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INDICE ARTICOLI

 

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Borse e Mercati - Cina

La borsa di Shanghai crolla

Borse e Mercati - Cina

Anche Pechino ha paura della bolla

Macro Cina

Ma la Cina sosterrà l'America ?

Macro USA - Credito

Il super Hedge Fund delle famiglie USA

Borse e Mercati - Sentiment

Gestori: Piazza Affari non è più favorita

Finanza italiana - Risparmio Gestito

Eurisko: pochi riferimenti autorevoli per investire

Finanza italiana - Risparmio Gestito

Risparmio: gli italiani ammettono l'ignoranza

Finanza italiana - Risparmio Gestito

Risparmio: le regole USA ignorate in Italia

 

+++  La Cina minaccia Taiwan +++  Crolla la borsa di Shanghai  +++  Nuovo sisma in Indonesia, torna il terrore Tsunami  +++

martedì  15  marzo  2005   sabato  12  marzo  2005   martedì  29  marzo  2005
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  La borsa di Shanghai crolla

I risparmiatori in difficoltà puntano tutto sul mercato immobiliare, al top dei prezzi. E 16 banche hanno dovuto concordare un giro di vite sui mutui. In Cina il mercato azionario è entrato nella sua "stagione-Enron": crac finanziari e tangenti.

31 Marzo 2005 01:33 Pechino (di Federico Rampini)

 

L´economia più dinamica del mondo e la Borsa più depressa: la Cina riesce ad avere i due record insieme. Da quattro anni detiene il primato mondiale con una crescita annua del Pil sempre superiore al 9%. Nello stesso periodo le due Borse locali - Shanghai per le grandi imprese e Shenzhen per le piccole - hanno chiuso in perdita. Questa settimana la frana ha raggiunto nuovi abissi, con l´indice di Shanghai ai minimi da sei anni, ridisceso ai livelli del maggio 1999.

La lunga crisi della Borsa cinese, quasi speculare al boom ininterrotto dell´economia reale, è diventata un problema di massa: il paese ha uno dei più alti risparmi del pianeta e una parte della liquidità del ceto medio è investita in azioni. Il primo ministro Wen Jiabao ha rivelato di aver commissionato un sondaggio su Internet attraverso Xinhuanet. com e la crisi dei mercati è arrivata al primo posto fra le preoccupazioni.

Gli economisti cinesi indicano varie cause per il calo dei listini negli ultimi mesi. La politica creditizia è diventata meno espansiva, perché il governo sta cercando di sgonfiare la bolla speculativa dei settori più surriscaldati come il mercato immobiliare. Le banche obbediscono. Questa settimana sedici banche di Shanghai (la città dove i prezzi del metro quadro hanno raggiunto punte estreme) hanno concordato un giro di vite sui mutui, escludendo dai prestiti chi rivende gli appartamenti entro un anno dall´acquisto. E´ una conferma di quanto sia sfrenata la speculazione in questo settore; ma è anche un segnale che il sistema creditizio stringe i freni, e anche la Borsa ne risente.

Un´altra causa contingente dei ribassi è l´imminente arrivo di un´ondata di nuove privatizzazioni - in particolare nel settore bancario - che finiranno col drenare liquidità penalizzando le altre società quotate; le quotazioni anticipano l´evento e si aggiustano al ribasso.

Queste cause congiunturali non spiegano però un declino che ha quattro anni di anzianità alle spalle, ed è iniziato molto prima che il governo prendesse misure contro le «bolle». Il comportamento deludente della Borsa è tanto più sorprendente, se confrontato con l´exploit messo a segno all´epoca della «crisi asiatica», quando il mercato cinese fu un rifugio di stabilità in mezzo al panico generale. Nell´ottobre 1997, mentre crollavano come birilli valute e Borse asiatiche (prima la Thailandia, poi Malaysia, Singapore, Indonesia, Corea del Sud), il listino azionario di Shanghai continuava a salire. Lo sosteneva l´inconvertibilità del renminbi, solidamente agganciato al dollaro e difeso con determinazione dalla banca centrale di Pechino. In quel frangente fu stridente il contrasto fra Shanghai e Hong Kong.

La piazza finanziaria dell´isola, ben più sviluppata e sofisticata, fu contagiata dal crollo generale e perse il 40% mentre quella di Shanghai guadagnava il 6%. Nel mezzo di quella crisi sembrò che le autorità cinesi potessero vincere una sfida ambiziosa: togliere a Hong Kong il suo ruolo finanziario e «riportarlo» a Shanghai che era stata la vera capitale economica fino all´avvento del comunismo. La chiave per spiegare questi quattro anni di declino, sta proprio nelle misure prese - o non prese - dal governo nell´ottica del sorpasso Shanghai-Hong Kong. Le autorità di Pechino inizialmente hanno scelto di allargare le dimensioni della Borsa nazionale con un massiccio afflusso di imprese pubbliche.

Queste ultime però non sono la parte più efficiente dell´economia cinese. Il settore statale continua ad annoverare grandi aziende decotte, «dinosauri» dell´era maoista che vivono di sussidi. Quotandosi in Borsa queste società non hanno favorito il decollo di Shanghai. Anzi, molti manager pubblici con l´avallo del governo hanno usato la Borsa come sostituto dei fondi statali. Si sono fatti sussidiare dal risparmiatore anziché dal Tesoro.

