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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Crisi creditizia & Macro economia - Zona €uro e Europa

La pioggia di denaro che droga l'economia

Macro mondo - Opinioni

Economia mondiale: c'è poco da essere ottimisti

Crisi Creditizia - Opinioni

Gente al potere, e cambiatelo questo sistema finanziario

G20 - Bilancio vertice su Crisi creditizia

5000 miliardi dal G20

G20 - Effetti e Normative

Paradisi fiscali, si svuota la lista nera

Macro USA - Problematiche interne Presidenza Obama

Obama: le glorie d'Europa e i guai di Washington

Macro mondo - Opinioni

Economia: sarà una ripresa a L o a U?

Crisi creditizia - Opinioni

Lo pseudo capitalismo di Obama

Crisi creditizia e Macro mondi - Analisi

200 milioni di persone finiranno in povertà

Usa - Bilancio presidenza Obama - Stampa

Barack Obama: per il Time "spettacolare" nei primi 100 giorni

Rating - Riforme normative

Regole più rigide per le Agenzie di Rating: l'UE avvia la riforma

Rating - Sovrani/Italia

Moody's conferma la doppia A all'Italia e ai suoi titoli di Stato

   
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+++   ANSA   +++   Gio. 09 Apr. 2009   +++   Ws: GRAN RIALZO CON WELLS FARGO E QUINTA SETTIMANA POSITIVA   +++   Mar. 21 Apr. 2009   +++   Ws: CHIUDE IN RIALZO SPINTA DA GEITHNER   +++   Mer. 29 Apr. 2009   +++   Ws: BALZO CON FED NONOSTANTE PESSIMO PIL   +++   ANSA   +++
 
  Mercoledì 01 Aprile 2009   Giovedì 02 Aprile 2009   Giovedì 02 Aprile 2009  
       
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  La pioggia di denaro che droga l'economia

01 Aprile 2009 16:33 MILANO - di Giuseppe Turani

*Giuseppe Turani e' editorialista di La Repubblica.

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L´ultima speranza, adesso, si chiama «quantitative easing», nel senso che il mercato spera che la Banca centrale europea (che si riunirà proprio giovedì prossimo) adotti appunto, magari un po´ più avanti, una politica di «quantitative easing», come già fanno la banca centrale americana e quella inglese.
Che cosa sia questa politica è una faccenda molto difficile da spiegare, ma in sostanza significa che da un certo momento in avanti la banca centrale fornisce al sistema (mercato, banche, Stati) non solo tutta la moneta di cui ha bisogno, ma tutta quella che ha sognato di avere. Non siamo ai soldi buttati sulle città dagli elicotteri (come suggeriva Ben Bernanke, capo della Federal Reserve americana), ma quasi. Con la politica «quantitative easing» ci sono soldi per tutti e per tutte le necessità, e a costo zero.
Chi conosce un po´ gli umori degli uomini della Banca centrale europea sostiene che tutto questo non accadrà. Il «quantitative easing» è la bomba atomica, ma anche l´ultima bomba, di una banca centrale. L´arma della disperazione totale. E l´Europa, almeno nel giudizio della Bce, non è ancora a questo punto.
Si capirà qualcosa, comunque, già da giovedì prossimo. Oggi il tasso della Bce è all´1,50 per cento. E, secondo quello che si era capito fino a ieri, la Bce dovrebbe scendere all´1,25 giovedì, poi dovrebbe fare un mese di pausa e a maggio scenderebbe all´1 per cento. Dopo di che, stop ai ribassi. E che il cielo aiuti l´Europa.
Ma una buona parte del mercato ritiene che le cose potrebbero andare diversamente. Ormai la congiuntura europea è disastrata. Non si parla più di un calo del Pil, nel 2009, del 2,8 per cento, ma già del 3,3 per cento (e questo nell´ipotesi che non ci siamo peggioramenti, basta quello che abbiamo già visto nei primi tre mesi). E preoccupa soprattutto la situazione della Germania (la cui economia è un terzo dell´area euro). Commerzbank ha appena diffuso uno studio in cui dice che nel 2009 il Pil tedesco crollerà del 7 per cento (mai successo, credo, conflitti mondiali a parte). Gli altri osservatori sono meno catastrofici, ma è difficile trovarne qualcuno che non veda un crollo del 5 per cento (o dintorni) dell´economia tedesca.
Se le cose stanno così, si osserva, allora la situazione europea è assai più grave di quello che appare oggi. E la Bce dovrà reagire di conseguenza. La nuova scaletta degli eventi (immaginata da duri del mercato) è molto semplice. Giovedì la Bce porta il tasso non all´1,25 per cento, ma direttamente all´1 per cento. Poi a aprile (e non a maggio) scende allo 0,50 per cento. A quel punto il gioco dei tassi può considerarsi finito. E alla Bce, per dare ancora stimoli all´economia non resterebbe che passare appunto al «quantitative easing». In sostanza, dovrebbe mettersi a stampare euro con un certo vigore e distribuirli in giro con molta generosità.
Su questa ipotesi, ovviamente, gli esperti sono divisi. C´è chi sostiene che mai la Bce arriverà a tanto, visto che alle spalle ha tutta una storia di rigore monetario. Ma c´è anche chi sostiene, invece, che dovrà farlo e per una ragione molto semplice: lo stanno già facendo americani e inglesi. Se la Bce si rifiuterà, alla fine l´euro sarà l´unica grande moneta «virtuosa» (non inflazionata) del mondo e quindi si rivaluterà inevitabilmente. Ma questo finirebbe per rendere ancora più difficili le esportazioni dall´area euro e quindi creerebbe altri guai.
Giovedì, come si diceva, si comincerà a capire qualcosa. Se la Bce scenderà di colpo all´1 per cento con i tassi di interesse, allora i sostenitori del passaggio (a breve) alla politica del «quantitative easing» forse avranno ragione. Se invece la Bce continuerà per la propria strada, e taglierà i tassi solo di 25 basis point, allora le ipotesi sono due: o si sbaglia (e correrà precipitosamente ai ripari più tardi, come ha già fatto in passato) oppure la situazione è meno grave del previsto (e alla Bce pensano che le misure già prese siano più che sufficienti a scongiurare il peggio).
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Economia mondiale: c'è poco da essere ottimisti

01 Aprile 2009 16:47 NEW YORK - di *Bill Emmott

*Bill Emmott e' l'ex direttore di The Economist.

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A questo punto della recessione globale, è il caso di essere più pessimisti o più ottimisti? È una domanda a dir poco sorprendente, se pensiamo che da poco più di sei mesi siamo precipitati nel baratro economico, seguito al crollo di Lehman Brothers a New York lo scorso settembre.
Certo, il pessimismo sembra la reazione più indicata: l'Ocse, l'organizzazione basata a Parigi che raccoglie 30 Paesi tra i più ricchi del mondo, in Europa e in America, annuncerà ai suoi membri, il 31 marzo, una previsione assai più negativa per il 2009, una contrazione del Pil pari al 4,2%. Eppure, malgrado tutto, di colpo si avverte nell'aria una ventata di ottimismo. Questa settimana, i mercati azionari in tutto il mondo hanno rialzato la testa; ed è in risalita anche il prezzo del petrolio e delle materie prime. Nel frattempo, i politici sulle due sponde dell'Atlantico, sotto la guida del presidente Barack Obama, sembrano rasserenati, e spiegano che già intravedono i primi segnali di stabilizzazione per le loro economie.

Da parte mia, consiglio un briciolo di prudenza e di lasciar passare ancora del tempo prima di emettere giudizi. Ci sono stati motivi di ottimismo nelle ultime settimane, è vero. In sostanza, però, le migliori avvisaglie si suddividono in tre categorie, nessuna delle quali definitiva né affidabile. La prima categoria riguarda i dati che suggeriscono un rallentamento in atto nel declino economico: in diversi Paesi, il mese scorso, i consumi sono risultati superiori al previsto; le vendite immobiliari in America sono in ripresa, anche se i prezzi scendono ancora. Se questi brandelli di dati dovessero trasformarsi in tendenza, sarebbe una buona notizia.
Il paragone migliore è quello di un uomo in caduta libera: è importante sapere, a un dato momento, quanto dista il suolo. Ma anche se è più vicino di quanto si sospetti, lo schianto sarà inevitabile. E una volta a terra, potrebbe anche non essere così facile rimettersi in piedi.
Un altro modo di esprimere il medesimo concetto è constatare come, da ottobre fino a gennaio-febbraio, il calo della domanda nei Paesi europei, in Giappone e negli Stati Uniti, sia stato spaventosamente rapido. Se quel calo oggi rallenta, sarà un buon segnale rispetto a uno scivolone costante o addirittura accelerato. Un calo più lento, tuttavia, è sempre un calo: potrebbe darsi che in questa recessione deflazionistica, che ha visto il crollo della fiducia dei consumatori e delle imprese, saremo colpiti da un lungo e lento declino della domanda, man mano che la disoccupazione aumenta e i redditi si riducono. O che il declino si fermi, ma la ripresa tardi anche anni interi prima di riprendere forza.
La seconda categoria di motivazioni ottimistiche è rappresentata dal movimento dei mercati finanziari. Notoriamente, i mercati azionari tendono ad aumentare di valore in previsione delle svolte nell' economia reale. Questa settimana sono risaliti per la speranza che l'America abbia infine scovato la soluzione alla sua crisi bancaria, e che i dati economici vadano stabilizzandosi.
I prezzi del petrolio e delle materie prime hanno fatto un balzo in avanti forse in vista dei primi effetti, sulla domanda cinese per le materie prime, dell'ingente pacchetto di stimoli economici varato dalla Cina a novembre. Il problema è che anche i mercati possono sbagliarsi. I loro giudizi errati negli ultimi 4-5 anni hanno provocato questo caos economico su scala globale. Pertanto è meglio non fare troppo affidamento su questa fiammata di ottimismo dei mercati.
La terza categoria di notizie incoraggianti è poco nota al pubblico e consiste in tutte le sventure che non si sono verificate negli ultimi mesi. Banche e compagnie di assicurazioni non sono fallite, né sono crollate le industrie. Dopo due mesi di scossoni, come quelli di settembre e ottobre dello scorso anno, le notizie finanziarie si sono tranquillizzate. Questo è da attribuire in parte ai piani di salvataggio siglati dai governi, specie per le banche, ma suggerisce anche che le imprese sono più resistenti e flessibili di quanto si pensasse. La situazione, peraltro, potrebbe mutare dalla sera alla mattina.
La psicologia di questa recessione è difficile da giudicare, soprattutto per i politici e i ministri del governo. È una recessione che subisce la spinta dello stato d'animo, del timore di famiglie e aziende per i rischi di disoccupazione e bancarotta, che li ha convinti a tagliare le spese, e questo a sua volta ha fatto crollare la domanda. La paura e il suo opposto, la fiducia, sono emozioni fragili. I politici devono sforzarsi di rassicurare, per arginare le ansie della gente. Ma se fanno sfoggio, troppo presto, di eccessivo ottimismo, e questo ottimismo non è suffragato dai fatti, ecco che rischiano di mandare in fumo la loro credibilità. Cautela, pazienza e un linguaggio solo moderatamente positivo: a questo punto, non esiste ricetta migliore.
 

 

Traduzione - Rita Baldassarre

Fonte - Corriere della Sera

 

 

 

  Gente al potere,  e cambiatelo questo sistema finanziario

01 Aprile 2009 16:56 LUGANO - di *Alfonso Tuor

*Alfonso Tuor e' editorialista del Corriere del Ticino.

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Chi pagherà il conto di questa crisi? La risposta a questa domanda, che diventa di giorno in giorno più inquietante, è ormai sempre più chiara. Negli scorsi giorni vi sono state due autorevoli prese di posizione che confermano che l’interrogativo comincia a tormentare anche i governi.
Una è stata quella di Mirek Topolanek, primo ministro ceco dimissionario e presidente di turno dell’Unione Europea, il quale davanti al Parlamento europeo ha detto: «le politiche americane ci porteranno alla rovina». L’altra presa di posizione è stata quella della banca centrale cinese che, nel modo indiretto proprio della cultura di quel Paese, ha pubblicato un documento nel quale si delinea «la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su una valuta di riserva internazionale senza legami con alcuna nazione (ndr.: il riferimento al dollaro è evidente) e in grado di assicurare una stabilità di lungo termine».

Queste due prese di posizioni esprimono identiche preoccupazioni. La differenza sta nel fatto che il leader ceco pensa agli enormi guai prossimi venturi, mentre Pechino pensa all’assetto del mondo dopo i disastri che provocherà questa crisi e invoca quindi una nuova Bretton Woods, dicendo sostanzialmente a Washington: non pensate che tutto ritornerà come prima e che gli Stati Uniti potranno contare ancora sui vantaggi dati dal ruolo di moneta internazionale del dollaro.
Il presidente di turno europeo ha completamente ragione a sostenere che le politiche seguite dall’amministrazione Obama e dalla banca centrale americana porteranno alla rovina. Gli Stati Uniti stanno infatti operando il trasferimento allo Stato delle colossali perdite nascoste nel sistema finanziario. Questo è ad esempio il senso del piano salvabanche presentato lunedì scorso, grazie al quale viene affidato proprio agli Hedge Fund, tra i principali responsabili della crisi, il compito di acquistare grazie a linee di credito garantite dallo Stato i titoli tossici e i prestiti in sofferenza delle banche.
Questo è pure il senso delle diverse operazioni da migliaia di miliardi di dollari lanciate dalla banca centrale americana. Tali operazioni vengono finanziate o attraverso l’ampliamento del disavanzo statale (quest’anno il deficit federale americano supererà il 12% del PIL) o attraverso la stampa di nuovi dollari da parte della Federal Reserve (si prevede che la base monetaria che è già raddoppiata, raddoppierà un’altra volta entro la fine dell’anno). Questi interventi plurimiliardari, avviati a partire dall’agosto del 2007, non hanno né risanato il sistema bancario (per ora ne hanno solo evitato il collasso), né impedito che la crisi finanziaria si trasformasse in una durissima recessione globale.
Europei e cinesi in testa stanno ora capendo che l’amministrazione Obama si è piegata ai voleri di Wall Street e che quindi il buco nero nascosto nei bilanci delle banche rischia di risucchiare tutto e tutti. La conseguenza a breve termine di queste politiche è una crisi di fiducia nei titoli con cui gli Stati finanziano il debito pubblico. I segnali premonitori non mancano: l’ultimo in ordine di tempo è venuto dalla Gran Bretagna, dove per la prima volta da sette anni a questa parte è fallita un’asta di titoli pubblici, nonostante la decisione della Banca d’Inghilterra di acquistarne per più di 100 miliardi di euro.

La crisi del debito pubblico è destinata a provocare un’ulteriore escalation degli interventi delle banche centrali. Queste ultime sarebbero chiamate a comprarne in grandi quantità e a stampare ulteriore moneta. Con quali conseguenze? Una forte inflazione, se vi sarà l’interludio di una breve ripresa, oppure in alcuni Paesi (i principali candidati sono Gran Bretagna e Stati Uniti) crisi valutarie ed iperinflazione. Ciò vuol dire per il cittadino un’impressionante distruzione del risparmio privato e di quello pensionistico, ma per l’oligarchia finanziaria uno strumento ideale per distruggere il valore dell’enorme quantità di attività tossiche detenute dalle grandi banche.
A questa politica si oppone l’Europa continentale, che - come ha ricordato il presidente di turno dell’UE - è perfettamente consapevole che la strada dell’esplosione dei debiti pubblici e del ricorso alla stampa di nuova moneta porterebbe il mondo alla rovina. Mentre in vista del prossimo vertice del G20 che si terrà a Londra il 2 aprile l’Europa continentale resiste alle richieste americane di moltiplicare gli interventi a sostegno dell’economia, la Cina pensa all’assetto del mondo dopo questa crisi.
Pechino è consapevole che perderà gran parte dei 700 miliardi di dollari investiti in titoli del Tesoro americano e lo sta già spiegando alla popolazione cinese. Il capo del Governo Wen Jiabao ha infatti dichiarato: «Abbiamo prestato molto denaro agli Stati Uniti e ora siamo preoccupati per la sicurezza dei nostri investimenti». Il Governo sa pure che l’interruzione di questi acquisti potrebbe avere conseguenze politiche molto pericolose e quindi ha ribadito ufficialmente che «la Cina continuerà ad acquistare i titoli di Stato americani».
La disponibilità cinese ha però un prezzo e questo prezzo è molto alto soprattutto per gli Stati Uniti. Pechino chiede la riforma del sistema monetario internazionale (una nuova Bretton Woods) con l’obiettivo di creare una moneta di scambio sovranazionale al posto del dollaro. Le autorità cinesi pensano che questa funzione possa essere assolta dai Diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale. La delegazione cinese giocherà questa carta già il prossimo 2 aprile a Londra, quando per aderire alle richieste americane ed europee di ricapitalizzare l’FMI, operazione necessaria per aiutare i Paesi emergenti in difficoltà, in primis quelli dell’Europa dell’Est, chiederà in cambio una ridistribuzione delle quote del Fondo, che ne fanno oggi un organismo controllato dai Paesi occidentali.
La proposta di creare una valuta sovranazionale corrisponde all’idea presentata nel 1944 a Bretton Woods da John Maynard Keynes, che venne però bocciata dagli Stati Uniti, i quali imposero un sistema imperniato sul dollaro. Essa va al cuore del problema: l’attuale crisi è anche una crisi degli Stati Uniti e del dollaro e non può essere superata solo con il cambiamento di alcune regole del sistema finanziario.
Occorre invece un nuovo sistema monetario che tenga conto dei mutati rapporti di forza a livello internazionale. L’idea cinese ha raccolto immediatamente il sostegno di Russia ed India, ma si è scontrata con l’opposizione di Washington. È evidente che gli Stati Uniti non vogliono perdere i grandi vantaggi dati dal ruolo di valuta internazionale del dollaro. Pechino ha comunque detto in modo chiaro agli americani che i rapporti di forza mondiali sono cambiati e che gli Stati Uniti non possono pensare di uscire da questa crisi, preservando il primato del dollaro e quindi anche il loro primato politico. Insomma, la Cina ha preannunciato quale sarà il prezzo politico che gli Stati Uniti dovranno pagare per questa crisi.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

