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Venerdì 01
Maggio
2009 |
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Domenica 03
Maggio
2009 |
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Martedì 05
Maggio
2009 |
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Lo
scandalo
è
che salvano il sistema coi soldi nostri
03 Maggio 2009 13:29 NEW YORK - di
Martin Wolf
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Il risanamento
del sistema finanziario è alla nostra portata? La risposta è sì. Ciò
che non possiamo permetterci è non risanarlo. La vera questione,
semmai, è quale sia il modo migliore per farlo. Ma risanare il
sistema finanziario, per quanto essenziale, non è sufficiente.
L'ultimo Rapporto sulla
Stabilità finanziaria mondiale del Fondo monetario internazionale
fornisce un'analisi convincente e sconsolata sullo stato del sistema
finanziario. Lo staff ha alzato le stime sulle svalutazioni a circa
4.400 miliardi di dollari (3.368 miliardi di euro). Ciò è
dovuto in parte al fatto che il Rapporto conteggia le stime sulle
svalutazioni degli asset europei e giapponesi – rispettivamente
1.193 miliardi di dollari e 149 miliardi di dollari – e degli asset
dei mercati emergenti (340 miliardi di dollari) posseduti dalle
banche delle economie mature. Un altro motivo è che le svalutazioni
degli asset originati negli Stati Uniti sono balzate a 2.712
miliardi di dollari dai 1.405 miliardi dello scorso ottobre e dai
945 miliardi dell'aprile 2008.
Per contestualizzare tutto
ciò, le svalutazioni stimate dal Fondo monetario sono equivalenti a
37 anni di assistenza ufficiale allo sviluppo calcolati sulla base
dei livelli del 2008. Le svalutazioni stimate sugli asset europei e
americani, posseduti in maggioranza da istituzioni localizzate nelle
due regioni, sono equivalenti al 13% del loro Pil aggregato.
Il Fondo monetario internazionale ha calcolato anche il fabbisogno
di capitale delle banche. Il punto di partenza sono le svalutazioni
annunciate a fine 2008, pari a 510 miliardi di dollari negli Usa,
154 miliardi nell'Eurozona e 110 miliardi di dollari nel Regno
Unito. Il capitale raccolto alla fine del 2008 è stato invece di 391
miliardi di dollari negli Usa, 243 miliardi di dollari nell'eurozona
e 110 miliardi di dollari nel Regno Unito. Ma il Fondo monetario
stima svalutazioni aggiuntive nel 2009 e nel 2010 per 550 miliardi
di dollari negli Usa, 750 miliardi nell'eurozona e 200 miliardi di
dollari nel Regno Unito. A fronte di tutto ciò, il Fondo calcola gli
utili netti non distribuiti a 300 miliardi di dollari negli Stati
Uniti, 600 miliardi nell'eurozona e 175 miliardi di dollari nel
Regno Unito.
Il Fondo monetario evidenzia che il rapporto tra il capitale
ordinario complessivo e le attività totali - un indicatore che gli
investitori stanno gradualmente sostituendo con ratios ponderati sul
rischio più sofisticati e tendenzialmente più affidabili - era del
3,7% negli Usa alla fine del 2008, ma del 2,5% nell'eurozona e del
2,1% nel Regno Unito.
Il Fondo è arrivato così
alla conclusione che il capitale aggiuntivo necessario per ridurre
la leva a un rapporto di 17 a 1 (o in alternativa per portare il
capitale ordinario al 6% delle attività totali) ammonterebbe a 500
miliardi di dollari negli Stati Uniti, 725 miliardi nell'eurozona e
250 miliardi nel Regno Unito. Con una leva di 25 a 1, l'infusione di
capitale necessaria sarebbe di 275 miliardi di dollari negli Usa,
375 miliardi di dollari nell'eurozona e 125 miliardi nel Regno
Unito.
Nella terribile situazione
in cui ci troviamo, le chance di raccogliere cifre di questa entità
sul mercato sono prossime allo zero. Una ragione è che
potrebbero addirittura essere poche.
Dopo tutto, il Fondo
monetario stima che le svalutazioni potenziali dei soli asset
americani sono cresciute già di tre volte in appena un anno. Non
sarebbe sorprendente se la cifra salisse ancora.
Inoltre, non sono queste le sole somme di cui si ha bisogno. I
Governi hanno finora fornito alle banche 8.900 miliardi di dollari
in finanziamenti attraverso le lending facilities, le garanzie e i
piani di acquisto di asset. Ma questa cifra è pari a meno di un
terzo del loro fabbisogno di finanziamento.
Il Fondo monetario,
basandosi sull'assunzione che i depositi crescano in linea con il
Pil nominale, stima che il refinancing gap delle banche - cioè il
rifinanziamento del debito a breve all'ingrosso più le scadenze del
debito a lungo termine - crescerà dai 20.700 miliardi di dollari di
fine 2008 a 25.600 miliardi di dollari alla fine del 2011, pari a
poco più del 60% dei loro attivi totali.