Intanto molti imprenditori giovani e competitivi prendevano la strada di mercati alternativi: la maggior parte andavano a quotarsi a Hong Kong, i più arditi al Nasdaq o al New York Stock Exchange. Anche perché nel frattempo il governo di Pechino non ha fatto le riforme più importanti: leggi a tutela degli azionisti di minoranza, regole di trasparenza, sanzioni contro il falso in bilancio, costruzione di autorità di vigilanza forti, di tribunali competenti sui reati finanziari. Un ritardo delle riforme forse non casuale né innocente: gli intrecci di affari e i conflitti d´interessi tra la nomenklatura comunista e la nuova borghesia capitalistica cinese sono noti.

Le conseguenze di questa inazione sono scoppiate negli ultimi mesi: la Cina è entrata nella sua «stagione-Enron», con una miriade di scandali che hanno messo a nudo le carenze strutturali delle sue Borse. I due casi più gravi hanno colpito due aziende di Stato in altrettanti settori chiave dell´economia. La China Aviation Oil - una società di trading incaricata di gestire gli approvvigionamenti petroliferi per le compagnie aeree nazionali - è stata travolta da un buco di 550 milioni di dollari, persi in speculazioni sui derivati, aggravato da insider trading perché il management ha raccolto un aumento di capitale nascondendo tutto agli azionisti.

Il fatto che questa società fosse quotata a Singapore non cambia la percezione dei mercati: gli ordini venivano da Pechino. L´altro scandalo ha colpito il 16 marzo la China Construction Bank, che ha dovuto licenziare il suo presidente per aver intascato tangenti. Ora il premier Wen Jiabao ha messo le riforme dei mercati tra le priorità del suo governo.

Forse un po´ tardi per rassicurare i risparmiatori cinesi. Chi non ha affatto bisogno di rassicurazioni, paradossalmente, sono gli investitori più sofisticati: gli stranieri. Il gruppo olandese Ing ha appena comprato il 20% della Bank of Beijing, incurante degli scandali. Per le multinazionali che vogliono essere sul mercato più dinamico del mondo, le quotazioni di Borsa non sono un criterio decisivo. 

 

 

 

 

  Anche Pechino ha paura della bolla

I dubbi dell’America sullo sviluppo asiatico: attenti al boom speculativo. Fa discutere il livello senza precedenti degli investimenti pubblici, pari al 45% del Pil. Memento: il crollo di Corea e Thailandia nel ’97.

28 Marzo 2005 - 18:58  Washington (di Ennio Caretto)

 

Sull’economia della Cina, con cui ha un deficit dei conti correnti record, 130 miliardi di dollari circa, l’America incomincia a nutrire qualche dubbio. C’è chi vede nel colosso asiatico non soltanto il futuro rivale economico, prima ancora dell’Ue, ma anche un pericolo per l’attuale stabilità finanziaria internazionale. Si parla di una «bolla cinese», una super-tigre che potrebbe crollare all’improvviso come le tigri Sud Corea, Thailandia e altre crollarono nel ’97, ma con conseguenze ben più gravi date le sue dimensioni.

Forse, dichiara l’economista Morris Goldstein, è un eccesso di pessimismo o d’invidia ma non è del tutto ingiustificato. Il giudizio «contro» scaturisce dal ritmo in teoria insostenibile dell’espansione economica cinese. Da qualche mese in America è aumentato il numero degli economisti ed esperti che ammoniscono che, a causa sua, la Cina potrebbe essere a rischio. A loro parere, il miracolo economico (anche l’anno scorso il prodotto interno lordo crebbe del 9,5%) non ha fondamenta molto solide: numerose grandi banche sono pericolanti, una parte dell’edilizia è nelle mani degli speculatori, e i consumi non crescono a sufficienza. Ieri il New York Times ha denunciato un’altra debolezza: gli investimenti pubblici in infrastrutture sono al livello di guardia, il 45% del Pil. Gli ammiratori di Pechino ribattono che lo Stato in Cina fa quello che fece in America negli anni 50: creare una rete stradale - nel 2020 supererà quella americana - e un sistema di centrali elettriche, fabbriche e miniere per promuovere il «boom» economico anche nelle province emarginate. Ma i critici osservano che l’offerta potrebbe superare presto la domanda, e comunque questi investimenti rendono sempre meno. Citano l’economista Xu Xiaonian della China Europe Business School di Shanghai: «Nel ’90, un dollaro investito in infrastrutture dava il 50% di reddito, adesso dà il 20%. Secondo Nicholas Lardy dell’Institute of International Economy, nessun Paese ha mai investito in infrastrutture quanto la Cina: il Giappone sfiorò il 40% del Pil ma è sceso al 30%; l’India si tiene sotto il 25%; l’America - che punta sui consumi come motore dell’economia - investe il 15%. Lardy è tuttavia d’accordo con Pechino che l’economia cinese debba crescere del 7% o più annuo per contenere la disoccupazione ed evitare disordini sociali, e che industrializzazione e modernizzazione richiederanno più anni di quanto si pensi: «I parametri normali non valgono». La leadership cinese ha dimostrato di essere consapevole dei potenziali squilibri, passando da un aumento del 27% nel totale degli investimenti statali nel 2004 a uno del 16% nel 2005, invitando sempre più capitali privati stranieri, incentivando i consumi interni, tutti indizi di un graduale cambiamento di strategia. Ma non ha abbandonato l’ancoraggio dello yuan al dollaro, come richiesto dall’amministrazione Bush, perché significherebbe rivalutarlo e nuocere alle esportazioni, né ha accolto gli altri suggerimenti americani. Il problema di Taiwan esploso di recente ha reso più improbabile che la Superpotenza di domani vada incontro a quella di oggi. 

