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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Macro & Valute

L'autunno del re dollaro

Macro & Valute

Il mondo affondato dal dollaro

Market Credit - USA

Wall Street teme la sindrome anni '70

Market Credit - USA

Carlyle e Bear Stearns: è iniziato il big crash?

Macro USA

Perché gli USA potrebbero salvarsi dalla recessione

Market Credit - Borse

Borsa: il sistema deve ancora spurgarsi

FED & Tassi

La FED é in ostaggio

Sentiment & Borse

Borse senza bussola investitori in stallo

 

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+++   WALL STREET PRESSATA DA GREGGIO E CRISI DEL CREDITO   +++   Cresce la paura a Wall Street: indici colpiti da un pesante sell-off. Crollano GM e i finanziari   +++   BORSE: ALTRA GIORNATA NERA, L'EUROPA BRUCIA 137 MLD /ANSA   +++  

  Sabato 01 marzo 2008   Venerdì 07 marzo 2008   Sabato 08 marzo 2008  
       
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L'autunno del re dollaro

07 Marzo 2008 09:03 PECHINO - di Federico Rampini

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Malgrado abbia perso negli ultimi sei anni oltre il 40% del suo valore rispetto all´euro, il dollaro resta il centro del «sistema solare» del commercio e della finanza globale. Questa sfasatura tra il crollo del suo valore e la persistenza del suo ruolo egemonico, è alla radice di molti mali della nostra economia. E´ una contraddizione che paghiamo in tanti modi: il petrolio oltre i 100 dollari, l´inflazione dei generi alimentari, l´impasse della Bce che non riesce a tagliare il costo del denaro per colpa di un carovita importato; tutto ciò si può ricondurre agli squilibri propagati da «sua maestà decaduta» il biglietto verde. Perfino la Cina e i paesi dell´Opec subiscono pesanti ripercussioni interne per la débacle del dollaro, nessuno riesce a difendersi. Siamo tutti in attesa di una rivoluzione copernicana nelle regole monetarie. Se non arriva, è anche colpa nostra.
Eppure il declino americano è evidente. L´Unione europea ha ormai un Pil superiore a quello degli Stati Uniti. La Cina ha sostituito l´America nel ruolo di principale partner commerciale di quasi tutte le aree del mondo, dall´Europa al Giappone.
Il mondo di oggi è irriconoscibile, i rapporti di forza sono stravolti, non solo perché l´America è in recessione e stremata dalla crisi dei mutui, ma anche perché il suo ridimensionamento è una tendenza di lungo periodo. Il superamento del «sistema solare» con il dollaro al centro è stato profetizzato più volte. Ancora un mese fa George Soros dichiarava a Davos che «è finita un´èra di 60 anni di espansione della finanza mondiale basata sul dollaro come moneta di riserva». Ma il dollaro è ancora lì, malconcio e insostituibile. Warren Buffett, il più ascoltato investitore degli Stati Uniti, due giorni fa ha sentenziato che il dollaro non potrà che valere sempre meno. Di questo passo sarà carta straccia; ma l´unica carta universale.

L´86% delle transazioni quotidiane sui mercati dei cambi sono in dollari. I due terzi delle riserve delle banche centrali (comprese le due più ricche del mondo, la cinese e la giapponese) sono in dollari. Si parla da anni di una diversificazione di queste riserve in favore dell´euro, ma procede a una lentezza esasperante: per ora le banche centrali mondiali detengono solo un quarto delle loro riserve in euro, cioè addirittura meno di quanto avevano in marchi, franchi, lire, fiorini, pesete e tutte le altre ex-monete dell´eurozona ante – 1999. Ancora più impressionante è l´egemonia del dollaro nel commercio internazionale, a cominciare dai mercati delle materie prime.
Più volte dei leader antiamericani hanno cercato di sottrarre il petrolio al signoraggio del dollaro. Da Gheddafi agli iraniani, da Saddam Hussein a Hugo Chavez, chi non ricorda le loro proposte di convertire in euro le quotazioni del greggio? Tutte chiacchiere. «Perfino un paese come l´Algeria – ha rilevato il Wall Street Journal – che vende agli Stati Uniti appena il 27% delle sue risorse energetiche, gestisce il 100% del suo commercio estero in dollari». La Malesia e l´Indonesia forniscono la maggioranza delle loro risorse naturali alla Cina: si fanno pagare in dollari. Il Brasile vende zucchero a tutta l´Asia: in dollari.
Iran, India, Pakistan e Bangladesh hanno creato una sorta di mercato comune ma regolano le loro transazioni in dollari. Idem nel commercio tra Cina e Giappone, tra Cina e Corea del Sud. Un fenomeno simile accadde nel secolo scorso. Molto tempo dopo che la Gran Bretagna aveva cessato di essere l´economia più ricca, la sterlina rimase la moneta degli scambi e della finanza internazionale: fino alla seconda guerra mondiale. Il parallelo non è rassicurante, visti i disastri finanziari avvenuti negli anni Trenta.
Le conseguenze nefaste che ha su di noi il tracollo del dollaro sono ben più ampie di quanto si crede. E´ noto che siamo penalizzati perché le nostre esportazioni costano sempre più care, non solo sul mercato Usa ma in tutti quei paesi le cui monete sono agganciate o influenzate dal dollaro, inclusa la Cina. E´ meno noto il modo in cui il dollaro debole diffonde i virus dell´inflazione mondiale. Le fiammate dei prezzi del petrolio e di tutte le materie prime – metalli, derrate agricole – sono causate «due volte» dal dollaro. Anzitutto i paesi esportatori di energia e risorse naturali devono compensare la caduta della moneta con cui vengono pagati.
Ma vi si aggiunge il ruolo della speculazione: proprio perché l´America esporta debiti e inflazione, i capitali mondiali cercano rifugio in investimenti sicuri. Le materie prime sono diventate l´ultima spiaggia per ripararsi dalla crisi. Nel lungo termine, certo, petrolio grano e riso rincarano per il boom dei consumi di Cina e India. Nel breve termine vanno su perché gli hedge fund accaparrano i «futures» delle materie prime come protezione dal collasso del dollaro. Proprio come negli anni 70 di Nixon, l´America esporta la sua crisi in ogni angolo del mondo.
Perché non riusciamo a sganciarci dal ruolo ingombrante di una moneta allo sbando? L´euro continua a essere una promessa mancata, una moneta-leader solo allo stato potenziale. E´ sintomatico che le banche centrali di Pechino e di Tokyo possiedano ancora così pochi euro. Visto dall´Asia – l´area che sta diventando il nuovo baricentro e la massa critica dell´economia globale – l´Unione europea è un´entità politicamente inafferrabile. Pesa anche il fatto che la più grossa piazza finanziaria d´Europa, il mercato più liquido ed efficiente è Londra, che sta fuori dall´euro.
Infine quando i fondi sovrani della Cina, di Singapore e degli emirati arabi vogliono comprarsi le banche americane vengono accolti a braccia aperte. Nell´Unione europea perfino acquisizioni franco-italiane, o viceversa, sono ostacolate. La centralità del dollaro avrà vita lunga finché non si fa avanti un sostituto credibile.

 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

La Fed lavora per far ripartire gli Usa

11/03/2008 10.59 - di Marco Caprotti
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Gli Stati Uniti si avvicinano a grandi passi alla recessione. A dirlo sono i mercati. L’indice Msci North America nell’ultimo mese (fino all’11 marzo e calcolato in euro) ha perso circa il 4%. L’andamento preoccupa gli operatori perché è legato a una serie di fattori macroeconomici che dimostrano lo stato di estrema debolezza della locomotiva Usa. Gli ultimi dati sui posti di lavoro hanno mostrato una crescita della disoccupazione che ha colto di sorpresa sia gli organi federali, sia gli economisti delle grandi istituzioni finanziarie.