Tutto ciò somiglia a una ricetta per una forte contrazione dei
bilanci. Inoltre, queste cifre non tengono conto della scomparsa dei
prestiti cartolarizzati attraverso il cosiddetto "shadow banking
system" che ha rivestito un'importanza rilevante negli Stati Uniti.
Il Fondo monetario fornisce
anche le nuove stime sui costi fiscali finali delle operazioni di
salvataggio. Nella parte alta dei costi fiscali troviamo gli Usa e
la Gran Bretagna, rispettivamente al 13% e al 9% del Pil. Altrove,
il costo è inferiore. E per fortuna, si tratta di somme
abbordabili. Anche comparandole con l'impatto avuto dalla recessione
sul debito pubblico, restano somme gestibili. In ogni caso, i costi
dovrebbero aumentare. Ma la
probabilità più concreta è che i costi fiscali di una recessione
profonda siano sostanzialmente maggiori dei costi dei salvataggi.
Pensare di rifiutarsi di salvare il sistema finanziario perchè
troppo oneroso è un classico caso di «risparmiare un penny per
perdere una sterlina».
Una ragione migliore per rifiutarsi di salvare le banche è l'effetto
controproducente sull'incentivo a una sana gestione. L'alternativa
dovrebbe essere quindi la bancarotta. Jeremy Bulow della Stanford
University e Paul Klemperer della Oxford University hanno creato uno
schema che lo dimostra chiaramente.
Le attività più di valore di ogni istituzione finanziaria dovrebbero
essere separate in una «banca-ponte», lasciando le passività (tranne
i depositi) nella vecchia banca. Ai creditori verrebbero date azioni
della nuova banca. I Governi potrebbero gratificare alcuni creditori
fino al totale dovuto, invece di pagare tutti nella stessa misura
come avviene oggi.
Opinionisti autorevoli sostengono che sarebbe meglio garantire un
completo ristoro ai creditori delle istituzioni sistemicamente
importanti. La logica di questo ragionamento è che sarebbe l'unico
modo per prevenire ulteriore panico. L'obiezione non è il costo
fiscale. È che al termine di questo processo emergerebbe una serie
limitata di istituzioni «troppo grandi per fallire». I loro
creditori sarebbero portati a credere intuitivamente che il loro
debitore è il Governo. E questa sarebbe la strada migliore per
provocare catastrofi ben più gravi in futuro.
Anche imporre ai creditori perdite pesanti è effettivamente
rischioso. Probabilmente, una strada simile deve essere seguita
simultaneamente ovunque. Soltanto dopo che sarà chiaro che le banche
sopravvissute sono sane, allora tornerà la disponibilità a prestare
loro denaro senza garanzie.
Ancora peggiore della scelta tra queste due fosche alternative è il
fatto che la ripresa sarà
probabilmente lenta, qualunque strada venisse percorsa. Come notava
l'ultimo World Economic Outlook in un importante capitolo, le
recessioni che seguono le crisi finanziarie sono più pesanti delle
altre. Inoltre sono sincronizzate a livello globale. Ma ora stiamo
passando attraverso una recessione globalmente sincronizzata,
contestuale a una pesante crisi finanziaria che nasce dai Paesi
cardine dell'economia mondiale, a cominciare dagli Usa. Questo è
dunque il mix giusto per una lunga recessione e una debole ripresa.
Qualunque cosa si faccia per
il sistema finanziario, la riduzione della leva (deleveraging) sarà
all'ordine del giorno. La posizione della Gran Bretagna, sotto
questo profilo, appare pesante. Ma anche quella degli Stati Uniti
non è da meno, persino confrontandola con la situazione in Giappone
negli anni 90.
Comunque sia, le autorità
hanno deciso di salvare il sistema finanziario con i soldi dei
contribuenti. Praticamente tutti i Paesi coinvolti dovrebbero
poterselo permettere, almeno secondo le stime del Fondo monetario. A
questo punto, dopo aver preso la scelta fondamentale di evitare le
bancarotte, i Governi devono risanare i propri sistemi finanziari
nel modo più veloce possibile.
Sarà comunque dimostrato che
si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente per
restituire all'economia un tasso di crescita robusto. La sbornia di
credito rende inevitabile la riduzione della leva. Ma questo
processo è a malapena cominciato. E quanti sperano che si possa
tornare rapidamente a ciò che era ritenuto normale due anni fa,
resteranno delusi.
