L'€uro
sarà la valuta guida
01 Aprile 2008 NEW YORK -
di Jeffrey Frankel
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The International Economy ha
rivolto una domanda ad alcuni esperti: tra dieci anni, quale sarà la
grande moneta globale? La mia risposta è che potrebbe essere l’euro.
Contrariamente a ipotesi popolari negli anni 90,
yen e marco non
hanno avuto la possibilità di sfidare il dollaro quale moneta di
riferimento: le economie interne erano più piccole di quella Usa e i
loro mercati finanziari meno sviluppati e liquidi di quello di New
York. L’euro, invece, è uno sfidante credibile:
Eurolandia è grande
pressappoco come gli Stati Uniti e l’euro ha dimostrato di essere
una migliore riserva di valore del dollaro.
A dire il vero, i rapporti di forza tra le valute internazionali
cambiano molto lentamente. Sebbene gli Stati Uniti abbiano superato
il Regno Unito per dimensioni dell’economia nel 1872, per
esportazioni nel 1915 e come creditore netto nel 1917, il dollaro
non ha sorpassato la sterlina quale moneta internazionale numero uno
fino al 1945. È perciò necessario tener conto degli sfasamenti. Nel
2005 quando con Menzie Chinn abbiamo utilizzato dati storici sulle
riserve di valuta straniera delle banche centrali per stimarne i
determinanti, anche i nostri scenari più pessimisti non indicavano
un sorpasso dell'euro sul dollaro fino al 2022: allora non avremmo
potuto dire che il dollaro sarebbe stato detronizzato "entro dieci
anni".
Ma il dollaro ha continuato a perdere terreno e noi abbiamo
aggiornato le nostre stime. In particolare, per riconoscere che
Londra sta usurpando il ruolo di Francoforte quale capitale
finanziaria dell’euro. E ciò nonostante il fatto che il Regno Unito
resta fuori dall’Unione monetaria. Le nostre stime ci dicono ora che
il punto di svolta potrebbe arrivare entro l’orizzonte dei dieci
anni: l’euro potrebbe sorpassare il dollaro già nel 2015.
Perché tutto ciò è importante? In
parte, per ragioni economiche: gli Stati Uniti perderebbero
l’esorbitante privilegio di poter finanziare facilmente i loro
deficit internazionali. Ma ci sono anche alcune possibili
implicazioni geopolitiche.
In passato, i deficit degli Stati Uniti si sono potuti governare
perché gli alleati erano pronti a pagare un prezzo per sostenere la
leadership mondiale americana: giustamente, l’hanno considerata nel
loro interesse. Negli anni Sessanta, la Germania è stata disponibile
a compensare le spese per le truppe americane di stanza nel paese
per salvare gli Usa da un deficit di bilancia dei pagamenti.
Purtroppo, nel 2001, proprio quando i deficit gemelli degli Stati
Uniti sono riemersi, in gran parte del mondo, gli Usa hanno perso la
simpatia popolare e il sostegno politico: agli occhi di molti la
nazione egemone ha perso i diritti di legittimità. In netto
contrasto con le rilevazioni condotte all’inizio del secolo, i
sondaggi internazionali indicano ora che gli Stati Uniti sono visti
in una luce sfavorevole nella maggior parte dei paesi. La prossima
volta che gli Stati Uniti chiederanno alle altre banche centrali di
salvare il dollaro, troveranno la stessa disponibilità che hanno
trovato in Europa negli anni Sessanta o in Giappone alla fine degli
anni Ottanta, dopo l’accordo del Louvre? Temo di no.
Il declino della sterlina nel corso della prima metà del Ventesimo
secolo rientrava in una trama più ampia, che ha visto il Regno Unito
perdere via via il suo predominio economico, le colonie, la forza
militare e altri simboli di egemonia internazionale. E proprio
mentre qualcuno si chiede se gli Stati Uniti non abbiano già
intrapreso un percorso di "eccesso di imperialismo" che li
porterebbe a ripercorrere le orme dell’impero britannico sulla
strada di deficit di bilancio sempre più grandi e di avventure
militari eccessivamente ambiziose nel mondo islamico, la sorte della
sterlina è forse un utile avvertimento. La crisi di Suez del 1956 è
spesso ricordata come il momento in cui la Gran Bretagna fu
costretta dalle pressioni americane ad abbandonare quel che restava
dei suoi progetti imperiali. Ma andrebbe anche ricordata
l’importanza che ebbe un attacco alla sterlina simultaneo alla
decisione del presidente Eisenhower di soccorrere la moneta in
difficoltà attraverso un intervento dell’Fmi solo a patto che gli
inglesi ritirassero le truppe dall’Egitto.
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Fonte -
www.lavoce.info |
CAMBI:
ROACH (MORGAN ST.), IL DOLLARO RESTERA' ANCORA DEBOLE
04 Aprile 2008 13:01 CERNOBBIO (COMO) -
di Ansa
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Di fronte alla forte
debolezza manifestata negli ultimi sei anni e, in
particolare, negli ultimi otto mesi, il dollaro potrà vivere
un periodo di ripresa, nel prossimo futuro, prima di tornare
a calare e mantenersi sostanzialmente debole. A sostenerlo è
l'economista e presidente di Morgan Stanley Asia, Stephen
Roach.
"Il dollaro - ha osservato nel corso di una conferenza
stampa a margine del workshop Ambrosetti - è debole e in
discesa da sei anni, tuttavia esistono due elementi che lo
possono sostenere. Il primo è che la debolezza economica
degli Stati Uniti sia diffusa, il secondo è che in fase di
recessione i risparmi delle famiglie america tornino a
crescere" facendo diminuire il disavanzo e, quindi, facendo
diminuire "la pressione" sul biglietto verde. "Non sono mai
stato un sostenitore del dollaro forte - ha proseguito Roach
- ma devo ammettere che negli ultimi otto mesi" ha raggiunto
livelli estremamente bassi. Guardando al prossimo futuro, ha
concluso, "é probabile che la tendenza si inverta" quanto
meno per un breve periodo: "penso che il dollaro si
riprenderà e poi tornerà a calare".
Guardando alla
situazione economica internazionale, Roach ha poi aggiunto
che "non sono abbastanza intelligente da poter prevedere se
il peggio della crisi è stato superato. Se anche fosse - ha
aggiunto - ci sono ancora effetti collaterali che sentiremo
nel prossimo futuro". In particolare, ha sottineato
indicando cinque punti, "lo scoppio della bolla del credito
e immobiliare degli Stati Uniti la quale, conseguentemente,
avrà i suoi effetti anche in Asia e in Europa".
Poi, ha proseguito, "il ciclo globale in calo" farà sentire
i suoi effetti "negativi" sul settore finanziario e del
credito e, ancora, "la frenata nella crescita globale" si
farà sentire anche sulla "richiesta di commodities" che
subirà "un indebolimento". In ultima istanza, gli effetti
collaterali, secondo Roach, si faranno sentire anche sul
fronte politico poiché "la risposta della politica sarà
quella di una crescita del protezionismo in particolare di
una nuova ondata protezionistica negli Stati Uniti.
Fonte - ANSA
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UBS:
per l'immobiliare USA una crisi
drammatica
02 Aprile 2008 LUGANO -
di
Alfonso Tuor
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Siamo al terzo ma molto
probabilmente non all’ultimo atto della disastrosa avventura di
UBS nel mondo dei finanziamenti al mercato immobiliare
americano, che per il momento comporta perdite complessive per
37 miliardi di franchi, un nuovo aumento di capitale di 15
miliardi di franchi e le dimissioni di Marcel Ospel, ossia
dell’uomo che era di fatto diventato la bandiera dell’istituto
nato dalla fusione tra SBS e la vecchia UBS. Le misure
annunciate rischiano comunque di non essere sufficienti per
mettere la parola fine alle tribolazioni della maggiore banca
svizzera. Ma procediamo con ordine.
Le svalutazioni e le perdite di circa 19 miliardi su titoli
collegati con il mercato immobiliare americano e su crediti
strutturati sono impressionanti, tanto più che si aggiungono ai
18 miliardi di perdite già denunciate l’anno scorso. Se si
considera che UBS chiuderà il primo trimestre con una perdita
netta attorno ai 12 miliardi, si possono trarre due conclusioni.
In primo luogo, anche il bilancio dell’intero 2008 si chiuderà
nelle cifre rosse; in secondo luogo il rosso del primo trimestre
intacca pesantemente i mezzi propri della banca, che non a caso
ha dovuto contemporaneamente annunciare un aumento di capitale
di 15 miliardi, la cui urgenza è confermata dal fatto che è già
stato interamente sottoscritto da quattro banche (JP Morgan,
Morgan Stanley, BNP Paribas e Goldman Sachs). In parole povere,
UBS si è trovata nella condizione di non poter aspettare i tempi
«relativamente lunghi» della ricapitalizzazione sul mercato e di
dovere garantire immediatamente la disponibilità di questi
capitali. Ciò è stato fatto dalle quattro banche menzionate, che
naturalmente non partecipano gratuitamente all’operazione.
Questo è il secondo aumento di
capitale: il primo, di circa 13 miliardi, era avvenuto l’anno scorso
con la sottoscrizione di obbligazioni convertibili obbligatoriamente
da parte di un fondo statale di Singapore e da parte di un anonimo
investitore arabo. Quindi vi è un’ulteriore diluzione di capitale
per gli azionisti UBS, che hanno già visto l’azione scendere sotto i
30 franchi.
Ieri non è stata comunque posta la parola fine a questa vicenda. Il
costo complessivo dell’avventura in terra americana, già a tutt’oggi
molto elevato, rischia alla fine di risultare ancora più salato. I
motivi sono numerosi: ci limitiamo ai più evidenti. Innanzitutto
l’esposizione di UBS nei confronti dei titoli legati al mercato
immobiliare americano è stata ridotta, ma non azzerata. La stessa
banca ha sottolineato che l’esposizione collegata ai mutui subprime
è diminuita da 27 miliardi di dollari a 15 miliardi e quella
relativa ai mutui Alt-A (quelli a tasso fisso per un periodo
iniziale) è stata ridotta da 26 miliardi a 16 miliardi. La banca ha
inoltre annunciato che creerà un’unità speciale (una specie di «bad
bank»), dove verranno collocati questi titoli con l’obiettivo di
ridurre progressivamente l’esposizione dell’istituto.