G20: CHIACCHIERE A VANVERA MENTRE IL MONDO VA ROTOLI

01 Aprile 2009 13:59 ROMA - di APCOM-CORRIERE DELLA SERA
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Stesso approccio per Merkel, Sarkozy, Berlusconi? Ma quando mai. Contrasti feroci tra il cosiddetto partito della spesa, composto da Stati Uniti e Gran Bretagna (Obama ha incontrato Brown), e la Germania. Intanto Lula e Sarkozy cercano di smarcarsi.
Oggi, al programma radiofonico Radio3 Mondo, l'ambasciatore tedesco in Italia Michael Steiner, commentando i contrasti cresciuti in questi mesi tra il cosiddetto partito della spesa, composto da Stati Uniti e Gran Bretagna, e la Germania, ha affermato: "Tutti i paesi del G20 hanno portato avanti programmi per stimolare l'economia, anche la Germania. Quello che conta ora e' stabilire nuove regole per il sistema finanziario internazionale. Su questo tema Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e il premier italiano hanno lo stesso approccio".
. La formazione di un fronte comune in vista del G20 di domani di Londra sarà al centro dell'incontro di oggi a Parigi fra i presidenti francese Nicolas Sarkozy e brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva. E' quanto hanno anticipato fonti ufficiali dei due Paesi. I due leader hanno entrambi dichiarato di volere una più marcata regolamentazione dei mercati finanziari mondiali, nella convinzione che tali misure siano di fondamentale importanza per prevenire future crisi economiche.
Sarkozy nelle ultime ore ha più che lasciato intendere che potrebbe abbandonare il G-20 se dal summit non scaturiranno delle risposte concrete per far fronte alla crisi economica. Le fonti francesi e brasiliane hanno precisato che Sarkozy e Lula discuteranno anche di difesa bilaterale e di problematiche di sviluppo.
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dal Corriere della Sera:
Agire subito contro la crisi «che non ha precedenti», concordando «misure per il ripulire il sistema bancario globale». Queste le linee guida che Stati Uniti e Gran Bretagna seguiranno al vertice G20 di Londra. Linee tracciate durante l'incontro tra il presidente americano Barack Obama e il premier britannico Gordon Brown a Downing Street alla vigilia del G20. E se Francia e Germania pongono dei paletti («L'attuale bozza di risoluzione non ci soddisfa», ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy) Brown ha fatto sapere a riguardo di sentirsi «fiducioso» e ha dato assicurazioni a Sarkozy che ci saranno interventi decisi sui paradisi fiscali.
BROWN E LE BANCHE - «Questa crisi peggiorerà se non agiremo. In questa situazione non c'è l'opzione di non fare nulla» ha detto Brown. «Il G20 - ha poi assicurato il premier britannico - deve dare risposte globali a problemi globali. Non possiamo accettare una soluzione sul minimo comune denominatore. Non sarà facile, ma il mondo chiede risposte. Usa e Gran Bretagna hanno da sempre un rapporto speciale e questo rapporto ha ora nuovi obiettivi, quelli di trovare soluzioni concrete alla crisi in atto». «Se non accettiamo che questa crisi è nata da un problema di regole - ha sottolineato a più riprese Brown - non arriveremo a una soluzione».
I TEST - A tal proposito Brown ha elencato una serie di test cui sarà necessario fare fronte: «Il primo è un sistema di controllo delle banche», poi sarà necessario, secondo il premier, «prendere le misure necessarie per far ripartire la crescita». In terzo luogo bisognerà «sostenere la cooperazione economica internazionale e la crescita dei paesi in via di sviluppo, respingendo il protezionismo». Il premier britannico ha inoltre auspicato una serie di nuove misure di stimolo, fra cui almeno 100 milioni di dollari di finanziamento agli interscambi commerciali.
OBAMA - Un richiamo a un «terreno comune» che superi le «divergenze» è arrivato dal presidente americano. Obama ha promesso misure «aggressive» contro la crisi. Il 2009, ha spiegato, sarà un anno «difficile», soprattutto se si guarda al volto umano della crisi economica e finanziaria mondiale, ma le persone non dovrebbero «sacrificare il futuro per paura del presente». Secondo il presidente Usa il mondo deve respingere il protezionismo e i leader del G20 devono «concentrarsi sui punti in comune», piuttosto che sulle loro divergenze. Dal canto loro gli Stati Uniti sono pronti a fare «qualsiasi cosa per stimolare la crescita e la domanda» e assicurare «che crisi come questa non si ripetano».
INSODDISFATTI - La bozza del documento finale del G20 non soddisfa ancora Francia e Germania, ha riferito Sarkozy. La Francia ha chiesto regole più severe per la regolamentazione della finanza globale e, in particolare, contro i paradisi fiscali. In una telefonata al capo dell'Eliseo, Brown ha «riaffermato la volontà di una maggiore regolamentazione finanziaria e una posizione molto ferma nei confronti dei paradisi fiscali».
«Non darò il mio assenso a un meeting falso», ha detto il presidente francese, «che porti a decisioni inutili e che non affronti veramente i problemi che abbiamo», minacciando anche di lasciare il G20. A tal proposito però Brown si è detto «fiducioso. Sarkozy sarà con noi oggi e sarà seduto con noi stasera alla cena». La minaccia del ritiro del presidente francese non è piaciuta al cancelliere tedesco, Angela Merkel: «Non è l'idea migliore», ha commentato un portavoce del capo del governo tedesco. L'unica preoccupazione del cancelliere è «che potremmo non reagire con la forza necessaria».
L'AGENDA - Fitta l'agenda del presidente Usa che tra imponenti misure di sicurezza attraverserà un Londra blindata. Dopo l'incontro con Brown a Downing Street, Obama vedrà in giornata per la prima volta gli omologhi russo, Dmitry Medvedev, e cinese, Hu Jintao. In serata è previsto un incontro con la regina Elisabetta II. Giovedì il summit del G20. Il giorno dopo l'inquilino della Casa Bianca partirà per il vertice Nato a Strasburgo e Khel (Germania). Sabato sarà a Praga e infine domenica ad Ankara in Turchia per un incontro con il premier Tayyip Erdogan.
 

Fonte - ApCom e Corriere della Sera

 

 

G20: ESPLODE LA RABBIA CONTRO I RICCHI E POTENTI

01 Aprile 2009 14:14 LONDRA - di Corriere della Sera
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Attivisti anti-guerra, ambientalisti, no global anti-capitalisti: per 48 ore, fino a giovedì, giorno del G20, Londra rischia di essere messa a ferro e fuoco dalle diverse manifestazioni in programma. Cecchini sopra i tetti, tombini bullonati, quasi 3.000 telecamere di sicurezza ad ogni angolo delle strade: tutto è pronto nella capitale britannica per un'operazione-sicurezza che non ha precedenti. Già in queste ore, migliaia di dimostranti stanno convergendo, in quattro diversi cortei, verso la sede principale della Banca d'Inghilterra, al centro della city londinese, per una manifestazione di protesta contro il vertice.
CARICHE E ARRESTI - Carica della polizia a Cannon Street, dove si sono concentrati i gruppi anarchici: gli agenti, massicciamente schierati, hanno usato manganelli per evitare che la marcia raggiungesse la sede della Banca d'Inghilterra. E tre persone, secondo quanto riferito da Sky News, sono state arrestate a una delle manifestazioni: due erano in possesso di coltelli, una è stata fermata per aver aggredito un agente di polizia. Lo riferisce Sky News.
CITTÀ DESERTA E BLINDATA - I londinesi, intanto, hanno lasciato la città e le autorità hanno invitato chi si vuole recare al lavoro nella city a vestirsi in modo 'casual' per non dare nell'occhio. Gli uomini dispiegati nell'area metropolitana londinese sono circa 5mila.
 

Fonte - Corriere della Sera

 

 

G20: VERTICE DIFFICILE TRA CONTRASTI E MANIFESTAZIONI

01 Aprile 2009 16:38 NEW YORK - di APCOM
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Migliaia di manifestanti per le strade di Londra, un leader che minaccia di sbattere la porta in mancanza di scelte forti, l'ottimismo ostentato dal padrone di casa Gordon Brown e Obama rischia di scontrarsi con la prova dei fatti.
Con migliaia di manifestanti per le strade di Londra, un leader che minaccia di sbattere la porta in mancanza di scelte forti e delle spaccature abissali tra i vari paesi presenti, l'ottimismo ostentato questa mattina dal padrone di casa del G20 Gordon Brown e il presidente statunitense Barack Obama rischia di scontrarsi con la prova dei fatti. Obama, alla sua prima apparizione europea, si è detto "assolutamente fiducioso" che la riunione riuscirà a sanare le divergenze tra i paesi partecipanti, poiché la situazione attuale non consente di accontentarsi di "mezze misure" e per raggiungere gli obiettivi bisogna "concentrarsi sui punti in comune, piuttosto che sulle divergenze".
Ma il leader francese Nicolas Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel si presenteranno insieme in una conferenza stampa oggi pomeriggio alle 17,30, mettendo in evidenza l'asse di ferro che hanno deciso di formare in questa circostanza. E l'inquilino dell'Eliseo, che ieri ha ventilato la possibilità di andarsene dalla riunione se non si deciderà nulla di concreto, oggi ha ribadito il suo no a "falsi compromessi". Il pomo della discordia resta quello dei maggiori stimoli che gli Stati Uniti, ma anche il Giappone, ritengono necessari per far ripartire il motore dell'economia mondiale. Il premier giapponese Taro Aso, con cui il premier Silvio Berlusconi avrà un incontro bilaterale questo pomeriggio, ha dichiarato in un'intervista che la Germania "non capisce" l'importanza di iniettare denaro nell'economia e Obama ha ribadito che gli Stati Uniti non possono essere "l'unico motore" della crescita.
L'Unione europea, sottoposta alle stringenti regole di bilancio del Patto di stabilità e di crescita, è riluttante ad allentare i cordoni della borsa e a far correre i deficit più di quanto già avvenga da quando è esplosa la crisi economica. Motivo per cui aspetta di vedere quali saranno i risultati dei piani già varati fino ad ora. Anche se ieri il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha ammesso che è "una questione di credibilità non parlare di nuovi piani", aggiungendo: "Non escludiamo di cambiare in corso d'opera le misure che sono state già prese". Il risultato è che si potrebbe arrivare ad un compromesso in cui si dice che ogni paese è pronto a fare "tutto quanto necessario".
Il Vecchio Continente, fatta eccezione per una Gran Bretagna recalcitrante, è invece inamovibile su un punto: serve più regolazione per risanare un sistema capitalistico che, per dirla con Sarkozy, "non ha principi" né "morale". Un'esigenza, questa, che ha già portato ad un primo risultato, ancorché circoscritto, nella lotta ai paradisi fiscali. La minaccia di stilare una lista dei paesi non cooperativi ha portato Stati finora storicamente molto riluttanti come la Svizzera, l'Austria e il Lussemburgo ad annunciare delle revisioni delle norme sul segreto bancario. Lo stesso rischia di essere più difficile in sede di G20, poiché la Cina non vuole rinunciare ai privilegi di Macao e Hong Kong. Sul tema il presidente dell'Eurogruppo, il lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha sottolineato come anche gli Stati Uniti dovrebbero mostrare "coraggio" per affrontare una situazione che riguarda, ad esempio, anche il Nevada, il Delaware e Wyoming.
Il premier britannico Gordon Brown ha garantito inoltre che verranno poste le basi per regolare il sistema di "bonus" dei manager. Uno dei rari temi su cui ci sarà un sicuro consenso è quello dell'aumento dei mezzi del Fondo monetario internazionale, che dovrebbero essere raddoppiati. I paesi emergenti, tuttavia, potrebbero approfittare della situazione per strappare delle concessioni sulla riforma della governance dell'istituzione. Anche il protezionismo dovrebbe suscitare la consueta levata di scudi e un coro di condanne formali, anche se nella pratica pochi leader sembrano immuni da questo peccato. Il vertice inizierà questa sera a Buckingham Palace per un ricevimento offerto dalla regina Elisabetta, a cui seguirà una cena a Downing Street.
 

Fonte - APCOM

 

 

G20: E' ROTTURA TRA EUROPA E USA. LONDRA SOTTO ASSEDIO, FERITI E ARRESTI

02 Aprile 2009 02:12 LONDRA - di La Stampa
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Attivisti anti-guerra, ambientalisti, no global anti-capitalisti: per 48 ore, fino a domani giorno del G20, Londra rischia di essere messa a ferro e fuoco da una pletora di manifestazioni; un sottofondo variopinto, rumoroso e forse violento al summit dei 20 più potenti leader del mondo che tentano di trovare una via d’uscita alla crisi economica.
Migliaia di manifestanti sono affluiti davanti alla Banca di Inghilterra. A fronteggiarli sul posto centinaia di poliziotti britannici. Al grido di «Aboliamo i soldi» e di altri slogan, i manifestani premono con forza contro i cordoni delle forze dell’ordine impegnate a respingere indietro la folla. Da questa mattina elicotteri sorvolano la capitale britannica. Numerosi edifici della City, il distretto finanziario di Londra, sono stati circondati mentre diverse strade sono chiuse al traffico. I dipendenti delle banche oggi non indossano il tradizionale completo gessato ma dei semplici jeans per evitare di essere possibili bersagli dei manifestanti. Sei persone sono finite in manette fino a questo momento.
Tensione anche a Cannon Street, nella City di Londra, dove si sono concentrati i gruppi anarchici: gli agenti, massicciamente schierati, hanno usato manganelli per evitare che la marcia raggiungesse la sede della Banca d’Inghilterra. Le misure di sicurezza sono imponenti con cecchini sopra i tetti, tombini bullonati, quasi 3.000 telecamere di sicurezza ad ogni angolo delle strade: tutto è pronto nella capitale britannica per un’operazione-sicurezza che non ha precedenti (costo previsto 7,5 milioni di sterline, circa 8,4 milioni di euro). Oggi il centro della protesta è dunque la City di Londra, vista da molti come l’ombelico dell’attuale crisi.
Domani le manifestazioni si concentreranno all’ExCel Centre a Docklands, nella parte orientale della città, dove avverrà il vertice. Oggi quattro marce di protesta, "I Cavalieri dell’Apocalisse", usciranno da altrettante stazioni del metro e convergeranno verso le sedi della Bank of England e l’ambasciata Usa: da Moorgate il rosso, che rappresenta gli orrori della guerra; da Liverpool Street, il verde, che simboleggia i cambiamenti climatici; da London Bridge, l’argento, simbolo dei guai creati dai finanzieri; e da Cannon Street, il nero, che ricorda quanti hanno perso il lavoro per la crisi. I gruppi della coalizione "G20 Meltdown" (in riferimento alla catastrofe che risulterebbe dalla fusione di un reattore nucleare) si sono dati appuntamento dinanzi alla Bank of England, trasformata in fortezza, «il ventre della bestia».
Nel primo pomeriggio, invece, la Coalizione contro la Guerra manifesterà dinanzi all’ambasciata statunitense a Londra per chiedere il ritiro delle truppe da Iraq e Afghanistan e il disarmo nucleare. La cosiddetta "Campagna per il Cambiamento climatico", programmata a Square Mile, dovrebbe infine portare nel pomeriggio un blocco di ghiaccio fino al recinto di Ex-Cel. La polizia dovrà tenere il passo con l’evoluzione delle tattiche dei manifestanti: gli organizzatori hanno detto ai loro accoliti di muoversi in continuazione, rimanere in piccoli gruppi ed essere pronti ad obbedire" agli sms che indicheranno gli obiettivi.
Il timore è che i gruppi anarchici -che nelle chat della blogosfera hanno annunciato attacchi a banche, a negozi e agli impiegati della City- cercheranno anche scontri diretti con la polizia. È noto per esempio che, nell’ultima settimana, gruppi come Whitechapel Anarchist Group, Class War e Wombles, hanno avuto riunione carbonare per coordinare le tattiche. La polizia comunque ha chiesto ai lavoratori della City di andare in ufficio in abiti informali o - ancora meglio - tentare di lavorare da casa.
 

Fonte - La Stampa

 

Chi ha avuto cosa dal vertice del G20?

Giovedì 2 Aprile 2009, 22:02 - di Reuters
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Le nazioni del G20 in alcuni vasi avevano messo sul tavolo priorità contrastanti in vista del vertice di Londra. Di seguito una sintesi di quello che era stato chiesto e delle risposte arrivate.

STIMOLO FISCALE

Chi voleva cosa: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone avevano proposto con forza un'azione concertata nel mondo per pompare più fondi governativi nei pacchetti di stimolo; Francia e Germania preferivano aspettare per vedere i risultati dei fondi già messi a disposizione.

Risultato: il vertice non ha fissato obblighi per ulteriori misure fiscali, un fatto accolto con soddisfazione dalla Germania.

REGOLAMENTAZIONE DEL MERCATO

Chi voleva cosa: Francia e Germania avevano chiesto a gran voce la sorveglianza degli hedge fund, una causa che il cancelliere Angela Merkel aveva perorato anche prima della crisi finanziaria. Il Giappone aveva detto che la regolamentazione dovrebbe venire dopo il salvataggio dell'economia globale.

Risultato: chiaro impegno del vertice a estendere regolamentazione e sorveglianza a tutte le istituzioni finanziarie importanti, gli strumenti e i mercati. Anche le agenzie di credit rating saranno interessate.

FMI

Chi voleva cosa: Australia, Canada e Sud Africa erano tra i Paesi che volevano una forte crescita nei prestiti del Fmi; Russia, Argentina, Cina, India, Arabia Saudita e altri chiedevano riforme per concedere alle economie emergenti un maggiore potere di voto all'interno del Fondo.

Risultato: la triplicazione dei fondi dati in prestito dal Fmi è andata oltre le attese, ma si è detto meno sul ribilanciamento dell'influenza chiesto dai Paesi in via di sviluppo.

COMMERCIO

Chi voleva cosa: Brasile e Gran Bretagna erano su una cifra di 100 miliardi di dollari in nuove linee di credito per il commercio internazionale.

Risultato: la cifra di 250 miliardi di dollari è andata oltre le attese.

PROTEZIONISMO

Chi voleva cosa: Gran Bretagna, Stati Uniti, Corea del Sud, Canada e India avevano chiesto che il G20 assumesse forti impegni per la liberalizzazione del commercio.

Risultato: il vertice ha "riaffermato" l'impegno dell'anno scorso a non alzare nuove barriere a investimenti e commercio. In pratica, molti dei Paesi del G20 hanno adottato misure protezionistiche dal vertice di Washington di novembre per difendere le imprese nazionali.

PARADISI FISCALI

Chi voleva cosa: Francia e Germania avevano chiesto a gran voce di dare un colpo ai paradisi fiscali.

Risultato: il vertice ha accettato di schedare "giurisdizioni non collaborative" e prendere in considerazione sanzioni.

VALUTA DI RISERVA

Chi voleva cosa: Cina e Russia volevano discutere una nuova valuta di riserva globale in alternativa al dollaro, sulla base degli Special Drawing Rights del Fmi.

Risultato: la questione non è stata discussa, ma la Russia ha fatto una propria dichiarazione.
 
 

Fonte - Reuters

 

 

 

 

 

  5000 miliardi dal G20

02 Aprile 2009 17:44 NEW YORK - di Il Corriere Della Sera

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Uno stimolo fiscale fino a 5.000 miliardi di dollari entro la fine del 2010 a sostegno della ripresa dell'economia mondiale. Mille miliardi per l'Fmi e le altre istituzioni finanziarie internazionali. Una lista nera dei paradisi fiscali. Un nuovo consiglio per la stabilità finanziaria globale. E l'impegno di ritrovarsi per un nuovo summit, a fine anno, in modo da valutare gli eventuali progressi- Sono alcune delle misure decise durante il G20 di Londra per combattere la peggiore crisi economica mondiale dagli anni '30.

UN TRILIONE DI DOLLARI - «I problemi globali richiedono soluzioni globali - ha dichiarato il premier britannico, Gordon Brown, elencando i punti sui quali si è trovato l'accordo. - Abbiamo raggiunto il consenso per fare tutto ciò che è necessario per ristabilire la crescita economica e l'occupazione e prevenire un'altra crisi come quella attuale». Poi il premier britannico ha elencato i propositi su cui i leader si sono trovati d’accord, tra cui il via libera all'iniezione di nuove risorse dal Fondo Monetario Internazionale, la lotta contro i paradisi fiscali, le nuove regole in materia di bonus per i vertici banchieri.

GLI STIMOLI - Brown ha annunciato uno stimolo fiscale fino a 5.000 miliardi di dollari entro la fine del 2010 a sostegno della ripresa dell'economia mondiale. I leader del G20 hanno trovato anche l'accordo per mettere a disposizione del Fondo Monetario Internazionale altri 500 miliardi di dollari. L'Fmi, che così vede triplicarsi i suoi fondi, potrà contare anche su altri 250 miliardi in Diritti Speciali di Prelievo. Non solo: saranno utilizzati altri 250 miliardi di dollari per sostenere il commercio internazionale. I paesi poveri riceveranno 50 miliardi di dollari di aiuti.

BANCHE - Brown ha quindi preannunciato un sistema di «nuove regole» sui bonus e salari a livello globale: i numeri uno delle istituzioni finanziarie, ha spiegato Brown, saranno nominati sulla base del «merito». «Ripuliremo le banche per rilanciare credito per le famiglie e le imprese - ha proseguito il premier - Ci siamo accordati per un approccio unico e globale per gli asset tossici».