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Fonte
- Financial Times
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Economia:
collasso evitato ma la normalità è lontana
03 Maggio 2009 19:09 MILANO - di
Giuseppe Turani
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Il mondo e i mercati sono di nuovo divisi, tanto per
cambiare, fra ottimisti e pessimisti. Per questi ultimi non servono
grandi ragionamenti o analisi raffinate: basta guardarsi intorno,
leggere i giornali, accendere la Tv. Un po´ più complessa è la
questione per quanto riguarda gli ottimisti, che a molti sembrano
degli essere lunari. Come mai vedono rosa?
Per rispondere bisogna
tornare indietro di qualche mese. Il fallimento della Lehman
Brothers (una delle più grandi banche d´affari del mondo,
attiva in oltre 150 paesi) è di metà settembre del 2008.
Da allora, per almeno tre
mesi (ottobre, novembre, dicembre) il mondo è vissuto nell´incubo di
un collasso globale della finanza mondiale. Collasso che avrebbe
provocato una sorta di paralisi generale dell´economia (visto
che finanza e economia reale, qualunque cosa dicano gli ingenui,
sono due facce della stessa medaglia). E quindi Grande Depressione
piena di dolori e di incognite.
Ebbene, a sette mesi dal
fallimento della Lehman i mercati (e parte dell´opinione pubblica)
hanno raggiunto la ragionevole convinzione che non ci sarà il
collasso globale della finanza mondiale. Insomma, eravamo,
forse, sul Titanic, ma l´urto con l´iceberg maledetto non c´è stato.
Gli ottimisti di oggi sono, tecnicamente, gente afflitta da quella
che potremmo chiamare "sindrome da scampato pericolo".
Inoltre, danno loro una mano
i pubblici poteri, che ormai da settimane fanno mostra di grande
ottimismo, spiegando a tutti che il peggio è passato.
L´ottimismo che sta dilagando nasce da questo: un po´ discende
dall´alto e un po´ arriva dal fatto che siamo ancora tutti qui,
anche se acciaccati e doloranti.
Ma è davvero finito tutto?
Il ritorno alla vita "normale" (quella che c´era prima) è
dietro l´angolo? A poche settimane di distanza, o a pochi mesi, al
massimo? Non ne sarei così sicuro. Fra qualche giorno usciranno i
dati sulla crescita europea nel primo trimestre del 2009 e posso già
anticipare che si tratterà di numeri da incubo a occhi aperti.
L´America ha già comunicato
il suo Pil del primo trimestre e sappiamo che è sceso del 6,1 per
cento (dato annualizzato). Non si può escludere che in Europa il
crollo sia addirittura doppio, se non di più. Di sicuro andrà
malissimo il Pil della Germania, per la quale si parla di un crollo
(dati annualizzati) vicino al 15 per cento.
Dopo, le cose potrebbero,
dovrebbero, andare meglio. Ma la storia non sarà finita.
Anche una volta tornati a un
apparente normalità, sistemate cioè le banche e riavviata l´economia
reale, ci sarà da occuparsi della "bolla" costruita per uscire dalla
bolla del credito: e cioè quella della finanza pubblica. A
questo punto tutti i bilanci di tutti gli Stati sono oltre i limiti
di sicurezza (l´Italia passerà da un debito sul Pil del 105 per
cento a uno del 120 per cento, dov´era quindici anni fa). E quindi
bisognerà "rientrare": cosa non facile perché è complicato aumentare
le tasse (soprattutto dove sono già alte) e, in ogni caso, se cresce
la pressione fiscale, l´economia reale rallenta. E noi, invece,
stiamo cercando di rilanciarla.
In termini molti rozzi, si
può dire questo: l´immane debito che stava sul mercato (nelle
banche), e che minacciava di ucciderlo, è stato trasferito sui
bilanci pubblici (gli Stati hanno spalle più robuste). Ma è sempre
lì, e in qualche modo bisognerà liberarsene prima di poter dire che
siamo davvero rientrati dentro un mondo normale.
Gli ottimisti, quindi, fanno bene a dire che abbiamo evitato il
collasso globale immediato della finanza mondiale, e questo è
certamente un successo. Ma il mondo è stato ferito in modo molto
serio, e prima di ottenere un certificato di buona salute (e di
buona condotta), dovrà passare del tempo.
Non settimane o mesi, come loro ritengono, ma qualche anno.
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Fonte
- La Repubblica
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Perché la caccia ai
paradisi fiscali
May 3th, 2009 by edito
-
di Liberal Quotidiano ______________________________________________
Il tentativo, promosso
soprattutto dagli europei (segnatamente da Francia e Germania:
per scoprire il perché, munirsi di una carta geografica e trarre
le inferenze del caso) di ridurre il grado di legittimità ed i
margini di manovra dei cosiddetti paradisi fiscali (attraverso
la classificazione dei paesi in gruppi, in funzione del grado di
“cooperazione” fiscale internazionale), tende ad essere
interpretato come una decisione puramente populistica, oltre che
priva di un qualsivoglia legame con la crisi in atto. Le cose
non stanno esattamente in questi termini.