Le perdite dovute ai titoli collegati con il mercato immobiliare
americano sono tuttavia solo una parte delle posizioni a rischio.
UBS, come le altre banche attive nell’investment banking, non ha
scommesso solo sulla cartolarizzazione dei mutui ipotecari, ma è
esposta in numerosi altri campi che oggi la crisi finanziaria ha
reso estremamente rischiosi, come le linee di credito agli Hedge
Funds, i prodotti strutturati, le assicurazioni sui crediti, i
crediti ponte alle operazioni di Private Equity, ecc.
L’esposizione
sul mercato immobiliare americano è quindi solo una parte, e
probabilmente non la più importante, del complesso delle posizioni a
rischio. E’ dunque prevedibile che se non ritornerà la calma sui
mercati e soprattutto se non verrà superata questa grave crisi
finanziaria, da UBS, come dagli altri istituti, proverranno altre
sgradite sorprese. E’ dunque di difficile comprensione il rimbalzo
registrato ieri dal titolo in borsa. Probabilmente è da leggere come
un segnale di sollievo per avere scampato pericoli ancora maggiori.
Questa vicenda ha comunque
prodotto anche danni che non possono essere contabilizzati. Il
marchio UBS ha indubbiamente subito un pesante danno di immagine sia
in Svizzera sia all’estero. Ma forse c’è di più. Le traversie
dell’istituto leader a livello mondiale nel settore della gestione
patrimoniale hanno molto probabilmente
intaccato anche l’immagine di
sicurezza dell’intera piazza finanziaria svizzera. Non sorprende che
di fronte ad un bilancio così negativo, Marcel Ospel abbia dovuto
rassegnare le dimissioni. Sorprende invece che alla guida di un
istituto in difficoltà venga proposto un uomo, Peter Kurer, che ha
diretto il dipartimento legale e di compliance. Forse è il segno dei
tempi. Dopo le spericolate avventure degli «uomini di mercato»,
occorrono oggi legali in grado di confrontarsi con regole nuove e
soprattutto con autorità di sorveglianze destinate ad essere molto
più severe. E’ un ulteriore segno che questa crisi è destinata a
sancire la fine degli eccessi del sistema finanziario e soprattutto
della nuova ingegneria finanziaria.
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Fonte -
Corriere del Ticino |
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Mercoledì
09
aprile 2008 |
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Mercoledì
09
aprile 2008 |
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Giovedì 10
aprile 2008 |
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BERNANKE:
LA RECESSIONE IN AMERICA E' POSSIBILE
02
Aprile 2008 15:33 NEW YORK - di Ansa
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Intervenuto al Joint Economic Committee, il capo della Fed,
Ben Bernanke, ha fornito un aggiornamento sulle condizioni
economiche e sulle prospettive per i prossimi mesi,
affermando che la Fed continuera' a vigilare perche' ha
imparato "la lezione degli anni '30, quelli della Grande
Depressione''.
Il capo della Banca Centrale Usa ha evidenziato come i
mercati finanziari continuino a rimanere sotto un
considerevole stress, un fattore che potrebbe contribuire ad
un rallentamento della crescita del Pil, senza escludere la
possibilita’ di una contrazione durante il primo semestre. E
nei prossimi trimestri gli Usa subiranno un'ulteriore
contrazione del settore delle costruzioni.
Il rischio al ribasso e’ ancora presente, la recessione e’
"possibile" ha affermato Bernanke. L’inflazione, come piu’
volte sottolineato, dovrebbe comunque diminuire nei prossimi
mesi.
Riguardo al sistema finanziario, Bernanke ha affermato che
la Federal Reserve sara’ piu’ vigile sulla regolamentazione,
nel tentativo di evitare un nuovo caso come quello di Bear
Stearns. Lo scorso 13 marzo, la nota banca d’investimento di
New York aveva comunicato alla Fed il possibile ingresso nel
processo di amministrazione controllata (Chapter 11) a causa
di un forte deterioramento delle posizioni di liquidita’.
Il presidente Fed ha detto di non attendersi che si ripeta
una crisi delle istituzioni finanziarie come quella che ha
colpito Bear Stearns. Lo sforzo della Fed in questo momento
- ha aggiunto - e' volto a spingere banche e istituzioni
finanziarie a rafforzare la propria capitalizzazione. "Il
mercato è troppo fragile ora per far fallire Bear Stearns",
ha aggiunto Bernanke intervenendo ancora sul salvataggio
della banca d'affari americana. L'azione condotta "é servita
a preservare il sistema" ha sottolineato il presidente della
Fed. A chi gli chiedeva se la Fed potrebbe di nuovo
intervenire per supportare qualche altra banca o istituzione
finanziaria, Bernanke ha detto di non poter rispondere. Sul
caso Bear Stearns, inoltre, Bernanke ha precisato che il
rischio che si è assunta nell'operazione è molto inferiore
ai 29 miliardi, la cifra che la Fed presterà a Jp Morgan per
facilitare la buona riuscita dell'operazione.
"Abbiamo ancora munizioni monetarie". Così Bernanke ha
risposto al congresso sulla politica monetaria condotta
dalla Fed, che ha ridotto in modo deciso i tassi di
interesse per aiutare l'economia a far fronte alla crisi.
"Abbiamo dato un importante contributo - ha affermato
riferendosi al taglio dei tassi di interesse -. Abbiamo
ancora munizioni monetarie". Bernanke sembra così
aprire la porta a un nuovo possibile taglio dei
tassi.
Con le sue dichiarazioni al Congresso, Bernanke ha
riconosciuto per la prima volta che gli Usa rischiano la
recessione. "A questo punto appare probabile che il prodotto
interno lordo non crescerà molto, sempre che cresca, e
potrebbe anche contrarsi leggermente nella prima metà del
2008", ha detto il presidente della Fed.
Anche se la Fed si
aspetta che l'economia torni al suo tasso di crescita di
lungo termine nel 2009, "alla luce delle recenti turbolenze
nei mercati - ha aggiunto Bernanke - l'incertezza che grava
su questa previsione è piuttosto alta, e i rischi continuano
ad essere al ribasso". Bernanke ha poi detto di attendersi
un tasso di disoccupazione "un po' più alto", spiegando che
l'inflazione é 'una preoccupazione'', anche che ci si
attende una moderazione. La Fed ha ridotto i tassi
drasticamente a partire da settembre.
Stiamo facendo del nostro meglio per determinare il miglior
livello dei tassi di interesse per promuovere la stabilità
dei prezzi e dei mercati, ha aggiunto il presidente della
Fed. "Lavoriamo per stabilizzare l'economia e il sistema
finanziario. Il mercato immobiliare resta un'area critica
che ha conseguenze sia sull'economia reale sia sul sistema
finanziario". Nel corso del suo intervento, Bernanke ha
precisato che "un aumento delle tasse nel breve termine
potrebbe far crescere le preoccupazioni per l'economia,
visto che ridurrebbe il reddito a disposizione e, di
conseguenza, i consumi".
Sul coordinamento delle banche centrali per fronteggiare la
crisi dei mercati finanziari, Bernanke ha detto: "La visione
della Bce su un rafforzamento della propria capitalizzazione
da parte di banche e istituzioni è in linea con quella della
Fed", definendo "molto incoraggiante" l'aumento di capitale
di Ubs. Bernanke ha comunque evidenziato che Ubs è una banca
svizzera e, di conseguenza, è di competenza delle autorità
svizzere. Bernanke non ha escluso un pressing della Fed per
spingere le banche a rafforzare il proprio capitale. "Il
nostro sistema bancario - ha aggiunto - è più aperto di
quello del Giappone degli anni '90''.
Fonte - ANSA
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L'ultima PUT
di Greenspan
03 Aprile 2008 ST.
LOUIS - di Alex Citanna e
Michele Boldrin
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L'ultima "put" di Greenspan la
stanno onorando Bernanke, Paulson ed il Congresso. Essa
consisterà, forse già consiste, nell'inflazione e nella
svalutazione del dollaro. Mentre il suo presunto obiettivo è
quello di stabilizzare i mercati finanziari fornendo ad essi
liquidità, per il momento sembra servire soprattutto al
salvataggio di coloro che per 15 anni hanno generato profitti
fasulli con giochetti finanziari; giochetti che ora sembrano
essersi rotti. Se le attuali politiche verranno mantenute ancora
per molto, il risultato sarà quanto descritto sopra oppure una
stagnazione prolungata, o entrambe le cose; non vi è realistica
alternativa.
Non dovrebbe essere necessario sintetizzare i fatti; ma lo
faremo lo stesso. Durante gli ultimi sette mesi la Federal
Reserve Bank degli Stati Uniti ha spinto il Federal Funds rate (FFr)
a valori reali negativi. Ora offre alle banche d'investimento
americane di scambiare i loro titoli dal valore incerto per
titolo del Tesoro; allo stesso tempo ha anche mediato
l'acquisizione di una banca da parte di un altra.
Lo "stimolo
federale", approvato da entrambi i partiti e
dall'amministrazione Bush, è in corso: ai contribuenti americani
vengono spediti assegni di importi variabili, per un valore
totale di circa l'1% del PIL.
Ci chiediamo: questo pacchetto di interventi è sensato, data la
natura della crisi? Apparentemente, lo è: la maggior parte dei
commentatori applaude queste scelte. I pochi critici sono per la
maggior parte commentatori da sempre ostili al mercato, alla
concorrenza, al capitalismo ed alla globalizzazione a cui
attribuiscono tutti i mali, dalle crisi finanziarie alla
diarrea. Tra gli esperti, il consenso unanime è che queste
scelte siano corrette. Proviamo a dissentire. Oggi illustriamo
le ragioni del nostro disaccordo; la prossima volta discutiamo
di politiche alternative.