Una ulteriore preoccupazione è il fatto che aumentano i licenziamenti nella grande distribuzione. Segno evidente che gli americani hanno meno voglia di spendere. Secondo un sondaggio di Bloomberg il rallentamento economico degli Usa sarà più forte delle attese, mentre il recupero sarà più lento. L’aumento del prezzo del petrolio e il crollo dei valori immobiliari indebolirà la spesa al consumo riducendo l’effetto benefico degli incentivi fiscali studiati dall’amministrazione Bush.

A questo punto aumenta il numero degli economisti pessimisti su un recupero per il 2009. In questo scenario, dicono gli esperti, i tassi di interesse americani nel 2008 scenderanno ancora, arrivando al 2% a dicembre. Le speranze degli americani (e di chi investe in asset a stelle e strisce) ora sono tutte nelle mani della Federal Reserve. La banca centrale americana, oltre ad agire sul costo del denaro, ha varato un piano di finanziamenti da 160 miliardi di dollari da fornire alle banche per contenere le svalutazioni legate ai mutui subprime (quelli di scarsa qualità) che hanno dato la stura alla crisi scoppiata ad agosto dell’anno scorso. I tassi di interesse su questi finanziamenti sono stati tenuti bassi proprio per evitare di mettere in ulteriore difficoltà gli istituti. Secondo alcune voci (peraltro non confermate) la Fed potrebbe anche dare finanziamenti a istituzioni finanziarie non bancarie.

Dal punto di vista operativo il consiglio degli analisti è quello di seguire la situazione con prudenza senza però farsi sfuggire le occasioni di acquisto. “Non è la prima volta che il mercato americano ha a che fare con una crisi o con una recessione”, spiega Bill Bergman di Morningstar. “E ogni volta ci sono state buone opportunità per gli investitori con un orizzonte temporale di lungo periodo. Chi avesse puntato un dollaro al mese sull’S&P500 dal 1950 ad oggi si ritroverebbe in tasca, dopo un investimento di 695 dollari, circa 13.750 dollari. Certo, una parte di questo denaro se lo sarebbe mangiato l’inflazione, ma mettere i soldi a lavorare sul mercato, sicuramente rende di più che tenerli ad ammuffire sotto il materasso”.

 

Fonte - Morningstar.it

 

 

 

 

Il mondo affondato dal dollaro

11 Marzo 2008 07:55 ROMA - di Marcello De Cecco

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Il prezzo del petrolio, in termini reali, era arrivato a 103,76 dollari nell’aprile del 1980. In questi giorni, per la prima volta da allora, è salito oltre i 104 dollari. Per capire con quale ascesa di prezzo il mondo ha dovuto confrontarsi negli ultimi anni, ricordiamo solo che dopo l’11 settembre 2001 il prezzo ribassò fino a 20 dollari.
Poi di nuovo l’ascesa continua e senza soste, che è stata altrettanto drammatica di quella che si registrò dall’autunno del 1973 alla primavera del 1980. Si dice comunemente che ormai il prezzo del petrolio ha perso parecchia della sua influenza sull’economia mondiale, perchè il mondo ha imparato a consumare meno petrolio. Le automobili consumano di meno, così come gli impianti di riscaldamento, e qualche sostituto è stato trovato e messo in uso. Ma illudersi è inutile: un’ascesa così drammatica del prezzo in meno di sette anni avrà ripercussioni altrettanto profonde di quelle che ebbe quella che si verificò negli anni settanta.
Basta guardare ai comportamento dei mercati delle materie prime e delle valute per rendersene conto. Questi mercati sono ormai dominati dalla speculazione. Le migliaia di hedge fund e anche di normali fondi di investimento che esistono e devono offrire risultati positivi ai loro investitori si sono decisamente e massicciamente spostate sulle merci e sulle valute, dopo aver ricevuto punizioni anche pesanti dai mercati immobiliari e da quelli dei derivati finanziari e assicurativi.

Si può dire, ad esempio, senza molte possibilità di essere smentiti, che i fondi pensione, anche i più conservatori, dovendo far fronte a necessità sempre crescenti di uscite finanziarie, per l’invecchiamento di coloro che ne fanno parte, sono costretti a cercare incrementi di valore veloci e corposi, senza badare troppo al rischio che gli investimenti remunerativi presentano. Il guaio è che la massa degli investitori è ora concentrata su mercati, quali quelli delle merci primarie e delle valute, non abituati ad essere sommersi da risorse finanziarie così grandi. Per questo i prezzi schizzano in alto, in un contesto nel quale i ribassisti, anche quelli professionisti, non ce la fanno a contrastare il passo dei rialzisti e forse nemmeno se la sentono.
Per le merci, compreso il petrolio, è facile capire perchè la speculazione sia solo al rialzo. Si è accreditata infatti l’opinione che i consumi di prodotti primari debbano salire fino a quando i paesi emergenti continuano a crescere ai tassi a cui sono cresciuti negli ultimi anni. In particolare, la Cina ha acquistato, per la domanda di merci primarie, il ruolo che per l’offerta di petrolio ha avuto per decenni l’Arabia Saudita: i suoi movimenti sul mercato sono in grado, per le loro dimensioni, di far cambiare i prezzi. La stessa Cina, d’altro canto, esercita un simile influsso sui prezzi di una quantità di prodotti manufatti, dei quali è diventata il primo produttore mondiale. Anche in questo settore si prevedono cambiamenti radicali, ora che la Cina riesce assai peggio di prima a controllare la crescita della propria inflazione interna, proprio per le conseguenze dell’inflazione dei prezzi di petrolio e materie prime, specie alimentari.

Per quanto riguarda le valute, invece, dato che ciascuna è quotata in termini di confronto con tutte le altre, la speculazione in una sola direzione dovrebbe essere meno agevole e meno scontata. Ma i mercati delle valute sono dominati dalle quotazioni di quelle principali, in particolare da quel che accade al Dollaro e all’Euro, e subito dopo da come si comportano lo Yuan cinese e lo Yen giapponese.
E’ opinione comune che il cambio di queste principali valute sia al momento ampiamente prevedibile per i prossimi mesi. Euro e Yen, infatti, sono molto meno del Dollaro e dello Yuan dominati da quel che accade nei loro sistemi finanziari, che si trovano in condizioni meno precarie di quelle che affliggono i sistemi finanziari americano e cinese, perchè la speculazione immobiliare negli Stati Uniti e borsistica in Cina è stata assai più coinvolgente e devastante per gli intermediari e per i privati di quanto sia stata in Europa e in Giappone. Le istituzioni finanziarie europee e giapponesi sono in condizioni meno precarie di quelle delle loro consorelle americane e cinesi. Di conseguenza, la Banca centrale europea e la Banca del Giappone possono permettersi comportamenti non completamente dominati dalla necessità di impedire il crollo dei rispettivi sistemi finanziari, come invece accade alla Fed e alla Banca Popolare della Cina.