Corriere della Sera

 

 

 

  Ma la Cina sosterrà l'America ?

La bilancia del commercio estero degli Stati Uniti, stando ai dati di gennaio, sembra avvalorare la profezia del miliardario americano Warren Buffett: potrebbe essere imminente un crollo del dollaro. Infatti il deprezzamento...

15 Marzo 2005 - 14:48 Milano

 

La bilancia del commercio estero degli Stati Uniti, stando ai dati di gennaio, sembra avvalorare la profezia del miliardario americano Warren Buffett: potrebbe essere imminente un crollo del dollaro. Infatti il deficit commerciale americano di gennaio (58 miliardi di dollari), risulta di un terzo superiore a quello del gennaio 2004. Le importazioni sono aumentate, le esportazioni sono rimaste ferme al livello di dicembre.

Il deprezzamento del dollaro non sembra sufficiente a migliorare la bilancia con l’estero degli Stati Uniti, che ha chiuso il 2004 con il deficit di 660 miliardi, il 6 per cento circa del prodotto lordo americano, sinora coperto da un abbondante flusso di capitali esteri. L’incremento delle importazioni è innanzitutto prodotto da merci provenienti dai paesi asiatici (soprattutto Giappone, Corea del Sud, Cina, Taiwan) che hanno agganciato la loro moneta al dollaro per poter continuare a esportare.

Ed è da questo che nasce il paradosso, che fa dire al professor Nail Ferguson sul New York Times Magazine: “La nostra moneta è il vostro problema”, riferendosi appunto a questi paesi. Il Giappone nel 2004 ha avuto un surplus commerciale di 160 miliardi e la sua Banca centrale ha minimizzato il rialzo dello yen sul dollaro reinvestendolo in titoli del Tesoro degli Stati Uniti. La Cina ha avuto un surplus commerciale di 40 miliardi di dollari e ne ha incassati altri 50 netti dagli investimenti esteri. E ha mantenuto invariato il cambio del remimbi con il dollaro, con acquisti di valuta americana da parte del suo ufficio cambi e delle banche: ormai è giunta a possedere 500 miliardi di dollari di riserve.

Se la sua moneta salisse di un terzo sul dollaro, le banche cinesi, in gran parte statali, contabilizzerebbero una perdita finanziaria pari al 10 per cento del prodotto lordo cinese. Molte subirebbero un crack. Continuare a investire in dollari per questi istituti è rischioso, visto che si sta deprezzando, ma non farlo comporta due effetti negativi: perdite ingenti nelle proprie riserve in dollari e difficoltà per le esportazioni a causa del rialzo della moneta nazionale. Dunque è improbabile che questi paesi smettano di sostenere il dollaro. Non è la loro moneta, ma è il loro problema. 

Il Foglio

 

 

 

+++  ANSA  +++  Dopo i rialzi degli scambi after hour, il prezzo del greggio continua a crescere in Usa  +++  ANSA  +++ 

martedì  01  marzo  2005   sabato  05  marzo  2005   lunedì  07  marzo  2005
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  Il super Hedge Fund delle famiglie USA

E´ del tutto evidente che in America si è in presenza di una gigantesca "bolla" speculativa. Gli americani sono dentro a un boom che essi stessi alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma dal quale sembra che non vogliano uscire.

 

Gli hedge fund, poco noti al grande pubblico (perché sono riservati ai grossi capitali), non godono in genere di buona fama. Li si accusa di essere troppo speculativi e troppo spregiudicati (e in effetti sono nati proprio per questo, per giocare pesante).

Adesso, si è scoperto che esiste un Hedge Fund (ignoto fino a pochi giorni fa) che in realtà è il più grande di tutti (forse addirittura di tutti gli altri messi insieme). Questo Grande Hedge Fund non ha un indirizzo e nemmeno un consiglio di amministrazione: infatti è costituito dall´insieme delle famiglie americane, che si comportano appunto come il più tremendo degli hedge fund.

La scoperta è stata fatta da alcuni analisti della banca Abn-Ambro, che si erano messi a studiare l´economia americana nel 2004. Quello che hanno trovato spiega molte cose sull´economia a stelle e strisce e lascia anche correre qualche brivido lungo la schiena.

Ma vediamo di che cosa si tratta. Nel corso del 2004 i cittadini americani, nonostante abbiano speso moltissimo (sono i loro consumi a aver tenuto a galla, in parte, l´economia mondiale), alla fine si sono ritrovati con un saldo positivo di 1200 miliardi di dollari (differenza fra il reddito e le spese).

