L'autunno
del re dollaro
07 Marzo 2008 09:03
PECHINO - di Federico Rampini
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Malgrado abbia perso
negli ultimi sei anni oltre il 40% del suo valore rispetto
all´euro, il dollaro resta il centro del «sistema solare» del
commercio e della finanza globale. Questa sfasatura tra il
crollo del suo valore e la persistenza del suo ruolo egemonico,
è alla radice di molti mali della nostra economia. E´ una
contraddizione che paghiamo in tanti modi: il petrolio oltre i
100 dollari, l´inflazione dei generi alimentari, l´impasse della
Bce che non riesce a tagliare il costo del denaro per colpa di
un carovita importato; tutto ciò si può ricondurre agli
squilibri propagati da «sua maestà decaduta» il biglietto verde.
Perfino la Cina e i paesi dell´Opec subiscono pesanti
ripercussioni interne per la débacle del dollaro, nessuno riesce
a difendersi. Siamo tutti in attesa di una rivoluzione
copernicana nelle regole monetarie. Se non arriva, è anche colpa
nostra.
Eppure il declino
americano è evidente. L´Unione europea ha ormai un Pil superiore
a quello degli Stati Uniti. La Cina ha sostituito l´America nel
ruolo di principale partner commerciale di quasi tutte le aree
del mondo, dall´Europa al Giappone.
Il mondo di oggi è irriconoscibile, i rapporti di forza sono
stravolti, non solo perché l´America è in recessione e stremata
dalla crisi dei mutui, ma anche perché il suo ridimensionamento
è una tendenza di lungo periodo. Il superamento del «sistema
solare» con il dollaro al centro è stato profetizzato più volte.
Ancora un mese fa George
Soros dichiarava a Davos che «è finita un´èra di 60 anni di
espansione della finanza mondiale basata sul dollaro come moneta
di riserva». Ma il dollaro è ancora lì, malconcio e
insostituibile. Warren
Buffett, il più ascoltato investitore degli Stati Uniti, due
giorni fa ha sentenziato che il dollaro non potrà che valere
sempre meno. Di questo passo sarà carta straccia; ma l´unica
carta universale.
L´86% delle transazioni
quotidiane sui mercati dei cambi sono in dollari. I due terzi
delle riserve delle banche centrali (comprese le due più ricche
del mondo, la cinese e la giapponese) sono in dollari. Si parla
da anni di una diversificazione di queste riserve in favore
dell´euro, ma procede a una lentezza esasperante: per ora
le banche centrali mondiali detengono solo un quarto delle loro
riserve in euro, cioè addirittura meno di quanto avevano in
marchi, franchi, lire, fiorini, pesete e tutte le altre
ex-monete dell´eurozona ante – 1999. Ancora più impressionante è
l´egemonia del dollaro nel commercio internazionale, a
cominciare dai mercati delle materie prime.
Più volte dei leader antiamericani hanno cercato di sottrarre il
petrolio al signoraggio del dollaro. Da Gheddafi agli iraniani,
da Saddam Hussein a Hugo Chavez, chi non ricorda le loro
proposte di convertire in euro le quotazioni del greggio? Tutte
chiacchiere. «Perfino un paese come l´Algeria – ha rilevato il
Wall Street Journal – che vende agli Stati Uniti appena il 27%
delle sue risorse energetiche, gestisce il 100% del suo
commercio estero in dollari». La Malesia e l´Indonesia
forniscono la maggioranza delle loro risorse naturali alla Cina:
si fanno pagare in dollari. Il Brasile vende zucchero a tutta
l´Asia: in dollari.
Iran, India, Pakistan e Bangladesh hanno creato una sorta di
mercato comune ma regolano le loro transazioni in dollari. Idem
nel commercio tra Cina e Giappone, tra Cina e Corea del Sud. Un
fenomeno simile accadde nel secolo scorso.
Molto tempo dopo che la
Gran Bretagna aveva cessato di essere l´economia più ricca, la
sterlina rimase la moneta degli scambi e della finanza
internazionale: fino alla seconda guerra mondiale. Il parallelo
non è rassicurante, visti i disastri finanziari avvenuti negli
anni Trenta.
Le conseguenze nefaste che ha su di noi il tracollo del dollaro
sono ben più ampie di quanto si crede. E´ noto che siamo
penalizzati perché le nostre esportazioni costano sempre più
care, non solo sul mercato Usa ma in tutti quei paesi le cui
monete sono agganciate o influenzate dal dollaro, inclusa la
Cina. E´ meno noto il
modo in cui il dollaro debole diffonde i virus dell´inflazione
mondiale. Le fiammate dei prezzi del petrolio e di tutte le
materie prime – metalli, derrate agricole – sono causate «due
volte» dal dollaro. Anzitutto i paesi esportatori di energia e
risorse naturali devono compensare la caduta della moneta con
cui vengono pagati.
Ma vi si aggiunge il ruolo della speculazione: proprio perché
l´America esporta debiti e inflazione, i capitali mondiali
cercano rifugio in investimenti sicuri. Le materie prime sono
diventate l´ultima spiaggia per ripararsi dalla crisi. Nel lungo
termine, certo, petrolio grano e riso rincarano per il boom dei
consumi di Cina e India. Nel breve termine vanno su perché gli
hedge fund accaparrano i «futures» delle materie prime come
protezione dal collasso del dollaro.
Proprio come negli anni
70 di Nixon, l´America esporta la sua crisi in ogni angolo del
mondo.
Perché non riusciamo a sganciarci dal ruolo ingombrante di una
moneta allo sbando? L´euro continua a essere una promessa
mancata, una moneta-leader solo allo stato potenziale.
E´ sintomatico che le
banche centrali di Pechino e di Tokyo possiedano ancora così
pochi euro. Visto dall´Asia – l´area che sta diventando il nuovo
baricentro e la massa critica dell´economia globale –
l´Unione europea è un´entità politicamente inafferrabile. Pesa
anche il fatto che la più grossa piazza finanziaria d´Europa, il
mercato più liquido ed efficiente è Londra, che sta fuori
dall´euro.
Infine quando i fondi sovrani della Cina, di Singapore e degli
emirati arabi vogliono comprarsi le banche americane vengono
accolti a braccia aperte. Nell´Unione europea perfino
acquisizioni franco-italiane, o viceversa, sono ostacolate.
La centralità del
dollaro avrà vita lunga finché non si fa avanti un sostituto
credibile.
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Fonte -
Corriere della Sera |
La
Fed lavora per
far ripartire gli Usa
11/03/2008 10.59 -
di
Marco
Caprotti ______________________________________________
Gli Stati Uniti si
avvicinano a grandi passi alla recessione. A dirlo sono i
mercati. L’indice Msci North America nell’ultimo mese (fino
all’11 marzo e calcolato in euro) ha perso circa il 4%.
L’andamento preoccupa gli operatori perché è legato a una
serie di fattori macroeconomici che dimostrano lo stato di
estrema debolezza della locomotiva Usa. Gli ultimi dati sui
posti di lavoro hanno mostrato una crescita della
disoccupazione che ha colto di sorpresa sia gli organi
federali, sia gli economisti delle grandi istituzioni
finanziarie.
Una ulteriore preoccupazione è il fatto che aumentano i
licenziamenti nella grande distribuzione. Segno evidente che
gli americani hanno meno voglia di spendere. Secondo un
sondaggio di Bloomberg il rallentamento economico degli Usa
sarà più forte delle attese, mentre il recupero sarà più
lento. L’aumento del prezzo del petrolio e il crollo dei
valori immobiliari indebolirà la spesa al consumo riducendo
l’effetto benefico degli incentivi fiscali studiati
dall’amministrazione Bush.
A questo punto aumenta il numero degli economisti pessimisti
su un recupero per il 2009. In questo scenario, dicono gli
esperti, i tassi di interesse americani nel 2008 scenderanno
ancora, arrivando al 2% a dicembre. Le speranze degli
americani (e di chi investe in asset a stelle e strisce) ora
sono tutte nelle mani della Federal Reserve. La banca
centrale americana, oltre ad agire sul costo del denaro, ha
varato un piano di finanziamenti da 160 miliardi di dollari
da fornire alle banche per contenere le svalutazioni legate
ai mutui subprime (quelli di scarsa qualità) che hanno dato
la stura alla crisi scoppiata ad agosto dell’anno scorso. I
tassi di interesse su questi finanziamenti sono stati tenuti
bassi proprio per evitare di mettere in ulteriore difficoltà
gli istituti. Secondo alcune voci (peraltro non confermate)
la Fed potrebbe anche dare finanziamenti a istituzioni
finanziarie non bancarie.