Ci sono tre componenti delle politiche adottate: lo stimolo
fiscale, il taglio dei tassi d'interesse e lo swap di titoli.
Stimolo fiscale -
Sta ricevendo scarsa attenzione: la maggior
parte dei commentatori sconta la sua natura elettorale. Peccato,
perché, fino ad ora, l'incentivo fiscale è il braccio più
costoso della strategia di intervento. Aumentare il reddito
disponibile del 90% delle famiglie americane di un 1,5% non farà
alcuna differenza sulla crisi delle ipoteche, ma
aumentare il
debito pubblico di un altro punto di PIL segnala che la
strategia di affrontare i problemi finanziari accumulando nuovo
debito non è stata ancora abbandonata.
Nessuno - con l'eccezione di Paul Krugman: GWB e PK sono per una
volta dallo stesso lato - sostiene che la recessione è dovuta ad
un improvviso calo della domanda aggregata. Al contrario, la
crisi è dovuta a un prolungato eccesso di domanda di alloggi,
alimentato da una straordinaria quantità di credito messo a
disposizione a basso prezzo dalla Fed. Tale eccesso di domanda
ha spinto i prezzi delle abitazioni al di sopra del livello che
una frazione sostanziale delle famiglie americane può
permettersi, dato il reddito attuale e quello previsto. In altre parole,
la crisi è dovuta
ad una "inflazione localizzata" causata dalla combinazione di
credito a go-go della Fed ed innovazioni finanziarie del settore
bancario. Poiché i prezzi nominali di un certo numero di attività
finanziarie e reali sono completamente slegati dai loro rendimenti
futuri - e poiché il reddito nominale è troppo basso per fornire le
risorse necessarie a servire il debito con cui tali beni sono stati
acquistati - qualcosa deve cedere. O il valore nominale di tali beni
diminuisce - attraverso una deflazione dei prezzi dei titoli e delle
case - o il reddito nominale cresce molto rapidamente - attraverso
un'inflazione generalizzata.
Lo sgonfiamento della bolla immobiliare sta provocando un forte
rallentamento della crescita economica reale.
Questo accade perché
la realizzazione che i prezzi avevano superato il livello che gli
acquirenti potevano permettersi ha avuto luogo dopo che la
produzione delle case era già stata completata o, almeno, iniziata.
Le risorse reali così investite sono quindi state sprecate: essi
hanno prodotto merci che la gente non vuole o non può permettersi.
Di conseguenza, i proprietari di tali risorse ricevono pagamenti
molto più bassi di quanto previsto. Da questo la recessione: le
attività devono essere svalutate e le risorse (fattori di
produzione) devono dirigersi verso beni che le famiglie e le imprese
vogliono, e che possono permettersi. Anche supponendo che l'aumento
del potere d'acquisto suppostamente prodotto dallo stimolo fiscale
non venga spazzato via da un aumento dei prezzi della stessa
proporzione, non è certo aumentando la domanda aggregata per
hamburger, scarpe, o biglietti d'aereo di circa l'1% che la
riallocazione delle risorse sopra descritta sarà meno dolorosa.
Più
importante: lo stimolo fiscale non può fare nulla per ridurre
l'impatto finanziario della crisi immobiliare.
Questa è dovuta al fatto che una parte delle famiglie americane non
possono permettersi l'acquisto delle case che volevano. Per una
famiglia inadempiente su un mutuo ipotecario di $ 200K-500K, $1000
in contanti una tantum non farà alcuna differenza.
Conclusione: lo
stimolo fiscale non è in grado di alleviare la crisi finanziaria, né
la recessione, ma solo far crescere un po' il debito pubblico.
Taglio dei tassi di interesse
-
Dai tempi di Greenspan, la moda è
quella di misurare l'utilità di tali interventi con i successivi
movimenti nel mercato azionario. Assicurazioni in senso contrario
lasciano il tempo che trovano: questo è oramai diventato il criterio
con cui i mercati finanziari, e in generale gli agenti economici,
interpretano e valutano le azioni della Fed. Poiché Ben Bernanke ha
anche scritto articoli che tentano di misurare tale impatto, questo
punto di vista è stato rafforzato da azioni come quella del 22
gennaio 2008.
Gli agenti economici oramai pensano che la Fed dovrebbe muovere i
tassi di interesse per evitare che il mercato azionario cada. Non
esiste alcun buon motivo economico per credere che questo sia
possibile, né il mandato del sistema della Federal Reserve è quello
di far crescere gli indici di Borsa.
La BCE, saggiamente a nostro
avviso, sta sostanzialmente ignorando i mercati azionari: la
stabilità dei prezzi è il suo obiettivo, non le plusvalenze di
borsa. In ogni caso, se dovessimo giudicare il successo della
politica della Fed da questo parametro, il verdetto sarebbe
bruttino. Nel corso degli ultimi sei mesi la Fed ha tagliato i tassi
sei volte, due delle quali potrebbero essere ragionevolmente
considerate "sorprese".
I corsi borsistici sono di circa
il 15% inferiori a quelli di sei mesi fa e non hanno intenzione di
recuperare in un prossimo futuro. Fino ad ora, l'unico effetto che
questi tagli sembrano aver avuto è quello di aumentare la
volatilità: relativamente grandi balzi il giorno dell'intervento, o
in quello successivo, seguiti da ancora più grandi cadute subito
dopo. La credenza che la Fed possa influenzare le quotazioni di
borsa attraverso i tassi a breve - e che li possa influenzare in
modo non effimero - poggia sull'idea che i movimenti dei tassi a
breve termine siano in grado di influenzare la percezione (per
quanto tempo?) o la realtà del rischio aggregato. Questa è
un'ipotesi ardita, che va ben oltre il consueto "trade-off
output-inflazione" e per la quale non vi è praticamente alcun
sostegno teoricamente coerente, per non parlare di prove empiriche.
Come una durevole riduzione del rischio complessivo possa essere
creata dal taglio di 300 punti base, ci sfugge. A meno che,
ovviamente, non si sia disposti a ritenere che le bolle 1997-2000 e
2002-2006 - con l'accompagnamento di chiacchiere accademiche
[citazioni omesse, per compassione] su "riduzione del rischio
globale", "grande moderazione" e "crescita permanente del valore dei
titoli" - siano le buone cose che la politica di credito facile ci
ha portato. In sostanza, e contrariamente all'opinione dominante,
abbiamo la sfacciataggine di credere che questa non sia la
spiegazione delle recenti scelte di Bernanke.
Un obiettivo più realistico può essere quello di fermare la crescita
dei tassi d'interesse ipotecari causata dalla politica post-2004.
Tale crescita è generalmente considerata come l’ago che ha fatto
scoppiare la bolla creata dalla politica di FFrs persistentemente
bassi che la Fed aveva precedentemente attuato, durante il periodo
2001-2004. Dato che questo non è il momento giusto per discutere nei
dettagli quel che ha provocato cosa (un giorno o l’altro dovrà
esserlo, però) lasciamo questo problema da parte e consideriamo solo
quale può essere il grado di successo nel raggiungimento di questo
obiettivo.
Un argomento ragionevole è il seguente: un aumento del FFr aumenta i
tassi di mercato sia a breve che a lungo termine. Siccome una quota
considerevole di ipoteche è finanziata a tassi variabili, tassi cioé
che vengono fissati di nuovo dopo poco tempo sulla base dei tassi
correnti a breve termine, questo aumento del FFr sta provocando
l'aumento dei tassi di default di cui siamo tutti vittime. Come
possiamo fermare l'emorragia che stanno causando mutuatari morosi?
Far crescere il reddito reale dei mutuatari del 10-15% è
impossibile, per cui cerchiamo invece di ridurre gli importi che
devono pagare. Se si abbassa abbastanza il FFr, i tassi ipotecari
(in particolare, quelli sugli ARMs) dovrebbero anche andare giù,
quindi alleviare la crisi del mercato ipotecario. Giusto? Forse, ma
non necessariamente.
Primo, la fissazione dei tassi variabili non avviene in tempo
continuo, ma solo a intervalli di tempo fissi che, a volte, sono
lunghi uno o due anni. Quindi, per almeno un anno dopo il taglio del
FFr, nessun sollievo arriverebbe per i mutuatari dal tasso di
interesse: quelli che sono stati inadempienti durante l'estate del
2007 lo sono ancora, e quelli i cui tassi ipotecari sono stati
cambiati nel corso degli ultimi sei mesi saranno di fronte agli
stessi tassi elevati. Inoltre, i tassi di mercato su cui gli ARMs si
basano non rispondono necessariamente uno-a-uno ai movimenti del FFr
(anche quando si tratta di tassi nominali a breve termine
l’aggiustamento del tasso della Fed NON è affatto onnipotente).
Ultimamente non lo fanno molto. Sono scesi, ma non tanto quanto l'FFr.
In altre parole, mentre la riduzione del FFr può in teoria sembrare
una fonte di sollievo per i mutuatari morosi, è chiaro che
quantitativamente l’effetto non è molto significativo. Il Libor o il
tasso a 1 anno a maturità costante del US Treasury sono diminuiti,
ma il credit spread su ciascuno di essi è aumentato di circa la
stessa misura, migliorando così la situazione solo lievemente e
certamente non in un futuro immediato. Infine, cosa più importante,
i tassi ipotecari sono ora allo stesso livello cui erano un anno fa
(talvolta superiore), e quindi non c’è possibilità di ottenere
vantaggiose offerte di ri-finanziamento grazie alla riduzione del
FFr della Fed. Il rifinanziamento a un tasso inferiore o il
passaggio dal rischioso ARMs a meno rischiosi mutui a tasso fisso
sarebbero soluzioni auspicabili e naturali per la maggior parte dei
mutuatari morosi, ma sembrano irragiungibili, per il momento.
In sintesi, mentre in teoria questo canale potrebbe avere un impatto
positivo sulle cause della crisi finanziaria, in pratica il suo
impatto è molto limitato: non fa danni, ma fornisce ben poco aiuto.