E qui la partita potrebbe essere considerata finita, con soddisfazione di tutti. Ma non è così. Infatti i cittadini americani, non contenti di aver speso un sacco di soldi nel corso del 2004, hanno anche investito moltissimo. Si è calcolato che abbiano speso per investimenti 1600 miliardi di dollari.

Poiché nello stesso periodo avevano "risparmiato" (differenza fra redditi e spese) solo 1200 miliardi di dollari, è evidente che si sono ritrovati in rosso. Grosso modo per più di 300 miliardi di dollari (prima abbiamo un po´ arrotondato le cifre, per semplicità).

E qui comincia la storia del più Grande Hedge Fund del mondo. Dove hanno trovato infatti le famiglie americane i 300 miliardi di dollari mancanti per il loro bilancio 2004? Molto semplice: sono andati in banca e se li sono fatti dare. Cosa che le banche, peraltro, hanno fatto molto volentieri perché, se mai al mondo ci sono stati clienti solvibili, questi sono i cittadini americani, pieni come sono di case e di asset finanziari (cioè azioni e bond). Tutta roba buona e anche solida, sicura. E infatti, già che erano in banca, le famiglie americane non si sono limitate a farsi consegnare i 300 miliardi di dollari mancanti dai loro bilanci. Ma se ne sono fatti dare 1100, cioè 800 miliardi di dollari in più.

Ma per farne che cosa? Ottocento miliardi di dollari sono una cifra grossa. La risposta è sorprendente: con quegli 800 miliardi "extra" (presi a prestito dalle banche) i cittadini americani hanno comprato altri asset finanziari, oltre a quelli che già avevano, contribuendo così a sostenere i corsi di quelle azioni e di quei bond (già posseduti), sui quali si basa la loro solidità finanziaria.

Insomma, è come giocare a tombola conoscendo già i numeri che escono. Esattamente come fanno certi hedge fund, le famiglie americane prima hanno comprato dei titoli, poi si sono fatti dare dei soldi dalle banche per comprare ancora altri titoli, che infatti stanno su.

Questo gioco, naturalmente, comincia a diventare costoso. Se l´indebitamento delle famiglie americane era pari al 6,6 per cento del Pil nel 2002, nel 2003 è passato all´8 per cento e nel 2004 al 9,5 per cento del Pil. In sostanza, le famiglie americane sostengono i titoli che hanno già in portafoglio grazie a un indebitamento che cresce a vista d´occhio. E che non può non fare paura. E´ del tutto evidente, infatti, che si è in presenza di una gigantesca "bolla" speculativa, organizzata per di più in modo sistematico dal più Grande Hedge Fund "spontaneo" del mondo: le famiglie americane. E è anche chiaro che tutto questo potrebbe scoppiare da un momento all´altro con conseguenze terribili per tutta l´economia mondiale.

La cosa è talmente vistosa che anche la Federal Reserve (cioè la banca centrale americana) ha cominciato a spaventarsi, e ha varato una politica (annunciata a chiare lettere) di progressivo aumento del costo del denaro, proprio al fine di scoraggiare l´indebitamento crescente delle famiglie americane.

Ma, per ora, pare che non abbia avuto molto successo, visto che il quarto trimestre del 2004 (quando la politica di rialzo del costo del denaro era già stata annunciata e messa in pratica) è stato proprio quello che ha visto la maggior crescita dell´indebitamento delle famiglie negli Stati Uniti. Famiglie che sono dentro a un boom che esse stesse alimentano con indebitamenti vertiginosi, ma dal quale sembra che non vogliano uscire.

Ma la banca centrale continua nella sua politica e, prima poi riuscirà a far ragionare i suoi cittadini. A quel punto è evidente che ci sarà un calo nella domanda interna (consumeranno di meno e, forse, compreranno anche meno titoli) e proprio per questo la Federal Reserve sta facendo scivolare il dollaro, nel tentativo di recuperare all´estero quegli sbocchi alla produzione che si ridurranno all´interno (con danni evidenti per l´Europa, che farà più fatica a esportare oltre Atlantico).

E l´Europa (che sarà quella chiamata a pagare il prezzo più alto della stabilizzazione americana) che cosa può fare? Niente, anche perché non ha una politica e nemmeno una visione strategica. Sopporterà.  

 

 

 

 

  mercoledì  23  marzo  2005   venerdì  25  marzo  2005  
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La Federal Reserve non fa sorprese

Come ampiamente atteso dal mercato, la Federal Reserve ha alzato il tasso sui fed funds al 2.75%.

22 Marzo 2005 20:16 New York (ANSA)

Il biglietto verde si rafforza dopo la decisione presa ieri sera dalla Banca centrale americana di aumentare di 25 punti base il costo del denaro, che passa ora al 2,75%. Con questo rialzo, il settimo consecutivo, la Federal Reserve amplia il divario tra i tassi americani e quelli dell’Eurozona, dove il costo del denaro resta fermo al 2%.

Le attese, dunque, non sono state deluse e per i prossimi mesi la Fed assicura che continuerà con rialzi graduali.

Questa invece può essere considerata una sorpresa, nel senso che ieri negli ambienti economici balenava l’ipotesi che Greenspan, il presidente della banca centrale americana, avrebbe annunciato che dalla prossima riunione del Fomc (prevista per gli inizi di maggio) una politica monetaria più aggressiva.