ESPANSIONE FISCALE - «Stiamo sostenendo una espansione fiscale concertata e senza precedenti - si legge nel comunicato finale del vertice dei capi di Stato e di governo - che salverà o creerà milioni di posti di lavoro che sarebbero altrimenti stati distrutti, e che ammonterà, entro la fine dell'anno prossimo, a 5 mila miliardi di dollari; aumenterà la produzione del 4 per cento e accelererà la transizione ad un’economia verde».

LE TENSIONI - Dopo una vigilia contrassegnata dagli scontri nella City tra manifestanti anti-capitalismo e polizia - che portano un bilancio di un morto (per cause naturali) e di alcune decine di arrestati tra i dimostranti - i capi di Stato e di governo hanno dunque trovato una linea comune per affrontare le nuove sfide dell'economia, in particolare in tempi di crisi. Un'operazione dal successo non scontato, viste le divergenze di opinione sulle ricette da adottare.

I PARADISI FISCALI - Uno dei temi più controversi era proprio quello relativo ai paradisi fiscali, uno dei punti qualificanti della proposta congiunta di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel. Gordon Brown, ha annunciato che «la lista è pronta», nonostante l'opposizione di alcuni Paesi, tra cui la Cina e diverse nazioni europee. Il leader britannico ha poi precisato che ci saranno sanzioni contro quei paesi che non forniscono le informazioni richieste.

I FONDI PER L'FMI - I leader dei G20 erano apparsi inoltre divisi sull’entità dell’aumento dei fondi per il Fondo monetario internazionale (Fmi) e le risorse da destinare al rilancio del commercio internazionale. I fondi saranno destinati a riaccendere il flusso di capitali verso i paesi in via di sviluppo. Due settimane fa l’Ue si era detta pronta a contribuire con 75 miliardi di euro (oltre 100 miliardi di dollari), mentre altri 100 miliardi di biglietti verdi sono stati messi sul piatto mesi fa dal Giappone.

BERLUSCONI E IL «SOCIAL PACT» - Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, era arrivato al centro Excel nella zona dei Docklands a Londra ed era stato accolto da Gordon Brown, al quale aveva consegnato un articolo dalla sua rassegna stampa. Dopo la foto di rito, i due si sono salutati con un «ciao ciao» in italiano. Berlusconi, secondo i resoconti di diversi osservatori, sta affrontando il vertice da una posizione un po' distaccata. In più di un'occasione il presidente del Consiglio ha fatto sapere di riporre le proprie aspettative soprattutto nel vertice del G8 che si terrà a luglio alla Maddalena e che sarà da lui stesso presieduto. In ogni caso, il premier italiano sembra essere riuscito a fare inserire un chiaro ed esplicito riferimento ad un «social pact», ovvero - come riferiscono fonti diplomatiche, «un richiamo alla dimensione umana della crisi». «Berlusconi - dicono ambienti vicini al premier - insiste sulla necessità di proteggere e sostenere coloro che soffrono la crisi e soprattutto chi perde il posto di lavoro».

«PENSARE ANCHE AI POVERI» - A margine dell'incontro, la popstar Bob Geldof, animatore del Live Aid, è intervenuto per ricordare che esistono ampie sacche di povertà nel mondo e regioni dove si vide con due dollari al giorno. E l'alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha aggiunto da Ginevra: «I Paesi poveri sono stati esclusi dal vertice. Si aiutino i contadini, non le banche».

LA DIPLOMAZIA A TAVOLA - Il vertice è stato preceduto mercoledì sera da una cena a Downing Street tra i leader del summit. Barack Obama è stato seduto accanto alla cancelliera tedesca Angela Merkel, il leader europeo che con più vigore in queste settimane si è opposto alla ricetta americana per uscire dalla crisi. E che ha lanciato un vero e proprio ultimatum sulle regole a Stati Uniti, ed al suo alleato speciale britannico, insieme a Nicolas Sarkozy, con cui in questa occasione ha rinsaldato e rilanciato un solido asse franco-tedesco. E, naturalmente non a caso, il presidente francese al tavolo di Downing Street, imbandito esclusivamente del «meglio della cucina britannica» dallo chef star televisiva Jamie Oliver, sedeva vicino a Gordon Brown, a cui evidentemente era stato affidato il compito di cercare, tra una portata e l'altra, di ridurre le differenze, apparse quanto mai ampie nelle conferenze stampa delle due coppie di leader. In effetti, tra Brown e Sarkozy l'attento protocollo del premier britannico ha messo - secondo il piano dei posti a tavola che è stato diffuso alla stampa - il presidente cinese Hu Jintao. Silvio Berlusconi, invece, era seduto tra il premier olandese Jan Peter Balkenende e il primo ministro indiano Manmohan Singh, che aveva al suo fianco la «presidenta» argentina Cristina Kirchner.

MICHELLE, LA REGINA E LA GAFFE DEL PRINCIPE - Intanto va registrato anche un episodio curioso: l'abbraccio tra la regina Elisabetta e Michelle Obama. Un gesto affettuoso e irrituale che ha rotto il rigido protocollo di Buckingham Palace durante il ricevimento per il te offerto dalla famiglia reale. Nel corso dello stesso il principe Filippo si è reso protagonista di alcune gaffe. In una, in particolare, ha spiegato che questi leader sembrano tutti uguali. «Può dirmi la differenza che c'è tra di loro?», aveva chiesto, scherzando, il Duca d'Edimburgo al presidente degli Stati Uniti, che gli snocciolava tutti gli incontri avuti nella giornata di mercoledì a Londra, alla vigilia del G20. «Ho avuto una colazione con il premier (britannico), colloqui con i cinesi, i russi, David Cameron... E sono orgoglioso di dire che non mi sono addormentato neanche in uno di questi incontri», ha detto Obama, rispondendo al principe, che gli aveva domandato come fosse riuscito a resistere dopo una giornata così intensa e dopo il lungo volo da Washington. Nel riferire la battuta del marito della regina Elisabetta, la stampa britannica ricorda come il principe sia incline alle gaffe: storica quella che fece un po' di anni fa durante una visita in Cina, quando, parlando con un gruppo di studenti britannici, disse loro: «Se starete qui ancora a lungo, avrete tutti gli occhi a mandorla».
 

Fonte - Il Corriere della Sera

 

 

 

 

 

USA: IL PIANO GEITHNER PROPRIO NON CONVINCE

02 Aprile 2009 17:45 NEW YORK - di WSI
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Il "Cigno Nero" lancia il monito: rilevare gli asset tossici delle banche si rivelera' uno sforzo inutile. Servono misure drastiche, una riforma. I leader del G-20? Impreparati: non capiscono i mercati e i fattori a monte della crisi.
Il piano studiato dal segretario del Tesoro Timothy Geithner per rilevare gli asset tossici dai bilanci delle banche non riuscira' a rianimare il sistema finanziario. Questo il parere del famoso "cigno nero", Nassim Nicholas Taleb.
"Siamo esattamente nella direzione sbagliata", ha detto Taleb nel corso di un'intervista rilasciata a Bloomberg. "Vorrei una riforma, qualcosa di drastico. Questo piano, cosi' com'e', fallira'".
Geithner ha proposto di aiutare le banche senza fare ricorso alla nazionalizzazione, lanciando un programma di investimento, che prevede un'alleanza tra pubblico e privato, che ha l'obiettivo di rilevare gli asset cattivi delle banche. Secondo Taleb i leader del Gruppo dei 20 paesi industrializzati, che sono riuniti a Londra, non sono preparati a risolvere i problemi del sistema finanziario globale perche' non comprendono veramente come funzionano i mercati e quali sono i fattori alla base della crisi del credito che hanno provocato $1.2 mila miliardi di perdite e di svalutazioni.
Dopo il libro pubblicato da Taleb nel 2007, "Il Cigno nero: come l'improbabile governa la nostra vita", gli eventi rari e imprevedibili vengono comunamente definiti "cigni neri". Taleb e' un professore di risk engineering alla New York University e anche consulente di Universa Investments LP, societa' californiana fondata nel 2007 da Mark Spitznagel.
Sempre secondo il "cigno nero", il piano del Tesoro non e' corretto nei confronti dei contribuenti e premia quelle banche che non sono riuscite a prevedere la gravita' dei rischi presi quando hanno usato il proprio debito per alimentare i propri profitti nel mercato dei mutui.
"Non capisco perche' io, in qualita' di contribuente, dovrei aiutare quelli che hanno fallito, concedendo loro la possibilita' di ricostruire i propri bilanci. I contribuenti si accollano le conseguenze negative e Wall Street come al solito quelle positive, un altro classico problema della condivisione delle perdite e della privatizzazione dei guadagni".
Taleb definisce "scioccante" che il governo permetta alle banche di stimare il valore degli asset tossici rimasti nei loro bilanci, perche' non c'e' alcun mercato per quei titoli, il che rende quasi impossibile gli sforzi tesi a misurarne il valore.
"Dopo la dimostrazione di incompetenza delle banche, non capisco il motivo della reintroduzione della regola mark-to-market di contabilita' degli asset. Perche' invece non diamo la possibilita' alla gente di dare alla propria casa il valore che loro pensano abbia?"

 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

Nessuna svolta per l’occupazione americana

Friday, 2 April, 2009 at 16:43 - Stati Uniti - by phastidio
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Poiché in questi giorni di mercati euforici (non è ancora chiaro il motivo, a dire il vero: è auspicabile non sia per il mark-to-fantasy), ci si fa coraggio ripetendo davanti allo specchio che l’occupazione è un indicatore coincidente del ciclo economico (mentre la disoccupazione è più propriamente un lagging indicator), e quindi potremmo anche aver svoltato pur continuando a perdere impieghi, il dato di oggi sul mercato del lavoro americano in marzo dovrebbe essere accolto come un autoironico business as usual, per chi un business ce l’ha ancora. Ma sarebbe comunque un errore. In primo luogo perché perdere 5,3 milioni di occupati negli ultimi 12 mesi, di cui la metà circa negli ultimi quattro, non è un evento marginale. Si è soliti sostenere (con ragione) che i dati vanno rapportati al totale della forza lavoro: ebbene, anche con questa metrica non siamo messi benissimo. I 3,7 milioni di impieghi persi negli ultimi sei mesi sono pari al 2,7 per cento del totale degli occupati, il secondo peggior risultato in cinquant’anni.
Riguardo l’occupazione come indicatore coincidente, vi sono alcune sue componenti che in realtà tendono ad anticipare il ciclo, come il totale delle ore lavorate e i temporary help: purtroppo, sono entrambe in contrazione. L’indice delle ore lavorate, in particolare, è sceso a marzo al livello di 93,6, contro il valore di 100 al picco. Si tratta di un calo peggiore rispetto al 94,2 che l’indice ha toccato nel corso della recessione del 1981-82, e quasi in linea con il livello di 92,5 della recessione del 1974. Aggiungiamoci la lieve riduzione dei guadagni settimanali medi, e vediamo quanto difficile possa essere immaginare una qualche forma di trazione proveniente dai consumi delle famiglie. Se proprio vogliamo pensare positivo per la congiuntura, e quindi per l’occupazione (futura), possiamo considerare che l’imponente processo di destocking (cioè di svuotamento del magazzino) in atto, che nel breve porterà ad una ulteriore gelata della produzione industriale, finirà col migliorare il flusso di cassa delle imprese, e da quel punto il peggio potrebbe essere alle spalle. Sperando di non voltarsi e scoprire il deserto.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

E’ ufficiale. La crisi tocca l’uomo comune

02/04/2009 16.22 - di Sara Silano
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“Banchieri e finanzieri vestitevi casual”. E’ l’invito che è stato rivolto dalle forze dell’ordine a chi lavora nella City, in occasione del G-20 di Londra. In giacca e cravatta o tailleur, infatti, avrebbero potuto diventare un facile bersaglio delle migliaia di manifestanti che hanno preso d’assedio il cuore della finanza londinese per protestare contro l’”ingordigia” delle istituzioni creditizie.

Le manifestazioni nella City hanno confermato che la crisi, cominciata come finanziaria ha poi intaccato l’economia reale ed è entrata nella vita quotidiana delle persone. In particolare di chi ha perso gran parte dei propri risparmi o il posto di lavoro per colpa di un sistema cresciuto al di sopra delle sue possibilità e che è esploso manifestando tutte le sue contraddizioni: stipendi e bonus stellari, eccesso di indebitamento e di ingegneria nella costruzione dei prodotti.

Oggi, il lato più doloroso e preoccupante della recessione è la perdita di posti di lavoro. La Banca mondiale ha lanciato l’allarme per una unemployment crisis, ossia una crisi dell’occupazione che rischia di spegnere i timidi segnali di una stabilizzazione dell’economia. Nei giorni scorsi, l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha presentato un rapporto, nel quale si prevede che il tasso medio di senza-lavoro possa raggiungere il 10% nel 2010, superando quello toccato durante gli shock petroliferi degli anni ’70.

Le ultime statistiche sui Paesi più industrializzati indicano che quasi 7,2 milioni di lavoratori si sono aggiunti ai precedenti disoccupati tra gennaio 2008 e gennaio 2009. Negli Stati Uniti, il tasso a marzo potrebbe toccare l’8,5%, ai massimi dell’ultimo quarto di secolo. Nell’area Euro, a febbraio è stata raggiunta una percentuale analoga: in un solo mese hanno perso il posto 319 mila persone, portando a 19,1 milioni il totale dei senza-lavoro. In Giappone, i numeri sono più bassi (4,4% a febbraio), ma ai livelli più alti degli ultimi tre anni. Il problema tocca anche i Paesi emergenti. L’Ufficio di statistica cinese ha annunciato che i lavoratori migrati nelle città dalle zone rurali che non hanno un’occupazione sono circa 25 milioni.

La disoccupazione è la spina nel fianco di un’economia che cerca la strada della ripresa, dovendo anche fare i conti con le turbolenze dei mercati azionari che sono ben più forti del passato. Tra gli analisti c’è chi vede il bicchiere mezzo vuoto, per cui la situazione potrebbe ulteriormente peggiorare e chi vede il bicchiere mezzo pieno, per cui potremmo aver toccato il fondo. Michael Darda, capo economista di MKM Partners, considera il numero di richieste di disoccupazione come un importante anticipatore dell’inversione di un trend, insieme alla curva dei rendimenti dei titoli di Stato e alla disponibilità reale di moneta. Purtroppo, i dati rivelano che siamo ancora in recessione piena, la peggiore del dopo-guerra, e bisognerà attendere probabilmente il 2010 per vedere qualche segnale di miglioramento. Per i leader del G-20, dunque, la priorità ora è salvaguardare i posti di lavoro, perché il problema non tocca solo i mercati finanziari, ma è una questione sociale. In questo senso, gli episodi di protesta in Francia sono ancor più eloquenti degli scontri londinesi.

 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

  Venerdì 03 Aprile 2009   Domenica 05 Aprile 2009   Martedì 07 Aprile 2009  
       
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  Paradisi fiscali, si svuota la lista nera

08 Aprile 2009 09:57 MILANO - di Attilio Geroni e Lino Terlizzi

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La pressione del G20 di Londra comincia a produrre i suoi effetti. Il segretario generale dell'Ocse, Angel Gurria, ha annunciato ieri a Parigi che non vi è più alcun Paese sulla lista nera dei paradisi fiscali. In pochi giorni Uruguay, Costarica, Filippine e Malaysia sono stati "spuntati" da questo elenco dopo aver preso l'impegno formale per uno scambio di informazioni sulla base degli standard internazionali fissati proprio dall'Ocse. È un passo importante, come ha riconosciuto Gurria durante la conferenza stampa tenuta al termine dell'incontro con il commissario europeo responsabile della fiscalità e delle dogane, l'ungherese Laszlo Kovacs
Ma è soltanto il primo di un lungo cammino verso la trasparenza. Passare dalla lista nera a quella grigia, in compagnia di Paesi come la Svizzera, il Lussemburgo e il Lichtenstein, significa, in concreto, adeguare parti importanti delle rispettive normative fiscali ai criteri dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo. In realtà è la lista grigia, formata a questo punto da 42 Paesi, a richiedere i maggiori sforzi di persuasione e monitoraggio della comunità internazionale e dell'Ocse. L'ulteriore promozione alla lista bianca si guadagna quando un Paese ha firmato accordi bilaterali sullo scambio di informazioni con almeno 12 dei 30 Paesi aderenti all'organizzazione: «È chiaro che non saremo soddisfatti se dodici paradisi fiscali raggiungeranno accordi con altrettanti centri finanziari offshore», ha puntualizzato Jeffrey Owens, direttore Ocse per la politica fiscale. «Gli impegni sono solo un primo passo. Siamo più interessati alla loro realizzazione», ha rincarato il commissario europeo Kovacs.
Angel Gurria ha in sostanza dribblato le domande (numerose) dei giornalisti svizzeri sul perché, al termine del vertice di Londra, centri offshore come Macao e Hong Kong si siano ritrovati fuori lista per finire in una nota a margine come «Regioni amministrative speciali che si sono impegnate a mettere in pratica gli standard internazionali riconosciuti». L'Ocse si è limitata a replicare che la lista è fondata su criteri oggettivi. Sanzioni potrebbero essere applicate a chi non rispetta gli impegni, anche se queste - ha sottolineato il segretario generale - restano una prerogativa dei governi. Tra le misure di ritorsione figurerebbero le ispezioni ulteriori per quanti ricorrono ai centri offshore e una riduzione dei benefici fiscali legati alle attività economiche in questi territori.
Nonostante l'annuncio ad effetto di ieri, alcuni esperti restano scettici poiché uscire dalla lista nera è relativamente facile grazie ad una dichiarazione d'intenti, sia pur vincolante. L'importante, sostengono, è che si assottigli rapidamente la lista grigia, dove le trattative tra singoli Stati rischiano di essere lunghe. È da oltre un decennio che l'Ocse ha cominciato a lavorare sui paradisi fiscali, all'indomani della crisi asiatica. Stavolta l'organizzazione può beneficiare di un sostegno politico planetario e in un contesto di crisi economica senza precedenti che ha reso ancora più necessario il recupero delle risorse sottratte ai governi nazionali. Secondo stime ufficiose gli assets nei centri offshore ammonterebbero ad una cifra compressa tra i 1.700 e gli oltre 11mila miliardi di dollari.

