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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Crisi creditizia & Macro economia

Lo scandalo è che salvano il sistema coi soldi nostri

Crisi creditizia & Macro economia

Economia: collasso evitato ma la normalità è lontana

Criteri contabili - Banche USA

Banche USA: il gioco delle 3 carte

Crisi creditizia & Macro economia

Economia: ma è davvero finita la crisi?

Crisi creditizia e deglobalizzazione

La felicità è un bene globale

Paralleli crisi 1929/2008 - anacronismi e similitudini

La crisi del 1929 e le sue false morali

Crisi creditizia - Opinioni

Sbagliare non era obbligatorio

Crisi creditizia - Opinioni

La tripla A non fa sempre America

Crisi creditizia - Opinioni

Economisti alla sbarra, ecco l'atto di accusa

Crisi creditizia - Potenziali effetti geopolitici

Usa, Cina e il ping pong planetario

   
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+++   ANSA - Lun. 04 Mag. 2009 - Ws: CRESCE OTTIMISMO, IL RALLY CONTINUA   +++   Mer. 13 Mag. 2009 - Ws: PESANTE, DJ -2.18%, NASDAQ -3%   +++   Gio. 21 Mag. 2009 - Ws: TERZA SEDUTA CONSECUTIVA IN ROSSO   +++   ANSA   +++
 
  Venerdì 01 Maggio 2009   Domenica 03 Maggio 2009   Martedì 05 Maggio 2009  
       
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  Lo scandalo è che salvano il sistema coi soldi nostri

03 Maggio 2009 13:29 NEW YORK - di Martin Wolf

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Il risanamento del sistema finanziario è alla nostra portata? La risposta è sì. Ciò che non possiamo permetterci è non risanarlo. La vera questione, semmai, è quale sia il modo migliore per farlo. Ma risanare il sistema finanziario, per quanto essenziale, non è sufficiente.

L'ultimo Rapporto sulla Stabilità finanziaria mondiale del Fondo monetario internazionale fornisce un'analisi convincente e sconsolata sullo stato del sistema finanziario. Lo staff ha alzato le stime sulle svalutazioni a circa 4.400 miliardi di dollari (3.368 miliardi di euro). Ciò è dovuto in parte al fatto che il Rapporto conteggia le stime sulle svalutazioni degli asset europei e giapponesi – rispettivamente 1.193 miliardi di dollari e 149 miliardi di dollari – e degli asset dei mercati emergenti (340 miliardi di dollari) posseduti dalle banche delle economie mature. Un altro motivo è che le svalutazioni degli asset originati negli Stati Uniti sono balzate a 2.712 miliardi di dollari dai 1.405 miliardi dello scorso ottobre e dai 945 miliardi dell'aprile 2008.

Per contestualizzare tutto ciò, le svalutazioni stimate dal Fondo monetario sono equivalenti a 37 anni di assistenza ufficiale allo sviluppo calcolati sulla base dei livelli del 2008. Le svalutazioni stimate sugli asset europei e americani, posseduti in maggioranza da istituzioni localizzate nelle due regioni, sono equivalenti al 13% del loro Pil aggregato.

Il Fondo monetario internazionale ha calcolato anche il fabbisogno di capitale delle banche. Il punto di partenza sono le svalutazioni annunciate a fine 2008, pari a 510 miliardi di dollari negli Usa, 154 miliardi nell'Eurozona e 110 miliardi di dollari nel Regno Unito. Il capitale raccolto alla fine del 2008 è stato invece di 391 miliardi di dollari negli Usa, 243 miliardi di dollari nell'eurozona e 110 miliardi di dollari nel Regno Unito. Ma il Fondo monetario stima svalutazioni aggiuntive nel 2009 e nel 2010 per 550 miliardi di dollari negli Usa, 750 miliardi nell'eurozona e 200 miliardi di dollari nel Regno Unito. A fronte di tutto ciò, il Fondo calcola gli utili netti non distribuiti a 300 miliardi di dollari negli Stati Uniti, 600 miliardi nell'eurozona e 175 miliardi di dollari nel Regno Unito.

Il Fondo monetario evidenzia che il rapporto tra il capitale ordinario complessivo e le attività totali - un indicatore che gli investitori stanno gradualmente sostituendo con ratios ponderati sul rischio più sofisticati e tendenzialmente più affidabili - era del 3,7% negli Usa alla fine del 2008, ma del 2,5% nell'eurozona e del 2,1% nel Regno Unito.

Il Fondo è arrivato così alla conclusione che il capitale aggiuntivo necessario per ridurre la leva a un rapporto di 17 a 1 (o in alternativa per portare il capitale ordinario al 6% delle attività totali) ammonterebbe a 500 miliardi di dollari negli Stati Uniti, 725 miliardi nell'eurozona e 250 miliardi nel Regno Unito. Con una leva di 25 a 1, l'infusione di capitale necessaria sarebbe di 275 miliardi di dollari negli Usa, 375 miliardi di dollari nell'eurozona e 125 miliardi nel Regno Unito.

Nella terribile situazione in cui ci troviamo, le chance di raccogliere cifre di questa entità sul mercato sono prossime allo zero. Una ragione è che potrebbero addirittura essere poche. Dopo tutto, il Fondo monetario stima che le svalutazioni potenziali dei soli asset americani sono cresciute già di tre volte in appena un anno. Non sarebbe sorprendente se la cifra salisse ancora.
Inoltre, non sono queste le sole somme di cui si ha bisogno. I Governi hanno finora fornito alle banche 8.900 miliardi di dollari in finanziamenti attraverso le lending facilities, le garanzie e i piani di acquisto di asset. Ma questa cifra è pari a meno di un terzo del loro fabbisogno di finanziamento.


Il Fondo monetario, basandosi sull'assunzione che i depositi crescano in linea con il Pil nominale, stima che il refinancing gap delle banche - cioè il rifinanziamento del debito a breve all'ingrosso più le scadenze del debito a lungo termine - crescerà dai 20.700 miliardi di dollari di fine 2008 a 25.600 miliardi di dollari alla fine del 2011, pari a poco più del 60% dei loro attivi totali. Tutto ciò somiglia a una ricetta per una forte contrazione dei bilanci. Inoltre, queste cifre non tengono conto della scomparsa dei prestiti cartolarizzati attraverso il cosiddetto "shadow banking system" che ha rivestito un'importanza rilevante negli Stati Uniti.

Il Fondo monetario fornisce anche le nuove stime sui costi fiscali finali delle operazioni di salvataggio. Nella parte alta dei costi fiscali troviamo gli Usa e la Gran Bretagna, rispettivamente al 13% e al 9% del Pil. Altrove, il costo è inferiore. E per fortuna, si tratta di somme abbordabili. Anche comparandole con l'impatto avuto dalla recessione sul debito pubblico, restano somme gestibili. In ogni caso, i costi dovrebbero aumentare. Ma la probabilità più concreta è che i costi fiscali di una recessione profonda siano sostanzialmente maggiori dei costi dei salvataggi. Pensare di rifiutarsi di salvare il sistema finanziario perchè troppo oneroso è un classico caso di «risparmiare un penny per perdere una sterlina».

Una ragione migliore per rifiutarsi di salvare le banche è l'effetto controproducente sull'incentivo a una sana gestione. L'alternativa dovrebbe essere quindi la bancarotta. Jeremy Bulow della Stanford University e Paul Klemperer della Oxford University hanno creato uno schema che lo dimostra chiaramente.

Le attività più di valore di ogni istituzione finanziaria dovrebbero essere separate in una «banca-ponte», lasciando le passività (tranne i depositi) nella vecchia banca. Ai creditori verrebbero date azioni della nuova banca. I Governi potrebbero gratificare alcuni creditori fino al totale dovuto, invece di pagare tutti nella stessa misura come avviene oggi.

Opinionisti autorevoli sostengono che sarebbe meglio garantire un completo ristoro ai creditori delle istituzioni sistemicamente importanti. La logica di questo ragionamento è che sarebbe l'unico modo per prevenire ulteriore panico. L'obiezione non è il costo fiscale. È che al termine di questo processo emergerebbe una serie limitata di istituzioni «troppo grandi per fallire». I loro creditori sarebbero portati a credere intuitivamente che il loro debitore è il Governo. E questa sarebbe la strada migliore per provocare catastrofi ben più gravi in futuro.

Anche imporre ai creditori perdite pesanti è effettivamente rischioso. Probabilmente, una strada simile deve essere seguita simultaneamente ovunque. Soltanto dopo che sarà chiaro che le banche sopravvissute sono sane, allora tornerà la disponibilità a prestare loro denaro senza garanzie.

Ancora peggiore della scelta tra queste due fosche alternative è il fatto che la ripresa sarà probabilmente lenta, qualunque strada venisse percorsa. Come notava l'ultimo World Economic Outlook in un importante capitolo, le recessioni che seguono le crisi finanziarie sono più pesanti delle altre. Inoltre sono sincronizzate a livello globale. Ma ora stiamo passando attraverso una recessione globalmente sincronizzata, contestuale a una pesante crisi finanziaria che nasce dai Paesi cardine dell'economia mondiale, a cominciare dagli Usa. Questo è dunque il mix giusto per una lunga recessione e una debole ripresa.

Qualunque cosa si faccia per il sistema finanziario, la riduzione della leva (deleveraging) sarà all'ordine del giorno. La posizione della Gran Bretagna, sotto questo profilo, appare pesante. Ma anche quella degli Stati Uniti non è da meno, persino confrontandola con la situazione in Giappone negli anni 90.
Comunque sia, le autorità hanno deciso di salvare il sistema finanziario con i soldi dei contribuenti. Praticamente tutti i Paesi coinvolti dovrebbero poterselo permettere, almeno secondo le stime del Fondo monetario. A questo punto, dopo aver preso la scelta fondamentale di evitare le bancarotte, i Governi devono risanare i propri sistemi finanziari nel modo più veloce possibile.

Sarà comunque dimostrato che si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente per restituire all'economia un tasso di crescita robusto. La sbornia di credito rende inevitabile la riduzione della leva. Ma questo processo è a malapena cominciato. E quanti sperano che si possa tornare rapidamente a ciò che era ritenuto normale due anni fa, resteranno delusi.
 

Fonte - Financial Times

 

 

 

  Economia: collasso evitato ma la normalità è lontana

03 Maggio 2009 19:09 MILANO - di Giuseppe Turani

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Il mondo e i mercati sono di nuovo divisi, tanto per cambiare, fra ottimisti e pessimisti. Per questi ultimi non servono grandi ragionamenti o analisi raffinate: basta guardarsi intorno, leggere i giornali, accendere la Tv. Un po´ più complessa è la questione per quanto riguarda gli ottimisti, che a molti sembrano degli essere lunari. Come mai vedono rosa?

Per rispondere bisogna tornare indietro di qualche mese. Il fallimento della Lehman Brothers (una delle più grandi banche d´affari del mondo, attiva in oltre 150 paesi) è di metà settembre del 2008. Da allora, per almeno tre mesi (ottobre, novembre, dicembre) il mondo è vissuto nell´incubo di un collasso globale della finanza mondiale. Collasso che avrebbe provocato una sorta di paralisi generale dell´economia (visto che finanza e economia reale, qualunque cosa dicano gli ingenui, sono due facce della stessa medaglia). E quindi Grande Depressione piena di dolori e di incognite.

Ebbene, a sette mesi dal fallimento della Lehman i mercati (e parte dell´opinione pubblica) hanno raggiunto la ragionevole convinzione che non ci sarà il collasso globale della finanza mondiale. Insomma, eravamo, forse, sul Titanic, ma l´urto con l´iceberg maledetto non c´è stato. Gli ottimisti di oggi sono, tecnicamente, gente afflitta da quella che potremmo chiamare "sindrome da scampato pericolo".

Inoltre, danno loro una mano i pubblici poteri, che ormai da settimane fanno mostra di grande ottimismo, spiegando a tutti che il peggio è passato. L´ottimismo che sta dilagando nasce da questo: un po´ discende dall´alto e un po´ arriva dal fatto che siamo ancora tutti qui, anche se acciaccati e doloranti.

Ma è davvero finito tutto? Il ritorno alla vita "normale" (quella che c´era prima) è dietro l´angolo? A poche settimane di distanza, o a pochi mesi, al massimo? Non ne sarei così sicuro. Fra qualche giorno usciranno i dati sulla crescita europea nel primo trimestre del 2009 e posso già anticipare che si tratterà di numeri da incubo a occhi aperti. L´America ha già comunicato il suo Pil del primo trimestre e sappiamo che è sceso del 6,1 per cento (dato annualizzato). Non si può escludere che in Europa il crollo sia addirittura doppio, se non di più. Di sicuro andrà malissimo il Pil della Germania, per la quale si parla di un crollo (dati annualizzati) vicino al 15 per cento.

Dopo, le cose potrebbero, dovrebbero, andare meglio. Ma la storia non sarà finita. Anche una volta tornati a un apparente normalità, sistemate cioè le banche e riavviata l´economia reale, ci sarà da occuparsi della "bolla" costruita per uscire dalla bolla del credito: e cioè quella della finanza pubblica. A questo punto tutti i bilanci di tutti gli Stati sono oltre i limiti di sicurezza (l´Italia passerà da un debito sul Pil del 105 per cento a uno del 120 per cento, dov´era quindici anni fa). E quindi bisognerà "rientrare": cosa non facile perché è complicato aumentare le tasse (soprattutto dove sono già alte) e, in ogni caso, se cresce la pressione fiscale, l´economia reale rallenta. E noi, invece, stiamo cercando di rilanciarla.

In termini molti rozzi, si può dire questo: l´immane debito che stava sul mercato (nelle banche), e che minacciava di ucciderlo, è stato trasferito sui bilanci pubblici (gli Stati hanno spalle più robuste). Ma è sempre lì, e in qualche modo bisognerà liberarsene prima di poter dire che siamo davvero rientrati dentro un mondo normale.