Dal punto di vista operativo il consiglio degli analisti è
quello di seguire la situazione con prudenza senza però
farsi sfuggire le occasioni di acquisto. “Non è la prima
volta che il mercato americano ha a che fare con una crisi o
con una recessione”, spiega Bill Bergman di Morningstar. “E
ogni volta ci sono state buone opportunità per gli
investitori con un orizzonte temporale di lungo periodo. Chi
avesse puntato un dollaro al mese sull’S&P500 dal 1950 ad
oggi si ritroverebbe in tasca, dopo un investimento di 695
dollari, circa 13.750 dollari. Certo, una parte di questo
denaro se lo sarebbe mangiato l’inflazione, ma mettere i
soldi a lavorare sul mercato, sicuramente rende di più che
tenerli ad ammuffire sotto il materasso”.
Fonte - Morningstar.it
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Il mondo
affondato dal dollaro
11 Marzo 2008 07:55
ROMA - di Marcello De Cecco
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Il prezzo del petrolio, in termini
reali, era arrivato a 103,76 dollari nell’aprile del 1980. In
questi giorni, per la prima volta da allora, è salito oltre i
104 dollari. Per capire con quale ascesa di prezzo il mondo ha
dovuto confrontarsi negli ultimi anni, ricordiamo solo che dopo
l’11 settembre 2001 il prezzo ribassò fino a 20 dollari.
Poi di nuovo l’ascesa continua e senza soste, che è stata
altrettanto drammatica di quella che si registrò dall’autunno
del 1973 alla primavera del 1980. Si dice comunemente che ormai
il prezzo del petrolio ha perso parecchia della sua influenza
sull’economia mondiale, perchè il mondo ha imparato a consumare
meno petrolio. Le automobili consumano di meno, così come gli
impianti di riscaldamento, e qualche sostituto è stato trovato e
messo in uso. Ma illudersi è inutile: un’ascesa così drammatica
del prezzo in meno di sette anni avrà ripercussioni altrettanto
profonde di quelle che ebbe quella che si verificò negli anni
settanta.
Basta guardare ai comportamento dei mercati delle materie prime
e delle valute per rendersene conto. Questi mercati sono ormai
dominati dalla speculazione. Le migliaia di hedge fund e anche
di normali fondi di investimento che esistono e devono offrire
risultati positivi ai loro investitori si sono decisamente e
massicciamente spostate sulle merci e sulle valute, dopo aver
ricevuto punizioni anche pesanti dai mercati immobiliari e da
quelli dei derivati finanziari e assicurativi.
Si può dire, ad esempio, senza
molte possibilità di essere smentiti, che i fondi pensione,
anche i più conservatori, dovendo far fronte a necessità sempre
crescenti di uscite finanziarie, per l’invecchiamento di coloro
che ne fanno parte, sono costretti a cercare incrementi di
valore veloci e corposi, senza badare troppo al rischio che gli
investimenti remunerativi presentano. Il guaio è che la massa
degli investitori è ora concentrata su mercati, quali quelli
delle merci primarie e delle valute, non abituati ad essere
sommersi da risorse finanziarie così grandi. Per questo i prezzi
schizzano in alto, in un contesto nel quale i ribassisti, anche
quelli professionisti, non ce la fanno a contrastare il passo
dei rialzisti e forse nemmeno se la sentono.
Per le merci, compreso il petrolio, è facile capire perchè la
speculazione sia solo al rialzo. Si è accreditata infatti
l’opinione che i consumi di prodotti primari debbano salire fino
a quando i paesi emergenti continuano a crescere ai tassi a cui
sono cresciuti negli ultimi anni. In particolare, la Cina ha
acquistato, per la domanda di merci primarie, il ruolo che per
l’offerta di petrolio ha avuto per decenni l’Arabia Saudita: i
suoi movimenti sul mercato sono in grado, per le loro
dimensioni, di far cambiare i prezzi. La stessa Cina, d’altro
canto, esercita un simile influsso sui prezzi di una quantità di
prodotti manufatti, dei quali è diventata il primo produttore
mondiale. Anche in questo settore si prevedono cambiamenti
radicali, ora che la Cina riesce assai peggio di prima a
controllare la crescita della propria inflazione interna,
proprio per le conseguenze dell’inflazione dei prezzi di
petrolio e materie prime, specie alimentari.
Per quanto riguarda le valute,
invece, dato che ciascuna è quotata in termini di confronto con
tutte le altre, la speculazione in una sola direzione dovrebbe
essere meno agevole e meno scontata. Ma i mercati delle valute
sono dominati dalle quotazioni di quelle principali, in
particolare da quel che accade al Dollaro e all’Euro, e subito
dopo da come si comportano lo Yuan cinese e lo Yen giapponese.
E’ opinione comune che il cambio di queste principali valute sia
al momento ampiamente prevedibile per i prossimi mesi. Euro e
Yen, infatti, sono molto meno del Dollaro e dello Yuan dominati
da quel che accade nei loro sistemi finanziari, che si trovano
in condizioni meno precarie di quelle che affliggono i sistemi
finanziari americano e cinese, perchè la speculazione
immobiliare negli Stati Uniti e borsistica in Cina è stata assai
più coinvolgente e devastante per gli intermediari e per i
privati di quanto sia stata in Europa e in Giappone. Le
istituzioni finanziarie europee e giapponesi sono in condizioni
meno precarie di quelle delle loro consorelle americane e
cinesi. Di conseguenza, la Banca centrale europea e la Banca del
Giappone possono permettersi comportamenti non completamente
dominati dalla necessità di impedire il crollo dei rispettivi
sistemi finanziari, come invece accade alla Fed e alla Banca
Popolare della Cina.
Poichè il Dollaro
fluttua liberamente sui mercati, il comportamento fortemente
espansivo della Fed si ripercuote immediatamente sul cambio, in
particolare sul cambio dell’unica altra moneta importante che
fluttua liberamente, che è come si sa l’Euro. La banca centrale
europea, non si sa quanto saggiamente, ritiene che il sistema
finanziario europeo non sia talmente fragile da richiedere la
stessa cura che la Fed sta impartendo a quello americano, a base
di continui e corposi ribassi dei tassi di interesse. Si
preoccupa, non si sa quanto saggiamente, assai di più della
inflazione importata tramite petrolio e materie prime che
affligge le economie europee e delle conseguenze che essa può
avere sulla dinamica salariale dei paesi che adottano l’Euro.
Per questo il cambio Euro/Dollaro continua a salire e la
prevedibilità di tale tendenza induce l’ulteriore rivalutazione
dell’Euro, invitando la speculazione al rialzo, che pensa di non
aver nulla da temere per i prossimi mesi.
Yuan e Yen si comportano
diversamente. Le autorità cinesi e giapponesi credono assai poco
ai cambi fluttuanti e credono di dover contrastare decisamente
tendenze troppo forti alla rivalutazione delle loro monete. Al
contrario, hanno stimolato ormai per parecchio tempo una
tendenza alla loro svalutazione, perchè né le autorità cinesi né
quelle giapponesi riescono a regolare la domanda interna per
ottenere la piena occupazione e la crescita e, per ottenere quel
risultato, stimolano invece le esportazioni. Un discorso
a parte merita il comportamento delle autorità dei paesi
produttori di petrolio. E’ indubbio che esse si trovano a
fronteggiare delle spinte inflazionistiche molto forti
all’interno dei propri paesi, dopo anni di inflazione sotto
controllo.
Il motivo, in particolare nel caso dei paesi del Medio Oriente,
è dato dall’impatto che hanno sui prezzi interni quelli dei
prodotti alimentari. Ma la gran parte della spinta
all’inflazione deriva dalla crescita della domanda interna
indotta dall’aumento del prezzo del petrolio.
