La
pioggia di denaro che droga l'economia
01 Aprile 2009 16:33 MILANO - di
Giuseppe Turani
*Giuseppe Turani e'
editorialista di La Repubblica.
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L´ultima speranza, adesso, si chiama «quantitative easing»,
nel senso che il mercato spera che la Banca centrale europea (che si
riunirà proprio giovedì prossimo) adotti appunto, magari un po´ più
avanti, una politica di «quantitative easing», come già fanno la
banca centrale americana e quella inglese.
Che cosa sia questa politica è una faccenda molto difficile da
spiegare, ma in sostanza significa che da un certo momento in avanti
la banca centrale fornisce al sistema (mercato, banche, Stati) non
solo tutta la moneta di cui ha bisogno, ma tutta quella che ha
sognato di avere. Non siamo ai soldi buttati sulle città dagli
elicotteri (come suggeriva Ben Bernanke, capo della Federal Reserve
americana), ma quasi. Con la politica «quantitative easing» ci sono
soldi per tutti e per tutte le necessità, e a costo zero.
Chi conosce un po´ gli umori degli uomini della Banca centrale
europea sostiene che tutto questo non accadrà. Il «quantitative
easing» è la bomba atomica, ma anche l´ultima bomba, di una banca
centrale. L´arma della disperazione totale. E l´Europa, almeno nel
giudizio della Bce, non è ancora a questo punto.
Si capirà qualcosa, comunque, già da giovedì prossimo. Oggi il tasso
della Bce è all´1,50 per cento. E, secondo quello che si era capito
fino a ieri, la Bce dovrebbe scendere all´1,25 giovedì, poi dovrebbe
fare un mese di pausa e a maggio scenderebbe all´1 per cento. Dopo
di che, stop ai ribassi. E che il cielo aiuti l´Europa.
Ma una buona parte del mercato ritiene che le cose potrebbero andare
diversamente. Ormai la congiuntura europea è disastrata. Non si
parla più di un calo del Pil, nel 2009, del 2,8 per cento, ma già
del 3,3 per cento (e questo nell´ipotesi che non ci siamo
peggioramenti, basta quello che abbiamo già visto nei primi tre
mesi). E preoccupa soprattutto la situazione della Germania (la cui
economia è un terzo dell´area euro).
Commerzbank ha appena diffuso
uno studio in cui dice che nel 2009 il Pil tedesco crollerà del 7
per cento (mai successo, credo, conflitti mondiali a parte). Gli
altri osservatori sono meno catastrofici, ma è difficile trovarne
qualcuno che non veda un crollo del 5 per cento (o dintorni)
dell´economia tedesca.
Se le cose stanno così, si osserva, allora la situazione europea è
assai più grave di quello che appare oggi. E la Bce dovrà reagire di
conseguenza. La nuova scaletta degli eventi (immaginata da duri del
mercato) è molto semplice. Giovedì la Bce porta il tasso non
all´1,25 per cento, ma direttamente all´1 per cento. Poi a aprile (e
non a maggio) scende allo 0,50 per cento. A quel punto il gioco dei
tassi può considerarsi finito. E alla Bce, per dare ancora stimoli
all´economia non resterebbe che passare appunto al «quantitative easing». In sostanza, dovrebbe mettersi a stampare euro con un certo
vigore e distribuirli in giro con molta generosità.
Su questa ipotesi, ovviamente, gli esperti sono divisi. C´è chi
sostiene che mai la Bce arriverà a tanto, visto che alle spalle ha
tutta una storia di rigore monetario. Ma c´è anche chi sostiene,
invece, che dovrà farlo e per una ragione molto semplice: lo stanno
già facendo americani e inglesi. Se la Bce si rifiuterà, alla fine
l´euro sarà l´unica grande moneta «virtuosa» (non inflazionata) del
mondo e quindi si rivaluterà inevitabilmente. Ma questo finirebbe
per rendere ancora più difficili le esportazioni dall´area euro e
quindi creerebbe altri guai.
Giovedì, come si diceva, si comincerà a capire qualcosa. Se la Bce
scenderà di colpo all´1 per cento con i tassi di interesse, allora i
sostenitori del passaggio (a breve) alla politica del «quantitative
easing» forse avranno ragione. Se invece la Bce continuerà per la
propria strada, e taglierà i tassi solo di 25 basis point, allora le
ipotesi sono due: o si sbaglia (e correrà precipitosamente ai ripari
più tardi, come ha già fatto in passato) oppure la situazione è meno
grave del previsto (e alla Bce pensano che le misure già prese siano
più che sufficienti a scongiurare il peggio).
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Fonte
- La Repubblica
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Economia
mondiale:
c'è poco da essere ottimisti
01 Aprile 2009 16:47 NEW YORK - di
*Bill Emmott
*Bill Emmott e' l'ex
direttore di The Economist.
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A questo punto della recessione globale, è il caso di essere
più pessimisti o più ottimisti? È una domanda a dir poco
sorprendente, se pensiamo che da poco più di sei mesi siamo
precipitati nel baratro economico, seguito al crollo di Lehman
Brothers a New York lo scorso settembre.
Certo, il pessimismo sembra la reazione più indicata: l'Ocse,
l'organizzazione basata a Parigi che raccoglie 30 Paesi tra i più
ricchi del mondo, in Europa e in America, annuncerà ai suoi membri,
il 31 marzo, una previsione assai più negativa per il 2009, una
contrazione del Pil pari al 4,2%. Eppure, malgrado tutto, di colpo
si avverte nell'aria una ventata di ottimismo. Questa settimana, i
mercati azionari in tutto il mondo hanno rialzato la testa; ed è in
risalita anche il prezzo del petrolio e delle materie prime. Nel
frattempo, i politici sulle due sponde dell'Atlantico, sotto la
guida del presidente Barack Obama, sembrano rasserenati, e spiegano
che già intravedono i primi segnali di stabilizzazione per le loro
economie.
Da parte mia, consiglio un briciolo di prudenza e di lasciar passare
ancora del tempo prima di emettere giudizi. Ci sono stati motivi di
ottimismo nelle ultime settimane, è vero. In sostanza, però, le
migliori avvisaglie si suddividono in tre categorie, nessuna delle
quali definitiva né affidabile.
La prima categoria riguarda i dati
che suggeriscono un rallentamento in atto nel declino economico: in
diversi Paesi, il mese scorso, i consumi sono risultati superiori al
previsto; le vendite immobiliari in America sono in ripresa, anche
se i prezzi scendono ancora. Se questi brandelli di dati dovessero
trasformarsi in tendenza, sarebbe una buona notizia.
Il paragone migliore è quello di un uomo in caduta libera: è
importante sapere, a un dato momento, quanto dista il suolo. Ma
anche se è più vicino di quanto si sospetti, lo schianto sarà
inevitabile. E una volta a terra, potrebbe anche non essere così
facile rimettersi in piedi.
Un altro modo di esprimere il medesimo concetto è constatare come,
da ottobre fino a gennaio-febbraio, il calo della domanda nei Paesi
europei, in Giappone e negli Stati Uniti, sia stato spaventosamente
rapido. Se quel calo oggi rallenta, sarà un buon segnale rispetto a
uno scivolone costante o addirittura accelerato. Un calo più lento,
tuttavia, è sempre un calo: potrebbe darsi che in questa recessione
deflazionistica, che ha visto il crollo della fiducia dei
consumatori e delle imprese, saremo colpiti da un lungo e lento
declino della domanda, man mano che la disoccupazione aumenta e i
redditi si riducono. O che il declino si fermi, ma la ripresa tardi
anche anni interi prima di riprendere forza.
La seconda categoria di motivazioni ottimistiche è rappresentata dal
movimento dei mercati finanziari. Notoriamente, i mercati azionari
tendono ad aumentare di valore in previsione delle svolte nell'
economia reale. Questa settimana sono risaliti per la speranza che
l'America abbia infine scovato la soluzione alla sua crisi bancaria,
e che i dati economici vadano stabilizzandosi.
I prezzi del petrolio e delle materie prime hanno fatto un balzo in
avanti forse in vista dei primi effetti, sulla domanda cinese per le
materie prime, dell'ingente pacchetto di stimoli economici varato
dalla Cina a novembre. Il problema è che anche i mercati possono
sbagliarsi. I loro giudizi errati negli ultimi 4-5 anni hanno
provocato questo caos economico su scala globale. Pertanto è meglio
non fare troppo affidamento su questa fiammata di ottimismo dei
mercati.
La terza categoria di notizie incoraggianti è poco nota al pubblico
e consiste in tutte le sventure che non si sono verificate negli
ultimi mesi. Banche e compagnie di assicurazioni non sono fallite,
né sono crollate le industrie. Dopo due mesi di scossoni, come
quelli di settembre e ottobre dello scorso anno, le notizie
finanziarie si sono tranquillizzate. Questo è da attribuire in parte
ai piani di salvataggio siglati dai governi, specie per le banche,
ma suggerisce anche che le imprese sono più resistenti e flessibili
di quanto si pensasse. La situazione, peraltro, potrebbe mutare
dalla sera alla mattina.
La psicologia di questa recessione è difficile da giudicare,
soprattutto per i politici e i ministri del governo. È una
recessione che subisce la spinta dello stato d'animo, del timore di
famiglie e aziende per i rischi di disoccupazione e bancarotta, che
li ha convinti a tagliare le spese, e questo a sua volta ha fatto
crollare la domanda. La paura e il suo opposto, la fiducia, sono
emozioni fragili. I politici devono sforzarsi di rassicurare, per
arginare le ansie della gente. Ma se fanno sfoggio, troppo presto,
di eccessivo ottimismo, e questo ottimismo non è suffragato dai
fatti, ecco che rischiano di mandare in fumo la loro credibilità.
Cautela, pazienza e un linguaggio solo moderatamente positivo: a
questo punto, non esiste ricetta migliore.
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Traduzione
- Rita Baldassarre |
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Fonte
- Corriere della Sera
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Gente
al potere, e
cambiatelo questo sistema finanziario
01 Aprile 2009 16:56 LUGANO - di
*Alfonso Tuor
*Alfonso Tuor e'
editorialista del Corriere del Ticino.
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Chi pagherà il conto di questa crisi? La risposta a questa
domanda, che diventa di giorno in giorno più inquietante, è ormai
sempre più chiara. Negli scorsi giorni vi sono state due autorevoli
prese di posizione che confermano che l’interrogativo comincia a
tormentare anche i governi.
Una è stata quella di Mirek Topolanek, primo ministro ceco
dimissionario e presidente di turno dell’Unione Europea, il quale
davanti al Parlamento europeo ha detto: «le politiche americane ci
porteranno alla rovina». L’altra presa di posizione è stata quella
della banca centrale cinese che, nel modo indiretto proprio della
cultura di quel Paese, ha pubblicato un documento nel quale si
delinea «la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale
basato su una valuta di riserva internazionale senza legami con
alcuna nazione (ndr.: il riferimento al dollaro è evidente) e in
grado di assicurare una stabilità di lungo termine».
Queste due prese di posizioni esprimono identiche preoccupazioni. La
differenza sta nel fatto che il leader ceco pensa agli enormi guai
prossimi venturi, mentre Pechino pensa all’assetto del mondo dopo i
disastri che provocherà questa crisi e invoca quindi una nuova
Bretton Woods, dicendo sostanzialmente a Washington: non pensate che
tutto ritornerà come prima e che gli Stati Uniti potranno contare
ancora sui vantaggi dati dal ruolo di moneta internazionale del
dollaro.
Il presidente di turno europeo ha completamente ragione a sostenere
che le politiche seguite dall’amministrazione Obama e dalla banca
centrale americana porteranno alla rovina.
Gli Stati Uniti stanno
infatti operando il trasferimento allo Stato delle colossali perdite
nascoste nel sistema finanziario. Questo è ad esempio il senso del
piano salvabanche presentato lunedì scorso, grazie al quale viene
affidato proprio agli Hedge Fund, tra i principali responsabili
della crisi, il compito di acquistare grazie a linee di credito
garantite dallo Stato i titoli tossici e i prestiti in sofferenza
delle banche.
Questo è pure il senso delle diverse operazioni da migliaia di
miliardi di dollari lanciate dalla banca centrale americana. Tali
operazioni vengono finanziate o attraverso l’ampliamento del
disavanzo statale (quest’anno il deficit federale americano supererà
il 12% del PIL) o attraverso la stampa di nuovi dollari da parte
della Federal Reserve (si prevede che la base monetaria che è già
raddoppiata, raddoppierà un’altra volta entro la fine dell’anno).
Questi interventi plurimiliardari, avviati a partire dall’agosto del
2007, non hanno né risanato il sistema bancario (per ora ne hanno
solo evitato il collasso), né impedito che la crisi finanziaria si
trasformasse in una durissima recessione globale.
Europei e cinesi in testa stanno ora capendo che l’amministrazione
Obama si è piegata ai voleri di Wall Street e che quindi il buco
nero nascosto nei bilanci delle banche rischia di risucchiare tutto
e tutti. La conseguenza a breve termine di queste politiche è una
crisi di fiducia nei titoli con cui gli Stati finanziano il debito
pubblico. I segnali premonitori non mancano: l’ultimo in ordine di
tempo è venuto dalla Gran Bretagna, dove per la prima volta da sette
anni a questa parte è fallita un’asta di titoli pubblici, nonostante
la decisione della Banca d’Inghilterra di acquistarne per più di 100
miliardi di euro.
La crisi del debito pubblico è destinata a provocare un’ulteriore
escalation degli interventi delle banche centrali. Queste ultime
sarebbero chiamate a comprarne in grandi quantità e a stampare
ulteriore moneta. Con quali conseguenze? Una forte inflazione, se vi
sarà l’interludio di una breve ripresa, oppure in alcuni Paesi (i
principali candidati sono Gran Bretagna e Stati Uniti) crisi
valutarie ed iperinflazione. Ciò vuol dire per il cittadino
un’impressionante distruzione del risparmio privato e di quello
pensionistico, ma per l’oligarchia finanziaria uno strumento ideale
per distruggere il valore dell’enorme quantità di attività tossiche
detenute dalle grandi banche.
A questa politica si oppone l’Europa continentale, che - come ha
ricordato il presidente di turno dell’UE - è perfettamente
consapevole che la strada dell’esplosione dei debiti pubblici e del
ricorso alla stampa di nuova moneta porterebbe il mondo alla rovina.
Mentre in vista del prossimo vertice del G20 che si terrà a Londra
il 2 aprile l’Europa continentale resiste alle richieste americane
di moltiplicare gli interventi a sostegno dell’economia, la Cina
pensa all’assetto del mondo dopo questa crisi.
Pechino è consapevole che perderà gran parte dei 700 miliardi di
dollari investiti in titoli del Tesoro americano e lo sta già
spiegando alla popolazione cinese. Il capo del Governo Wen Jiabao ha
infatti dichiarato: «Abbiamo prestato molto denaro agli Stati Uniti
e ora siamo preoccupati per la sicurezza dei nostri investimenti».
Il Governo sa pure che l’interruzione di questi acquisti potrebbe
avere conseguenze politiche molto pericolose e quindi ha ribadito
ufficialmente che «la Cina continuerà ad acquistare i titoli di
Stato americani».
La disponibilità cinese ha però un prezzo e questo prezzo è molto
alto soprattutto per gli Stati Uniti. Pechino chiede la riforma del
sistema monetario internazionale (una nuova Bretton Woods) con
l’obiettivo di creare una moneta di scambio sovranazionale al posto
del dollaro. Le autorità cinesi pensano che questa funzione possa
essere assolta dai Diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario
Internazionale. La delegazione cinese giocherà questa carta già il
prossimo 2 aprile a Londra, quando per aderire alle richieste
americane ed europee di ricapitalizzare l’FMI, operazione necessaria
per aiutare i Paesi emergenti in difficoltà, in primis quelli
dell’Europa dell’Est, chiederà in cambio una ridistribuzione delle
quote del Fondo, che ne fanno oggi un organismo controllato dai
Paesi occidentali.
La proposta di creare una valuta sovranazionale corrisponde all’idea
presentata nel 1944 a Bretton Woods da John Maynard Keynes, che
venne però bocciata dagli Stati Uniti, i quali imposero un sistema
imperniato sul dollaro. Essa va al cuore del problema: l’attuale
crisi è anche una crisi degli Stati Uniti e del dollaro e non può
essere superata solo con il cambiamento di alcune regole del sistema
finanziario.
Occorre invece un nuovo sistema monetario che tenga conto dei mutati
rapporti di forza a livello internazionale. L’idea cinese ha
raccolto immediatamente il sostegno di Russia ed India, ma si è
scontrata con l’opposizione di Washington. È evidente che gli Stati
Uniti non vogliono perdere i grandi vantaggi dati dal ruolo di
valuta internazionale del dollaro. Pechino ha comunque detto in modo
chiaro agli americani che i rapporti di forza mondiali sono cambiati
e che gli Stati Uniti non possono pensare di uscire da questa crisi,
preservando il primato del dollaro e quindi anche il loro primato
politico. Insomma, la Cina ha preannunciato quale sarà il prezzo
politico che gli Stati Uniti dovranno pagare per questa crisi.
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Fonte
- Corriere del Ticino
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G20: CHIACCHIERE A
VANVERA MENTRE IL MONDO VA ROTOLI
01 Aprile 2009 13:59 ROMA
-
di APCOM-CORRIERE DELLA SERA ______________________________________________
Stesso approccio per Merkel, Sarkozy, Berlusconi? Ma quando mai.
Contrasti feroci tra il cosiddetto partito della spesa, composto
da Stati Uniti e Gran Bretagna (Obama ha incontrato Brown), e la
Germania. Intanto Lula e Sarkozy cercano di smarcarsi.
Oggi, al programma radiofonico Radio3 Mondo, l'ambasciatore
tedesco in Italia Michael Steiner, commentando i contrasti
cresciuti in questi mesi tra il cosiddetto partito della spesa,
composto da Stati Uniti e Gran Bretagna, e la Germania, ha
affermato: "Tutti i paesi del G20 hanno portato avanti programmi
per stimolare l'economia, anche la Germania. Quello che conta
ora e' stabilire nuove regole per il sistema finanziario
internazionale. Su questo tema Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e
il premier italiano hanno lo stesso approccio".
. La formazione di un fronte comune in vista del G20 di domani
di Londra sarà al centro dell'incontro di oggi a Parigi fra i
presidenti francese Nicolas Sarkozy e brasiliano Luiz Inacio
Lula da Silva. E' quanto hanno anticipato fonti ufficiali dei
due Paesi. I due leader hanno entrambi dichiarato di volere una
più marcata regolamentazione dei mercati finanziari mondiali,
nella convinzione che tali misure siano di fondamentale
importanza per prevenire future crisi economiche.
Sarkozy nelle ultime ore ha più che lasciato intendere che
potrebbe abbandonare il G-20 se dal summit non scaturiranno
delle risposte concrete per far fronte alla crisi economica. Le
fonti francesi e brasiliane hanno precisato che Sarkozy e Lula
discuteranno anche di difesa bilaterale e di problematiche di
sviluppo.
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dal Corriere della Sera:
Agire subito contro la crisi «che non ha precedenti»,
concordando «misure per il ripulire il sistema bancario
globale». Queste le linee guida che Stati Uniti e Gran Bretagna
seguiranno al vertice G20 di Londra. Linee tracciate durante
l'incontro tra il presidente americano Barack Obama e il premier
britannico Gordon Brown a Downing Street alla vigilia del G20. E
se Francia e Germania pongono dei paletti («L'attuale bozza di
risoluzione non ci soddisfa», ha detto il presidente francese
Nicolas Sarkozy) Brown ha fatto sapere a riguardo di sentirsi
«fiducioso» e ha dato assicurazioni a Sarkozy che ci saranno
interventi decisi sui paradisi fiscali.
BROWN E LE BANCHE - «Questa crisi peggiorerà se non agiremo. In
questa situazione non c'è l'opzione di non fare nulla» ha detto
Brown. «Il G20 - ha poi assicurato il premier britannico - deve
dare risposte globali a problemi globali. Non possiamo accettare
una soluzione sul minimo comune denominatore. Non sarà facile,
ma il mondo chiede risposte. Usa e Gran Bretagna hanno da sempre
un rapporto speciale e questo rapporto ha ora nuovi obiettivi,
quelli di trovare soluzioni concrete alla crisi in atto». «Se
non accettiamo che questa crisi è nata da un problema di regole
- ha sottolineato a più riprese Brown - non arriveremo a una
soluzione».