Gli ottimisti, quindi, fanno bene a dire che abbiamo evitato il collasso globale immediato della finanza mondiale, e questo è certamente un successo. Ma il mondo è stato ferito in modo molto serio, e prima di ottenere un certificato di buona salute (e di buona condotta), dovrà passare del tempo.
Non settimane o mesi, come loro ritengono, ma qualche anno.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

Perché la caccia ai paradisi fiscali

May 3th, 2009 by edito - di Liberal Quotidiano
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Il tentativo, promosso soprattutto dagli europei (segnatamente da Francia e Germania: per scoprire il perché, munirsi di una carta geografica e trarre le inferenze del caso) di ridurre il grado di legittimità ed i margini di manovra dei cosiddetti paradisi fiscali (attraverso la classificazione dei paesi in gruppi, in funzione del grado di “cooperazione” fiscale internazionale), tende ad essere interpretato come una decisione puramente populistica, oltre che priva di un qualsivoglia legame con la crisi in atto. Le cose non stanno esattamente in questi termini.
In un momento di ampi e crescenti disavanzi pubblici, causati dalle operazioni di salvataggio del sistema finanziario, oltre che dal crollo del gettito fiscale indotto dalla gelata dei livelli di attività, gli stati nazionali hanno disperato bisogno di capitali. Da qui l’ipotesi di attuare una generalizzata repressione degli stati non cooperativi sul piano dello scambio di informazioni fiscali, da associare (con buona probabilità) ad operazioni di “scudo fiscale”, cioè di rimpatrio agevolato dei capitali. Come noto, nel 2001 e 2003, il governo italiano (Giulio Tremonti ministro dell’Economia) ha attuato due operazioni di sanatoria per il rimpatrio dei capitali, tassati con cedolare secca del 2,5 per cento. Le due operazioni produssero il rientro di circa 80 miliardi di euro, con un gettito erariale di poco meno di 2 miliardi. Negli ultimi anni numerosi paesi hanno adottato analoghe iniziative di rimpatrio giuridico di capitali, tassati a cedolare secca variabile, e con condizionalità varie, quali l’investimento in azienda dei fondi rientrati, o la sottoscrizione di titoli di stato.

Si comprende quindi l’interesse a rimpatriare tali fondi, che potrebbero rappresentare una fonte di domanda addizionale e quasi forzosa di titoli di stato, oltre che produrre gettito d’imposta in un momento in cui i tesori nazionali sono impegnati a finanziare deficit crescenti. Meno certo l’effetto sui flussi creditizi: oggi le banche stanno tesaurizzando le riserve, ed è probabile che finirebbero col fare lo stesso con i nuovi depositi creati dai rimpatri, limitandosi probabilmente ad investire a loro volta in titoli di stato. Già oggi peraltro si starebbe assistendo al tentativo di rimpatrio “coperto” di capitali esportati in paradisi fiscali. Si comprende quindi meglio la potenzialità dell’operazione: rendere meno sicuro detenere fondi in legislazioni fiscali “non cooperative”, e indurre un movimento di progressivo rimpatrio di quel denaro, per dare ossigeno nell’immediato soprattutto a conti pubblici messi in ginocchio dalla crisi. Se questa mossa “dissuasiva”, finalizzata a mutare gli incentivi ed il payoff dell’esportazione di capitali e del mantenimento dei medesimi in centri offshore, non dovesse produrre gli esiti sperati in termini di flussi di ritorno, sarà sempre possibile ricorrere ad un’ulteriore repressione dei paradisi fiscali, ed attuare poi iniziative di scudo fiscale per indurre i rimpatri.
Anche il previsto giro di vite sugli hedge fund (ammesso e non concesso che si riesca a realizzarlo, visto che implicherebbe un grado di cooperazione regolatoria internazionale molto elevato) ha delle motivazioni riconducibili alla crisi. In primo luogo, gli hedge fund sono venditori netti di protezione creditizia tramite i credit default swap, e tendono quindi ad essere elementi di destabilizzazione sistemica, visti anche gli elevatissimi livelli di leva finanziaria utilizzata. Ma soprattutto, gli hedge funds operano prevalentemente in legislazioni fiscali offshore, rappresentando quindi eccellenti veicoli di riciclaggio dei capitali esportati. Ecco perché il tema della stretta sui cosiddetti paradisi fiscali non può essere considerato solo un diversivo populista, nell’ambito della grave crisi che stiamo vivendo.
In tale contesto, occorre poi prestare massima attenzione alla Svizzera, sulla quale stanno addensandosi rilevanti fattori di rischio. Il desiderio, soprattutto francese e tedesco, di ridimensionare un centro di riciclaggio internazionale di fondi (non necessariamente nel senso criminale del termine, s’intende) a due passi da casa, potrebbe determinare fortissime turbolenze nel nostro continente.
 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

Quel fallimento “forzato” di Obama

May 5th, 2009 by editor - di Mario Seminerio - Liberal Quotidiano
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Giovedì scorso a New York Chrysler ha presentato richiesta di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria nota come Chapter 11, comunicando di voler vendere i propri asset principali, inclusi i marchi Chrysler, Jeep e Dodge, ad una nuova compagnia destinata ad essere posseduta dai governi di Stati Uniti e Canada, da Fiat e dai lavoratori della società, riuniti nella United Auto Workers, tramite il fondo VEBA. La procedura prescelta (formalmente dall’azienda ma di fatto dalla Casa Bianca) ha sollevato l’opposizione di alcuni hedge funds e fondi d’investimento, ma anche fondi pensione ed endowment funds di college, che si trovavano nella condizione di creditori privilegiati (secured) perché, secondo questi investitori, l’azienda intende invertire l’ordine di priorità nel pagamento dei debiti societari, subordinando i creditori privilegiati a quelli ordinari, tra i quali vi è il sindacato, che avrà il 55 per cento della nuova Chrysler, dopo il rifiuto dei creditori privilegiati ad accettare rimborsi in via extragiudiziale pari a soli 29 centesimi per dollaro.
La disputa, aldilà delle tecnicalità, presenta una valenza politica molto rilevante. Gli avversari della soluzione scelta da Obama denunciano la violazione dei principi della legge fallimentare e l’introduzione di elementi di arbitrio politico nella gestione delle crisi di aziende “sensibili”, che finirà con l’indebolire la tutela dei diritti di proprietà. I creditori privilegiati, si sostiene, hanno accettato una minore remunerazione proprio in virtù delle garanzie collaterali rappresentate da impianti e marchi. Questa entrata a gamba tesa della Casa Bianca rischia di provocare l’aumento del premio al rischio richiesto da chiunque reputi che il proprio investimento possa essere espropriato in caso ciò possa servire a questa amministrazione o ad una futura. Il costo del finanziamento, debito ed azioni, salirà di conseguenza. Obama ha usato toni molto duri contro i creditori privilegiati che hanno rifiutato la proposta di rimborso, definendoli “speculatori”, ma scorrendo la lista tra essi si trovano anche investitori (come le mutualità di credito) che a tutto possono assomigliare tranne che ad eredi di Gordon Gekko.
Colpisce la schizofrenia dei salvataggi pubblici: da un lato, il governo non ha sinora accettato soluzioni che prevedano perdite per i creditori delle banche (gli obbligazionisti, perché i depositi fino a 250.000 dollari sono coperti), consentendo a banche sottocapitalizzate di continuare ad operare senza la necessaria ristrutturazione. Dall’altro, l’esecutivo forza l’industria automobilistica ad assumere iniziative che si risolvono in un vulnus dei creditori privilegiati. La prossima tappa di questa “reinterpretazione” della legge è attesa per la fine di maggio, quando scadrà l’ultimatum di Obama a General Motors. Qui si è già avuto un prodromo nelle scorse settimane, con la defenestrazione di Rick Wagoner per opera della Casa Bianca, che ad evidenza non è (ancora) neppure azionista di controllo di GM.
Anche se ci troviamo in un momento di crisi epocale, la priorità dovrebbe essere la tutela dei diritti di proprietà e delle regole del gioco capitalistico, che prevedono la punizione del management che ha sbagliato ed anche dei gruppi di controllo societario. Finora Obama ha usato una politica di discrezionalità settoriale che rischia di portare il già ammaccato capitalismo statunitense a livelli caratteristici dei paesi emergenti
 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

 

 

 

  Banche USA: il gioco delle 3 carte

08 Maggio 2009 14:18 TORINO - di Alberto Bisin

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La giornata di ieri sembrerebbe aver segnato una svolta nella crisi finanziaria: la Banca Centrale Europea ha abbassato il tasso di interesse di riferimento al suo minimo storico, e il Tesoro americano ha pubblicato i risultati dello stress test sui bilanci delle principali banche.

Purtroppo non è così, siamo ancora in alto mare. Innanzitutto, le misure classiche di politica monetaria, come la riduzione dei tassi, hanno effetti minimi su una crisi finanziaria profonda come quella in cui ci troviamo. La Fed ha ridotto i tassi negli Stati Uniti essenzialmente a zero mesi orsono, senza effetti significativi sulla disponibilità di credito a famiglie e imprese.
Lo stress test dei bilanci delle banche americane operato dal Tesoro ha invece un obiettivo fondamentale.
Eliminare gli ostacoli che la situazione finanziaria delle banche frappone alla ristabilizzazione dei flussi di credito, senza i quali uscire dalla recessione è impresa titanica anche per economie di mercato ben sviluppate. Nonostante le intenzioni, però, anche questo intervento rappresenta una grande occasione perduta piuttosto che non la svolta necessaria alla crisi.

Vediamo perché. Nei bilanci delle banche sono nascoste passività e rischi di enorme entità. Le stime recenti del Fondo Monetario Internazionale riportano 1000 miliardi di dollari di perdite in tutto il sistema finanziario, il 50% in capo alle banche, di cui solo 200 miliardi realizzati a bilancio. I creditori di ogni singola banca, specie gli azionisti, hanno interesse a mantenere queste passività nascoste fino a che la ripresa economica non se le porti via (o fino a che il governo non le addossi ai contribuenti). Ogni banca ha persino interesse a che le altre banche ripuliscano i loro bilanci, così da sostenere una ripresa economica che ne ripulisca il proprio. Lo stallo che questa situazione genera è estremamente dannoso per l’economia globale proprio perché una ripresa vivace e tempestiva è impossibile fino a che le banche non abbiano ripulito i propri bilanci e il mercato del credito non torni a operare efficientemente. È qui che lo stress test del Tesoro potrebbe intervenire: passare i bilanci delle banche ai raggi X, costringerle a realizzare le perdite e a ricapitalizzarsi in modo da poter sopportare anche i rischi derivanti da una rinnovata attività nei mercati del credito.

Ho usato il verbo «costringere» a ragion veduta. Come ho detto, le banche non hanno interesse a ripulire i bilanci, mentre il sistema economico ha interesse che lo facciano con celerità.

Lo stress test rappresenta una grande occasione persa per due ragioni. Prima di tutto, perché il Tesoro non ha prodotto un’analisi trasparente dei bilanci delle banche, ma anzi ne ha concordato i risultati con le banche stesse. In questo modo non si risolvono i dubbi degli investitori (cui spetterà la necessaria ricapitalizzazione) sul reale stato di solvibilità del sistema finanziario. Ma lo stesso test è una grande occasione perduta soprattutto perché il Tesoro non costringe le banche a nulla. Anzi, continua a prometter loro interventi e sussidi pubblici nel caso la ricapitalizzazione sul mercato privato fallisca. In questo modo si riducono enormemente gli incentivi delle banche a realizzare le perdite nascoste nelle pieghe dei loro bilanci.

La politica perseguita dal ministro Geithner è quindi la stessa iniziata dal ministro Paulson: salvare le banche prima di tutto. Stime della commissione di controllo del Congresso (Congressional Oversight Panel) riportano perdite dirette per i contribuenti dagli interventi sui mercati finanziari a oggi dell’ordine di 170 miliardi di dollari, cui vanno aggiunte garanzie assicurative valutabili in oltre 100 miliardi di dollari. Infine, i fondi di investimento a partecipazione pubblica e privata che acquisteranno le attività «tossiche» delle banche, annunciati ma non ancora istituiti, costeranno ai contribuenti secondo i più attenti osservatori 2 dollari per ogni dollaro investito dal settore privato.

Questa politica non ha dato a oggi alcun significativo effetto positivo sui mercati finanziari e continuerà a non darne in futuro. Il Tesoro sembra continuare a proporsi di evitare a ogni costo di dichiarare alcune banche insolventi, per timore di una crisi sistemica nei mercati finanziari e forse anche per limitare le perdite di management e azionisti delle banche, cui il ministro Geithner è vicino per frequentazione e interessi politici. In questo modo però il mercato del credito rimane congelato e la ripresa economica più lontana e anemica. Era questo il momento per il Tesoro di sollevare la testa dalla sabbia e proporre come meglio affrontare il rischio sistemico invece di nasconderlo. Peccato, sarà per la prossima volta.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

  Venerdì 08 Maggio 2009   Sabato 09 Maggio 2009   Giovedì 14 Maggio 2009  
       
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  Economia: ma è davvero finita la crisi?

10 Maggio 2009 23:59 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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Alcuni economisti e strategist continuano ad applicare i criteri quantitativi della modernità e fanno notare che i risultati macro, gli utili delle società e l’attivo delle banche non offrono motivi per fare festa. Il Pil mondiale sta ancora scendendo e non si stabilizzerà ancora per qualche mese, l’attivo delle banche continua a svalutarsi e gli utili nel loro complesso, se anche hanno toccato i minimi nel primo trimestre, rimarranno su livelli depressi.
Nei mercati, per contro, è evidente una valutazione della realtà più estesa e in particolare si considerano due fattori. Il primo è che dopo il terremoto dei mesi scorsi (che a un certo punto aveva fatto temere il crollo del sistema) tutti gli edifici sono stati puntellati in un modo che ne garantisce di nuovo l’abitabilità.
La domanda aggregata è stata puntellata con i pacchetti fiscali, la liquidità con energiche misure di sostegno, i titoli di stato e dei mutui con acquisti diretti da parte di un numero crescente di banche centrali, le grandi imprese industriali con un sostegno esplicito dei governi, il capitale delle banche con iniezioni di denaro pubblico, l’attivo delle banche con l’istituzione di grandi strutture (Talf, Ppip) destinate a rilevarne una parte decisiva, il passivo delle banche con esplicite garanzie statali, l’est europeo (e ora l’America Latina) con i soldi messi a disposizione del Fondo Monetario debitamente ricapitalizzato e infine i paesi deboli dell’Europa occidentale (Irlanda, Grecia e Spagna) con semplici parole in tedesco che per la prima volta hanno fatto trasparire la possibilità di un soccorso misericordioso in caso di bisogno estremo.