Ancora più importante: forse non è troppo poco (il tasso della Fed è
300 punti base più basso, dopo tutto), ma certo che arriva troppo
tardi. La qual osservazione porta alla domanda da 100 trilioni di
dollari : che diavolo era la giustificazione economica dietro
l’altalena selvaggia dei tassi d’interesse del 2001-2006?
C'è una terza motivazione per il taglio FFr: la curva di Phillips,
l'idea che con un po' d'inflazione cresce l'output, il sogno che non
muore mai. Poiché, tra macroeconomisti e teorici monetari, questa è
diventata più una questione di fede che di discussione razionale, vi
è ben poco da dire. Dal nostro punto di vista l'esperienza del
2000-2001 e quella attuale (per non parlare del 1991) mostrano che
la Fed non ha alcuna capacità pratica d'evitare una recessione
abbassando i tassi a breve: quali che siano le forze che la causano,
quando il termometro segnala la sua presenza la recessione è già in
corso.
Modelli basati sul presupposto dei prezzi rigidi (ingrediente
indispensabile per sostenere che una riduzione del tasso di sconto
possa evitare una recessione) continuano a fallire la prova
quantitativa: nessuno è stato, neanche remotamente, in grado di
produrre stime dei parametri d'uno qualsiasi di questi modelli che
implichino un qualche effetto benefico della politica monetaria. La
rigidità necessaria per rendere il trade-off empiricamente rilevante
è dell'ordine di 2 o 3 anni: ogni consumatore americano (o europeo,
o cinese, o messicano), di fronte a prezzi che se non cambiano
settimanalmente lo fanno giornalmente, troverebbe ridicola una tale
ipotesi. Ciononostante, la maggior parte dei macroeconomisti,
soprattutto coloro che lavorano presso la Federal Reserve
statunitense, prendono tale ipotesi molto sul serio: devono essere
troppo occupati a scrivere modelli con rigidità di prezzo per
permettersi il tempo di fare shopping.
Il paradosso di una professione che, a fronte di una recessione
dovuta al calo troppo rapido dei prezzi delle case in seguito alla
rottura di una bolla generata da un eccessivo abbassamento dei tassi
nominali a breve, sostiene che i prezzi rigidi sono la causa della
recessione e che quest'ultima sarà curata riducendo i tassi nominali
a breve termine!
Riassumendo: visibili successi?
Apparentemente nessuno. Per quanto possiamo vedere, l'unica cosa che
la politica della Fed ha raggiunto fino ad ora è quella di
spaventare l'opinione pubblica. Forse, gli effetti benefici della
politica di riduzione dei tassi saranno visibili in futuro. Forse,
se la Fed non avesse abbassato i tassi di interesse così tanto e
così rapidamente, le cose sarebbero già peggio. Questo è vero,
forse. Ma si deve osservare che la BCE non ha seguito la politica
della Fed ed in Europa le cose non vanno così diversamente dagli
Stati Uniti. Gli indici di borsa oscillano su e giù nel mezzo di una
generale tendenza negativa, ma sono meno in basso rispetto agli
Stati Uniti; alcuni paesi, Spagna e Italia quasi certamente, vanno
verso una recessione, ma la prima è andata crescendo per 14 anni
consecutivi, mentre la seconda sta diventando Argentina, quindi non
conta. Questo non significa dire che le cose in Europa vanno bene,
ma semplicemente che 300 punti base di tagli non hanno fatto una
differenza apparente per l'economia reale. Forse è giunto il momento
di guardare da qualche altra parte.
L'asset swap -
Nessuno sembra sostenere che TSLF e PDCF siano stati
istituiti per alleviare la recessione. Essi esistono, ci viene
detto, per salvare il sistema bancario evitando una crisi sistemica,
l'"effetto domino", il crollo dell'economia americana, e quindi del
mondo. Davvero? Anzitutto: il valore totale dei titoli del Tesoro
degli Stati Uniti nelle mani della Fed era, all'inizio della crisi,
3/4 di un trilione di dollari, ma ora è un po' meno. Alla loro
apertura, le due strutture hanno (max) $ 400 miliardi di titoli del
Tesoro disponibili; in pratica ne hanno circa $200 miliardi. Al 23
marzo, il valore nominale dei Credit Default Swaps sul mercato aveva
superato i $ 40 trilioni; JP Morgan e Citi insieme ne detengono più
di 10 trilioni. Quindi, se le parole "effetto domino" o "crisi
sistemica" intendono descrivere eventi come "il mercato dei CDS si
scioglie" perché "la fiducia dei banchieri" crolla, allora TSLF e
PDCF equivalgono a tentare di salvare New Orleans da Katrina dicendo
alla gente di aprire l'ombrello.
Se solo Citi diventa incapace di
servire il suo portafoglio di CDS, l'intera struttura di asset swap
verrà spazzata via. In altre parole, SE i teorici dell'"effetto
domino" parlano sul serio, ALLORA meglio che si preparino per una
nazionalizzazione del sistema bancario degli Stati Uniti. D'altro
lato, SE "prevenire l'effetto domino" è solo un altro nome per
"mantenere a galla gli amici di Wall Street", senza che i cittadini
lo capiscano, ALLORA TSLF e PDCF vanno benissimo.
Si argomenta anche: l'"effetto domino" funziona incrementalmente;
crolla prima una banca piccola e poi vengono giù le grandi di
conseguenza. Il controfattuale è evidente: SE non fosse stato noto
che la Fed avrebbe organizzato l'acquisto di BSC da parte di JP
Morgan (con il salvataggio di tutti i creditori di BSC), ALLORA la
crisi sistemica sarebbe avvenuta. Nessuno può contraddire tale
controfattuale, e quindi non ci proveremo. Prendiamo atto, però, che
mentre la crisi di BSC era in corso non vi è stato alcun sintomo di
panico tra i depositanti. La Fed ha mediato un buon affare per una
banca con la motivazione di evitare il crollo di un altra. La banca
"crollata" è valutata attualmente a circa $ 1,5 miliardi, mentre
l'entità che l'ha acquisita ha guadagnato circa il 20% in valore di
mercato.
Perché una banca centrale debba immischiarsi in questo tipo di
affari ci sfugge completamente, quindi lasciamo perdere e torniamo
ai controfattuali. Ci sono state, è vero, notizie preoccupanti su
Lehman e Goldman Sachs come le prossime candidate al fallimento.
Tuttavia, un paio di giorni dopo entrambe le banche hanno generato
un (temporaneo) rally bancario rivelando risultati migliori del
previsto.
Chiediamo: cosa previene le altre banche dal fare lo
stesso? Questa sembra essere un'altra domanda, se non da 100
trilioni di dollari almeno da 10 trilioni: la crisi ha ormai più di
un anno di età ; perché Fed ed SEC sembrano ancora incapaci di
produrre regolamentazione che forzi la rivelazione di informazioni
affidabili? Se sono la "paura", la "mancanza di fiducia" e
l'"informazione asimmetrica" generalizzata (le persone normali
dicono "bugie" o "trucchi"), ad impedire il buon funzionamento dei
mercati, non dovremmo aver iniziato un anno (o più) fa ad affrontare
QUESTI problemi? Apparentemente, quando l'informazione viene
credibilmente rivelata i mercati recuperano fiducia ed i problemi di
liquidità si attenuano anche senza alcun intervento salvifico da
parte della Fed; questo succede pure se l'informazione rivelata è
negativa.
Abbiamo capito che non è di moda parlare di "rischio morale" in
questi giorni; il rischio morale è solo un concetto teorico che la
gente pratica toglie di mezzo ogni qual volta la situazione diventa
difficile. Un argomento molto pratico (sostenuto, insieme con
l'intera Wall Street, anche da Lawrence Summers), è che la stabilità
del sistema finanziario è più importante, in circostanze drammatiche
come queste, di un pregiudizio tutto sommato ideologico quale il
rischio morale. Gli italiani ben ricordano Craxi che, mentre
aspirava una percentuale del PIL nel suo conto corrente ed in quelli
dei suoi amici, sentenziava primum vivere, deinde philosophari ...
Di fronte ad esperti di tale calibro, tutto ciò che possiamo fare è
inchinarci.
Tuttavia, teniamo a sottolineare che, ciò che è avvenuto dal 2002 in
poi e ci ha messo in questo pasticcio, è esattamente quello che
l'argomento teorico "rischio morale" avrebbe previsto come
conseguenza delle politiche adottate.
Il rischio morale, in altre
parole, non è solo un argomento teorico: è anche una triste realtà
della vita aziendale, in particolare intorno a Wall Street. Deve
esistere un punto nel tempo in cui decidere di pagare il prezzo e
lasciare che le aziende gestite da persone incompetenti, o
semplicemente fraudolente, falliscano al fine di stabilire un minimo
di reputazione ed evitare comportamenti fraudolenti futuri.
Apparentemente, per gli USA tale punto nel tempo non è ancora
arrivato, quindi tiriamo avanti.
L'attività di swap è giustificata se si ritiene che i titoli che ora
preoccupano le grandi banche possano avere più valore in un futuro
prossimo. Chiamiamo questa ipotesi "Scenario 1" e diciamo che, in
questo caso, è solo un problema di liquidità: gli investimenti sono
buoni o quasi, ma non vi è contante nel breve periodo a causa di uno
shock che non era previsto; pertanto i buoni investimenti devono
essere mantenuti in vita dalla Fed, che agisce in qualità di FDIC
delle banche d'investimento. [Per i bene addestrati: pensate a
Diamond e Dybvig JPE-1983 su grande scala. Kiyotaki e Moore, invece,
non funziona, per una varietà di ragioni che saremo lieti di
discutere se i commenti lo richiedono.]
Noi non riteniamo che questo sia
lo scenario più probabile. Perché? Evidente: se fossero buoni
investimenti, perchè i titolari di ipoteche in sofferenza ed i loro
finanziatori non provano a ricontrattare i termini del prestito?
Ricontrattare NON è vietato, quindi perché le due parti non trovano,
caso per caso, un modo per dividersi i futuri guadagni? Ad ogni
modo, facciamo finta che lo Scenario 1 sia coerente e probabile.
