. Cosa che le banche,
peraltro, hanno fatto molto volentieri perché, se mai al mondo ci sono stati
clienti solvibili, questi sono i cittadini americani, pieni come sono di case e
di asset finanziari (cioè azioni e bond). Tutta roba buona e anche solida,
sicura. E infatti, già che erano in banca, le famiglie americane non si sono
limitate a farsi consegnare i 300 miliardi di dollari mancanti dai loro bilanci.
Ma se ne sono fatti dare 1100, cioè 800 miliardi di dollari in più.
Ma
per farne che cosa? Ottocento miliardi di dollari sono una cifra grossa. La
risposta è sorprendente: con quegli 800 miliardi "extra" (presi a
prestito dalle banche) i cittadini americani hanno
comprato altri asset finanziari, oltre a quelli che già avevano, contribuendo
così a sostenere i corsi di quelle azioni e di quei bond (già posseduti), sui
quali si basa la loro solidità finanziaria.
Insomma,
è come giocare a tombola conoscendo già i numeri che escono.
Esattamente come fanno certi hedge fund, le famiglie americane prima hanno
comprato dei titoli, poi si sono fatti dare dei soldi dalle banche per comprare
ancora altri titoli, che infatti stanno su.
Questo
gioco, naturalmente, comincia a diventare costoso. Se l´indebitamento delle
famiglie americane era pari al 6,6 per cento del Pil nel 2002, nel 2003 è
passato all´8 per cento e nel 2004 al 9,5 per cento del Pil. In
sostanza, le famiglie americane sostengono i titoli che hanno già in
portafoglio grazie a un indebitamento che cresce a vista d´occhio. E che non può
non fare paura. E´ del tutto evidente, infatti, che si è in presenza di una
gigantesca "bolla" speculativa, organizzata per di più in modo
sistematico dal più Grande Hedge Fund "spontaneo" del mondo: le
famiglie americane. E è anche chiaro che tutto questo potrebbe scoppiare da un
momento all´altro con conseguenze terribili per tutta l´economia mondiale.
La
cosa è talmente vistosa che anche
la Federal Reserve
(cioè la banca centrale americana) ha cominciato a spaventarsi, e ha varato una
politica (annunciata a chiare lettere) di progressivo aumento del costo del
denaro, proprio al fine di scoraggiare l´indebitamento crescente delle famiglie
americane.
Ma,
per ora, pare che non abbia avuto molto successo, visto che il quarto trimestre
del 2004 (quando la politica di rialzo del costo del denaro era già stata
annunciata e messa in pratica) è stato proprio quello che ha visto la maggior
crescita dell´indebitamento delle famiglie negli Stati Uniti. Famiglie che sono
dentro a un boom che esse stesse alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma
dal quale sembra che non vogliano uscire.
Ma
la banca centrale continua nella sua politica e, prima poi riuscirà a far
ragionare i suoi cittadini. A quel punto è evidente che ci sarà un calo nella
domanda interna (consumeranno di meno e, forse, compreranno anche meno titoli) e
proprio per questo
la Federal Reserve
sta facendo scivolare il dollaro, nel
tentativo di recuperare all´estero quegli sbocchi alla produzione che si
ridurranno all´interno (con danni evidenti per l´Europa, che farà più fatica
a esportare oltre Atlantico).
E
l´Europa (che sarà quella chiamata a pagare il prezzo più alto della
stabilizzazione americana) che cosa può fare? Niente, anche perché non ha una
politica e nemmeno una visione strategica. Sopporterà.

La
Federal Reserve non fa sorprese
Come
ampiamente atteso dal mercato,
la
Federal Reserve
ha alzato il tasso sui fed funds al 2.75%.
22
Marzo 2005
20:16
New York
(ANSA)
Il
biglietto verde si rafforza dopo la decisione presa ieri sera dalla
Banca centrale americana di aumentare di 25 punti base il costo del
denaro, che passa ora al 2,75%. Con
questo rialzo, il settimo consecutivo,
la Federal Reserve
amplia il divario tra i tassi americani e quelli dell’Eurozona, dove
il costo del denaro resta fermo al 2%.
Le
attese, dunque, non sono state deluse e per i prossimi mesi
la Fed
assicura che continuerà con rialzi
graduali.