L’azione di puntellamento è stata così efficace che tutti gli edifici sono ora in grado di sopportare lo sciame sismico (ma non un’altra eventuale forte scossa nel sistema bancario, come ha ricordato Bernanke). E’ diminuito del resto anche il carico che questi edifici devono sopportare grazie ai 40-50 milioni di persone (8 in America, poco meno in Europa, 20 in Cina e poi c’è il resto del mondo) che tra fine 2007 e fine 2010 verranno fatti uscire dal mercato del lavoro.
L’avere evitato il crollo del sistema e di singoli edifici importanti ha permesso l’uscita dal paradigma del terrore e la fine di quell’extra premio per il rischio che aveva portato le valutazioni, in numerosi casi, a livelli estremi. Questo fattore, già da solo, giustifica il recupero realizzato finora dai mercati. Da qui in avanti (in realtà forse già da un paio di settimane) subentra il secondo fattore, la considerazione per la buona volontà. La buona volontà (o il carattere come dicono in America quando si giudica qualcuno per come si comporta o comporterebbe nelle situazioni estreme) dà ai mercati lo spunto per arrotondare ulteriormente al rialzo le valutazioni.
Già, si dirà, ma quale buona volontà? Quella, ad esempio, delle imprese che non hanno aspettato un minuto per ridurre la produzione e gli investimenti, quando in passato, fino a tutti gli anni Novanta, i tempi di reazione erano stati molto più lenti. Oppure quella delle banche centrali che si dichiarano disponibili, intellettualmente e praticamente, a prendere altre misure ancora più aggressive se dovesse manifestarsene la necessità. O ancora quella delle banche (poche ma simbolicamente importanti) che si dichiarano già pronte a restituire allo stato le iniezioni di capitale pubblico ricevute.

Nonostante la diffidenza diffusa, in ogni caso, i mercati hanno premiato i titoli bancari dopo le anticipazioni sull’esito dello stress test da parte del Tesoro americano. Sfruttando la maggiore solidità psicologica dei mercati il Tesoro ha infatti preso coraggio e non ha dato la promozione politica a tutte le banche, imponendo anzi ricapitalizzazioni abbastanza significative a quasi tutte. In questo modo lo stress test ha recuperato un minimo di credibilità e la necessità da parte delle banche di raccogliere nuovo capitale è ora vista non come una misura disperata ma come l’inizio di un processo di stabilizzazione.
Certo, non c’è da illudersi sulla possibilità che questo ciclo di ricapitalizzazioni prossimo venturo sistemi i problemi. Altri cicli anche più robusti saranno necessari nei prossimi tre anni, augurabilmente a prezzi azionari crescenti.
Insistiamo sulle banche perché continueranno a essere il punto debole del sistema. Bernanke è stato chiaro. Non è il ciclo economico di per sé a preoccupare più di tanto. Anche se i disoccupati aumenteranno ancora parecchio nei prossimi 12 mesi (pur senza raggiungere, secondo la Fed, quel 10 per cento di consenso) il sistema sta già producendo anticorpi. Se però le banche si giapponesizzano sul serio allora tutto diventa molto, molto difficile.

La possibilità di un lungo e logorante credit crunch per anni e anni a venire è il singolo elemento più citato dai pessimisti, a partire da quasi tutti gli economisti e strategist di Morgan Stanley. E’ un tema assolutamente decisivo, ancora di più di quello della solvibilità strategica delle banche (sempre risolvibile con le nazionalizzazioni, all’occorrenza).
In questo contesto ci pare molto appropriata una considerazione degli economisti americani di Goldman Sachs. Anche se dovesse esserci una contrazione del volume degli impieghi delle banche, dicono, non è detto, quanto meno in astratto, che questo debba comportare per forza una contrazione del Pil.
L’esempio pratico che fanno merita di essere riportato. Supponete di avere da molti anni un reddito annuo di 40,000 e di avere dalla notte dei tempi un debito con la banca di 100,000. Ogni anno, il 31 dicembre, la banca decide se e come rinnovare il finanziamento. Dopo molti anni di stabilità assoluta la banca decide (mettiamo a fine 2007) di rinnovare i soliti 100,000 e di concederne altri 10,000. Il vostro reddito spendibile (e quindi il Pil) sale nel 2008 da 40,000 a 50,000.
A fine 2008, tuttavia, la banca si spaventa e decide di riportare il finanziamento a 100,000. Dovete quindi restituire 10,000 e il vostro reddito spendibile per tutto il 2009 passa da 50,000 a 30,000 (i 40 che guadagnate con il lavoro meno i 10 che dovete ridare indietro).
A fine 2009 la banca, ancora preoccupata, riduce ulteriormente il finanziamento da 100,000 a 95,000. Il credit crunch, attenzione, si intensifica. Fate però due conti e vedrete che il reddito che potrete spendere nel 2010 sale da 30 a 35,000 (i 40 che guadagnate con il lavoro meno i 5 che dovete restituire).
Ci è sembrato utile riportare questo esempio perché sono davvero in molti quelli che affermano che il Pil, a parità di moltiplicatore bancario, è un multiplo del credito, per cui se cala uno deve calare anche l’altro. E invece non è detto. Detto questo, nel breve termine degli uno due mesi i mercati potranno ancora recuperare, anche se molto più lentamente di quanto abbiano fatto finora. Va tenuto però presente che i mercati, da qui in avanti, cominceranno a fare credito alla realtà, ad anticipare cioè una stabilizzazione che entro un paio di mesi dovrà dare conferme di sé.

La stabilizzazione è la stabilizzazione, non la decelerazione della caduta che vediamo adesso. Se non risaliremo davvero verso lo zero (e se nel frattempo i mercati saranno saliti ancora) ci sarà un consolidamento e si tornerà vicino ai valori attuali.
Riteniamo ancora valido il programma di acquisto a rate in borsa per i prossimi tre-quattro trimestri, con l’obiettivo di vedere prezzi più alti a fine 2010. I paesi emergenti vanno tenuti molto d’occhio. Il Fondo Monetario ha ribadito che l’America Latina, non appesantita da problemi bancari, sarà la prossima a ripartire (Cina e India l’hanno già fatto).
Nel clima di ripresa il dollaro mostra qualche modesto segno di debolezza. E’ importante notare che non si tratta, al momento, di una valutazione negativa dei fondamentali americani, quanto della ripresa del carry trade, che in sé è un segno di ripresa della voglia di rischiare.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

 

 

 

Il futuro europeo del welfare americano

May 14th, 2009 - di Mario Seminerio
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Gli amministratori della Social Security (il sistema previdenziale americano) e del Medicare hanno pubblicato questa settimana il rapporto annuale sulle condizioni finanziarie dei due programmi di spesa federale. Il Medicare quest’anno sarà in deficit, cioè avrà esborsi per prestazioni in eccedenza su quanto riceve dalla fiscalità. Tutti gli americani pagano contributi sociali sulla busta paga pari al 2,9 per cento per il Medicare, ripartiti a metà tra lavoratore e datore di lavoro. Il saldo finanziario della Social Security è ancora in attivo, ma è atteso entrare in deficit nel 2016. La Social Security è finanziata al 12,4 per cento della retribuzione lorda, anche in questo caso ripartita paritariamente tra lavoratore (fino ad un tetto retributivo indicizzato all’inflazione) e datore di lavoro.

Quando i programmi saranno strutturalmente in deficit il governo federale avrà tre opzioni, variamente combinabili: aumentare le tasse, tagliare le prestazioni o aumentare il tasso di rendimento dell’attivo. Secondo i Trustees, ipotizzando l’invarianza dei benefici, l’aliquota di contribuzione di equilibrio dovrebbe salire per la Social Security al 14,4 per cento (con un aumento del 16 per cento sui livelli attuali), e per il Medicare al 6,78 per cento, con un aumento del 134 per cento. Complessivamente, quindi, l’equilibrio finanziario dei due programmi, a benefici invariati, richiederebbe un’aliquota della payroll tax al 21,18 per cento, prima delle imposte federali e statali. Per un lavoratore che percepisce il salario minino federale di 7,25 dollari l’ora (pari a 15.080 dollari annui), ciò significherebbe maggiori trattenute per 1500 dollari l’anno, con un depauperamento difficilmente sostenibile, e destinato a produrre effetti devastanti sui consumi, considerata anche la maggiore propensione ai consumi che gli strati sociali a minor reddito presentano.

Saranno quindi necessarie correzioni strutturali ai due programmi di spesa federale. Obama ha già suggerito in campagna elettorale la possibilità di rimuovere il tetto di retribuzione massima indicizzabile sul quale applicare la trattenuta per la Social Security. Difficilmente, poi, il governo sceglierà una correzione esclusivamente centrata sul versante delle entrate, a benefici invariati, visto l’impatto sul costo del lavoro e sull’occupazione che ciò implicherebbe. Per la Social Security, inoltre, una rettifica alle assunzioni attuariali sul tasso atteso di crescita del Pil tende a riportare i conti in equilibrio, ovviamente con il caveat della fattibilità di raggiungimento dei nuovi target di crescita, per non scadere nella contabilità creativa. Per il sistema sanitario si attende la Grande Riforma di Obama, il cui obiettivo strategico è quello di piegare il trend di crescita della spesa sanitaria sul Pil, frutto di avanzamenti tecnologici e di incentivi sfavorevoli prodotti dall’attuale sistema, come l’eccesso di ricorso alle strutture di pronto soccorso causato dall’assenza di spesa per la prevenzione da parte dei soggetti non assicurati, o l’eccesso di costi di marketing da parte delle assicurazioni, per cercare di acquisire soggetti in salute ed evitare quelli a rischio, o la overmedication causata dall’assenza di compartecipazione alla spesa sanitaria (l’”effetto-ticket”) da parte degli assicurati.

La riforma di questi due capitoli di spesa sarà cruciale per il futuro del sistema-paese statunitense. L’andamento esplosivo della spesa prevista per gli entitlements deve essere affrontato in modo radicale, lungo due direttrici strategiche: evitare aumenti del costo del lavoro, e lo sviluppo di deficit strutturali che peserebbero in modo “europeo” sul bilancio federale ma senza avere il tipo di copertura sociale, su pensioni e sanità, che gli europei riescono ancora, malgrado tutto, ad ottenere. Sono due modelli squilibrati ma quello americano, senza interventi radicali, rischia di esserlo ancora di più.
 

Fonte - Libero Mercato

 

 

Obama preme per la riforma delle carte di credito

11 Maggio 2009 09:01 NEW YORK - di APCOM
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Se l'America vuole uscire dalla recessione deve manifestare «trasparenza e responsabilità» a tutti i livelli per rafforzare la fiducia dei consumatori. Questo traguardo passa anche, banalmente, dal modo in cui in America si utilizzano le carte di credito. È tempo che gli istituti mettano gli utenti in grado di capire «sempre» quale sia il costo delle carte, che operino con «trasparenza e responsabilita», e che sulla materia l'America abbia insomma una nuova legge.

Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha inviato questo messaggio sabato al Congresso chiedendo a Capitol Hill di approvare al più presto la proposta di legge che riforma in America il ricorso alla cosiddetta 'plastic money'.
Nel consueto discorso radiofonico e via Youtube del sabato Obama ha insistito sulla necessità che i consumatori americani siano messi nelle condizioni di capire in modo chiaro quanto costa l'utilizzo della carta, e che dunque ogni istituto bancario fornisca loro in termini «facilmente comprensibili e assolutamente trasparenti» i resoconti di gestione delle carte.
Obama ha insistito sulla necessità che le istituzioni americane siano di esempio nei loro comportamenti («devono agire secondo quel senso di responsabilità e giustizia che la gente si aspetta da loro»). PeRchè sono loro, le istituzioni, a dare per prime l'esempio, «comportandosi come la gente si aspetta che le istituzioni si comportino».

Secondo il presidente, se l'America vuole uscire dalla recessione in cui è precipitata, «ognuno deve assumersi le proprie responsabilita» e se questo vale per la politica, per le grandi banche e per le grandi istituzioni di Wall Street, a maggior ragione vale per gli istituti che gestiscono le carte di credito, quelle cioè che in definitiva hanno un rapporto diretto sui consumi quotidiani degli americani.
«È più che mai evidente - ha detto il presidente - che in nessun altro settore come in quello delle carte di credito sia necessaria trasparenza e giustizia». I consumatori hanno bisogno di ricevere rendiconti chiari, facilmente comprensibili, che non «nascondano» penali o ricarichi che non riescono a capire. «Invece di rendiconti stampati in modo elegante, è tempo di adottare un linguaggio immediatamente comprensibile», ha precisato Obbama. Che ha invitato il Senato ad approvare la legge di riforma del settore.
Il provvedimento è già stato approvato dalla Camera, ma deve ancora essere esaminato dal Senato. Obama ha chiesto che questo esame venga fatto in fretta, in modo che lui la possa firmare la nuova legge il 25 maggio prossimo, in occasione del Memorial Day, il giorno in cui l'America ricorda il sacrificio dei soldati caduti.
 

Fonte - APCOM

 

 

 

 

 

 