Il vertice Usa-Svizzera La Svizzera inizierà il 28 aprile prossimo i negoziati con gli Usa per la revisione dell'accordo fiscale sulla doppia imposizione. L'annuncio è venuto da Washington, Berna ha confermato. Sarà il primo passo della Confederazione in direzione dell'inserimento nelle intese esistenti della sua adesione ai criteri dell'Ocse per la lotta all'evasione fiscale. Un allentamento consistente del segreto bancario, che sin qui poteva essere levato per assistenza in caso di frode fiscale, non di evasione. La Svizzera ha accordi fiscali bilaterali con 74 Paesi e dovrà rivederne almeno 12, per cominciare ad uscire dalla lista grigia ed approdare a quella bianca dei Paesi considerati pienamente cooperativi dall'Ocse. Oltre che con gli Usa, Berna ha già avviato colloqui con il Giappone. Il Governo elvetico ha contattato anche Cina, Russia, Brasile. Sul fronte europeo, molti i Paesi già sondati da Berna, tra cui Francia e Italia. Ma la vera notizia sul versante Ue è ora la ripresa dei contatti a questo riguardo con la Germania, Paese che nelle scorse settimane aveva duramente attaccato il segreto bancario elvetico.
Il Governo svizzero oggi si riunisce ed all'ordine del giorno c'è anche lo sviluppo di questa fase negoziale, che per Berna ha l'obiettivo di sancire la sua uscita dalla lista grigia, mantenendo però il segreto bancario, pur emendato. Se da un lato la Svizzera tiene fede agli impegni presi, dall'altro però non mancano le critiche all'Ocse. Il ministro elvetico degli Esteri, Micheline Calmy-Rey – che tra l'altro ha incontrato a Istanbul il presidente Usa Obama, come mediatrice tra Turchia e Armenia – ha affermato che quella uscita dall'Ocse dopo il G20 di Londra è una "lista politica". Un riferimento indiretto al fatto che piazze come Hong Kong e Macao non hanno impedito la presenza della Cina nella lista bianca, così come le Isole del Canale ed i trust londinesi non hanno impedito quella del Regno Unito e alcune isole caraibiche ed il Delaware quella degli Usa. Secondo Berna ci sono stati criteri diversi, insomma, da quelli usati ad esempio per Svizzera, Austria, Lussemburgo.
In ogni caso, non è certo privo di significato che il primo negoziato sia con gli Usa. Washington negli ultimi mesi non ha risparmiato attacchi al segreto bancario elvetico. Inoltre, negli Usa è ancora aperta la vicenda giudiziario-fiscale che ha coinvolto Ubs, la maggior banca svizzera, accusata di aver favorito evasioni o frodi fiscali. La banca ha pagato una multa di 780 milioni di dollari ed ha consegnato una lista di 255 clienti Usa. Ma il fisco americano vuole molte migliaia di nomi. La tensione c'è ancora e lo prova anche il fatto che Ubs ha vietato i viaggi di lavoro fuori dalla Svizzera ad un migliaio di suoi gestori, in attesa che la situazione si chiarisca. Martin Liechti, ex manager Ubs, era stato brevemente arrestato negli Usa, l'anno scorso, proprio in relazione alla indagine fiscale.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Obama: le glorie d'Europa e i guai di Washington

09 Aprile 2009 02:32 MILANO - di Mario Margiocco

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Il successo del viaggio europeo di Barack Obama, ben riuscito come immagine e con risultati concreti al G 20, fornisce capitale prezioso al Presidente americano. Sulla scena interna infatti, e sul tema cruciale della finanza, i problemi non diminuiscono. Anzi, aumentano. Quella che è stata finora la strategia di Obama, del suo ministro del Tesoro Timothy Geithner, e del suo superconsigliere Lawrence Summers, lavorare cioè con il management attuale delle grandi banche e finanziarie, rischia di risultare difficile. Non è ormai solo la piazza populista a chiedere il licenziamento dei top manager. Ma anche il Congresso.
Con un Rapporto presentato martedì 7, il Congressional oversight panel voluto a ottobre dal Congresso per controllare l'utilizzo dei 700 miliardi della Tarp, il fondo per alleggerire le banche dagli asset tossici, chiede la testa del top management dei gruppi che ricevono aiuti ingenti. Secondo quanto riferiva già domenica il settimanale britannico The Observer, del gruppo Guardian, che ha anticipato la notizia, Elizabeth Warren, presidente del Panel, avrebbe citato espressamente i vertici di Aig e Citigroup, che hanno ricevuto la prima 173 miliardi e la seconda 45 miliardi più 316 di garanzie sui prestiti. Citigroup è di fatto nazionalizzata, con 25 miliardi di aiuti trasformati a fine febbraio nel 36% di azioni ordinarie. Domenica in tv Geithner ha detto di essere disposto a cambiare il management di chi riceverà aiuti in futuro, ma non è stato convincente.

La signora Warren, che insegna legge ad Harvard ed è nota per la sua indipendenza, non ne fa solo una questione di giustizia e di tutela dei soldi del contribuente. Dichiara, a parziale salvaguardia di questi ultimi, che gli azionisti delle imprese decotte devono essere azzerati e non possono pretendere di venir salvati dalla Stato. Ma l'attacco vero è al principio stesso del Ppip, il Public–private investment program (piano Geithner), che dovrebbe utilizzare i 210 miliardi ancora disponibili della Tarp per avviare l'acquisto da parte dei privati, all'asta, dei fondi tossici di chiunque sia disposto a metterli in vendita. Le operazioni sarebbero alla fine garantite al 90% e oltre dallo Stato se i titoli poi non si apprezzeranno, mentre i profitti andrebbero al 50% ai privati se invece vi saranno utili. Alla fine, in molti casi, un salvataggio garantito dallo Stato dietro la foglia di fico del privato.
Elizabeth Warren difende il principio di una nazionalizzazione fatta "in modo strutturale" e non caso per caso, come nel non esemplare modello giapponese. Di fatto, chiede che si decida presto quale banca può camminare con le proprie gambe, e quale no. Dei cinque membri del panel i due repubblicani si sono dissociati. Resta quindi un documento dove sono i democratici a seguire una linea diversa da quella dell'Amministrazione democratica.

Anche le modalità di attuazione della Ppip rischiano di esporre l'amministrazione Obama ad accuse di eccessiva vicinanza a Wall Street, già abbondanti da parte della sinistra democratica e nonostante la forte popolarità personale del Presidente. Secondo un articolo pubblicato con risalto il 4 aprile dal Washington Post, il Tesoro sta aggirando la norma posta dal Congresso per porre un limite ai guadagni dei manager delle banche e finanziarie che dovessero trarre vantaggio dalla Ppip. Formalmente l'utile andrebbe a una società terza, già prevista dalla legge per gestire i titoli acquistati. E quindi i bonus non sarebbero a rischio. "Stanno cercando di aggirare la volontà del Congresso, ma credo che i tribunali troveranno la cosa ridicola", è stato il commento di David Zaring, un ex avvocato dello Stato.
Purtroppo il sentimento populista, sempre presente negli Stati Uniti dove è l'altra faccia della dignità del common man, rischia di crescere molto. Le cifre in ballo e chieste al contribuente sono enormi: la sola Tarp ad esempio vale di più, con i suoi 700 miliardi, dell'intero costo della guerra del Vietnam, in dollari attuali. E l'intero arsenale finanziario messo in atto per il salvataggio e il rilancio, solo in parte speso, in parte notevole in teoria recuperabile, è pari finora a 12,8 mila miliardi di dollari, 3,5 volte di più di quanto il Paese spese, in dollari di oggi, per la Seconda guerra mondiale.

Una terza notizia, quella dei cinque milioni di dollari guadagnati in poco più di un anno da Lawrence Summers, direttore del National economic council e superconsigliere di Obama, non aiuta. Summers è stato ministro del Tesoro con Clinton e fino a un anno e mezzo fa ha creduto alle virtù della nuova finanza, di cui è stato fondamentale artefice al Tesoro. Summers ha ricevuto la cifra, nel 2008, come part-time managing director dell'hedge fund D.E.Shaw &Co., il più aristocratico di Manhattan, tutto matematica finanziaria, elitario e fino a ieri florido. Come minimo per entrarvi occorreva essere stato un Fulbright graduate student. Ora ha già accettato un po' di fondi federali. In più, Summers guadagnava nel 2008 circa 2,7 milioni come conferenziere presso banche e finanziarie che poi hanno spesso ricevuto miliardi dallo Stato, Citigroup e Goldman Sachs in testa. Finora la notizia, data con un certo risalto solo da Washington Post e New York Times, non è ancora entrata nel tritacarne televisivo. Ma i blog progressisti, che non amano Summers, sono all'attacco. Il ruolo di Summers presso D. E. Shaw era quello di procurare facoltosi clienti, come ben ricorda chi l'ha visto in azione a Dubai nel novembre 2007. E' Summers credibile come co-stratega delle nuove regole di Wall Street? La quantità degli asset tossici da ripulire intanto sale. Non saranno pari a circa 1000 miliardi, nel sistema americano, ma ad oltre i 1500, calcola ora l'Fmi. Gli Stati Uniti hanno trattenuto infatti circa la metà dei loro titoli tossici, calcolati a 2,2 mila miliardi prima dal Fondo, e ora sembra a 3,1 mila; il resto è stato venduto all'estero.

Seguire le complessità del salvataggio finanziario è, per l'elettore medio americano, piuttosto complicato. Ma visto che il contribuente è chiamato e saldare il conto, e solo il contribuente finora nella strategia di Washington, con Bush e con Obama, presto le idee diventeranno più chiare. A quel punto il chi paga, il chi ha guadagnato ieri, il chi guadagna dal salvataggio diventeranno, purtroppo, l'unico rozzo ma inevitabile metro di giudizio. E qui ci sarà la battaglia politica. Il Sole 24 Ore da mesi scrive, senza ambiguità, che dati i loro trascorsi né Lawrence Summers, né Timothy Geithner, assai meno compromesso ma frutto della stessa squadra, difficilmente potranno reggere il colpo.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

Notizie buone ma non troppo

Thursday, 9 April, 2009 at 20:22 - di by phastidio
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Nel mese di febbraio il deficit della bilancia commerciale statunitense si è fortemente contratto, portandosi a 26 miliardi di dollari dai 36,2 miliardi in gennaio. Il risultato è frutto di un vero e proprio collasso delle importazioni e da un lievissimo aumento dell’export, il primo da luglio 2008, probabilmente frutto di rumore statistico. Il deficit è sceso al minor livello da novembre 1999. Questi numeri potrebbero contribuire ad aumentare il Pil americano del primo trimestre 2009 di 1-2 punti percentuali. Tutto bene, quindi? Non proprio.
Il collasso delle importazioni del primo trimestre riflette sia la debolezza nella domanda finale statunitense che il crollo dei flussi di commercio estero a seguito della stretta creditizia: negli ultimi tre mesi import ed export sono crollati al passo annualizzato del 38 per cento. Tuttavia, poiché in valore assoluto le importazioni americane sono molto maggiori dell’export, queste flessioni hanno prodotto un forte restringimento del deficit commerciale. Oggi gli Stati Uniti sono impegnati in un’imponente processo di liquidazione delle scorte che sta forse iniziando a dare i primi frutti, come segnalato dai recenti dati sulle scorte all’ingrosso, e dalla riduzione del quoziente tra scorte e vendite. Il decumulo delle scorte si riflette pesantemente anche sulle importazioni: il dato di febbraio mostra forti riduzioni soprattutto nell’import di forniture industriali e beni capitali, al netto delle auto. Ma esiste un rovescio della medaglia: su base annuale le importazioni dal Giappone sono in calo del 50 per cento, una caduta che corrisponde a quella dell’export giapponese. Le importazioni dall’Eurozona e dal bacino del Pacifico sono in calo del 30 per cento, sia pure non corrette per la stagionalità.
Al miglioramento del saldo commerciale americano sta inoltre vistosamente contribuendo il petrolio. In valore nominale, nel primo bimestre 2009 le importazioni petrolifere medie erano pari a 15 miliardi di dollari al mese, 20 in meno dello stesso periodo del 2008 e oltre 30 in meno rispetto al picco dell’estate scorsa. Ma anche in valore reale, cioè in volume, l’import petrolifero è in calo del 6 per cento su base annua. Questo significa che i minori prezzi petroliferi non hanno rivitalizzato la domanda, a causa della gravità della crisi.
Ha quindi ragione Brad Setser: gli americani stanno esportando la propria recessione. Chi pensa che alla fine di questa crisi ci sia il ritorno al business as usual del consumatore compulsivo americano che risolleva l’export di Cina, Giappone e Germania farebbe bene a ricredersi.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

Bad bank tedesca per sconfiggere la crisi

10/04/2009 - di MIAECONOMIA
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Si sta facendo strada in Europa l’idea di una bad bank di Stato, che raccolga i titoli tossici e ripulisca il bilancio delle principali banche del Paese. A conferma c’e' l’indiscrezione che la Germania stia valutando la creazione di una bad bank che abbia il sostegno dello stato e che si faccia carico delle centinaia di miliardi di euro di prestiti problematici.

Il Governo tedesco e’ gia’ intervenuto direttamente nel capitale di Hypo Real Estate e Commerzbank per sostenere i due istituti e salvarli dal fallimento. Ma la creazione di una bad bank direttamente dipendente dallo stato, sarebbe una soluzione radicale. E comunque non l’unica a cui il governo tedesco sta lavorando. L’obiettivo e’ trovare una soluzioni per i prestiti problematici delle banche e fare ripartire il mercato del credito.

E comunque l’idea della bad bank piace al mercato. Ieri, nell’ultima seduta della settimana, la Borsa tedesca ha chiuso con un rialzo di quasi il 3%, con la performance migliore in Europa. Ovviamente i titolo bancari sono stati nell’occhio della speculazione. Commerzbank ha guadagnato il 7%, Deutsche Bank e’ salita di oltre il 5%.

Ma la creazione di una bad bank di stato non e’ una novita’. L'Irlanda ha appena creato una banca dove fara' confluire tutti gli asset immobiliari in portafoglio alle sei maggiori banche del Paese. E se necessario, lo stato assumera' anche il controllo della maggioranza delle due principali banche irlandesi. L'Irlanda e' cosi' il primo Paese della zona euro ad utilizzare una bad bank sponsorizzata dal governo per rimuovere gli asset tossici dal sistema bancario.
 

Fonte - MIAECONOMIA

 

 

Il domino delle banche Usa

13/04/2009 - di MIAECONOMIA
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E adesso bisogna registrare l’ultimo fallimento bancario targato Usa. Si tratta di una banca regionale del Colorado, la New Frontier Bank, che però non era un istituto da poco, visto che disponeva di 2 miliardi di dollari di attivi.

A questo punto siamo arrivati così a quota 23 banche statunitensi che dall’inizio dell’anno sono fallite, la New Frontier è sicuramente a oggi la più importante banca americana del 2009 a essere fermata dalle autorità finanziarie statunitensi, attraverso il Fdic. Il caso della New Frontier, per importanza, ha superato quello della californiana Merced Bank, che ha chiusi l’attività agli inizi di febbraio e che controllava qualcosa come 1,7 miliardi di dollari di attivi.

Il punto è che la Fdic di solito procede su una banca in difficoltà o alla soglia del fallimento cercando un concorrente sano disposto a intervenire, ma questa volta non è stato possibile fare nulla. Ecco perché l’organismo è stata costretto a mettere in piedi un istituto creato ad hoc, la Deposit Insurance National Bank of Greely (Dinb), che funzionerà solo per il prossimo mese con l’unico scopo di permettere ai clienti della banca fallita di trasferire i loro conti verso un altro istituto.

Non si tratta anche qui di cifre da poco, la New Frontier registrava depositi per 1,5 miliardi di dollari e si trovava, mentre per la Fdic si tratterà di affrontare costi per 630 milioni di dollari legati al caso della banca del Colorado.

Cifre che si vanno a sommare a quelli di un altro fallimento, in pratica arrivato in contemporanea con quello della New Frontier, ovvero quello della Cape Fear Bank, una banca regionale della Carolina del Sud., banca che contava su 492 milioni di dollari di attivi e 4023 milioni di depositi. In questo caso l’Fdic ha trovato l’appoggio della First Federal Savings and Loans Association (Carolina del Nord), una cassa di risparmio che è subentrata alla Cape Fear e che ne manterrà aperte le agenzie.

Che le operazioni di intervento della Fdic si stiano moltiplicando è sottolineato anche da un dato: l’agenzia dall’inizio dell’anno ha speso ben 5 miliardi di dollari per salvare i depositi dei piccoli risparmiatori nelle banche fallite.
 

Fonte - MIAECONOMIA

 

 

 

 

 

 

  Venerdì 10 Aprile 2009   Domenica 12 Aprile 2009   Martedì 14 Aprile 2009  
       
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  Economia: sarà una ripresa a L o a U?

14 Aprile 2009 16:56 MILANO - di *Giuseppe Turani

*Giuseppe Turani e' editorialista di La Repubblica.

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La parola che fino a qualche settimana fa era quasi proibita ("ripresa") nei ragionamenti pubblici, adesso viene usata con crescente frequenza tanto dal presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, quanto dal governatore della Banca d´Italia, Mario Draghi. E anche i diaconi della Banca mondiale (gente tendenzialmente tendente al pessimismo) si spingono a dire, insieme a quelli dell´Ocse (altro santuario di non-ottimisti) che si intravedono debolissimi segnali di ripresa. Insomma, ci sono delle rondini primaverili (isolate) che arrivano e si fanno notare.
Come è ovvio, dopo tutti gli errori di appena un anno fa, la parola viene circondata da ogni possibile precauzione, ma intanto se ne parla. E fra gli esperti (dentro le pubblicazioni che girano solo sulla Rete e in circoli molto ristretti) infuria il dibattito sul tipo di ripresa in arrivo. A L, a U, o a V. Le differenze sono tante.

La ripresa a L, ad esempio, è una specie di non-ripresa: l´economia crolla verticalmente, come è successo adesso, e poi prosegue indefinitamente piatta. Smette di crollare, a un certo punto, ma poi si prosegue per lunghissimo tempo senza segnali importanti di vitalità. Un po´ come essere morti, senza esserlo, in coma, ecco. In un recente report, Goldman Sachs di fatto prefigura per l´area euro una sorta di crisi a L, con crollo dell´economia del 3,7 per cento nel 2009 e risalita allo 0,7 per cento nel 2010: linea piatta. La ripresa a U sarebbe quella preferita dagli economisti: si scende dolcemente e si risale altrettanto dolcemente, un ottovolante per moderati. Ma non trova sostenitori quasi più da nessuna parte, soprattutto perché, se sta nei libri di teoria, poi è stata constata nei fatti poche volte.
La ripresa a V è, ovviamente, quella preferita dal mercato e dai governanti. Magari si scende molto bruscamente, ma poi si rimbalza altrettanto velocemente e nel giro di pochi mesi nessuno si ricorda più della crisi precedente perché è impegnato a lavorare, a fare carriera o a fare soldi comunque. La ripresa a V si spiega, dal punto di vista teorico, sostenendo che, quando la crisi è molto forte, i magazzini delle aziende si svuotano fino all´inverosimile e i consumatori bloccano gli acquisti così in fretta che poi sorge spontaneo il bisogno di tornare a produrre per mettere qualcosa nei magazzini e per soddisfare la domanda arretrata dei cittadini-consumatori.
A questo genere di ripresa, a V, sembrano credere gli esperti di Credit Suisse, che, ad esempio, per il mondo nel suo insieme vedono un crollo dello 0,5 per cento nel 2009 (al posto della solita crescita del 5 per cento), con balzo al 3,7 per cento di aumento del Pil nel 2010. Per gli Stati Uniti, nello scenario a V di Credit Suisse, si va da un -2,4 per cento del Pil nel 2009 a +3,5 per cento nel 2010 (quindi ripresa piena e abbondante, per un paese maturo).
Insomma, il dibattito fra i sostenitori di un´imminente ripresa bruciante o moderata è più vivo che mai. La verità è che nessuno sa bene che cosa stia succedendo, visto che tutti quelli che oggi parlano di uscita dalla crisi e di imminente ripresa, ancora venti giorni fa lanciavano segnali di forte appesantimento della situazione economica e di gravissimi pericoli dietro l´angolo.
Tutto ciò che sappiamo è che, a questo punto, è ragionevole attendersi un po´ di ripresa sul finire del 2009 (a seconda dei paesi, prima negli Stati Uniti, poi in Europa) e un suo successivo consolidamento nell´anno successivo. E, probabilmente, non sarà a L, a U o a V. Sarà semplicemente un po´ faticosa e stentata, come quando si cerca di tirare fuori una macchina che è finita nel fango: un po´ corre e un po´ si ferma di nuovo. E questo perché questa crisi ha ferito seriamente il sistema finanziario internazionale (senza il quale non si hanno produzione e investimenti adeguati) e ha incrinato la fiducia di centinaia di milioni di consumatori.
Nessuno corre dopo una brutta influenza. E meno che mai dopo una polmonite. Si comincia con pochi passi prudenti, e ogni tanto ci si ferma a tirare il fiato.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

  Lo pseudo capitalismo di Obama

14 Aprile 2009 23:53 NEW YORK - di Joseph Stiglitz

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La proposta dell’Amministrazione Obama di investire 500 o più miliardi di dollari per sistemare le banche americane in sofferenza è stata descritta nei mercati finanziari come un’operazione win-win-win, dove tutte le parti coinvolte vincono e nessuna perde. In verità è una proposta win-win-lose: vincono le banche, vincono gli investitori, ma perdono i contribuenti.
Il Tesoro americano spera di tirarci fuori da questo pasticcio replicando i metodi con cui il settore privato ha fatto crollare il mondo, cioè un eccesso di indebitamento nel settore pubblico, un eccesso di complessità, incentivi scarsi e mancanza di trasparenza.
Proviamo a ricapitolare le cause dell’attuale disastro. Le banche sono finite - e hanno fatto finire noi - nei guai eccedendo nell’indebitamento, cioè utilizzando una parte relativamente piccola del loro capitale e prendendone a prestito una molto grande per comprare titoli immobiliari ad altissimo rischio. Per farlo hanno usato strumenti altamente complessi, come le obbligazioni collaterizzate di debito.
La prospettiva di alti guadagni ha dato ai manager l’incentivo a essere miopi e ad assumere rischi eccessivi, anziché prestare il denaro con oculatezza. Le banche hanno fatto questi errori senza che nessuno lo sapesse, anche perché molti erano finanziamenti «fuori bilancio».
In teoria il piano dell’Amministrazione Obama lascia che sia il mercato a determinare il prezzo dei «titoli spazzatura» delle banche - compresi i prestiti per la casa e i titoli basati su quei prestiti. La realtà, però, è che il mercato non valuterà gli asset tossici in sé, ma le opzioni su quegli asset. Le due cose hanno ben poco a che vedere l’una con l’altra. Il piano del governo comporta infatti l’assicurazione di quasi tutte le perdite, con la conseguenza che gli investitori privati, liberi dalle perdite, «valuteranno» innanzitutto i loro guadagni potenziali. Questo significa dare loro un’opzione.