Poichè il Dollaro fluttua liberamente sui mercati, il comportamento fortemente espansivo della Fed si ripercuote immediatamente sul cambio, in particolare sul cambio dell’unica altra moneta importante che fluttua liberamente, che è come si sa l’Euro. La banca centrale europea, non si sa quanto saggiamente, ritiene che il sistema finanziario europeo non sia talmente fragile da richiedere la stessa cura che la Fed sta impartendo a quello americano, a base di continui e corposi ribassi dei tassi di interesse. Si preoccupa, non si sa quanto saggiamente, assai di più della inflazione importata tramite petrolio e materie prime che affligge le economie europee e delle conseguenze che essa può avere sulla dinamica salariale dei paesi che adottano l’Euro. Per questo il cambio Euro/Dollaro continua a salire e la prevedibilità di tale tendenza induce l’ulteriore rivalutazione dell’Euro, invitando la speculazione al rialzo, che pensa di non aver nulla da temere per i prossimi mesi.
Yuan e Yen si comportano diversamente. Le autorità cinesi e giapponesi credono assai poco ai cambi fluttuanti e credono di dover contrastare decisamente tendenze troppo forti alla rivalutazione delle loro monete. Al contrario, hanno stimolato ormai per parecchio tempo una tendenza alla loro svalutazione, perchè né le autorità cinesi né quelle giapponesi riescono a regolare la domanda interna per ottenere la piena occupazione e la crescita e, per ottenere quel risultato, stimolano invece le esportazioni. Un discorso a parte merita il comportamento delle autorità dei paesi produttori di petrolio. E’ indubbio che esse si trovano a fronteggiare delle spinte inflazionistiche molto forti all’interno dei propri paesi, dopo anni di inflazione sotto controllo.
Il motivo, in particolare nel caso dei paesi del Medio Oriente, è dato dall’impatto che hanno sui prezzi interni quelli dei prodotti alimentari. Ma la gran parte della spinta all’inflazione deriva dalla crescita della domanda interna indotta dall’aumento del prezzo del petrolio. I paesi produttori di petrolio tradizionalmente quotano tale prodotto in dollari e le loro monete sono per questo agganciate al Dollaro. Ora si trovano a registrare giganteschi surplus nei propri conti con l’estero, senza poter contare sulla flessibilità delle proprie monete per assorbirli almeno in parte. Accade così che l’ex governatore Greenspan inciti i paesi del golfo ad abbandonare tale aggancio alla moneta americana, un consiglio che vista la sua provenienza suona veramente un po’ surreale.
A parte i consigli di Greenspan, è certo che già dai prossimi mesi lo strappo nel prezzo del petrolio metterà a disposizione dei paesi produttori una massa tale di denaro che il suo impiego farà ulteriormente riscaldare i mercati speculativi rimasti al rialzo, quelli delle merci, e provocherà nuovi acquisti di azioni di banche e attività industriali e commerciali da parte dei fondi sovrani di tali paesi.
Basterà questa spinta, che investirà specialmente gli Stati Uniti, a far risollevare il sistema finanziario di quel paese dalla crisi nella quale è precipitato da solo? Basterà a far risalire il dollaro?

A partire dalla fine del sistema dei cambi fissi, nell’estate del 1971, il cambio del dollaro è passato attraverso cinque fasi, di durata e intensità piuttosto varia. I ribassi si sono alternati ai rialzi, ma finora ciascun massimo e ciascun minimo è stato inferiore a quello precedente. Nel 2002 il dollaro, ad esempio, era tornato al livello di prima della fine del sistema di Bretton Woods. Poi però è iniziato il nuovo declino, che dura tuttora, e che ha finora raggiunto il ribasso massimo proprio in questi giorni. E’ possibile dire che tutte le inversioni di fase registrate in più di un trentennio sono state indotte da cambiamenti di rotta delle autorità monetarie americane.
In particolare, come sta accadendo a partire dall’autunno scorso, le fasi di declino sono state indotte dalla impellente necessità che le autorità americane hanno avuto di reflazionare l’economia e in particolare di stabilizzare il proprio mercato finanziario, specialmente anche se non esclusivamente nella l’ imminenza delle elezioni sia congressuali che presidenziali.
A partire dalla fine dell’era di Paul Volcker, si è notata una crescente incapacità da parte delle Fed di portare avanti una politica restrittiva per un periodo meno che breve. Un tentativo di "fare la faccia feroce" di Greenspan appena arrivato al posto di comando condusse molto rapidamente alla grandiosa crisi dell’Ottobre 1987 e alla precipitosa inversione di rotta da parte del timoniere. Qualche altro tentativo Greenspan lo fece, nella stessa direzione, ma ogni volta il mercato finanziario americano reagì disastrosamente, portandosi spesso appresso anche il sistema finanziario mondiale, con crisi come quella asiatica e russa del 1997/98.

Questo serve probabilmente a spiegare perchè il dollaro termini ciascuna fase discendente a un livello più basso di quello toccato in quella precedente. Viste le predilezioni e le capacità delle autorità monetarie dei maggiori paesi e aree monetarie, sembra difficile prevedere quanto ancora possa durare la fase di ribasso del dollaro e il tasso di cambio minimo al quale essa terminerà.
Innanzitutto è necessario sapere se la crisi finanziaria nella quale si dibattono attualmente gli Stati Uniti è una crisi nel sistema o del sistema. Stabilirlo significa anche capire se gli Stati Uniti potranno venirne fuori con una politica monetaria espansiva a oltranza o se sarà invece indispensabile una riforma profonda delle istituzioni finanziarie e delle regole che le tengono insieme. E anche se basterà una riforma del solo sistema finanziario americano o se dovrà aprirsi (e sperabilmente concludersi in maniera positiva) una fase costituente dell’ordine finanziario internazionale. Vi sono infatti rapporti di cambio mantenuti a livelli del tutto artificiali, in particolare quelli dello Yuan e dello Yen con altre importanti valute.
Alcuni osservatori, come Dani Rodrik, credono che sia indispensabile porre la globalizzazione su nuove basi, perchè le sue fondamenta attuali hanno permesso allo stesso tempo che prevalgano liberismo sfrenato e mercantilismo a oltranza da parte dei paesi più forti. E di questo sono prova sia gli squilibri sui mercati dei cambi che le soluzioni come la creazione di onnipossenti fondi di investimento sovrani, controllati dai paesi creditori. L’agire di questi fondi, che è squisitamente politico anche se in apparenza resta entro i confini della massimizzazione dei rendimenti finanziari e delle convenienze economiche, contribuisce potentemente alla trasformazione della globalizzazione da un liberismo di facciata al mercantilismo aperto e generalizzato. Quest’ultimo è un regime che assai raramente ha coinciso a lungo con la pace mondiale.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Martedì 11 marzo 2008   Mercoledì 12 marzo 2008   Venerdì 14 marzo 2008  
       
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Wall Street teme la sindrome anni '70