L'altra possibilità (la chiamano Scenario 2), è che stiamo tutti
collettivamente sognando: anche nei mesi a venire i cosiddetti
titoli saranno ancora dei quasi inutili pezzi di carta. O, almeno,
molti di loro lo saranno ancora. Consideriamo ora le implicazioni
d'ognuno dei due scenari.
Nello Scenario 1, si rinvia sine die la verifica (e la calibrazione
al mercato) di perdite che oscillano per alcuni attorno al trilione
di dollari (Goldman Sachs stima a 500 miliardi le perdite per soli
mutui), sperando che, alla fine, diventino minori. In realtà la Fed
sta scommettedo di poter "creare" Scenario 1, invece di prenderlo
come dato. La caduta può essere evitata se il mercato si convince
che questi titoli valgono di più: dobbiamo ripristinare la
"fiducia". In altre parole, Scenario 1 ha un senso se e solo se
siamo disposti a credere che la Fed è in possesso di poteri di
previsione e valutazione superiori, che le permettono di vedere
guadagni futuri dove l'insieme dei partecipanti ai mercati
finanziari non li vedono. È possibile?
In astratto questo è possibile. È probabile? Storia e teoria
economica suggeriscono che non lo è, nondimeno assumiamo che lo sia.
Si suppone, dunque, che la Fed ORA sia in grado di valutare i prezzi
delle case e dei titoli meglio dei mercati finanziari. Dovremmo
quindi spiegare il motivo per cui la Fed non è stata in grado di
fare lo stesso nel PASSATO, o non sarà in grado di farlo fra 2 anni.
Detto altrimenti: se crediamo che lo Scenario 1 sia ciò che rende l'asset
swap una buona idea, dobbiamo essere capaci di spiegare il motivo
per cui la Fed ne abbia indovinate ben poche nel corso degli ultimi
dodici anni. Per quale motivo non abbiamo delegato alla Fed la
fissazione dei prezzi delle attività finanziarie, durante gli ultimi
anni?
Paradossi? Certo, paradossali implicazioni del voler credere nello
Scenario 1. Il passato, però, è passato: sotto lo Scenario 1, che
cosa ci impedisce di concludere che, in futuro, il nuovo compito
della Fed consisterà nel prevedere i prezzi dei titoli e nel
decidere quali istituzioni finanziarie li devono detenere, e quali
no? Ancora una volta si giunge alla medesima conclusione: SE ciò che
la Fed sta facendo è sensato ALLORA si potrebbe anche prendere in
considerazione la nazionalizzazione dell'intero settore finanziario,
delegandone alla Fed l'esecuzione.
Lo Scenario 2, tuttavia, é il Giappone nel 1990, anziché il suo
contrario : la Fed interviene adesso per evitare a queste banche di
riconoscere almeno in parte le perdite che oggi ci sono e che non
potranno mai andare via.
In altre parole, la Fed interviene
esclusivamente per spingere verso il futuro il giorno della resa dei
conti, esattamente nello stesso modo in cui la banca centrale e il
governo del Giappone hanno fatto dopo il 1990. Commentatori
occidentali, economisti, banchieri, e anche funzionari di governo,
tutti hanno molto criticato la scelta di allora, e hanno
ripetutamente invitato la banca centrale e il governo giapponesi a
smettere di agire in quel modo, proprio nello stesso modo in cui la
Fed e il governo degli Stati Uniti stanno agendo oggi.
Abbiamo tutti sottolineato allora come queste azioni dessero come
risultato il congelamento dei capitali, il rallentamento della
crescita del credito, mantenendo vive imprese che sono morte, e
dando vita ad una gigantesca "trappola della liquidità", mentre le
banche sono state tenute a galla nutrendole più e più di nuovo
credito, credito che non hanno mai investito o utilizzato
produttivamente. Sono semplicemente rimaste sedute sulle loro
riserve, non facendo nulla e rinviando una morte che sarebbe
comunque arrivata. Nel frattempo, l'attività economica ha subito un
rallentamento e una drammatica stagnazione che è durata quasi un
decennio.
Come finiranno le cose nello Scenario 2? Lentamente, col salvataggio
di diverse banche, il che costerà a tutti noi un sacco di soldi, nel
corso di un lungo intasamento del mercato del credito, che condurrà
a una lunga stagnazione. Credete che la trappola di liquidità creata
artificialmente e che ha paralizzato per molti anni il Giappone non
accadrà negli Stati Uniti? Ripensatoci: a quanto pare è già qui, ci
racconta il FT.
Questi sono gli unici scenari in cui la politica di swapping di
attivi andati a male per buoni titoli di tesoreria è sensata, per
così dire. Al momento, gli unici pronti a credere allo Scenario 1
sono i banchieri di Wall Street, la Fed, e, forse, altre banche
centrali. Per convincere tutti gli altri che i pezzi di carta sono
effettivamente oro, evitando di intasare il credito creando
l’effetto Giappone, qualcosa di più deve essere fatto che non
semplicemente "convincere". E questo è ciò che la Fed sta facendo:
il trasferimento di attivi a se stessa per sviare il rischio di
controparte.
Il che implica l'acquisto a prezzi fittizi dei pezzi di carta. Il
che implica la modifica del prezzo del denaro e dei titoli del
Treasury, attraverso la modifica della loro offerta. Il che
significa, alla fin fine, l’addebito dei 600-1000 miliardi di
dollari di perdite del mercato immobiliare sul conto del
contribuente, sia direttamente, sia indirettamente. La conclusione è
evidente: non vi è alcun cambiamento «new school» di aspettative, ma
un cambiamento «old school» nella domanda e offerta di beni e
denaro, e tutti NOI dobbiamo essere pronti a pagarne il prezzo:
deprezzamento del dollaro, inflazione e probabilmente una
stagnazione o recessione più lunga.
Il costo di queste manovre
inflazionistiche lo stiamo già pagando attraverso deprezzamento del
dollaro e caro-prezzo delle merci (oro, petrolio, rame, etc.), che
si traducono in termini di inflazione (crescita del CPI). Per la
lunga stagnazione dovremo attendere più a lungo, ed è a nostro
avviso evitabile se il "modello Giappone" non finisce per imporsi
come la scelta dominante.
Non sappiamo voi, ma noi preferiamo l’aggiustamento dei prezzi
relativi che passa per la riduzione del valore delle abitazioni (e
di quei benedetti pezzi di carta) subito, piuttosto che aumentare il
prezzo di tutto il resto e subire una perdita di crescita economica
per il prossimo quinquennio.
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Fonte -
noiseFromAmeriKa.org |
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Venerdì
11
aprile 2008 |
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Giovedì 17
aprile 2008 |
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Domenica 20
aprile 2008 |
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Locomotive
fuori servizio
07 Aprile 2008 MILANO -
di
Giuseppe Turani
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Nei primi tre mesi dell´anno gli
Stati Uniti hanno bruciato 230 mila posti di lavoro. Rispetto al
totale del mercato del lavoro americano non si tratta di una
grossa cifra. Ma, nonostante questo, il dato solleva
preoccupazioni per almeno tre buone ragioni.
La prima è che la
perdita di posti di lavoro (cioè di buste paga, cioè di consumi)
va avanti ormai da tre mesi, senza interruzioni. La perdita
degli ultimi 80 mila posti (mese di marzo) ha fatto salire il
tasso di disoccupazione americano sopra il 5 per cento, e questo
è comunque un segnale di allarme. Infine, c´è il fatto che la
perdita di posti di lavoro viene sempre "dopo" l´inizio del
rallentamento produttivo, non prima. Conclusione: la crisi in
America va avanti almeno da tre mesi.
A questo primo dato, di cronaca
per così dire, si aggiungono le previsioni del Fondo monetario
internazionale. Previsioni talmente nere che persino Bruxelles e il
governatore della Banca d´Italia Draghi hanno protestato per la loro
eccessiva severità. C´è da sperare, naturalmente, che il Fondo si
sbagli (è già successo molte altre volte), ma, in ogni caso, su
quelle previsioni si può ragionare e si può arrivare alla
conclusione che non tutto è perduto e che si può sperare che il sole
torni a splendere sull´economia di questo pianeta.
Che cosa dice infatti il Fondo? Spiega che nel 2008, che è un anno
nero (petrolio e materie prime alle stelle, crisi del credito a
seguito della vicenda subprime) l´economia mondiale crescerà
comunque del 3,7 per cento. E questo con un´America praticamente
ferma (0,5-0,6 per cento di crescita, secondo l´Fmi) e un´Europa che
non arriva nemmeno all´1,5 per cento di aumento del Pil. Di fatto,
la grande locomotiva americana è bloccata in officina per
riparazioni e quella europea non brilla certo per la sua velocità.
Nonostante questo, l´economia del pianeta crescerà del 3,7 per cento
(invece del 4,1 previsto precedentemente). Insomma, si rallenta, ma
continua a esserci vita sulla Terra. E questo significa almeno due
cose molto importanti.
La prima è che di fronte al momentaneo "fuori servizio" delle due
più tradizionali locomotive "occidentali" qualche anno fa il mondo
avrebbe subìto nel suo complesso una battuta di arresto. Oggi,
invece, sia pure dovendo convivere con la crisi dell´America e con
il parziale rallentamento dell´Europa, intorno a noi abbiamo
un´economia che cresce. Non è una differenza da poco e forse
qualcuno vorrà ripensare ai "danni" della globalizzazione. In questo
caso è un bene che altre aree del mondo abbiano trovato la via dello
sviluppo. La seconda considerazione, che discende direttamente da
quella appena vista, è che le aziende vitali e competitive
troveranno comunque clienti, in un mondo che cresce quasi del 4 per
cento. Non saranno qui dietro l´angolo, ma ci saranno.