Una discutibile partnership
Prendiamo un asset che abbia 50 per cento probabilità di valere, nel giro di un anno, o zero o 200 dollari. Il suo «valore» medio è perciò di 100 dollari, cioè il prezzo che spunterebbe in un mercato competitivo. Nel piano del segretario al tesoro Timothy Geithner il governo metterebbe circa il 92 per cento del denaro necessario a comprarlo ma riceverebbe solo il 50 per cento degli eventuali guadagni, assorbendo praticamente tutte le eventuali perdite. Che razza di partnership è mai questa?
Ipotizziamo che uno dei fondi pubblico-privati che il Tesoro ha promesso di creare intenda sborsare per quell’asset 150 dollari. Questo è il 50 per cento più del suo effettivo valore, e la banca è ben felice di venderlo. Il partner privato mette 12 dollari e il governo il resto - 12 dollari in «equity» più 126 dollari sotto forma di prestito garantito. Se, nel giro di un anno, il valore effettivo dell’asset diventa zero, il privato perde 12 dollari e il governo 138. Se invece il valore effettivo è di 200 dollari, il governo e il partner privato si dividono i 74 dollari che rimangono dopo aver restituito il prestito di 126.
In quel roseo scenario, il privato triplica il suo investimento di 12 dollari ma il contribuente, pur avendo rischiato 138 dollari, ne guadagna appena 37. Anche in un mercato imperfetto non si dovrebbe confondere il valore di un asset con il valore dell’opzione su quell’asset.
E’ però probabile che gli americani perdano ancora di più per via di quell’effetto chiamato «selezione avversa». Poiché le banche possono scegliere i mutui e i titoli da vendere, saranno inclini a vendere gli asset più tossici, in particolare quelli che, secondo loro, sono sovrastimati dal mercato. E’ però probabile che il mercato capisca il gioco e abbassi il prezzo che è disposto a pagare. Solo se un governo che si faccia carico di una quantità sufficiente di perdite riesce a contrastare la «selezione avversa». In questo caso il mercato non si preoccuperà se le banche lo «imbrogliano» vendendo i loro titoli peggiori, tanto paga il governo.

Il problema principale non è una mancanza di liquidità. Se lo fosse, basterebbe un programma molto più semplice: fornire fondi senza garanzie sul prestito. Il vero problema è che le banche hanno creato la bolla speculativa sui mutui subprime e hanno fortemente speculato con denaro preso a prestito. Hanno perso il loro capitale, e questo capitale dev’essere rifuso. Pagare il giusto valore di mercato per gli asset non basta. Solo pagandoli più del dovuto le banche verranno adeguatamente ricapitalizzate. Ma superpagare gli asset significa semplicemente spostare le perdite sul governo.
Alcuni americani temono che il governo possa «nazionalizzare» temporaneamente le banche, ma questa opzione sarebbe preferibile al piano Geithner. Dopo tutto la Fdci - Federal Deposit Insurance Corp, l’Agenzia governativa che svolge il ruolo di garante per i depositi presso le banche americane - ha già preso in precedenza il controllo di banche a rischio fallimento, e ha agito bene. Sono stati nazionalizzati anche grandi istituti come Continental Illinois (acquisito nel 1984 e tornato in mani private pochi anni dopo) e Washington Mutual (acquisito lo scorso settembre e immediatamente rivenduto).

Stimoli perversi
Quello che l’Amministrazione Obama sta facendo è peggio di una nazionalizzazione: è pseudo capitalismo, che privatizza gli utili e socializza le perdite. E’ una «partnership» in cui un partner rapina l’altro. Una partnership del genere - con il controllo nelle mani private - dà degli stimoli perversi, ancora peggiori di quelli che ci hanno portato nel caos attuale.
Allora, dove sta l’attrattiva di una proposta del genere? Forse è il tipo di «macchina di Rube Goldberg» che Wall Street adora - intelligente, complessa e non trasparente, che consente ingenti trasferimenti di ricchezza ai mercati finanziari. Essa ha permesso all’Amministrazione Obama di non dover tornare al Congresso a chiedere il denaro necessario a salvare le nostre banche, fornendo una strada per evitare la nazionalizzazione.
Il problema è che noi già soffriamo di una crisi di fiducia. Quando gli alti costi del piano Geithner diventeranno evidenti, ci sarà un’ulteriore erosione di fiducia. A quel punto il compito di ricreare un settore finanziario vivace, e di resuscitare l’economia, sarà ancora più difficile.
 

Fonte - Der Spiegel e La Stampa

 

 

 

 

 

LE PAROLE DEL CRACK

17 Aprile 2009 15:13 NEW YORK - di Suketu Mehta
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La vista dalla finestra del mio appartamento a New York si apre su due ground zero: a sinistra, l'epicentro dell'esplosione che ha cambiato il caratteristico profilo di Manhattan creando una voragine laddove sorgeva il World Trade Center e, a destra, nella zona circostante Wall Street, la capitale finanziaria del mondo, l'epicentro della crisi economica.
Otto anni di governo Bush - iniziato con il surplus di 128 miliardi di dollari tramandato dal precedente governo e conclusosi con una fuga che ha lasciato dietro un deficit di 10,6 migliaia di miliardi - ci hanno consegnato un sistema finanziario mondiale in rovina. Ricordo quando, nel 2006, mi recai presso una società che rilasciava mutui per sapere se potevo permettermi una casa. "Non ho un impiego fisso", cominciai a spiegare, "e il mio reddito può variare da un anno all'altro, per cui mi è difficile quantificare.". "Non importa", mi aveva interrotto il mediatore, "non occorre comunicare il suo reddito a chicchessia. Noi possiamo concederle un prestito che non prevede la presentazione di documenti". Ero rimasto stupito: le strade degli Stati Uniti dovevano davvero essere asfaltate d'oro, avevo pensato. L'oro degli stolti, come si rivelò in seguito.
Ora il mondo intero paga per il fatto che gli americani hanno pagato troppo per le loro case.
Ancora una volta, a soffrire di più sono i poveri. Sono 90 milioni le persone che potrebbero essere spinte sotto la soglia di povertà entro la fine del 2010 a causa della crisi, perché gli investitori dei paesi ricchi tengono lontano il loro denaro dai rischiosi mercati azionari dei paesi emergenti. Negli Stati Uniti, la recessione implica che le persone perdono il posto di lavoro e devono quindi lasciare la propria casa. In Africa la conseguenza è che le persone non avranno da mangiare e moriranno.
La facilità con la quale siamo stati ingannati può essere imputata per buona parte al linguaggio del mondo degli affari che è diventato incomprensibile quanto la messa in latino. Siamo vittime dei gerghi: di quello delle riviste accademiche, della giustizia, dei medici e del mercato finanziario. Solo pochissime persone conoscono il significato di 'derivati' o di 'credit default swaps'.
I banchieri hanno potuto derubarci restando nascosti dietro al muro del gergo. I legislatori che, si presume, abbiano il compito di vigilare sui banchieri, non capiscono il linguaggio di questi ultimi, com'è risultato evidente dalle recenti sessioni al Congresso sulla crisi. Ai grandi dirigenti della finanza, che testimoniavano davanti ai congressisti, hanno posto domande stupide e si sono superati a vicenda nell'esprimere la propria rabbia populista. I banchieri quindi si sono nascosti, ancora una volta, dietro al muro del gergo.
Quando le pagine economiche di un giornale diventano indecifrabili quanto una pubblicazione accademica occorre allarmarsi. George Orwell, ne 'La politica e la lingua inglese', ci aveva messo sull'avviso riguardo alla proliferazione del gergo, di un cattivo uso del linguaggio allo scopo di nascondere malefatte e tirannie. "Nel nostro tempo, i discorsi politici sono usati in buona parte per difendere l'indifendibile", scriveva Orwell. Ai nostri giorni, se sostituiamo la parola 'politici' con 'finanziari', ecco che otteniamo un giudizio netto sul linguaggio della moderna economia.
È qui dunque che assumono un ruolo centrale scrittori e giornalisti. Noi siamo gli intermediari, gli interlocutori e nessun altro può svolgere questo ruolo. È una nostra responsabilità sfondare il muro del gergo, vale a dire, ascoltare gli esperti finanziari e tradurre i loro discorsi in inglese o in italiano a beneficio di chi non ne è esperto. È una nostra responsabilità trasmettere al pubblico in generale (con parole comprensibili) le deliberazioni dei ricchi e dei potenti, in modo che tutti siano in grado di esprimere un giudizio informato sul perché sono stati presi in giro e incastrati.
Così come Tolstoj scrisse sulle guerre napoleoniche, così i nostri romanzi dovrebbero capire e parlare delle guerre finanziarie del XX secolo. La nostra democrazia dipende da ciò: dal fatto che le persone comuni capiscano il linguaggio delle élite.
traduzione di Guiomar Parada
 

 

Traduzione - di Guiomar Parada

 

Fonte - L'espresso


 
 

CRISI, MA QUALE CRISI?

17 Aprile 2009 14:35 NEW YORK - di Il Foglio
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La guerra non è guerra, la crisi non è crisi. Nel fantastico mondo di Barack Obama non c’è posto né per brutture di bushiana memoria né per dettagli noiosi su morti decapitati o peggio ancora sui disoccupati. La guerra al terrore non esiste, se l’era inventata Bush con la sua combriccola di brutti e cattivi, ora ci sono eroiche "operazioni d’emergenza oltremare" per difendersi non dagli attacchi terroristici ma dai "disastri causati dall’uomo".
Neppure la crisi esiste più, guai a chi dice il contrario. In nome dei barlumi di speranza che i leader illuminati di tutto il mondo ora intravedono all’orizzonte – vatti a fidare di questi leader, poi, che prima non avevano previsto niente, poi hanno previsto catastrofi e ora prevedono la fine della tempesta nel giro di qualche mese – sono bandite le espressioni pessimistiche.
Il ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, non parla più di "asset tossici", cosa che non deve pesargli più di tanto, dal momento che nessuno ha mai capito che cosa fossero veramente, men che meno quanto valessero: ci hanno costretti a imparare a leggere numeri con una quantità di zeri indicibile, e mai tanta fatica è stata così sprecata. La tossicità è evaporata, è finita chissà dove, ma non importa più di tanto, d’ora in avanti avremo a che fare soltanto con "legacy asset", asset ereditati, noi che colpa ne abbiamo? Si tratta semplicemente di gestirli, ma soltanto quando si apre il testamento, poi si sa che anche le migliori proprietà diventano catapecchie nelle mani degli eredi irresponsabili.
Il premier inglese Gordon Brown e il capo della Fed Ben Bernanke, ben più cervellotici e navigati del ministro dal viso d’angelo, hanno trovato il modo di indorare la pillola della regolamentazione dei mercati, tanto più che non si può essere paladini del mercato senza regole negli anni Novanta e dieci anni dopo prendersela con chi doveva controllare e non l’ha fatto – vero Mr Brown? Così le regole per ingabbiare i mercati, i paradisi fiscali, gli hedge fund e tutti i fondi che girano per il globo sono tatticamente diventate un semplice "controllo macroprudenziale", che non si capisce bene che cosa sia, ma fa tanto oculatezza e cautela e morigeratezza.
Il make up linguistico che tutto sistema e rende bello ha dato il meglio con la parola chiave. La "crisi finanziaria globale" secondo il Global Language Monitor è diventata "la ristrutturazione economica globale". La crisi fa paura, è un po’ colpa di tutti, ognuno se la prende con chi vuole, da Greenspan ai direttori di una concessionaria Fiat in Belgio ogni scusa è buona, ma se c’è chi ristruttura, chi mette in ordine, allora non c’è più bisogno dei forconi, ci si può fidare, qualcuno si prende cura di te, dormi pure tesoro.
 

Fonte - Il Foglio

 

 

QUATTRO MILA MILIARDI DI DOLLARI PER LE SVALUTAZIONI GLOBALI

21 Aprile 2009 15:51 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore
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E' il costo della crisi finanziaria in termini di svalutazioni di asset globali entro il 2010 secondo le stime del FMI. "Cruciale interrompere la spirale negativa tra sistema finanziario ed economia".
Il costo della crisi finanziaria in termini di svalutazioni di asset globali sarà di 4mila miliardi di dollari entro il 2010, di cui due terzi in carico alle banche. Lo scrive il Fmi nel suo ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria globale (Gsfr). La stima comprende per la prima volta gli asset originati su tutti i mercati, e non solo su quelli Usa, e detenuti da banche e altre istituzioni finanziari. Per i soli asset originati negli Usa la stima sulle potenziali svalutazioni è stata innalzata a 2.700 miliardi dai 2.200 miliardi del gennaio 2009 e i 1.400 miliardi di ottobre 2008.
Nel suo rapporto sulla stabilità finanziaria globale, diffuso in vista delli riunione del Fmi e della Banca mondiale in programma nel fine settimana, si afferma che «senza una totale ripulitura dei bilanci bancari, in termini di asset tossici», accompagnata da riorganizzazione e, se necessario, ricapitalizzazione degli istituti, i problemi delle banche potrebbero portare a nuove pressioni sull'economia reale. Il Fmi sottolinea che, trattandosi di stime su tutti gli asset originati in tutti i mercati maturi, le stime sulle svalutazioni globali sono soggette a un certo margine di incertezza, e aggiunge che il peggioramento relativo agli asset originati negli Usa è collegato al «deteriorarsi dello scenario di base sulla crescita economica». Descrivendo il panorama bancario, il rapporto afferma che «c'è stato qualche miglioramento sul mercato interbancario negli ultimi mesi», ma «continuano a persistere difficoltà nel reperimento di fondi» ed è in calo l'accesso delle banche a fonti di finanziamento di lungo termine a fronte delle proprie scadenze debitorie.
Anche se in molti Paesi gli istituti di credito possono emettere debito a lungo termine con garanzia pubblica, «il loro fabbisogno di finanziamento resta ampio». Di conseguenza, molte società non riescono a ottenere fondi per la gestione operativa e altre trovano risorse a lungo termine solo a rendimenti molto elevati. Il sistema finanziario globale «resta sottoposto a pesanti tensioni - sottolinea il Fondo nelle sue conclusioni dice il Fondo nel rapporto - a fronte di una crisi ormai diffusa alle famiglie, alle società e al settore bancario nei Paesi avanzati e nei mercati emergenti». Con la continua flessione dell'attività economica aumentano le pressioni sui bilanci bancari a fronte del peggioramento della qualità degli asset e questo minaccia i ratio patrimoniali e scoraggia l'attività di impiego. I tassi di crescita del credito rallentano, o diventano addirittura negativi, esercitando ulteriori pressioni sull'attività produttiva.
È assolutamente «cruciale», scrivono gli esperti del Fondo monetario che «venga interrotta questa spirale negativa tra il sistema finanziario e l'economia globale». I pesanti adeguamenti già avviati dal settore privato e i pacchetti di sostegno varati dai Governi «stanno portando a qualche iniziale segnale di stabilizzazione». Ma è necessario «agire ancora con forza» con un coordinamento a livello internazionale perché questo miglioramento si possa confermare, per riportare fiducia nelle istituzione finanziarie e nell'economia globale.
Per il Fondo, le tre priorità sulle quali è necessario agire subito sono assicurare l'accesso del sistema bancario alle necessarie liquidità, trovare e gestire gli asset "tossici" e ricapitalizzare quegli istituti che sono indeboliti, ma ancora gestibili, liquidando quelli per i quali non c'è più speranza. Qualche passo in avanti è stato fatto sul primo punto, soprattutto grazie al forte impegno delle banche centrali, ma per gli altri due le iniziative restano frammentarie e legate a singoli casi. L'esperienza fatta con passate crisi, sottolinea il rapporto, suggerisce che «sono necessarie misure più determinate ed efficaci da parte delle autorità pubbliche per gestire e risolvere le debolezze del settore finanziario». Riguardo al salvataggio di istituti di credito, l'Fmi raccomanda «un ruolo piùattivo da parte dei supervisori sulle possibilità di sopravvivenza delle banche in questione» e aggiunge che «le condizioni per ricevere fondi pubblici dovrebbero essere severe». Inoltre, nel quadro della ristrutturazione potrebbe rendersi necessario il temporaneo passaggio del controllo al Governo, anche al 100%, ma solo con l'obiettivo di ristrutturarlo e riportarlo nel settore privato «il più presto possibile». In questo contesto, «è importante» che sui principi alla base di questi salvataggi ci sia cooperazione tra gli Stati e una certa coerenza fra le loro azioni per evitare che si sconfini nell'arbitraggio regolatorio o nelle distorsioni competitive.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Sabato 18 Aprile 2009   Lunedì 20 Aprile 2009   Mercoledì 22 Aprile 2009  
       
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  200 milioni di persone finiranno in povertà

22 Aprile 2009 12:05 NEW YORK - di Joseph Stiglitz

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Quest’anno è verosimilmente il peggiore per l’economia globale dalla Seconda Guerra Mondiale: la Banca Mondiale prevede un calo complessivo del 2%. Ne avvertono l’impatto perfino i Paesi in via di sviluppo che hanno fatto ogni cosa nel modo giusto, con risultati macroeconomici e politiche normative migliori degli Stati Uniti. Con ogni probabilità, in conseguenza del drastico calo dell’export, la Cina pur continuando a crescere lo farà con un ritmo più lento dell’1112% degli anni più recenti.

A meno di fare qualcosa, altre 200 milioni di persone precipiteranno nella povertà. Questa crisi globale postula una risposta globale, ma purtroppo la responsabilità della reazione rimane a livello nazionale. Ogni Paese cerca di mettere a punto un proprio pacchetto di "stimoli" per ridurre al minimo l’impatto della crisi sui propri cittadini, non l’impatto globale.

Nel quantificare l’entità degli stimoli, i Paesi bilanceranno la spesa adeguandola ai loro budget e ai benefici che ne trarranno le loro economie in termini di crescita e di occupazione. Poiché alcuni di questi vantaggi si sommeranno ad altri, i pacchetti di stimolo saranno più scarni e più miseramente concepiti di quanto avrebbero potuto essere altrimenti, il che spiega per quale motivo sarebbe necessario un pacchetto di stimoli coordinato a livello globale.