  La felicità è un bene globale

19 Maggio 2009 08:11 - di Dani Rodrik*

*L'autore insegna Economia politica ad Harvard

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Forse ci vorrà qualche mese o forse un paio d'anni, ma in un modo o nell'altro gli Stati Uniti e le altre economie avanzate alla fine supereranno la crisi odierna. Probabilmente, però, l'economia mondiale non tornerà più come prima.
Passata la fase peggiore della crisi, è probabile che ci ritroveremo in un mondo per certi versi deglobalizzato, un mondo dove gli scambi internazionali crescono a un ritmo più lento, dove c'è meno finanza esterna e dove i paesi ricchi saranno molto meno disposti a tenere in piedi deficit consistenti nella bilancia dei pagamenti. Si preparano tempi duri per i paesi emergenti?
Non necessariamente. La crescita nei paesi in via di sviluppo di solito assume tre varianti distinte. Prima arriva la crescita trainata dal debito estero. Poi arriva la crescita come effetto collaterale di un boom delle materie prime. Poi arriva la crescita trainata dalla ristrutturazione economica e dalla diversificazione in nuovi prodotti.
I primi due modelli comportano rischi maggiori del terzo. Ma non c'è da perderci il sonno, perché sono modelli imperfetti e in definitiva insostenibili. Quello di cui ci dovremmo preoccupare è la sorte dei paesi dell'ultimo gruppo. Queste nazioni dovranno procedere a modifiche significative delle loro politiche per adeguarsi alle nuove realtà odierne.
I primi due modelli di crescita conducono invariabilmente a un finale infausto. Prendere in prestito soldi da Paesi esteri può consentire a consumatori e Governi di vivere al di sopra dei loro mezzi per un po' di tempo, ma non è saggio fare affidamento sui capitali esteri. Il problema non è soltanto che questi flussi di capitale possono facilmente invertire rotta, ma anche che producono un tipo di crescita sbagliato, basato su monete sopravvalutate e investimenti in beni e servizi non scambiati, come l'immobiliare e l'edilizia.
Anche la crescita trainata da un prezzo alto delle materie prime può portare a disastri, per ragioni analoghe. I prezzi delle materie prime tendenzialmente hanno un andamento ciclico. Quando sono alti, si prestano a escludere gli investimenti in prodotti lavorati e altri beni scambiabili non tradizionali. Inoltre, i boom delle materie prime spesso producono situazioni politiche sgradevoli in Paesi dotati di istituzioni deboli, dando origine a conflitti costosi per il controllo dei proventi di queste risorse, che raramente vengono investiti con saggezza.
E dunque non c'è da stupirsi che i paesi che negli ultimi sessant'anni sono riusciti a realizzare una crescita costante e di lungo periodo siano quelli che si sono affidati a una strategia diversa: promuovere la diversificazione in prodotti lavorati e altri beni "moderni". Conquistandosi una fetta crescente dei mercati mondiali di prodotti lavorati e altri prodotti non primari, queste nazioni hanno incrementato le opportunità occupazionali interne in attività ad alta produttività. I loro governi non si sono concentrati unicamente sui "fondamentali" (ad esempio la stabilità macroeconomica e la tendenza ad aprirsi all'esterno), ma anche su quelle che potremmo definire politiche "produttiviste": monete sottovalutate, politiche industriali e controlli finanziari.
La Cina esemplifica questo approccio. La sua crescita è stata alimentata da una trasformazione strutturale straordinariamente rapida verso un insieme di beni industriali sempre più sofisticato. Negli ultimi anni, inoltre, la Cina ha sviluppato un grosso surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti, il corrispettivo della sua moneta sottovalutata.
Ma non è stata solo la Cina. I Paesi che sono cresciuti rapidamente nel periodo precedente al grande crack del 2008 di solito erano caratterizzati da surplus commerciali (o da deficit molto contenuti). Questi Paesi non avevano nessuna voglia di accogliere flussi di capitale perché erano consapevoli che una cosa del genere avrebbe messo seriamente a rischio l'esigenza di mantenere una valuta competitiva.
Ora tutti sono del parere che i grandi squilibri nella bilancia dei pagamenti - esemplificati dalla relazione commerciale tra Cina e Stati Uniti - hanno giocato un ruolo importante nel grande crack. Per il bene della stabilità macroeconomica simili squilibri sono da evitare in futuro. Ma perché la crescita torni a viaggiare a ritmi sostenuti nei paesi in via di sviluppo è necessario che questi ultimi riprendano a concentrarsi su beni e servizi scambiabili. In passato questa situazione era agevolata dalla disponibilità degli Stati Uniti e di altre nazioni sviluppate a tenere in piedi ingenti deficit commerciali, ma ora non è più una strategia praticabile per i Paesi in via di sviluppo ad alto o medio reddito.
La stabilità macroeconomica globale e la crescita dei Paesi in via di sviluppo dunque sono due obbiettivi in contraddizione tra loro? L'esigenza dei Paesi emergenti di generare importanti incrementi dell'offerta di prodotti industriali è inevitabilmente in contrasto con il fatto che gli squilibri commerciali sono insostenibili per l'economia mondiale?
In realtà non esiste nessun conflitto intrinseco, una volta messo in chiaro che ciò che conta per la crescita dei Paesi in via di sviluppo non sono le dimensioni dei loro surplus commerciali, e nemmeno il volume delle loro esportazioni. Quello che conta è la produzione di beni (e servizi) industriali moderni, che è possibile espandere illimitatamente se contemporaneamente si espande la domanda interna. Mantenere sottovalutata la propria moneta ha il vantaggio di sovvenzionare la produzione di questi beni, ma anche lo svantaggio di tassare i consumi interni, ed è per questo che una simile politica dà origine a un surplus commerciale. Incoraggiando direttamente la produzione industriale è possibile godere dei vantaggi senza subirne gli svantaggi.
Ci sono molti modi per fare una cosa del genere, come ad esempio ridurre il costo dei fattori produttivi interni e dei servizi mediante investimenti mirati nelle infrastrutture. Le politiche industriali esplicite possono essere uno strumento ancora più efficace. Il punto chiave è che i Paesi in via di sviluppo che puntano a rendere più competitivi i loro settori moderni possono permettersi di far apprezzare le loro valute (in termini reali) solo se hanno la possibilità di mettere in campo politiche alternative che promuovano in modo più diretto le attività industriali.
Dunque la buona notizia è che i Paesi in via di sviluppo possono continuare a crescere rapidamente anche se gli scambi mondiali rallentano e se c'è meno fame di flussi di capitale e squilibri commerciali. Le loro potenzialità di crescita non vengono seriamente penalizzate, a patto che siano ben chiare le implicazioni di questo nuovo contesto rispetto alle politiche interne e internazionali.
Una di queste implicazioni è che i Paesi in via di sviluppo dovranno sostituire le politiche industriali che fanno leva sul tasso di cambio con politiche industriali vere. Un'altra è che gli attori esterni (ad esempio l'Organizzazione mondiale del commercio) dovranno essere più tolleranti nei confronti di queste politiche, a patto di neutralizzarne gli effetti sulla bilancia dei pagamenti attraverso adeguati aggiustamenti del tasso di cambio. Un maggior ricorso alle politiche industriali è il prezzo da pagare per una riduzione degli squilibri macroeconomici.
 

 

Traduzione - Fabio Galimberti

 

Fonte estera - Project Syndicate

Fonte - SOLE24ORE

 

 

 

 

  La crisi del 1929 e le sue false morali

20 Maggio 2009 08:48 MILANO - di Alberto Alesina

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L'analisi più comune sulla crisi che stiamo attraversando è questa. Oggi come nel '29 il capitalismo, soprattutto quello di stampo anglosassone, rivela di essere profondamente instabile. I mercati, non solo quelli finanziari ma anche in altri settori, sono troppo poco regolati e per questo provocano gravi danni. Come Franklin Delano Roosevelt salvò l'America dalla crisi del '29 con un forte intervento pubblico nell'economia, e con stringenti regolamentazioni, così oggi bisogna ristabilire la supremazia della politica sui mercati, regolandoli fortemente sia a livello nazionale che internazionale. La crisi di oggi, continua questa analisi, porterà a una benvenuta svolta interventista e dirigista. C'è bisogno di qualcosa di simile a un nuovo New Deal.
Questa lettura della crisi del 2009 si basa su di una visione superficiale di quella del '29 e, quindi, porta a trarre delle lezioni sbagliate, sul presente e sul futuro. Partiamo da un fatto: la politica, non il mercato, fu la causa principale dello shock 80 anni fa. Clamorosi errori di politica economica trasformarono un aggiustamento dei mercati finanziari in una tragedia per l'economia reale. Lo stesso crollo di Borsa fu in parte accentuato da errori della politica monetaria. In secondo luogo, un'analisi attenta del presidente del New Deal, eletto nel novembre 1932, dimostra che non fu Roosevelt a far uscire l'America dalla depressione; anzi, alcune sue scelte politiche non fecero che prolungarla. Quello che stupisce della depressione americana è il fatto che durò così a lungo – ben un decennio, e chissà quanto ancora se non ci fossero state la Seconda guerra mondiale e la ricostruzione post bellica – e fu più grave che in Europa.

Gli sbagli di Herbert Hoover, predecessore di Roosevelt, e quelli della Federal Reserve causarono la crisi. Hoover era un ingegnere, poco capiva di economia e credeva che un sistema economico andasse diretto come una macchina, dando ordini e direttive alle sue componenti. E, infatti, insediatosi all'alba del funesto '29, ai primi segnali di recessione e deflazione convocò i maggiori industriali americani e impose loro di non abbassare i salari nominali per mantenerne il potere d'acquisto e sostenere i consumi.
Non potendo mantenere salari nominali costanti mentre i prezzi dei beni cadevano, gli imprenditori accelerarono le chiusure e fecero schizzare in su la disoccupazione.
Poi, Hoover si scagliò contro la finanza, spaventando gli investitori e accelerando il crollo del Dow Jones. Inoltre, accettò il ritorno al protezionismo approvando la tariffa Smoot Hawley, nonostante una famosa petizione contraria firmata da 1.028 economisti. Ne derivò una guerra commerciale che polverizzò quello che era rimasto della globalizzazione prebellica (la Belle époque) e fece precipitare il mondo nella crisi piu grave del capitalismo. Infine, preoccupato per il deficit in aumento, Hoover aumentò, e di molto, le imposte, dando un'altra batosta alla domanda aggregata.
Hoover consegnò a Roosevelt all'inizio del 1933 un'economia con un tasso di disoccupazione di circa il 20 per cento. Due anni dopo era al 23 per cento. Una ripresa nel '37 fu, poi, seguita da una nuova recessione l'anno successivo. In media, il totale delle ore lavorate in Usa fu inferiore del 23% durante il New Deal ('33-'39) rispetto agli anni prima del '29, nonostante fosse salita di molto la spesa pubblica. I consumi degli americani rimasero al 25% sotto trend durante quel periodo ritenuto leggendario. Non sembra un grande successo.
Che cosa fece Roosevelt? Una parte delle sue scelte politiche furono ottime: i sussidi alla disoccupazione limitarono i danni sociali della depressione, il sistema pensionistico pubblico tranquillizzò i consumatori sul loro futuro, l'assicurazione sui depositi bancari e la creazione di un regolatore dei mercati stessi (la Sec) contribuirono a stabilizzare i mercati finanziari. Ma il suo estremo dirigismo nella regolamentazione dell'economia fece gravi danni.
I teorici del New Deal erano convinti che il capitalismo andasse gestito e diretto dal centro della politica. In questo senso il National Recovery Act, che fu la prima mossa di Roosevelt nel '33, fu un disastro. Questa legge voleva fissare (o influenzare) prezzi e salari, impedire la concorrenza e promuovere monopoli centralizzati, anche meglio controllabili politicamente. Introdusse regolamentazioni molto specifiche su cosa si poteva e non si poteva fare nel campo della produzione e della scelta dei prodotti. Potenziali forze vitali dell'economia privata vennero essenzialmente schiacciate da queste asfissianti regole, nel loro insieme contrarie a qualunque basilare principio di economia.
Molti potenziali investitori spaventati dalle prospettive dell'economia di mercato e dal futuro status giuridico delle imprese, messi in discussione dal New Deal con la sua tesi della superiorità della politica, cessarono di investire peggiorando cosi la depressione. La Corte suprema dichiaro il National Recovery Act incostituzionale nel '35, ma quelle politiche industriali continuarono essenzialmente immutate. Roosevelt minacciò perfino l'indipendenza della Corte suprema nella sua battaglia dirigista. Ma alla fine lo stesso presidente riconobbe come un errore l'eccesso di regolamentazione e, in un discorso del '38, ammise di aver consegnato l'economia americana a dei monopolisti.
L'altro cardine delle politiche di Roosevelt fu il forte aumento della spesa pubblica, soprattutto per opere pubbliche. A giudicare dai risultati sull'occupazione sopra ricordati, tutto questo sforzo ebbe effetti molto meno straordinari di quanto normalmente si pensi. Anche altre recessioni aggredite con espansioni fiscali nel secondo dopoguerra dimostrano che i benefici della spesa pubblica, in particolare di grandi opere edili, per stimolare la crescita sono alquanto dubbi. Insomma, quello che stupisce nell'America del New Deal non è un veloce recupero dalla crisi del '29, ma un decennio di difficoltà più gravi che in altri Paesi industrializzati nella stessa epoca. I tentennamenti e le indecisioni di Roosevelt sull'abbandono del gold standard non fecero che aggravare il problema.

La lezione da trarre dalla crisi del '29 è, allora, molto diversa dalla riscoperta della regolamentazione, del dirigismo e dello statalismo.
La crisi di oggi è stata sì determinata dalle distorsioni dei mercati finanziari. Ma la gestione dell'economia ci ha messo del suo, a partire da tassi troppo bassi fissati dalla Fed nei primi anni del Duemila. Fra l'altro, molti dei leader europei che oggi si scagliano contro il capitalismo anglosassone sono gli stessi che criticavano la più prudente e saggia Banca centrale europea. E osannavano, invece, Greenspan per le sue politiche espansive, che poi, come si è visto, contribuirono alla crisi finanziaria. E se oggi, per fortuna, abbiamo in larga parte evitato gli errori di Hoover, adesso dobbiamo evitare anche quelli di Roosevelt. Protezione sociale sì, ma non reintroduzione del dirigismo e del capitalismo di Stato. Non ci deve essere una restaurazione. La lezione da trarre da questa crisi è quella che ha tratteggiato Guido Tabellini sul Sole 24 Ore del 7 maggio. Ovvero, il capitalismo dopo questo shock non cambierà. Riscriveremo alcune regole per mercati finanziari. Cercheremo di migliorare la supervisione e gli incentivi per i manager della finanza, oltre a cambiarne parecchi. Ma il capitalismo anglosassone, fondato sul mercato, continuerà a essere quello che produce piu crescita. Teniamocelo.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

  Sabato 16 Maggio 2009   Mercoledì 20 Maggio 2009   Sabato 23 Maggio 2009  
       
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USA: I CONSUMATORI HANNO SEMPRE PIU' FIDUCIA NELLA RIPRESA ECONOMICA

26 Maggio 2009 17:40 NEW YORK - di APCOM
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La sensazione delle famiglie americane e' che il peggio sia ormai alle spalle. Tirano un sospiro di sollievo i commercianti. Ma i mercati del lavoro e immobiliare restano ancora deboli.
Continua a crescere la fiducia dei consumatori, salita in maggio sui massimi di otto mesi, mentre si fa sempre piu' alto il numero di famiglie americane che ha la sensazione che il peggio della recessione sia ormai alle spalle.
Il Conference Board, un centro di ricerca privato di New York, ha reso noto che, dopo essere aumentato nettamente in aprile, l'indice Consumer Confidence e' cresciuto ancora in maggio, attestandosi a 54,9 punti dai 40,8 del mese precedente. Gli analisti si attendevano in media un risultato di 42,6 punti. Si tratta del livello piu' alto dallo scorso settembre, quando il dato era stato pari a 61,4 punti.
L'indice Present Situation, che misura la fiducia dei consumatori nell'economia, e' cresciuto a 28,9 punti dai 25,5 del mese scorso. Ma a sorprendere e' soprattutto il balzo dell'Expectations Index. L'indicatore che misura l'outlook dei consumatori nei prossimi sei mesi, e' aumentato a 72,3 punti dai 51,0 di aprile.
"Guardando al futuro, i consumatori sono decisamente meno pessimisti di quanto non fossero all'inizio dell'anno e prevedono che nei prossimi mesi le condizioni economiche, il mercato del lavoro e i redditi miglioreranno", ha commentato Lynn Franco, direttore del Conference Board Consumer Research Center. "Se da un lato la fiducia e' ancora debole rispetto agli standard, il peggio e' ormai alle nostre spalle", ha concluso Franco.
La lettura dell'indice ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai commercianti, che tanto fanno assegnamento sulle spese dei consumatori, in particolare dopo che nei mesi scorsi la fiducia delle famiglie americane era crollata sui minimi storici.
Il rally azionario, che dura da oltre due mesi, ha sicuramente contribuito a rassicurare le famiglie americane sul futuro dei propri fondi pensione. Inoltre i risultati fiscali migliori delle attese annunciati da diverse societa' del settore delle vendite al dettaglio, come Sears Holdings, Gap e Aeropostale, hanno offerto una prova evidente della stabilizzazione delle spese, anche se i livelli generali delle attivita' restano ancora deboli.
Tuttavia va detto che gli economisti temono che il rally del mercato azionario non possa essere sostenibile, a causa degli ostacoli che l'economia si trova ancora a dover superare prima di poter uscire dalla recessione. Quelli piu' difficili da sormontare sono senza dubbio la debolezza del mercato del lavoro e del settore immobiliare.
Da questo punto di vista, l'ultimo aggiornamento sui prezzi delle case, non e' stato confortante. Il rapporto Standard & Poor's/Case Shiller, l'indicatore che monitora il prezzo medio degli immobili nelle 20 maggiori citta' statunitensi, su base annuale e' risultato in calo del 18,70% nel mese di marzo. Le attese degli analisti erano in media per una contrazione del 18,40%.
Nel primo trimestre la flessione e' stata del 19,1%, il peggior dato nella storia del dato. Da quando hanno toccato il punto piu' alto nel secondo trimestre del 2006, i prezzi sono scesi del 32,2% e attualmente si trovano sui livelli che non si vedevano dalla fine del 2002.
 