E´ per questo che le previsioni del Fondo monetario per quanto
riguarda l´Italia (di fatto vista a crescita zero per due anni) sono
quasi certamente un errore vistoso. Disponiamo infatti di una task
force di aziende (alcune migliaia) molto competitive e anche ben
introdotte sui mercati asiatici. E´ molto probabile che, alla fine,
il nostro paese faccia meglio di quanto dice oggi il Fondo
monetario.
Infine, va segnalato che non si può escludere una ripresa in tempi
abbastanza rapidi. Altri ricercatori (non quelli dell´Fmi)
sostengono, ad esempio, uno scenario molto diverso. A partire da
giugno, spiegano, negli Stati Uniti scatteranno i sostegni fiscali
decisi dall´amministrazione federale. Nel frattempo la tempesta
monetaria e di sfiducia prodotta dalla crisi dei subprime potrebbe
essere superata (grazie all´intervento della Federal Reserve). E
quindi già da giugno l´economia americana potrebbe dare importanti
segni di risveglio. Non solo: se così fosse, nel 2009, invece di un
altro anno di crisi profonda, potremmo avere un ritorno degli Stati
Uniti ai loro abituali tassi di crescita (2-3 per cento). E a quel
punto anche la situazione europea (e italiana) cambierebbe di segno.
C´è una versione più moderata di questo scenario. Ed è la versione
nella quale l´America non torna alla piena operatività nel 2009, ma
solo nel 2010. Insomma, ci vuole più tempo, ma nella sostanza non
cambia molto: quello che conta è che alla fine torni il sole sugli
affari dell´economia.
Nessuno oggi può dire quale di
queste ipotesi sia quella corretta. Gli elementi di incertezza sono
troppo numerosi (dalle "code" dell´affare subprime al prezzo delle
materie prime). Tutto quello che si può dire oggi è quello che si
diceva all´inizio: anche prendendo per buono lo scenario del Fondo
monetario (troppo negativo) si deve constatare che non siamo di
fronte all´arresto del pianeta o a un suo blocco drammatico, ma a un
serio rallentamento in alcune parti, accompagnate da una
straordinaria vivacità in altre (quelle asiatiche e non solo). Con
la prospettiva che in 12 o 24 mesi anche Europa e America tornino a
funzionare, se non a pieno regime, con un po´ più di smalto di oggi.
Dietro l´angolo, insomma, potrebbe esserci qualche buona sorpresa. E
il Fondo monetario dovrà rivedere le sue cupe previsioni.
 |
Fonte -
La Repubblica |
Crisi:
IN AMERICA STUDIANO IL MODELLO SVEDESE
08 Aprile 2008 NEW
YORK -
di Massimo
Gaggi ______________________________________________
Nel reagire alla
crisi finanziaria, la Federal Reserve ha cercato di evitare
gli errori commessi 15 anni fa dal governo e dalle autorità
monetarie di Tokio che fecero precipitare il Giappone in una
stagnazione durata un decennio. I banchieri centrali di
Washington hanno, però, esaminato anche un'altra crisi del
credito — quella della Svezia all'inizio degli anni '90 —
per vedere se qualcuno degli strumenti messi in campo allora
dalle autorità di Stoccolma può tornare utile anche
nell'America del 2008.
La crisi esplosa in Svezia nel 1990 è sorprendentemente
simile a quelle degli Usa di oggi: enorme sviluppo del
credito negli anni '80 con le banche che allargavano la loro
attività a prodotti che non capivano fino in fondo e
autorità di controllo poco preparate ad affrontare la nuova
situazione. Raddoppio dei valori immobiliari favorito dalla
grande liquidità disponibile. Scoppio della bolla e crisi
delle banche piene di titoli obbligazionari il cui mercato
era improvvisamente svanito.
Quando, nel '92, due grandi banche, esaurite le riserve, si
accingevano a dichiarare bancarotta, governo e banca
centrale intervennero garantendo col denaro pubblico
l'attività degli istituti. Ma gli azionisti persero tutto.
Fu creata un'agenzia — la Bank Support Authority — per
dirigere il processo di risanamento del sistema bancario
che, nel momento peggiore della crisi, fu controllato per il
22% direttamente dallo Stato. L'intervento funzionò: dopo
una recessione pesante ma abbastanza breve, nel '94
l'economia riprese a crescere a ritmi superiori al 4% mentre
le banche tornarono tutte al mercato. Ma il conto fu salato:
tutta l'operazione costò al contribuente una cifra pari al
6% del Pil. Come se l'America di oggi fosse chiamata a
pagare 850 miliardi di dollari per la crisi delle sue
banche.
Ricetta svedese, dunque, impensabile per l'America?
Probabilmente sì, ma più per la diversità della struttura
del sistema finanziaria e per le enormi dimensioni
dell'economia che per il costo della terapia.
Fonte - La Repubblica
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Capitalismo
fasullo,
Banche
salvate dallo Stato
09 Aprile 2008 LUGANO -
di
Alfonso Tuor
________________________________________
La crisi del sistema finanziario
sembra essere entrata in un periodo di calma dovuto
essenzialmente alla consapevolezza che il salvataggio della
banca di investimento americana Bear Stearns significa che le
autorità monetarie e politiche non permetteranno il fallimento
di nessun istituto bancario. Questo giudizio è confortato dal
rialzo dei titoli bancari e dalla riduzione del prezzo da pagare
per assicurare i prestiti alle banche.
Tutto ciò non ha comunque ridotto il costo del rifinanziamento
sui mercati e soprattutto non ha scalfito la ritrosia delle
banche a prestarsi capitali l’un l’altra. Infatti nonostante le
banche centrali continuino ad immettere liquidità non è
diminuito di molto il differenziale dei tassi a breve rispetto
ai tassi base.
L’allentamento temporaneo della tensione non vuole assolutamente
dire che la crisi è superata, ma semplicemente che siamo entrati
in una fase di bonaccia, rafforzata dell’aspettativa che la
riunione del G7, che si terrà questa fine settimana, spiani
definitivamente la strada a una ricapitalizzazione del sistema
bancario occidentale con soldi della collettività.
Addirittura alcuni ipotizzano di assegnare questo compito al
Fondo Monetario Internazionale e lo stesso FMI sembra felice di
ritrovare un suo ruolo dopo essersi trovato senza lavoro per il
miglioramento delle condizioni finanziarie di molti paesi in via
di sviluppo e soprattutto dopo che anche alcuni paesi ancora
bisognosi di aiuto non vogliono più sentire parlare di FMI,
poiché i suoi piani di salvataggio si sono spesso rivelati piani
di distruzione delle economie che si intendeva aiutare.
Che il sistema bancario necessiti di una ricapitalizzazione è
fuori dubbio. Il motivo è molto semplice: le banche sono a corto
di capitali e quindi non hanno mezzi propri a sufficienza per
ammortizzare ulteriori perdite. A conferma di questa tesi si può
usare l’esempio di UBS.
La maggiore banca svizzera ha finora denunciato perdite e
rettifiche di valore per 37 miliardi di franchi e due aumenti di
capitali per un totale di 28 miliardi di franchi. Le «procedure
di urgenza» usate dimostrano che questi passi non erano solo
necessari, ma addirittura indispensabili. Infatti nel primo caso
si è ricorsi ad un fondo statale di Singapore e ad un anonimo
investitore con l’emissione di obbligazioni convertibili
obbligatoriamente per circa 13 miliardi di franchi. Nel secondo
caso si sta procedendo ad un aumento di capitale di 15 miliardi
di franchi immediatamente garantito da un sindacato formato da
quattro grandi banche (sarebbe interessante conoscere quanto
pagherà UBS per questa garanzia).
La situazione non è diversa per le banche americane che, come
UBS, hanno usato i mezzi propri e si sono indebitate (o meglio
hanno usato la leva) per fare grandi scommesse sui mercati. E le
cifre cominciano ad emergere. Stando al «Wall Street Journal», i
livelli di indebitamento di banche come Goldman Sachs, Morgan
Stanley, Lehman Brothers e Merrill Lynch equivalgono a 30 volte
i mezzi propri. Per meglio far capire cosa ciò significhi, il
quotidiano americano scrive «è come se un’azienda o una famiglia
fosse proprietaria solo del 3% di una casa e il restante 97%
fosse coperto da crediti ipotecari». La realtà è ancora più
grave, poiché i soldi presi a prestito venivano e vengono
investiti in operazioni finanziarie ad alto rischio. Insomma
queste banche di investimento sono in realtà dei grandi Hedge
Funds.
Il più importante aiuto è l’implicita garanzia, confermata dal
salvataggio della Bear Stearns, che nessuna banca fallirà. Ma
c’è di più. Vi è lo stravolgimento di tutte le regole di
finanziamento del sistema bancario da parte delle banche
centrali, con l’accettazione come pegno di qualsiasi tipo di
titolo. Infatti con le continue iniezioni di liquidità si è di
fatto «nazionalizzato» questo mercato, trasferendo nei conti
delle banche centrali gran parte dei titoli a rischio (nel caso
degli Stati Uniti 300 miliardi di dollari di titoli da dicembre
ad oggi).
Inoltre, agenzie parastatali come Freddie Mac e Fannie Mae, così
come le Federal Home Loan Banks, sono state lanciate a garantire
o a comprare titoli legati al mercato immobiliare americano per
un totale di altri 300 miliardi di dollari. Queste operazioni,
da un canto hanno alleggerito e di molto la pressione sul
sistema bancario americano e hanno finora permesso di evitare
altri crack bancari, dall’altro sono architettate in modo tale
da non apparire per quello che in realtà sono, cioé un
intervento dello Stato che si addossa i cattivi rischi delle
banche.
Ma tutto ciò non basta e quindi si ipotizza l’intervento
dell’FMI, anche perché si è perfettamente consapevoli che la
recessione è destinata a far aumentare la quantità dei crediti
inesigibili e quindi a peggiorare le condizioni del sistema
bancario. Ma questa è musica delle prossime settimane. Oggi è
importante comprendere che è in corso una grande operazione di
sussidiamento pubblico al sistema finanziario e che addirittura
se ne sta preparando un’altra di dimensioni ancora maggiori.