È uno dei più importanti messaggi che la Commissione per la crisi economica globale formata da esperti delle Nazioni Unite che presiedo e che di recente ha sottoposto all’Onu un suo rapporto preliminare, si accinge a lanciare. Il rapporto approva molte delle iniziative del G20, ma esorta a varare provvedimenti più energici destinati ai Paesi in via di sviluppo.

Mentre si ammette che quasi tutti i Paesi dovranno varare provvedimenti di incentivo all’economia (siamo tutti keynesiani, ormai), molti Paesi in via di sviluppo non hanno le risorse per poter fare altrettanto, né le hanno le istituzioni internazionali deputate a prestare i capitali. Se abbiamo l’intenzione di evitare l’escalation di un’ulteriore crisi debitoria, buona parte dei finanziamenti deve assumere la forma di sovvenzioni. In passato all’assistenza ai Paesi in via di sviluppo si accompagnavano numerose condizioni, alcune delle quali imponevano politiche monetarie e fiscali restrittive e obbligavano altresì a una deregulation che è una delle cause profonde dell’attuale crisi.

In molte aree del mondo per ovvie ragioni rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale equivale ad attirarsi un certo biasimo. C’è insoddisfazione non soltanto da parte dei prestatori, ma anche dai potenziali fornitori di capitali. Le risorse delle liquidità si trovano oggi in Asia e in Medio Oriente, ma viene spontaneo chiedersi perché questi Paesi dovrebbero fornire capitali a organizzazioni nelle quali hanno poca voce in capitolo e che spesso hanno esercitato pressioni per politiche svantaggiose nei confronti dei loro valori e dei loro principi.

Molte delle riforme amministrative proposte da Fmi e Banca Mondiale, che plausibilmente avranno un impatto sulle modalità con le quali sono scelti i loro capi, sembrano sul tavolo. Ma il processo riformistico è lento e la crisi non aspetta. È pertanto imperativo garantire assistenza tramite una molteplicità di canali, oltre a quelli che l’Fmi escogiterà, o che escogiteranno istituzioni regionali. Si potrebbero creare nuovi istituti di prestito, con strutture e gestione consone al XXI secolo. Se si riuscirà a fare questo in tempi rapidi (credo sia possibile), questi enti potrebbero diventare un canale per elargire finanziamenti.

Al summit di novembre 2008 del G20 i leader hanno condannato il protezionismo e si sono impegnati a non lasciargli via libera. Purtroppo, da uno studio della Banca Mondiale emerge che 17 dei 20 paesi hanno varato misure protezionistiche, e tra essi in primis gli Stati Uniti con la loro clausola del "comprate americano" nel pacchetto di stimoli. I sussidi possono rivelarsi distruttivi quanto le tariffe doganali e ancor meno equi, in quanto i paesi ricchi possono concederseli più facilmente. I massicci sussidi e i piani di salvataggio in extremis messi a punto dagli Stati Uniti hanno cambiato tutto, forse in modo irreversibile.

Sono avvantaggiate in maniera ingiusta perfino le aziende dei Paesi industrializzati che non hanno ricevuto sussidi: possono correre rischi che gli altri non possono correre, sapendo che se dovessero fallire, potrebbero essere salvate e resuscitate in extremis. È facile comprendere gli imperativi politici che hanno portato a mettere a punto sussidi e garanzie, ma i Paesi sviluppati devono riconoscerne le conseguenze a livello globale, e fornire assistenza e risarcimento ai Paesi in via di sviluppo.

Una delle iniziative a medio termine più impellenti che la Commissione delle Nazioni Unite ha caldeggiato è la creazione di un Consiglio di coordinamento economico globale, incaricato non soltanto di armonizzare le politiche economiche, ma anche di vagliare i problemi incombenti e i gap istituzionali. Con l’acuirsi della crisi, molti Paesi potrebbero, per esempio, dover affrontare la bancarotta, ma noi non disponiamo ancora di un contesto adeguato per occuparci di simili problemi. Oltretutto sta per cedere il sistema delle riserve valutarie in dollari, ossatura del sistema finanziario globale.

La Cina ha espresso le sue preoccupazioni in proposito e il capo della sua Banca Centrale si è unito alla Commissione delle Nazioni Unite nell’esortare a studiare un nuovo sistema globale di riserve monetarie. La Commissione sostiene che affrontare questa vecchia questione – sollevata già 75 anni fa da Keynes – è di importanza cruciale se vogliamo preparare il terreno a una ripresa solida e stabile. Simili riforme non si fanno nell’arco di poche ore, ma a meno di impegnarsi e dedicarcisi subito non si realizzeranno mai.
 

Fonte - Project Syndicate 2009

 

 

 

  Barack Obama: per il Time "spettacolare" nei primi 100 giorni

23 Aprile 2009 20:06 NEW YORK - di APCOM

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La "cosa più importante che sappiamo di Barack Obama è che, dopo quasi 100 giorni (da quando è diventato ufficialmente presidente degli Stati Uniti), ha intenzione di trasformare la sabbia in roccia, quando è possibile". Così scrive il Time in un lungo articolo pubblicato oggi, che fa il punto della situazione di questi primi 100 giorni del governo di Obama, monitorando i risultati che il presidente americano ha finora raggiunto. Il Time parte dalle stesse parole che Obama ha proferito durante il discorso dello scorso 14 aprile alla Georgetown University di Washington D.C: discorso in cui, nello spiegare le sfide della sua presidenza, Obama ha dato sfoggio di tutta la sua capacità oratoria, attingendo anche al Discorso sulla montagna di Gesù nei Vangeli.

In un auspicio di natura quasi biblica, il presidente Usa ha infatti avvertito che l'America deve lavorare duro per risollevarsi da questo brutto momento, e soprattutto deve puntare su una nuova economia, che "non deve essere ricostruita su un cumulo di sabbia", ma "sulla roccia". Quel discorso ha colpito anche il Time che, nel valutare i progressi del presidente, parla della casa che il nuovo presidente americano ha costruito sulla roccia. "La sua casa costruita sulla roccia ha cinque pilastri: nuove regole per Wall Street, nuove iniziative sull'istruzione, sul sistema sanitario e sulle forme di energia alternativa, e alla fine anche risparmi nel budget orientati a ridurre il debito nazionale".

Certo, sottolinea il settimanale, questi cinque pilastri potrebbero sembrare di primo acchito piuttosto comuni. Ma poi, continua il Time, ci si rende conto che Obama non ha parlato finora soltanto di un nuovo modo di far politica, ma ha suggerito anche all'America un "nuovo sistema di valori nazionali". E a dimostrarlo è sempre il discorso di Gergetown, con cui ha lanciato un affondo contro "l'impazienza che caratterizza Washington", facendo notare anche che, "ogni volta che esplode una crisi, si passa troppo spesso da uno stato di shock a uno di trance, con ognuno che cerca di rispondere alla tempesta del momento fino a quando il furore non si estingue"; questo, "invece di affrontare le grandi sfide che forgeranno il nostro futuro, in modo concentrato e intenso".

Il Time parla dunque di Obama come di un presidente che nei suoi primi 100 giorni ha dimostrato di voler avviare "un cambiamento radicale non solo rispetto alla politica del suo predecessore, non solo rispetto all'era reaganiana durata 30 anni, ma anche rispetto a quella società dell'età post-moderna che va alla ricerca di soluzioni veloci, e che soffre di una mancanza di attenzione". Il settimanale si riferisce poi ai "risultati legislativi che sono stati raggiunti, e che sono stati stupefacenti". Il riferimento è al piano di stimoli per l'economia da 789 miliardi di dollari e alla proposta di legge finanziaria ancora in fase di lavorazione. Ma ci sono anche le nuove manovre concepite per risolvere la crisi finanziaria, che includono "interventi massicci nei mercati del credito e immobiliare, un piano basato sul mercato per l'acquisto degli asset tossici che molte banche hanno nei loro libri contabili, un piano per aiutare il settore automobilistico e un nuovo regime severo di regolamentazione per Wall Street".

Per non parlare dei cambi di strategie che, questo sempre in soli 100 giorni di presidenza, Obama ha avviato nei rapporti con Cuba e nella guerra in Afghanistan. "In un certo senso, i primi 100 giorni di Obama sono stati ancora più spettacolari di quelli di Roosevelt -, afferma Elaine Kamarck della Kennedy School of Government di Harvard - Roosevelt si è dovuto occupare solo di una crisi nazionale, mentre Obama ha effettuato anche una revisione nelle decisioni di politica estera, che si riferiscono anche a due guerre. E questo spiega il segreto del perché (la sua presidenza) sia sembrata così spettacolare".

E' forte, precisa il Time, la differenza tra Obama e il suo predecessore George W. Bush che mai avrebbe ammesso di aver sbagliato. Il settimanale Usa fa riferimento invece al candore del nuovo presidente, che non ebbe alcun problema nel fare mea culpa quando la scelta di Tom Daschle a ministro della Sanità si rivelò non proprio tra le più giuste (Daschle, leader democratico del Senato inizialmente scelto da Obama per guidare il dicastero, è stato costretto infatti a mettersi da parte dopo lo scandalo per il mancato pagamento di tasse e interessi dovuti complessivamente per 140.000 dollari). Laddove Bush risultava impacciato a parlare, Obama è praticamente un oratore nato e, ancora, il nuovo presidente americano non ha neanche problemi a parlare "candidamente dei fallimenti americani, sia quando viaggia nel paese che all'estero".

Così come Roosevelt e Reagan, per il settimanale Obama è riuscito insomma a cambiare "lo spirito della nazione, più di qualsiasi altra cosa". Detto questo, il Time fa notare però che lo spirito di una nazione può anche cambiare molto velocemente, soprattutto in un contesto di informazioni veloci come quello in cui viviamo. Dunque il timore è che, "questi primi 100 giorni possano apparire a un certo punto presagio di disastri, se le politiche finanziarie del presidente saranno inadeguate a risolvere la crisi"; e allo stesso risultato si arriverà anche se le strategie di politica estera si riveleranno inefficaci. In definitiva, "il destino del primo anno della presidenza di Obama sarà probabilmente determinato dal modo in cui il presidente gestirà quattro distinte sfide, due di politica estera e due domestiche.

E le sfide domestiche sono le più importanti, considerata la crisi finanziaria". Una è rappresentata dall'atteggiamento dei banchieri e dei dirigenti di Wall Street; se questi non accetteranno di cambiare il loro comportamento (e il riferimento è ai bonus dalle cifre astronomiche che, nonostante tutto, hanno continuato a essere erogati), allora "il piano finanziario di Obama potrebbe fallire". E a tal proposito il Time cita la "miniribellione" dei dirigenti di diverse società, che vanno da J.P. Morgan a Chrysler, e che "non vogliono ricevere i prestiti governativi perchè non vogliono rinunciare ai loro bonus". La seconda sfida domestica è rappresentata dall'atteggiamento invece del Congresso che, come ha dimostrato già nelle ultime settimane, potrebbe non soddisfare tutte le richieste di Obama. "Sappiamo che non ogni vagone che arriva (al Congresso) supera la frontiera", sottolinea un consulente di Obama usando una metafora. E in questo senso è grande la preoccupazione sulla fine che farà il "vagone" della riforma del sistema sanitario.

Riguardo alle due sfide di politica estera, una è rappresentata dall'incertezza su alcune scelte promosse dal presidente; nessun dubbio né sul capo del Pentagono, Robert Gates, nè sul segretario di Stato Hillary Clinton. Ma qualche perplessità esiste sulla scelta del consulente della sicurezza nazionale James Jones che, secondo alcune fonti, "presenzia ai meeting, senza però guidarli". C'è poi l'ultima sfida, che è quella di utilizzare nei rapporti di politica estera i canali diplomatici, ricordando però contestualmente a tutti che il presidente americano è un "leader forte". Insomma, conclude il Time, "Obama ha vissuto un momento eccezionale nell'annunciare le sue intenzioni". Ma il "vero gioco" inizia adesso. Dunque, per quanto questi primi 100 giorni siano stati spettacolari, lo stesso settimanale decide di andare al di là di questa tappa che per molti esperti ha alla fine più una risonanza mediatica che non reale
 

Fonte - APCOM

 

 

 

 

 

Draghi al Fmi: «Fase peggiore della crisi sembra superata»

25 aprile 2009 - di ILSOLE24ORE.COM
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Il Financial stability board, l'organismo creato dal G7 il 2 aprile per fronteggiare la crisi mondiale, guidato dal Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, ha definito le linee guida di intervento per riformare il sistema finanziario.
In particolare, come ha spiegato a Washington il governatore della Banca d'Italia in occasione del vertice del Foondo monetario internazionale, gli obiettivi prioritari prevedono il «rafforzamento della convergenza sugli standard contabili e il raggiungimento di un unico criterio di standard contabili di alta qualità». Per quanto riguarda gli hedge fund, il Fsb prevede «lo sviluppo e l'attuazione di un approccio coerente nella regolamentazione e alla supervisione». Occorre inoltre, secondo il perimetro di interventi illustrati dal Governatore, definire il perimetro della regolamentazione sui soggetti di importanza sistemica.
La fase peggiore della crisi economica e finanziaria mondiale, intento, sembra passata e si apre l'opportunità unica di intraprendere azioni per rafforzare le istituzioni e il sistema finanziario internazionale. Draghi, parlando in qualità di presidente del Financial Stability Board al Comitato Monetario e Finanziario del Fondo Monetario Internazionale, si è mostrato cautamente ottimista sull'evoluzione dell'economia internazionale, ma anche segnalato l'esigenza di «spezzare il circolo vizioso» tra il sistema finanziario e l'economia reale.
«Nelle ultime settimane - ha detto Draghi - siamo stati testimoni di una modesta ripresa della fiducia del mercato. E sembra che i peggiori scenari riguardanti le prospettive dell'economia globale e il sistema finanziario non sono più così importanti nelle menti degli agenti del mercato. Questo ci offre un'unica finestra di opportunità sia per azioni a breve termine per stabilizzare le istituzioni e per promuovere l'allargamento del credito, sia per attuare misure volte a rafforzare il sistema nel lungo periodo».

Riparare i bilanci delle istituzioni finanziarie «costituisce un elemento-chiave di ciò e le autorità hanno intrapreso una serie di azioni per iniettare capitale nelle banche, garantire le loro passività e ridurre o eliminare le loro esposizioni alle attività di cattiva qualità». Secondo Draghi «l'obiettivo ultimo di tali misure dovrebbe essere quello di creare un ambiente nel quale le banche sono capaci di riparare i propri bilanci attraverso una crescita sostenibile degli utili e reperendo il capitale di cui hanno bisogno dai mercati privati a un costo relativamente basso».
Ma questo significa anche «fornire sufficiente trasparenza sulle esposizioni al rischio per fare sì che il mercato possa distinguere con fiducia le banche forti da quelle deboli e riducendo le incertezze di mercato sul futuro trattamento delle differenti categorie di creditori. I test regolatori sullo stress (delle banche, ndr) sono una parte centrale di tale processo come lo sono gli sforzi sul miglioramento delle informazioni al mercato».
Secondo Draghi, inoltre, durante gli sforzi per far ripartire i mercati del credito «dovremmo essere particolarmente consapevoli del bisogno di conservare un sistema finanziario globale integrato. I flussi finanziari transnazionali sono scesi in modo eclatante sia per i Paesi avanzati che per le economie emergenti ma questo - ha puntualizzato il presidente del Fsb - non dovrebbe essere una preoccupazione nella misura in cui riflette un più ampio processo di riduzione del rischio e della leva debitoria. Ma dovremmo mantenere alta la guardia anche contro quelle azioni che senza necessità rinforzano questa tendenza e capovolgono l'avanzamento a lungo termine nella direzione di un'integrazione finanziaria globale».
 

 

Fonte - ILSOLE24ORE.COM

 

 

Regno Unito - Rischio disastro fiscale

Monday, 25 April, 2009 at 9:21 - by phastidio
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Lo scorso 22 aprile il Cancelliere dello Scacchiere (equivalente al ministro del Tesoro), Alistair Darling, ha presentato il bilancio annuale britannico. Il Tesoro si attende una contrazione dell’economia del 3,5 per cento quest’anno ed un rimbalzo pari all’1,25 per cento nel 2010. Stima peraltro in contrasto con quella del Fondo Monetario Internazionale, che prevede per il 2009 una calo del Pil del 4,1 per cento e dello 0,4 per cento l’anno prossimo. Le nuove proiezioni del governo di Londra ipotizzano un deficit cumulativo di 703 miliardi di sterline nei cinque anni fiscali fino ad aprile 2014, rispetto ai 434 miliardi previsti in novembre. Il deficit di bilancio previsto per quest’anno, pari al 12,4 per cento del Pil, sarebbe il peggior risultato dei conti pubblici in tempo di pace da oltre un secolo.
Darling ha affermato che il governo laburista mira a sostenere imprese e cittadini a basso reddito, aumentando la pressione fiscale sui redditi più elevati, e conta di riuscire a dimezzare il deficit in cinque anni. Tra le misure fiscali previste per conseguire l’obiettivo vi è la crescita delle accise sui carburanti per i prossimi quattro anni ad un passo superiore a quello dell’inflazione, iniziando con un rialzo di 2 pence al litro da settembre di quest’anno. Le accise su alcolici e tabacco sono state aumentate del 2 per cento con decorrenza immediata. Nel 2009 il tentativo di contenimento del deficit avverrà soprattutto attraverso l’aumento delle accise (con un gettito di 6 miliardi di sterline), mentre 3,2 miliardi dovrebbero venire dall’inasprimento della tassazione sul reddito per quanti hanno un imponibile superiore alle 100.000 sterline. In particolare, i contribuenti con reddito annuo superiore a 150.000 sterline pagheranno il 50 per cento del proprio reddito in imposte (dal 40 per cento attuale), e perderanno i crediti d’imposta per i contributi pensionistici. La nuova aliquota massima è di cinque punti percentuali superiore a quanto ipotizzato in novembre, e verrà adottata con un anno di anticipo sul previsto. La decisione è per molti aspetti storica, perché cancella la decisione di Margaret Thatcher, assunta nel bilancio del 1988, di eliminare tutte le aliquote d’imposta superiori al 40 per cento e potrebbe contribuire, secondo alcune stime, alla perdita di 140.000 impieghi nel settore dei servizi finanziari, su un totale di circa un milione, oltre all’espatrio di circa 25.000 dei maggiori contribuenti del paese. Il governo ha offerto, come ulteriore misura di stimolo settoriale, un contributo rottamazione auto di 2000 sterline.
Dal versante della spesa sono previste correzioni ma solo a partire dal 2011, cioè dopo le elezioni generali, che dovranno tenersi entro il 3 giugno del prossimo anno. Gli interventi appaiono insufficienti, data la misura e la rapidità di deterioramento dei conti pubblici, e si sostanziano in una crescita reale annua della spesa corrente dello 0,7 per cento, rispetto all’1,2 per cento previsto a novembre. La spesa in conto capitale, in percentuale del Pil, dovrebbe per contro scendere dall’1,8 per cento inizialmente previsto all’1,25 per cento. Il governo ha poi deciso di procedere a stimare perdite potenziali sui salvataggi bancari comprese tra 20 e 50 miliardi di sterline, cioè fino al 3,5 per cento del Pil, dopo avere stanziato ad oggi circa 40 miliardi di sterline per acquisire quote di controllo in Royal Bank of Scotland e Lloyds Banking Group, ed impegnato centinaia di miliardi di sterline come passività contingenti (cioè la cui materializzazione appare aleatoria, per tempi ed entità) per garanzie e protezione dei depositi. A causa del forte aumento del deficit il Debt Management Office, l’agenzia governativa che gestisce lo stock del debito pubblico, prevede per quest’anno un collocamento record di 220 miliardi di sterline di titoli pubblici, il 50 per cento in più dello scorso anno. Sulla scorta di tali annunci, i rendimenti dei Gilt sono aumentati al massimo delle ultime due settimane, con un movimento di irripidimento della curva che mette a rischio il processo di easing quantitativo adottato dalla Bank of England, che sta acquistando a fermo titoli di stato a lunga scadenza, di fatto stampando moneta. Anche il cambio della sterlina ha subito un ulteriore deprezzamento, mentre gli analisti dell’agenzia Moody’s hanno osservato che le finanze pubbliche britanniche stanno deteriorandosi rapidamente, a causa di una combinazione di gettito fiscale in indebolimento e dell’accumulazione di attivi di pessima qualità e passività contingenti, a seguito di successivi salvataggi bancari. Questa condizione potrebbe mettere a rischio il mantenimento del rating sovrano, attualmente pari alla tripla A.
Il deficit previsto è il maggiore tra le economie del G20, pone un forte vincolo all’adozione di ulteriori misure di stimolo, oltre (come segnalato) a suscitare ovvie preoccupazioni per lo stato delle finanze pubbliche. Si tratta di un evidente fallimento di policy, soprattutto per l’incapacità mostrata dal governo britannico a gestire il bilancio pubblico in funzione anticiclica, cioè riportando i conti in equilibrio durante la fase espansiva precedente.
Il 24 aprile è stata pubblicata la stima preliminare del prodotto interno lordo britannico del primo trimestre 2009, che evidenzia la peggior contrazione da quando Margaret Thatcher salì al potere, nel 1979. Il Pil è diminuito dell’1,9 per cento rispetto agli ultimi tre mesi del 2008, a causa soprattutto del forte ridimensionamento della manifattura e dei servizi finanziari. Il dato è peggiore delle stime di consenso, che ipotizzavano un arretramento dell’1,5 per cento. Vale la pena ricordare che, secondo convenzione, la variazione trimestrale del Pil britannico (e dell’Area Euro) non è annualizzata, come invece avviene per quella degli Stati Uniti. Ciò significa che, omogeneizzando il criterio di calcolo del Pil a quello statunitense, la contrazione britannica è pari ad un pesante 7,8 per cento. L’aggravamento della recessione potrebbe causare il peggior arretramento dell’economia del Regno Unito dal 1931 ad oggi. Questa è inoltre la prima volta da quando è iniziata la rilevazione di questa serie storica, dopo la Seconda Guerra Mondiale, che il Pil britannico si riduce di oltre l’1 per cento per due trimestri consecutivi. Nel quarto trimestre 2008 il calo era stato dell’1,6 per cento.
La disoccupazione britannica è aumentata in marzo al maggior livello da quando il Labour ha preso il potere, nel 1997. Tuttavia la Bank of England afferma, nelle minute del comitato di politica monetaria dello scorso 9 aprile, che vi sono segni di rallentamento della contrazione economica.
Alla luce delle attuali condizioni congiunturali e di finanza pubblica, il Regno Unito appare come uno dei paesi più sofferenti per effetto della crisi, con un’economia basata prevalentemente sui servizi finanziari e sull’immobiliare (cioè sui settori al centro della bolla), un elevato indebitamento delle famiglie ed un preesistente, ampio squilibrio nei conti con l’estero. Per questo motivo, con la monetizzazione di parte del deficit ad opera della banca centrale, i conti pubblici in forte deterioramento, il correlato rischio di un declassamento del merito di credito ed una valuta sprovvista dello status di riserva internazionale, l’investimento nel paese presenta ad oggi un non trascurabile profilo di rischio.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Venerdì 24 Aprile 2009   Lunedì 27 Aprile 2009   Giovedì 30 Aprile 2009  
       