Fonte - APCOM

 

 

UNA FAMIGLIA SU 5 IN DIFFICOLTA'

26 Maggio 2009 13:23 ROMA - di La Stampa
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Una famiglia su cinque ha difficoltà economiche crescenti e il 6,3% addirittura non riesce ad arrivare a fine mese. Lo scenario è tratteggiato dall'Istat nel Rapporto annuale 2008. Secondo l'Istituto di statistica, il 22% circa delle famiglie italiane è vulnerabile mentre il 41,5% si può definire «agiato». Nel dettaglio, l'Istat spiega che del 22% di chi ha problemi circa 2 milioni e mezzo di famiglie (il 10,4%) segnalano difficoltà economiche più o meno gravi e risultano potenzialmente vulnerabili soprattutto a causa di forti vincoli di bilancio. Spesso non riescono a effettuare risparmi e nella maggioranza dei casi non hanno risorse per affrontare una spesa imprevista di 700 euro. Sono la Sicilia (20,1% e la Calabria 17,1% le regioni dove è maggiore la frequenza di questo gruppo.

DIFFICOLTA' - Circa 1 milione 330 mila famiglie (5,5%) incontra difficoltà nel fronteggiare alcune spese. La maggioranza di queste famiglie si è trovata almeno una volta nel corso del 2007 senza soldi per pagare le spese alimentari, i vestiti, le spese mediche e quelle per i trasporti. Dal punto di vista territoriale «le famiglie in difficoltà per le spese della vita quotidiana» risultano relativamente più diffuse nel Mezzogiorno. In particolare Sicilia 12,3%, Calabria 11,6 e Puglia 10,3%. Circa 1 milione e 500 mila famiglie (6,3%) denunciano, oltre a seri problemi di bilancio e di spesa quotidiana, più alti rischi di arretrati nel pagamento delle spese dell'affitto e delle bollette, nonchè maggiori limitazioni nella possibilità di riscaldare adeguatamente la casa e nella dotazione di beni durevoli.
Sono residenti al Sud, in Campania 15,1% e in Puglia 12,3%, mentre in tutte le regione del Centro-Nord rappresentano meno del 5% della popolazione di ciascuna regione. Altri dieci milioni di famiglie (il 41,5% del totale) invece mostrano livelli inesistenti o minimi di disagio economico. Si tratta di famiglie con redditi alti e medio-alti, più diffuse nel Nord del Paese, in particolare residenti in Trentino-Alto Adige e in Valle D'Aosta. Circa 8 milioni e 800 mila famiglie infine (il 36,3%) vivono in condizioni di relativo benessere. Si tratta prevalentemente di famiglie formate da adulti e anziani a reddito medio (concentrate soprattutto in Molise con il 39,4% e in Liguria 36,7%) e di altre più giovani a reddito medio e medio-alto, che hanno come problema quasi esclusivo il rimborso del mutuo. Sono diffuse nelle regioni del Centro e del Nord, in particolare in Lombardia con il 10%, e nelle Marche e in Toscana con il 9,7%.

OCCUPAZIONE - Le condizioni del mercato del lavoro in Italia «peggiorano a causa della crisi in atto». Per la prima volta dal 1995, infatti, la crescita degli occupati nel 2008, che sono aumentati di 183 mila unità rispetto al 2007, è risultata inferiore a quella dei disoccupati, saliti di 186 mila unità sempre rispetto all'anno prima. Lo scorso anno la disoccupazione è tornata a crescere dopo circa dieci anni di diminuzione, coinvolgendo in misura maggiore gli uomini. Il fenomeno ha interessato in particolare il Centro e il Nord-Ovest, anche se il Mezzogiorno si è confermata l'area con la maggiore concentrazione di disoccupati.
Nel 2008, inoltre, gli occupati «standard», cioè a tempo pieno e con durata indeterminata, sono risultati circa 18 milioni; i lavoratori «parzialmente standard» (a tempo parziale e con durata non predeterminata) circa 2,6 milioni; gli atipici (dipendenti a termine e collaboratori) quasi 2,8 milioni. Per quanto riguarda gli atipici, evidenzia ancora il rapporto, quasi la metà - nello specifico un milione e 300 mila - sono presenti nel mercato del lavoro da più di dieci anni. Tratteggiato anche l'identikit del «disoccupato medio»: è un uomo di età compresa tra i 35 e i 54 anni che abita nel Centro-Nord, con un livello di istruzione non superiore alla licenza secondaria e che ha perso un lavoro alle dipendenze nell’industria.
Il mercato del lavoro evidenzia ancora una volta un divario strutturale tra il Nord e il Sud del Paese, ma anche nel Mezzogiorno ci sono territori in controtendenza. I lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e con orario full time crescono nelle regioni settentrionali e centrali e nelle classi di età adulte, mentre diminuiscono tra i giovani fino a 34 anni e nelle regioni del Mezzogiorno.
Il 2008 è stato caratterizzato da segni negativi e rallentamenti in tutto il mondo del lavoro, tuttavia la flessione più forte degli occupati si è registrata nei settori nell'agricoltura e nell'industria in senso stretto, con la crescita del ricorso alla cassa integrazione, mentre aumentano lievemente nel terziario e solo al Nord i posti di lavoro nelle costruzioni.

REDDITO - L'Italia è anche uno dei paesi europei con «la maggiore diffusione di situazioni di reddito relativamente basso: una persona su cinque è a rischio di vulnerabilità economica» sottolinea ancora il rapporto annuale dell'Istat, evidenziando che «rischi altrettanto elevati» si osservano in Spagna, Grecia, Romania, Regno Unito e nei Paesi baltici. Il rischio di vulnerabilità riguarda, invece, soltanto una persona su dieci nei paesi scandinavi, nei Paesi Bassi, nella Repubblica Ceca e in Slovacchia. Questo si rileva particolarmente nelle regioni meridionali: nel 2007 risultano esposte al rischio meno dell'8% nel Nord-est, poco più del 10% nel Nord-ovest e nel Centro e circa una su tre nel Mezzogiorno.

IMPRESE - Il rapporto evidenzia anche come la crisi per le imprese italiane sia iniziata prima che in altre parti del mondo. Nei primi mesi del 2008, in fase ancora espansiva, la metà delle imprese esportatrici già mostrava una caduta rilevante del livello di export (-12,5%) rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte di un aumento delle esportazioni di circa il 10%. Nel primo bimestre 2009 però più di un’impresa esportatrice su quattro (circa 6.500 imprese) ha registrato incrementi delle vendite all’estero, nonostante la crisi.

URBANIZZAZIONE - L'Istat segnala come continui ancora l'espansione delle aree urbanizzate in Italia, tanto che ogni anno il cemento aumenta in media di 22 metri cubi per abitante. Molise, Puglia, Marche, Basilicata insieme al Veneto le regioni in cui la corsa all'edificazione è più accentuata. Il Rapporto spiega che quest'espansione si è verificata spesso «in assenza di pianificazione urbanistica sovracomunale». Tra il 2001 e il 2008, limitatamente alle regioni per le quali è già in corso il processo di perimetrazione delle aree urbanizzate - si legge nel rapporto -, la superficie edificata è aumentata in misura più consistente in Molise (18%) e in Puglia, Marche e Basilicata (il 12% e il 15%). In Veneto, che sià nel 1991 condivideva con la Lombardia il primato della regione «più costruita» d'Italia, le superfici edificate sono cresciute ancora del 5,4%, «approssimando situazioni di saturazione territoriale», segnala l'Istat. Con Lazio e Puglia - specifica ancora il rapporto - il Veneto è anche la regione dove in assoluto si è costruito di più, con oltre 100 chilometri quadrati di nuove superfici edificate.

IMMIGRAZIONE - Nel 2008 in Italia sono arrivati più extracomunitari che comunitari. Nel corso dell'anno, rende noto l'istituto nel rapporto, sono arrivati 274 mila stranieri extracomunitari, contro 185 mila comunitari. Questo è avvenuto, secondo l'Istat, per il concorso di due cause: il rilascio di un consistente numero di permessi di soggiorno che si sono accumulati nei periodi precedenti, da un lato, e il rallentato ritmo di incremento degli ingressi di neocomunitari, dall'altro. Dei 3 milioni e 900 mila stranieri residenti in Italia al 1 gennaio 2009, la comunità più presente è quella romena (780 mila).
Con quella degli italiani, cresce anche la disoccupazione straniera. Il tasso di disoccupazione della popolazione straniera in Italia nel 2008 è dell'8,5%, due decimi di punto in più rispetto al 2007. Sono 162 mila gli stranieri in cerca di lavoro nel 2008, 26 mila in più rispetto all'anno precedente.

SCUOLA - La crescita del numero degli stranieri nel nostro Paese ha cambiato anche il volto delle nostre classi scolastiche. Nell'anno scolastico 2007-08 gli alunni stranieri nelle scuole italiane arrivano a quota 574 mila, in aumento dell'87% rispetto al 2003/04; in questo periodo, l'incidenza degli alunni stranieri sul totale è passata da 3,5 a 6,4 studenti non italiani ogni 100 iscritti. La maggior presenza di studenti stranieri si registra nelle scuole primarie, sia in termini assoluti (218 mila) sia relativi (7,7 ogni 100 iscritti). Nelle scuole secondarie di secondo grado, invece, l'incidenza di alunni stranieri è più contenuta (4,3 ogni 100 iscritti), anche se la loro presenza è più che raddoppiata rispetto al 2003-04, quando rappresentavano soltanto il 2% degli iscritti.
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

 

 

 