Nonostante i tentativi di cammuffare questi aiuti statali ai
signori dei bonus e delle buonuscite milionarie, la
continuazione della crisi impedirà di raggiungere lo scopo di
salvaguardare i meccanismi della nuova ingegneria finanziaria,
che è quel gioco infernale fatto di miliardi e miliardi di
debiti che è la causa prima dell’attuale crisi.
 |
Fonte -
Corriere del Ticino |
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Mercoledì 23
aprile 2008 |
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Martedì 29
aprile 2008 |
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Mercoledì
30
aprile 2008 |
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I
gestori
guardano oltre la crisi
11/04/2008 Milano -
di Sara Silano ______________________________________________
E’ ancora presto
per parlare di un maggior ottimismo, ma i gestori
interpellati da Morningstar nel consueto sondaggio mensile,
cominciano a guardare oltre la crisi creditizia che ha
colpito i mercati a partire dall’agosto scorso. Soprattutto,
stanno spostando l’attenzione sul quadro macro, che si
presenta in chiaroscuro. Il Fondo monetario ha abbassato le
stime sulla crescita mondiale al 3,7% per il 2008, ma la
revisione del Prodotto interno lordo, soprattutto di alcuni
Stati, è parsa eccessiva.
Caro-vita ed euro forte pesano sull’Europa
Nell’ultimo mese i gestori hanno ribadito le preoccupazioni
sulla crescita in Eurolandia, già manifestate in passato. La
divisa comunitaria ha toccato nuovi massimi contro il
dollaro, oltre quota 1,59, per poi ripiegare dopo le parole
del presidente della Banca centrale europea, Jean Claude
Trichet, che ha menzionato i rischi di contrazione
dell’economia, pur ribadendo le preoccupazioni per un
aumento dell’inflazione. Di fronte a questa situazione,
secondo alcuni fund manager, la Bce dovrà cambiare rotta e
tagliare, nella seconda parte dell’anno, i tassi di
interesse ora fermi al 4%.
Gran parte degli intervistati teme, inoltre, una riduzione
degli utili, ma non manca chi spera nella stagione di
dividendi per ridare fiato ai mercati. Rispetto a marzo, il
numero di pessimisti è rimasto sostanzialmente invariato
(30%), mentre sono leggermente aumentati gli ottimisti
(34,8%).
Usa tra recessione e crisi finanziaria
Sugli Stati Uniti le opinioni dei gestori sono divergenti.
Secondo alcuni (26%), Wall Street continuerà a scendere
perché sia la crisi creditizia sia la recessione dureranno a
lungo. Secondo altri, la Fed e il Governo a stelle e strisce
hanno adottato interventi monetari e fiscali veloci ed
efficaci, che aiuteranno ad evitare il peggio.
Il processo di ri-capitalizzazione delle banche e ripulitura
dei bilanci, tuttavia, non è finito. Inoltre, la crescita
rimarrà debole nel resto dell’anno e nel 2009 ed è tutto da
stimare il costo che avranno le politiche a sostegno della
congiuntura in termini di inflazione e debito pubblico. Il
43,5% dei gestori, comunque, prevede un rialzo della Borsa
americana nei prossimi sei mesi, nella convinzione che la
fase più buia sia passata e che le valutazioni siano
attraenti.
Il Giappone non sarà voce fuori dal coro
La percentuale di gestori che prevede un rialzo della Borsa
di Tokyo si equivale a quella di chi stima una discesa
(34,8%). Il listino è molto sensibile ai dati sull’economia
americana, essendo il principale mercato di sbocco delle
merci nipponiche. Le preoccupazioni per la recessione negli
Stati Uniti si sommano ai problemi cronici interni, alla
forza dello yen e agli elevati prezzi delle materie prime.
Tutti questi fattori deprimono gli utili e gli investimenti
aziendali, ma, secondo alcuni fund manager, la crisi
economica sarà meno accentuata rispetto all’America. L’area
rimane interessante in un’ottica di medio-lungo periodo ma
non di breve.
La Bce non potrà ignorare la crisi
Nella riunione del 10 aprile, la Banca centrale europea ha
deciso di lasciare invariati i tassi di interesse al 4%, per
contrastare un’inflazione che rimarrà “significativamente”
sopra il 2% nei prossimi mesi. Tuttavia, dicono i gestori,
l’istituto guidato da Jean Claude Trichet non potrà ignorare
il rallentamento dell’economia e sarà costretta ad allentare
la politica monetaria. In ogni caso, suggeriscono di
privilegiare le scadenze brevi delle obbligazioni, che sono
meno sensibili all’inflazione.
Un altro tema al centro dell’attenzione è l’allargamento
degli spread (differenziali) dei titoli governativi di
alcuni Paesi dell’area Euro rispetto al Bund tedesco che è
utilizzato come benchmark di riferimento. “E’ probabile una
riduzione degli spread una volta finita la crisi di
liquidità”, sostiene Cristiano Busnardo, amministratore
delegato di SG Asset Management Italia Sim. “Ma è
improbabile che si ritorni ai livelli pre-crisi poiché
questi erano frutto di un contesto caratterizzato da
eccessiva liquidità”.
Fed verso la fine dei tagli
La maggior parte dei gestori preferisce i titoli governativi
europei a quelli statunitensi, perché pensano che la fase di
ribasso dei tassi stia volgendo al termine e che il mercato
sconti uno scenario peggiore rispetto a quello reale. La
metà degli intervistati prevede un calo dei prezzi
Oltreoceano contro il 32% che stima una diminuzione nel
Vecchio continente. A un cambio di direzione da parte della
Federal Reserve potrebbe contribuire l’aumento
dell’inflazione dovuto all’incremento dei prezzi
dell’energia e dei beni alimentari.
Dollaro, aumentano i consensi
Nell’ultimo mese è balzata in alto la percentuale di gestori
che stimano un riscatto del dollaro nei confronti dell’euro,
passando dal 47,6 al 57%. Anche se, avvertono, la ripresa
sarà graduale perché l’economia americana è in una fase
recessiva. Un importante punto di svolta è considerato il
momento in cui la Bce comincerà a tagliare i tassi. Agli
attuali livelli, seppur timidamente, i fund manager
ritengono opportuno non essere completamente scarichi di
dollari.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 1 e l’8
aprile, 23 delle principali società di diritto italiano ed
estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80%
degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am,
Aletti Gestielle, American Express, Anima Sgr, Axa Im, Banca
Profilo, Bnp Paribas Am, Caam, Clariden Leu, Dws Investments,
East Capital, Euromobiliare Sgr, Eurizon Capital, Fideuram
asset management, Henderson Global Investors, Ing Im,
Investitori, Julius Baer, Mps Am,, Pioneer Im, Sella
gestioni, Sgam Italia Sim, Total Return Sgr.
Fonte - Morningstar
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Borsa & Mercati:
altri 5 anni di sofferenza
30 Aprile 2008 NEW
YORK - di M.T.C.
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La crisi sarà lunga, almeno cinque
anni, e profonda. Per difendersi, e anche guadagnare, bisogna
scommettere sul ribasso degli indici azionari e rifugiarsi nell'oro.
Lo raccomanda David Tice, gestore del Prudent bear fund, un fondo
Orso quotato al Nasdaq (BEARX) che usa future e opzioni per
approfittare del calo delle quotazioni. Dall'11 ottobre 2007 —
massimo storico dell'indice Dow Jones — la sua performance è stata
del 10% contro il -10% dello stesso Djia. Dal suo ufficio a Dallas,
Texas, Tice spiega la sua strategia.
Allora il peggio deve ancora venire? «Certo. Wall Street è scesa
poco finora: solo il 6% da inizio 2008 e il 7% nell'ultimo anno.
Troppo poco per la più grande catastrofe nella storia del mercato
creditizio».
L'attuale crisi è peggiore delle precedenti, per esempio di quella
del '98 (default dei bond russi e collasso dell'hedge fund Ltcm) o
del 2000-2001, sboom della Bolla di Internet? «Non c'è dubbio.
Questa volta è un intero sistema, quello della finanza strutturata,
ad essere crollato. Il mercato ha perso la fiducia in importanti
business come l'assicurazione dei bond, basti vedere il crollo del
leader di questo settore, Mbia. In generale tutti gli affari e i
titoli basati sui mutui immobiliari sono a rischio».
La fiducia è un fattore psicologico: quanto pesa sull'economia
reale? «È un indicatore importante. L'indice della fiducia dei
consumatori americani è al minimo degli ultimi 18 anni, perché il
loro benessere dipende molto dal valore delle case: il prezzo
mediano di una casa in California è crollato da 600 a 400 mila
dollari, e questo significa che i proprietari non potranno più
rifinanziarsi, come hanno fatto negli ultimi dieci anni per migliaia
di miliardi di dollari. Il rifinanziamento è un meccanismo per cui,
aumentando il prezzo della tua casa, tu la metti in pegno per avere
in prestito soldi che usi per altre spese, e lo puoi fare più volte,
fino a quando le quotazioni immobiliari salgono.
Ora il gioco si è
rotto e i consumatori freneranno gli acquisti di automobili,
computer, televisori, di tutti i beni non indispensabili».
Ma molte multinazionali Usa hanno appena dichiarato profitti ottimi
per il primo trimestre 2008, come Ibm, Google, McDonald's. Non è una
smentita delle previsioni più nere? «Ibm ha una buona parte del
fatturato all'estero; Google ha un business unico; McDonald's sta
andando bene perché gli americani invece di mangiare costose
bistecche risparmiano con gli hamburger. In realtà circa un terzo
delle 500 aziende dell'indice S&P che hanno finora pubblicato i
risultati del primo trimestre hanno deluso le aspettative degli
analisti, è un tasso di sorprese negative molto alto».
Le esportazioni, facilitate dal dollaro debole, potranno aiutare i
profitti non solo di Ibm ma anche delle altre società più presenti
all'estero, o no? «Forse l'export americano andrà bene ancora per
qualche mese. Ma questa crisi è un fenomeno globale. Lo ha appena
denunciato il Fondo monetario internazionale. Ci sono bolle
immobiliari anche in Irlanda, Spagna e altri Paesi. La Borsa cinese
è scesa del 45% dai massimi di pochi mesi fa. Quindi anche la
domanda mondiale rallenterà».