I TEST - A tal proposito Brown ha elencato una serie di test cui
sarà necessario fare fronte: «Il primo è un sistema di controllo
delle banche», poi sarà necessario, secondo il premier,
«prendere le misure necessarie per far ripartire la crescita».
In terzo luogo bisognerà «sostenere la cooperazione economica
internazionale e la crescita dei paesi in via di sviluppo,
respingendo il protezionismo». Il premier britannico ha inoltre
auspicato una serie di nuove misure di stimolo, fra cui almeno
100 milioni di dollari di finanziamento agli interscambi
commerciali.
OBAMA - Un richiamo a un «terreno comune» che superi le
«divergenze» è arrivato dal presidente americano. Obama ha
promesso misure «aggressive» contro la crisi. Il 2009, ha
spiegato, sarà un anno «difficile», soprattutto se si guarda al
volto umano della crisi economica e finanziaria mondiale, ma le
persone non dovrebbero «sacrificare il futuro per paura del
presente». Secondo il presidente Usa il mondo deve respingere il
protezionismo e i leader del G20 devono «concentrarsi sui punti
in comune», piuttosto che sulle loro divergenze. Dal canto loro
gli Stati Uniti sono pronti a fare «qualsiasi cosa per stimolare
la crescita e la domanda» e assicurare «che crisi come questa
non si ripetano».
INSODDISFATTI - La bozza del documento finale del G20 non
soddisfa ancora Francia e Germania, ha riferito Sarkozy. La
Francia ha chiesto regole più severe per la regolamentazione
della finanza globale e, in particolare, contro i paradisi
fiscali. In una telefonata al capo dell'Eliseo, Brown ha
«riaffermato la volontà di una maggiore regolamentazione
finanziaria e una posizione molto ferma nei confronti dei
paradisi fiscali».
«Non darò il mio assenso a un meeting falso», ha detto il
presidente francese, «che porti a decisioni inutili e che non
affronti veramente i problemi che abbiamo», minacciando anche di
lasciare il G20. A tal proposito però Brown si è detto
«fiducioso. Sarkozy sarà con noi oggi e sarà seduto con noi
stasera alla cena». La minaccia del ritiro del presidente
francese non è piaciuta al cancelliere tedesco, Angela Merkel:
«Non è l'idea migliore», ha commentato un portavoce del capo del
governo tedesco. L'unica preoccupazione del cancelliere è «che
potremmo non reagire con la forza necessaria».
L'AGENDA - Fitta l'agenda del presidente Usa che tra imponenti
misure di sicurezza attraverserà un Londra blindata. Dopo
l'incontro con Brown a Downing Street, Obama vedrà in giornata
per la prima volta gli omologhi russo, Dmitry Medvedev, e
cinese, Hu Jintao. In serata è previsto un incontro con la
regina Elisabetta II. Giovedì il summit del G20. Il giorno dopo
l'inquilino della Casa Bianca partirà per il vertice Nato a
Strasburgo e Khel (Germania). Sabato sarà a Praga e infine
domenica ad Ankara in Turchia per un incontro con il premier
Tayyip Erdogan.
Fonte
- ApCom
e Corriere della Sera
G20: ESPLODE LA
RABBIA CONTRO I RICCHI E POTENTI
01 Aprile 2009 14:14 LONDRA
-
di Corriere della Sera ______________________________________________
Attivisti anti-guerra, ambientalisti, no global
anti-capitalisti: per 48 ore, fino a giovedì, giorno del G20,
Londra rischia di essere messa a ferro e fuoco dalle diverse
manifestazioni in programma. Cecchini sopra i tetti, tombini
bullonati, quasi 3.000 telecamere di sicurezza ad ogni angolo
delle strade: tutto è pronto nella capitale britannica per
un'operazione-sicurezza che non ha precedenti. Già in queste
ore, migliaia di dimostranti stanno convergendo, in quattro
diversi cortei, verso la sede principale della Banca
d'Inghilterra, al centro della city londinese, per una
manifestazione di protesta contro il vertice.
CARICHE E ARRESTI - Carica della polizia a Cannon Street, dove
si sono concentrati i gruppi anarchici: gli agenti,
massicciamente schierati, hanno usato manganelli per evitare che
la marcia raggiungesse la sede della Banca d'Inghilterra. E tre
persone, secondo quanto riferito da Sky News, sono state
arrestate a una delle manifestazioni: due erano in possesso di
coltelli, una è stata fermata per aver aggredito un agente di
polizia. Lo riferisce Sky News.
CITTÀ DESERTA E BLINDATA - I londinesi, intanto, hanno lasciato
la città e le autorità hanno invitato chi si vuole recare al
lavoro nella city a vestirsi in modo 'casual' per non dare
nell'occhio. Gli uomini dispiegati nell'area metropolitana
londinese sono circa 5mila.
Fonte
-
Corriere della Sera
G20: VERTICE
DIFFICILE TRA CONTRASTI E MANIFESTAZIONI
01 Aprile 2009 16:38 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
Migliaia di manifestanti per le strade di Londra, un leader che
minaccia di sbattere la porta in mancanza di scelte forti,
l'ottimismo ostentato dal padrone di casa Gordon Brown e Obama
rischia di scontrarsi con la prova dei fatti.
Con migliaia di manifestanti per le strade di Londra, un leader
che minaccia di sbattere la porta in mancanza di scelte forti e
delle spaccature abissali tra i vari paesi presenti, l'ottimismo
ostentato questa mattina dal padrone di casa del G20 Gordon
Brown e il presidente statunitense Barack Obama rischia di
scontrarsi con la prova dei fatti. Obama, alla sua prima
apparizione europea, si è detto "assolutamente fiducioso" che la
riunione riuscirà a sanare le divergenze tra i paesi
partecipanti, poiché la situazione attuale non consente di
accontentarsi di "mezze misure" e per raggiungere gli obiettivi
bisogna "concentrarsi sui punti in comune, piuttosto che sulle
divergenze".
Ma il leader francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco
Angela Merkel si presenteranno insieme in una conferenza stampa
oggi pomeriggio alle 17,30, mettendo in evidenza l'asse di ferro
che hanno deciso di formare in questa circostanza. E l'inquilino
dell'Eliseo, che ieri ha ventilato la possibilità di andarsene
dalla riunione se non si deciderà nulla di concreto, oggi ha
ribadito il suo no a "falsi compromessi". Il pomo della
discordia resta quello dei maggiori stimoli che gli Stati Uniti,
ma anche il Giappone, ritengono necessari per far ripartire il
motore dell'economia mondiale. Il premier giapponese Taro Aso,
con cui il premier Silvio Berlusconi avrà un incontro bilaterale
questo pomeriggio, ha dichiarato in un'intervista che la
Germania "non capisce" l'importanza di iniettare denaro
nell'economia e Obama ha ribadito che gli Stati Uniti non
possono essere "l'unico motore" della crescita.
L'Unione europea, sottoposta alle stringenti regole di bilancio
del Patto di stabilità e di crescita, è riluttante ad allentare
i cordoni della borsa e a far correre i deficit più di quanto
già avvenga da quando è esplosa la crisi economica. Motivo per
cui aspetta di vedere quali saranno i risultati dei piani già
varati fino ad ora. Anche se ieri il presidente della
Commissione europea José Manuel Barroso ha ammesso che è "una
questione di credibilità non parlare di nuovi piani",
aggiungendo: "Non escludiamo di cambiare in corso d'opera le
misure che sono state già prese". Il risultato è che si potrebbe
arrivare ad un compromesso in cui si dice che ogni paese è
pronto a fare "tutto quanto necessario".
Il Vecchio Continente, fatta eccezione per una Gran Bretagna
recalcitrante, è invece inamovibile su un punto: serve più
regolazione per risanare un sistema capitalistico che, per dirla
con Sarkozy, "non ha principi" né "morale". Un'esigenza, questa,
che ha già portato ad un primo risultato, ancorché circoscritto,
nella lotta ai paradisi fiscali. La minaccia di stilare una
lista dei paesi non cooperativi ha portato Stati finora
storicamente molto riluttanti come la Svizzera, l'Austria e il
Lussemburgo ad annunciare delle revisioni delle norme sul
segreto bancario. Lo stesso rischia di essere più difficile in
sede di G20, poiché la Cina non vuole rinunciare ai privilegi di
Macao e Hong Kong. Sul tema il presidente dell'Eurogruppo, il
lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha sottolineato come anche
gli Stati Uniti dovrebbero mostrare "coraggio" per affrontare
una situazione che riguarda, ad esempio, anche il Nevada, il
Delaware e Wyoming.
Il premier britannico Gordon Brown ha garantito inoltre che
verranno poste le basi per regolare il sistema di "bonus" dei
manager. Uno dei rari temi su cui ci sarà un sicuro consenso è
quello dell'aumento dei mezzi del Fondo monetario
internazionale, che dovrebbero essere raddoppiati. I paesi
emergenti, tuttavia, potrebbero approfittare della situazione
per strappare delle concessioni sulla riforma della governance
dell'istituzione. Anche il protezionismo dovrebbe suscitare la
consueta levata di scudi e un coro di condanne formali, anche se
nella pratica pochi leader sembrano immuni da questo peccato. Il
vertice inizierà questa sera a Buckingham Palace per un
ricevimento offerto dalla regina Elisabetta, a cui seguirà una
cena a Downing Street.
Fonte
- APCOM
G20: E' ROTTURA TRA
EUROPA E USA. LONDRA SOTTO ASSEDIO, FERITI E ARRESTI
02 Aprile 2009 02:12 LONDRA
-
di La Stampa ______________________________________________
Attivisti anti-guerra, ambientalisti, no global
anti-capitalisti: per 48 ore, fino a domani giorno del G20,
Londra rischia di essere messa a ferro e fuoco da una pletora di
manifestazioni; un sottofondo variopinto, rumoroso e forse
violento al summit dei 20 più potenti leader del mondo che
tentano di trovare una via d’uscita alla crisi economica.
Migliaia di manifestanti sono affluiti davanti alla Banca di
Inghilterra. A fronteggiarli sul posto centinaia di poliziotti
britannici. Al grido di «Aboliamo i soldi» e di altri slogan, i
manifestani premono con forza contro i cordoni delle forze
dell’ordine impegnate a respingere indietro la folla. Da questa
mattina elicotteri sorvolano la capitale britannica. Numerosi
edifici della City, il distretto finanziario di Londra, sono
stati circondati mentre diverse strade sono chiuse al traffico.
I dipendenti delle banche oggi non indossano il tradizionale
completo gessato ma dei semplici jeans per evitare di essere
possibili bersagli dei manifestanti. Sei persone sono finite in
manette fino a questo momento.
Tensione anche a Cannon Street, nella City di Londra, dove si
sono concentrati i gruppi anarchici: gli agenti, massicciamente
schierati, hanno usato manganelli per evitare che la marcia
raggiungesse la sede della Banca d’Inghilterra. Le misure di
sicurezza sono imponenti con cecchini sopra i tetti, tombini
bullonati, quasi 3.000 telecamere di sicurezza ad ogni angolo
delle strade: tutto è pronto nella capitale britannica per
un’operazione-sicurezza che non ha precedenti (costo previsto
7,5 milioni di sterline, circa 8,4 milioni di euro). Oggi il
centro della protesta è dunque la City di Londra, vista da molti
come l’ombelico dell’attuale crisi.
Domani le manifestazioni si concentreranno all’ExCel Centre a
Docklands, nella parte orientale della città, dove avverrà il
vertice. Oggi quattro marce di protesta, "I Cavalieri
dell’Apocalisse", usciranno da altrettante stazioni del metro e
convergeranno verso le sedi della Bank of England e l’ambasciata
Usa: da Moorgate il rosso, che rappresenta gli orrori della
guerra; da Liverpool Street, il verde, che simboleggia i
cambiamenti climatici; da London Bridge, l’argento, simbolo dei
guai creati dai finanzieri; e da Cannon Street, il nero, che
ricorda quanti hanno perso il lavoro per la crisi. I gruppi
della coalizione "G20 Meltdown" (in riferimento alla catastrofe
che risulterebbe dalla fusione di un reattore nucleare) si sono
dati appuntamento dinanzi alla Bank of England, trasformata in
fortezza, «il ventre della bestia».
Nel primo pomeriggio, invece, la Coalizione contro la Guerra
manifesterà dinanzi all’ambasciata statunitense a Londra per
chiedere il ritiro delle truppe da Iraq e Afghanistan e il
disarmo nucleare. La cosiddetta "Campagna per il Cambiamento
climatico", programmata a Square Mile, dovrebbe infine portare
nel pomeriggio un blocco di ghiaccio fino al recinto di Ex-Cel.
La polizia dovrà tenere il passo con l’evoluzione delle tattiche
dei manifestanti: gli organizzatori hanno detto ai loro accoliti
di muoversi in continuazione, rimanere in piccoli gruppi ed
essere pronti ad obbedire" agli sms che indicheranno gli
obiettivi.
Il timore è che i gruppi anarchici -che nelle chat della
blogosfera hanno annunciato attacchi a banche, a negozi e agli
impiegati della City- cercheranno anche scontri diretti con la
polizia. È noto per esempio che, nell’ultima settimana, gruppi
come Whitechapel Anarchist Group, Class War e Wombles, hanno
avuto riunione carbonare per coordinare le tattiche. La polizia
comunque ha chiesto ai lavoratori della City di andare in
ufficio in abiti informali o - ancora meglio - tentare di
lavorare da casa.
Fonte
- La
Stampa
Chi ha avuto cosa
dal vertice del G20?
Giovedì 2 Aprile 2009, 22:02
-
di Reuters ______________________________________________
Le nazioni del G20 in alcuni vasi avevano messo
sul tavolo priorità contrastanti in vista del vertice di Londra.
Di seguito una sintesi di quello che era stato chiesto e delle
risposte arrivate.
STIMOLO FISCALE
Chi voleva cosa: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone avevano
proposto con forza un'azione concertata nel mondo per pompare
più fondi governativi nei pacchetti di stimolo; Francia e
Germania preferivano aspettare per vedere i risultati dei fondi
già messi a disposizione.
Risultato: il vertice non ha fissato obblighi per ulteriori
misure fiscali, un fatto accolto con soddisfazione dalla
Germania.
REGOLAMENTAZIONE DEL MERCATO
Chi voleva cosa: Francia e Germania avevano chiesto a gran voce
la sorveglianza degli hedge fund, una causa che il cancelliere
Angela Merkel aveva perorato anche prima della crisi
finanziaria. Il Giappone aveva detto che la regolamentazione
dovrebbe venire dopo il salvataggio dell'economia globale.
Risultato: chiaro impegno del vertice a estendere
regolamentazione e sorveglianza a tutte le istituzioni
finanziarie importanti, gli strumenti e i mercati. Anche le
agenzie di credit rating saranno interessate.
FMI
Chi voleva cosa: Australia, Canada e Sud Africa erano tra i
Paesi che volevano una forte crescita nei prestiti del Fmi;
Russia, Argentina, Cina, India, Arabia Saudita e altri
chiedevano riforme per concedere alle economie emergenti un
maggiore potere di voto all'interno del Fondo.
Risultato: la triplicazione dei fondi dati in prestito dal Fmi è
andata oltre le attese, ma si è detto meno sul ribilanciamento
dell'influenza chiesto dai Paesi in via di sviluppo.
COMMERCIO
Chi voleva cosa: Brasile e Gran Bretagna erano su una cifra di
100 miliardi di dollari in nuove linee di credito per il
commercio internazionale.
Risultato: la cifra di 250 miliardi di dollari è andata oltre le
attese.
PROTEZIONISMO
Chi voleva cosa: Gran Bretagna, Stati Uniti, Corea del Sud,
Canada e India avevano chiesto che il G20 assumesse forti
impegni per la liberalizzazione del commercio.
Risultato: il vertice ha "riaffermato" l'impegno dell'anno
scorso a non alzare nuove barriere a investimenti e commercio.
In pratica, molti dei Paesi del G20 hanno adottato misure
protezionistiche dal vertice di Washington di novembre per
difendere le imprese nazionali.
PARADISI FISCALI
Chi voleva cosa: Francia e Germania avevano chiesto a gran voce
di dare un colpo ai paradisi fiscali.
Risultato: il vertice ha accettato di schedare "giurisdizioni
non collaborative" e prendere in considerazione sanzioni.
VALUTA DI RISERVA
Chi voleva cosa: Cina e Russia volevano discutere una nuova
valuta di riserva globale in alternativa al dollaro, sulla base
degli Special Drawing Rights del Fmi.
Risultato: la questione non è stata discussa, ma la Russia ha
fatto una propria dichiarazione.
Fonte
- Reuters
|
5000
miliardi dal G20
02 Aprile 2009 17:44 NEW YORK
- di Il Corriere Della Sera
________________________________________
Uno stimolo
fiscale fino a 5.000 miliardi di dollari entro la fine del 2010 a
sostegno della ripresa dell'economia mondiale. Mille miliardi per
l'Fmi e le altre istituzioni finanziarie internazionali.
Una lista nera dei paradisi
fiscali. Un nuovo consiglio per la stabilità finanziaria globale.
E l'impegno di ritrovarsi per un nuovo summit, a fine anno, in modo
da valutare gli eventuali progressi-
Sono alcune delle misure
decise durante il G20 di Londra per combattere la peggiore crisi
economica mondiale dagli anni '30.
UN TRILIONE DI DOLLARI -
«I problemi
globali richiedono soluzioni globali - ha dichiarato il
premier britannico, Gordon Brown, elencando i punti sui
quali si è trovato l'accordo. - Abbiamo raggiunto
il consenso per fare tutto ciò che è necessario per
ristabilire la crescita economica e l'occupazione e
prevenire un'altra crisi come quella attuale». Poi il
premier britannico ha elencato i propositi su cui i
leader si sono trovati d’accord, tra cui il via libera
all'iniezione di nuove risorse dal Fondo Monetario
Internazionale, la lotta contro i paradisi fiscali, le
nuove regole in materia di bonus per i vertici
banchieri.
GLI STIMOLI -
Brown ha
annunciato uno stimolo fiscale fino a 5.000 miliardi di
dollari entro la fine del 2010 a sostegno della ripresa
dell'economia mondiale. I leader del G20 hanno
trovato anche l'accordo per mettere a disposizione del
Fondo Monetario Internazionale altri 500 miliardi di
dollari. L'Fmi, che così vede triplicarsi i suoi fondi,
potrà contare anche su altri 250 miliardi in Diritti
Speciali di Prelievo. Non solo: saranno utilizzati altri
250 miliardi di dollari per sostenere il commercio
internazionale. I paesi poveri riceveranno 50 miliardi
di dollari di aiuti.
BANCHE -
Brown ha quindi
preannunciato un sistema di «nuove regole» sui
bonus e salari a livello globale: i numeri uno delle
istituzioni finanziarie, ha spiegato Brown, saranno
nominati sulla base del «merito». «Ripuliremo le banche
per rilanciare credito per le famiglie e le imprese - ha
proseguito il premier - Ci siamo accordati per un
approccio unico e globale per gli asset tossici».
ESPANSIONE FISCALE - «Stiamo
sostenendo una espansione fiscale concertata e senza
precedenti - si legge nel comunicato finale del vertice
dei capi di Stato e di governo - che salverà o creerà
milioni di posti di lavoro che sarebbero altrimenti
stati distrutti, e che ammonterà, entro la fine
dell'anno prossimo, a 5 mila miliardi di dollari;
aumenterà la produzione del 4 per cento e accelererà la
transizione ad un’economia verde».
LE TENSIONI - Dopo una vigilia
contrassegnata dagli scontri nella City tra manifestanti
anti-capitalismo e polizia - che portano un bilancio di
un morto (per cause naturali) e di alcune decine di
arrestati tra i dimostranti - i capi di Stato e di
governo hanno dunque trovato una linea comune per
affrontare le nuove sfide dell'economia, in particolare
in tempi di crisi. Un'operazione dal successo non
scontato, viste le divergenze di opinione sulle ricette
da adottare.
I PARADISI FISCALI - Uno dei
temi più controversi era proprio quello relativo ai
paradisi fiscali, uno dei punti qualificanti della
proposta congiunta di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel.