Il che avrebbe potuto indurre la Banca centrale europea a ritoccare i propri tassi, spinta inoltre dal “relativo rilassamento” seguito all’accordo sulle modifiche al Patto di Stabilità. Modifiche che la Bce non ha apprezzato e che secondo alcuni economisti potrebbe appunto spingere Trichet e gli altri banchieri a “aumentare i tassi, forse a giugno”.

Tuttavia, da parte della Fed non c’è stata nessuna apertura a una politica più aggressiva e “a buon ragione”, commentano gli esperti, secondo i quali la “progressiva crescita dei tassi d’interesse porterà il costo del denaro al 3,75% a fine anno”.

Insomma, si procede con cautela ma si fa crescere il costo del denaro, d’altronde è l’unico modo per frenare la congiuntura e raffreddare l’economia statunitense; gli analisti infatti sostengono che gli americani spendono molto, risparmiano poco e sopratutto importano molto.

 

Fonte (ANSA)

 
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GR1 RAI - 22 MAR ore 19:15     MP3 (48 KB)
GR1 RAI - 22 MAR ore 22:00     MP3 (63 KB)

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  Gestori: Piazza Affari non è più favorita

15 Marzo 2005 - 00:24 Milano (di Sara Silano*)

*Sara Silano è Vicecaposervizio di Morningstar in Italia. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

 

Gestori meno ottimisti su Piazza Affari. Secondo l’ultimo sondaggio, condotto nella prima settimana di marzo da Morningstar tra 27 case di investimento che operano in Italia, il numero di manager che si attende un rialzo nei prossimi sei mesi è sceso al 65,2 dal 73,7% di febbraio. Per contro, sono tornati i pessimisti, pari al 17,4% degli intervistati (nessuno nella precedente rilevazione). Stabili al 74% i consensi per le Borse europee, ma il mercato preferito rimane quello giapponese, che salirà per poco meno del 78% dei gestori. Infine, sono aumentate rispetto al mese scorso le posizioni neutrali su Wall Street, passando dal 35 al 42%.

Eurolandia meglio dell’Italia

Dopo il rally di inizio anno, durato fino a metà febbraio, Piazza Affari ha invertito la tendenza, con una correzione più pronunciata rispetto alle altre Borse europee. Secondo i gestori, il mercato italiano crescerà nei prossimi mesi, ma meno del resto del Vecchio continente, in quanto entrerà in una fase di consolidamento. Inoltre, trattandosi di un listino difensivo, non è favorito in fasi di forte ascesa delle azioni.

I manager sono più fiduciosi sulle prospettive di rialzo delle altre Borse di Eurolandia, con appena il 7,4% degli intervistati che si attende un calo nei prossimi sei mesi. E’ convinzione diffusa che i titoli siano sottovalutati e la crescita dei profitti possa continuare, sostenuta dal rafforzamento della congiuntura. Inoltre, non è atteso un intervento restrittivo sui tassi da parte della Banca centrale europea almeno fino alla fine dell’anno, in quanto l’inflazione è sotto controllo.

Wall Street in ombra

Sono scesi sotto il 50% i consensi per la Borsa americana, anche se non sono aumentati i pessimisti, ma coloro che si attendono un’oscillazione attorno agli attuali livelli. I gestori sono convinti che Wall Street non offra spunti particolarmente interessanti, in quanto i titoli sono sopravvalutati e la crescita degli utili societari è stata inferiore rispetto ai mercati internazionali. Inoltre, prosegue la politica restrittiva della Federal Reserve e il ritmo di crescita economica è rallentato. Per contro, la Borsa giapponese è quella che per i gestori offre le migliori prospettive, per via delle attraenti valutazioni azionarie, della solida crescita degli utili e delle attese di miglioramento della congiuntura, dopo la debolezza degli ultimi trimestri.

Bond, prezzi ancora in discesa

A marzo è salita all’81,5% la percentuale di gestori che si attende un calo dei prezzi delle obbligazioni americane nei prossimi sei mesi (erano il 75% a febbraio). Sono aumentati, passando dal 60 al 63%, anche i fund manager che prevedono una discesa dei corsi sul mercato europeo. Quest’ultimo ha seguito la recente evoluzione dei titoli americani, anche se ha registrato un minor incremento dei rendimenti sulle scadenze lunghe. Le prospettive di aumento dei tassi di interesse inducono i gestori a rimanere corti di duration, in un’ottica prudenziale. Inoltre, i bassi spread (differenziali) tra governativi ed emissioni societarie non rendono appetibili le seconde.

Hanno partecipato al sondaggio 27 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80% degli asset gestiti in Italia. 

Fonte Morningstar.it

 

 

 

  giovedì  03  marzo  2005   venerdì  04  marzo  2005   sabato  05  marzo  2005  
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  Eurisko: pochi riferimenti autorevoli per investire

16 Marzo 2005 - 17:35 Milano

 

Scandali finanziari, pessimismo diffuso, dubbi amletici. I risparmiatori usano molte fonti informative per decidere come investire, ma avvertono sempre più la mancanza di riferimenti autorevoli. Questo è quanto emerge da una ricerca realizzata dall'Eurisko per conto di Assoreti, l'associazione delle imprese che collocano prodotti e servizi finanziari attraverso le reti di promotori.