13 Marzo 2008 11:25 NEW YORK - di Maria Teresa Cometto

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L' inflazione non è un problema così serio. Più grave è il rischio di recessione, con aumento della disoccupazione e calo del Prodotto interno lordo e dei consumi. È il ritornello che Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve (banca centrale Usa) ripete a Washington, davanti alle audizioni parlamentari e a Wall Street, davanti ai banchieri e investitori. E così il mercato si aspetta nuovi tagli dei tassi d'interesse dei Fed fund (punto di riferimento per il costo del denaro a brevissimo termine) alla prossima riunione del 18 marzo; e insieme sconta un balzo dell'inflazione, cioè dell'aumento dei prezzi.
Così si spiegano anche i record fatti segnare nei giorni scorsi dalle materie prime e dai beni di rifugio, e si alimentano i timori che gli Stati uniti siano alle soglie di una fase di stagflazione stile anni ’70: un mix di economia stagnante e prezzi alle stelle, nocivo sia per le tasche dei consumatori sia per i portafogli degli investitori. Ma anche il resto del mondo è preoccupato: dall'Europa alla Cina, cresce l'allarme per una fiammata inflazionistica che riduca le prospettive di crescita globale.
Questa settimana il petrolio ha superato il record storico di 110 dollari al barile (in termini reali, tenuto conto dell’inflazione) dell'aprile 1980. È boom anche delle quotazioni di materie prime come platino, argento, grano e rame, mentre l'oro è vicino ai 1.000 dollari l'oncia, una soglia psicologica importante anche se lontana dal record del 21 gennaio 1980, quando costava — in valuta odierna — 2.239 dollari. Intanto il tasso di aumento dei prezzi al consumo viaggia attorno al 4,3% annuo negli Usa e al 2,5% se si guarda all'indice «core» — senza prodotti alimentari ed energetici —, quello monitorato dalla Fed: un livello basso in assoluto, ma superiore all'ufficioso obbiettivo dell'1-2%.
Nell'Unione Europea l'inflazione è al 3,4%, la più alta da quando è stato introdotto l'euro, tanto da giustificare la decisione della Bce di non aver finora abbassato i tassi; e in Cina è arrivata al 7,1%, il massimo da 11 anni, diventando il problema numero uno del Paese secondo il primo ministro Wen Jiabao.
A spingere i prezzi all'insù è da una parte la forte domanda di materie prime da parte dei Pesi emergenti come la stessa Cina o l'India; ma dall'altra parte è sempre più considerata responsabile la Fed che con i suoi tagli dei tassi ha indebolito il dollaro e favorito i rincari, essendo denominati in dollari i prezzi del petrolio, dell'oro e delle altre commodity.
In gioco è la stessa credibilità dell'istituzione presieduta da Bernanke. «Una banca centrale indipendente dovrebbe mantenere il valore della moneta e prevenire l'inflazione — ha ricordato in un intervento sul Wall Street Journal Allan Meltzer, professore alla Carnegie Mellon e autore del nuovo libro «A History of the Federal Reserve» —. Negli anni settanta e di nuovo adesso i banchieri della Fed hanno promesso che avrebbero abbassato l'inflazione, ma appena il tasso di disoccupazione si è alzato un poco, le promesse sono state dimenticate. La gente ha capito presto che lo sforzo di evitare una possibile recessione aveva sopraffatto ogni preoccupazione sull'inflazione. Molti hanno concluso che i prezzi sarebbero saliti e che la Fed avrebbe fatto poco oltre le parole. I prezzi e i salari sono calati molto poco durante le recessioni. Il risultato è stato inflazione più crescita stagnante: stagflazione. Sta cominciando a succedere ancora».
In un recente discorso, anche Charles Plosser, presidente della Federal Reserve di Filadelfia, ha confermato che il rischio è reale: «Non possiamo credere che la crescita economica rallentata di inizio 2008 da sola ridurrà l'inflazione. Come ci insegna l'esperienza degli anni settanta, quando il pubblico perde la fiducia nell’impegno della Fed a mantenere la stabilità dei prezzi, riguadagnare quella fiducia nella Fed diventa poi molto costoso per l'economia».
Infatti per uscire dalla spirale alta inflazione e alta disoccupazione di 30 anni fa ci vollero il pugno di ferro del governatore della Fed Paul Volcker e la profonda recessione dell'81-'82: l'inflazione scese dal massimo del 13,5% dell'81 al 3,2% dell'83. E dall'85 sia l'economia Usa sia Wall Street iniziarono una lunga fase di crescita, con solo due brevi e lievi parentesi di frenata ('90-'91 e 2001).
Ma per la Fed e la Casa Bianca è difficile prendere misure impopolari proprio in un anno elettorale. Se davvero si verificherà uno scenario da stagflazione, nei prossimi mesi i consumatori avranno sempre meno soldi da spendere per i consumi non strettamente necessari, oltre al cibo e alla benzina; la Borsa continuerà a navigare nell'incertezza o peggio, mentre con l'inevitabile rialzo dei tassi risaliranno anche i rendimenti dei titoli obbligazionari a medio-lungo termine. Ecco perché i capitali parcheggiati prudentemente in liquidità sono a un livello record sia negli Usa (3 mila miliardi di dollari) sia nel mondo (nelle casse per esempio dei fondi sovrani).

 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

 

 

Gestori, tempi duri in Borsa

13/03/2008 17.17 - di Sara Silano
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I gestori, interpellati da Morningstar nel consueto sondaggio mensile, vedono ancora grigio sulle Borse. I mercati nei prossimi mesi rimarranno sotto pressione e in alcuni casi scenderanno ancora. Sono molte le incognite e le poche notizie positive non riescono a sollevare il morale.

Stagione degli utili avara in Europa

La crescita economica in Eurolandia è minacciata dalla forza dell’euro, dai continui rincari dei prezzi dell’energia e delle materie prime e dalle ripercussioni della crisi del credito. Tutti questi fattori rischiano di rendere la stagione degli utili societari più avara rispetto agli anni scorsi. E’ convinzione diffusa tra i gestori che le stime dovranno essere riviste al ribasso. Oltre un terzo degli intervistati prevede una discesa dei listini del Vecchio continente nei prossimi sei mesi, mentre il 38% si attende un andamento laterale.

Non si discosta molto il giudizio su Piazza Affari, con il 41% dei fund manager che indica una stabilità attorno agli attuali livelli. La forte concentrazione sul settore finanziario fa sì che il listino italiano continui a subire gli effetti negativi della crisi di liquidità innescata da mutui subprime (quelli di bassa qualità) americani.

Wall Street, occhi puntati sulla Fed

L’iniezione di liquidità decisa dalla Federal Reserve nei giorni scorsi ha scaldato Wall Street solo per un giorno; poi tra i trader è tornata la preoccupazione per il forte rallentamento della crescita economica, il caro-greggio e la crisi del mercato del credito, che sembra lontana dalla soluzione. Se da un lato il piano di stimoli varato dall’amministrazione Bush e la debolezza del dollaro possono rappresentare un sostegno per l’economia nel medio periodo, nel breve preoccupa il peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro e il calo della spesa per consumi, che alimentano i timori di recessione.

Secondo alcuni gestori, le notizie negative non sono completamente incorporate nei prezzi di Borsa, per cui le quotazioni continueranno a scendere. Rispetto al mese scorso, la percentuale di pessimisti è leggermente aumentata dal 35 al 38% a fronte di una diminuzione dei fund manager che prevedono un andamento laterale. L’attenzione, comunque, è rivolta alle dichiarazioni e alle manovre della Banca centrale americana che hanno una duplice rilevanza: sono termometro della situazione congiunturale e possono dare una boccata d’ossigeno al mercato.

Tokyo, inversione di rotta non facile

Sulla Borsa di Tokyo continuano a pesare una serie di fattori negativi. La crescita del Prodotto interno lordo nel quarto trimestre 2007 è stata confermata allo 0,9%, ma è stata rivista al ribasso la stima annua scesa al 3,5% dal precedente 3,7%, a causa della debolezza della domanda interna e del rallentamento dei consumi americani. Non aiutano la forza dello yen, la situazione politica, le manovre fiscali poco favorevoli e le forme di governo societario meno trasparenti rispetto ad altri mercati sviluppati. Circa il 24% dei gestori prevede, di conseguenza, un ribasso della Borsa nei prossimi sei mesi, mentre il 43% stima una stabilità attorno agli attuali livelli perché il listino nipponico ha già perso molto in passato e potrebbe rimbalzare ai primi segnali di miglioramento congiunturale.

Bce, lotta tra rallentamento e inflazione

La Banca centrale europea ha lasciato i tassi invariati al 4% nella riunione del 6 marzo, ribadendo l’obiettivo primario di tenere sotto controllo l’inflazione, che è attesa in rialzo a causa dell’aumento del prezzo delle materie prime e dei beni alimentari. Sulla posizione assunta dall’istituto guidato da Jean Claude Trichet, i gestori sono divisi: secondo alcuni il caro-vita è un falso problema, mentre quello vero è la crescita economica; secondo altri è un fattore da non sottovalutare. Circa un terzo degli intervistati è convinto che i rendimenti scenderanno a fronte di un incremento dei prezzi, mentre poco meno del 40% propende per una stabilità attorno agli attuali livelli.

Fed concentrata sul rischio recessione

I gestori sono convinti che i tassi di riferimento continueranno a scendere negli Stati Uniti, perché la Banca centrale Usa è impegnata per impedire una recessione. A differenza della Bce è meno preoccupata per l’inflazione che, secondo alcuni gestori, invece, potrebbe rappresentare un problema. Pochi si attendono un rialzo dei prezzi delle obbligazioni (meno del 20%), mentre il 47,6% degli intervistati prevede un ribasso nei prossimi sei mesi.

Dollaro troppo debole

Mentre l’euro tocca nuovi massimi nei confronti del dollaro, i gestori che prevedono un ulteriore apprezzamento della moneta comunitaria si attestano sotto il 10%. Poco meno della metà stima, invece, un riscatto del biglietto verde. In gioco ci sono gli equilibri del sistema finanziario internazionale che potrebbero essere messi in crisi da una divisa americana troppo debole. L’inversione, però, non avverrà a breve. “Il rally del dollaro non partirà prima della fine del secondo semestre”, dice Kevin Grice, economista di American Express. “La forza dell’euro aiuta il Vecchio continente a combattere l’inflazione, mentre la debolezza del biglietto verde è un’arma per lottare contro la recessione”.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 4 e l’11 marzo, 21 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am, Aletti Gestielle, Alpi fondi Sgr, American Express, Banca Ifigest, Banca Profilo, Dws Investments, East Capital, Euromobiliare Sgr, Eurizon Capital, Fideuram asset management, Ing Im, Investitori, JC&Associati, Julius Baer, Mps Am,, Pioneer Im, Sella gestioni, Soprarno Sgr, Total Return Sgr, Vontobel.