Gordon Brown, ha
annunciato che «la lista è pronta», nonostante
l'opposizione di alcuni Paesi, tra cui la Cina e diverse
nazioni europee. Il leader britannico ha poi
precisato che ci saranno sanzioni contro quei paesi che
non forniscono le informazioni richieste.
I FONDI PER L'FMI -
I leader dei G20
erano apparsi inoltre divisi sull’entità dell’aumento
dei fondi per il Fondo monetario internazionale (Fmi) e
le risorse da destinare al rilancio del commercio
internazionale. I fondi saranno destinati a
riaccendere il flusso di capitali verso i paesi in via
di sviluppo. Due settimane fa l’Ue si era detta pronta a
contribuire con 75 miliardi di euro (oltre 100 miliardi
di dollari), mentre altri 100 miliardi di biglietti
verdi sono stati messi sul piatto mesi fa dal Giappone.
BERLUSCONI E IL «SOCIAL PACT» -
Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, era
arrivato al centro Excel nella zona dei Docklands a
Londra ed era stato accolto da Gordon Brown, al quale
aveva consegnato un articolo dalla sua rassegna stampa.
Dopo la foto di rito, i due si sono salutati con un
«ciao ciao» in italiano. Berlusconi, secondo i resoconti
di diversi osservatori, sta affrontando il vertice da
una posizione un po' distaccata. In più di un'occasione
il presidente del Consiglio ha fatto sapere di riporre
le proprie aspettative soprattutto nel vertice del G8
che si terrà a luglio alla Maddalena e che sarà da lui
stesso presieduto. In ogni caso, il premier italiano
sembra essere riuscito a fare inserire un chiaro ed
esplicito riferimento ad un «social pact», ovvero - come
riferiscono fonti diplomatiche, «un richiamo alla
dimensione umana della crisi». «Berlusconi - dicono
ambienti vicini al premier - insiste sulla necessità di
proteggere e sostenere coloro che soffrono la crisi e
soprattutto chi perde il posto di lavoro».
«PENSARE ANCHE AI POVERI» - A
margine dell'incontro, la popstar Bob Geldof, animatore
del Live Aid, è intervenuto per ricordare che esistono
ampie sacche di povertà nel mondo e regioni dove si vide
con due dollari al giorno. E l'alto commissario Onu per
i diritti umani, Navi Pillay, ha aggiunto da Ginevra: «I
Paesi poveri sono stati esclusi dal vertice. Si aiutino
i contadini, non le banche».
LA DIPLOMAZIA A TAVOLA -
Il vertice è
stato preceduto mercoledì sera da una cena a Downing
Street tra i leader del summit. Barack Obama è stato
seduto accanto alla cancelliera tedesca Angela Merkel,
il leader europeo che con più vigore in queste settimane
si è opposto alla ricetta americana per uscire dalla
crisi. E
che ha lanciato un vero e proprio ultimatum sulle regole
a Stati Uniti, ed al suo alleato speciale britannico,
insieme a Nicolas Sarkozy, con cui in questa occasione
ha rinsaldato e rilanciato un solido asse
franco-tedesco. E, naturalmente non a caso, il
presidente francese al tavolo di Downing Street,
imbandito esclusivamente del «meglio della cucina
britannica» dallo chef star televisiva Jamie Oliver,
sedeva vicino a Gordon Brown, a cui evidentemente era
stato affidato il compito di cercare, tra una portata e
l'altra, di ridurre le differenze, apparse quanto mai
ampie nelle conferenze stampa delle due coppie di
leader. In effetti, tra Brown e Sarkozy l'attento
protocollo del premier britannico ha messo - secondo il
piano dei posti a tavola che è stato diffuso alla stampa
- il presidente cinese Hu Jintao. Silvio Berlusconi,
invece, era seduto tra il premier olandese Jan Peter
Balkenende e il primo ministro indiano Manmohan Singh,
che aveva al suo fianco la «presidenta» argentina
Cristina Kirchner.
MICHELLE, LA REGINA E LA GAFFE DEL
PRINCIPE -
Intanto va
registrato anche un episodio curioso: l'abbraccio tra la
regina Elisabetta e Michelle Obama. Un gesto affettuoso
e irrituale che ha rotto il rigido protocollo di
Buckingham Palace durante il ricevimento per il te
offerto dalla famiglia reale. Nel corso dello
stesso il principe Filippo si è reso protagonista di
alcune gaffe. In una, in particolare, ha spiegato che
questi leader sembrano tutti uguali. «Può dirmi la
differenza che c'è tra di loro?», aveva chiesto,
scherzando, il Duca d'Edimburgo al presidente degli
Stati Uniti, che gli snocciolava tutti gli incontri
avuti nella giornata di mercoledì a Londra, alla vigilia
del G20. «Ho avuto una colazione con il premier
(britannico), colloqui con i cinesi, i russi, David
Cameron... E sono orgoglioso di dire che non mi sono
addormentato neanche in uno di questi incontri», ha
detto Obama, rispondendo al principe, che gli aveva
domandato come fosse riuscito a resistere dopo una
giornata così intensa e dopo il lungo volo da
Washington. Nel riferire la battuta del marito della
regina Elisabetta, la stampa britannica ricorda come il
principe sia incline alle gaffe: storica quella che fece
un po' di anni fa durante una visita in Cina, quando,
parlando con un gruppo di studenti britannici, disse
loro: «Se starete qui ancora a lungo, avrete tutti gli
occhi a mandorla».
 |
Fonte
- Il Corriere della Sera
|
USA: IL PIANO
GEITHNER PROPRIO NON CONVINCE
02 Aprile 2009 17:45 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Il "Cigno Nero" lancia il monito: rilevare gli asset tossici
delle banche si rivelera' uno sforzo inutile. Servono misure
drastiche, una riforma. I leader del G-20? Impreparati: non
capiscono i mercati e i fattori a monte della crisi.
Il piano studiato dal segretario del Tesoro Timothy Geithner per
rilevare gli asset tossici dai bilanci delle banche non
riuscira' a rianimare il sistema finanziario. Questo il parere
del famoso "cigno nero", Nassim Nicholas Taleb.
"Siamo esattamente nella direzione sbagliata", ha detto Taleb
nel corso di un'intervista rilasciata a Bloomberg. "Vorrei una
riforma, qualcosa di drastico. Questo piano, cosi' com'e',
fallira'".
Geithner ha proposto di aiutare le banche senza fare ricorso
alla nazionalizzazione, lanciando un programma di investimento,
che prevede un'alleanza tra pubblico e privato, che ha
l'obiettivo di rilevare gli asset cattivi delle banche. Secondo
Taleb i leader del Gruppo dei 20 paesi industrializzati, che
sono riuniti a Londra, non sono preparati a risolvere i problemi
del sistema finanziario globale perche' non comprendono
veramente come funzionano i mercati e quali sono i fattori alla
base della crisi del credito che hanno provocato $1.2 mila
miliardi di perdite e di svalutazioni.
Dopo il libro pubblicato da Taleb nel 2007, "Il Cigno nero: come
l'improbabile governa la nostra vita", gli eventi rari e
imprevedibili vengono comunamente definiti "cigni neri". Taleb
e' un professore di risk engineering alla New York University e
anche consulente di Universa Investments LP, societa'
californiana fondata nel 2007 da Mark Spitznagel.
Sempre secondo il "cigno nero", il piano del Tesoro non e'
corretto nei confronti dei contribuenti e premia quelle banche
che non sono riuscite a prevedere la gravita' dei rischi presi
quando hanno usato il proprio debito per alimentare i propri
profitti nel mercato dei mutui.
"Non capisco perche' io, in qualita' di contribuente, dovrei
aiutare quelli che hanno fallito, concedendo loro la
possibilita' di ricostruire i propri bilanci. I contribuenti si
accollano le conseguenze negative e Wall Street come al solito
quelle positive, un altro classico problema della condivisione
delle perdite e della privatizzazione dei guadagni".
Taleb definisce "scioccante" che il governo permetta alle banche
di stimare il valore degli asset tossici rimasti nei loro
bilanci, perche' non c'e' alcun mercato per quei titoli, il che
rende quasi impossibile gli sforzi tesi a misurarne il valore.
"Dopo la dimostrazione di incompetenza delle banche, non capisco
il motivo della reintroduzione della regola mark-to-market di
contabilita' degli asset. Perche' invece non diamo la
possibilita' alla gente di dare alla propria casa il valore che
loro pensano abbia?"
Fonte
-
WallStreetItalia.com
Nessuna svolta per
l’occupazione americana
Friday, 2 April, 2009 at 16:43 - Stati Uniti
-
by phastidio ______________________________________________
Poiché in questi giorni di mercati euforici (non è ancora chiaro
il motivo, a dire il vero: è auspicabile non sia per il
mark-to-fantasy), ci si fa coraggio ripetendo davanti allo
specchio che l’occupazione è un indicatore coincidente del ciclo
economico (mentre la disoccupazione è più propriamente un
lagging indicator), e quindi potremmo anche aver svoltato pur
continuando a perdere impieghi, il dato di oggi sul mercato del
lavoro americano in marzo dovrebbe essere accolto come un
autoironico business as usual, per chi un business ce l’ha
ancora. Ma sarebbe comunque un errore. In primo luogo perché
perdere 5,3 milioni di occupati negli ultimi 12 mesi, di cui la
metà circa negli ultimi quattro, non è un evento marginale. Si è
soliti sostenere (con ragione) che i dati vanno rapportati al
totale della forza lavoro: ebbene, anche con questa metrica non
siamo messi benissimo. I 3,7 milioni di impieghi persi negli
ultimi sei mesi sono pari al 2,7 per cento del totale degli
occupati, il secondo peggior risultato in cinquant’anni.
Riguardo l’occupazione come indicatore coincidente, vi sono
alcune sue componenti che in realtà tendono ad anticipare il
ciclo, come il totale delle ore lavorate e i temporary help:
purtroppo, sono entrambe in contrazione. L’indice delle ore
lavorate, in particolare, è sceso a marzo al livello di 93,6,
contro il valore di 100 al picco. Si tratta di un calo peggiore
rispetto al 94,2 che l’indice ha toccato nel corso della
recessione del 1981-82, e quasi in linea con il livello di 92,5
della recessione del 1974. Aggiungiamoci la lieve riduzione dei
guadagni settimanali medi, e vediamo quanto difficile possa
essere immaginare una qualche forma di trazione proveniente dai
consumi delle famiglie. Se proprio vogliamo pensare positivo per
la congiuntura, e quindi per l’occupazione (futura), possiamo
considerare che l’imponente processo di destocking (cioè di
svuotamento del magazzino) in atto, che nel breve porterà ad una
ulteriore gelata della produzione industriale, finirà col
migliorare il flusso di cassa delle imprese, e da quel punto il
peggio potrebbe essere alle spalle. Sperando di non voltarsi e
scoprire il deserto.
Fonte
- Macromonitor
E’ ufficiale. La
crisi tocca l’uomo comune
02/04/2009 16.22
-
di Sara Silano ______________________________________________
“Banchieri e finanzieri vestitevi casual”. E’ l’invito che è
stato rivolto dalle forze dell’ordine a chi lavora nella City,
in occasione del G-20 di Londra. In giacca e cravatta o
tailleur, infatti, avrebbero potuto diventare un facile
bersaglio delle migliaia di manifestanti che hanno preso
d’assedio il cuore della finanza londinese per protestare contro
l’”ingordigia” delle istituzioni creditizie.
Le manifestazioni nella City hanno confermato che la crisi,
cominciata come finanziaria ha poi intaccato l’economia reale ed
è entrata nella vita quotidiana delle persone. In particolare di
chi ha perso gran parte dei propri risparmi o il posto di lavoro
per colpa di un sistema cresciuto al di sopra delle sue
possibilità e che è esploso manifestando tutte le sue
contraddizioni: stipendi e bonus stellari, eccesso di
indebitamento e di ingegneria nella costruzione dei prodotti.
Oggi, il lato più doloroso e preoccupante della recessione è la
perdita di posti di lavoro. La Banca mondiale ha lanciato
l’allarme per una unemployment crisis, ossia una crisi
dell’occupazione che rischia di spegnere i timidi segnali di una
stabilizzazione dell’economia. Nei giorni scorsi, l’Ocse,
l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha
presentato un rapporto, nel quale si prevede che il tasso medio
di senza-lavoro possa raggiungere il 10% nel 2010, superando
quello toccato durante gli shock petroliferi degli anni ’70.
Le ultime statistiche sui Paesi più industrializzati indicano
che quasi 7,2 milioni di lavoratori si sono aggiunti ai
precedenti disoccupati tra gennaio 2008 e gennaio 2009. Negli
Stati Uniti, il tasso a marzo potrebbe toccare l’8,5%, ai
massimi dell’ultimo quarto di secolo. Nell’area Euro, a febbraio
è stata raggiunta una percentuale analoga: in un solo mese hanno
perso il posto 319 mila persone, portando a 19,1 milioni il
totale dei senza-lavoro. In Giappone, i numeri sono più bassi
(4,4% a febbraio), ma ai livelli più alti degli ultimi tre anni.
Il problema tocca anche i Paesi emergenti. L’Ufficio di
statistica cinese ha annunciato che i lavoratori migrati nelle
città dalle zone rurali che non hanno un’occupazione sono circa
25 milioni.
La disoccupazione è la spina nel fianco di un’economia che cerca
la strada della ripresa, dovendo anche fare i conti con le
turbolenze dei mercati azionari che sono ben più forti del
passato. Tra gli analisti c’è chi vede il bicchiere mezzo vuoto,
per cui la situazione potrebbe ulteriormente peggiorare e chi
vede il bicchiere mezzo pieno, per cui potremmo aver toccato il
fondo. Michael Darda, capo economista di MKM Partners, considera
il numero di richieste di disoccupazione come un importante
anticipatore dell’inversione di un trend, insieme alla curva dei
rendimenti dei titoli di Stato e alla disponibilità reale di
moneta. Purtroppo, i dati rivelano che siamo ancora in
recessione piena, la peggiore del dopo-guerra, e bisognerà
attendere probabilmente il 2010 per vedere qualche segnale di
miglioramento. Per i leader del G-20, dunque, la priorità ora è
salvaguardare i posti di lavoro, perché il problema non tocca
solo i mercati finanziari, ma è una questione sociale. In questo
senso, gli episodi di protesta in Francia sono ancor più
eloquenti degli scontri londinesi.
Fonte
-
MorningStar.it
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Aprile 2009 |
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07
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Paradisi
fiscali,
si svuota la lista nera
08 Aprile 2009 09:57 MILANO - di
Attilio Geroni e Lino Terlizzi
________________________________________
La pressione del G20 di Londra comincia a produrre i suoi effetti.
Il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria, ha annunciato ieri a
Parigi che non vi è più alcun Paese sulla lista nera dei paradisi
fiscali. In pochi giorni Uruguay, Costarica, Filippine e Malaysia
sono stati "spuntati" da questo elenco dopo aver preso l'impegno
formale per uno scambio di informazioni sulla base degli standard
internazionali fissati proprio dall'Ocse. È un passo importante,
come ha riconosciuto Gurria durante la conferenza stampa tenuta al
termine dell'incontro con il commissario europeo responsabile della
fiscalità e delle dogane, l'ungherese Laszlo Kovacs
Ma è soltanto il primo di un lungo cammino verso la trasparenza.
Passare dalla lista nera a quella grigia, in compagnia di Paesi come
la Svizzera, il Lussemburgo e il Lichtenstein, significa, in
concreto, adeguare parti importanti delle rispettive normative
fiscali ai criteri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo. In realtà è la lista grigia, formata a questo punto da 42
Paesi, a richiedere i maggiori sforzi di persuasione e monitoraggio
della comunità internazionale e dell'Ocse. L'ulteriore promozione
alla lista bianca si guadagna quando un Paese ha firmato accordi
bilaterali sullo scambio di informazioni con almeno 12 dei 30 Paesi
aderenti all'organizzazione: «È chiaro che non saremo soddisfatti se
dodici paradisi fiscali raggiungeranno accordi con altrettanti
centri finanziari offshore», ha puntualizzato Jeffrey Owens,
direttore Ocse per la politica fiscale. «Gli impegni sono solo un
primo passo. Siamo più interessati alla loro realizzazione», ha
rincarato il commissario europeo Kovacs.
Angel Gurria ha in sostanza dribblato le domande (numerose) dei
giornalisti svizzeri sul perché, al termine del vertice di Londra,
centri offshore come Macao e Hong Kong si siano ritrovati fuori
lista per finire in una nota a margine come «Regioni amministrative
speciali che si sono impegnate a mettere in pratica gli standard
internazionali riconosciuti». L'Ocse si è limitata a replicare che
la lista è fondata su criteri oggettivi.
Sanzioni potrebbero essere
applicate a chi non rispetta gli impegni, anche se queste - ha
sottolineato il segretario generale - restano una prerogativa dei
governi. Tra le misure di ritorsione figurerebbero le ispezioni
ulteriori per quanti ricorrono ai centri offshore e una riduzione
dei benefici fiscali legati alle attività economiche in questi
territori.
Nonostante l'annuncio ad effetto di ieri, alcuni esperti restano
scettici poiché uscire dalla lista nera è relativamente facile
grazie ad una dichiarazione d'intenti, sia pur vincolante.
L'importante, sostengono, è che si assottigli rapidamente la lista
grigia, dove le trattative tra singoli Stati rischiano di essere
lunghe. È da oltre un decennio che l'Ocse ha cominciato a lavorare
sui paradisi fiscali, all'indomani della crisi asiatica. Stavolta
l'organizzazione può beneficiare di un sostegno politico planetario
e in un contesto di crisi economica senza precedenti che ha reso
ancora più necessario il recupero delle risorse sottratte ai governi
nazionali. Secondo stime ufficiose gli assets nei centri offshore
ammonterebbero ad una cifra compressa tra i 1.700 e gli oltre 11mila
miliardi di dollari.
Il vertice Usa-Svizzera La Svizzera inizierà il 28 aprile prossimo i
negoziati con gli Usa per la revisione dell'accordo fiscale sulla
doppia imposizione. L'annuncio è venuto da Washington, Berna ha
confermato. Sarà il primo passo della Confederazione in direzione
dell'inserimento nelle intese esistenti della sua adesione ai
criteri dell'Ocse per la lotta all'evasione fiscale. Un allentamento
consistente del segreto bancario, che sin qui poteva essere levato
per assistenza in caso di frode fiscale, non di evasione. La
Svizzera ha accordi fiscali bilaterali con 74 Paesi e dovrà
rivederne almeno 12, per cominciare ad uscire dalla lista grigia ed
approdare a quella bianca dei Paesi considerati pienamente
cooperativi dall'Ocse. Oltre che con gli Usa, Berna ha già avviato
colloqui con il Giappone. Il Governo elvetico ha contattato anche
Cina, Russia, Brasile. Sul fronte europeo, molti i Paesi già sondati
da Berna, tra cui Francia e Italia. Ma la vera notizia sul versante
Ue è ora la ripresa dei contatti a questo riguardo con la Germania,
Paese che nelle scorse settimane aveva duramente attaccato il
segreto bancario elvetico.
Il Governo svizzero oggi si riunisce ed all'ordine del giorno c'è
anche lo sviluppo di questa fase negoziale, che per Berna ha
l'obiettivo di sancire la sua uscita dalla lista grigia, mantenendo
però il segreto bancario, pur emendato. Se da un lato la Svizzera
tiene fede agli impegni presi, dall'altro però non mancano le
critiche all'Ocse. Il ministro elvetico degli Esteri, Micheline
Calmy-Rey – che tra l'altro ha incontrato a Istanbul il presidente
Usa Obama, come mediatrice tra Turchia e Armenia – ha affermato che
quella uscita dall'Ocse dopo il G20 di Londra è una "lista
politica". Un riferimento indiretto al fatto che piazze come Hong
Kong e Macao non hanno impedito la presenza della Cina nella lista
bianca, così come le Isole del Canale ed i trust londinesi non hanno
impedito quella del Regno Unito e alcune isole caraibiche ed il
Delaware quella degli Usa. Secondo Berna ci sono stati criteri
diversi, insomma, da quelli usati ad esempio per Svizzera, Austria,
Lussemburgo.