Questa
invece può essere considerata una sorpresa, nel senso che ieri negli
ambienti economici balenava l’ipotesi che Greenspan, il presidente
della banca centrale americana, avrebbe annunciato che dalla prossima
riunione del Fomc (prevista per gli inizi di maggio) una politica
monetaria più aggressiva.
Il
che avrebbe potuto indurre
la Banca
centrale europea a ritoccare i propri
tassi, spinta inoltre dal “relativo rilassamento” seguito
all’accordo sulle modifiche al Patto di Stabilità. Modifiche che
la Bce
non ha apprezzato e che secondo
alcuni economisti potrebbe appunto spingere Trichet e gli altri
banchieri a “aumentare i tassi, forse a giugno”.
Tuttavia,
da parte della Fed non c’è stata nessuna apertura a una politica più
aggressiva e “a buon ragione”, commentano gli esperti,
secondo i quali la “progressiva crescita dei tassi d’interesse
porterà il costo del denaro al 3,75% a fine anno”.
Insomma,
si procede con cautela ma si fa crescere il costo del denaro,
d’altronde è l’unico modo per frenare la congiuntura e raffreddare
l’economia statunitense; gli analisti infatti sostengono che gli
americani spendono molto, risparmiano poco e sopratutto importano molto.
Fonte
(ANSA)
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Gestori:
Piazza Affari non è più favorita
15
Marzo 2005 - 00:24 Milano (di Sara Silano*)
*Sara
Silano è Vicecaposervizio di Morningstar in Italia. Il contenuto di questo
articolo esprime esclusivamente il pensiero dell' autore e non necessariamente
rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e
indipendente.
Gestori
meno ottimisti su Piazza Affari. Secondo l’ultimo sondaggio, condotto nella
prima settimana di marzo da Morningstar tra 27 case di investimento che operano
in Italia, il numero di manager che si attende un rialzo nei prossimi sei
mesi è sceso al 65,2 dal 73,7% di febbraio. Per contro, sono tornati i
pessimisti, pari al 17,4% degli intervistati (nessuno nella precedente
rilevazione). Stabili al 74% i consensi per le Borse europee, ma il mercato
preferito rimane quello giapponese, che salirà per poco meno del 78% dei
gestori. Infine, sono aumentate rispetto al mese scorso le posizioni neutrali su
Wall Street, passando dal 35 al 42%.
Eurolandia
meglio dell’Italia
Dopo
il rally di inizio anno, durato fino a metà febbraio, Piazza Affari ha
invertito la tendenza, con una correzione più pronunciata rispetto alle altre
Borse europee. Secondo i gestori, il mercato italiano crescerà nei prossimi
mesi, ma meno del resto del Vecchio continente, in quanto entrerà in una fase
di consolidamento. Inoltre, trattandosi di un listino difensivo, non è favorito
in fasi di forte ascesa delle azioni.
I
manager sono più fiduciosi sulle prospettive di rialzo delle altre Borse di
Eurolandia, con appena il 7,4% degli intervistati che si attende un calo
nei prossimi sei mesi. E’ convinzione diffusa che i titoli siano sottovalutati
e la crescita dei profitti possa continuare, sostenuta dal rafforzamento della
congiuntura. Inoltre, non è atteso un intervento restrittivo sui tassi da parte
della Banca centrale europea almeno fino alla fine dell’anno, in quanto
l’inflazione è sotto controllo.
Wall
Street in ombra
Sono
scesi sotto il 50% i consensi per
la Borsa
americana, anche se non sono aumentati i pessimisti, ma coloro che si
attendono un’oscillazione attorno agli attuali livelli. I gestori sono
convinti che Wall Street non offra spunti particolarmente interessanti, in
quanto i titoli sono sopravvalutati e la crescita degli utili societari è stata
inferiore rispetto ai mercati internazionali. Inoltre, prosegue la politica
restrittiva della Federal Reserve e il ritmo di crescita economica è
rallentato. Per contro,
la Borsa
giapponese è quella che per i gestori offre
le migliori prospettive, per via delle attraenti valutazioni azionarie, della
solida crescita degli utili e delle attese di miglioramento della congiuntura,
dopo la debolezza degli ultimi trimestri.