 

Fonte - Morningstar.it

 

 

 

 

Carlyle e Bear Stearns: è iniziato il big crash?

18 Marzo 2008 00:12 ROMA - di Eugenio Occorsio

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Il termine «collasso strutturale» lo usa Ben Halliburton, stratega della Tradition Capital. Invece per Brian Barish, presidente della Cambiar Investor, «è il momento più terribile da decenni». Per la prima volta venerdì, il panico, quello vero, si è diffuso a Wall Street. Stretti fra la crisi della Carlyle e il salvataggio per il rotto della cuffia della Bear Stearns, gli operatori si chiedevano: «Ora cosa ci aspetta?»
Il terrore si è dipinto nei loro occhi per la rapida successione di due elementi nuovi: non sono stati i subprime ad affondare il fondo Carlyle Capital ma dei blasonati titoli basati su mutui market grade con tanto di tripla A, e nel caso della Bear Stearns si è assistito ad un salvataggio in piena regola concertato fra la JP Morgan, che ha inondato di liquidità la banca sull’orlo del collasso, e la Federal Reserve, con il coordinamento di Bernanke in persona.

Due crisi parallele e concatenate. La Bear Stearns infatti è la banca più esposta verso la Carlyle, che a sua volta ha subito alla fine della settimana scorsa i pesanti contraccolpi del collasso di uno dei suoi principali fondi d’investimento. Wall Street ha ceduto sotto la spinta delle cattive notizie, quanto alle due istituzioni hanno vacillato pur senza crollare definitivamente almeno per il momento: la potente finanziaria del private equity per la sua forza intrinseca, la quinta banca d’investimenti americana per l’intervento d’emergenza della JP Morgan, che ha assicurato «tutto il denaro di cui la Bear Stearns avrà bisogno» almeno per i prossimi 28 giorni. La Fed ha attivato la speciale linea di credito predisposta per queste occasioni, utilizzata finora solo per due casi minori.
Ma ora veramente, come dicono gli operatori, tutto è possibile. Venerdì, per completare il dies horribilis, anche la Lehman ha avuto bisogno di qualche intervento tampone, e anche qui la Fed ha vigilato: sembra il preludio del Big Crash, o almeno del «fallimento di qualche grossa banca» come profetizzavano nella convulsa serata di venerdì diversi trader di Wall Street.
All’origine dell’ennesima tempesta, le obbligazioni con cui la Carlyle ha costituito il fondo Carlyle Capital, quotato otto mesi fa all’Euronext di Amsterdam e basato sulla cartolarizzazione di mutui in apparenza sani. Invece, 16,6 miliardi di dollari si sono dissolti rendendo vano il tentativo di salvataggio degli altri 5 miliardi rimasti: la Carlyle ha preferito lasciar fallire il fondo anziché continuare a buttarci denaro.
Si è aperta così una pagina nuova: non solo i subprime, sono a rischio tutti i titoli strutturati in qualche modo intorno al mercato immobiliare. La Carlyle chiude drammaticamente la prima esperienza borsistica: il secondo colosso mondiale del private equity dopo Blackstone, con 85 miliardi di patrimonio investito e 200 società in portafoglio, quartier generale a Washington e rapporti privilegiati con il milieu politico a partire dai Bush, quando decide di quotare uno dei suoi 55 veicoli di finanziamento vive il momento di maggior fulgore. Negli stessi mesi si stanno quotando il grande padre Blackstone, e poi il Fortress, anch’esso del Gotha del settore, tutti peraltro con risultati che si riveleranno disastrosi.
Tutto quello che lavorava a favore si trasforma in una trappola, a partire dal leverage esasperato: per comprare le obbligazioni, il fondo ha impegnato 670 milioni di dollari prendendone a prestito 32 volte tanto e arrivando così ai 21,7 miliardi dell’investimento complessivo (di questi se ne sono già bruciati più di 16). Per prestargli i soldi, visto il nome che porta si muovono i colossi della finanza: Bank of America, Citigroup, Merrill Lynch, Lehman Brothers, appunto Bear Stearns. Tutti, via via che l’attivo del fondo si stava svalutando, hanno chiesto di rientrare di parte dei margin call che avevano finanziato, alzando il volume delle garanzie reali. Ora che Carlyle ha smesso di reintegrare le perdite sono stati autorizzati a prendersi il poco che resta.
Le banche (vista l’ampiezza del margin call iniziale) vigilavano sul valore del fondo: quando questo ha cominciato a crollare, hanno chiesto a Carlyle di reintegrare il collateral fino a rientrare nel margine iniziale (1 a 32 come si diceva), minacciando di sequestrare i titoli come indennizzo. Alla fine Carlyle cede, ma non è sufficiente per le banche più esposte come Bear Stearns che ora si dibatte per non affogare. Anche perché, a parte la vicenda Carlyle, ha una serie di altri problemi: tra l’altro è stata la prima banca a sperimentare sulla propria pelle la scottatura dei subprime, quando all’inizio della crisi dell’estate scorsa fallirono due suoi hedge fund da 1,2 miliardi di dollari.
La vicenda dimostra che banche e private equity vivono in simbiosi, e hanno bisogno di un’economia reale che cammini: il mestiere dei private equity è comprare aziende manifatturiere (private, appunto, e non public, insomma non quotate), valorizzarle e poi rivenderle entro 23 anni. Perché l’incremento di valore avvenga serve che l’azienda produca un certo giro d’affari: ma i consumi in America sono fermi. E con essi l’intero sistema diventa a rischio.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Sabato 15 marzo 2008   Martedì 18 marzo 2008   Martedì 18 marzo 2008  
       
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Perché gli USA potrebbero salvarsi dalla recessione

Mercoledì 26 Marzo 2008, 16:13 - di Banche e Risparmio

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Abbiamo parlato più volte dei grossi rischi per l'economia USA di entrare in una fase di recessione, potenzialmente severa. Sono però anche numerose le voci più ottimiste (ma non "ottimisti per partito preso") e credo valga la pena approfondire queste considerazioni. Il punto chiave che viene sottolineato è che è scenari come quelli disegnati da Roubini nel suo "scenario a 12 passi" sono verosimili, ma solo se il mercato è lasciato a se stesso.
Gli USA invece potrebbero, e dovrebbero, fare tesoro del passato, ed in particolare dall'esperienza della deflazione giapponese, scenario temuto da molti. Il timore infatti è che si attivi la cosiddetta trappola delle liquidità, una situazione in cui nonostante gli interessi bassi o nulli gli investitori preferiscono tenere tutto o quasi il loro capitale impegnato a breve termine, piuttosto che investirlo a medio-lungo termine, togliendo però così ulteriore ossigeno all'economia. Come premessa però va detto che lo scenario non è ancora chiaro, dato che vi sono sì analogie con la deflazione "in stile giapponese", ma altri elementi fanno invece pensare ad una possibile stagflazione.
Il governo USA potrebbe intervenire acquistando i Mortgage-Based Securituies, i titoli sui quali si è accesa la miccia della crisi dei mutui subprime, eliminando così dal mercato i rischi ad essi connessi;
Uno degli elementi chiave è però l'affidabilità delle valutazioni degli asset: l'intervento pubblico non contribuisce a dare "credibilità" al sistema, ma è necessario l'investimento da parte di terze parti;

La crisi del Giappone è stata lunga e pesante, ma la situazione iniziale era peggiore: c'era molta più sopravvalutazione ed indebitamento. In USA adeguate politiche monetarie e fiscali potrebbero essere sufficienti, anche se il prezzo sarà un aumento dell'inflazione;
Il vantaggio odierno degli USA rispetto alla crisi del Giappone di qualche anno fa può essere inoltre la tempestività dell'intervento, che nel paese del sol levante invece è tardato.
Le politiche monetarie possono non essere sufficienti a risolvere una contrazione del credito dovuta a mancanza di fiducia tra le parti: non vanno esclusi a priori interventi poco convenzionali (soprattutto per gli USA) come l'acquisto da parte dello stato del debito di aziende private (che comunque è quello che in pratica è già successo nel caso di Bear Stearns)
Sicuramente, la possibilità (e la capacità) di sfruttare le esperienze del passato potrà tornare fortemente utile agli USA, a condizione però che le premesse relative alle similitudini ed alle differenze vengano colte appieno, cosa che purtroppo è facile da fare solo a posteriori.