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  Regole più rigide per le Agenzie di Rating: l'UE avvia la riforma

26 APRILE 2009 ROMA - di Il Sole 24 Ore

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Le agenzie di rating del credito, colpevoli di non aver saputo prevedere la crisi finanziaria - e in particolare l'inaffidabilità dei mutui 'subprime' americani che sono fra le sue principali cause - dovranno d'ora in poi sottoporsi a una rigorosa regolamentazione comunitaria per poter operare nell'Ue, secondo una nuova normativa che il Parlamento europeo ha approvato oggi a Strasburgo a larghissima maggioranza (569 voti a favore, 47 contrari e 4 astensioni), dopo aver raggiunto un accordo con il Consiglio Ue.
Le agenzie del rating come Standard and Poor's, Moody's o Fitch, che valutano i rischi per chi investe negli istituti (o negli Stati) che emettono titoli di credito, saranno sottoposte a un regime Ue di autorizzazione e controllate da un collegio che riunirà i supervisori nazionali dei Ventisette (il comitato dei regolatori europei - Cesr); inoltre, dovranno essere più trasparenti, eliminare i conflitti d'interesse e rendere pubblici gli elementi e i criteri di valutazione adottati.
Il nuovo regolamento Ue sostituirà, nei fatti, l'attuale autoregalmentazione delle agenzie di rating basate su codici volontari di buona condotta, visto che finora le agenzie stesse erano soggette alla legislazione comunitaria solo in settori limitati (norme sull'insider trading e sui requisiti di capitale degli enti creditizi). Le nuove norme saranno direttamente applicabili già 20 giorni dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale dell'Ue. Gli Stati membri avranno però sei mesi per adottare le necessarie misure volte ad attuarle, ad eccezione delle disposizioni per il ricorso a rating di agenzie non comunitarie che si applicheranno dopo 18 mesi.
Il testo, approvato sulla base del rapporto del relatore dell'Europarlamento Jean-Paul Gauzes (Ppe), che ha incorporato il compromesso frutto del negoziato con il Consiglio Ue, intende migliorare l'integrità, la trasparenza, la responsabilità, l'indipendenza, la buona 'governance' e l'affidabilità delle attività di rating del credito. In questo modo, verrà garantita la buona qualità del rating e assicurato un grado elevato di protezione degli investitori, anche se, sottolineano gli eurodeputati, «gli utenti non dovrebbero affidarsi ciecamente» ai giudizi delle agenzie.
Secondo le nuove norme, gli enti creditizi, le imprese di investimento, di assicurazione non vita e vita e di riassicurazione, gli organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (Oicvm) e gli enti pensionistici aziendali o professionali potranno utilizzare a fini regolamentari «solo rating emessi da agenzie di rating del credito stabilite nella Comunità e registrate» conformemente agli obblighi previsti dal regolamento. L'obbligo di registrazione, viene precisato nel testo, «è il principale requisito" affinché tali agenzie possano operare nell'Ue. Il regolamento fissa le condizioni armonizzate e la procedura per la concessione, la sospensione e la revoca della registrazione, e prevede l'introduzione di un unico punto di entrata per la presentazione delle domande di registrazione. Il Comitato delle autorità europee di regolamentazione dei valori mobiliari (Cesr) sarà quindi incaricato di ricevere le domande di registrazione e di informare le autorità competenti in tutti gli Stati membri, che avranno il compito di esaminare le domande, disponendo "di tutti i poteri di vigilanza e di indagine necessari per l'esercizio delle loro funzioni".
Nell'esercizio della loro funzione di vigilanza, le autorità nazionali competenti avranno accesso a qualsiasi documento, potranno richiedere informazioni a qualsiasi persona e, se necessario, convocare e interrogare qualsiasi persona per ottenerle, potranno anche eseguire ispezioni in loco con o senza preavviso e richiedere le registrazioni telefoniche e le informazioni relative al traffico. In caso di violazioni da parte di un'agenzia, le autorità nazionali potranno revocare la sua registrazione o emanare un divieto temporaneo di emissione di rating, efficace in tutta la Comunità.

Le agenzie dovranno adottare «tutte le misure necessarie per garantire che l'emissione di un rating non sia influenzata da alcun conflitto di interesse, esistente o potenziale, o relazione d'affari» riguardante le agenzie stesse, i loro manager, i loro analisti, i loro dipendenti o qualsiasi persona direttamente o indirettamente collegata ad essa da un legame di controllo. Norme meno stringenti sono previste per le piccole agenzie che hanno meno di 50 dipendenti.
In particolare, le agenzie dovranno stabilire un meccanismo di rotazione graduale appropriato riguardo agli analisti di rating e alle persone che li approvano. Questo meccanismo dovrebbe essere applicato "a turno nei confronti dei singoli piuttosto che di un'intera squadra". Inoltre, la retribuzione e la valutazione del rendimento degli analisti di rating e delle persone che li approvano non dovranno dipendere "dall'entità del fatturato che l'agenzia di rating del credito deriva dalle entità valutate o da terzi collegati". Almeno un terzo, e non meno di due, dei membri del consiglio di amministrazione o di sorveglianza delle agenzie dovranno essere indipendenti e la loro retribuzione non dovrà dipendere dai risultati economici dell'agenzia.
Considerando che, in determinate circostanze, gli strumenti finanziari strutturati (come i derivati) "possono avere effetti diversi dagli strumenti di debito societario tradizionali", il regolamento Ue prevede che le agenzie di rating operino una chiara differenziazione (aggiungendo un simbolo appropriato) tra le categorie utilizzate per emettere rating di questi particolari strumenti finanziari e le categorie utilizzate negli altri casi.
Inoltre, le agenzie di rating del credito con sede extra-Ue saranno tenute a costituire una controllata nella Comunità. Il regolamento impone loro di rispettare i requisiti generali per l'integrità del lavoro svolto e prevedere una politica adeguata in materia di conflitto di interesse nonché la rotazione degli analisti e la comunicazione periodica e continua. L'agenzia dell'Ue che omologa i rating del credito emessi in un paese terzo sarà ritenuta «pienamente e incondizionatamente responsabile» per i rating omologati e per il rispetto delle relative condizioni stabilite dal regolamento.
Gli Stati membri, infine, dovranno definire sanzioni "effettive, proporzionate e dissuasive" applicabili in caso di violazione delle disposizioni del regolamento e garantirne l'attuazione. Tali sanzioni, amministrative e penali, dovranno "riguardare quanto meno i casi di grave scorrettezza professionale e omissione di diligenza dovuta". Il Cesr definirà degli orientamenti sulla convergenza delle prassi relative alle sanzioni.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore


 

 

  Moody's conferma la doppia A all'Italia e ai suoi titoli di Stato

27 aprile 2009 ROMA - di Isabella Bufacchi

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Il rating "Aa2" di Moody's sull'Italia e sui titoli di Stato italiani è saldamente a prova di crisi. La peggiore e più lunga recessione dal Dopoguerra non ha scalfito questa doppia "A" italiana che si traduce in un alto grado di affidabilità dello Stato nella sua capacità di ripagare tutti i debiti, puntualmente e integralmente. Assegnata da Moody's all'Italia nel maggio 2002, a distanza di sette anni questa "Aa2" mantiene le prospettive "stabili" in virtù della "forza economica italiana molto elevata" e nonostante "il peso del debito pubblico e i problemi strutturali" del Paese.

Sono questi i concetti principali contenuti nell'ultimo rapporto sull'Italia pubblicato oggi da Moody's, l'agenzia di rating che assegna il voto più alto allo standing creditizio dello Stato italiano, un gradino al di sopra della "AA-" di Fitch e due gradini sopra la "A+" di Standard & Poor's.
L'analisi sul rischio-Paese è un appuntamento che rientra nelle attività di routine delle agenzie di rating: tuttavia il tempismo di questo rapporto sull'Italia - un documento lungo 11 pagine fitto di numeri, previsioni e valutazioni che toccano tutti gli aspetti della vita economica, politica, sociale e finanziaria del Paese - consente a Moody's, nel contesto di una crisi caratterizzata da un impressionante grado di imprevedibilità, di dare le sue risposte alle preoccupazioni dei trader e degli investitori che detengono oltre 1.400 miliardi di BoT, CTz, CcT e BTp e che si interrogano continuamente sulla capacità dell'Italia di conservare i suoi rating mentre quelli di altri solidi Stati europei vengono declassati (Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia) o minacciati dalle retrocessioni. Per quanto riguarda Moody's, dunque, per ora la "Aa2" è solida con prospettive di medio termine stabili.

Questo rapporto sull'Italia è firmato da quattro analisti di peso: Alexander Kockerbeck (senior credit officer e primo analista per il rating sovrano italiano), Dietmar Hornung (senior analyst), Kristin Lindow (Regional credit officer for Europe and Africa) e Pierre Cailleteau (managing director). L'analisi si sofferma sulle grandi quattro aree tematiche che contribuiscono all'assegnazione del rating, in base alla metodologia di questa agenzia, con l'assegnazione all'Italia di un livello scelto tra cinque: molto alto, alto, moderato, basso, molto basso. Così la "Aa2"italiana ha una forza economica "molto alta"; un assetto istituzionale "alto"; una forza finanziaria del Governo "alta"; un'esposizione al rischio di eventi negativi "bassa".

Ecco i principali giudizi contenuti dell'analisi di Moody's

Forza economica – Molto alta ma con un'economia in recessione
•La forza economica dell'Italia è molto alta in virtù della diversificazione e delle dimensioni dell'economia e del reddito pro-capite degli italiani. Moody's ricorda che l'Italia è la settima economia al mondo e il quinto esportatore per volumi di beni manufatti (automobilistico, aerospaziale e difesa, meccanica di precisione, petrolchimica, armi da fuoco, elettricità, moda, lusso, alimentari), e gode di un settore turistico molto dinamico.

•Per Moody's, la forza economica dell'Italia è indebolita dalla perdita graduale di competitività: l'Italia nell'ultimo decennio è cresciuta "solo" a un tasso medio dell'1,2 per cento. Inoltre dli oneri e il finanziamento del debito pubblico assorbono gran parte del risparmio del Paese.

•Il mercato nero è molto esteso, non è rilevato statisticamente e quindi rende difficile la vera stima della ricchezza nazionale, secondo Moody's.

•Nonostante le riforme degli ultimi anni, le dinamiche della crescita economica continuano a essere frenate da numerose inefficienze: l'importazione di energia, l'alta pressione fiscale (resa più pesante dalla diffusa evasione fiscale), una crescita della produttività fiacca. Moody's sottolinea anche l'aggravante degli alti costi di lavoro per unità di prodotto "nonostante i livelli salariali modesti che a loro volta influiscono sui consumi".

•Il calo della competitività a livello internazionale dei prodotti italiani è accompagnato da un aumento abbastanza forte dei costi di produzione, dal 2001. Il tessuto industriale italiano dominato dalle Piccole e medie imprese è capace di grande flessibilità, riconoscono gli analisti di Moody's, ma è limito nella capacità di innovare: questo frena la crescita nella catena dei prodotti con alto valore aggiunto per affrontare la concorrenza dalle economie emergenti asiatiche che hanno costi salariali bassi.

•Le inefficienze della burocrazia ostruiscono la politica economica e il miglioramento del gap infrastrutturale, specialmente nel Sud del Paese dove permane il problema della criminalità organizzata.

•Anche Moody's prevede una contrazione dell'economia italiana nel 2009 e attribuisce questo calo non solo alla recessione su scala mondiale ma anche alle fragilità a livello nazionale: tra queste la mancanza di fiducia del consumatore e le condizioni di precarietà del lavoro della popolazione più giovane.

•Un fattore positivo sottolineato nel rapporto è rappresentato dal basso livello di indebitamento dei privati e l'alto tasso di risparmio delle famiglie: questo riduce il rischio di "deleveraging" (riduzione del debito) che per contro sta influendo negativamente sulle prospettive di crescita di molti altri Paesi industrializzati. Moody's cita come punto a favore delle risorse finanziarie dei privati il fatto che in Italia vi siano tra i 30 (Mef) e i 70 (Confindustria) miliardi di euro di crediti vantati dalle imprese nei confronti dello Stato.

•Lo spazio di manovra delle politiche fiscali per il Governo è limitato dalla situazione globale, dalla crisi economica e dalle dimensioni dello stock del debito pubblico. Moody's cita i 44 miliardi di euro del recente pacchetto di misure governative di stimolo, ricordando però che in parte erano già previste dalla Finanziaria 2009. La sfida per il Governo "è di sostenere la base industriale nel Nord del Paese, quella maggiormente colpita dalla crisi, e migliorare il flusso del credito bancario alle imprese". Il rapporto mette in chiaro che le banche italiane sono state meno colpite dalla crisi finanziaria internazionale (modello di business convervativo) ma restano comunque esposte al deterioramento dei crediti causato dalla recessione: sono valutati positivamente a questo riguardo i Tremonti-bond (che aumentano la capacità delle banche di erogare credito), l'estensione dell'attività della Cassa depositi e prestiti, gli incentivi per le auto, i nuovi investimenti dello Stato nelle infrastrutture.

•Secondo Moody's le banche italiane hanno un'esposizione limitata e altamente frammentata nei confronti dell'Est Europa.

•L'agenzia di rating non prevede che lo Stato italiano sarà chiamato a intervenire d'urgenza con piani massicci di salvataggio di banche (come è avvenuto invece negli Usa, in Irlanda, nel Regno Unito ndr.). Tuttavia, Moody's ci tiene a precisare che qualsiasi salvataggio sul sistema bancario italiano a carico dello Stato danneggerebbe le dinamiche del debito pubblico, che concede al Governo margini di manovra ristretti.

Forza istituzionale. Alta ma la governance e il sistema giudiziario sono carenze importanti.
•Tra le sfide importanti per l'Italia rilanciate dal rapporto-Moody's permane il miglioramento dell'efficienza della burocrazia nel Sud, considerato un passaggio obbligato per velocizzare lo sviluppo della Regione.

•Una maggiore efficienza del sistema giudiziario è altrettanto necessaria: la durata troppo lunga dei processi è un ostacolo all'applicazione dei diritti contrattuali.

•Moody's rileva una debolezza del sistema amministrativo italiano anche per quanto riguarda la politica dell'immigrazione, che "ha fallito nel promuovere l'integrazione" ed è sfociata in nuove tensioni sociali. "Una politica dell'immigrazione lungimirante è importante in un Paese come l'Italia che deve affrontare il calo della popolazione".

•Un'altra peculiarità del sistema Italia, secondo Moody's, continua a essere quella delle forti tensioni tra Governo e magistratura, risalenti al periodo di Mani Pulite e Tangentopoli.

• Quanto all'attuale Governo, Moody's ricorda che questa coalizione gode di una forte maggioranza alla Camera e al Senato, "una grande differenza" rispetto al precedente Governo Prodi. L'attuale opposizione, secondo Moody's è relativamente debole dopo le dimissioni di Walter Veltroni: nonostante la formazione del Partito Democratico, "le liti interne permangono".

Forza finanziaria del Governo. Alta ma pesa sempre il debito pubblico
•Il fattore principale che impedisce all'Italia di ottenere una promozione di rating dalla "Aa2" è l'alto livello del debito pubblico sopra il 100% del Pil abbinato alla mancanza di dinamismo economico e una popolazione in calo.