Bond,
prezzi ancora in discesa
A
marzo è salita all’81,5% la percentuale di gestori che si attende un calo dei
prezzi delle obbligazioni americane nei prossimi sei mesi (erano il 75% a
febbraio). Sono aumentati, passando dal 60 al 63%, anche i fund manager che
prevedono una discesa dei corsi sul mercato europeo. Quest’ultimo ha seguito
la recente evoluzione dei titoli americani, anche se ha registrato un minor
incremento dei rendimenti sulle scadenze lunghe. Le prospettive di aumento dei
tassi di interesse inducono i gestori a rimanere corti di duration, in
un’ottica prudenziale. Inoltre, i bassi spread (differenziali) tra governativi
ed emissioni societarie non rendono appetibili le seconde.
Hanno
partecipato al sondaggio 27 delle principali società di diritto italiano ed
estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80% degli asset
gestiti in Italia.
Fonte
Morningstar.it
Eurisko:
pochi riferimenti autorevoli per investire
16
Marzo 2005 - 17:35 Milano
Scandali
finanziari, pessimismo diffuso, dubbi amletici. I risparmiatori usano
molte fonti informative per decidere come investire, ma avvertono sempre
più la mancanza di riferimenti autorevoli. Questo è quanto emerge da una
ricerca realizzata dall'Eurisko per conto di Assoreti, l'associazione
delle imprese che collocano prodotti e servizi finanziari attraverso le
reti di promotori.
Secondo
tale indagine, la maggior parte dei risparmiatori italiani sono
scarsamente consapevoli del grado di rischio dei propri investimenti,
tendono a rinviare le decisioni sulle future necessita' previdenziali e
conoscono poco o nulla del decreto sul risparmio. Il sondaggio, condotto
su un campione di 1000 capifamiglia, indica proprio i promotori (indice
del 48%) e gli agenti assicurativi (50%), insieme alla stampa
specializzata (49%), come i riferimenti piu' soddisfacenti per decidere
sui propri risparmi. Meno soddisfacenti gli interlocutori in banca o in
posta (43%), la stampa generalista (23%), parenti o amici (30%). Le
esigenze sono diverse: dalla maggiore semplicita' e chiarezza dei prodotti
(lo chiede il 54% degli intervistati), alla disponibilita' di prodotti
base a costi inferiori (48%), maggior consulenza dagli intermediari (44%),
strumenti piu' in linea con i propri bisogni (43%). Il
disorientamento di fondo si rispecchia nella scarsa consapevolezza (48%)
del grado di rischio del proprio portafoglio di investimenti. Inoltre,
solo il 44% ha un'idea del rendimento atteso.
Insomma
investire o non investire? Il rallentamento è causa oggettiva degli
scandali che hanno coinvolto alcune grosse aziende italiane e per tale
motivo molti hanno rinviato gli investimenti a data da destinarsi. Secondo
gli esperti, i mercati sarebbero mossi da due tipi di emozioni: "greed",
cioè l'avidità, e "fear", la paura. L'investitore saggio
dovrebbe guardare al lungo termine e cercare di combattere un po' la
paura. Una volta compreso il suo profilo di rischio non dovrebbe cercare
di capire dove va il mercato, ma se la composizione del proprio
portafoglio è quella giusta. In sostanza, il dibattito sull’esigenza di
poter contare su regole che rendano meno speculativi e più sicuri i
mercati finanziari e che, nello stesso tempo, educhino e garantiscano il
risparmiatore è destinato ad alimentarsi sempre di più. Si tratta di
regole di comportamento e/o di condotta che sono state imposte dal
legislatore e dagli organi di controllo a tutti gli intermediari, nessuno
escluso, tutte finalizzate alla tutela di quegli investitori che si
aspettano dai professionisti, ai quali si rivolgono per la cura dei loro
risparmi e dei loro investimenti, una adeguata competenza, professionalità,
correttezza e diligenza .
Ma
è soprattutto il vuoto informativo e una certa indecisione che confondono
il risparmiatore. Qualche esempio? Quanto alla riforma previdenziale, il
54% ne ha sentito parlare, ma non sa di che cosa si tratta, il 34% invece
la conosce. Sul che fare per il futuro, il 21% risponde che non lo sa, il
28% rimanda le scelte. Nebbia fitta infine per il decreto sul risparmio,
conosciuto solo dall'8% del campione, mentre il 57% non ne ha mai sentito
parlare e il 35% non ne conosce i contenuti.