Secondo tale indagine, la maggior parte dei risparmiatori italiani sono scarsamente consapevoli del grado di rischio dei propri investimenti, tendono a rinviare le decisioni sulle future necessita' previdenziali e conoscono poco o nulla del decreto sul risparmio. Il sondaggio, condotto su un campione di 1000 capifamiglia, indica proprio i promotori (indice del 48%) e gli agenti assicurativi (50%), insieme alla stampa specializzata (49%), come i riferimenti piu' soddisfacenti per decidere sui propri risparmi. Meno soddisfacenti gli interlocutori in banca o in posta (43%), la stampa generalista (23%), parenti o amici (30%). Le esigenze sono diverse: dalla maggiore semplicita' e chiarezza dei prodotti (lo chiede il 54% degli intervistati), alla disponibilita' di prodotti base a costi inferiori (48%), maggior consulenza dagli intermediari (44%), strumenti piu' in linea con i propri bisogni (43%).  Il disorientamento di fondo si rispecchia nella scarsa consapevolezza (48%) del grado di rischio del proprio portafoglio di investimenti. Inoltre, solo il 44% ha un'idea del rendimento atteso.

Insomma investire o non investire? Il rallentamento è causa oggettiva degli scandali che hanno coinvolto alcune grosse aziende italiane e per tale motivo molti hanno rinviato gli investimenti a data da destinarsi. Secondo gli esperti, i mercati sarebbero mossi da due tipi di emozioni: "greed", cioè l'avidità, e "fear", la paura. L'investitore saggio dovrebbe guardare al lungo termine e cercare di combattere un po' la paura. Una volta compreso il suo profilo di rischio non dovrebbe cercare di capire dove va il mercato, ma se la composizione del proprio portafoglio è quella giusta. In sostanza, il dibattito sull’esigenza di poter contare su regole che rendano meno speculativi e più sicuri i mercati finanziari e che, nello stesso tempo, educhino e garantiscano il risparmiatore è destinato ad alimentarsi sempre di più. Si tratta di regole di comportamento e/o di condotta che sono state imposte dal legislatore e dagli organi di controllo a tutti gli intermediari, nessuno escluso, tutte finalizzate alla tutela di quegli investitori che si aspettano dai professionisti, ai quali si rivolgono per la cura dei loro risparmi e dei loro investimenti, una adeguata competenza, professionalità, correttezza e diligenza .

Ma è soprattutto il vuoto informativo e una certa indecisione che confondono il risparmiatore. Qualche esempio? Quanto alla riforma previdenziale, il 54% ne ha sentito parlare, ma non sa di che cosa si tratta, il 34% invece la conosce. Sul che fare per il futuro, il 21% risponde che non lo sa, il 28% rimanda le scelte. Nebbia fitta infine per il decreto sul risparmio, conosciuto solo dall'8% del campione, mentre il 57% non ne ha mai sentito parlare e il 35% non ne conosce i contenuti. 

Fonte Miaeconomia.it

 

 

 

 

  Banche multate per Cirio e Argentina

18 Marzo 2005

A leggere i nomi si resta basiti. Si parte dal gotha del mondo bancario italiano: l’ad di Unicredit Alessandro Profumo, il presidente di Capitalia Cesare Geronzi e l’amministratore delegato di Intesa Corrado Passera.

Poi si passa a quello del mondo imprenditoriale: il fondatore della Parmalat Calisto Tanzi e i vari componenti dei cda bancari: Roberto Colaninno, Marco Tronchetti Provera, Sergio Pininfarina e i Benetton.

Ce n’è per tutti i gusti, insomma. L’inchiesta portata avanti dalla Consob e poi conclusasi con le sanzioni comminate dal Tesoro sui crac Cirio e Argentina hanno coinvolto alcuni dei personaggi più noti dell’economia italiana.

Certo le cifre non sono di quelle che possono far brindare i risparmiatori che hanno messo il loro soldi, sono circa 400 mila una cifra che si avvicina ai 10 miliardi di euro, in quei bond, ma si tratta di un provvedimento dal forte valore simbolico. La cifra complessiva è di 10,6 milioni di euro e sono coinvolte tutte le più grandi banche del Belpaese.

Dalla ex Banca di Roma a Carifirenze, da Ambroveneto-Cariplo e Comit, oggi tutte   confluite in Banca Intesa, a Unicredit (per la Cassa di risparmio di Torino), dalla Banca Popolare di Ancona al Sanpaolo Imi, fino a Banca nazionale del lavoro, Banca Agricola   Mantovana, Credem, Antonveneta. La decisione del Tesoro riguarda anche l’emissione dei tango-bond e coinvolge in questo caso Banca Intesa.

Le sanzioni sono state comminate ai componenti del cda e in solido alle stesse banche. E così la vera forza di questa decisione sta nel precedente che apre per le cause contro alle banche.

Anche perché l’atto di accusa rivolto dallo sceriffo della Borsa ai vari istituti parte dalla mancata conoscenza degli strumenti venduti e arriva fino alla mancata informazione verso la clientela. Proprio quei meandri in cui si muoveranno le cause avviate o ancora in fase embrionale per i risarcimento del popolo dei risparmiatori traditi dai bond.