  Sbagliare non era obbligatorio

26 Maggio 2009 16:47 MILANO - di Marco Vitale

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«Abbiamo evitato un grande blow up e ora ci troviamo nel mezzo di un grande tentativo di cover up». Così riassume l'attuale momento un lucido finanziere svizzero con il quale concordo. Abbiamo evitato una grossa esplosione e questa è un'ottima notizia. Ma non l'abbiamo evitata come qualche anima bella del partito dei talebani del mercato si ostina pateticamente e, contro ogni evidenza, a ripetere, grazie alla capacità di autoregolamentazione dei mercati.
L'abbiamo evitata perché i governi hanno buttato nel fuoco trilioni di dollari, a debito dei contribuenti presenti e futuri (per molti anni), scardinando gli equilibri di finanza pubblica di tutti i principali paesi, sacrificando qualunque logica di mercato e di giustizia all'esigenza del "too big to fail", nazionalizzando di fatto gran parte del sistema bancario, sacrificando gli investimenti di cui il mondo ha bisogno, ponendo, quasi sicuramente, le premesse per una prossima severa inflazione. Penso che i governi abbiano fatto bene a fare ciò, ma che dobbiamo essere consapevoli di quanto è realmente successo e incominciare a porci delle domande sulle conseguenze (tipo: resterà la politica fuori dalla gestione delle banche dopo averci messo tanto capitale?) anziché continuare a raccontare fiabe.
Oggi è partita a livello internazionale una grande azione di cover up, per evitare sia una corretta resa di conti dei responsabili, sia una seria correzione del sistema. Ho sempre considerato come uno dei sintomi più inequivocabili dell'estrema gravità della crisi il fatto che, questa volta, l'America non abbia, per ora, attaccato i responsabili. L'America, in materia finanziaria, è sempre stata disinvolta e tollerante, salvo poi, in caso di sviluppi infausti, chiamare i responsabili a una dura resa di conto. L'ultima volta è stata con gli scandali societari dal 2001-2003, per i quali l'America usò, nei confronti dei responsabili, il pugno di ferro.
In questa crisi, invece, che è tante cose ma nella quale c'è anche certamente il più colossale schema Ponzi di tutti i tempi, di fronte al quale il povero Madoff appare un'educanda, non vi è per ora nessuna seria chiamata al tavolo delle responsabilità. Non esiste segnale più evidente della grande paura che ha attanagliato l'America ufficiale di questa non consueta inerzia. Sarà necessario aspettare le liti furibonde che si scateneranno tra banche, assicurazioni, hedge fund, fondi pensione, gestori di patrimoni, portatori di obbligazioni bidone (tipo Rembs, Residential mortgage backed securities), famiglie mutuatarie che rientrano nei criteri dell'Helping families save their homes act (circa 4 milioni di famiglie), per sentire parlare seriamente di responsabilità.
Ma vi è un altro cover up, più grave e insidioso, che interessa non solo l'America ma tutti noi e che attiene alla natura stessa della crisi. È il cover up intellettuale che tende a descrivere la crisi come un imprevedibile incidente tecnico di percorso. Questa lettura serve per poi poter concludere: e quindi non vi è nulla da fare e nulla da cambiare, ma solo aspettare che la congiuntura passi per riprendere tutto come prima.
Su questa linea si pone uno dei maggiori responsabili, l'ex governatore della Fed Alan Greenspan: «Ma prevedere l'insorgere di una crisi è qualcosa che appare al di là delle nostre capacità di previsione». Sulla stessa linea il premio Nobel Vernon L. Smith in una delle più futili, superficiali ancorché, come si dice, eleganti, letture della crisi che mi è capitato di ascoltare in una conferenza a Milano presso l'istituto Bruno Leoni: «I fenomeni di cui stiamo indagando sono intrinsecamente imprevedibili». Su una linea analoga si pone il professor Guido Tabellini: «In molti si aspettavano che la bolla immobiliare americana prima o poi sarebbe scoppiata. Ma ben pochi immaginavano che ciò avrebbe travolto i mercati finanziari di tutto il mondo».
E invece la crisi era prevedibile ed è stata prevista dai soliti grilli parlanti che hanno detto, più o meno, quello che il grillo parlante disse a Pinocchio: «Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito o sono matti o sono imbroglioni». Ma, come capita sempre ai grilli parlanti, non furono ascoltati. È più eccitante ascoltare e seguire il gatto e la volpe, cioè i banchieri d'affari, che promettono raccolti mirabolanti nel Campo dei miracoli ben concimato dai funamboli alla Greenspan.
Fu prevista, solo per fare qualche veloce esempio, da Claude Bébéar (Uccideranno il capitalismo, 2003); da John R. Talbott (The coming crash in the Housing Market, 2003; e Sell Now! The End of the Housing Bubble, 2006); Jean Peyrelevade (Capitalismo totale, 2005); Robert J. Shiller (Irrational Exuberance, 2000); Marco Vitale (America. Punto e a capo, 2002) e da tutti coloro che sapevano, anche su basi teoriche e storiche ben solide, che: la corsa al gigantismo bancario (come aveva già bene analizzato il rapporto Ferguson nel 1999-2000, tenuto ben nascosto sotto strati di silenzio); l'uso sfrenato del leverage a tutti i livelli: bancario, conti pubblici, private equity, famiglie; la concentrazione spinta della ricchezza legittimata dalla demenziale teoria della trickle down economy con la crescente polarizzazione tra ricchi e poveri che uno studioso americano serio, profondo, documentatissimo, conservatore, repubblicano, consulente di presidenti repubblicani da Nixon a Bush padre ha, in termini molto preoccupati, chiamato senza esitazione: plutocrazia; che l'abnorme, inaccettabile e non contestata posizione di potere e di denaro assunta dai Ceo, veri e propri neofeudatari; che tutto questo non poteva non portare, prima o poi, a un disastro anche se restava incerto il quando e quale sarebbe stato il detonatore. Tabellini attribuisce questo disastro mondiale a un «banale errore di valutazioni tecniche... La crisi è scoppiata per via di alcuni specifici problemi tecnici riguardanti il funzionamento e la regolamentazione dei mercati finanziari ed è stata acuita da una serie di errori commessi durante la gestione della crisi... Parlare di crisi del capitalismo, di fine della globalizzazione, di crisi di un sistema e di un modo di pensare, sarebbe una solenne stupidaggine».
Per trovare queste solenni stupidaggini il lettore non deve fare difficili ricerche bibliografiche. È sufficiente che legga i discorsi di Barack Obama nel corso della campagna elettorale, con la quale, il neo-presidente, ha riacceso la speranza nel cuore degli americani, ben riassunti e commentati da John R. Talbott nell'importante libro Obamanomics (2008).
All'inizio dello scoppio della crisi (Il Sole 24 Ore del 28 settembre 2008) scrissi: «Questa non è la fine o la crisi del capitalismo, ma la fine di una degenerazione del capitalismo e di una concezione che lo ha retto negli ultimi vent'anni..., questa non è la crisi del mercato ma della degenerazione del mercato...; è profondamente errato dire (come allora molti economisti dicevano) che questa è una crisi finanziaria che non tocca l'economia reale, anche se l'impatto sull'economia reale non avrà niente a che fare con quello che ebbe la crisi del '29; la natura della crisi è tale che essa non solo avrà effetti importanti sull'economia reale, ma avrà effetti geopolitici; dalla crisi si sta consolidando l'immagine di un mondo più articolato e con molteplici motori di sviluppo».
Questi cinque punti d'orientamento restano a mio avviso più che mai validi dopo quasi un anno di crisi e sugli stessi bisogna esercitare un grande sforzo di pensiero, serio, profondo, indipendente. Altro che «stupidaggini».
Per fortuna ci sono studiosi e operatori che, non rientrando tra i menestrelli del supercapitalismo, hanno iniziato una riflessione molto seria sulle reali cause di fondo della crisi (altro che errori di valutazione tecnica!) come Zamagni, Soros, Attali, Stiglitz, Fitoussi. Questi sono buoni compagni di strada per andare a fondo delle cose e per sforzarci di uscire migliori e quindi profondamente cambiati da prima della crisi.
Sono i menestrelli del tutto come prima e i talebani del mercato i veri nemici del capitalismo, se vogliamo continuare ad usare questa parola che grandi storici dell'economia come Braudel e Cipolla (ma prima di loro Einaudi) ci hanno insegnato essere molto ambigua e da dismettere. Qualcosa, sia pure lentamente, sta cambiando, come il seguente test può dimostrare. «Le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo utile; ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto con il servire meglio il pubblico».
Queste parole furono pronunciate da Luigi Einaudi nella Relazione del Governatore della Banca d'Italia per l'esercizio 1943 letta nell'aprile 1945. Se Luigi Einaudi avesse pronunciato queste parole nell'America di quattro anni fa sarebbe stato, probabilmente, internato al neurodeliri. Oggi rimarrebbe a piede libero, anche se sarebbe irriso a mezza bocca dai Summers, Geithner, Rubin e dai cantori e maggiordomi del supercapitalismo. Ma sarebbe difeso da Barack Obama e da Volcker, forse l'unico personaggio rispettabile del vecchio establishment finanziario americano.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  La tripla A non fa sempre America

26 Maggio 2009 08:54 MILANO - di Mario Margiocco

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«A questo punto, è il caso di bere qualcosa di forte», disse chi presiedeva una sessione dei lavori - la sala non era stracolma - a un incontro del Fondo monetario, a Washington, il 7 settembre 2006. Nouriel Roubini aveva appena detto, tra l'incredulità e qualche sorriso, che il mercato immobiliare americano sarebbe crollato e che l'effetto impoverimento avrebbe fatto sparire il grande consumatore americano, tolto credibilità a centinaia di miliardi di titoli immobiliari cartolarizzati sparsi per il mondo, e portato a una grande recessione globale. Esattamente quanto è successo.

Roubini non era molto in alto allora nella gerarchia accademica ma, uomo di punta di una piccola pattuglia che ha visto sostanzialmente giusto e per tempo, adesso vola da un continente all'altro, richiestissimo da convegni blasonati, grandi gruppi, banche centrali e governi. Ha parlato al Congresso, al Council on Foreign Relations, a Davos, e in dozzine di club ancora più esclusivi in giro per il mondo. Di famiglia ebrea iraniana, cresciuto in Turchia e in Italia, allievo di Jeffrey Sachs ad Harvard, scapolo, cinquantenne da due mesi, Roubini è un cittadino del mondo e un inveterato giramondo, che ama parlare di un paese dopo averlo visto. Per la rivista «American prospect» è il numero due tra i 100 intellettuali che più contano, secondo solo al generale David Petraeus. Il suo sito e la sua società di consulenza, Rge Monitor, sono richiestissimi.

È sempre interessante ascoltare l'opinione di chi, nuotando controcorrente, è andato avanti per la propria strada. Questo non perché ha vinto alla lotteria delle previsioni, ma perché ha dimostrato di avere criteri di analisi più giusti di altri, che non garantiscono automaticamente la stessa capacità in futuro, ma valgono certamente di più della griglia interpretativa di chi non aveva capito nulla, o poco.
Con il peso della crisi spostato ora dal mercato ai bilanci pubblici scattati in soccorso, ci sarà il nodo del rating finanziario, anche dei maggiori Paesi, cioè del livello della loro solvibilità di lungo periodo, assoluta, buona, discreta o debole. La perdita della tripla A, il punteggio massimo, è una possibilità che S&P prevede per la Gran Bretagna fra tre anni se il debito pubblico sarà pari al 100% del Pil, ed è una prospettiva non più impensabile per gli stessi Stati Uniti, che questo rating d'affidibilità finanziaria hanno dal 1917, ininterrottamente. «Washington farà di tutto per evitarlo, e conosce il rischio. Ma questo - dice Roubini, secondo cui l'uscita dalla crisi non sarà né semplice né rapida - potrebbe essere un elemento cruciale».

Siamo o no alla vigilia di una ripresa consistente, e possiamo dire che la crisi è finita?Io penso che l'uscita dalla crisi sia un processo lento. Adesso abbiamo gli ottimisti secondo i quali siamo già in ripresa, comunque ci saremmo fra pochissimi mesi. E i meno ottimisti, fra i quali mi pongo, che non negano qualche fenomeno positivo, il rallentamento della caduta, ma sono convinti che il peso del debito è così alto che avremo circa due anni di crescita molto debole. Quindi, il meltdown è stato arrestato, ma la ripresa, quella vera, è ancora piuttosto lontana. Prevedo quindi due anni pieni di crescita debole.

Ma l'ottimismo che si manifesta da più parti?
Si può essere un po' meno pessimisti di qualche mese fa, ma occorre realismo. È un debito abnorme ad averci ridotto così male, e questo debito deve essere ancora riassorbito. Tutto il sistema sta continuando a rientrare dai debiti, e ne avrà ancora per un bel pezzo. Da chi dovrebbe venire una ripresa pimpante, dalle famiglie americane, britanniche, australiane, neozelandesi, spagnole, irlandesi o islandesi che stanno onorando, quando ci riescono, esposizioni debitorie senza precedenti? Lo slancio di una vera ripresa non può venire dal sistema bancario e finanziario, che come dice il Fondo monetario ha ancora qualche migliaia di miliardi, circa tre secondo il Fondo, qualcosa di più secondo me, di perdite da colmare. Non può venire dal settore corporate, dalle imprese, a loro volta indebitate eccessivamente. I governi, che hanno salvato la situazione, hanno messo gli Stati a garanzia di tutto questo debito, e i mercati stanno reagendo positivamente, ma il debito resta, e diventa in molti casi debito pubblico; un costo molto basso del denaro aiuta, ma non so fino a che punto gli Stati riusciranno a raccogliere denaro remunerandolo così poco. C'è poi il fatto che alcuni paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti fra questi, monetizzano il debito o sono pronti a farlo, e questa è una ricetta per trasformare l'attuale deflazione, o rischio di deflazione, in inflazione. Quindi, la situazione è complessa e impone di procedere con tempi non rapidi.

Vede il rischio di nuove forti perdite bancarie negli Stati Uniti e in Europa?
Direi che i rischi sistemici sono stati superati. Non vedo più situazioni da sala di rianimazione. Ma la possibilità di numerose embolie locali. A fine aprile il senatore Richard Durbin, democratico dell'Illinois, dopo un voto del Senato che favoriva il punto di vista di Wall Street sulle norme per la rinegoziazione dei mutui diceva: le grandi banche comandano a Washington. È vero?
Le grandi banche hanno avuto molto peso a Washington e non solo al Congresso in passato, negli ultimi 15 anni almeno, e certamente la loro influenza non svanisce presto. Ma direi che, rispetto a quando ottenevano tutte le leggi che volevano, hanno un po' meno spazio, dopo quanto successo.

Il budget presentato dall'amministrazioone Obama è ritenuto da molti insostenibile sul lungo periodo, perché porterebbe a un raddoppio del debito pubblico in una decina d'anni. E' d'accordo?
Credo che a Washginton considerino i deficit annuali che si stanno preparando sostenibili per un anno o due, data l'eccezionalità della situazione, e non per più tempo. Credo quindi che correranno ai ripari, e non possono essere solo le tasse sui più ricchi a risolvere la situazione.

Un debito pubblico pari al 100% del Pil è incompatibile con lo status di tripla AAA, ha ricordato la settimana scorsa la società di rating Standard&Poor riferendosi alla situazione britannica. Non esiste un rischio analogo per gli Stati Uniti?
Fra due o tre anni la situazione potrebbe diventare a rischio. Ma credo che togliere la tripla A agli Stati Uniti sia un passaggio così delicato da non venire affrontato se non con molta cautela. Gli Stati Uniti poi hanno parecchia influenza sulle societò di rating, e sono già intervenuti per aiutare a mantenere il rating di Stati dell'Unione e altri emittenti di debito. Ma certamente l'evoluzione della crisi impone di prestare attenzione anche a questi aspetti.

I mercati finanziari sono ripartiti con cartolarizzazioni e derivati, in attesa di nuove imminenti regole. Vede qualche rischio?
Il mercato americano delle cartolarizzazioni era crollato da 2mila miliardi a zero e non poteva restare così. Si tratta di mettere a punto un sistema che dia più garanzie, controlli la solvibilità di chi offre un servizio sul mercato dei derivati, ed è un processo che richiederà anni.

È stato saggio lasciare alla guida di grandi banche che hanno avuto bisogno di aiutati pubblici lo stesso management che è responsabile della situazione?
In alcuni casi il management è stato cambiato. In altri no. Non credo si possa avere una regola generale, ma ogni situazione va vista caso per caso.
 

Fonte -  Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

  Domenica 24 Maggio 2009   Mercoledì 27 Maggio 2009   Venerdì 29 Maggio 2009  
       
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Il paradosso del debito mondiale

26 Maggio 2009 14:40 MILANO - di Mario Seminerio
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L’agenzia di rating Standard&Poor’s ha posto il debito sovrano del Regno Unito in “negative outlook”, con una probabilità su tre di un subire declassamento nelle prossime settimane, e quindi di perdere il rating massimo. La mossa ha subito portato a volgere lo sguardo agli Stati Uniti, che stanno subendo una lievitazione del deficit indotta dalle nuove iniziative di spesa e dal vero e proprio crollo verticale di gettito fiscale causato dalla crisi. I timori per la sostenibilità fiscale della situazione hanno causato un arresto del forte (e quasi surreale) rally di borsa ed il continuo aumento dei rendimenti dei titoli di stato sulle scadenze intermedie e lunghe, tipicamente la decennale. I mercati guardano alla montagna di debito che dovrà essere collocata già quest’anno, e si chiedono da dove proverrà questa colossale somma.