Fonte
Miaeconomia.it
Banche
multate per Cirio e Argentina
18
Marzo 2005
A
leggere i nomi si resta basiti. Si parte dal gotha del mondo bancario
italiano: l’ad di Unicredit Alessandro Profumo, il presidente di
Capitalia Cesare Geronzi e l’amministratore delegato di Intesa Corrado
Passera.
Poi
si passa a quello del mondo imprenditoriale: il fondatore della Parmalat
Calisto Tanzi e i vari componenti dei cda bancari: Roberto Colaninno,
Marco Tronchetti Provera, Sergio Pininfarina e i Benetton.
Ce
n’è per tutti i gusti, insomma. L’inchiesta portata avanti dalla
Consob e poi conclusasi con le sanzioni comminate dal Tesoro sui crac
Cirio e Argentina hanno coinvolto alcuni dei personaggi più noti
dell’economia italiana.
Certo
le cifre non sono di quelle che possono far brindare i risparmiatori che
hanno messo il loro soldi, sono circa 400 mila una cifra che si avvicina
ai 10 miliardi di euro, in quei bond, ma si tratta di un provvedimento
dal forte valore simbolico. La cifra complessiva è di 10,6 milioni di
euro e sono coinvolte tutte le più grandi banche del Belpaese.
Dalla
ex Banca di Roma a Carifirenze, da Ambroveneto-Cariplo e Comit, oggi
tutte confluite in Banca Intesa, a Unicredit (per
la Cassa
di risparmio di Torino), dalla Banca
Popolare di Ancona al Sanpaolo Imi, fino a Banca nazionale del lavoro,
Banca Agricola Mantovana, Credem, Antonveneta. La decisione
del Tesoro riguarda anche l’emissione dei tango-bond e coinvolge in
questo caso Banca Intesa.
Le
sanzioni sono state comminate ai componenti del cda e in solido alle
stesse banche. E così la vera forza di questa decisione sta nel
precedente che apre per le cause contro alle banche.
Anche
perché l’atto di accusa rivolto dallo sceriffo della Borsa ai vari
istituti parte dalla mancata conoscenza degli strumenti venduti e arriva
fino alla mancata informazione verso la clientela. Proprio quei meandri
in cui si muoveranno le cause avviate o ancora in fase embrionale per i
risarcimento del popolo dei risparmiatori traditi dai bond.

Fonte
Miaeconomia.it
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Risparmio:
gli italiani ammettono l'ignoranza
24
Marzo 2005 Fonte
Miaeconomia.it
Gli
italiani hanno paura delle loro prospettive future. Si riconoscono poco
competenti in materia finanziaria e di conseguenza nelle scelte di investimento
si fanno influenzare esclusivamente dall’andamento delle performance.
Questi
alcuni dei risultati più interessanti che emergono dall’analisi di due
sondaggi presentati nel corso dell’assemblea annuale di Assogestioni,
l’associazione che rappresenta le società di gestione del risparmio.
Le
due ricerche sono state condotte da due colossi del risparmio gestito italiano:
Monte Paschi Am Sgr e Nextra Im Sgr (del gruppo Intesa). La prima ricerca
presentata da Nicola Romito, presidente e amministratore delegato di Mps
Alternative Investments Sgr, si è basata sui dati di raccolta netta mensili del
sistema fondi e prendeva la suggestiva titolazione di “Pianificazione
finanziaria o pura emotività”.
I
numeri sviscerati da Romito hanno messo in evidenza come le scelte dei
risparmiatori sarebbero fortemente influenzate dalle performance degli
investimenti. Esisterebbe, insomma, una forte dipendenza della raccolta netta
dalla performance storica.
Non
vi sarebbe, quindi, una vera e propria pianificazione, ma propensione emotiva
verso tutto quello che può sembrare più redditizio nel breve termine. Un
approccio che non ha pagato. Analizzando, infatti, i flussi di raccolta negli
ultimi 20 anni balza all’occhio che seguendo un metodo di lungo periodo e meno
emotivo la clintela avrebbe potuto ottenere delle performance maggiori rispetto
a quelle realmente conseguite.
”Risparmiatore
consapevole?” E’ il titolo della ricerca realizzata da Giovanni Landi,
responsabile asset management di gruppo Banca Intesa e vice presidente di
Assogestioni che ne ha esposto i dati salienti.