Fonte Miaeconomia.it

 

 

 

 

 

 

 

  Risparmio: gli italiani ammettono l'ignoranza

24 Marzo 2005  Fonte Miaeconomia.it

 

Gli italiani hanno paura delle loro prospettive future. Si riconoscono poco competenti in materia finanziaria e di conseguenza nelle scelte di investimento si fanno influenzare esclusivamente dall’andamento delle performance.

Questi alcuni dei risultati più interessanti che emergono dall’analisi di due sondaggi presentati nel corso dell’assemblea annuale di Assogestioni, l’associazione che rappresenta le società di gestione del risparmio.

Le due ricerche sono state condotte da due colossi del risparmio gestito italiano:  Monte Paschi Am Sgr e Nextra Im Sgr (del gruppo Intesa). La prima ricerca presentata da Nicola Romito, presidente e amministratore delegato di Mps Alternative Investments Sgr, si è basata sui dati di raccolta netta mensili del sistema fondi e prendeva la suggestiva titolazione di “Pianificazione finanziaria o pura emotività”.

I numeri sviscerati da Romito hanno messo in evidenza come le scelte dei risparmiatori sarebbero fortemente influenzate dalle performance degli investimenti. Esisterebbe, insomma, una forte dipendenza della raccolta netta dalla performance storica.

Non vi sarebbe, quindi, una vera e propria pianificazione, ma propensione emotiva verso tutto quello che può sembrare più redditizio nel breve termine. Un approccio che non ha pagato. Analizzando, infatti, i flussi di raccolta negli ultimi 20 anni balza all’occhio che seguendo un metodo di lungo periodo e meno emotivo la clintela avrebbe potuto ottenere delle performance maggiori rispetto a quelle realmente conseguite.

”Risparmiatore consapevole?” E’  il titolo della ricerca realizzata da Giovanni Landi, responsabile asset management di gruppo Banca Intesa e vice presidente di Assogestioni che ne ha esposto i dati salienti.

Tra questi sicuramente la suggestione degli italiani che credono di non risparmiare sufficientemente rispetto a quanto risulta dalle statistiche. La percezione del risparmio è cioè inferiore a quanto rispettivamente si riesce a mettere da parte.

E poi, soprattutto la consapevolezza di avere modeste competenze finanziarie: in una scala da 1 a 10 si sono mediamente attributi un voto di 5,2. Allo Stato, alle banche e ai mass media il compito di colmare questo gap.   

 

Fonte Miaeconomia.it

 

 

 

  Risparmio: le regole USA ignorate in Italia

Così l´America ha reagito ai crac finanziari: punizioni record, severità con le banche. Per il falso in bilancio gli Stati Uniti prevedono un minimo di dodici anni di carcere, noi invece un massimo di tre anni (ma non succede mai).

06 Marzo 2005 - 18,47 New York (di Federico Rampini)

 

Il crac della Cirio scoppiò nella primavera 2003, quello della Parmalat nell´autunno 2003. Ci sono voluti quasi due anni dal primo, un anno e mezzo dal secondo, perché il legislatore italiano partorisse una "legge sulla tutela del risparmio" che, visti i tempi di gestazione, dovrebbe essere un capolavoro di perfezionismo. Gli americani di fronte a eventi simili sono stati più frettolosi.

Sono i primi di dicembre del 2001 quando, nell´America ancora prostrata dal dramma dell´11 settembre, va in bancarotta la società texana Enron, colosso dell´energia. Il fallimento distrugge il valore delle azioni in mano ai piccoli risparmiatori e azzera il fondo pensione dei dipendenti. Il bilancio della Enron si rivela un cumulo di bugie, con perdite occultate in società off- shore. A Wall Street lo choc è forte, di fronte alla facilità con cui un´impresa di quelle dimensioni è riuscita a ingannare i mercati. Nel clima di allarme gli investitori diventano sospettosi e altri scandali scoppiano a catena: Worldcom, Adelphia, Tyco.

Alcuni esperti americani in quella fase affermano che il danno delle bancarotte è "peggio dell´11 settembre". L´affermazione, per quanto pesante, non è del tutto infondata: l´attacco alle Torri gemelle provoca un tracollo selvaggio ma breve negli indici azionari, e i capitali tornano in Borsa non appena risulta che l´impatto macroeconomico dell´attentato non è irrimediabile; il clima di sfiducia verso le società quotate nel dopo-Enron rischia di provocare invece una emorragìa inarrestabile di risparmi.

Il fallimento della Enron ha anche una dimensione politica. Il numero uno della società texana, Kenneth Lay, è un amico di George Bush, è stato il principale finanziatore individuale della sua prima campagna elettorale, e un ascoltato consigliere del vicepresidente Dick Cheney per la stesura del piano energetico. Può esserci la tentazione di insabbiare, ammorbidire le pene, usare guanti di velluto. Lo stratega elettorale di Bush, Karl Rove, dà il parere opposto: con il risparmio degli americani non si scherza; il presidente non deve mostrare imbarazzo; la reazione deve essere durissima.