In ogni caso, non è certo privo di significato che il primo
negoziato sia con gli Usa. Washington negli ultimi mesi non ha
risparmiato attacchi al segreto bancario elvetico. Inoltre, negli
Usa è ancora aperta la vicenda giudiziario-fiscale che ha coinvolto
Ubs, la maggior banca svizzera, accusata di aver favorito evasioni o
frodi fiscali. La banca ha pagato una multa di 780 milioni di
dollari ed ha consegnato una lista di 255 clienti Usa. Ma il fisco
americano vuole molte migliaia di nomi. La tensione c'è ancora e lo
prova anche il fatto che Ubs ha vietato i viaggi di lavoro fuori
dalla Svizzera ad un migliaio di suoi gestori, in attesa che la
situazione si chiarisca. Martin Liechti, ex manager Ubs, era stato
brevemente arrestato negli Usa, l'anno scorso, proprio in relazione
alla indagine fiscale.
 |
Fonte
- Il Sole 24 Ore
|
Obama: le
glorie d'Europa e i guai di Washington
09 Aprile 2009 02:32 MILANO - di
Mario Margiocco
________________________________________
Il successo del viaggio europeo di Barack Obama, ben
riuscito come immagine e con risultati concreti al G 20, fornisce
capitale prezioso al Presidente americano. Sulla scena interna
infatti, e sul tema cruciale della finanza, i problemi non
diminuiscono. Anzi, aumentano. Quella che è stata finora la
strategia di Obama, del suo ministro del Tesoro Timothy Geithner, e
del suo superconsigliere Lawrence Summers, lavorare cioè con il
management attuale delle grandi banche e finanziarie, rischia di
risultare difficile. Non è ormai solo la piazza populista a chiedere
il licenziamento dei top manager. Ma anche il Congresso.
Con un Rapporto presentato martedì 7, il Congressional oversight
panel voluto a ottobre dal Congresso per controllare l'utilizzo dei
700 miliardi della Tarp, il fondo per alleggerire le banche dagli
asset tossici, chiede la testa del top management dei gruppi che
ricevono aiuti ingenti. Secondo quanto riferiva già domenica il
settimanale britannico The Observer, del gruppo Guardian, che ha
anticipato la notizia, Elizabeth Warren, presidente del Panel,
avrebbe citato espressamente i vertici di Aig e Citigroup, che hanno
ricevuto la prima 173 miliardi e la seconda 45 miliardi più 316 di
garanzie sui prestiti. Citigroup è di fatto nazionalizzata, con 25
miliardi di aiuti trasformati a fine febbraio nel 36% di azioni
ordinarie. Domenica in tv Geithner ha detto di essere disposto a
cambiare il management di chi riceverà aiuti in futuro, ma non è
stato convincente.
La signora Warren, che insegna legge ad Harvard ed è nota per la sua
indipendenza, non ne fa solo una questione di giustizia e di tutela
dei soldi del contribuente. Dichiara, a parziale salvaguardia di
questi ultimi, che gli azionisti delle imprese decotte devono essere
azzerati e non possono pretendere di venir salvati dalla Stato. Ma
l'attacco vero è al principio stesso del Ppip, il Public–private
investment program (piano Geithner), che dovrebbe utilizzare i 210
miliardi ancora disponibili della Tarp per avviare l'acquisto da
parte dei privati, all'asta, dei fondi tossici di chiunque sia
disposto a metterli in vendita. Le operazioni sarebbero alla fine
garantite al 90% e oltre dallo Stato se i titoli poi non si
apprezzeranno, mentre i profitti andrebbero al 50% ai privati se
invece vi saranno utili. Alla fine, in molti casi, un salvataggio
garantito dallo Stato dietro la foglia di fico del privato.
Elizabeth Warren difende il principio di una nazionalizzazione fatta
"in modo strutturale" e non caso per caso, come nel non esemplare
modello giapponese. Di fatto, chiede che si decida presto quale
banca può camminare con le proprie gambe, e quale no. Dei cinque
membri del panel i due repubblicani si sono dissociati. Resta quindi
un documento dove sono i democratici a seguire una linea diversa da
quella dell'Amministrazione democratica.
Anche le modalità di attuazione della Ppip rischiano di esporre
l'amministrazione Obama ad accuse di eccessiva vicinanza a Wall
Street, già abbondanti da parte della sinistra democratica e
nonostante la forte popolarità personale del Presidente. Secondo un
articolo pubblicato con risalto il 4 aprile dal Washington Post, il
Tesoro sta aggirando la norma posta dal Congresso per porre un
limite ai guadagni dei manager delle banche e finanziarie che
dovessero trarre vantaggio dalla Ppip. Formalmente l'utile andrebbe
a una società terza, già prevista dalla legge per gestire i titoli
acquistati. E quindi i bonus non sarebbero a rischio. "Stanno
cercando di aggirare la volontà del Congresso, ma credo che i
tribunali troveranno la cosa ridicola", è stato il commento di David
Zaring, un ex avvocato dello Stato.
Purtroppo il sentimento populista, sempre presente negli Stati Uniti
dove è l'altra faccia della dignità del common man, rischia di
crescere molto. Le cifre in ballo e chieste al contribuente sono
enormi: la sola Tarp ad esempio vale di più, con i suoi 700
miliardi, dell'intero costo della guerra del Vietnam, in dollari
attuali. E l'intero arsenale finanziario messo in atto per il
salvataggio e il rilancio, solo in parte speso, in parte notevole in
teoria recuperabile, è pari finora a 12,8 mila miliardi di dollari,
3,5 volte di più di quanto il Paese spese, in dollari di oggi, per
la Seconda guerra mondiale.
Una terza notizia, quella dei cinque milioni di dollari guadagnati
in poco più di un anno da Lawrence Summers, direttore del National
economic council e superconsigliere di Obama, non aiuta. Summers è
stato ministro del Tesoro con Clinton e fino a un anno e mezzo fa ha
creduto alle virtù della nuova finanza, di cui è stato fondamentale
artefice al Tesoro. Summers ha ricevuto la cifra, nel 2008, come
part-time managing director dell'hedge fund D.E.Shaw &Co., il più
aristocratico di Manhattan, tutto matematica finanziaria, elitario e
fino a ieri florido. Come minimo per entrarvi occorreva essere stato
un Fulbright graduate student. Ora ha già accettato un po' di fondi
federali. In più, Summers guadagnava nel 2008 circa 2,7 milioni come
conferenziere presso banche e finanziarie che poi hanno spesso
ricevuto miliardi dallo Stato, Citigroup e Goldman Sachs in testa.
Finora la notizia, data con un certo risalto solo da Washington Post
e New York Times, non è ancora entrata nel tritacarne televisivo. Ma
i blog progressisti, che non amano Summers, sono all'attacco. Il
ruolo di Summers presso D. E. Shaw era quello di procurare facoltosi
clienti, come ben ricorda chi l'ha visto in azione a Dubai nel
novembre 2007. E' Summers credibile come co-stratega delle nuove
regole di Wall Street? La quantità degli asset tossici da ripulire
intanto sale. Non saranno pari a circa 1000 miliardi, nel sistema
americano, ma ad oltre i 1500, calcola ora l'Fmi. Gli Stati Uniti
hanno trattenuto infatti circa la metà dei loro titoli tossici,
calcolati a 2,2 mila miliardi prima dal Fondo, e ora sembra a 3,1
mila; il resto è stato venduto all'estero.
Seguire le complessità del salvataggio finanziario è, per l'elettore
medio americano, piuttosto complicato. Ma visto che il contribuente
è chiamato e saldare il conto, e solo il contribuente finora nella
strategia di Washington, con Bush e con Obama, presto le idee
diventeranno più chiare. A quel punto il chi paga, il chi ha
guadagnato ieri, il chi guadagna dal salvataggio diventeranno,
purtroppo, l'unico rozzo ma inevitabile metro di giudizio. E qui ci
sarà la battaglia politica. Il Sole 24 Ore da mesi scrive, senza
ambiguità, che dati i loro trascorsi né Lawrence Summers, né Timothy
Geithner, assai meno compromesso ma frutto della stessa squadra,
difficilmente potranno reggere il colpo.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Notizie buone ma non
troppo
Thursday, 9 April, 2009 at 20:22
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di by phastidio ______________________________________________
Nel mese di febbraio il deficit della bilancia commerciale
statunitense si è fortemente contratto, portandosi a 26 miliardi
di dollari dai 36,2 miliardi in gennaio. Il risultato è frutto
di un vero e proprio collasso delle importazioni e da un
lievissimo aumento dell’export, il primo da luglio 2008,
probabilmente frutto di rumore statistico. Il deficit è sceso al
minor livello da novembre 1999. Questi numeri potrebbero
contribuire ad aumentare il Pil americano del primo trimestre
2009 di 1-2 punti percentuali. Tutto bene, quindi? Non proprio.
Il collasso delle importazioni del primo trimestre riflette sia
la debolezza nella domanda finale statunitense che il crollo dei
flussi di commercio estero a seguito della stretta creditizia:
negli ultimi tre mesi import ed export sono crollati al passo
annualizzato del 38 per cento. Tuttavia, poiché in valore
assoluto le importazioni americane sono molto maggiori
dell’export, queste flessioni hanno prodotto un forte
restringimento del deficit commerciale. Oggi gli Stati Uniti
sono impegnati in un’imponente processo di liquidazione delle
scorte che sta forse iniziando a dare i primi frutti, come
segnalato dai recenti dati sulle scorte all’ingrosso, e dalla
riduzione del quoziente tra scorte e vendite. Il decumulo delle
scorte si riflette pesantemente anche sulle importazioni: il
dato di febbraio mostra forti riduzioni soprattutto nell’import
di forniture industriali e beni capitali, al netto delle auto.
Ma esiste un rovescio della medaglia: su base annuale le
importazioni dal Giappone sono in calo del 50 per cento, una
caduta che corrisponde a quella dell’export giapponese. Le
importazioni dall’Eurozona e dal bacino del Pacifico sono in
calo del 30 per cento, sia pure non corrette per la
stagionalità.
Al miglioramento del saldo commerciale americano sta inoltre
vistosamente contribuendo il petrolio. In valore nominale, nel
primo bimestre 2009 le importazioni petrolifere medie erano pari
a 15 miliardi di dollari al mese, 20 in meno dello stesso
periodo del 2008 e oltre 30 in meno rispetto al picco
dell’estate scorsa. Ma anche in valore reale, cioè in volume,
l’import petrolifero è in calo del 6 per cento su base annua.
Questo significa che i minori prezzi petroliferi non hanno
rivitalizzato la domanda, a causa della gravità della crisi.
Ha quindi ragione Brad Setser: gli americani stanno esportando
la propria recessione. Chi pensa che alla fine di questa crisi
ci sia il ritorno al business as usual del consumatore
compulsivo americano che risolleva l’export di Cina, Giappone e
Germania farebbe bene a ricredersi.
Fonte
- Macromonitor
Bad bank tedesca per
sconfiggere la crisi
10/04/2009
-
di MIAECONOMIA ______________________________________________
Si sta facendo strada in Europa l’idea di una bad bank di Stato,
che raccolga i titoli tossici e ripulisca il bilancio delle
principali banche del Paese. A conferma c’e' l’indiscrezione che
la Germania stia valutando la creazione di una bad bank che
abbia il sostegno dello stato e che si faccia carico delle
centinaia di miliardi di euro di prestiti problematici.
Il Governo tedesco e’ gia’ intervenuto direttamente nel capitale
di Hypo Real Estate e Commerzbank per sostenere i due istituti e
salvarli dal fallimento. Ma la creazione di una bad bank
direttamente dipendente dallo stato, sarebbe una soluzione
radicale. E comunque non l’unica a cui il governo tedesco sta
lavorando. L’obiettivo e’ trovare una soluzioni per i prestiti
problematici delle banche e fare ripartire il mercato del
credito.
E comunque l’idea della bad bank piace al mercato. Ieri,
nell’ultima seduta della settimana, la Borsa tedesca ha chiuso
con un rialzo di quasi il 3%, con la performance migliore in
Europa. Ovviamente i titolo bancari sono stati nell’occhio della
speculazione. Commerzbank ha guadagnato il 7%, Deutsche Bank e’
salita di oltre il 5%.
Ma la creazione di una bad bank di stato non e’ una novita’.
L'Irlanda ha appena creato una banca dove fara' confluire tutti
gli asset immobiliari in portafoglio alle sei maggiori banche
del Paese. E se necessario, lo stato assumera' anche il
controllo della maggioranza delle due principali banche
irlandesi. L'Irlanda e' cosi' il primo Paese della zona euro ad
utilizzare una bad bank sponsorizzata dal governo per rimuovere
gli asset tossici dal sistema bancario.
Fonte
- MIAECONOMIA
Il domino delle
banche Usa
13/04/2009
-
di MIAECONOMIA ______________________________________________
E adesso bisogna registrare l’ultimo fallimento bancario targato
Usa. Si tratta di una banca regionale del Colorado, la New
Frontier Bank, che però non era un istituto da poco, visto che
disponeva di 2 miliardi di dollari di attivi.
A questo punto siamo arrivati così a quota 23 banche
statunitensi che dall’inizio dell’anno sono fallite, la New
Frontier è sicuramente a oggi la più importante banca americana
del 2009 a essere fermata dalle autorità finanziarie
statunitensi, attraverso il Fdic. Il caso della New Frontier,
per importanza, ha superato quello della californiana Merced
Bank, che ha chiusi l’attività agli inizi di febbraio e che
controllava qualcosa come 1,7 miliardi di dollari di attivi.
Il punto è che la Fdic di solito procede su una banca in
difficoltà o alla soglia del fallimento cercando un concorrente
sano disposto a intervenire, ma questa volta non è stato
possibile fare nulla. Ecco perché l’organismo è stata costretto
a mettere in piedi un istituto creato ad hoc, la Deposit
Insurance National Bank of Greely (Dinb), che funzionerà solo
per il prossimo mese con l’unico scopo di permettere ai clienti
della banca fallita di trasferire i loro conti verso un altro
istituto.
Non si tratta anche qui di cifre da poco, la New Frontier
registrava depositi per 1,5 miliardi di dollari e si trovava,
mentre per la Fdic si tratterà di affrontare costi per 630
milioni di dollari legati al caso della banca del Colorado.
Cifre che si vanno a sommare a quelli di un altro fallimento, in
pratica arrivato in contemporanea con quello della New Frontier,
ovvero quello della Cape Fear Bank, una banca regionale della
Carolina del Sud., banca che contava su 492 milioni di dollari
di attivi e 4023 milioni di depositi. In questo caso l’Fdic ha
trovato l’appoggio della First Federal Savings and Loans
Association (Carolina del Nord), una cassa di risparmio che è
subentrata alla Cape Fear e che ne manterrà aperte le agenzie.
Che le operazioni di intervento della Fdic si stiano
moltiplicando è sottolineato anche da un dato: l’agenzia
dall’inizio dell’anno ha speso ben 5 miliardi di dollari per
salvare i depositi dei piccoli risparmiatori nelle banche
fallite.
Fonte
-
MIAECONOMIA
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Economia:
sarà una ripresa a L o a U?
14 Aprile 2009 16:56 MILANO - di
*Giuseppe Turani
*Giuseppe Turani e'
editorialista di La Repubblica.
________________________________________
La parola che fino a qualche settimana fa era quasi proibita
("ripresa") nei ragionamenti pubblici, adesso viene usata con
crescente frequenza tanto dal presidente degli Stati Uniti, Barak
Obama, quanto dal governatore della Banca d´Italia, Mario Draghi. E
anche i diaconi della Banca mondiale (gente tendenzialmente tendente
al pessimismo) si spingono a dire, insieme a quelli dell´Ocse (altro
santuario di non-ottimisti) che si intravedono debolissimi segnali
di ripresa. Insomma, ci sono delle rondini primaverili (isolate) che
arrivano e si fanno notare.
Come è ovvio, dopo tutti gli errori di appena un anno fa, la parola
viene circondata da ogni possibile precauzione, ma intanto se ne
parla. E fra gli esperti (dentro le pubblicazioni che girano solo
sulla Rete e in circoli molto ristretti) infuria il dibattito sul
tipo di ripresa in arrivo. A L, a U, o a V. Le differenze sono
tante.
La ripresa a L, ad esempio, è una specie di non-ripresa:
l´economia crolla verticalmente, come è successo adesso, e poi
prosegue indefinitamente piatta. Smette di crollare, a un certo
punto, ma poi si prosegue per lunghissimo tempo senza segnali
importanti di vitalità. Un po´ come essere morti, senza esserlo, in
coma, ecco. In un recente report, Goldman Sachs di fatto prefigura
per l´area euro una sorta di crisi a L, con crollo dell´economia del
3,7 per cento nel 2009 e risalita allo 0,7 per cento nel 2010: linea
piatta. La ripresa a U sarebbe quella preferita dagli economisti: si scende
dolcemente e si risale altrettanto dolcemente, un ottovolante per
moderati. Ma non trova sostenitori quasi più da nessuna parte,
soprattutto perché, se sta nei libri di teoria, poi è stata constata
nei fatti poche volte.
La ripresa a V è, ovviamente, quella preferita dal mercato e dai
governanti. Magari si scende molto bruscamente, ma poi si rimbalza
altrettanto velocemente e nel giro di pochi mesi nessuno si ricorda
più della crisi precedente perché è impegnato a lavorare, a fare
carriera o a fare soldi comunque. La ripresa a V si spiega, dal
punto di vista teorico, sostenendo che, quando la crisi è molto
forte, i magazzini delle aziende si svuotano fino all´inverosimile e
i consumatori bloccano gli acquisti così in fretta che poi sorge
spontaneo il bisogno di tornare a produrre per mettere qualcosa nei
magazzini e per soddisfare la domanda arretrata dei
cittadini-consumatori.
A questo genere di ripresa, a V, sembrano credere gli esperti di
Credit Suisse, che, ad esempio, per il mondo nel suo insieme vedono
un crollo dello 0,5 per cento nel 2009 (al posto della solita
crescita del 5 per cento), con balzo al 3,7 per cento di aumento del
Pil nel 2010. Per gli Stati Uniti, nello scenario a V di Credit
Suisse, si va da un -2,4 per cento del Pil nel 2009 a +3,5 per cento
nel 2010 (quindi ripresa piena e abbondante, per un paese maturo).
Insomma, il dibattito fra i sostenitori di un´imminente ripresa
bruciante o moderata è più vivo che mai. La verità è che nessuno sa
bene che cosa stia succedendo, visto che tutti quelli che oggi
parlano di uscita dalla crisi e di imminente ripresa, ancora venti
giorni fa lanciavano segnali di forte appesantimento della
situazione economica e di gravissimi pericoli dietro l´angolo.
Tutto ciò che sappiamo è che, a questo punto, è ragionevole
attendersi un po´ di ripresa sul finire del 2009 (a seconda dei
paesi, prima negli Stati Uniti, poi in Europa) e un suo successivo
consolidamento nell´anno successivo. E, probabilmente, non sarà a L,
a U o a V. Sarà semplicemente un po´ faticosa e stentata, come
quando si cerca di tirare fuori una macchina che è finita nel fango:
un po´ corre e un po´ si ferma di nuovo. E questo perché questa
crisi ha ferito seriamente il sistema finanziario internazionale
(senza il quale non si hanno produzione e investimenti adeguati) e
ha incrinato la fiducia di centinaia di milioni di consumatori.
Nessuno corre dopo una brutta influenza. E meno che mai dopo una
polmonite. Si comincia con pochi passi prudenti, e ogni tanto ci si
ferma a tirare il fiato.
 |
Fonte
- La Repubblica
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Lo
pseudo capitalismo
di Obama
14 Aprile 2009 23:53 NEW YORK - di
Joseph Stiglitz
________________________________________
La proposta dell’Amministrazione Obama di investire 500 o
più miliardi di dollari per sistemare le banche americane in
sofferenza è stata descritta nei mercati finanziari come
un’operazione win-win-win, dove tutte le parti coinvolte vincono e
nessuna perde. In verità è una proposta win-win-lose: vincono le
banche, vincono gli investitori, ma perdono i contribuenti.
Il Tesoro americano spera di tirarci fuori da questo pasticcio
replicando i metodi con cui il settore privato ha fatto crollare il
mondo, cioè un eccesso di indebitamento nel settore pubblico, un
eccesso di complessità, incentivi scarsi e mancanza di trasparenza.