Tra
questi sicuramente la suggestione degli italiani che credono di non risparmiare
sufficientemente rispetto a quanto risulta dalle statistiche. La percezione del
risparmio è cioè inferiore a quanto rispettivamente si riesce a mettere da
parte.
E
poi, soprattutto la consapevolezza di avere modeste competenze
finanziarie: in
una scala da
1 a
10 si sono mediamente attributi un voto di
5,2. Allo Stato, alle banche e ai mass media il compito di colmare questo gap.

Fonte
Miaeconomia.it
Risparmio:
le regole USA ignorate in Italia
Così
l´America ha reagito ai crac finanziari: punizioni record, severità con le
banche. Per il falso in bilancio gli Stati Uniti prevedono un minimo di dodici
anni di carcere, noi invece un massimo di tre anni (ma non succede mai).
06
Marzo 2005 - 18,47 New York (di
Federico Rampini)
Il crac della Cirio scoppiò nella primavera 2003, quello della Parmalat
nell´autunno 2003. Ci sono voluti quasi due anni dal primo, un anno e mezzo dal
secondo, perché il legislatore italiano partorisse una "legge sulla tutela
del risparmio" che, visti i tempi di gestazione, dovrebbe essere un
capolavoro di perfezionismo. Gli americani di fronte a eventi simili sono stati
più frettolosi.
Sono
i primi di dicembre del 2001 quando, nell´America ancora prostrata dal dramma
dell´11 settembre, va in bancarotta la società texana Enron, colosso dell´energia.
Il fallimento distrugge il valore delle azioni in mano ai piccoli risparmiatori
e azzera il fondo pensione dei dipendenti. Il bilancio della Enron si rivela un
cumulo di bugie, con perdite occultate in società off- shore. A Wall Street lo
choc è forte, di fronte alla facilità con cui un´impresa di quelle dimensioni
è riuscita a ingannare i mercati. Nel clima di allarme gli investitori
diventano sospettosi e altri scandali scoppiano a catena: Worldcom, Adelphia,
Tyco.
Alcuni
esperti americani in quella fase affermano che il danno delle bancarotte è
"peggio dell´11 settembre". L´affermazione, per quanto pesante, non
è del tutto infondata: l´attacco alle Torri gemelle provoca un tracollo
selvaggio ma breve negli indici azionari, e i capitali tornano in Borsa non
appena risulta che l´impatto macroeconomico dell´attentato non è
irrimediabile; il clima di sfiducia verso le società quotate nel dopo-Enron
rischia di provocare invece una emorragìa inarrestabile di risparmi.
Il
fallimento della Enron ha anche una dimensione politica. Il numero uno della
società texana, Kenneth Lay, è un amico di George Bush, è stato il principale
finanziatore individuale della sua prima campagna elettorale, e un ascoltato
consigliere del vicepresidente Dick Cheney per la stesura del piano energetico.
Può esserci la tentazione di insabbiare, ammorbidire le pene, usare guanti di
velluto. Lo stratega elettorale di
Bush, Karl Rove, dà il parere opposto: con
il risparmio degli americani non si scherza; il presidente non deve mostrare
imbarazzo; la reazione deve essere durissima.
E´
quel che avviene. Da quel momento in poi, la sequenza degli avvenimenti in
America è ricca di insegnamenti per la "tutela del risparmio". Bush
all´inizio del 2002 denuncia i manager disonesti della ex-amica Enron. Il
Congresso si è già mosso. Tre mesi dopo la bancarotta Enron è pronto il
disegno di legge Sarbanes-Oxley (dal nome dei due parlamentari firmatari).
La Casa Bianca
lo appoggia. All´inizio dell´estate 2002,
sei mesi dopo il crac Enron,
la Sarbanes-Oxley
è approvata da un vasto schieramento
bipartisan.
Quella
legge contiene un forte inasprimento delle pene per il falso in bilancio. Le
sanzioni sono raddoppiate, il minimo è 12 anni di carcere contro un massimo in
Italia di 3 anni per false comunicazioni. Le pene non sono spauracchi virtuali
agitati per placare l´opinione pubblica.