 

Fonte - Banche e Risparmio [http://banche.blogspot.com]



 

 

 

 

Valute: il dollaro verso la fine del tunnel

24 Marzo 2008 15:55 MILANO - di Maximilian Cellino
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La crisi del dollaro? Potrebbe essere prossima al termine. Lo sostengono gli esperti dei mercati valutari delle principali banche d'affari italiane ed estere intervistati da Plus24 in edicola sabato 22 marzo. Difficilmente però la risalita del biglietto verde sarà rapida quanto la caduta (questa settimana l'euro ha raggiunto quota 1,59) e non sono da escludere ulteriori turbolenze, almeno fino a giugno. Sul settimanale anche un approfondimento sulle valute alternative al dollaro e un'analisi dei nuovi strumenti di maggiore efficacia e facile utilizzo, come ad esempio i certificati di investimento.
Incertezza a breve termine
«Viste le diverse impostazioni di politica monetaria negli Usa e in Europa e l'ampliamento del gap di crescita atteso nel primo trimestre, penso che il processo di deprezzamento del dollaro possa proseguire ancora scaricandosi principalmente nei confronti dell'euro», sostiene Cosimo Musiello di Prometeia Advisor Sim, che prevede per fine giugno un euro/dollaro compreso fra 1,60 e 1,70. Come lui la pensa però l'11% degli intervistati (il 4% addirittura "prospetta" a breve valori superiori a 1,70), mentre la grande maggioranza (64%) ritiene che da qui ai prossimi tre mesi si continuerà a oscillare attorno agli attuali livelli (fra 1,50 e 1,60).
Svolta nel secondo semestre
Gli analisti appaiono ancora più possibilisti quando si sposta in avanti l'orizzonte temporale: per il 79% del panel l'euro/dollaro chiuderà il 2008 tra 1,40 e 1,50 e per il 7% addirittura sotto questa quota. Soltanto il 14% indica un livello compreso fra 1,50 e 1,60, mentre nessuno si spinge oltre. «Adesso l'euro è sopravvalutato di quasi il 25% nei confronti del dollaro in termini di parità del potere di acquisto», sottolinea Didier Borowski di Société Générale Am. Ma a convincere gli esperti sono anche le capacità di recupero degli Stati Uniti: «Credo che un dollaro debole sia oggi una buona valvola di sfogo per l'economia Usa, che ne dovrebbe beneficiare con un ulteriore miglioramento della bilancia commerciale», osserva Marco Pelissero di Banca Patrimoni Sella & C. e pure Giorgio Giovannini di Henderson Global Investors è convinto che «oggi l'America è in crisi, ma sarà anche il primo mercato a riprendersi in termini di crescita economica».
Ricadute sull'Europa
Per capire dove andranno i mercati valutari nei prossimi mesi sarà dunque fondamentale osservare la risposta dell'economia americana alle difficoltà di questi giorni. Ma sarà altrettanto importante valutare l'impatto che le disavventure finanziarie avranno sugli altri Paesi, anche perché, come aggiunge Mauro Toldo di DekaBank, «se la crisi mette in difficoltà l'economia europea è possibile che ci sia pressione sull'euro».
E uno sguardo attento, sotto questo aspetto, se lo meriterà anche la Banca centrale europea (Bce): finora a Francoforte non si è andati oltre a esternazioni generiche sul «disordinato aggiustamento del mercato dei cambi». Difficilmente però si potrà continuare ad assistere inermi a un apprezzamento della valuta che rappresenta anche un serio freno alla crescita del Vecchio Continente.
«Nella seconda parte dell'anno – osserva Corrado Caironi di BlackRock – assisteremo a una convergenza in termini di tassi fra Usa ed Europa e la Bce si indirizzerà verso una maggiore flessibilità, con possibili tagli del costo del denaro». In questo modo anche gli effetti dell'allargamento del differenziale tassi Bce-Fed, uno fra i fattori chiave della caduta del dollaro, sarebbero destinati ad affievolirsi.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

Borsa: il sistema deve ancora spurgarsi

28 Marzo 2008 16:54 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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Il primato della longevità tra gli umani spetta agli abitanti dell’isola di Okinawa, in Giappone. I gerontologi dicono che per un terzo è merito della genetica, per un terzo delle abitudini poco sedentarie e per un terzo della dieta. Pesce, moltissima verdura e l’abitudine di alzarsi da tavola con ancora un po’ di fame.
Abituarsi a lasciare qualcosa nel piatto sarà di grande aiuto alla longevità di chi sta sui mercati in una fase storica di riduzione della leva accompagnata da grande volatilità.
Stephen Jen disse in gennaio che il 2008 sarebbe stato un anno caratterizzato dalla paura nella prima metà e dall’avidità nella seconda. Non c’è dubbio sul fatto che il primo trimestre sia stato quasi tutto all’insegna della paura. Il secondo, che sta per iniziare, sarà probabilmente di transizione dalla paura all’avidità.
Anche se questa tesi fosse completamente vera sarebbe imprudente, a nostro avviso, farsi prendere la mano e riempirsi di rischio fin da subito. La nostra tesi è che c’è tempo per fare le cose con calma e ordinatamente e che bisogna soprattutto usare molta moderazione.
Questo non è il 2003, non è l’inizio di un bull market di cinque anni solido, tranquillo e lineare. Il mondo non ha un enorme output gap di risorse inutilizzate come allora. Non ha un’inflazione prossima allo zero. Non ha (tranne qualche area dei crediti) valutazioni così assurdamente basse. Non ha (per niente) un sistema finanziario tranquillo. Non ha (ancora) un leverage prossimo a zero e pronto quindi a ricaricarsi come una molla che spinge al rialzo le quotazioni. Non ha (per niente) un settore immobiliare pronto a fare da avanguardia di una ripresa generale del ciclo economico come tradizionalmente avviene.