Dove troveranno gli Stati Uniti 10.000 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per finanziare l’emissione prevista dei nuovi titoli di stato, e che porteranno lo stock di debito a 21.300 miliardi, e ad una spesa di 1000 miliardi annui solo per interessi (pari al 25 per cento degli incassi fiscali ed al 20 per cento delle spese pubbliche previste)? Il tutto assumendo una crescita nominale del Pil del 4 per cento nei prossimi dieci anni. Uno scenario inquietante, per usare un eufemismo. Per questo i mercati obbligazionari sembrano convincersi ogni giorno di più che questi deficit saranno difficilmente finanziabili, e che ad un certo punto i governi saranno costretti a stampare moneta. Oggi non è più possibile pensare di trarsi d’impaccio puntando sull’export. Come ha scherzato cupamente il Nobel per l’Economia, Paul Krugman, per tornare ai bei tempi andati occorrerebbe trovare altri pianeti su cui esportare, visto che sulla terra ciò non è più possibile.
Ci troviamo infatti in una condizione di crisi da eccesso di debito, che genera il “paradosso del risparmio”, in cui famiglie ed imprese tentano tutte di rientrare dall’eccesso di debito risparmiando di più, e ciò causa il crollo della domanda globale, vista l’interdipendenza dei mercati. Ma ciò produce anche il paradosso dei deficit: gli Stati Uniti hanno avuto per anni un gigantesco deficit commerciale, dove chi vendeva beni agli Stati Uniti (Giappone, Cina, paesi produttori di petrolio) investiva il ricavato in titoli americani. Ciò ha permesso di tenere bassi i tassi d’interesse globali, stimolando crescita e consumi, ma anche l’indebitamento, che ha causato la bolla esplosa ormai da quasi due anni.
Oggi non è più così, e tutti i paesi devono competere per prendere a prestito sui mercati, a fronte dell’esplosione dei deficit pubblici. Ma non possono farlo tutti contemporaneamente, o almeno non possono farlo indefinitamente. Ad un certo punto, i mercati chiederanno tassi sempre più alti, fino a rifiutare di sottoscrivere tutto o parte del nuovo debito. I governi alzeranno le tasse, deprimendo ulteriormente la crescita. Il gioco finirà con la necessità di monetizzare il deficit, e ciò farà crollare il dollaro oltre a scatenare una corsa alle materie prime, viste come riserva di potere d’acquisto.
Naturalmente, questo è lo scenario estremo ed “inerziale”, che non considera la possibile ascesa di nuove potenze regionali, come Cina, India e Brasile, che potrebbero finire con l’assumere quel ruolo di locomotiva che gli Stati Uniti esercitavano globalmente. Ma non sarà comunque un processo indolore, per nessuno.

 

Fonte - Liberal Quotidiano

 

 

 

USA: LA RECESSIONE TERMINERA' QUEST'ANNO

27 Maggio 2009 16:40 NEW YORK - di APCOM
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Lo mostra un sondaggio a cura della National Association for Business Economics. Per il 74% degli economisti intervistati si assistera' ad un'inversione di tendenza gia' dal terzo trimestre.
Da una ricerca condotta fra circa 47 economisti e' emerso che oltre il 90% degli interpellati prevede che negli Stati Uniti la recessione terminera' alla fine di quest'anno, anche se la ripresa potrebbe essere incostante.

Il sondaggio a cura della National Association for Business Economics verra' pubblicato oggi e generalmente le previsioni in esso contenute rispecchiano quelle del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, e dei suoi colleghi.

Circa il 74% degli intervistati prevede che la recessione, iniziata nel dicembre 2007 e la piu' lunga dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi, si concludera' gia' nel terzo trimestre. Un altro 19% scommette invece che bisognera' aspettare gli ultimi tre mesi dell'anno per vedere un'inversione di rotta, mentre solo il 7% ritiene che la recessione terminera' nel primo trimestre del 2010.

"Sebbene il tono generale sia ancora debole, stanno emergendo dei segnali che indicano che l'economia si sta stabilizzando", ha osservato il presidente della NABE, Chris Varvares. "Probabilmente la ripresa economica sara' decisamente piu' moderata di quelle che solitamente seguono un periodo di forti ribassi".

Una delle principali cause della recessione e' stata la crisi finanziaria, esplosa lo scorso autunno. Gli economisti ritengono che quando giunge dopo una crisi finanziara la ripresa tende ad essere piu' lenta del solito.

Anche durante il periodo di ripresa economica, il tasso di disoccupazione e' destinato a salire ancora quest'anno, stando alle previsioni della NABE. Le aziende, infatti, torneranno ad assumere solo quando avranno la certezza che la ripresa economica sara' sostenibile.

Con il tasso di disoccupazione in crescita e' molto probabile che i consumatori, ingranaggio fondamentale della macchina economica statunitense, manterranno un approccio cauto e di conseguenza la ripresa sara' tiepida.

Considerando l'impatto che la recessione ha avuto sul benessere delle famiglie, colpendo in particolare il valore delle case e il portafoglio investimenti, i consumatori per un po' di tempo non saranno troppo propensi a mettere mano al portafogli.

Il 71% degli economisti interpellati ritiene che per almeno i prossimi cinque anni i consumatori statunitensi adotteranno una filosofia piu' improntata al risparmio. Il tasso di risparmio delle famiglie americane e' salito al 4,2% nel mese di marzo. Si e' trattata della prima volta in dieci anni che il tasso si e' assestato sopra la quota del 4% per tre mesi consecutivi.

Anche se gli economisti ritengono che il Paese uscira' dalla fase di recessione alla fine dell'anno, al contempo sono convinti che la performance economica generale sara' negativa. L'economia dovrebbe subire una contrazione del 2,8% quest'anno, stando alle stime degli analisti. La previsione risulta inferiore a quella dello scorso febbraio (pari al -1,9%). Se le stime dovessero venire confermate, si tratterebbe del peggiore risultato annuale dal 1946, quando l'attivita' economica ha registrato una flessione dell'11%.

 

Fonte - APCOM

 

 

Mutui: le previsioni di Euribor e Irs

27 Maggio 2009 09:10 MILANO - di Aritma I.F.
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La situazione
L'eccesso di debito pubblico creato dai governi per far fronte alla crisi condiziona le aspettative suprattutto sui tassi a medio-lungo termine
In Europa gli indici di fiducia (Zew, Ifo e Pmi) sono risultati migliori delle attese, lasciando intendere che la recessione in corso sia arginata. Tali indici restano tuttavia su livelli storicamente bassi e segnalano ancora una contrazione della crescita nei prossimi trimestri, anche se inferiore rispetto a quanto registrato nei primi tre mesi 2009 (–2,5%). Negli Stati Uniti i dati hanno invece deluso le aspettative e la Fed ha rivisto al ribasso le sue precedenti stime sulla crescita per il 2009-2010 (il Pil Usa è previsto tra –2 e –1,3% per quest'anno e tra +2 e +3% il prossimo).
A condizionare l'andamento dei tassi, in particolare di quelli a medio-lungo termine (Irs), sono stati tuttavia i dubbi sull'effettiva capacità di rientro dall'eccesso di debito che i vari governi stanno creando nel tentativo di rianimare l'economia, timori che si sono manifestati soprattutto dopo la decisione dell'agenzia S&P di mettere sotto osservazione per un possibile declassamento il rating della Gran Bretagna (al momento tripla A).

L'Euribor
Si è interrotta la discesa dell'Euribor: tutte le scadenze 1-3-6-12 mesi (0,939%; 1,267%; 1,467%; 1,632%) sono oggi di circa 3 centesimi superiori rispetto ai minimi storici registrati martedì scorso, mentre il tasso interbancario a 1 mese è cresciuto addirittura di circa 12 centesimi (riducendo a poco più di 30 centesimi il differenziale con il tasso a 3 mesi).
E' probabile che sul movimento abbiano influito anche fattori tecnici destinati ad essere riassorbiti nelle prossime settimane. Sul mercato interbancario si è infatti notata una liquidità più "neutra" rispetto ai livelli eccessivi degli ultimi periodi, un fenomeno dovuto probabilmente a una non perfetta valutazione delle effettive necessità da parte delle banche che hanno richiesto (la scorsa settimana) meno del solito nell'operazione di finanziamento settimanale al tasso P/T.
I livelli attualmente raggiunti dall'Euribor dovrebbero a questo punto tenere per qualche settimana e probabilmente per buona parte del mese di giugno: la scadenza a 1 mese attorno allo 0,95%, quella a 3 mesi attorno all'1,25%. Nuovi spunti direzionali in vista del prossimo meeting della Bce del 4 giugno (previsioni di neutralità) sono poco probabili, mentre si potrebbe assistere a maggiori movimenti a quello di inizio luglio. Le attese del mercato per l'Euribor restano in ogni caso abbastanza prudenti, visto che il punto di minimo per fine estate sull'Euribor a 3 mesi si posiziona intorno all'1,15%: 6 centesimi in più di quello che il mercato prevedeva 1 settimana fa, ma livelli comunque più bassi dell'attuale fixing.

Irs
Tutti i rendimenti governativi hanno subito una netta pressione rialzista (30 cent. rispetto a metà maggio), legata in parte ai dati incoraggianti che trapelano dagli indici di fiducia, ma soprattutto alle preoccupanti dimensioni di deficit e debito di molti paesi. Il Bund (titolo,di Stato tedesco) a 10 anni è oggi intorno al 3,60%: sulla Germania pesa anche il peggioramento dell'outlook fiscale, che richiederà almeno ulteriori 20 miliardi di euro di emissioni. Nelle ultime settimane i tassi Irs hanno limato in gran parte il cuscinetto offerto dallo spread Irs-Bund, che si è praticamente azzerato dai 10 anni in poi.
Questo significa che i tassi Irs a lungo termine saranno in "presa diretta" con l'andamento del Bund. Sotto questo aspetto, le attuali previsioni per il '09-'10 di Pil e inflazione non giustificano gli attuali livelli del Bund 10 anni, a meno dell'insorgere di difficoltà nei prossimi collocamenti di titoli tedeschi. L'Irs 30 anni, normalmente più lento ad adeguarsi alle nuove prospettive economiche, rimane più basso delle scadenze 15-20 anni e resta quindi interessante per operazioni di mutui a tasso fisso. Il rialzo dei governativi e degli Irs ha mosso verso l'alto anche le attese su questo tipo di tassi. Ecco la tabella con le previsioni dei tassi Irs.

 

Fonte - Sole 24 Ore

 

 

Occhio a questo bubbone

Wednesday, 27 May, 2009 at 20:28 - by phastidio
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La Fed attua l’easing quantitativo sui Treasuries e sui mortgages: ma sui primi ha un volume di fuoco piuttosto esiguo. Il mercato vende titoli di stato a mani basse, perché pensa alla ripresa e/o teme inflazione, i rendimenti sul decennale schizzano all’insù, e incredibilmente si approssimano a quelli sui titoli trentennali di Fannie Mae, coperti da mutui. Ora la risalita dei rendimenti sta contagiando anche le scadenze più brevi, come la quinquennale, mentre anche la carta Fannie comincia ad essere venduta, facendo risalire i tassi sui mutui trentennali e deragliare i rifinanziamenti, sui quali la Casa Bianca punta per liberare equity con cui ridurre lo stock di debito e/o sostenere i consumi. A questo punto, il mercato sta apertamente chiedendo alla Fed di fornire ulteriore metadone, sottoforma di nuovo carburante per l’easing quantitativo. Ma con un bilancio della Fed ormai a 3200 miliardi di dollari, abbiamo da un pezzo oltrepassato le porte di Tannhäuser. In tutto ciò, il mercato azionario continua a tentare spunti al rialzo. Fino al giorno del risveglio, quando si rischierà l’ennesima strage.

 

 

  FED USA New York - EASING QUNTITATIVE Index  
   
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Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

  Economisti alla sbarra, ecco l'atto di accusa

27 Maggio 2009 08:44 MILANO - di Roberto Perotti

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Con la crisi, agli economisti vengono mosse quattro accuse, che ritengo ingiustificate. Eccole.
1) «Gli economisti non hanno previsto la crisi». Su questo punto c'è molta confusione. È importante distinguere fra shock e propagazione degli shock. I primi sono, per definizione, non prevedibili. Dai sismologi non pretendiamo che prevedano i terremoti, ma che ci diano indicazioni di cosa succederà in certe zone se dovesse accadere un terremoto di una certa intensità. Per questo una critica più seria è che gli economisti non hanno saputo prevedere le conseguenze degli shock, una volta che questi si sono realizzati.

2) «Non hanno saputo prevedere né capire, perché la metodologia economica prevalente si basa su modelli troppo astratti e matematici».
Questa critica è frutto dell'ignoranza sugli sviluppi della scienza economica. Per molti qualsiasi differenza dall'approccio discorsivo e informale della "General Theory" di Keynes viene interpretato come il frutto di una forma mentis che costringerebbe la realtà ad accordarsi con modelli astratti. Chi fa questa critica ignora o non capisce l'enorme letteratura prodotta da eccellenti economisti che hanno allo stesso tempo una preparazione formale e una profonda conoscenza dell'economia reale. Spesso ignora e non capisce l'enorme letteratura empirica di economisti seri e assolutamente interessati a comprendere come funziona il mondo in pratica, dediti a testare le teorie economiche con dati macro e micro. E spesso i critici degli economisti non riescono a concepire che uno studioso possa usare un modello per organizzare il proprio pensiero, ma sia abbastanza intelligente per comprenderne i limiti.

3) «Guardano la realtà con la lente perversa di ipotesi assurde come le aspettative razionali, l'informazione completa, i mercati efficienti».
Una tipica variante di questa accusa prende la seguente forma: «Loro non lo sanno, ma noi che viviamo nel mondo e non nelle nuvole o nella turris eburnea dell'università sappiamo che i mercati non sono efficienti, che ci sono asimmetrie informative, che i prezzi degli asset possono deviare per lungo tempo dai fondamentali...».
Anche questa critica è frutto di una profonda ignoranza degli sviluppi dell'economia degli ultimi 30 anni, che si è dedicata in gran parte proprio allo studio di miriadi di deviazioni dall'ipotesi d'efficienza e d'informazione perfetta. Solo per fare un esempio, un'enorme ricerca studia teoricamente ed empiricamente come e perché vi possano essere bolle nei prezzi degli asset; e una enorme letteratura studia gli incentivi dei manager in presenza di asimmetrie informative.

4) «Molti non economisti hanno previsto la crisi».
Questo è falso. Dire per anni «la globalizzazione ha effetti perversi», «la nostra economia è eccessivamente finanziarizzata», oppure «l'economia finanziaria ha preso il sopravvento sull'economia reale» o ancora «il liberismo sfrenato comporta problemi sociali che solo gli economisti possono ignorare», non significa avere previsto la crisi. Accuse, tutte queste, a mio avviso infondate o strumentali. Ci sono però accuse realmente rilevanti. Vediamone alcune.
La stragrande maggioranza degli economisti non ha previsto né capito la crisi finanziaria perché era totalmente all'oscuro di alcuni fondamentali sviluppi del mercato del credito. Per mesi e anni siamo andati avanti a dibattere le spiegazioni e le implicazioni del fenomeno chiave dei primi anni 2000: il basso tasso d'interesse.
Ma mentre avveniva questo dibattito, i macroeconomisti hanno perso di vista completamente uno sviluppo ben più importante, cioè l'enorme evoluzione del mercato del credito. Con tassi d'interesse molto bassi, l'unico modo di rendere redditizia l'attività d'intermediazione delle banche era indebitarsi molto per comprare attività finanziarie, cioè aumentare la leva finanziaria.
Ma per fare questo, le banche dovevano trovare modi per sbarazzarsi del rischio di queste attività, sia perché in alcuni casi i regolatori non permettevano di eccedere una certa leva finanziaria per le attività più rischiose, sia perché le banche stesse non volevano detenere troppe attività rischiose.