Proviamo a ricapitolare le cause dell’attuale disastro. Le banche
sono finite - e hanno fatto finire noi - nei guai eccedendo
nell’indebitamento, cioè utilizzando una parte relativamente piccola
del loro capitale e prendendone a prestito una molto grande per
comprare titoli immobiliari ad altissimo rischio. Per farlo hanno
usato strumenti altamente complessi, come le obbligazioni
collaterizzate di debito.
La prospettiva di alti guadagni ha dato ai manager l’incentivo a
essere miopi e ad assumere rischi eccessivi, anziché prestare il
denaro con oculatezza. Le banche hanno fatto questi errori senza che
nessuno lo sapesse, anche perché molti erano finanziamenti «fuori
bilancio».
In teoria il piano dell’Amministrazione Obama lascia che sia il
mercato a determinare il prezzo dei «titoli spazzatura» delle banche
- compresi i prestiti per la casa e i titoli basati su quei
prestiti. La realtà, però, è che il mercato non valuterà gli asset
tossici in sé, ma le opzioni su quegli asset. Le due cose hanno ben
poco a che vedere l’una con l’altra.
Il piano del governo comporta
infatti l’assicurazione di quasi tutte le perdite, con la
conseguenza che gli investitori privati, liberi dalle perdite,
«valuteranno» innanzitutto i loro guadagni potenziali. Questo
significa dare loro un’opzione.
Una discutibile partnership
Prendiamo un asset che abbia 50 per cento probabilità di valere, nel
giro di un anno, o zero o 200 dollari. Il suo «valore» medio è
perciò di 100 dollari, cioè il prezzo che spunterebbe in un mercato
competitivo. Nel piano del segretario al tesoro Timothy Geithner il
governo metterebbe circa il 92 per cento del denaro necessario a
comprarlo ma riceverebbe solo il 50 per cento degli eventuali
guadagni, assorbendo praticamente tutte le eventuali perdite. Che
razza di partnership è mai questa?
Ipotizziamo che uno dei fondi pubblico-privati che il Tesoro ha
promesso di creare intenda sborsare per quell’asset 150 dollari.
Questo è il 50 per cento più del suo effettivo valore, e la banca è
ben felice di venderlo. Il partner privato mette 12 dollari e il
governo il resto - 12 dollari in «equity» più 126 dollari sotto
forma di prestito garantito. Se, nel giro di un anno, il valore
effettivo dell’asset diventa zero, il privato perde 12 dollari e il
governo 138. Se invece il valore effettivo è di 200 dollari, il
governo e il partner privato si dividono i 74 dollari che rimangono
dopo aver restituito il prestito di 126.
In quel roseo scenario, il privato triplica il suo investimento di
12 dollari ma il contribuente, pur avendo rischiato 138 dollari, ne
guadagna appena 37. Anche in un mercato imperfetto non si dovrebbe
confondere il valore di un asset con il valore dell’opzione su
quell’asset.
E’ però probabile che gli americani perdano ancora di più per via di
quell’effetto chiamato «selezione avversa». Poiché le banche possono
scegliere i mutui e i titoli da vendere, saranno inclini a vendere
gli asset più tossici, in particolare quelli che, secondo loro, sono
sovrastimati dal mercato. E’ però probabile che il mercato capisca
il gioco e abbassi il prezzo che è disposto a pagare. Solo se un
governo che si faccia carico di una quantità sufficiente di perdite
riesce a contrastare la «selezione avversa». In questo caso il
mercato non si preoccuperà se le banche lo «imbrogliano» vendendo i
loro titoli peggiori, tanto paga il governo.
Il problema principale non è una mancanza di liquidità. Se lo fosse,
basterebbe un programma molto più semplice: fornire fondi senza
garanzie sul prestito. Il vero problema è che le banche hanno creato
la bolla speculativa sui mutui subprime e hanno fortemente speculato
con denaro preso a prestito. Hanno perso il loro capitale, e questo
capitale dev’essere rifuso. Pagare il giusto valore di mercato per
gli asset non basta. Solo pagandoli più del dovuto le banche
verranno adeguatamente ricapitalizzate. Ma superpagare gli asset
significa semplicemente spostare le perdite sul governo.
Alcuni americani temono che il governo possa «nazionalizzare»
temporaneamente le banche, ma questa opzione sarebbe preferibile al
piano Geithner. Dopo tutto la Fdci - Federal Deposit Insurance Corp,
l’Agenzia governativa che svolge il ruolo di garante per i depositi
presso le banche americane - ha già preso in precedenza il controllo
di banche a rischio fallimento, e ha agito bene. Sono stati
nazionalizzati anche grandi istituti come Continental Illinois
(acquisito nel 1984 e tornato in mani private pochi anni dopo) e
Washington Mutual (acquisito lo scorso settembre e immediatamente
rivenduto).
Stimoli perversi
Quello che l’Amministrazione Obama sta facendo è peggio di una
nazionalizzazione: è pseudo capitalismo, che privatizza gli utili e
socializza le perdite. E’ una «partnership» in cui un partner rapina
l’altro. Una partnership del genere - con il controllo nelle mani
private - dà degli stimoli perversi, ancora peggiori di quelli che
ci hanno portato nel caos attuale.
Allora, dove sta l’attrattiva di una proposta del genere? Forse è il
tipo di «macchina di Rube Goldberg» che Wall Street adora -
intelligente, complessa e non trasparente, che consente ingenti
trasferimenti di ricchezza ai mercati finanziari. Essa ha permesso
all’Amministrazione Obama di non dover tornare al Congresso a
chiedere il denaro necessario a salvare le nostre banche, fornendo
una strada per evitare la nazionalizzazione.
Il problema è che noi già soffriamo di una crisi di fiducia. Quando
gli alti costi del piano Geithner diventeranno evidenti, ci sarà
un’ulteriore erosione di fiducia. A quel punto il compito di
ricreare un settore finanziario vivace, e di resuscitare l’economia,
sarà ancora più difficile.
 |
Fonte
- Der Spiegel e La Stampa
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LE PAROLE DEL CRACK
17 Aprile 2009 15:13 NEW YORK
-
di Suketu Mehta ______________________________________________
La vista dalla finestra del mio appartamento a New York
si apre su due ground zero: a sinistra, l'epicentro
dell'esplosione che ha cambiato il caratteristico profilo di
Manhattan creando una voragine laddove sorgeva il World Trade
Center e, a destra, nella zona circostante Wall Street, la
capitale finanziaria del mondo, l'epicentro della crisi
economica.
Otto anni di governo Bush - iniziato con il surplus di 128
miliardi di dollari tramandato dal precedente governo e
conclusosi con una fuga che ha lasciato dietro un deficit di
10,6 migliaia di miliardi - ci hanno consegnato un sistema
finanziario mondiale in rovina. Ricordo quando, nel 2006, mi
recai presso una società che rilasciava mutui per sapere se
potevo permettermi una casa. "Non ho un impiego fisso",
cominciai a spiegare, "e il mio reddito può variare da un anno
all'altro, per cui mi è difficile quantificare.". "Non importa",
mi aveva interrotto il mediatore, "non occorre comunicare il suo
reddito a chicchessia. Noi possiamo concederle un prestito che
non prevede la presentazione di documenti". Ero rimasto stupito:
le strade degli Stati Uniti dovevano davvero essere asfaltate
d'oro, avevo pensato. L'oro degli stolti, come si rivelò in
seguito.
Ora il mondo intero paga per il fatto che gli americani hanno
pagato troppo per le loro case.
Ancora una volta, a soffrire di più sono i poveri. Sono 90
milioni le persone che potrebbero essere spinte sotto la soglia
di povertà entro la fine del 2010 a causa della crisi, perché
gli investitori dei paesi ricchi tengono lontano il loro denaro
dai rischiosi mercati azionari dei paesi emergenti. Negli Stati
Uniti, la recessione implica che le persone perdono il posto di
lavoro e devono quindi lasciare la propria casa. In Africa la
conseguenza è che le persone non avranno da mangiare e
moriranno.
La facilità con la quale siamo stati ingannati può essere
imputata per buona parte al linguaggio del mondo degli affari
che è diventato incomprensibile quanto la messa in latino. Siamo
vittime dei gerghi: di quello delle riviste accademiche, della
giustizia, dei medici e del mercato finanziario. Solo pochissime
persone conoscono il significato di 'derivati' o di 'credit
default swaps'.
I banchieri hanno potuto derubarci restando nascosti dietro al
muro del gergo. I legislatori che, si presume, abbiano il
compito di vigilare sui banchieri, non capiscono il linguaggio
di questi ultimi, com'è risultato evidente dalle recenti
sessioni al Congresso sulla crisi. Ai grandi dirigenti della
finanza, che testimoniavano davanti ai congressisti, hanno posto
domande stupide e si sono superati a vicenda nell'esprimere la
propria rabbia populista. I banchieri quindi si sono nascosti,
ancora una volta, dietro al muro del gergo.
Quando le pagine economiche di un giornale diventano
indecifrabili quanto una pubblicazione accademica occorre
allarmarsi. George Orwell, ne 'La politica e la lingua inglese',
ci aveva messo sull'avviso riguardo alla proliferazione del
gergo, di un cattivo uso del linguaggio allo scopo di nascondere
malefatte e tirannie. "Nel nostro tempo, i discorsi politici
sono usati in buona parte per difendere l'indifendibile",
scriveva Orwell. Ai nostri giorni, se sostituiamo la parola
'politici' con 'finanziari', ecco che otteniamo un giudizio
netto sul linguaggio della moderna economia.
È qui dunque che assumono un ruolo centrale scrittori e
giornalisti. Noi siamo gli intermediari, gli interlocutori e
nessun altro può svolgere questo ruolo. È una nostra
responsabilità sfondare il muro del gergo, vale a dire,
ascoltare gli esperti finanziari e tradurre i loro discorsi in
inglese o in italiano a beneficio di chi non ne è esperto. È una
nostra responsabilità trasmettere al pubblico in generale (con
parole comprensibili) le deliberazioni dei ricchi e dei potenti,
in modo che tutti siano in grado di esprimere un giudizio
informato sul perché sono stati presi in giro e incastrati.
Così come Tolstoj scrisse sulle guerre napoleoniche, così i
nostri romanzi dovrebbero capire e parlare delle guerre
finanziarie del XX secolo. La nostra democrazia dipende da ciò:
dal fatto che le persone comuni capiscano il linguaggio delle
élite.
traduzione di Guiomar Parada
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Traduzione - di
Guiomar Parada |
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Fonte
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L'espresso
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CRISI, MA QUALE
CRISI?
17 Aprile 2009 14:35 NEW YORK
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di Il Foglio ______________________________________________
La guerra non è guerra, la crisi non è crisi. Nel
fantastico mondo di Barack Obama non c’è posto né per brutture
di bushiana memoria né per dettagli noiosi su morti decapitati o
peggio ancora sui disoccupati. La guerra al terrore non esiste,
se l’era inventata Bush con la sua combriccola di brutti e
cattivi, ora ci sono eroiche "operazioni d’emergenza oltremare"
per difendersi non dagli attacchi terroristici ma dai "disastri
causati dall’uomo".
Neppure la crisi esiste più, guai a chi dice il contrario. In
nome dei barlumi di speranza che i leader illuminati di tutto il
mondo ora intravedono all’orizzonte – vatti a fidare di questi
leader, poi, che prima non avevano previsto niente, poi hanno
previsto catastrofi e ora prevedono la fine della tempesta nel
giro di qualche mese – sono bandite le espressioni
pessimistiche.
Il ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, non parla più di
"asset tossici", cosa che non deve pesargli più di tanto, dal
momento che nessuno ha mai capito che cosa fossero veramente,
men che meno quanto valessero: ci hanno costretti a imparare a
leggere numeri con una quantità di zeri indicibile, e mai tanta
fatica è stata così sprecata. La tossicità è evaporata, è finita
chissà dove, ma non importa più di tanto, d’ora in avanti avremo
a che fare soltanto con "legacy asset", asset ereditati, noi che
colpa ne abbiamo? Si tratta semplicemente di gestirli, ma
soltanto quando si apre il testamento, poi si sa che anche le
migliori proprietà diventano catapecchie nelle mani degli eredi
irresponsabili.
Il premier inglese Gordon Brown e il capo della Fed Ben Bernanke,
ben più cervellotici e navigati del ministro dal viso d’angelo,
hanno trovato il modo di indorare la pillola della
regolamentazione dei mercati, tanto più che non si può essere
paladini del mercato senza regole negli anni Novanta e dieci
anni dopo prendersela con chi doveva controllare e non l’ha
fatto – vero Mr Brown? Così le regole per ingabbiare i mercati,
i paradisi fiscali, gli hedge fund e tutti i fondi che girano
per il globo sono tatticamente diventate un semplice "controllo
macroprudenziale", che non si capisce bene che cosa sia, ma fa
tanto oculatezza e cautela e morigeratezza.
Il make up linguistico che tutto sistema e rende bello ha dato
il meglio con la parola chiave. La "crisi finanziaria globale"
secondo il Global Language Monitor è diventata "la
ristrutturazione economica globale". La crisi fa paura, è un po’
colpa di tutti, ognuno se la prende con chi vuole, da Greenspan
ai direttori di una concessionaria Fiat in Belgio ogni scusa è
buona, ma se c’è chi ristruttura, chi mette in ordine, allora
non c’è più bisogno dei forconi, ci si può fidare, qualcuno si
prende cura di te, dormi pure tesoro.
Fonte
- Il
Foglio
QUATTRO MILA MILIARDI DI
DOLLARI PER LE SVALUTAZIONI GLOBALI
21 Aprile 2009 15:51 NEW YORK
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
E' il costo della crisi finanziaria in termini di svalutazioni
di asset globali entro il 2010 secondo le stime del FMI.
"Cruciale interrompere la spirale negativa tra sistema
finanziario ed economia".
Il costo della crisi finanziaria in termini di svalutazioni di
asset globali sarà di 4mila miliardi di dollari entro il 2010,
di cui due terzi in carico alle banche. Lo scrive il Fmi nel suo
ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria globale (Gsfr). La
stima comprende per la prima volta gli asset originati su tutti
i mercati, e non solo su quelli Usa, e detenuti da banche e
altre istituzioni finanziari. Per i soli asset originati negli
Usa la stima sulle potenziali svalutazioni è stata innalzata a
2.700 miliardi dai 2.200 miliardi del gennaio 2009 e i 1.400
miliardi di ottobre 2008.
Nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria globale, diffuso in
vista delli riunione del Fmi e della Banca mondiale in programma
nel fine settimana, si afferma che «senza una totale ripulitura
dei bilanci bancari, in termini di asset tossici», accompagnata
da riorganizzazione e, se necessario, ricapitalizzazione degli
istituti, i problemi delle banche potrebbero portare a nuove
pressioni sull'economia reale. Il Fmi sottolinea che,
trattandosi di stime su tutti gli asset originati in tutti i
mercati maturi, le stime sulle svalutazioni globali sono
soggette a un certo margine di incertezza, e aggiunge che il
peggioramento relativo agli asset originati negli Usa è
collegato al «deteriorarsi dello scenario di base sulla crescita
economica». Descrivendo il panorama bancario, il rapporto
afferma che «c'è stato qualche miglioramento sul mercato
interbancario negli ultimi mesi», ma «continuano a persistere
difficoltà nel reperimento di fondi» ed è in calo l'accesso
delle banche a fonti di finanziamento di lungo termine a fronte
delle proprie scadenze debitorie.
Anche se in molti Paesi gli istituti di credito possono emettere
debito a lungo termine con garanzia pubblica, «il loro
fabbisogno di finanziamento resta ampio». Di conseguenza, molte
società non riescono a ottenere fondi per la gestione operativa
e altre trovano risorse a lungo termine solo a rendimenti molto
elevati. Il sistema finanziario globale «resta sottoposto a
pesanti tensioni - sottolinea il Fondo nelle sue conclusioni
dice il Fondo nel rapporto - a fronte di una crisi ormai diffusa
alle famiglie, alle società e al settore bancario nei Paesi
avanzati e nei mercati emergenti». Con la continua flessione
dell'attività economica aumentano le pressioni sui bilanci
bancari a fronte del peggioramento della qualità degli asset e
questo minaccia i ratio patrimoniali e scoraggia l'attività di
impiego. I tassi di crescita del credito rallentano, o diventano
addirittura negativi, esercitando ulteriori pressioni
sull'attività produttiva.
È assolutamente «cruciale», scrivono gli esperti del Fondo
monetario che «venga interrotta questa spirale negativa tra il
sistema finanziario e l'economia globale». I pesanti adeguamenti
già avviati dal settore privato e i pacchetti di sostegno varati
dai Governi «stanno portando a qualche iniziale segnale di
stabilizzazione». Ma è necessario «agire ancora con forza» con
un coordinamento a livello internazionale perché questo
miglioramento si possa confermare, per riportare fiducia nelle
istituzione finanziarie e nell'economia globale.
Per il Fondo, le tre priorità sulle quali è necessario agire
subito sono assicurare l'accesso del sistema bancario alle
necessarie liquidità, trovare e gestire gli asset "tossici" e
ricapitalizzare quegli istituti che sono indeboliti, ma ancora
gestibili, liquidando quelli per i quali non c'è più speranza.
Qualche passo in avanti è stato fatto sul primo punto,
soprattutto grazie al forte impegno delle banche centrali, ma
per gli altri due le iniziative restano frammentarie e legate a
singoli casi. L'esperienza fatta con passate crisi, sottolinea
il rapporto, suggerisce che «sono necessarie misure più
determinate ed efficaci da parte delle autorità pubbliche per
gestire e risolvere le debolezze del settore finanziario».
Riguardo al salvataggio di istituti di credito, l'Fmi raccomanda
«un ruolo piùattivo da parte dei supervisori sulle possibilità
di sopravvivenza delle banche in questione» e aggiunge che «le
condizioni per ricevere fondi pubblici dovrebbero essere
severe». Inoltre, nel quadro della ristrutturazione potrebbe
rendersi necessario il temporaneo passaggio del controllo al
Governo, anche al 100%, ma solo con l'obiettivo di
ristrutturarlo e riportarlo nel settore privato «il più presto
possibile». In questo contesto, «è importante» che sui principi
alla base di questi salvataggi ci sia cooperazione tra gli Stati
e una certa coerenza fra le loro azioni per evitare che si
sconfini nell'arbitraggio regolatorio o nelle distorsioni
competitive.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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200
milioni di persone
finiranno in povertà
22 Aprile 2009 12:05 NEW YORK - di
Joseph Stiglitz
________________________________________
Quest’anno è verosimilmente il peggiore per l’economia
globale dalla Seconda Guerra Mondiale: la Banca Mondiale prevede un
calo complessivo del 2%. Ne avvertono l’impatto perfino i Paesi in
via di sviluppo che hanno fatto ogni cosa nel modo giusto, con
risultati macroeconomici e politiche normative migliori degli Stati
Uniti. Con ogni probabilità, in conseguenza del drastico calo
dell’export, la Cina pur continuando a crescere lo farà con un ritmo
più lento dell’1112% degli anni più recenti.
A meno di fare qualcosa, altre 200 milioni di persone precipiteranno
nella povertà. Questa crisi globale postula una risposta globale, ma
purtroppo la responsabilità della reazione rimane a livello
nazionale. Ogni Paese cerca di mettere a punto un proprio pacchetto
di "stimoli" per ridurre al minimo l’impatto della crisi sui propri
cittadini, non l’impatto globale.
Nel quantificare l’entità degli stimoli, i Paesi bilanceranno la
spesa adeguandola ai loro budget e ai benefici che ne trarranno le
loro economie in termini di crescita e di occupazione. Poiché alcuni
di questi vantaggi si sommeranno ad altri, i pacchetti di stimolo
saranno più scarni e più miseramente concepiti di quanto avrebbero
potuto essere altrimenti, il che spiega per quale motivo sarebbe
necessario un pacchetto di stimoli coordinato a livello globale.
È uno dei più importanti messaggi che la Commissione per la crisi
economica globale formata da esperti delle Nazioni Unite che
presiedo e che di recente ha sottoposto all’Onu un suo rapporto
preliminare, si accinge a lanciare. Il rapporto approva molte delle
iniziative del G20, ma esorta a varare provvedimenti più energici
destinati ai Paesi in via di sviluppo.