E l'arrivo a casa degli americani degli assegni dello «stimolo
economico», previsto per maggio, non avrà effetti positivi? «Quando
la Casa Bianca e il Congresso hanno varato quel provvedimento, lo
scorso gennaio, il petrolio costava 88 dollari, ora è vicino a quota
120: il rincaro si è mangiato una bella fetta dei 110 miliardi di
dollari circa che dovrebbero finire nelle tasche dei consumatori».
Non si salva alcun settore o titolo di Wall Street? «Con il Bear
fund stiamo scommettendo al ribasso su parecchi titoli e indici, in
particolare dei settori della finanza, della tecnologia e dei
consumi non di base. L'unico comparto su cui siamo positivi è quello
delle compagnie minerarie aurifere».
Ma non c'è anche una bolla dell'oro, con i prezzi così alti? «Forse
c'è qualche sacca di speculazione su alcune materie prime. Ma con il
governatore della Banca centrale Usa Bernanke soprannominato
Elicottero-Ben per la sua prontezza nel salvare tutti, mentre la
fiducia del mercato verso il sistema finanziario è ai minimi, l'oro
è il miglior rifugio».
Quanto durerà questa crisi? «A lungo, almeno cinque anni».
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Fonte -
M.T.C. |
tassi
usa: LA FED LI ABBASSA DELLO 0.25%
30 Aprile 2008
20:15 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
La Banca Centrale
americana ha abbassato il tasso sui fed funds di 25 punti
base al 2.00%. Si tratta del settimo taglio consecutivo.
Rivisto al ribasso dello 0.25% anche il tasso di sconto, al
2.25%. Due voti contrari.
Il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della
Federal Reserve, ha tagliato il costo del denaro degli Stati
Uniti di ¼ di punto percentuale, cioe' 0.25%. Il target sui
fed funds scende dunque al 2.00%. Si tratta del settimo
taglio consecutivo che segue quello dello 0.75% di meta’
marzo che aveva portato i tassi a breve al 2.25% .
In un'operazione collegata, il Comitato dei Governatori (Board
of Governors) ha anche approvato all'unanimita' un
abbassamento di 25 punti base del tasso di sconto al 2.25%.
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di abbassare
il target sui fed funds di 25 punti base al 2.00%.
Le ultime
informazioni indicano che l’attivita’ economica resta
debole. La spesa delle famiglie e delle aziende e’
rallentata e le condizioni del mercato del lavoro si sono
indebolite ulteriormente. I mercati finanziairi restano
sotto un considerevole stress, le peggiorate condizioni del
credito e l’ulteriore contrazione del mercato immobiliare
continueranno a pesare con molte probabilita’ sulla crescita
economica nei prossimi trimestri
Sebbe le ultime letture sull’inflazione "core" sono in
qualche modo migliorate, i prezzi energetici e di altre
commodities sono aumentati, e alcuni indicatori sulle
aspettative inflazionistiche sono cresciuti negli ultimi
mesi. Il Comitato si attende una moderazione dell’inflazione
nei prossimi trimestri, in risposta ad un livellamento dei
prezzi dell’energia e di altre commodities ed un
allentamento delle pressioni sull’utilizzazione delle
risorse. Detto cio’, l’incertezza sull’outlook
inflazionistico resta elevata. Sara’ necessario continuare a
monitorare attentamente gli sviluppi dell’inflazione.
Le azioni di
politica monetaria condotte fino ad oggi, in combinazione
con le misure in atto per garantire la liquidita’ sul
mercato, dovrebbero promuovere una crescita moderata nel
tempo e mitigare i rischi per l’attivita’ economica. Il
Comitato continuera' a monitorare gli sviluppi economici e
finanziari ed agira' come necessario per promuovere una
crescita economica sostenibile e la stabilita' dei prezzi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner,
Vice Chairman; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic
S. Mishkin; Sandra Pianalto; Gary H. Stern; e Kevin M. Warsh.
A votare contro sono stati Richard W. Fisher e Charles I.
Plosser che avrebbero preferito non cambiare il target sui
fed funds in questo incontro.
In un'operazione collegata, il Comitato dei Governatori (Board
of Governors) ha approvato all'unanimita' un abbassamento di
25 punti base del tasso di sconto al 2.25%. Nel prendere
questa decisione, il Comitato ha approvato le richieste
formulate dai Comitati dei Direttori (Boards of Directors)
della Federal Reserve Bank di New York, Cleveland, Atlanta e
San Francisco.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di tagliare il tasso
interbancario al 2.00%:
The Federal Open Market Committee decided today to lower its
target for the federal funds rate 25 basis points to 2
percent.
Recent information indicates that economic activity remains
weak. Household and business spending has been subdued and
labor markets have softened further. Financial markets
remain under considerable stress, and tight credit
conditions and the deepening housing contraction are likely
to weigh on economic growth over the next few quarters.
Although readings on core inflation have improved somewhat,
energy and other commodity prices have increased, and some
indicators of inflation expectations have risen in recent
months. The Committee expects inflation to moderate in
coming quarters, reflecting a projected leveling-out of
energy and other commodity prices and an easing of pressures
on resource utilization. Still, uncertainty about the
inflation outlook remains high. It will be necessary to
continue to monitor inflation developments carefully.
The substantial easing of monetary policy to date, combined
with ongoing measures to foster market liquidity, should
help to promote moderate growth over time and to mitigate
risks to economic activity. The Committee will continue to
monitor economic and financial developments and will act as
needed to promote sustainable economic growth and price
stability.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S.
Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman;
Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin;
Sandra Pianalto; Gary H. Stern; and Kevin M. Warsh. Voting
against were Richard W. Fisher and Charles I. Plosser, who
preferred no change in the target for the federal funds rate
at this meeting.
In a related action, the Board of Governors unanimously
approved a 25-basis-point decrease in the discount rate to
2-1/4 percent. In taking this action, the Board approved the
requests submitted by the Boards of Directors of the Federal
Reserve Banks of New York, Cleveland, Atlanta, and San
Francisco.
Fonte - Wallstreetitalia.com
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Borsa & Mercati:
balle é il momento di comprare
30 Aprile 2008 MILANO -
di
Massimiliano Malandra
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Non tutti considerano Wall Street
terra bruciata o un cumulo di macerie che sovrasta i subprime. «Io
sto comprando, e il Dow Jones mi convince di più: tutte blue chip
sicure e meno volatili». Parola di Victor Sperandeo, speculatore di
professione fin dal lontano 1968.
«Trader Vic», così soprannominato, praticava il day-trading quando
non esistevano ancora i computer «e i grafici - ricorda - si
compilavano a matita su carta millimetrata». Ma aveva già le idee
chiare. Poco più che ventenne, era il maggior intermediario al mondo
di opzioni fuori Borsa. Sono passati molti anni, ma il pallino degli
investimenti è rimasto. «Il mio portafoglio è investito al 50% sul
Dow e al 20% su S&P500. Poi non trascuro la tecnologia del Nasdaq,
dove ci ho messo il rimanente 30 per cento».
B&F lo ha incontrato in occasione della presentazione, organizzata
da Hsbc, del nuovo indice S&P Cti dedicato alle commodity, su cui la
banca inglese ha strutturato un proprio fondo.
Mr. Sperandeo, ci sono comparti specifici da privilegiare in questo
momento? Non mi reputo un grande analista, quindi in generale compro
l’intero indice, non i singoli settori. In questo modo mi assumo il
rischio sistematico dell’investimento in titoli azionari, ma almeno
evito quello specifico fornito dai singoli comparti.
A parte Wall Street cosa pensa dell’azionario europeo? Ci sono tre
indici che mi sembrano più interessanti di altri, il Cac francese,
il Ftse inglese e l’Ibex spagnolo. Anche il Dax mi piace, ma per
entrare su questo mercato aspetterei un segnale preciso.
Un segnale tecnico? No, una mossa del «tedesco» Jean-Claude Trichet.
Ma se è francese... Lo so, ma visto l’atteggiamento che ha in tema
di tassi e inflazione direi che è molto più tedesco della
Bundesbank. Un dollaro sotto 1,60 nei confronti dell’euro è
insostenibile nell’Eurozona e minaccia di mandare in stallo
l’economia. E così Trichet prima o poi, ma io credo abbastanza a
breve, sarà costretto ad abbassare i tassi di interesse. A quel
punto anche il Dax tornerà interessante: la Germania ha il maggior
export al mondo e non potrà che trarre beneficio da un
riallineamento verso il basso dell’euro.
Cosa pensa, invece, di quanto sta facendo la Fed? Negli Stati Uniti
è un anno elettorale, non va dimenticato. E quindi tutto quello che
si vuole lo si chiede alla politica e in genere lo si ottiene senza
particolari problemi (???). Bernanke, da parte sua, non ha lesinato.
La politica del denaro facile della Federal reserve sta comunque
ottenendo i propri effetti. E i primi risultati si vedono proprio a
Wall Street. Certo, l’altra faccia della medaglia è rappresentata
dall’obbligazionario: con questi tassi e la liquidità che la Fed ha
immesso nel sistema, preferisco tenermi ben lontano da Treasury e
T-Bond.
La recessione a suo giudizio, sarà breve o prolungata? Propendo per
un periodo breve. Motivo per cui le commodity rimangono un asset
class assolutamente da tenere. Il petrolio lo vedo già a 135 dollari
al barile. Più in generale rimango convinto che anche sui metalli
preziosi e industriali, sia in atto un bull market di lungo periodo.
E che le prese di profitto recenti, che giudico semplici correzioni,
siano interessanti occasioni per accumulare.
Per quali motivi è così bullish? L’abbondante liquidità immessa nel
sistema e l’inflazione in crescita sono un cocktail ideale per le
materie di base. E l’offerta stagnante, combinata a una domanda
crescente, gettano solo altra benzina sul fuoco, per restare in tema.
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