Ciò portò a due sviluppi:
1) Le banche crearono un sistema bancario ombra, delle entità formalmente fuori bilancio in cui piazzarono le attività più rischiose; dotarono queste entità di un minimo di capitale, ma la gran parte dei fondi la raccolsero sul mercato con scadenza brevissima, anche giornaliera (commercial papers e repurchase agreements). Queste entità fuori bilancio avevano una garanzia esplicita o implicita delle banche, ma permisero di ridurre il capitale che le banche dovevano detenere, cioè di aumentare la leva finanziaria. Le entità spesso cartolarizzarono le attività trasferite dalle banche e le vendettero, spesso alle banche stesse.
2) Le banche decisero di detenere quantità sempre crescenti di titoli cartolarizzati, cioè di titoli creati dall'impacchettamento di centinaia o migliaia di mutui sottostanti, oppure di prestiti ai consumatori o alle imprese.
Per capire lo sviluppo successivo, è importante comprendere com'erano strutturati questi titoli cartolarizzati. Per consentire di ottenere rendimenti elevati da titoli apparentemente poco rischiosi, questi titoli erano divisi in tranche. La prima tranche (junior tranche) è la più rischiosa; se qualche mutuo sottostante va in default, la prima a esserne toccata è la junior tranche. L'ultima tranche (senior tranche) è apparentemente molto poco rischiosa: comincia a perdere valore solo se più del 10% dei muti va in default - una percentuale impensabile fino a tre anni fa.
Il 99% degli economisti italiani, ancora nell'estate del 2007, era all'oscuro di questi sviluppi, o al massimo ne aveva un'idea molto confusa. Ma ancora più vaga era la consapevolezza degli sviluppi e delle implicazioni successive. La teoria prevalente era che la cartolarizzazione permettesse di spandere il rischio dei vari tipi di credito al di fuori del sistema bancario, cioè da soggetti ad alta leva finanziaria a soggetti (come fondi pensione e fondi del mercato monetario) a bassa leva finanziaria.
Ma mentre i titoli più rischiosi (le junior tranche) vanno a ruba perché, essendo più rischiosi, danno rendimenti più alti, le senior tranche spesso rimangono nei portafogli delle banche o delle entità fuori bilancio. Con poche eccezioni (JP Morgan), le banche non se ne curano, perché sono ritenuti assolutamente sicuri. Nel 2008, banche ed entità fuori bilancio detenevano probabilmente il 50% di queste senior tranche. Lungi dall'aver diversificato i rischi, banche e shadow banking system avevano fatto un enorme investimento in economic catastrophe bonds, cioè in titoli di fatto rischiosissimi perché davano un rendimento generalmente elevato ma molto basso proprio nel momento peggiore, cioè nel caso di una recessione globale.
Gli acquirenti di questi titoli spesso cercarono di assicurarsi contro il rischio di default dei sottostanti. Lo fanno assicurandosi con monolines, compagnie di assicurazione precedentemente dedite all'assicurazione dei titoli municipali ma che ora tentano di espandersi. Ma le monolines avevano un leverage di 150, e fu presto chiaro a molti che non erano in grado di assicurare niente. Ma non fu chiaro per esempio a Merrill Lynch, i cui dirigenti pensavano di essersi assicurati con le monolines. Altri si assicurano con i credit default swaps, il cui mercato raggiunge a un certo punto quattro volte il Pil statunitense! Ma anche questi titoli sono esposti al rischio sistemico. Singolarmente, una banca poteva ritenere di aver fatto hedging; ma da un punto di vista macroeconomico il mercato non stava fornendo alcun hedge, anzi stava incrementando il rischio. Questo aspetto era compito dei macroeconomisti, ma essi non se ne resero conto a causa della loro mancanza d'informazione sui recenti sviluppi del mercato del credito.

Anche di questi due ultimi sviluppi gli economisti erano sostanzialmente ignari. Ancora nell'estate del 2008 è lecito affermare che la stragrande maggioranza degli economisti non si resero conto che il sistema finanziario aveva misspriced il rischio in un modo abissale consentendo alle banche di investire percentuali gigantesche del proprio attivo in catastrophe bonds, e l'irrilevanza (anzi la pericolosità) macroeconomica delle assicurazioni fornite dal mercato.
Come abbiamo imparato dal marzo del 2008, le banche centrali erano male equipaggiate a intervenire in questi mercati a difesa di queste istituzioni. Nel marzo del 2008 i problemi di Bear Stearns misero a nudo il quasi collasso dei mercati dei Cds e dei repos. Ma questi sono mercati di cui gli economisti non si sono mai occupati, perché in condizioni normali funzionano senza alcun problema, e di cui non avevano compreso il ruolo fondamentale nel nuovo sistema del credito. L'esempio più lampante fu la decisione della Bce di alzare i tassi nell'estate del 2008, quando già Bear Stearns era saltata esattamente per i motivi esposti sopra. Molti economisti accademici appoggiarono la decisione della Bce, perché così suggeriva la Taylor rule. Ma molta acqua era passata sotto i ponti, e per parlare di politica monetaria non era più sufficiente essere esperti di Taylor rule. Semplicemente, non avevamo idea di quanto lontano dal classico modello delle banche commerciali il mercato del credito era arrivato. Non avevamo idea delle grandezze e delle implicazioni macroeconomiche di tutto questo.
Eppure continuavamo a parlare di politica monetaria, quando era impossibile parlare di politica monetaria se non si conoscevano degli sviluppi recenti del mercato del credito. Come ha sostenuto con forza John Taylor in Getting Off Track, il problema non era tanto un classico problema di liquidità, quanto un problema di rischio di controparte in mercati a brevissimo termine. Ma il rischio di controparte non ha mai giocato il minimo ruolo nelle teorie monetarie più accreditate.
Poiché economisti di valore erano alla guida delle maggiori banche centrali, ci siamo convinti che il mondo fosse in buone mani. Ma non ci siamo resi conto che anch'essi, come gli altri, all'inizio sono stati tremendamente impreparati a comprendere i nuovi sviluppi.
Gli economisti hanno giocato troppo facilmente allo scaricabarile con politici e regolatori. Invece di studiare i dettagli del mercato del credito, hanno cercato di cavarsi dall'impiccio con facilità usando facili riferimenti al problema del moral hazard causato dai politici e a quello della regolamentazione.

Il moral hazard avviene quando le banche e le altre istituzioni finanziarie sanno che i politici, di fronte a una crisi, le salveranno. Questo ovviamente le incoraggia a prendere rischi molto maggiori di quanto sarebbe prudente e ottimale dal punto di vista del sistema economico nel suo complesso.
Il moral hazard è un vecchio cavallo di battaglia degli economisti, che generalmente si oppongono ai salvataggi bancari. Salvo poi criticare i policy makers per non avere salvato Lehman Brothers, causando il caos che è seguito al 14 settembre. Ma molti economisti hanno cambiato idea sul mancato salvataggio di Lehman Brothers proprio perché non si erano resi conto di cosa comportasse lasciar fallire una banca di investimento in un mercato del credito completamente cambiato. Proprio perché avevano una vaga idea dell'estensione e del ruolo del mercato dei Cds, pochissimi economisti si erano resi conto delle conseguenze quasi fatali che vi sarebbero state nel mercato dei Cds.

Alle prime avvisaglie di difficoltà, gli economisti hanno anche cercato di salvarsi con frasi del tipo «gli eccessi nel mercato del credito possono essere corretti con un'appropriata regolamentazione». Ma fino al 2006, finché Greenspan e poi Bernanke erano nettamente contrari a qualsiasi regolamentazione, dove erano gli economisti? Se i politici avessero tentato d'imporre più regolamentazione, cosa avrebbero detto gli economisti? Ma soprattutto, pochi economisti hanno avuto il coraggio di sporcarsi le mani dicendo esattamente quale regolamentazione si sarebbe dovuta imporre. Né poteva essere altrimenti, perché la stragrande maggioranza aveva una comprensione così limitata degli aspetti tecnici da non poter offrire suggerimenti competenti in materia di regolamentazione.
È stato anche facile per gli economisti scaricare le colpe sulla Greenspan put. Ma tutto questo ex post. Dove erano gli economisti quando il mondo inneggiava a Greenspan come il salvatore dell'economia mondiale?
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

  Usa, Cina e il ping pong planetario

28 Maggio 2009 09:13 MILANO - di Barry Eichengreen

*L'autore insegna economia e politologia all'Università di Berkeley

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I libri di storia del futuro, a seconda di dove saranno scritti, sceglieranno due diversi approcci per individuare le responsabilità dell'attuale crisi economica e finanziaria.
Uno consisterà nel dare la colpa alla mancanza di regolamentazione, alle politiche monetarie con espansione dell'offerta di moneta allo stesso ritmo dell'inflazione, al tasso di risparmio troppo basso delle famiglie statunitensi. L'altro, promosso da alti funzionari americani di oggi e di ieri, come Alan Greenspan e Ben Bernanke, assegnerà la colpa all'immenso bacino di liquidità generato dai paesi ad alto tasso di risparmio dell'Asia Orientale e del Medio Oriente. Tutta questa liquidità, diranno i sostenitori di questo secondo approccio, da qualche parte doveva finire e la sua destinazione logica era il paese con i mercati finanziari più sviluppati, gli Stati Uniti, dove ha fatto salire i prezzi delle attività fino a livelli insostenibili.

C'è un'unica cosa su cui entrambi gli schieramenti concordano: lo squilibrio dei risparmi a livello globale - bassi risparmi negli Stati Uniti e alti risparmi in Cina e in altri mercati emergenti - ha giocato un ruolo chiave nella crisi perché ha consentito agli americani di vivere al di sopra dei propri mezzi e ha incoraggiato finanzieri smaniosi di realizzare profitti con gli abbondanti fondi a disposizione a destinarli a un uso più speculativo. Se c'è una tesi che trova consensi unanimi è l'impossibilità di comprendere la bolla e la crisi senza prendere in considerazione il ruolo degli squilibri globali.
Per impedire crisi future simili a questa bisogna dunque risolvere tale problema. Da questo punto di vista i primi segnali sono rassicuranti. Le famiglie americane hanno ricominciato a risparmiare. Il deficit commerciale statunitense è sceso da 60 miliardi di dollari al mese ad appena 27,6 miliardi, secondo i dati più recenti. Basta fare due conti e si capisce che i surplus del resto del mondo devono essersi ridotti di conseguenza.

Ma quando le famiglie americane avranno rimesso in piedi i loro conti pensione, potrebbero tornare alle passate abitudini scialacquatrici. Anzi, l'amministrazione Obama e la Federal Reserve stanno facendo tutto il possibile per pompare la spesa degli americani. L'unico motivo per cui il deficit commerciale Usa è in calo è che il paese è ancora in preda a una grave recessione, e questo parallelamente sta provocando un tracollo dell'import-export a stelle e strisce.
Con la ripresa, sia la spesa per i consumi che il deficit della bilancia dei pagamenti potrebbero tornare ai livelli precedenti, e ci ritroveremmo di nuovo con gli Stati Uniti appesantiti da un deficit con l'estero pari al 6% del Pil. Non c'è stato nessun cambiamento dei prezzi relativi e nessun deprezzamento del dollaro di misura tale da indurre a prevedere una modifica permanente dei modelli di spesa e dei modelli di scambi commerciali.
Se ci sarà o meno una riduzione permanente degli squilibri globali dipenderà principalmente da decisioni prese al di fuori degli Stati Uniti, in particolare in paesi come la Cina. E un pronostico su queste decisioni dipenderà a sua volta dai motivi che hanno spinto inizialmente gli altri paesi a tenere in piedi surplus tanto cospicui nella bilancia dei pagamenti.

Una delle tesi a questo proposito è che i surplus commerciali di questi paesi hanno rappresentato un corollario delle politiche in favore di una crescita trainata dalle esportazioni, che hanno funzionato ottimamente per molto tempo. I leader cinesi sono comprensibilmente riluttanti ad abbandonare un modello ben collaudato. Non possono ristrutturare la loro economia dall'oggi al domani. Non possono trasferire con uno schiocco di dita gli operai che dipingono giocattoli per bambini a Guangdong a costruire scuole nella Cina occidentale. Hanno bisogno di tempo per costruire una rete di sicurezza sociale che incoraggi le famiglie cinesi a ridurre i loro risparmi precauzionali. Se questo punto di vista è corretto, possiamo aspettarci che gli squilibri globali riemergano una volta finita la recessione, con un riassetto che avverrà solo successivamente e in modo molto lento.
L'altro punto di vista è che la Cina ha contribuito agli squilibri globali non tramite l'esportazione di prodotti, ma tramite l'esportazione di capitali. Quello che mancava alla Cina non era la domanda di beni di consumo ma l'offerta di asset finanziari di alta qualità, e questi asset li ha trovati negli Stati Uniti, soprattutto sotto forma di buoni del Tesoro e altri titoli pubblici, spingendo a sua volta altri investitori a investimenti più speculativi.

Gli eventi recenti hanno fatto perdere credibilità agli Usa come fornitori di asset di alta qualità. E la Cina, da parte sua, continuerà a sviluppare i propri mercati finanziari e la propria capacità di generare attività finanziarie di alta qualità sul mercato interno. Ma ci vorrà del tempo. E nel frattempo gli Stati Uniti hanno i mercati finanziari più liquidi del pianeta. Anche questa interpretazione implica un riaffioramento degli squilibri globali una volta terminata la recessione, con una correzione molto graduale in un secondo momento.
Uno sviluppo che potrebbe modificare questa previsione si verificherà se la Cina arriverà a considerare l'investimento in attività finanziarie statunitensi come un'impresa in perdita. I deficit di bilancio americani potrebbero, in un futuro non remoto, suscitare timori di perdite sui titoli pubblici Usa. Una politica che miri di fatto a sgonfiare il debito usando l'inflazione potrebbe alimentare ulteriormente queste paure. A quel punto la Cina toglierebbe il tappo, il dollaro precipiterebbe e la Fed sarebbe costretta ad alzare i tassi di interesse, facendo ripiombare gli Stati Uniti nella recessione.

Ci sono due speranze per evitare questo esito disastroso. Una è fare affidamento sulla disponibilità cinese a stabilizzare gli Stati Uniti e l'economia mondiale. L'altra è che l'amministrazione Obama e la Fed forniscano dettagli sulle misure che prenderanno per eliminare il deficit di bilancio ed evitare l'inflazione una volta terminata la recessione. La seconda opzione è chiaramente preferibile. Dopo tutto, è sempre meglio avere il controllo sul proprio destino.
 

 

Fonte estera - Project Syndicate

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 
 

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