I paesi produttori di
petrolio tradizionalmente quotano tale prodotto in dollari e le
loro monete sono per questo agganciate al Dollaro. Ora si
trovano a registrare giganteschi surplus nei propri conti con
l’estero, senza poter contare sulla flessibilità delle proprie
monete per assorbirli almeno in parte.
Accade così che l’ex
governatore Greenspan inciti i paesi del golfo ad abbandonare
tale aggancio alla moneta americana, un consiglio che vista la
sua provenienza suona veramente un po’ surreale.
A parte i consigli di Greenspan, è certo che già dai prossimi
mesi lo strappo nel prezzo del petrolio metterà a disposizione
dei paesi produttori una massa tale di denaro che il suo impiego
farà ulteriormente riscaldare i mercati speculativi rimasti al
rialzo, quelli delle merci, e provocherà nuovi acquisti di
azioni di banche e attività industriali e commerciali da parte
dei fondi sovrani di tali paesi.
Basterà questa spinta, che investirà specialmente gli Stati
Uniti, a far risollevare il sistema finanziario di quel paese
dalla crisi nella quale è precipitato da solo? Basterà a far
risalire il dollaro?
A partire dalla fine del
sistema dei cambi fissi, nell’estate del 1971, il cambio del
dollaro è passato attraverso cinque fasi, di durata e intensità
piuttosto varia. I ribassi si sono alternati ai rialzi, ma
finora ciascun massimo e ciascun minimo è stato inferiore a
quello precedente. Nel 2002 il dollaro, ad esempio, era tornato
al livello di prima della fine del sistema di Bretton Woods.
Poi però è iniziato il nuovo declino, che dura tuttora, e che ha
finora raggiunto il ribasso massimo proprio in questi giorni.
E’ possibile dire che
tutte le inversioni di fase registrate in più di un trentennio
sono state indotte da cambiamenti di rotta delle autorità
monetarie americane.
In particolare, come sta
accadendo a partire dall’autunno scorso, le fasi di declino sono
state indotte dalla impellente necessità che le autorità
americane hanno avuto di reflazionare l’economia e in
particolare di stabilizzare il proprio mercato finanziario,
specialmente anche se non esclusivamente nella l’ imminenza
delle elezioni sia congressuali che presidenziali.
A partire dalla fine dell’era di Paul Volcker, si è notata una
crescente incapacità da parte delle Fed di portare avanti una
politica restrittiva per un periodo meno che breve.
Un tentativo di "fare la
faccia feroce" di Greenspan appena arrivato al posto di comando
condusse molto rapidamente alla grandiosa crisi dell’Ottobre
1987 e alla precipitosa inversione di rotta da parte del
timoniere. Qualche altro tentativo Greenspan lo fece, nella
stessa direzione, ma ogni volta il mercato finanziario americano
reagì disastrosamente, portandosi spesso appresso anche il
sistema finanziario mondiale, con crisi come quella asiatica e
russa del 1997/98.
Questo serve
probabilmente a spiegare perchè il dollaro termini ciascuna fase
discendente a un livello più basso di quello toccato in quella
precedente. Viste le predilezioni e le capacità delle autorità
monetarie dei maggiori paesi e aree monetarie, sembra difficile
prevedere quanto ancora possa durare la fase di ribasso del
dollaro e il tasso di cambio minimo al quale essa terminerà.
Innanzitutto è necessario sapere se la crisi finanziaria nella
quale si dibattono attualmente gli Stati Uniti è una crisi nel
sistema o del sistema. Stabilirlo significa anche capire se gli
Stati Uniti potranno venirne fuori con una politica monetaria
espansiva a oltranza o se sarà invece indispensabile una riforma
profonda delle istituzioni finanziarie e delle regole che le
tengono insieme. E anche se basterà una riforma del solo sistema
finanziario americano o se dovrà aprirsi (e sperabilmente
concludersi in maniera positiva) una fase costituente
dell’ordine finanziario internazionale. Vi sono infatti rapporti
di cambio mantenuti a livelli del tutto artificiali, in
particolare quelli dello Yuan e dello Yen con altre importanti
valute.
Alcuni osservatori, come
Dani Rodrik, credono che sia indispensabile porre la
globalizzazione su nuove basi, perchè le sue fondamenta attuali
hanno permesso allo stesso tempo che prevalgano liberismo
sfrenato e mercantilismo a oltranza da parte dei paesi più
forti. E di questo sono prova sia gli squilibri sui mercati dei
cambi che le soluzioni come la creazione di onnipossenti fondi
di investimento sovrani, controllati dai paesi creditori.
L’agire di questi fondi, che è squisitamente politico anche se
in apparenza resta entro i confini della massimizzazione dei
rendimenti finanziari e delle convenienze economiche,
contribuisce potentemente alla trasformazione della
globalizzazione da un liberismo di facciata al mercantilismo
aperto e generalizzato. Quest’ultimo è un regime che assai
raramente ha coinciso a lungo con la pace mondiale.
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Fonte -
La Repubblica |
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Martedì
11
marzo 2008 |
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Mercoledì
12
marzo 2008 |
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Venerdì
14
marzo 2008 |
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Wall Street
teme la sindrome anni '70
13 Marzo 2008 11:25
NEW YORK - di Maria Teresa
Cometto
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L' inflazione non è un
problema così serio. Più grave è il rischio di recessione, con
aumento della disoccupazione e calo del Prodotto interno lordo e
dei consumi. È il ritornello che Ben Bernanke, il presidente
della Federal Reserve (banca centrale Usa) ripete a Washington,
davanti alle audizioni parlamentari e a Wall Street, davanti ai
banchieri e investitori. E così il mercato si aspetta
nuovi tagli dei tassi d'interesse dei Fed fund (punto di
riferimento per il costo del denaro a brevissimo termine) alla
prossima riunione del 18 marzo; e insieme sconta un balzo
dell'inflazione, cioè dell'aumento dei prezzi.
Così si spiegano anche i
record fatti segnare nei giorni scorsi dalle materie prime e dai
beni di rifugio, e si alimentano i timori che gli Stati uniti
siano alle soglie di una fase di stagflazione stile anni ’70:
un mix di economia stagnante e prezzi alle stelle, nocivo sia
per le tasche dei consumatori sia per i portafogli degli
investitori. Ma anche il resto del mondo è preoccupato:
dall'Europa alla Cina, cresce l'allarme per una fiammata
inflazionistica che riduca le prospettive di crescita globale.
Questa settimana il petrolio ha superato il record storico di
110 dollari al barile (in termini reali, tenuto conto
dell’inflazione) dell'aprile 1980. È boom anche delle quotazioni
di materie prime come platino, argento, grano e rame, mentre
l'oro è vicino ai 1.000 dollari l'oncia, una soglia psicologica
importante anche se lontana dal record del 21 gennaio 1980,
quando costava — in valuta odierna — 2.239 dollari. Intanto il
tasso di aumento dei prezzi al consumo viaggia attorno al 4,3%
annuo negli Usa e al 2,5% se si guarda all'indice «core» — senza
prodotti alimentari ed energetici —, quello monitorato dalla
Fed: un livello basso in assoluto, ma superiore all'ufficioso
obbiettivo dell'1-2%.
Nell'Unione Europea l'inflazione è al 3,4%, la più alta da
quando è stato introdotto l'euro, tanto da giustificare la
decisione della Bce di non aver finora abbassato i tassi; e in
Cina è arrivata al 7,1%, il massimo da 11 anni, diventando il
problema numero uno del Paese secondo il primo ministro Wen
Jiabao.
A spingere i prezzi
all'insù è da una parte la forte domanda di materie prime da
parte dei Pesi emergenti come la stessa Cina o l'India; ma
dall'altra parte è sempre più considerata responsabile la Fed
che con i suoi tagli dei tassi ha indebolito il dollaro e
favorito i rincari, essendo denominati in dollari i prezzi del
petrolio, dell'oro e delle altre commodity.