Questo, al più, è un bear market rally. A essere precisi il vero bear market rally partirà probabilmente a giugno. Quello in corso è certamente un tradable rally, ma è poco di più di un rally di sollievo per il fatto di non essere tutti quanti sprofondati nell’abisso dietro a Bear Stearns. E’ un rally benedetto, che ha combustibile per arrivare a una fine trimestre meno impresentabile, ma che dovrà vedersela nei prossimi due mesi con dati macro non necessariamente orribili ma di sicuro non belli, con utili eterogenei (qualcuno che andrà bene grazie al dollaro debole e alle esportazioni ci sarà di sicuro) ma nel complesso deludenti e in discesa e con venti strutturali ancora fortemente contrari come il bear market delle case, l’aumento dei pignoramenti, la riduzione del leverage.
Da qui a metà maggio ci sarà il tempo di portarsi da sottopesati a neutrali un poco alla volta, evitando accuratamente di rincorrere i rialzi e utilizzando solo i momenti di ribasso. In maggio e giugno si verificherà la situazione e, nel caso, ci si potrà portare a leggermente sovrappesati. Meglio, in tutta questa fase, essere sempre leggermente in ritardo (ma più sicuri) piuttosto che buttarsi allo sbaraglio.
Non bisogna perdere mai di vista l’elemento strutturale. Per feroce e rabbiosa (e creativa e brillante) possa essere la risposta della Fed, si tratta sempre di una risposta, di qualcosa cioè che serve a mitigare la crisi, ad evitare contagi generalizzati e circoli viziosi e ad abbreviarne la durata. Bernanke non è Superman, non può trasformare un’asset deflation con recessione in un’asset inflation con ripresa ciclica duratura dalla sera alla mattina.
Il sistema deve ancora spurgarsi. Il pendolo della leva è ancora a metà strada. Nessuno ha più leve di 50 a uno, ma in giro sono molti di più quelli che vorrebbero accorciare la leva che hanno rispetto a quelli che sono disposti ad allungarla. Come dice Paul McCulley nella sua nota mensile ("Not Good Times", sul sito di Pimco) quando un asset passa da un hedge fund con leva a 50 a una banca (anch’essa a leva, sia pure minore) il suo prezzo deve scendere. E quando questo stesso asset passa dalla banca al fondo dedicato senza leva e da questo all’investitore individuale che mette a rischio solo eccezionalmente una piccola parte del suo portafoglio, il prezzo deve continuare a scendere.
Con le sue misure così aggressive la Fed dà al pendolo una spinta contraria a quella naturale con l’intenzione di rallentarla, non di fermarla o invertirla (se non temporaneamante). La Fed con il coltello tra i denti può ridurre i 15 anni di asset deflation giapponese a tre (di cui uno già scontato e uno, il 2008, con qualche bear market rally d’intrattenimento) e sarebbe comunque un buon risultato.
Gli ottimisti dicono che comincia a essere ora di smettere di combattere la Fed. Mettersi contro la Fed è, alla lunga, una pessima idea e chi è short o anche solo sottopesato deve sempre tenerlo presente. Alla lunga, però. Nel periodo dall’11 settembre 2001 fino al marzo 2003 i mercati combatterono con successo non solo una Fed aggressivamente reflazionista e sempre più preoccupata, ma anche una politica fiscale super-espansiva (con tagli di tasse ampi e permanenti, non con un assegno una tantum come quest’anno). Alla fine, come sempre, vinse la Fed, ma solo alla fine.

C’è poi da chiederesi che cosa voglia davvero la Fed. Il suo obiettivo massimo non è una brillante e duratura ripresa economica (come era invece nel 2001 e 2002). Oggi si punta ad anni di crescita bassa (per non fare riesplodere il disavanzo delle partite correnti) e ad un rallentamento della discesa dei prezzi delle case. Quanto alle borse, la Fed non vuole che cadano, ma non ha l’obiettivo di gonfiarle più di tanto. Quanto al dollaro, la Fed tace non solo perché non è direttamente di sua competenza ma anche perché le va benissimo che continui a deprezzarsi, meglio se in modo ordinato e graduale.
Non c’è solo la Fed, dicono gli ottimisti, ci sono anche il Tesoro e il Congresso. E c’è perfino l’Europa, con la quale secondo il Financial Times si studiano interventi coordinati di sostegno ai mutui cartolarizzati. E’ vero.
E’ innegabile che ci sia un grande fermento intellettuale e che ci sia la disponibilità, in linea di principio, a percorrere strade nuove e audaci. A differenza dei due predecessori inesistenti, Paulson ha grande statura e determinazione. Le idee non mancano e, alla fine, si concretizzeranno. Non vanno però dimenticate le resistenze.
Ci sono gli scrupoli dei repubblicani che non vogliono creare l’ennesima agenzia che si occupi di case e non vogliono usare troppi soldi pubblici per sostenerne il prezzo e rilevare i mutui dal mercato (se lo fa la Fed è diverso, è un intervento ad hoc che non implica la creazione di nuovi carrozzoni). Ci sono però anche gli scrupoli democratici, come si vede dalla commissione d’inchiesta del Senato sulla questione Bear Stearns, che certamente non incoraggia la Fed nella sua azione di sostegno ai mercati.
Come si vede la situazione è complessa e fluida. Da un giorno all’altro può verificarsi un nuovo spiacevole evento di credito (anche se l’azione della Fed ha tolto l’elemento d’isteria e di panico, non per questo cesseranno i default di questo o quel soggetto, augurabilmente minore). Ma da un giorno all’altro può essere introdotta una nuova misura da parte della Fed o di altri policy maker. Avere leva lunga, in queste circostanze, significa ritrovarsi prima o poi a dovere chiudere male le posizioni. Avere poca leva (o non averne) significa potere pazientare senza farsi male inutilmente.
Il discorso vale a maggior ragione per le materie prime. La loro finanziarizzazione sta portando a un aumento progressivo della volatilità. Peggio ancora, aumenta la correlazione delle materie prime tra di loro e con gli asset di rischio in generale. Fino a qualche anno fa era rarissimo vedere tutte le materie prime, agricole e industriali, muoversi sempre e comunque nella stessa direzione. Se ci si pensa, un raccolto andato male per una siccità non ha nessuna correlazione con uno sciopero nelle miniere cilene di rame. Oggi invece hedge fund, fondi pensione e investitori individuali comprano e vendono panieri preconfezionati conoscendo appena quello che contengono.
In questo nuovo contesto finanziarizzato e vista la persistenza della crescita in Asia difficilmente vedremo un vero e profondo bear market di qui a metà anno, anche se riesce difficile pensare a rialzi ulteriori. Potremo vedere invece una ripresa d’interesse speculativo nel secondo semestre, da cavalcare, nel caso, con grande prudenza.

 

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank

 

 

 

  Mercoledì 19 marzo 2008   Venerdì 21 marzo 2008   Mercoledì 26 marzo 2008  
       
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La FED é in ostaggio

31 Marzo 2008 04:58 ROMA - di Massimo Riva

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Con il suo ultimo taglio al costo del denaro la Federal Reserve ha valicato un confine importante, incamminandosi per una strada forse utile nell'immediato ma di sicuro gravida di rischi futuri. La discesa dei tassi al 2,25 per cento è stata decisa, infatti, in un momento nel quale la curva dell'inflazione Usa continua a muoversi un poco sopra il 3 per cento. Ciò significa che, in termini reali, il rendimento dei Federal Funds è ora negativo.
Una scelta di politica monetaria così aggressiva è stata spiegata con argomentazioni a prima vista ineccepibili: le prospettive dell'economia stanno peggiorando, i consumi rallentano e così anche l'occupazione, mentre i mercati finanziari sono in grande stress e la crisi del credito minaccia da vicino la crescita economica. Solo che queste ottime ragioni non possono nascondere o cancellare le controindicazioni implicite nella decisione assunta.
Non va sottovalutato il pericolo che i mercati interpretino la mossa della Fed come un abbassamento non episodico della guardia sul fronte dell'inflazione. Ciò può indurre gli investitori a ritenere che, in realtà, la banca centrale Usa giudichi la situazione anche molto peggiore di quanto già appaia alla luce di tracolli bancari come quello di Bear Stearns. Nel qual caso una prima e pesante ripercussione sarà la richiesta di rendimenti più elevati sui titoli a medio e lungo termine, con effetti non certo favorevoli a una ripresa degli investimenti. Ma neppure al collocamento di nuovi titoli per il rifinanziamento dell'abnorme debito pubblico americano sui mercati internazionali, che sono già non poco diffidenti verso il dollaro a causa dei suoi continui scivoloni.

Il fatto è che una banca centrale, quando mostra una più attenuata volontà di lotta all'inflazione, lancia ai mercati un messaggio comunque poco tranquillizzante. Tanto più se accompagnato, come nel caso specifico, dalla considerazione che nella situazione data non si poteva fare altrimenti. In questo modo si rafforza la pessima impressione che la Fed si sia mossa non tanto per intima convinzione sulla bontà della sua scelta, ma sotto il ricatto imperativo di quei soggetti finanziari che con le loro spericolate scommesse hanno creato le tante, troppe posizioni di pericolo dalle quali potrebbero scaturire anche guai ben più seri, con danni diffusi all'intero sistema finanziario oltre che all'economia reale.
Già la crisi dei mutui 'subprime' ha messo in forte risalto il vuoto di efficaci poteri di vigilanza sulla moltiplicazione di strumenti finanziari ad alto rischio. Ora le terapie di contrasto stanno ingenerando l'inquietante sensazione che a guidare la danza non siano le autorità di controllo - Fed in testa - ma ancora e sempre gli stessi soggetti che sono all'origine del disastro. Al punto che sono sempre costoro anche ad arrogarsi il potere di stabilire quali dosi di verità contabili si possono rendere di pubblico dominio, dunque quali dosi di verità siano compatibili con la conservazione della loro forza di condizionamento sulle scelte delle pubbliche autorità. Una Fed ostaggio degli avventurieri della finanza è quanto di peggio ci si possa aspettare.