•Tra il 1970 e il 1990 il debito pubblico italiano è aumentato anche a causa del consociativismo. Il rapporto debito/Pil è migliorato per assicurare l'ingresso nell'Unione monetaria negli anni '90 ed è calato dal 120% al 104% del 2004: ma questo impulso al miglioramento si è affievolito dopo l'adesione all'euro. Il miglioramento dei conti pubblici italiani non ha tenuto il passo con quello di altri Stati con alto debito pubblico come il Belgio. Il surplus primario dell'Italia è calato dal 6% circa del 2000 a quasi zero nel 2005: scenderà all'1% del Pil nominale quest'anno e rimarrà sotto il 3% fino al 2011. Per Moody's questo livello di surplus primario non basta a compensare gli oneri per interessi sul debito vicini al 5% e un debole tasso di crescita del Pil. "Non si può escludere che i tassi d'interesse aumenteranno ancora a causa degli spread più elevati richiesti dal mercato sui titoli di Stato". In aggiunta, il rapporto ricorda che quest'anno l'Italia deve rinnovare 300 miliardi di debito in scadenza, al quale vanno sommati 60 miliardi di nuove emissioni di titoli di Stato in un mercato primario dei bond governativi nell'area dell'euro già molto affollato.
•Il deficit/Pil italiano quest'anno andrà oltre il 4% e si assesterà ad almeno il 3% nel seguente biennio: questo aumenterà dell'8% il debito/Pil che viaggiava al 106% nel 2008. Il deterioramento ciclico della dinamica del debito pubblico in Italia, durante questa crisi, è una conseguenza del calo delle entrate tributarie e di un aumento della spesa pubblica, due tendenze comunque in linea con quello che Moody's prevede accadrà anche in altri Paesi. Secondo le stime di questo rapporto, il consolidamento dei conti pubblici riprenderà in Italia nel 2011, ma solo se la crescita dovesse tornare in terreno positivo dopo una recessione di oltre il 3% quest'anno e una stagnazione nel 2010.

•Secondo Moody's la strada maestra per il miglioramento dei conti pubblici e il controllo sulle dinamiche del debito pubblico resta quella del contenimento della spesa pubblica, tenuto conto che le prospettive della crescita non sono buone. In questo contesto, il processo del federalismo fiscale secondo Moody's potrebbe contribuire ad aumentare il grado di responsabilizzazione e qualità della spesa pubblica: ma il trasferimento delle responsabilità dall'amministrazione centrale a quella locale dovrà essere accompagnato da controlli più rigidi di finanza pubblica.

•La crisi spinge l'Italia verso un'alteriore riforma delle pensioni, quanto mai necessaria. Secondo Moody's il sistema pensionistico italiano deve essere riformato perché è un capitolo di spesa che al 15% circa del Pil è già tra i più alti nei Paesi industrializzati. La riforma dell'età pensionabile può liberare risorse che dovrebbero essere riallocate per aiutare le generazioni più giovani a trovare un lavoro stabile. Per Moody's il problema della disoccupazione o sottoccupazione dei giovani è grave.

•In quanto dal rapporto debito/Pil, è previsto all'111% nel 2009 da Moody's, ben sopra la media del 72% stimata per l'Eurozona. Inoltre in termini di rapporto percentuale rispetto alle entrate dello Stato, il debito/Pil in Italia orbita attorno a quota 240%, ben sopra la media di 170% per la zona dell'euro nel 2010. L'alto debito pubblico assorbe in Italia, con gli oneri degli interessi, oltre il 10% delle entrate tributarie annuali contro il 6,7% in media nell'Eurozona. Ma la vulnerabilità causata dall'alto debito pubblico è attenuata, anche secondo Moody's, dal basso tasso di indebitamento dei privati.
 

 

Autore - isabella.bufacchi@ilsole24ore.com

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

 

 

 

GERMANIA: ECONOMIA DA BRIVIDO, PIL -6.0%

29 Aprile 2009 13:07 BERLINO - di APCOM
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L'economia tedesca si contrarrà del 6% quest'anno, in base alle stime del ministero dell'Economia tedesco. Riviste in peggio le previsioni di appena tre mesi fa, che puntavano a una recessione dell'ordine del 2,25% nel 2009.
L'economia tedesca si contrarrà del 6% quest'anno, in base alle stime del ministero dell'Economia tedesco, che ha rivisto in peggio le stime di gennaio, che puntavano a una recessione dell'ordine del 2,25% nel 2009. Per il governo però la Germania il prossimo anno tornerà alla crescita, con un modesto più 0,5% del Pil. Il calo stimato del Pil per quest'anno è di gran lunga il più ampio dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La peggiore performance dell'economia tedesca da allora si registrò nel 1975, quando il Pil scese dello 0,9%, la peggiore dalla Riunificazione delle due Germanie nel 1993, quando ci fu un calo dello 0,8%.
 

Fonte - APCOM

 

 

Stati Uniti, il Pil giù del 6,1% ma ripartono consumi e prezzi

29 Aprile 2009 16:09 NEW YORK - di Il Sole24Ore
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Il Pil (prodotto interno lorodo) degli Stati Uniti ha subito una contrazione del 6,1% nel primo trimestre del 2009, un risultato nettamente inferiore alle stime degli economisti, che si attendevano un calo del 4,7%. L'economia americana ha continuato quindi a contrarsi a un ritmo pressoché costante fra il quarto trimestre 2008 (-6,3%) e i primi tre mesi del 2009, risentendo soprattutto della corsa delle aziende a ridurre gli investimenti in conto capitale. Si tratta dei peggiori sei mesi degli ultimi 50 anni.

È la prima volta dal 1975 che l'economia a stelle e strisce si contrae per tre trimestri consecutivi. A pesare sull'andamento dell'economia è il calo delle esportazioni, scese del 30% registrando il calo maggiore dal 1969. Le importazioni sono invece scese del 34,1%, la flessione più ampia dal 1975.

Il crollo del 37,9% degli investimenti aziendali, inoltre, è il maggiore di sempre ed è una conseguenza logica della scelta della Corporate America di pensare in primo luogo a ridurre le scorte di magazzino prima di finanziare nuovi progetti di sviluppo. Secondo i dati del governo, nel trimestre gli inventari sono calati di 103,7 miliardi di dollari contro la riduzione di 25,8 miliardi effettuata nel trimestre precedente. Questa maggiore riduzione delle scorte ha sottratto 2,79 punti percentuali al totale del pil del primo trimestre. Nel trimestre sono calate anche le spese del Governo federale (-4%) e del 3,9% quelle delle amministrazioni locali.

Una notizia davvero buona, tuttavia, è giunta dal fronte delle spese per i consumi che rappresentano il 70% dell'economia americana: dopo essere calate del 4,3% nel quarto trimestre del 2008 sono infatti tornate a crescere nei primi tre mesi del 2009 salendo di un 2,2% che, sebbene modesto per gli standard americani, è molto beneaugurante e allontana lo spettro della deflazione. Nel trimestre le spese per beni durevoli sono cresciute del 9,4% dopo essere calate del 22,1% nei tre mesi precedenti mentre gli acquisti di beni non durevoli sono saliti dell'1,3% e le spese in servizi dell'1,5%.

Nel complesso, le spese per i consumi hanno aggiunto l'1,5% al prodotto interno lorod. Ancora in grave crisi invece il comparto immobiliare: gli investimenti residenziali fissi sono calati del 38% (levando l'1,36% al pil) in ulteriore peggioramento rispetto al -22,8% del quarto trimestre 2008. Positivo infine (per 1,99 punti percentuali) il contributo dell'interscambio commerciale. Fra gennaio e marzo le esportazioni Usa sono precipitate del 30% ma le importazioni sono calate in misura ancora superiore, pari al 34,1%.

Buone notizie anche dal fronte dei prezzi: l'inflazione calcolata in base alla spesa per beni e servizi è aumentata del 2,9%. L'indice core, quello di cui la Federal Reserve tiene conto per le proprie decisioni di politica monetaria, è invece salito dell'1,5 per cento.

Dopo il rilascio del dato preliminare sulla crescita economica degli Stati Uniti, i prezzi dei titoli di Stato Usa hanno confermato i rialzi accumulati in precedenza, spingendo al ribasso i rendimenti sui titoli a breve. Il rendimento del Treasury a due anni cedeva nel primo pomeriggio 8 punti base attestandosi a 0,93%. Sul mercato delle valute il dollaro Usa ha confermato le perdite accumulate nei confronti della maggior parte delle concorrenti: l'euro si rafforza dello 0,9% a quota 1,3256, mentre la sterlina britannica guadagna lo 0,8%, scambiando a 1,4739 dollari. Il biglietto verde, tuttavia, sale dello 0,4% contro lo yen giapponese, a 96,74 yen. Contro il basket delle principali valute concorrenti, il biglietto verde è in calo a 84,56 da 85,18.
 
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

TASSI USA: LA FED CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%

29 Aprile 2009 20:15 NEW YORK - di WSI
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Come ampiamente atteso dal mercato, la Banca Centrale Americana ha mantenuto invariata la forchetta sui fed funds. Confermato il programma di riacquisto di Treasury per $300 miliardi entro la fine dell’anno.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse ad un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. La decisione segue la conferma di gennaio prima e marzo poi, preceduta dal taglio drastico di dicembre, il nono della serie iniziata nell’ottobre 2007, che aveva portato i fed funds nell’attuale forchetta.

La Fed ha riscontrato segnali di rallentamento nella contrazione economica e dichiarato che l’outlook sull'economia e’ in miglioramento, anche se rimarra’ debole ancora per diverso tempo.

La Fed ha aqnche confermato il programma di riacquisto di Titoli di Stato per $300 miliarid da completare entro la fine dell’anno.

Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:

Le informazioni giunte dall’ultimo incontro del Federal Open Market Committee a marzo indicano che l’economia ha continuato a contrarsi, anche se ad un tasso piu’ contenuto. La spesa delle famiglie ha mostrato segnali di stabilizzazione ma resta limitata dalla continua perdita di posti di lavoro, dal calo del settore immobiliare e dal contenuto accesso al credito. Le prospettive sulle deboli vendite e le difficolta’ nell’ottenimento dei prestiti hanno condotto le aziende a ridurre le scorte, gli investimenti ed il personale. Sebbene l’outlook economico sia migliorato modestamente dal meeting di marzo, in parte in risposta al miglioramento delle condizioni del mercato finanziario, l’attivita’ economica dovrebbe rimanere ancora debole per diverso tempo. Il Comitato continua ad anticipare che le azioni di politica mirate alla stabilizzaizojne dei mercati finanziari e degli istituti, lo stimolo fiscale e monetario e le forze di mercato contribuiranno ad un graduale recupero di una sostenibile crescita economica in un contesto di stabilita’ dei prezzi.

Alla luce del rallentamento economico, qui ed all’estero, il Comitato si aspetta livelli contenuti d’inflazione. Inoltre, il Comitato intravede alcuni rischi per cui l’inflazione potrebbe durare per un certo tempo al di sotto dei tassi che meglio promuovono la crescita economica e la stabilita’ dei prezzi per il lungo periodo.

In tali circostanze, la Federal Reserve impieghera’ tutti gli strumenti disponibili per promuovere il recupero economico e mantenere la stabilita’ dei prezzi. Il Comitato manterra’ il target sui fed funds nel range 0.00%-0.25% ed anticipa che le condizioni economiche probabilmente contribuiranno a mantenere i tassi a livelli eccezionalmente bassi per un lungo periodo. Come annunciato in precedenza, per garantire supporto alla concessione dei prestiti ipotecari e al mercato immobiliare, e per migliorare le condizioni generali del mercato del credito privato, la Federal Reserve acquistera’ fino a $1250 miliardi di asset MBS, e fino a $200 miliardi di strumenti di debito societario entro la fine dell’anno.

Inoltre, la Federal Reserve acquistera’ Treasury fino ad un valore di $300 miliardi entro l’autunno. Il Comitato continuera’ a valutare la tempistica e l’ammontare generale degli acquisti alla luce dello sviluppo dell’outlook economico e delle condizioni dei mercati finanziari. La Federal Reserve sta facilitando l’estensione del credito alle famiglie e alle aziende supportando il funzionamento dei mercati finanziari attraverso una serie di programmi di liquidita’. Il Comitato continuera’ a monitorare attentamente la dimensione e la composizione dello stato patrimoniale della Federal Reserve alla luce degli sviluppi economici e finanziari.

A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; e Janet L. Yellen.

Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di confermare il tasso interbancario in un range di 0.0%-0.25%:

Information received since the Federal Open Market Committee met in March indicates that the economy has continued to contract, though the pace of contraction appears to be somewhat slower. Household spending has shown signs of stabilizing but remains constrained by ongoing job losses, lower housing wealth, and tight credit. Weak sales prospects and difficulties in obtaining credit have led businesses to cut back on inventories, fixed investment, and staffing. Although the economic outlook has improved modestly since the March meeting, partly reflecting some easing of financial market conditions, economic activity is likely to remain weak for a time. Nonetheless, the Committee continues to anticipate that policy actions to stabilize financial markets and institutions, fiscal and monetary stimulus, and market forces will contribute to a gradual resumption of sustainable economic growth in a context of price stability.

In light of increasing economic slack here and abroad, the Committee expects that inflation will remain subdued. Moreover, the Committee sees some risk that inflation could persist for a time below rates that best foster economic growth and price stability in the longer term.

In these circumstances, the Federal Reserve will employ all available tools to promote economic recovery and to preserve price stability. The Committee will maintain the target range for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and anticipates that economic conditions are likely to warrant exceptionally low levels of the federal funds rate for an extended period. As previously announced, to provide support to mortgage lending and housing markets and to improve overall conditions in private credit markets, the Federal Reserve will purchase a total of up to $1.25 trillion of agency mortgage-backed securities and up to $200 billion of agency debt by the end of the year. In addition, the Federal Reserve will buy up to $300 billion of Treasury securities by autumn. The Committee will continue to evaluate the timing and overall amounts of its purchases of securities in light of the evolving economic outlook and conditions in financial markets. The Federal Reserve is facilitating the extension of credit to households and businesses and supporting the functioning of financial markets through a range of liquidity programs. The Committee will continue to carefully monitor the size and composition of the Federal Reserve's balance sheet in light of financial and economic developments.

Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen.
 
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

Febbre suina - I casi confermati e sospetti nel mondo - scheda

29 Aprile 2009 21:15 PARIGI - di Apcom
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Per l'Oms decessi accertati sono 7, 26 per le autorità messicane
Parigi, 29 apr. (Apcom) - I casi sospetti di febbre suina e quelli confermati ufficialmente nel mondo, secondo i dati diffusi dall'Organizzazione Mondiale per la Sanità (Oms) e dei singoli governi. Casi confermati: Messico: 7 decessi accertati per l'Oms (26 per le autorità messicane), su un totale di 159 sospetti; le persone ricoverate sono 1.311 mentre i casi sospetti sono in totale 2.498. Stati Uniti: 65 casi confermati in sei diversi stati (64 per l'Oms); in California le autorità indagano su un decesso che avrebbe potuto essere causato dal virus, l'unico caso mortale fuori dal Messico. Canada: 13 i casi accertati (6 per l'Oms) in quattro diversi stati. Costa Rica: un caso accertato, il primo nell'America centrale. Gran Bretagna: due casi accertati in Scozia, altre sette persone entrate in contatto con loro avrebbero sviluppato lievi sintomi. Spagna: due casi accertati, altri 32 oggetto di analisi. Germania: tre casi accertati, una 22enne ricoverata ad Amburgo e un uomo e una donna, ultratrentenni, in ospedale a Ratisbona. Israele: due i casi accertati, i primi in Medio Oriente; la nipote di 5 anni di uno dei pazienti è stata posta sotto osservazione. Nuova Zelanda: 14 casi accertati (3 per l'Oms) su un gruppo di 25 turisti; altri 44 casi sono oggetto di analisi. Casi sospetti: Australia: oltre un centinaio i casi potenziali, tra cui alcuni bambini; almeno cinque persone risultano portatrici di un virus di tipo A. Malaysia: un caso sospetto. Francia: 2 casi "probabili" di turisti di ritorno dal Messico nell'Ile-de-France; 20 i casi sospetti oggetto di analisi, nessuno con sintomi gravi. Austria: un caso "probabile" di un turista di ritorno dal Messico. Svizzera: cinque casi sospetti fra turisti di ritorno dal Messico. Irlanda: quattro casi sospetti. Polonia: tre casi sospetti fra turisti di ritorno dal Messico. Danimarca: cinque casi sospetti tra turisti di ritorno dal Messico e dal sud degli Stati Uniti. Svezia: almeno cinque i casi sospetti. Olanda: "qualche caso sospetto", senza che sia stato precisato il numero. Cile: 24 casi sospetti, tutti in osservazione. Colombia: 42 persone tornate dal Messico poste sotto osservazione, Brasile: 20 persone sotto osservazione, anche se le autorità non ne considerano nessuno come "sospetto". Corea del Sud: cinque casi sospetti oltre a uno classificato come "probabile". Hong Kong: quattro casi sospetti. Thailandia: un caso sospetto, una turista rientrata da un viaggio in Messico e California. (fonte Afp)
 
 

Fonte - Apcom

 

 

Febbre suina, il Messico ferma l'economia. Il presidente Calderon: «State a casa»

30 Aprile 2009 08:48 - di Il Sole24Ore
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I casi di infezione da febbre suina ufficialmente confermati dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sono 236, rispetto ai 148 riportati ieri. A fare il quadro della situazione, dopo che l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha alzato il livello d'allarme da 4 a 5, è stato Keiji Fukuda, vicedirettore generale dell'Oms, nel corso di una conferenza stampa a Ginevra. «L'aumento di conferme - ha sottolineato Fukuda - si è registrato in Messico, con 97 casi contro i 26 segnalati fino a ieri.
Questo è dovuto soprattutto al grande lavoro che si sta facendo nel Paese per riconoscere la malattia nelle persone che si presentano con sintomi diversi alle autorità sanitarie».
Negli Stati Uniti, il secondo paese più colpito dal virus, e l'unico in cui si è registrato un decesso al di fuori del Messico, i casi di febbre suina confermati sono 109. Il maggior numero di casi si è verificato a New York (50).

Sempre Keiji Fukuda, vicedirettore generale dell'Oms, ha affermato che «introdurre restrizioni sui viaggi per il Messico non rallenterà la diffusione del virus della febbre suina». Una posizione condivisa anche dalla Ue: i ministri della Salute dell'Unione europea, infatti, hanno respinto la proposta della Francia di bloccare i voli verso il Messico a livello europeo.
Per evitare una ingiustificata psicosi che porterebbe a una drastica riduzione del consumo della carne di maiale, la Commissione europea ha comunicato oggi che non è corretto usare il termine «influenza suina», e che la sua denominazione sarà sostituita con la più corretta «influenza A» .

In Italia, il governo invita i cittadini che rientrano dal Messico a restare a casa per sette giorni dal momento del rimpatrio. Lo indica una nota ufficiale del sottosegretario alla salute Ferruccio Fazio diffusa a Lussemburgo. La febbre suina, però, come ha detto Fazio, arriverà di certo anche in Italia, a meno di qualcosa di simile a un miracolo, ma al momento la sua aggressività è limitata, assomiglia a quella di una normale influenza. Da lunedì comunque inizierà l'incapsulamento delle dosi per quattro milioni di terapie che sono nei magazzini del Ministero.
Nel mondo si registrano intanto decisioni anche più "drastiche", come quella delle autorità sanitarie di Singapore, che hanno annunciato una settimana di "isolamento" per tutti coloro in arrivo dal Messico, anche in assenza di sintomi influenzali.

Il Messico, intanto, cerca di reagire all'epidemia: il presidente Felipe Calderon, per meglio combattere il virus, ha chiesto ai suoi compatrioti di rimanere a casa - fermando parzialmente anche l'economia del Paese - dal primo al cinque maggio. L'indicazione del presidente è arrivata in diretta televisiva, per la prima volta da quando è scoppiata l'epidemia la scorsa settimana. Il Messico sospenderà, quindi, per cinque giorni, i lavori e servizi non essenziali, compresi quelli di alcuni ministeri e aziende private. La misura si aggiunge così al blocco deciso qualche giorno fa delle scuole a livello nazionale, fino al 6 maggio, e allo stop imposto a ristoranti, bar, discoteche, e altri locali pubblici a Città del Messico, dove vivono circa 20 milioni di persone. Secondo il ministro delle Finanze, Agustin Carstens, il Pil messicano avrà un calo tra lo 0,3% e lo 0,5% a causa dell'impatto della crisi sanitaria.
 
 

Fonte - Il Sole24Ore

 

 

 

 

 
 

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