In gioco è la stessa
credibilità dell'istituzione presieduta da Bernanke. «Una banca
centrale indipendente dovrebbe mantenere il valore della moneta
e prevenire l'inflazione — ha ricordato in un intervento
sul Wall Street Journal Allan Meltzer, professore alla Carnegie
Mellon e autore del nuovo libro «A History of the Federal
Reserve» —. Negli anni
settanta e di nuovo adesso i banchieri della Fed hanno promesso
che avrebbero abbassato l'inflazione, ma appena il tasso di
disoccupazione si è alzato un poco, le promesse sono state
dimenticate. La gente ha capito presto che lo sforzo di
evitare una possibile recessione aveva sopraffatto ogni
preoccupazione sull'inflazione. Molti hanno concluso che i
prezzi sarebbero saliti e che la Fed avrebbe fatto poco oltre le
parole. I prezzi e i salari sono calati molto poco durante le
recessioni. Il risultato è stato inflazione più crescita
stagnante: stagflazione. Sta cominciando a succedere ancora».
In un recente discorso,
anche Charles Plosser, presidente della Federal Reserve di
Filadelfia, ha confermato che il rischio è reale: «Non possiamo
credere che la crescita economica rallentata di inizio 2008 da
sola ridurrà l'inflazione. Come ci insegna l'esperienza degli
anni settanta, quando il pubblico perde la fiducia nell’impegno
della Fed a mantenere la stabilità dei prezzi, riguadagnare
quella fiducia nella Fed diventa poi molto costoso per
l'economia».
Infatti per uscire dalla
spirale alta inflazione e alta disoccupazione di 30 anni fa ci
vollero il pugno di ferro del governatore della Fed Paul Volcker
e la profonda recessione dell'81-'82: l'inflazione scese dal
massimo del 13,5% dell'81 al 3,2% dell'83. E dall'85 sia
l'economia Usa sia Wall Street iniziarono una lunga fase di
crescita, con solo due brevi e lievi parentesi di frenata
('90-'91 e 2001).
Ma per la Fed e la Casa
Bianca è difficile prendere misure impopolari proprio in un anno
elettorale. Se davvero si verificherà uno scenario da
stagflazione, nei prossimi mesi i consumatori avranno sempre
meno soldi da spendere per i consumi non strettamente necessari,
oltre al cibo e alla benzina; la Borsa continuerà a
navigare nell'incertezza o peggio, mentre con l'inevitabile
rialzo dei tassi risaliranno anche i rendimenti dei titoli
obbligazionari a medio-lungo termine. Ecco perché i capitali
parcheggiati prudentemente in liquidità sono a un livello record
sia negli Usa (3 mila miliardi di dollari) sia nel mondo (nelle
casse per esempio dei fondi sovrani).
 |
Fonte -
Corriere della Sera |
Gestori,
tempi duri in Borsa
13/03/2008 17.17 -
di
Sara
Silano ______________________________________________
I gestori,
interpellati da Morningstar nel consueto sondaggio mensile,
vedono ancora grigio sulle Borse. I mercati nei prossimi
mesi rimarranno sotto pressione e in alcuni casi scenderanno
ancora. Sono molte le incognite e le poche notizie positive
non riescono a sollevare il morale.
Stagione degli utili avara in Europa
La crescita economica in Eurolandia è minacciata dalla forza
dell’euro, dai continui rincari dei prezzi dell’energia e
delle materie prime e dalle ripercussioni della crisi del
credito. Tutti questi fattori rischiano di rendere la
stagione degli utili societari più avara rispetto agli anni
scorsi. E’ convinzione diffusa tra i gestori che le stime
dovranno essere riviste al ribasso. Oltre un terzo degli
intervistati prevede una discesa dei listini del Vecchio
continente nei prossimi sei mesi, mentre il 38% si attende
un andamento laterale.
Non si discosta molto il giudizio su Piazza Affari, con il
41% dei fund manager che indica una stabilità attorno agli
attuali livelli. La forte concentrazione sul settore
finanziario fa sì che il listino italiano continui a subire
gli effetti negativi della crisi di liquidità innescata da
mutui subprime (quelli di bassa qualità) americani.
Wall Street, occhi puntati sulla Fed
L’iniezione di liquidità decisa dalla Federal Reserve nei
giorni scorsi ha scaldato Wall Street solo per un giorno;
poi tra i trader è tornata la preoccupazione per il forte
rallentamento della crescita economica, il caro-greggio e la
crisi del mercato del credito, che sembra lontana dalla
soluzione. Se da un lato il piano di stimoli varato
dall’amministrazione Bush e la debolezza del dollaro possono
rappresentare un sostegno per l’economia nel medio periodo,
nel breve preoccupa il peggioramento delle condizioni del
mercato del lavoro e il calo della spesa per consumi, che
alimentano i timori di recessione.
Secondo alcuni gestori, le notizie negative non sono
completamente incorporate nei prezzi di Borsa, per cui le
quotazioni continueranno a scendere. Rispetto al mese
scorso, la percentuale di pessimisti è leggermente aumentata
dal 35 al 38% a fronte di una diminuzione dei fund manager
che prevedono un andamento laterale. L’attenzione, comunque,
è rivolta alle dichiarazioni e alle manovre della Banca
centrale americana che hanno una duplice rilevanza: sono
termometro della situazione congiunturale e possono dare una
boccata d’ossigeno al mercato.
Tokyo, inversione di rotta non facile
Sulla Borsa di Tokyo continuano a pesare una serie di
fattori negativi. La crescita del Prodotto interno lordo nel
quarto trimestre 2007 è stata confermata allo 0,9%, ma è
stata rivista al ribasso la stima annua scesa al 3,5% dal
precedente 3,7%, a causa della debolezza della domanda
interna e del rallentamento dei consumi americani. Non
aiutano la forza dello yen, la situazione politica, le
manovre fiscali poco favorevoli e le forme di governo
societario meno trasparenti rispetto ad altri mercati
sviluppati. Circa il 24% dei gestori prevede, di
conseguenza, un ribasso della Borsa nei prossimi sei mesi,
mentre il 43% stima una stabilità attorno agli attuali
livelli perché il listino nipponico ha già perso molto in
passato e potrebbe rimbalzare ai primi segnali di
miglioramento congiunturale.
Bce, lotta tra rallentamento e inflazione
La Banca centrale europea ha lasciato i tassi invariati al
4% nella riunione del 6 marzo, ribadendo l’obiettivo
primario di tenere sotto controllo l’inflazione, che è
attesa in rialzo a causa dell’aumento del prezzo delle
materie prime e dei beni alimentari. Sulla posizione assunta
dall’istituto guidato da Jean Claude Trichet, i gestori sono
divisi: secondo alcuni il caro-vita è un falso problema,
mentre quello vero è la crescita economica; secondo altri è
un fattore da non sottovalutare. Circa un terzo degli
intervistati è convinto che i rendimenti scenderanno a
fronte di un incremento dei prezzi, mentre poco meno del 40%
propende per una stabilità attorno agli attuali livelli.
Fed concentrata sul rischio recessione
I gestori sono convinti che i tassi di riferimento
continueranno a scendere negli Stati Uniti, perché la Banca
centrale Usa è impegnata per impedire una recessione. A
differenza della Bce è meno preoccupata per l’inflazione
che, secondo alcuni gestori, invece, potrebbe rappresentare
un problema. Pochi si attendono un rialzo dei prezzi delle
obbligazioni (meno del 20%), mentre il 47,6% degli
intervistati prevede un ribasso nei prossimi sei mesi.
Dollaro troppo debole
Mentre l’euro tocca nuovi massimi nei confronti del dollaro,
i gestori che prevedono un ulteriore apprezzamento della
moneta comunitaria si attestano sotto il 10%. Poco meno
della metà stima, invece, un riscatto del biglietto verde.
In gioco ci sono gli equilibri del sistema finanziario
internazionale che potrebbero essere messi in crisi da una
divisa americana troppo debole. L’inversione, però, non
avverrà a breve. “Il rally del dollaro non partirà prima
della fine del secondo semestre”, dice Kevin Grice,
economista di American Express. “La forza dell’euro aiuta il
Vecchio continente a combattere l’inflazione, mentre la
debolezza del biglietto verde è un’arma per lottare contro
la recessione”.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 4 e l’11
marzo, 21 delle principali società di diritto italiano ed
estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80%
degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aberdeen Am,
Aletti Gestielle, Alpi fondi Sgr, American Express, Banca
Ifigest, Banca Profilo, Dws Investments, East Capital,
Euromobiliare Sgr, Eurizon Capital, Fideuram asset
management, Ing Im, Investitori, JC&Associati, Julius Baer,
Mps Am,, Pioneer Im, Sella gestioni, Soprarno Sgr, Total
Return Sgr, Vontobel.