Mentre si ammette che quasi tutti i Paesi dovranno varare
provvedimenti di incentivo all’economia (siamo tutti keynesiani,
ormai), molti Paesi in via di sviluppo non hanno le risorse per
poter fare altrettanto, né le hanno le istituzioni internazionali
deputate a prestare i capitali. Se abbiamo l’intenzione di evitare
l’escalation di un’ulteriore crisi debitoria, buona parte dei
finanziamenti deve assumere la forma di sovvenzioni. In passato
all’assistenza ai Paesi in via di sviluppo si accompagnavano
numerose condizioni, alcune delle quali imponevano politiche
monetarie e fiscali restrittive e obbligavano altresì a una
deregulation che è una delle cause profonde dell’attuale crisi.
In molte aree del mondo per ovvie ragioni rivolgersi al Fondo
Monetario Internazionale equivale ad attirarsi un certo biasimo. C’è
insoddisfazione non soltanto da parte dei prestatori, ma anche dai
potenziali fornitori di capitali. Le risorse delle liquidità si
trovano oggi in Asia e in Medio Oriente, ma viene spontaneo
chiedersi perché questi Paesi dovrebbero fornire capitali a
organizzazioni nelle quali hanno poca voce in capitolo e che spesso
hanno esercitato pressioni per politiche svantaggiose nei confronti
dei loro valori e dei loro principi.
Molte delle riforme amministrative proposte da Fmi e Banca Mondiale,
che plausibilmente avranno un impatto sulle modalità con le quali
sono scelti i loro capi, sembrano sul tavolo. Ma il processo
riformistico è lento e la crisi non aspetta.
È pertanto imperativo
garantire assistenza tramite una molteplicità di canali, oltre a
quelli che l’Fmi escogiterà, o che escogiteranno istituzioni
regionali. Si potrebbero creare nuovi istituti di prestito, con
strutture e gestione consone al XXI secolo. Se si riuscirà a fare
questo in tempi rapidi (credo sia possibile), questi enti potrebbero
diventare un canale per elargire finanziamenti.
Al summit di novembre 2008 del G20 i leader hanno condannato il
protezionismo e si sono impegnati a non lasciargli via libera.
Purtroppo, da uno studio della Banca Mondiale emerge che 17 dei 20
paesi hanno varato misure protezionistiche, e tra essi in primis gli
Stati Uniti con la loro clausola del "comprate americano" nel
pacchetto di stimoli. I sussidi possono rivelarsi distruttivi quanto
le tariffe doganali e ancor meno equi, in quanto i paesi ricchi
possono concederseli più facilmente. I massicci sussidi e i piani di
salvataggio in extremis messi a punto dagli Stati Uniti hanno
cambiato tutto, forse in modo irreversibile.
Sono avvantaggiate in maniera ingiusta perfino le aziende dei Paesi
industrializzati che non hanno ricevuto sussidi: possono correre
rischi che gli altri non possono correre, sapendo che se dovessero
fallire, potrebbero essere salvate e resuscitate in extremis. È
facile comprendere gli imperativi politici che hanno portato a
mettere a punto sussidi e garanzie, ma i Paesi sviluppati devono
riconoscerne le conseguenze a livello globale, e fornire assistenza
e risarcimento ai Paesi in via di sviluppo.
Una delle iniziative a medio termine più impellenti che la
Commissione delle Nazioni Unite ha caldeggiato è la creazione di un
Consiglio di coordinamento economico globale, incaricato non
soltanto di armonizzare le politiche economiche, ma anche di
vagliare i problemi incombenti e i gap istituzionali.
Con l’acuirsi
della crisi, molti Paesi potrebbero, per esempio, dover affrontare
la bancarotta, ma noi non disponiamo ancora di un contesto adeguato
per occuparci di simili problemi. Oltretutto sta per cedere il
sistema delle riserve valutarie in dollari, ossatura del sistema
finanziario globale.
La Cina ha espresso le sue preoccupazioni in proposito e il capo
della sua Banca Centrale si è unito alla Commissione delle Nazioni
Unite nell’esortare a studiare un nuovo sistema globale di riserve
monetarie. La Commissione sostiene che affrontare questa vecchia
questione – sollevata già 75 anni fa da Keynes – è di importanza
cruciale se vogliamo preparare il terreno a una ripresa solida e
stabile. Simili riforme non si fanno nell’arco di poche ore, ma a
meno di impegnarsi e dedicarcisi subito non si realizzeranno mai.
 |
Fonte
- Project Syndicate 2009
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Barack
Obama:
per il Time "spettacolare" nei primi 100 giorni
23 Aprile 2009 20:06 NEW YORK - di
APCOM
________________________________________
La "cosa più importante che sappiamo di Barack Obama è che, dopo
quasi 100 giorni (da quando è diventato ufficialmente presidente
degli Stati Uniti), ha intenzione di trasformare la sabbia in
roccia, quando è possibile". Così scrive il Time in un lungo
articolo pubblicato oggi, che fa il punto della situazione di questi
primi 100 giorni del governo di Obama, monitorando i risultati che
il presidente americano ha finora raggiunto. Il Time parte dalle
stesse parole che Obama ha proferito durante il discorso dello
scorso 14 aprile alla Georgetown University di Washington D.C:
discorso in cui, nello spiegare le sfide della sua presidenza, Obama
ha dato sfoggio di tutta la sua capacità oratoria, attingendo anche
al Discorso sulla montagna di Gesù nei Vangeli.
In un auspicio di natura quasi biblica, il presidente Usa ha infatti
avvertito che l'America deve lavorare duro per risollevarsi da
questo brutto momento, e soprattutto deve puntare su una nuova
economia, che "non deve essere ricostruita su un cumulo di sabbia",
ma "sulla roccia". Quel discorso ha colpito anche il Time che, nel
valutare i progressi del presidente, parla della casa che il nuovo
presidente americano ha costruito sulla roccia.
"La sua casa
costruita sulla roccia ha cinque pilastri: nuove regole per Wall
Street, nuove iniziative sull'istruzione, sul sistema sanitario e
sulle forme di energia alternativa, e alla fine anche risparmi nel
budget orientati a ridurre il debito nazionale".
Certo, sottolinea il settimanale, questi cinque pilastri potrebbero
sembrare di primo acchito piuttosto comuni. Ma poi, continua il Time,
ci si rende conto che Obama non ha parlato finora soltanto di un
nuovo modo di far politica, ma ha suggerito anche all'America un
"nuovo sistema di valori nazionali". E a dimostrarlo è sempre il
discorso di Gergetown, con cui ha lanciato un affondo contro
"l'impazienza che caratterizza Washington", facendo notare anche
che, "ogni volta che esplode una crisi, si passa troppo spesso da
uno stato di shock a uno di trance, con ognuno che cerca di
rispondere alla tempesta del momento fino a quando il furore non si
estingue"; questo, "invece di affrontare le grandi sfide che
forgeranno il nostro futuro, in modo concentrato e intenso".
Il Time parla dunque di Obama come di un presidente che nei suoi
primi 100 giorni ha dimostrato di voler avviare "un cambiamento
radicale non solo rispetto alla politica del suo predecessore, non
solo rispetto all'era reaganiana durata 30 anni, ma anche rispetto a
quella società dell'età post-moderna che va alla ricerca di
soluzioni veloci, e che soffre di una mancanza di attenzione".
Il
settimanale si riferisce poi ai "risultati legislativi che sono
stati raggiunti, e che sono stati stupefacenti". Il riferimento è al
piano di stimoli per l'economia da 789 miliardi di dollari e alla
proposta di legge finanziaria ancora in fase di lavorazione. Ma ci
sono anche le nuove manovre concepite per risolvere la crisi
finanziaria, che includono "interventi massicci nei mercati del
credito e immobiliare, un piano basato sul mercato per l'acquisto
degli asset tossici che molte banche hanno nei loro libri contabili,
un piano per aiutare il settore automobilistico e un nuovo regime
severo di regolamentazione per Wall Street".
Per non parlare dei cambi di strategie che, questo sempre in soli
100 giorni di presidenza, Obama ha avviato nei rapporti con Cuba e
nella guerra in Afghanistan. "In un certo senso, i primi 100 giorni
di Obama sono stati ancora più spettacolari di quelli di Roosevelt
-, afferma Elaine Kamarck della Kennedy School of Government di
Harvard - Roosevelt si è dovuto occupare solo di una crisi
nazionale, mentre Obama ha effettuato anche una revisione nelle
decisioni di politica estera, che si riferiscono anche a due guerre.
E questo spiega il segreto del perché (la sua presidenza) sia
sembrata così spettacolare".
E' forte, precisa il Time, la differenza tra Obama e il suo
predecessore George W. Bush che mai avrebbe ammesso di aver
sbagliato. Il settimanale Usa fa riferimento invece al candore del
nuovo presidente, che non ebbe alcun problema nel fare mea culpa
quando la scelta di Tom Daschle a ministro della Sanità si rivelò
non proprio tra le più giuste (Daschle, leader democratico del
Senato inizialmente scelto da Obama per guidare il dicastero, è
stato costretto infatti a mettersi da parte dopo lo scandalo per il
mancato pagamento di tasse e interessi dovuti complessivamente per
140.000 dollari). Laddove Bush risultava impacciato a parlare, Obama
è praticamente un oratore nato e, ancora, il nuovo presidente
americano non ha neanche problemi a parlare "candidamente dei
fallimenti americani, sia quando viaggia nel paese che all'estero".
Così come Roosevelt e Reagan, per il settimanale Obama è riuscito
insomma a cambiare "lo spirito della nazione, più di qualsiasi altra
cosa". Detto questo, il Time fa notare però che lo spirito di una
nazione può anche cambiare molto velocemente, soprattutto in un
contesto di informazioni veloci come quello in cui viviamo.
Dunque
il timore è che, "questi primi 100 giorni possano apparire a un
certo punto presagio di disastri, se le politiche finanziarie del
presidente saranno inadeguate a risolvere la crisi"; e allo stesso
risultato si arriverà anche se le strategie di politica estera si
riveleranno inefficaci.
In definitiva, "il destino del primo anno
della presidenza di Obama sarà probabilmente determinato dal modo in
cui il presidente gestirà quattro distinte sfide, due di politica
estera e due domestiche.
E le sfide domestiche sono le più importanti, considerata la crisi
finanziaria". Una è rappresentata dall'atteggiamento dei banchieri e
dei dirigenti di Wall Street; se questi non accetteranno di cambiare
il loro comportamento (e il riferimento è ai bonus dalle cifre
astronomiche che, nonostante tutto, hanno continuato a essere
erogati), allora "il piano finanziario di Obama potrebbe fallire".
E
a tal proposito il Time cita la "miniribellione" dei dirigenti di
diverse società, che vanno da J.P. Morgan a Chrysler, e che "non
vogliono ricevere i prestiti governativi perchè non vogliono
rinunciare ai loro bonus". La seconda sfida domestica è
rappresentata dall'atteggiamento invece del Congresso che, come ha
dimostrato già nelle ultime settimane, potrebbe non soddisfare tutte
le richieste di Obama. "Sappiamo che non ogni vagone che arriva (al
Congresso) supera la frontiera", sottolinea un consulente di Obama
usando una metafora. E in questo senso è grande la preoccupazione
sulla fine che farà il "vagone" della riforma del sistema sanitario.
Riguardo alle due sfide di politica estera, una è rappresentata
dall'incertezza su alcune scelte promosse dal presidente; nessun
dubbio né sul capo del Pentagono, Robert Gates, nè sul segretario di
Stato Hillary Clinton. Ma qualche perplessità esiste sulla scelta
del consulente della sicurezza nazionale James Jones che, secondo
alcune fonti, "presenzia ai meeting, senza però guidarli". C'è poi
l'ultima sfida, che è quella di utilizzare nei rapporti di politica
estera i canali diplomatici, ricordando però contestualmente a tutti
che il presidente americano è un "leader forte". Insomma, conclude
il Time, "Obama ha vissuto un momento eccezionale nell'annunciare le
sue intenzioni". Ma il "vero gioco" inizia adesso.
Dunque, per
quanto questi primi 100 giorni siano stati spettacolari, lo stesso
settimanale decide di andare al di là di questa tappa che per molti
esperti ha alla fine più una risonanza mediatica che non reale
 |
Fonte
- APCOM
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Draghi al Fmi: «Fase
peggiore della crisi sembra superata»
25 aprile 2009
-
di ILSOLE24ORE.COM ______________________________________________
Il Financial stability board, l'organismo creato dal G7 il 2
aprile per fronteggiare la crisi mondiale, guidato dal
Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, ha definito le
linee guida di intervento per riformare il sistema finanziario.
In particolare, come ha spiegato a Washington il governatore
della Banca d'Italia in occasione del vertice del Foondo
monetario internazionale, gli obiettivi prioritari prevedono il
«rafforzamento della convergenza sugli standard contabili e il
raggiungimento di un unico criterio di standard contabili di
alta qualità». Per quanto riguarda gli hedge fund, il Fsb
prevede «lo sviluppo e l'attuazione di un approccio coerente
nella regolamentazione e alla supervisione». Occorre inoltre,
secondo il perimetro di interventi illustrati dal Governatore,
definire il perimetro della regolamentazione sui soggetti di
importanza sistemica.
La fase peggiore della crisi economica e finanziaria mondiale,
intento, sembra passata e si apre l'opportunità unica di
intraprendere azioni per rafforzare le istituzioni e il sistema
finanziario internazionale. Draghi, parlando in qualità di
presidente del Financial Stability Board al Comitato Monetario e
Finanziario del Fondo Monetario Internazionale, si è mostrato
cautamente ottimista sull'evoluzione dell'economia
internazionale, ma anche segnalato l'esigenza di «spezzare il
circolo vizioso» tra il sistema finanziario e l'economia reale.
«Nelle ultime settimane - ha detto Draghi - siamo stati
testimoni di una modesta ripresa della fiducia del mercato. E
sembra che i peggiori scenari riguardanti le prospettive
dell'economia globale e il sistema finanziario non sono più così
importanti nelle menti degli agenti del mercato. Questo ci offre
un'unica finestra di opportunità sia per azioni a breve termine
per stabilizzare le istituzioni e per promuovere l'allargamento
del credito, sia per attuare misure volte a rafforzare il
sistema nel lungo periodo».
Riparare i bilanci delle istituzioni finanziarie «costituisce un
elemento-chiave di ciò e le autorità hanno intrapreso una serie
di azioni per iniettare capitale nelle banche, garantire le loro
passività e ridurre o eliminare le loro esposizioni alle
attività di cattiva qualità». Secondo Draghi «l'obiettivo ultimo
di tali misure dovrebbe essere quello di creare un ambiente nel
quale le banche sono capaci di riparare i propri bilanci
attraverso una crescita sostenibile degli utili e reperendo il
capitale di cui hanno bisogno dai mercati privati a un costo
relativamente basso».
Ma questo significa anche «fornire sufficiente trasparenza sulle
esposizioni al rischio per fare sì che il mercato possa
distinguere con fiducia le banche forti da quelle deboli e
riducendo le incertezze di mercato sul futuro trattamento delle
differenti categorie di creditori. I test regolatori sullo
stress (delle banche, ndr) sono una parte centrale di tale
processo come lo sono gli sforzi sul miglioramento delle
informazioni al mercato».
Secondo Draghi, inoltre, durante gli sforzi per far ripartire i
mercati del credito «dovremmo essere particolarmente consapevoli
del bisogno di conservare un sistema finanziario globale
integrato. I flussi finanziari transnazionali sono scesi in modo
eclatante sia per i Paesi avanzati che per le economie emergenti
ma questo - ha puntualizzato il presidente del Fsb - non
dovrebbe essere una preoccupazione nella misura in cui riflette
un più ampio processo di riduzione del rischio e della leva
debitoria. Ma dovremmo mantenere alta la guardia anche contro
quelle azioni che senza necessità rinforzano questa tendenza e
capovolgono l'avanzamento a lungo termine nella direzione di
un'integrazione finanziaria globale».
Fonte
- ILSOLE24ORE.COM
Regno Unito -
Rischio disastro fiscale
Monday, 25 April, 2009 at 9:21
-
by phastidio ______________________________________________
Lo scorso 22 aprile il Cancelliere dello Scacchiere (equivalente
al ministro del Tesoro), Alistair Darling, ha presentato il
bilancio annuale britannico. Il Tesoro si attende una
contrazione dell’economia del 3,5 per cento quest’anno ed un
rimbalzo pari all’1,25 per cento nel 2010. Stima peraltro in
contrasto con quella del Fondo Monetario Internazionale, che
prevede per il 2009 una calo del Pil del 4,1 per cento e dello
0,4 per cento l’anno prossimo. Le nuove proiezioni del governo
di Londra ipotizzano un deficit cumulativo di 703 miliardi di
sterline nei cinque anni fiscali fino ad aprile 2014, rispetto
ai 434 miliardi previsti in novembre. Il deficit di bilancio
previsto per quest’anno, pari al 12,4 per cento del Pil, sarebbe
il peggior risultato dei conti pubblici in tempo di pace da
oltre un secolo.
Darling ha affermato che il governo laburista mira a sostenere
imprese e cittadini a basso reddito, aumentando la pressione
fiscale sui redditi più elevati, e conta di riuscire a dimezzare
il deficit in cinque anni. Tra le misure fiscali previste per
conseguire l’obiettivo vi è la crescita delle accise sui
carburanti per i prossimi quattro anni ad un passo superiore a
quello dell’inflazione, iniziando con un rialzo di 2 pence al
litro da settembre di quest’anno. Le accise su alcolici e
tabacco sono state aumentate del 2 per cento con decorrenza
immediata. Nel 2009 il tentativo di contenimento del deficit
avverrà soprattutto attraverso l’aumento delle accise (con un
gettito di 6 miliardi di sterline), mentre 3,2 miliardi
dovrebbero venire dall’inasprimento della tassazione sul reddito
per quanti hanno un imponibile superiore alle 100.000 sterline.
In particolare, i contribuenti con reddito annuo superiore a
150.000 sterline pagheranno il 50 per cento del proprio reddito
in imposte (dal 40 per cento attuale), e perderanno i crediti
d’imposta per i contributi pensionistici. La nuova aliquota
massima è di cinque punti percentuali superiore a quanto
ipotizzato in novembre, e verrà adottata con un anno di anticipo
sul previsto. La decisione è per molti aspetti storica, perché
cancella la decisione di Margaret Thatcher, assunta nel bilancio
del 1988, di eliminare tutte le aliquote d’imposta superiori al
40 per cento e potrebbe contribuire, secondo alcune stime, alla
perdita di 140.000 impieghi nel settore dei servizi finanziari,
su un totale di circa un milione, oltre all’espatrio di circa
25.000 dei maggiori contribuenti del paese. Il governo ha
offerto, come ulteriore misura di stimolo settoriale, un
contributo rottamazione auto di 2000 sterline.
Dal versante della spesa sono previste correzioni ma solo a
partire dal 2011, cioè dopo le elezioni generali, che dovranno
tenersi entro il 3 giugno del prossimo anno. Gli interventi
appaiono insufficienti, data la misura e la rapidità di
deterioramento dei conti pubblici, e si sostanziano in una
crescita reale annua della spesa corrente dello 0,7 per cento,
rispetto all’1,2 per cento previsto a novembre. La spesa in
conto capitale, in percentuale del Pil, dovrebbe per contro
scendere dall’1,8 per cento inizialmente previsto all’1,25 per
cento. Il governo ha poi deciso di procedere a stimare perdite
potenziali sui salvataggi bancari comprese tra 20 e 50 miliardi
di sterline, cioè fino al 3,5 per cento del Pil, dopo avere
stanziato ad oggi circa 40 miliardi di sterline per acquisire
quote di controllo in Royal Bank of Scotland e Lloyds Banking
Group, ed impegnato centinaia di miliardi di sterline come
passività contingenti (cioè la cui materializzazione appare
aleatoria, per tempi ed entità) per garanzie e protezione dei
depositi. A causa del forte aumento del deficit il Debt
Management Office, l’agenzia governativa che gestisce lo stock
del debito pubblico, prevede per quest’anno un collocamento
record di 220 miliardi di sterline di titoli pubblici, il 50 per
cento in più dello scorso anno. Sulla scorta di tali annunci, i
rendimenti dei Gilt sono aumentati al massimo delle ultime due
settimane, con un movimento di irripidimento della curva che
mette a rischio il processo di easing quantitativo adottato
dalla Bank of England, che sta acquistando a fermo titoli di
stato a lunga scadenza, di fatto stampando moneta. Anche il
cambio della sterlina ha subito un ulteriore deprezzamento,
mentre gli analisti dell’agenzia Moody’s hanno osservato che le
finanze pubbliche britanniche stanno deteriorandosi rapidamente,
a causa di una combinazione di gettito fiscale in indebolimento
e dell’accumulazione di attivi di pessima qualità e passività
contingenti, a seguito di successivi salvataggi bancari. Questa
condizione potrebbe mettere a rischio il mantenimento del rating
sovrano, attualmente pari alla tripla A.