E´ quel che avviene. Da quel momento in poi, la sequenza degli avvenimenti in America è ricca di insegnamenti per la "tutela del risparmio". Bush all´inizio del 2002 denuncia i manager disonesti della ex-amica Enron. Il Congresso si è già mosso. Tre mesi dopo la bancarotta Enron è pronto il disegno di legge Sarbanes-Oxley (dal nome dei due parlamentari firmatari). La Casa Bianca lo appoggia. All´inizio dell´estate 2002, sei mesi dopo il crac Enron, la Sarbanes-Oxley è approvata da un vasto schieramento bipartisan.

Quella legge contiene un forte inasprimento delle pene per il falso in bilancio. Le sanzioni sono raddoppiate, il minimo è 12 anni di carcere contro un massimo in Italia di 3 anni per false comunicazioni. Le pene non sono spauracchi virtuali agitati per placare l´opinione pubblica.

Diversi protagonisti di quella stagione di scandali finiscono già dietro le sbarre nel 2003-2004 , il direttore finanziario di Enron Andrew Fastow patteggia dieci anni di carcere. Altri pagano multe elevate, come i 14 milioni di sterline sequestrati al capo di Vivendi; il miliardo e mezzo di dollari di risarcimento ai piccoli azionisti imposto a WorldCom). Tutti gli amministratori delegati delle società vengono obbligati a "rifirmare" i bilanci delle loro imprese per garantirne la correttezza. Può sembrare superfluo, in realtà questa nuova firma aggiunge un particolare peso di responsabilità personale alla luce della Sarbanes-Oxley. Dopo aver rifirmato nessuno può dire "non sapevo", nessun chief executive può tentare di sottrarsi alla sanzione penale e patrimoniale in caso di irregolarità nei conti.

La Sarbanes-Oxley è solo un anello nella catena di reazioni provocate dagli scandali finanziari. La sequenza delle contromisure prese negli Stati Uniti è più lunga. E´ fulmineo lo smantellamento e la scomparsa di Arthur Andersen, la società di certificazione dei bilanci che ha garantito i conti della società texana contribuendo a ingannare i mercati. Un nome antico e importante, uno dei cinque maggiori gruppi mondiali nella revisione dei conti, viene ghigliottinato senza esitazione. Si crea una authority per esercitare il controllo sui revisori dei conti. Si proibisce a queste società di auditing di offrire consulenze. La stesura dei bilanci viene sottoposta a norme più stringenti, i margini "interpretazione" delle regole vengono ridotti. I tempi di comunicazione dei conti al mercato vengono accorciati di un terzo. I dirigenti delle società quotate devono rivelare più rapidamente le compravendite di azioni proprie.

L´etica degli affari fa la sua parte. Senza aspettare i verdetti dei tribunali le banche americane licenziano i tre più celebri analisti finanziari, le star di Wall Street che consigliavano i risparmiatori: Quattrone, Grubman, Blodget. Perde il posto il grande capo dell´autorità di vigilanza, il presidente della Sec Harvey Pitt, pur essendo stato un "protetto" di Bush. La stessa fine tocca al presidente del New York Stock Exchange, Richard Grasso. Si scatena in parallelo l´azione della magistratura.

In particolare si distingue il procuratore generale di New York, Elliot Spitzer. Incastra per conflitto d´interesse tutte le grandi banche americane - da Citigroup a Merrill Lynch - colpevoli di aver rifilato ai propri clienti titoli-bidone, e le colpisce con multe record da 1,8 miliardi di dollari. Si fa anche un po´ di giustizia-spettacolo, mandando in carcere la star Martha Stewart, regina delle trasmissioni tv per casalinghe, condannata per insider trading: i magistrati teorizzano apertamente che la celebrità è un´aggravante. Nessuno contesta le loro sentenze.

Negli Stati Uniti non esiste la modica quantità nel falso in bilancio, cioè quell´attenuante inserita nella legge italiana sulla tutela del risparmio che introduce il reato veniale di "falsetto" (se i dati truccati rappresentano una piccola parte del fatturato aziendale). Non esistono negli Usa i fantasiosi indicatori della normativa italiana - il crac in percentuale del Pil, la quota di popolazione ingannata - per stabilire se ci sia danno grave per i risparmiatori.

Gli Stati Uniti hanno stretto la vite a tal punto, che dopo l´entrata in vigore della Sarbanes-Oxley diverse società straniere hanno rinunciato a quotarsi a Wall Street per non dover passare esami di trasparenza così severi. Qualcuno si è allarmato, perché questo "eccesso" di rigore può danneggiare la piazza finanziaria di New York a vantaggio di Borse straniere. L´America preferisce correre questo rischio, pur di ristabilire la fiducia dei suoi risparmiatori.

Negli Stati Uniti l´Antitrust ha competenza anche sulle banche, che non hanno un "giudice speciale" a loro riservato. Anzi, si può arrivare al paradosso che una fusione tra due grandi aziende americane - banche incluse - finisca sotto il mirino sia dell´antitrust americano che di quello europeo; mentre un´operazione tra banche italiane sfugge al controllo di Bruxelles. Con il risparmio non si scherza, lo ha riconosciuto anche "l´amico George W." Il risparmio degli americani, s´intende.  

 

La Repubblica