Fonte - Morningstar.it
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Carlyle e Bear Stearns:
è iniziato
il big crash?
18 Marzo 2008 00:12
ROMA - di Eugenio Occorsio
________________________________________
Il termine «collasso
strutturale» lo usa Ben Halliburton, stratega della Tradition
Capital. Invece per Brian Barish, presidente della Cambiar
Investor, «è il momento più terribile da decenni». Per la prima
volta venerdì, il panico, quello vero, si è diffuso a Wall
Street. Stretti fra la crisi della Carlyle e il salvataggio per
il rotto della cuffia della Bear Stearns, gli operatori si
chiedevano: «Ora cosa ci aspetta?»
Il terrore si è dipinto nei loro occhi per la rapida successione
di due elementi nuovi: non sono stati i subprime ad affondare il
fondo Carlyle Capital ma dei blasonati titoli basati su mutui
market grade con tanto di tripla A, e nel caso della Bear
Stearns si è assistito ad un salvataggio in piena regola
concertato fra la JP Morgan, che ha inondato di liquidità la
banca sull’orlo del collasso, e la Federal Reserve, con il
coordinamento di Bernanke in persona.
Due crisi parallele e
concatenate. La Bear Stearns infatti è la banca più esposta
verso la Carlyle, che a sua volta ha subito alla fine della
settimana scorsa i pesanti contraccolpi del collasso di uno dei
suoi principali fondi d’investimento. Wall Street ha ceduto
sotto la spinta delle cattive notizie, quanto alle due
istituzioni hanno vacillato pur senza crollare definitivamente
almeno per il momento: la potente finanziaria del private equity
per la sua forza intrinseca, la quinta banca d’investimenti
americana per l’intervento d’emergenza della JP Morgan, che ha
assicurato «tutto il denaro di cui la Bear Stearns avrà bisogno»
almeno per i prossimi 28 giorni.
La Fed ha attivato la
speciale linea di credito predisposta per queste occasioni,
utilizzata finora solo per due casi minori.
Ma ora veramente, come dicono gli operatori, tutto è possibile.
Venerdì, per completare il dies horribilis, anche la Lehman ha
avuto bisogno di qualche intervento tampone, e anche qui la Fed
ha vigilato: sembra il
preludio del Big Crash, o almeno del «fallimento di qualche
grossa banca» come profetizzavano nella convulsa serata di
venerdì diversi trader di Wall Street.
All’origine
dell’ennesima tempesta, le obbligazioni con cui la Carlyle ha
costituito il fondo Carlyle Capital, quotato otto mesi fa all’Euronext
di Amsterdam e basato sulla cartolarizzazione di mutui in
apparenza sani. Invece, 16,6 miliardi di dollari si sono
dissolti rendendo vano il tentativo di salvataggio degli altri 5
miliardi rimasti: la Carlyle ha preferito lasciar fallire il
fondo anziché continuare a buttarci denaro.
Si è aperta così una
pagina nuova: non solo i subprime, sono a rischio tutti i titoli
strutturati in qualche modo intorno al mercato immobiliare.
La Carlyle chiude drammaticamente la prima esperienza
borsistica: il secondo colosso mondiale del private equity dopo
Blackstone, con 85 miliardi di patrimonio investito e 200
società in portafoglio, quartier generale a Washington e
rapporti privilegiati con il milieu politico a partire dai Bush,
quando decide di quotare uno dei suoi 55 veicoli di
finanziamento vive il momento di maggior fulgore. Negli stessi
mesi si stanno quotando il grande padre Blackstone, e poi il
Fortress, anch’esso del Gotha del settore, tutti peraltro con
risultati che si riveleranno disastrosi.
Tutto quello che
lavorava a favore si trasforma in una trappola, a partire dal
leverage esasperato: per comprare le obbligazioni, il fondo ha
impegnato 670 milioni di dollari prendendone a prestito 32 volte
tanto e arrivando così ai 21,7 miliardi dell’investimento
complessivo (di questi se ne sono già bruciati più di 16).
Per prestargli i soldi, visto il nome che porta si muovono i
colossi della finanza: Bank of America, Citigroup, Merrill
Lynch, Lehman Brothers, appunto Bear Stearns. Tutti, via via che
l’attivo del fondo si stava svalutando, hanno chiesto di
rientrare di parte dei margin call che avevano finanziato,
alzando il volume delle garanzie reali. Ora che Carlyle ha
smesso di reintegrare le perdite sono stati autorizzati a
prendersi il poco che resta.
Le banche (vista
l’ampiezza del margin call iniziale) vigilavano sul valore del
fondo: quando questo ha cominciato a crollare, hanno chiesto a
Carlyle di reintegrare il collateral fino a rientrare nel
margine iniziale (1 a 32 come si diceva), minacciando di
sequestrare i titoli come indennizzo.
Alla fine Carlyle cede,
ma non è sufficiente per le banche più esposte come Bear Stearns
che ora si dibatte per non affogare. Anche perché, a parte la
vicenda Carlyle, ha una serie di altri problemi: tra l’altro è
stata la prima banca a sperimentare sulla propria pelle la
scottatura dei subprime, quando all’inizio della crisi
dell’estate scorsa fallirono due suoi hedge fund da 1,2 miliardi
di dollari.
La vicenda dimostra che
banche e private equity vivono in simbiosi, e hanno bisogno di
un’economia reale che cammini: il mestiere dei private equity è
comprare aziende manifatturiere (private, appunto, e non public,
insomma non quotate), valorizzarle e poi rivenderle entro 23
anni. Perché l’incremento di valore avvenga serve che l’azienda
produca un certo giro d’affari: ma i consumi in America sono
fermi. E con essi l’intero sistema diventa a rischio.
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Fonte -
La Repubblica |
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Sabato
15
marzo 2008 |
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Martedì
18
marzo 2008 |
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Martedì
18
marzo 2008 |
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Perché gli USA potrebbero salvarsi
dalla recessione
Mercoledì 26 Marzo
2008, 16:13 - di Banche e
Risparmio
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Abbiamo parlato più
volte dei grossi rischi per l'economia USA di entrare in una
fase di recessione, potenzialmente severa. Sono però anche
numerose le voci più ottimiste (ma non "ottimisti per partito
preso") e credo valga la pena approfondire queste
considerazioni. Il punto chiave che viene sottolineato è
che è scenari come quelli disegnati da Roubini nel suo "scenario
a 12 passi" sono verosimili, ma solo se il mercato è lasciato a
se stesso.
Gli USA invece potrebbero, e dovrebbero, fare tesoro del
passato, ed in particolare dall'esperienza della deflazione
giapponese, scenario temuto da molti. Il timore infatti è che si
attivi la cosiddetta trappola delle liquidità, una situazione in
cui nonostante gli interessi bassi o nulli gli investitori
preferiscono tenere tutto o quasi il loro capitale impegnato a
breve termine, piuttosto che investirlo a medio-lungo termine,
togliendo però così ulteriore ossigeno all'economia. Come
premessa però va detto che lo scenario non è ancora chiaro, dato
che vi sono sì analogie con la deflazione "in stile giapponese",
ma altri elementi fanno invece pensare ad una possibile
stagflazione.
Il governo USA potrebbe
intervenire acquistando i Mortgage-Based Securituies, i titoli
sui quali si è accesa la miccia della crisi dei mutui subprime,
eliminando così dal mercato i rischi ad essi connessi;
Uno degli elementi chiave è però l'affidabilità delle
valutazioni degli asset: l'intervento pubblico non contribuisce
a dare "credibilità" al sistema, ma è necessario l'investimento
da parte di terze parti;
La crisi del Giappone è
stata lunga e pesante, ma la situazione iniziale era peggiore:
c'era molta più sopravvalutazione ed indebitamento. In USA
adeguate politiche monetarie e fiscali potrebbero essere
sufficienti, anche se il prezzo sarà un aumento dell'inflazione;
Il vantaggio odierno degli USA rispetto alla crisi del Giappone
di qualche anno fa può essere inoltre la tempestività
dell'intervento, che nel paese del sol levante invece è tardato.