Diversi
protagonisti di quella stagione di scandali finiscono già dietro le sbarre nel
2003-2004
, il direttore finanziario di Enron Andrew
Fastow patteggia dieci anni di carcere. Altri pagano multe elevate, come i 14
milioni di sterline sequestrati al capo di Vivendi; il miliardo e mezzo di
dollari di risarcimento ai piccoli azionisti imposto a WorldCom). Tutti gli
amministratori delegati delle società vengono obbligati a "rifirmare"
i bilanci delle loro imprese per garantirne la correttezza. Può sembrare
superfluo, in realtà questa nuova firma aggiunge un particolare peso di
responsabilità personale alla luce della Sarbanes-Oxley. Dopo aver rifirmato
nessuno può dire "non sapevo", nessun chief executive può tentare di
sottrarsi alla sanzione penale e patrimoniale in caso di irregolarità nei
conti.
La Sarbanes-Oxley
è solo un anello nella catena di reazioni
provocate dagli scandali finanziari. La sequenza delle contromisure prese negli
Stati Uniti è più lunga. E´ fulmineo lo smantellamento e la scomparsa di
Arthur Andersen, la società di certificazione dei bilanci che ha garantito i
conti della società texana contribuendo a ingannare i mercati. Un nome antico e
importante, uno dei cinque maggiori gruppi mondiali nella revisione dei conti,
viene ghigliottinato senza esitazione. Si crea una authority per esercitare il
controllo sui revisori dei conti. Si proibisce a queste società di auditing di
offrire consulenze. La stesura dei bilanci viene sottoposta a norme più
stringenti, i margini "interpretazione" delle regole vengono ridotti.
I tempi di comunicazione dei conti al mercato vengono accorciati di un terzo. I
dirigenti delle società quotate devono rivelare più rapidamente le
compravendite di azioni proprie.
L´etica
degli affari fa la sua parte. Senza aspettare i verdetti dei tribunali le banche
americane licenziano i tre più celebri analisti finanziari, le star di Wall
Street che consigliavano i risparmiatori: Quattrone, Grubman, Blodget. Perde il
posto il grande capo dell´autorità di vigilanza, il presidente della Sec
Harvey Pitt, pur essendo stato un "protetto" di Bush. La stessa fine
tocca al presidente del New York Stock Exchange, Richard Grasso. Si scatena in
parallelo l´azione della magistratura.
In
particolare si distingue il procuratore generale di New York, Elliot Spitzer.
Incastra per conflitto d´interesse tutte le grandi banche americane - da
Citigroup a Merrill Lynch - colpevoli di aver rifilato ai propri clienti
titoli-bidone, e le colpisce con multe record da 1,8 miliardi di dollari. Si fa
anche un po´ di giustizia-spettacolo, mandando in carcere la star Martha
Stewart, regina delle trasmissioni tv per casalinghe, condannata per insider
trading: i magistrati teorizzano apertamente che la celebrità è un´aggravante.
Nessuno contesta le loro sentenze.
Negli
Stati Uniti non esiste la modica quantità nel falso in bilancio, cioè quell´attenuante
inserita nella legge italiana sulla tutela del risparmio che introduce il reato
veniale di "falsetto" (se i dati truccati rappresentano una piccola
parte del fatturato aziendale). Non esistono negli Usa i fantasiosi indicatori
della normativa italiana - il crac in percentuale del Pil, la quota di
popolazione ingannata - per stabilire se ci sia danno grave per i risparmiatori.
Gli
Stati Uniti hanno stretto la vite a tal punto, che dopo l´entrata in vigore
della Sarbanes-Oxley diverse società straniere hanno rinunciato a quotarsi a
Wall Street per non dover passare esami di trasparenza così severi. Qualcuno si
è allarmato, perché questo "eccesso" di rigore può danneggiare la
piazza finanziaria di New York a vantaggio di Borse straniere. L´America
preferisce correre questo rischio, pur di ristabilire la fiducia dei suoi
risparmiatori.
Negli
Stati Uniti l´Antitrust ha competenza anche sulle banche, che non hanno un
"giudice speciale" a loro riservato. Anzi, si può arrivare al
paradosso che una fusione tra due grandi aziende americane - banche incluse -
finisca sotto il mirino sia dell´antitrust americano che di quello europeo;
mentre un´operazione tra banche italiane sfugge al controllo di Bruxelles. Con
il risparmio non si scherza, lo ha riconosciuto anche "l´amico George W."
Il risparmio degli americani, s´intende.
La Repubblica
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