 

Fonte - L'espresso

 

 

 

 

 

Guadagni miliardari dietro il fallimento di Bear Stearns

31 Marzo 2008, 14:56 - di BlueTG.it
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Il crollo dei titoli Bear Stearns e la successiva cessione lampo a JP Morgana ha da un lato fatto perdere miliardi di dollari a clienti e dipendenti del broker, dall’altro fatto guadagnare milioni o miliardi (non è ancora dato sapersi ndr) ai soliti fondi hedge che hanno ‘scommesso’ sul default del gruppo.

Harbinger Capital Partners, Greenlight Capital, Tremblant Capital Group e Paulson & Co, sarebbero gli hedge che avrebbero guadagnato speculando al ribasso sulla quinta banca d’affari degli Stati Uniti.

Harbinger Capital, il fondo da 19 miliardi di dollari gestito da Philip Falcone (ex responsabile delle attività di trading high yield Barclays Capital) avrebbe aperto le prime posizioni corte su Bear Stearns nell’estate del 2007, più o meno pochi mesi dopo che sono emersi i primi problemi della banca guidata dall'allora Ceo James Cayne. Da allora i titoli sono passati da 150 dollari a 5 dollari per azione, una montagna di soldi per chi speculava al ribasso.

Restano comuqnue numerosi dubbi circa il ruolo di questi fondi e soprattutto quanto sapevano sull’effettivo stato di salute del 'malato' Bear Sterns.

Mr. Falcone, come Paulson & Co, infatti, utilizzavano entrambi Bear Stearns come prime broker. I due fondi hedge erano quindi capaci di interpretare (o sapere ndr) più di chiunque altro come sarebbe finito il gruppo di New York. Un altro dato da considerare è l’elevatissimo numero di operazioni short che sono state aperte sul gruppo negli ultimi mesi, altro indicatore di come alcuni soggetti stavano scommettendo sul default della banca.

Paulson & Co, gruppo cogestito da John Paulson e Paolo Pellegrini, lo scorso anno si è aggiudicato il podio come miglior fondo hedge del pianeta con oltre 2,7 miliardi di dollari di commissioni di performance generate.
 

Fonte - BlueTG.it

 

 

 

 

Borse senza bussola investitori in stallo

31 Marzo 2008 04:12 MILANO - di Giuseppe Turani

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La settimana appena finita è stata per i mercati la migliore da inizio anno. Con momenti anche francamente emozionanti, segnati da rialzi di oltre il 3 per cento nel giro di una sola seduta, cosa di cui si era quasi persa la memoria. Dopo quasi novanta giorni le Borse hanno chiuso con dei significativi progressi. Poca cosa rispetto al molto che è stato perso dall´inizio dell´anno, ma forse un segno che qualcosa sta cambiando. Al punto che alcuni si sono affrettati a suonare la grancassa e a dire che la crisi dei mercati era ormai finita e che finalmente si poteva cominciare a guardare avanti, cioè a quello che si poteva comperare.
Ma la situazione non è affatto così chiara. Rimangono dei dubbi. E il più importante è certamente questo: siamo di fronte solo alla voglia di fare un po´ di performance da parte dei gestori dei patrimoni (per avere un dato a fine trimestre meno brutto, e quindi vedere i clienti che sorridono) oppure si tratta di una vera inversione dei mercati? Due i partiti che si confrontano su questo tema, e ognuno con buoni argomenti.

Gli ottimisti elencano una serie di elementi positivi:

a - Il primo è la mossa della Federal Reserve sulla banca Bear Sterns, alla quale è stato impedito di esplodere e che è stata «accasata» presso una banca più seria e meno avventurosa. La cosa ha reso tutti molto più tranquilli.
b - Poi, c´è il fatto che la caduta del prezzo degli immobili in America ha già fatto vedere una battuta d´arresto. La slavina dei prezzi, forse, è entrata in una nuova fase, meno rovinosa per chi ha finanziato gli acquisti di case, cioè per le banche.
c - L´arrivo, a maggio, degli incentivi fiscali in America è ormai vicino (mancano solo poche settimane). E, visto che i mercati tendono ad anticipare...
d - Tiene sempre campo l´idea che la crisi sarà violenta (c´è anche chi non crede nemmeno a questo), ma veloce perché il Pil mondiale è ancora stimato a +4 e pertanto le nuove locomotive dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina) ci faranno presto uscire da una crisi che è più finanziaria che industriale.
e - Le aziende di tutto il mondo (tranne quelle del private equity) sono poco indebitate per cui soffriranno relativamente poco a causa dell´attuale crisi (e scarsità) del credito;
f - La liquidità è sempre enorme e russi, arabi, cinesi e indiani, con davanti a tutti i sovereign funds, sono pronti a rientrare sul mercato degli acquisti quando i prezzi degli assets avranno raggiunto i loro presunti minimi, che potrebbero non essere lontani, a questo punto.
g - Le materie prime ai massimi sono una chiara dimostrazione del fatto che l´economia c´è e è forte.
h - Gli ordini ultradecennali per aerei, navi, noli, piattaforme petrolifere, ecc. dimostrano che molti settori continueranno a tirare ancora per molto tempo.
 

Come si vede, si tratta di un elenco piuttosto lungo di buone ragioni. Ma ci sono anche i pessimisti, che a loro volta hanno un elenco di fatti e idee da sottoporre alla meditazione collettiva:

a - Il rimbalzo tecnico a cui abbiamo assistito questa settimana è tipico del bear market (dei mercati al ribasso), ma durerà poco.
b - I gestori, specie di hedge funds, da una parte non possono perdere totalmente la faccia, e dall´altra si ricoprono dalle tante posizioni short, facendo rimbalzare i listini.
c - L´economia americana sta andando in negativo (il primo trimestre chiuderà sotto lo zero) per cui la recessione è ormai prossima (se anche il secondo trimestre sarà negativo) e influenzerà di sicuro (e non in positivo) l´umore dei mercati.
c - Le banche sono ancora piene di «robaccia» perché, sistemata in qualche modo la faccenda dei sub-prime, ora devono fare i conti con tutte le operazioni a leva di private equity, hedge funds, cartolarizzazioni di crediti al consumo, carte di credito ecc.
d - Molti degli asset restano sopravvalutati e ci vorrà molto per un loro ritorno a valori corretti e quindi i mercati continue ranno a scendere.
e - I consumi non riprenderanno tanto presto perché le classi medie e basse di tutto il mondo occidentale sono state fortemente colpite ed il recupero sarà lentissimo. Non e' solo una questione di soldi, si tratta anche di fiducia. E di propensione a investire.
f - L´inflazione in crescita morde per tutti e questo distruggerà ulteriormente la già scremata ricchezza esistente.
 

Questi sono i due scenari che oggi si fronteggiano sui mercati. Ognuno di essi è fatto di elementi concreti e forti. Decidere chi abbia ragione o torto non è facile e forse non è nemmeno possibile. Anche perché molto dipenderà dalla qualità e dalla quantità dello «sporco» che c´è ancora sotto i tappeti dell´Alta Finanza.
Quindi la conclusione a cui si arriva è quella già nota da tempo: è troppo tardi per uscire dai mercati, ma è ancora troppo presto per rientrare. Insomma, meglio stare alla finestra ancora per un po´.

 

 

Fonte - La Repubblica