Le politiche monetarie possono non essere sufficienti a
risolvere una contrazione del credito dovuta a mancanza di
fiducia tra le parti: non vanno esclusi a priori interventi poco
convenzionali (soprattutto per gli USA) come l'acquisto da parte
dello stato del debito di aziende private (che comunque è quello
che in pratica è già successo nel caso di Bear Stearns)
Sicuramente, la possibilità (e la capacità) di sfruttare le
esperienze del passato potrà tornare fortemente utile agli USA,
a condizione però che le premesse relative alle similitudini ed
alle differenze vengano colte appieno, cosa che purtroppo è
facile da fare solo a posteriori.
Valute:
il dollaro verso la fine del tunnel
24 Marzo 2008 15:55
MILANO -
di
Maximilian Cellino ______________________________________________
La crisi del
dollaro? Potrebbe essere prossima al termine. Lo sostengono
gli esperti dei mercati valutari delle principali banche
d'affari italiane ed estere intervistati da Plus24 in
edicola sabato 22 marzo. Difficilmente però la risalita del
biglietto verde sarà rapida quanto la caduta (questa
settimana l'euro ha raggiunto quota 1,59) e non sono da
escludere ulteriori turbolenze, almeno fino a giugno. Sul
settimanale anche un approfondimento sulle valute
alternative al dollaro e un'analisi dei nuovi strumenti di
maggiore efficacia e facile utilizzo, come ad esempio i
certificati di investimento.
Incertezza a breve termine
«Viste le diverse impostazioni di politica monetaria negli
Usa e in Europa e l'ampliamento del gap di crescita atteso
nel primo trimestre, penso che il processo di deprezzamento
del dollaro possa proseguire ancora scaricandosi
principalmente nei confronti dell'euro», sostiene Cosimo
Musiello di Prometeia Advisor Sim, che prevede per fine
giugno un euro/dollaro compreso fra 1,60 e 1,70. Come lui la
pensa però l'11% degli intervistati (il 4% addirittura
"prospetta" a breve valori superiori a 1,70), mentre la
grande maggioranza (64%) ritiene che da qui ai prossimi tre
mesi si continuerà a oscillare attorno agli attuali livelli
(fra 1,50 e 1,60).
Svolta nel secondo semestre
Gli analisti appaiono ancora più possibilisti quando si
sposta in avanti l'orizzonte temporale: per il 79% del panel
l'euro/dollaro chiuderà il 2008 tra 1,40 e 1,50 e per il 7%
addirittura sotto questa quota. Soltanto il 14% indica un
livello compreso fra 1,50 e 1,60, mentre nessuno si spinge
oltre. «Adesso l'euro è sopravvalutato di quasi il 25% nei
confronti del dollaro in termini di parità del potere di
acquisto», sottolinea Didier Borowski di Société Générale
Am. Ma a convincere gli esperti sono anche le capacità di
recupero degli Stati Uniti: «Credo che un dollaro debole sia
oggi una buona valvola di sfogo per l'economia Usa, che ne
dovrebbe beneficiare con un ulteriore miglioramento della
bilancia commerciale», osserva Marco Pelissero di Banca
Patrimoni Sella & C. e pure Giorgio Giovannini di Henderson
Global Investors è convinto che «oggi l'America è in crisi,
ma sarà anche il primo mercato a riprendersi in termini di
crescita economica».
Ricadute sull'Europa
Per capire dove andranno i mercati valutari nei prossimi
mesi sarà dunque fondamentale osservare la risposta
dell'economia americana alle difficoltà di questi giorni. Ma
sarà altrettanto importante valutare l'impatto che le
disavventure finanziarie avranno sugli altri Paesi, anche
perché, come aggiunge Mauro Toldo di DekaBank, «se la crisi
mette in difficoltà l'economia europea è possibile che ci
sia pressione sull'euro».
E uno sguardo attento, sotto questo aspetto, se lo meriterà
anche la Banca centrale europea (Bce): finora a Francoforte
non si è andati oltre a esternazioni generiche sul
«disordinato aggiustamento del mercato dei cambi».
Difficilmente però si potrà continuare ad assistere inermi a
un apprezzamento della valuta che rappresenta anche un serio
freno alla crescita del Vecchio Continente.
«Nella seconda parte dell'anno – osserva Corrado Caironi di
BlackRock – assisteremo a una convergenza in termini di
tassi fra Usa ed Europa e la Bce si indirizzerà verso una
maggiore flessibilità, con possibili tagli del costo del
denaro». In questo modo anche gli effetti dell'allargamento
del differenziale tassi Bce-Fed, uno fra i fattori chiave
della caduta del dollaro, sarebbero destinati ad
affievolirsi.
Fonte - Il Sole 24 Ore
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Borsa:
il sistema
deve ancora spurgarsi
28 Marzo 2008 16:54
MILANO - di *Alessandro
Fugnoli
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist
di Abaxbank
________________________________________
Il primato della longevità tra gli
umani spetta agli abitanti dell’isola di Okinawa, in Giappone. I
gerontologi dicono che per un terzo è merito della genetica, per
un terzo delle abitudini poco sedentarie e per un terzo della
dieta. Pesce, moltissima verdura e l’abitudine di alzarsi da
tavola con ancora un po’ di fame.
Abituarsi a lasciare qualcosa nel piatto sarà di grande aiuto
alla longevità di chi sta sui mercati in una fase storica di
riduzione della leva accompagnata da grande volatilità.
Stephen Jen disse in
gennaio che il 2008 sarebbe stato un anno caratterizzato dalla
paura nella prima metà e dall’avidità nella seconda. Non c’è
dubbio sul fatto che il primo trimestre sia stato quasi tutto
all’insegna della paura. Il secondo, che sta per iniziare, sarà
probabilmente di transizione dalla paura all’avidità.
Anche se questa tesi
fosse completamente vera sarebbe imprudente, a nostro avviso,
farsi prendere la mano e riempirsi di rischio fin da subito. La
nostra tesi è che c’è tempo per fare le cose con calma e
ordinatamente e che bisogna soprattutto usare molta moderazione.
Questo non è il 2003, non è l’inizio di un bull market di cinque
anni solido, tranquillo e lineare. Il mondo non ha un enorme
output gap di risorse inutilizzate come allora. Non ha
un’inflazione prossima allo zero. Non ha (tranne qualche area
dei crediti) valutazioni così assurdamente basse. Non ha (per
niente) un sistema finanziario tranquillo. Non ha (ancora) un
leverage prossimo a zero e pronto quindi a ricaricarsi come una
molla che spinge al rialzo le quotazioni. Non ha (per niente) un
settore immobiliare pronto a fare da avanguardia di una ripresa
generale del ciclo economico come tradizionalmente avviene.
Questo, al più, è un
bear market rally. A essere precisi il vero bear market rally
partirà probabilmente a giugno. Quello in corso è
certamente un tradable rally, ma è poco di più di un rally di
sollievo per il fatto di non essere tutti quanti sprofondati
nell’abisso dietro a Bear Stearns. E’ un rally benedetto, che ha
combustibile per arrivare a una fine trimestre meno
impresentabile, ma che dovrà vedersela nei prossimi due mesi con
dati macro non necessariamente orribili ma di sicuro non belli,
con utili eterogenei (qualcuno che andrà bene grazie al dollaro
debole e alle esportazioni ci sarà di sicuro) ma nel complesso
deludenti e in discesa e con venti strutturali ancora fortemente
contrari come il bear market delle case, l’aumento dei
pignoramenti, la riduzione del leverage.
Da qui a metà maggio ci
sarà il tempo di portarsi da sottopesati a neutrali un poco alla
volta, evitando accuratamente di rincorrere i rialzi e
utilizzando solo i momenti di ribasso. In maggio e giugno si
verificherà la situazione e, nel caso, ci si potrà portare a
leggermente sovrappesati. Meglio, in tutta questa fase,
essere sempre leggermente in ritardo (ma più sicuri) piuttosto
che buttarsi allo sbaraglio.
Non bisogna perdere mai
di vista l’elemento strutturale. Per feroce e rabbiosa (e
creativa e brillante) possa essere la risposta della Fed, si
tratta sempre di una risposta, di qualcosa cioè che serve a
mitigare la crisi, ad evitare contagi generalizzati e
circoli viziosi e ad abbreviarne la durata. Bernanke non è
Superman, non può trasformare un’asset deflation con recessione
in un’asset inflation con ripresa ciclica duratura dalla sera
alla mattina.