Il deficit previsto è il maggiore tra le economie del G20, pone
un forte vincolo all’adozione di ulteriori misure di stimolo,
oltre (come segnalato) a suscitare ovvie preoccupazioni per lo
stato delle finanze pubbliche. Si tratta di un evidente
fallimento di policy, soprattutto per l’incapacità mostrata dal
governo britannico a gestire il bilancio pubblico in funzione
anticiclica, cioè riportando i conti in equilibrio durante la
fase espansiva precedente.
Il 24 aprile è stata pubblicata la stima preliminare del
prodotto interno lordo britannico del primo trimestre 2009, che
evidenzia la peggior contrazione da quando Margaret Thatcher
salì al potere, nel 1979. Il Pil è diminuito dell’1,9 per cento
rispetto agli ultimi tre mesi del 2008, a causa soprattutto del
forte ridimensionamento della manifattura e dei servizi
finanziari. Il dato è peggiore delle stime di consenso, che
ipotizzavano un arretramento dell’1,5 per cento. Vale la pena
ricordare che, secondo convenzione, la variazione trimestrale
del Pil britannico (e dell’Area Euro) non è annualizzata, come
invece avviene per quella degli Stati Uniti. Ciò significa che,
omogeneizzando il criterio di calcolo del Pil a quello
statunitense, la contrazione britannica è pari ad un pesante 7,8
per cento. L’aggravamento della recessione potrebbe causare il
peggior arretramento dell’economia del Regno Unito dal 1931 ad
oggi. Questa è inoltre la prima volta da quando è iniziata la
rilevazione di questa serie storica, dopo la Seconda Guerra
Mondiale, che il Pil britannico si riduce di oltre l’1 per cento
per due trimestri consecutivi. Nel quarto trimestre 2008 il calo
era stato dell’1,6 per cento.
La disoccupazione britannica è aumentata in marzo al maggior
livello da quando il Labour ha preso il potere, nel 1997.
Tuttavia la Bank of England afferma, nelle minute del comitato
di politica monetaria dello scorso 9 aprile, che vi sono segni
di rallentamento della contrazione economica.
Alla luce delle attuali condizioni congiunturali e di finanza
pubblica, il Regno Unito appare come uno dei paesi più
sofferenti per effetto della crisi, con un’economia basata
prevalentemente sui servizi finanziari e sull’immobiliare (cioè
sui settori al centro della bolla), un elevato indebitamento
delle famiglie ed un preesistente, ampio squilibrio nei conti
con l’estero. Per questo motivo, con la monetizzazione di parte
del deficit ad opera della banca centrale, i conti pubblici in
forte deterioramento, il correlato rischio di un declassamento
del merito di credito ed una valuta sprovvista dello status di
riserva internazionale, l’investimento nel paese presenta ad
oggi un non trascurabile profilo di rischio.
Fonte
-
Macromonitor
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Venerdì
24
Aprile
2009 |
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Lunedì
27
Aprile
2009 |
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Giovedì
30
Aprile
2009 |
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Regole
più rigide per le Agenzie di Rating: l'UE
avvia la riforma
26 APRILE 2009 ROMA - di
Il Sole 24 Ore
________________________________________
Le agenzie di rating del credito, colpevoli di non aver saputo
prevedere la crisi finanziaria - e in particolare l'inaffidabilità
dei mutui 'subprime' americani che sono fra le sue principali cause
- dovranno d'ora in poi sottoporsi a una rigorosa regolamentazione
comunitaria per poter operare nell'Ue, secondo una nuova normativa
che il Parlamento europeo ha approvato oggi a Strasburgo a
larghissima maggioranza (569 voti a favore, 47 contrari e 4
astensioni), dopo aver raggiunto un accordo con il Consiglio Ue.
Le agenzie del rating come Standard and Poor's, Moody's o Fitch, che
valutano i rischi per chi investe negli istituti (o negli Stati) che
emettono titoli di credito, saranno sottoposte a un regime Ue di
autorizzazione e controllate da un collegio che riunirà i
supervisori nazionali dei Ventisette (il comitato dei regolatori
europei - Cesr); inoltre, dovranno essere più trasparenti, eliminare
i conflitti d'interesse e rendere pubblici gli elementi e i criteri
di valutazione adottati.
Il nuovo regolamento Ue sostituirà, nei fatti, l'attuale
autoregalmentazione delle agenzie di rating basate su codici
volontari di buona condotta, visto che finora le agenzie stesse
erano soggette alla legislazione comunitaria solo in settori
limitati (norme sull'insider trading e sui requisiti di capitale
degli enti creditizi). Le nuove norme saranno direttamente
applicabili già 20 giorni dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta
ufficiale dell'Ue. Gli Stati membri avranno però sei mesi per
adottare le necessarie misure volte ad attuarle, ad eccezione delle
disposizioni per il ricorso a rating di agenzie non comunitarie che
si applicheranno dopo 18 mesi.
Il testo, approvato sulla base del rapporto del relatore
dell'Europarlamento Jean-Paul Gauzes (Ppe), che ha incorporato il
compromesso frutto del negoziato con il Consiglio Ue, intende
migliorare l'integrità, la trasparenza, la responsabilità,
l'indipendenza, la buona 'governance' e l'affidabilità delle
attività di rating del credito. In questo modo, verrà garantita la
buona qualità del rating e assicurato un grado elevato di protezione
degli investitori, anche se, sottolineano gli eurodeputati, «gli
utenti non dovrebbero affidarsi ciecamente» ai giudizi delle
agenzie.
Secondo le nuove norme, gli enti creditizi, le imprese di
investimento, di assicurazione non vita e vita e di riassicurazione,
gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (Oicvm)
e gli enti pensionistici aziendali o professionali potranno
utilizzare a fini regolamentari «solo rating emessi da agenzie di
rating del credito stabilite nella Comunità e registrate»
conformemente agli obblighi previsti dal regolamento.
L'obbligo di
registrazione, viene precisato nel testo, «è il principale
requisito" affinché tali agenzie possano operare nell'Ue.
Il
regolamento fissa le condizioni armonizzate e la procedura per la
concessione, la sospensione e la revoca della registrazione, e
prevede l'introduzione di un unico punto di entrata per la
presentazione delle domande di registrazione. Il Comitato delle
autorità europee di regolamentazione dei valori mobiliari (Cesr)
sarà quindi incaricato di ricevere le domande di registrazione e di
informare le autorità competenti in tutti
gli Stati membri, che
avranno il compito di esaminare le domande, disponendo "di tutti i
poteri di vigilanza e di indagine necessari per l'esercizio delle
loro funzioni".
Nell'esercizio della loro funzione di vigilanza, le autorità
nazionali competenti avranno accesso a qualsiasi documento, potranno
richiedere informazioni a qualsiasi persona e, se necessario,
convocare e interrogare qualsiasi persona per ottenerle, potranno
anche eseguire ispezioni in loco con o senza preavviso e richiedere
le registrazioni telefoniche e le informazioni relative al traffico.
In caso di violazioni da parte di un'agenzia, le autorità nazionali
potranno revocare la sua registrazione o emanare un divieto
temporaneo di emissione di rating, efficace in tutta la Comunità.
Le agenzie dovranno adottare «tutte le misure necessarie per
garantire che l'emissione di un rating non sia influenzata da alcun
conflitto di interesse, esistente o potenziale, o relazione
d'affari» riguardante le agenzie stesse, i loro manager, i loro
analisti, i loro dipendenti o qualsiasi persona direttamente o
indirettamente collegata ad essa da un legame di controllo. Norme
meno stringenti sono previste per le piccole agenzie che hanno meno
di 50 dipendenti.
In particolare, le agenzie dovranno stabilire un meccanismo di
rotazione graduale appropriato riguardo agli analisti di rating e
alle persone che li approvano. Questo meccanismo dovrebbe essere
applicato "a turno nei confronti dei singoli piuttosto che di
un'intera squadra". Inoltre, la retribuzione e la valutazione del
rendimento degli analisti di rating e delle persone che li approvano
non dovranno dipendere "dall'entità del fatturato che l'agenzia di
rating del credito deriva dalle entità valutate o da terzi
collegati". Almeno un terzo, e non meno di due, dei membri del
consiglio di amministrazione o di sorveglianza delle agenzie
dovranno essere indipendenti e la loro retribuzione non dovrà
dipendere dai risultati economici dell'agenzia.
Considerando che, in determinate circostanze, gli strumenti
finanziari strutturati (come i derivati) "possono avere effetti
diversi dagli strumenti di debito societario tradizionali", il
regolamento Ue prevede che le agenzie di rating operino una chiara
differenziazione (aggiungendo un simbolo appropriato) tra le
categorie utilizzate per emettere rating di questi particolari
strumenti finanziari e le categorie utilizzate negli altri casi.
Inoltre, le agenzie di rating del credito con sede extra-Ue saranno
tenute a costituire una controllata nella Comunità. Il regolamento
impone loro di rispettare i requisiti generali per l'integrità del
lavoro svolto e prevedere una politica adeguata in materia di
conflitto di interesse nonché la rotazione degli analisti e la
comunicazione periodica e continua. L'agenzia dell'Ue che omologa i
rating del credito emessi in un paese terzo sarà ritenuta
«pienamente e incondizionatamente responsabile» per i rating
omologati e per il rispetto delle relative condizioni stabilite dal
regolamento.
Gli Stati membri, infine, dovranno definire sanzioni "effettive,
proporzionate e dissuasive" applicabili in caso di violazione delle
disposizioni del regolamento e garantirne l'attuazione. Tali
sanzioni, amministrative e penali, dovranno "riguardare quanto meno
i casi di grave scorrettezza professionale e omissione di diligenza
dovuta". Il Cesr definirà degli orientamenti sulla convergenza delle
prassi relative alle sanzioni.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Moody's
conferma la doppia A all'Italia e
ai suoi titoli di Stato
27 aprile 2009 ROMA - di
Isabella Bufacchi
________________________________________
Il rating "Aa2" di Moody's sull'Italia e sui titoli di Stato
italiani è saldamente a prova di crisi. La peggiore e più lunga
recessione dal Dopoguerra non ha scalfito questa doppia "A" italiana
che si traduce in un alto grado di affidabilità dello Stato nella
sua capacità di ripagare tutti i debiti, puntualmente e
integralmente. Assegnata da Moody's all'Italia nel maggio 2002, a
distanza di sette anni questa "Aa2" mantiene le prospettive
"stabili" in virtù della "forza economica italiana molto elevata" e
nonostante "il peso del debito pubblico e i problemi strutturali"
del Paese.
Sono questi i concetti principali contenuti nell'ultimo rapporto
sull'Italia pubblicato oggi da Moody's, l'agenzia di rating che
assegna il voto più alto allo standing creditizio dello Stato
italiano, un gradino al di sopra della "AA-" di Fitch e due gradini
sopra la "A+" di Standard & Poor's.
L'analisi sul rischio-Paese è un appuntamento che rientra nelle
attività di routine delle agenzie di rating: tuttavia il tempismo di
questo rapporto sull'Italia - un documento lungo 11 pagine fitto di
numeri, previsioni e valutazioni che toccano tutti gli aspetti della
vita economica, politica, sociale e finanziaria del Paese - consente
a Moody's, nel contesto di una crisi caratterizzata da un
impressionante grado di imprevedibilità, di dare le sue risposte
alle preoccupazioni dei trader e degli investitori che detengono
oltre 1.400 miliardi di BoT, CTz, CcT e BTp e che si interrogano
continuamente sulla capacità dell'Italia di conservare i suoi rating
mentre quelli di altri solidi Stati europei vengono declassati
(Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia) o minacciati dalle
retrocessioni. Per quanto riguarda Moody's, dunque, per ora la "Aa2"
è solida con prospettive di medio termine stabili.
Questo rapporto sull'Italia è firmato da quattro analisti di peso:
Alexander Kockerbeck (senior credit officer e primo analista per il
rating sovrano italiano), Dietmar Hornung (senior analyst), Kristin
Lindow (Regional credit officer for Europe and Africa) e Pierre
Cailleteau (managing director). L'analisi si sofferma sulle grandi
quattro aree tematiche che contribuiscono all'assegnazione del
rating, in base alla metodologia di questa agenzia, con
l'assegnazione all'Italia di un livello scelto tra cinque: molto
alto, alto, moderato, basso, molto basso. Così la "Aa2"italiana ha
una forza economica "molto alta"; un assetto istituzionale "alto";
una forza finanziaria del Governo "alta"; un'esposizione al rischio
di eventi negativi "bassa".
Ecco i principali giudizi contenuti dell'analisi di Moody's
Forza economica – Molto alta ma con un'economia in recessione
•La forza economica dell'Italia è molto alta in virtù della
diversificazione e delle dimensioni dell'economia e del reddito
pro-capite degli italiani. Moody's ricorda che l'Italia è la settima
economia al mondo e il quinto esportatore per volumi di beni
manufatti (automobilistico, aerospaziale e difesa, meccanica di
precisione, petrolchimica, armi da fuoco, elettricità, moda, lusso,
alimentari), e gode di un settore turistico molto dinamico.
•Per Moody's, la forza economica dell'Italia è indebolita dalla
perdita graduale di competitività: l'Italia nell'ultimo decennio è
cresciuta "solo" a un tasso medio dell'1,2 per cento. Inoltre dli
oneri e il finanziamento del debito pubblico assorbono gran parte
del risparmio del Paese.
•Il mercato nero è molto esteso, non è rilevato statisticamente e
quindi rende difficile la vera stima della ricchezza nazionale,
secondo Moody's.
•Nonostante le riforme degli ultimi anni, le dinamiche della
crescita economica continuano a essere frenate da numerose
inefficienze: l'importazione di energia, l'alta pressione fiscale
(resa più pesante dalla diffusa evasione fiscale), una crescita
della produttività fiacca. Moody's sottolinea anche l'aggravante
degli alti costi di lavoro per unità di prodotto "nonostante i
livelli salariali modesti che a loro volta influiscono sui consumi".
•Il calo della competitività a livello internazionale dei prodotti
italiani è accompagnato da un aumento abbastanza forte dei costi di
produzione, dal 2001. Il tessuto industriale italiano dominato dalle
Piccole e medie imprese è capace di grande flessibilità, riconoscono
gli analisti di Moody's, ma è limito nella capacità di innovare:
questo frena la crescita nella catena dei prodotti con alto valore
aggiunto per affrontare la concorrenza dalle economie emergenti
asiatiche che hanno costi salariali bassi.
•Le inefficienze della burocrazia ostruiscono la politica economica
e il miglioramento del gap infrastrutturale, specialmente nel Sud
del Paese dove permane il problema della criminalità organizzata.
•Anche Moody's prevede una contrazione dell'economia italiana nel
2009 e attribuisce questo calo non solo alla recessione su scala
mondiale ma anche alle fragilità a livello nazionale: tra queste la
mancanza di fiducia del consumatore e le condizioni di precarietà
del lavoro della popolazione più giovane.
•Un fattore positivo sottolineato nel rapporto è rappresentato dal
basso livello di indebitamento dei privati e l'alto tasso di
risparmio delle famiglie: questo riduce il rischio di "deleveraging"
(riduzione del debito) che per contro sta influendo negativamente
sulle prospettive di crescita di molti altri Paesi industrializzati.
Moody's cita come punto a favore delle risorse finanziarie dei
privati il fatto che in Italia vi siano tra i 30 (Mef) e i 70
(Confindustria) miliardi di euro di crediti vantati dalle imprese
nei confronti dello Stato.
•Lo spazio di manovra delle politiche fiscali per il Governo è
limitato dalla situazione globale, dalla crisi economica e dalle
dimensioni dello stock del debito pubblico. Moody's cita i 44
miliardi di euro del recente pacchetto di misure governative di
stimolo, ricordando però che in parte erano già previste dalla
Finanziaria 2009. La sfida per il Governo "è di sostenere la base
industriale nel Nord del Paese, quella maggiormente colpita dalla
crisi, e migliorare il flusso del credito bancario alle imprese". Il
rapporto mette in chiaro che le banche italiane sono state meno
colpite dalla crisi finanziaria internazionale (modello di business
convervativo) ma restano comunque esposte al deterioramento dei
crediti causato dalla recessione: sono valutati positivamente a
questo riguardo i Tremonti-bond (che aumentano la capacità delle
banche di erogare credito), l'estensione dell'attività della Cassa
depositi e prestiti, gli incentivi per le auto, i nuovi investimenti
dello Stato nelle infrastrutture.
•Secondo Moody's le banche italiane hanno un'esposizione limitata e
altamente frammentata nei confronti dell'Est Europa.
•L'agenzia di rating non prevede che lo Stato italiano sarà chiamato
a intervenire d'urgenza con piani massicci di salvataggio di banche
(come è avvenuto invece negli Usa, in Irlanda, nel Regno Unito
ndr.). Tuttavia, Moody's ci tiene a precisare che qualsiasi
salvataggio sul sistema bancario italiano a carico dello Stato
danneggerebbe le dinamiche del debito pubblico, che concede al
Governo margini di manovra ristretti.
Forza istituzionale. Alta ma la governance e il sistema giudiziario
sono carenze importanti.
•Tra le sfide importanti per l'Italia rilanciate dal
rapporto-Moody's permane il miglioramento dell'efficienza della
burocrazia nel Sud, considerato un passaggio obbligato per
velocizzare lo sviluppo della Regione.
•Una maggiore efficienza del sistema giudiziario è altrettanto
necessaria: la durata troppo lunga dei processi è un ostacolo
all'applicazione dei diritti contrattuali.
•Moody's rileva una debolezza del sistema amministrativo italiano
anche per quanto riguarda la politica dell'immigrazione, che "ha
fallito nel promuovere l'integrazione" ed è sfociata in nuove
tensioni sociali. "Una politica dell'immigrazione lungimirante è
importante in un Paese come l'Italia che deve affrontare il calo
della popolazione".
•Un'altra peculiarità del sistema Italia, secondo Moody's, continua
a essere quella delle forti tensioni tra Governo e magistratura,
risalenti al periodo di Mani Pulite e Tangentopoli.
• Quanto all'attuale Governo, Moody's ricorda che questa coalizione
gode di una forte maggioranza alla Camera e al Senato, "una grande
differenza" rispetto al precedente Governo Prodi. L'attuale
opposizione, secondo Moody's è relativamente debole dopo le
dimissioni di Walter Veltroni: nonostante la formazione del Partito
Democratico, "le liti interne permangono".
Forza finanziaria del Governo. Alta ma pesa sempre il debito
pubblico
•Il fattore principale che impedisce all'Italia di ottenere una
promozione di rating dalla "Aa2" è l'alto livello del debito
pubblico sopra il 100% del Pil abbinato alla mancanza di dinamismo
economico e una popolazione in calo.
•Tra il 1970 e il 1990 il debito pubblico italiano è aumentato anche
a causa del consociativismo. Il rapporto debito/Pil è migliorato per
assicurare l'ingresso nell'Unione monetaria negli anni '90 ed è
calato dal 120% al 104% del 2004: ma questo impulso al miglioramento
si è affievolito dopo l'adesione all'euro. Il miglioramento dei
conti pubblici italiani non ha tenuto il passo con quello di altri
Stati con alto debito pubblico come il Belgio. Il surplus primario
dell'Italia è calato dal 6% circa del 2000 a quasi zero nel 2005:
scenderà all'1% del Pil nominale quest'anno e rimarrà sotto il 3%
fino al 2011. Per Moody's questo livello di surplus primario non
basta a compensare gli oneri per interessi sul debito vicini al 5% e
un debole tasso di crescita del Pil. "Non si può escludere che i
tassi d'interesse aumenteranno ancora a causa degli spread più
elevati richiesti dal mercato sui titoli di Stato". In aggiunta, il
rapporto ricorda che quest'anno l'Italia deve rinnovare 300 miliardi
di debito in scadenza, al quale vanno sommati 60 miliardi di nuove
emissioni di titoli di Stato in un mercato primario dei bond
governativi nell'area dell'euro già molto affollato.