Il sistema deve ancora
spurgarsi. Il pendolo della leva è ancora a metà strada. Nessuno
ha più leve di 50 a uno, ma in giro sono molti di più quelli che
vorrebbero accorciare la leva che hanno rispetto a quelli che
sono disposti ad allungarla. Come dice Paul McCulley
nella sua nota mensile ("Not Good Times", sul sito di Pimco)
quando un asset passa da un hedge fund con leva a 50 a una banca
(anch’essa a leva, sia pure minore) il suo prezzo deve scendere.
E quando questo stesso asset passa dalla banca al fondo dedicato
senza leva e da questo all’investitore individuale che mette a
rischio solo eccezionalmente una piccola parte del suo
portafoglio, il prezzo deve continuare a scendere.
Con le sue misure così aggressive la Fed dà al pendolo una
spinta contraria a quella naturale con l’intenzione di
rallentarla, non di fermarla o invertirla (se non
temporaneamante). La Fed con il coltello tra i denti può ridurre
i 15 anni di asset deflation giapponese a tre (di cui uno già
scontato e uno, il 2008, con qualche bear market rally
d’intrattenimento) e sarebbe comunque un buon risultato.
Gli ottimisti dicono che comincia a essere ora di smettere di
combattere la Fed. Mettersi contro la Fed è, alla lunga, una
pessima idea e chi è short o anche solo sottopesato deve sempre
tenerlo presente. Alla lunga, però. Nel periodo dall’11
settembre 2001 fino al marzo 2003 i mercati combatterono con
successo non solo una Fed aggressivamente reflazionista e sempre
più preoccupata, ma anche una politica fiscale super-espansiva
(con tagli di tasse ampi e permanenti, non con un assegno una
tantum come quest’anno). Alla fine, come sempre, vinse la Fed,
ma solo alla fine.
C’è poi da chiederesi
che cosa voglia davvero la Fed. Il suo obiettivo massimo non è
una brillante e duratura ripresa economica (come era invece nel
2001 e 2002). Oggi si punta ad anni di crescita bassa (per non
fare riesplodere il disavanzo delle partite correnti) e ad un
rallentamento della discesa dei prezzi delle case. Quanto alle
borse, la Fed non vuole che cadano, ma non ha l’obiettivo di
gonfiarle più di tanto. Quanto al dollaro, la Fed tace non solo
perché non è direttamente di sua competenza ma anche perché le
va benissimo che continui a deprezzarsi, meglio se in modo
ordinato e graduale.
Non c’è solo la Fed, dicono gli ottimisti, ci sono anche il
Tesoro e il Congresso. E c’è perfino l’Europa, con la quale
secondo il Financial Times si studiano interventi coordinati di
sostegno ai mutui cartolarizzati. E’ vero.
E’ innegabile che ci sia un grande fermento intellettuale e che
ci sia la disponibilità, in linea di principio, a percorrere
strade nuove e audaci. A differenza dei due predecessori
inesistenti, Paulson ha grande statura e determinazione. Le idee
non mancano e, alla fine, si concretizzeranno. Non vanno però
dimenticate le resistenze.
Ci sono gli scrupoli dei repubblicani che non vogliono creare
l’ennesima agenzia che si occupi di case e non vogliono usare
troppi soldi pubblici per sostenerne il prezzo e rilevare i
mutui dal mercato (se lo fa la Fed è diverso, è un intervento ad
hoc che non implica la creazione di nuovi carrozzoni). Ci sono
però anche gli scrupoli democratici, come si vede dalla
commissione d’inchiesta del Senato sulla questione Bear Stearns,
che certamente non incoraggia la Fed nella sua azione di
sostegno ai mercati.
Come si vede la
situazione è complessa e fluida. Da un giorno all’altro può
verificarsi un nuovo spiacevole evento di credito (anche se
l’azione della Fed ha tolto l’elemento d’isteria e di panico,
non per questo cesseranno i default di questo o quel soggetto,
augurabilmente minore). Ma da un giorno all’altro può essere
introdotta una nuova misura da parte della Fed o di altri policy
maker. Avere leva lunga, in queste circostanze, significa
ritrovarsi prima o poi a dovere chiudere male le posizioni.
Avere poca leva (o non averne) significa potere pazientare senza
farsi male inutilmente.
Il discorso vale a
maggior ragione per le materie prime. La loro finanziarizzazione
sta portando a un aumento progressivo della volatilità.
Peggio ancora, aumenta la correlazione delle materie prime tra
di loro e con gli asset di rischio in generale.
Fino a qualche anno fa
era rarissimo vedere tutte le materie prime, agricole e
industriali, muoversi sempre e comunque nella stessa direzione.
Se ci si pensa, un raccolto andato male per una siccità non ha
nessuna correlazione con uno sciopero nelle miniere cilene di
rame. Oggi invece hedge fund, fondi pensione e investitori
individuali comprano e vendono panieri preconfezionati
conoscendo appena quello che contengono.
In questo nuovo contesto
finanziarizzato e vista la persistenza della crescita in Asia
difficilmente vedremo un vero e profondo bear market di qui a
metà anno, anche se riesce difficile pensare a rialzi ulteriori.
Potremo vedere invece una ripresa d’interesse speculativo nel
secondo semestre, da cavalcare, nel caso, con grande prudenza.
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Fonte -
Il Rosso e il Nero, settimanale di
strategia di Abaxbank |
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Mercoledì
19
marzo 2008 |
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Venerdì
21
marzo 2008 |
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Mercoledì
26
marzo 2008 |
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La FED
é in ostaggio
31 Marzo 2008 04:58
ROMA - di Massimo Riva
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Con il suo ultimo taglio
al costo del denaro la Federal Reserve ha valicato un confine
importante, incamminandosi per una strada forse utile
nell'immediato ma di sicuro gravida di rischi futuri. La discesa
dei tassi al 2,25 per cento è stata decisa, infatti, in un
momento nel quale la curva dell'inflazione Usa continua a
muoversi un poco sopra il 3 per cento. Ciò significa che, in
termini reali, il rendimento dei Federal Funds è ora negativo.
Una scelta di politica
monetaria così aggressiva è stata spiegata con argomentazioni a
prima vista ineccepibili: le prospettive dell'economia
stanno peggiorando, i consumi rallentano e così anche
l'occupazione, mentre i mercati finanziari sono in grande stress
e la crisi del credito minaccia da vicino la crescita economica.
Solo che queste ottime ragioni non possono nascondere o
cancellare le controindicazioni implicite nella decisione
assunta.
Non va sottovalutato il pericolo che i mercati interpretino la
mossa della Fed come un abbassamento non episodico della guardia
sul fronte dell'inflazione. Ciò può indurre gli investitori a
ritenere che, in realtà, la banca centrale Usa giudichi la
situazione anche molto peggiore di quanto già appaia alla luce
di tracolli bancari come quello di Bear Stearns. Nel qual caso
una prima e pesante ripercussione sarà la richiesta di
rendimenti più elevati sui titoli a medio e lungo termine, con
effetti non certo favorevoli a una ripresa degli investimenti.
Ma neppure al collocamento di nuovi titoli per il
rifinanziamento dell'abnorme debito pubblico americano sui
mercati internazionali, che sono già non poco diffidenti verso
il dollaro a causa dei suoi continui scivoloni.
Il fatto è che una banca
centrale, quando mostra una più attenuata volontà di lotta
all'inflazione, lancia ai mercati un messaggio comunque poco
tranquillizzante. Tanto più se accompagnato, come nel caso
specifico, dalla considerazione che nella situazione data non si
poteva fare altrimenti. In questo modo si rafforza la pessima
impressione che la Fed si sia mossa non tanto per intima
convinzione sulla bontà della sua scelta, ma sotto il ricatto
imperativo di quei soggetti finanziari che con le loro
spericolate scommesse hanno creato le tante, troppe posizioni di
pericolo dalle quali potrebbero scaturire anche guai ben più
seri, con danni diffusi all'intero sistema finanziario oltre che
all'economia reale.
Già la crisi dei mutui 'subprime'
ha messo in forte risalto il vuoto di efficaci poteri di
vigilanza sulla moltiplicazione di strumenti finanziari ad alto
rischio. Ora le terapie di contrasto stanno ingenerando
l'inquietante sensazione che a guidare la danza non siano le
autorità di controllo - Fed in testa - ma ancora e sempre gli
stessi soggetti che sono all'origine del disastro. Al
punto che sono sempre costoro anche ad arrogarsi il potere di
stabilire quali dosi di verità contabili si possono rendere di
pubblico dominio, dunque quali dosi di verità siano compatibili
con la conservazione della loro forza di condizionamento sulle
scelte delle pubbliche autorità. Una Fed ostaggio degli
avventurieri della finanza è quanto di peggio ci si possa
aspettare.
 |
Fonte -
L'espresso |
Guadagni
miliardari dietro il fallimento di Bear Stearns
31 Marzo 2008,
14:56 -
di
BlueTG.it ______________________________________________
Il crollo dei
titoli Bear Stearns e la successiva cessione lampo a JP
Morgana ha da un lato fatto perdere miliardi di dollari a
clienti e dipendenti del broker, dall’altro fatto guadagnare
milioni o miliardi (non è ancora dato sapersi ndr) ai soliti
fondi hedge che hanno ‘scommesso’ sul default del gruppo.
Harbinger Capital Partners, Greenlight Capital, Tremblant
Capital Group e Paulson & Co, sarebbero gli hedge che
avrebbero guadagnato speculando al ribasso sulla quinta
banca d’affari degli Stati Uniti.
Harbinger Capital, il fondo da 19 miliardi di dollari
gestito da Philip Falcone (ex responsabile delle attività di
trading high yield Barclays Capital) avrebbe aperto le prime
posizioni corte su Bear Stearns nell’estate del 2007, più o
meno pochi mesi dopo che sono emersi i primi problemi della
banca guidata dall'allora Ceo James Cayne. Da allora i
titoli sono passati da 150 dollari a 5 dollari per azione,
una montagna di soldi per chi speculava al ribasso.
Restano comuqnue numerosi dubbi circa il ruolo di questi
fondi e soprattutto quanto sapevano sull’effettivo stato di
salute del 'malato' Bear Sterns.
Mr. Falcone, come Paulson & Co, infatti, utilizzavano
entrambi Bear Stearns come prime broker. I due fondi hedge
erano quindi capaci di interpretare (o sapere ndr) più di
chiunque altro come sarebbe finito il gruppo di New York. Un
altro dato da considerare è l’elevatissimo numero di
operazioni short che sono state aperte sul gruppo negli
ultimi mesi, altro indicatore di come alcuni soggetti
stavano scommettendo sul default della banca.
Paulson & Co, gruppo cogestito da John Paulson e Paolo
Pellegrini, lo scorso anno si è aggiudicato il podio come
miglior fondo hedge del pianeta con oltre 2,7 miliardi di
dollari di commissioni di performance generate.
Fonte - BlueTG.it
|
Borse
senza bussola investitori in stallo
31 Marzo 2008 04:12 MILANO -
di
Giuseppe Turani
________________________________________
La settimana appena
finita è stata per i mercati la migliore da inizio anno. Con
momenti anche francamente emozionanti, segnati da rialzi di
oltre il 3 per cento nel giro di una sola seduta, cosa di cui si
era quasi persa la memoria. Dopo quasi novanta giorni le Borse
hanno chiuso con dei significativi progressi.
Poca cosa rispetto al
molto che è stato perso dall´inizio dell´anno, ma forse un segno
che qualcosa sta cambiando. Al punto che alcuni si sono
affrettati a suonare la grancassa e a dire che la crisi dei
mercati era ormai finita e che finalmente si poteva cominciare a
guardare avanti, cioè a quello che si poteva comperare.
Ma la situazione non è
affatto così chiara. Rimangono dei dubbi. E il più
importante è certamente questo: siamo di fronte solo alla voglia
di fare un po´ di performance da parte dei gestori dei patrimoni
(per avere un dato a fine trimestre meno brutto, e quindi vedere
i clienti che sorridono) oppure si tratta di una vera inversione
dei mercati? Due i partiti che si confrontano su questo tema, e
ognuno con buoni argomenti.
Gli ottimisti elencano
una serie di elementi positivi:
a - Il primo è la mossa della
Federal Reserve sulla banca Bear Sterns, alla quale è stato
impedito di esplodere e che è stata «accasata» presso una banca
più seria e meno avventurosa. La cosa ha reso tutti molto più
tranquilli.
b - Poi, c´è il fatto
che la caduta del prezzo degli immobili in America ha già fatto
vedere una battuta d´arresto. La slavina dei prezzi, forse, è
entrata in una nuova fase, meno rovinosa per chi ha finanziato
gli acquisti di case, cioè per le banche.
c - L´arrivo, a maggio, degli incentivi fiscali in America è
ormai vicino (mancano solo poche settimane). E, visto che i
mercati tendono ad anticipare...
d - Tiene sempre campo
l´idea che la crisi sarà violenta (c´è anche chi non crede
nemmeno a questo), ma veloce perché il Pil mondiale è ancora
stimato a +4 e pertanto le nuove locomotive dei Bric (Brasile,
Russia, India e Cina) ci faranno presto uscire da una crisi che
è più finanziaria che industriale.
e - Le aziende di tutto il mondo (tranne quelle del private
equity) sono poco indebitate per cui soffriranno relativamente
poco a causa dell´attuale crisi (e scarsità) del credito;
f - La liquidità è
sempre enorme e russi, arabi, cinesi e indiani, con davanti a
tutti i sovereign funds, sono pronti a rientrare sul mercato
degli acquisti quando i prezzi degli assets avranno raggiunto i
loro presunti minimi, che potrebbero non essere lontani, a
questo punto.
g - Le materie prime ai
massimi sono una chiara dimostrazione del fatto che l´economia
c´è e è forte.
h - Gli ordini
ultradecennali per aerei, navi, noli, piattaforme petrolifere,
ecc. dimostrano che molti settori continueranno a tirare ancora
per molto tempo.
Come si vede, si tratta di un
elenco piuttosto lungo di buone ragioni.
Ma ci sono anche i
pessimisti, che a loro volta hanno un elenco di fatti e
idee da sottoporre alla meditazione collettiva:
a -
Il rimbalzo tecnico a
cui abbiamo assistito questa settimana è tipico del bear market
(dei mercati al ribasso), ma durerà poco.
b - I gestori, specie di hedge funds, da una parte non possono
perdere totalmente la faccia, e dall´altra si ricoprono dalle
tante posizioni short, facendo rimbalzare i listini.
c - L´economia americana
sta andando in negativo (il primo trimestre chiuderà sotto lo
zero) per cui la recessione è ormai prossima (se anche il
secondo trimestre sarà negativo) e influenzerà di sicuro (e non
in positivo) l´umore dei mercati.
c - Le banche sono
ancora piene di «robaccia» perché, sistemata in qualche
modo la faccenda dei sub-prime, ora devono fare i conti con
tutte le operazioni a leva di private equity, hedge funds,
cartolarizzazioni di crediti al consumo, carte di credito ecc.
d - Molti degli asset
restano sopravvalutati e ci vorrà molto per un loro ritorno a
valori corretti e quindi i mercati continue ranno a
scendere.
e - I consumi non
riprenderanno tanto presto perché le classi medie e basse di
tutto il mondo occidentale sono state fortemente colpite ed il
recupero sarà lentissimo. Non e' solo una questione di
soldi, si tratta anche di fiducia. E di propensione a investire.
f - L´inflazione in
crescita morde per tutti e questo distruggerà ulteriormente la
già scremata ricchezza esistente.
Questi sono i due scenari che oggi
si fronteggiano sui mercati. Ognuno di essi è fatto di elementi
concreti e forti. Decidere chi abbia ragione o torto non è
facile e forse non è nemmeno possibile. Anche perché molto
dipenderà dalla qualità e dalla quantità dello «sporco» che c´è
ancora sotto i tappeti dell´Alta Finanza.
Quindi la conclusione a
cui si arriva è quella già nota da tempo: è troppo tardi per
uscire dai mercati, ma è ancora troppo presto per rientrare.
Insomma, meglio stare alla finestra ancora per un po´.