•Il deficit/Pil italiano quest'anno andrà oltre il 4% e si assesterà
ad almeno il 3% nel seguente biennio: questo aumenterà dell'8% il
debito/Pil che viaggiava al 106% nel 2008. Il deterioramento ciclico
della dinamica del debito pubblico in Italia, durante questa crisi,
è una conseguenza del calo delle entrate tributarie e di un aumento
della spesa pubblica, due tendenze comunque in linea con quello che
Moody's prevede accadrà anche in altri Paesi. Secondo le stime di
questo rapporto, il consolidamento dei conti pubblici riprenderà in
Italia nel 2011, ma solo se la crescita dovesse tornare in terreno
positivo dopo una recessione di oltre il 3% quest'anno e una
stagnazione nel 2010.
•Secondo Moody's la strada maestra per il miglioramento dei conti
pubblici e il controllo sulle dinamiche del debito pubblico resta
quella del contenimento della spesa pubblica, tenuto conto che le
prospettive della crescita non sono buone. In questo contesto, il
processo del federalismo fiscale secondo Moody's potrebbe
contribuire ad aumentare il grado di responsabilizzazione e qualità
della spesa pubblica: ma il trasferimento delle responsabilità
dall'amministrazione centrale a quella locale dovrà essere
accompagnato da controlli più rigidi di finanza pubblica.
•La crisi spinge l'Italia verso un'alteriore riforma delle pensioni,
quanto mai necessaria. Secondo Moody's il sistema pensionistico
italiano deve essere riformato perché è un capitolo di spesa che al
15% circa del Pil è già tra i più alti nei Paesi industrializzati.
La riforma dell'età pensionabile può liberare risorse che dovrebbero
essere riallocate per aiutare le generazioni più giovani a trovare
un lavoro stabile. Per Moody's il problema della disoccupazione o
sottoccupazione dei giovani è grave.
•In quanto dal rapporto debito/Pil, è previsto all'111% nel 2009 da
Moody's, ben sopra la media del 72% stimata per l'Eurozona. Inoltre
in termini di rapporto percentuale rispetto alle entrate dello
Stato, il debito/Pil in Italia orbita attorno a quota 240%, ben
sopra la media di 170% per la zona dell'euro nel 2010. L'alto debito
pubblico assorbe in Italia, con gli oneri degli interessi, oltre il
10% delle entrate tributarie annuali contro il 6,7% in media
nell'Eurozona. Ma la vulnerabilità causata dall'alto debito pubblico
è attenuata, anche secondo Moody's, dal basso tasso di indebitamento
dei privati.
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Autore
- isabella.bufacchi@ilsole24ore.com |
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Fonte
- Il Sole24Ore
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GERMANIA: ECONOMIA
DA BRIVIDO, PIL -6.0%
29 Aprile 2009 13:07 BERLINO
-
di APCOM ______________________________________________
L'economia tedesca si contrarrà
del 6% quest'anno, in base alle stime del ministero
dell'Economia tedesco. Riviste in peggio le previsioni di appena
tre mesi fa, che puntavano a una recessione dell'ordine del
2,25% nel 2009.
L'economia tedesca si contrarrà del 6% quest'anno, in base alle
stime del ministero dell'Economia tedesco, che ha rivisto in
peggio le stime di gennaio, che puntavano a una recessione
dell'ordine del 2,25% nel 2009. Per il governo però la Germania
il prossimo anno tornerà alla crescita, con un modesto più 0,5%
del Pil. Il calo stimato del Pil per quest'anno è di gran lunga
il più ampio dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La
peggiore performance dell'economia tedesca da allora si registrò
nel 1975, quando il Pil scese dello 0,9%, la peggiore dalla
Riunificazione delle due Germanie nel 1993, quando ci fu un calo
dello 0,8%.
Fonte
- APCOM
Stati Uniti, il Pil
giù del 6,1% ma ripartono consumi e prezzi
29 Aprile 2009 16:09 NEW YORK
-
di Il Sole24Ore ______________________________________________
Il Pil (prodotto interno lorodo)
degli Stati Uniti ha subito una contrazione del 6,1% nel primo
trimestre del 2009, un risultato nettamente inferiore alle stime
degli economisti, che si attendevano un calo del 4,7%.
L'economia americana ha continuato quindi a contrarsi a un ritmo
pressoché costante fra il quarto trimestre 2008 (-6,3%) e i
primi tre mesi del 2009, risentendo soprattutto della corsa
delle aziende a ridurre gli investimenti in conto capitale. Si
tratta dei peggiori sei mesi degli ultimi 50 anni.
È la prima volta dal 1975 che l'economia a stelle e strisce si
contrae per tre trimestri consecutivi. A pesare sull'andamento
dell'economia è il calo delle esportazioni, scese del 30%
registrando il calo maggiore dal 1969. Le importazioni sono
invece scese del 34,1%, la flessione più ampia dal 1975.
Il crollo del 37,9% degli investimenti aziendali, inoltre, è il
maggiore di sempre ed è una conseguenza logica della scelta
della Corporate America di pensare in primo luogo a ridurre le
scorte di magazzino prima di finanziare nuovi progetti di
sviluppo. Secondo i dati del governo, nel trimestre gli
inventari sono calati di 103,7 miliardi di dollari contro la
riduzione di 25,8 miliardi effettuata nel trimestre precedente.
Questa maggiore riduzione delle scorte ha sottratto 2,79 punti
percentuali al totale del pil del primo trimestre. Nel trimestre
sono calate anche le spese del Governo federale (-4%) e del 3,9%
quelle delle amministrazioni locali.
Una notizia davvero buona, tuttavia, è giunta dal fronte delle
spese per i consumi che rappresentano il 70% dell'economia
americana: dopo essere calate del 4,3% nel quarto trimestre del
2008 sono infatti tornate a crescere nei primi tre mesi del 2009
salendo di un 2,2% che, sebbene modesto per gli standard
americani, è molto beneaugurante e allontana lo spettro della
deflazione. Nel trimestre le spese per beni durevoli sono
cresciute del 9,4% dopo essere calate del 22,1% nei tre mesi
precedenti mentre gli acquisti di beni non durevoli sono saliti
dell'1,3% e le spese in servizi dell'1,5%.
Nel complesso, le spese per i consumi hanno aggiunto l'1,5% al
prodotto interno lorod. Ancora in grave crisi invece il comparto
immobiliare: gli investimenti residenziali fissi sono calati del
38% (levando l'1,36% al pil) in ulteriore peggioramento rispetto
al -22,8% del quarto trimestre 2008. Positivo infine (per 1,99
punti percentuali) il contributo dell'interscambio commerciale.
Fra gennaio e marzo le esportazioni Usa sono precipitate del 30%
ma le importazioni sono calate in misura ancora superiore, pari
al 34,1%.
Buone notizie anche dal fronte dei prezzi: l'inflazione
calcolata in base alla spesa per beni e servizi è aumentata del
2,9%. L'indice core, quello di cui la Federal Reserve tiene
conto per le proprie decisioni di politica monetaria, è invece
salito dell'1,5 per cento.
Dopo il rilascio del dato preliminare sulla crescita economica
degli Stati Uniti, i prezzi dei titoli di Stato Usa hanno
confermato i rialzi accumulati in precedenza, spingendo al
ribasso i rendimenti sui titoli a breve. Il rendimento del
Treasury a due anni cedeva nel primo pomeriggio 8 punti base
attestandosi a 0,93%. Sul mercato delle valute il dollaro Usa ha
confermato le perdite accumulate nei confronti della maggior
parte delle concorrenti: l'euro si rafforza dello 0,9% a quota
1,3256, mentre la sterlina britannica guadagna lo 0,8%,
scambiando a 1,4739 dollari. Il biglietto verde, tuttavia, sale
dello 0,4% contro lo yen giapponese, a 96,74 yen. Contro il
basket delle principali valute concorrenti, il biglietto verde è
in calo a 84,56 da 85,18.
Fonte
- Il Sole24Ore
TASSI USA: LA FED
CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%
29 Aprile 2009 20:15 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Come ampiamente atteso dal
mercato, la Banca Centrale Americana ha mantenuto invariata la
forchetta sui fed funds. Confermato il programma di riacquisto
di Treasury per $300 miliardi entro la fine dell’anno.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse ad
un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. La decisione segue la
conferma di gennaio prima e marzo poi, preceduta dal taglio
drastico di dicembre, il nono della serie iniziata nell’ottobre
2007, che aveva portato i fed funds nell’attuale forchetta.
La Fed ha riscontrato segnali di rallentamento nella contrazione
economica e dichiarato che l’outlook sull'economia e’ in
miglioramento, anche se rimarra’ debole ancora per diverso
tempo.
La Fed ha aqnche confermato il programma di riacquisto di Titoli
di Stato per $300 miliarid da completare entro la fine
dell’anno.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Le informazioni giunte dall’ultimo incontro del Federal Open
Market Committee a marzo indicano che l’economia ha continuato a
contrarsi, anche se ad un tasso piu’ contenuto. La spesa delle
famiglie ha mostrato segnali di stabilizzazione ma resta
limitata dalla continua perdita di posti di lavoro, dal calo del
settore immobiliare e dal contenuto accesso al credito. Le
prospettive sulle deboli vendite e le difficolta’
nell’ottenimento dei prestiti hanno condotto le aziende a
ridurre le scorte, gli investimenti ed il personale. Sebbene l’outlook
economico sia migliorato modestamente dal meeting di marzo, in
parte in risposta al miglioramento delle condizioni del mercato
finanziario, l’attivita’ economica dovrebbe rimanere ancora
debole per diverso tempo. Il Comitato continua ad anticipare che
le azioni di politica mirate alla stabilizzaizojne dei mercati
finanziari e degli istituti, lo stimolo fiscale e monetario e le
forze di mercato contribuiranno ad un graduale recupero di una
sostenibile crescita economica in un contesto di stabilita’ dei
prezzi.
Alla luce del rallentamento economico, qui ed all’estero, il
Comitato si aspetta livelli contenuti d’inflazione. Inoltre, il
Comitato intravede alcuni rischi per cui l’inflazione potrebbe
durare per un certo tempo al di sotto dei tassi che meglio
promuovono la crescita economica e la stabilita’ dei prezzi per
il lungo periodo.
In tali circostanze, la Federal Reserve impieghera’ tutti gli
strumenti disponibili per promuovere il recupero economico e
mantenere la stabilita’ dei prezzi. Il Comitato manterra’ il
target sui fed funds nel range 0.00%-0.25% ed anticipa che le
condizioni economiche probabilmente contribuiranno a mantenere i
tassi a livelli eccezionalmente bassi per un lungo periodo. Come
annunciato in precedenza, per garantire supporto alla
concessione dei prestiti ipotecari e al mercato immobiliare, e
per migliorare le condizioni generali del mercato del credito
privato, la Federal Reserve acquistera’ fino a $1250 miliardi di
asset MBS, e fino a $200 miliardi di strumenti di debito
societario entro la fine dell’anno.
Inoltre, la Federal Reserve acquistera’ Treasury fino ad un
valore di $300 miliardi entro l’autunno. Il Comitato continuera’
a valutare la tempistica e l’ammontare generale degli acquisti
alla luce dello sviluppo dell’outlook economico e delle
condizioni dei mercati finanziari. La Federal Reserve sta
facilitando l’estensione del credito alle famiglie e alle
aziende supportando il funzionamento dei mercati finanziari
attraverso una serie di programmi di liquidita’. Il Comitato
continuera’ a monitorare attentamente la dimensione e la
composizione dello stato patrimoniale della Federal Reserve alla
luce degli sviluppi economici e finanziari.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice
Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn;
Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K. Tarullo; Kevin
M. Warsh; e Janet L. Yellen.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di confermare il tasso
interbancario in un range di 0.0%-0.25%:
Information received since the Federal Open Market Committee met
in March indicates that the economy has continued to contract,
though the pace of contraction appears to be somewhat slower.
Household spending has shown signs of stabilizing but remains
constrained by ongoing job losses, lower housing wealth, and
tight credit. Weak sales prospects and difficulties in obtaining
credit have led businesses to cut back on inventories, fixed
investment, and staffing. Although the economic outlook has
improved modestly since the March meeting, partly reflecting
some easing of financial market conditions, economic activity is
likely to remain weak for a time. Nonetheless, the Committee
continues to anticipate that policy actions to stabilize
financial markets and institutions, fiscal and monetary stimulus,
and market forces will contribute to a gradual resumption of
sustainable economic growth in a context of price stability.
In light of increasing economic slack here and abroad, the
Committee expects that inflation will remain subdued. Moreover,
the Committee sees some risk that inflation could persist for a
time below rates that best foster economic growth and price
stability in the longer term.
In these circumstances, the Federal Reserve will employ all
available tools to promote economic recovery and to preserve
price stability. The Committee will maintain the target range
for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and anticipates
that economic conditions are likely to warrant exceptionally low
levels of the federal funds rate for an extended period. As
previously announced, to provide support to mortgage lending and
housing markets and to improve overall conditions in private
credit markets, the Federal Reserve will purchase a total of up
to $1.25 trillion of agency mortgage-backed securities and up to
$200 billion of agency debt by the end of the year. In addition,
the Federal Reserve will buy up to $300 billion of Treasury
securities by autumn. The Committee will continue to evaluate
the timing and overall amounts of its purchases of securities in
light of the evolving economic outlook and conditions in
financial markets. The Federal Reserve is facilitating the
extension of credit to households and businesses and supporting
the functioning of financial markets through a range of
liquidity programs. The Committee will continue to carefully
monitor the size and composition of the Federal Reserve's
balance sheet in light of financial and economic developments.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke,
Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke;
Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P.
Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen.
Fonte
- WallStreetItalia.com
Febbre suina
- I
casi confermati e sospetti nel mondo - scheda
29 Aprile 2009 21:15 PARIGI
-
di Apcom ______________________________________________
Per l'Oms decessi accertati sono
7, 26 per le autorità messicane
Parigi, 29 apr. (Apcom) - I casi sospetti di febbre suina e
quelli confermati ufficialmente nel mondo, secondo i dati
diffusi dall'Organizzazione Mondiale per la Sanità (Oms) e dei
singoli governi. Casi confermati: Messico: 7 decessi accertati
per l'Oms (26 per le autorità messicane), su un totale di 159
sospetti; le persone ricoverate sono 1.311 mentre i casi
sospetti sono in totale 2.498. Stati Uniti: 65 casi confermati
in sei diversi stati (64 per l'Oms); in California le autorità
indagano su un decesso che avrebbe potuto essere causato dal
virus, l'unico caso mortale fuori dal Messico. Canada: 13 i casi
accertati (6 per l'Oms) in quattro diversi stati. Costa Rica: un
caso accertato, il primo nell'America centrale. Gran Bretagna:
due casi accertati in Scozia, altre sette persone entrate in
contatto con loro avrebbero sviluppato lievi sintomi. Spagna:
due casi accertati, altri 32 oggetto di analisi. Germania: tre
casi accertati, una 22enne ricoverata ad Amburgo e un uomo e una
donna, ultratrentenni, in ospedale a Ratisbona. Israele: due i
casi accertati, i primi in Medio Oriente; la nipote di 5 anni di
uno dei pazienti è stata posta sotto osservazione. Nuova
Zelanda: 14 casi accertati (3 per l'Oms) su un gruppo di 25
turisti; altri 44 casi sono oggetto di analisi. Casi sospetti:
Australia: oltre un centinaio i casi potenziali, tra cui alcuni
bambini; almeno cinque persone risultano portatrici di un virus
di tipo A. Malaysia: un caso sospetto. Francia: 2 casi
"probabili" di turisti di ritorno dal Messico nell'Ile-de-France;
20 i casi sospetti oggetto di analisi, nessuno con sintomi
gravi. Austria: un caso "probabile" di un turista di ritorno dal
Messico. Svizzera: cinque casi sospetti fra turisti di ritorno
dal Messico. Irlanda: quattro casi sospetti. Polonia: tre casi
sospetti fra turisti di ritorno dal Messico. Danimarca: cinque
casi sospetti tra turisti di ritorno dal Messico e dal sud degli
Stati Uniti. Svezia: almeno cinque i casi sospetti. Olanda:
"qualche caso sospetto", senza che sia stato precisato il
numero. Cile: 24 casi sospetti, tutti in osservazione. Colombia:
42 persone tornate dal Messico poste sotto osservazione,
Brasile: 20 persone sotto osservazione, anche se le autorità non
ne considerano nessuno come "sospetto". Corea del Sud: cinque
casi sospetti oltre a uno classificato come "probabile". Hong
Kong: quattro casi sospetti. Thailandia: un caso sospetto, una
turista rientrata da un viaggio in Messico e California. (fonte
Afp)
Fonte
- Apcom
Febbre suina, il
Messico ferma l'economia. Il presidente Calderon: «State a casa»
30 Aprile 2009 08:48
-
di Il Sole24Ore ______________________________________________
I casi di infezione da febbre
suina ufficialmente confermati dall'Organizzazione mondiale
della sanità (Oms) sono 236, rispetto ai 148 riportati ieri. A
fare il quadro della situazione, dopo che l'Organizzazione
Mondiale della Sanità ha alzato il livello d'allarme da 4 a 5, è
stato Keiji Fukuda, vicedirettore generale dell'Oms, nel corso
di una conferenza stampa a Ginevra. «L'aumento di conferme - ha
sottolineato Fukuda - si è registrato in Messico, con 97 casi
contro i 26 segnalati fino a ieri.
Questo è dovuto soprattutto al grande lavoro che si sta facendo
nel Paese per riconoscere la malattia nelle persone che si
presentano con sintomi diversi alle autorità sanitarie».
Negli Stati Uniti, il secondo paese più colpito dal virus, e
l'unico in cui si è registrato un decesso al di fuori del
Messico, i casi di febbre suina confermati sono 109. Il maggior
numero di casi si è verificato a New York (50).
Sempre Keiji Fukuda, vicedirettore generale dell'Oms, ha
affermato che «introdurre restrizioni sui viaggi per il Messico
non rallenterà la diffusione del virus della febbre suina». Una
posizione condivisa anche dalla Ue: i ministri della Salute
dell'Unione europea, infatti, hanno respinto la proposta della
Francia di bloccare i voli verso il Messico a livello europeo.
Per evitare una ingiustificata psicosi che porterebbe a una
drastica riduzione del consumo della carne di maiale, la
Commissione europea ha comunicato oggi che non è corretto usare
il termine «influenza suina», e che la sua denominazione sarà
sostituita con la più corretta «influenza A» .
In Italia, il governo invita i cittadini che rientrano dal
Messico a restare a casa per sette giorni dal momento del
rimpatrio. Lo indica una nota ufficiale del sottosegretario alla
salute Ferruccio Fazio diffusa a Lussemburgo. La febbre suina,
però, come ha detto Fazio, arriverà di certo anche in Italia, a
meno di qualcosa di simile a un miracolo, ma al momento la sua
aggressività è limitata, assomiglia a quella di una normale
influenza. Da lunedì comunque inizierà l'incapsulamento delle
dosi per quattro milioni di terapie che sono nei magazzini del
Ministero.
Nel mondo si registrano intanto decisioni anche più "drastiche",
come quella delle autorità sanitarie di Singapore, che hanno
annunciato una settimana di "isolamento" per tutti coloro in
arrivo dal Messico, anche in assenza di sintomi influenzali.
Il Messico, intanto, cerca di reagire all'epidemia: il
presidente Felipe Calderon, per meglio combattere il virus, ha
chiesto ai suoi compatrioti di rimanere a casa - fermando
parzialmente anche l'economia del Paese - dal primo al cinque
maggio. L'indicazione del presidente è arrivata in diretta
televisiva, per la prima volta da quando è scoppiata l'epidemia
la scorsa settimana. Il Messico sospenderà, quindi, per cinque
giorni, i lavori e servizi non essenziali, compresi quelli di
alcuni ministeri e aziende private. La misura si aggiunge così
al blocco deciso qualche giorno fa delle scuole a livello
nazionale, fino al 6 maggio, e allo stop imposto a ristoranti,
bar, discoteche, e altri locali pubblici a Città del Messico,
dove vivono circa 20 milioni di persone. Secondo il ministro
delle Finanze, Agustin Carstens, il Pil messicano avrà un calo
tra lo 0,3% e lo 0,5% a causa dell'impatto della crisi
sanitaria.
Fonte
- Il Sole24Ore
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