In un momento di ampi e crescenti disavanzi pubblici, causati
dalle operazioni di salvataggio del sistema finanziario, oltre
che dal crollo del gettito fiscale indotto dalla gelata dei
livelli di attività, gli stati nazionali hanno disperato bisogno
di capitali. Da qui l’ipotesi di attuare una generalizzata
repressione degli stati non cooperativi sul piano dello scambio
di informazioni fiscali, da associare (con buona probabilità) ad
operazioni di “scudo fiscale”, cioè di rimpatrio agevolato dei
capitali. Come noto, nel 2001 e 2003, il governo italiano
(Giulio Tremonti ministro dell’Economia) ha attuato due
operazioni di sanatoria per il rimpatrio dei capitali, tassati
con cedolare secca del 2,5 per cento. Le due operazioni
produssero il rientro di circa 80 miliardi di euro, con un
gettito erariale di poco meno di 2 miliardi. Negli ultimi anni
numerosi paesi hanno adottato analoghe iniziative di rimpatrio
giuridico di capitali, tassati a cedolare secca variabile, e con
condizionalità varie, quali l’investimento in azienda dei fondi
rientrati, o la sottoscrizione di titoli di stato.
Si comprende quindi l’interesse a rimpatriare tali fondi, che
potrebbero rappresentare una fonte di domanda addizionale e
quasi forzosa di titoli di stato, oltre che produrre gettito
d’imposta in un momento in cui i tesori nazionali sono impegnati
a finanziare deficit crescenti. Meno certo l’effetto sui flussi
creditizi: oggi le banche stanno tesaurizzando le riserve, ed è
probabile che finirebbero col fare lo stesso con i nuovi
depositi creati dai rimpatri, limitandosi probabilmente ad
investire a loro volta in titoli di stato. Già oggi peraltro si
starebbe assistendo al tentativo di rimpatrio “coperto” di
capitali esportati in paradisi fiscali. Si comprende quindi
meglio la potenzialità dell’operazione: rendere meno sicuro
detenere fondi in legislazioni fiscali “non cooperative”, e
indurre un movimento di progressivo rimpatrio di quel denaro,
per dare ossigeno nell’immediato soprattutto a conti pubblici
messi in ginocchio dalla crisi. Se questa mossa “dissuasiva”,
finalizzata a mutare gli incentivi ed il payoff
dell’esportazione di capitali e del mantenimento dei medesimi in
centri offshore, non dovesse produrre gli esiti sperati in
termini di flussi di ritorno, sarà sempre possibile ricorrere ad
un’ulteriore repressione dei paradisi fiscali, ed attuare poi
iniziative di scudo fiscale per indurre i rimpatri.
Anche il previsto giro di vite sugli hedge fund (ammesso e non
concesso che si riesca a realizzarlo, visto che implicherebbe un
grado di cooperazione regolatoria internazionale molto elevato)
ha delle motivazioni riconducibili alla crisi. In primo luogo,
gli hedge fund sono venditori netti di protezione creditizia
tramite i credit default swap, e tendono quindi ad essere
elementi di destabilizzazione sistemica, visti anche gli
elevatissimi livelli di leva finanziaria utilizzata. Ma
soprattutto, gli hedge funds operano prevalentemente in
legislazioni fiscali offshore, rappresentando quindi eccellenti
veicoli di riciclaggio dei capitali esportati. Ecco perché il
tema della stretta sui cosiddetti paradisi fiscali non può
essere considerato solo un diversivo populista, nell’ambito
della grave crisi che stiamo vivendo.
In tale contesto, occorre poi prestare massima attenzione alla
Svizzera, sulla quale stanno addensandosi rilevanti fattori di
rischio. Il desiderio, soprattutto francese e tedesco, di
ridimensionare un centro di riciclaggio internazionale di fondi
(non necessariamente nel senso criminale del termine, s’intende)
a due passi da casa, potrebbe determinare fortissime turbolenze
nel nostro continente.
Fonte
-
Liberal Quotidiano
Quel fallimento
“forzato” di Obama
May 5th, 2009 by editor
-
di Mario Seminerio - Liberal Quotidiano ______________________________________________
Giovedì scorso a New York
Chrysler ha presentato richiesta di ammissione alla procedura di
amministrazione straordinaria nota come Chapter 11, comunicando
di voler vendere i propri asset principali, inclusi i marchi
Chrysler, Jeep e Dodge, ad una nuova compagnia destinata ad
essere posseduta dai governi di Stati Uniti e Canada, da Fiat e
dai lavoratori della società, riuniti nella United Auto Workers,
tramite il fondo VEBA. La procedura prescelta (formalmente
dall’azienda ma di fatto dalla Casa Bianca) ha sollevato
l’opposizione di alcuni hedge funds e fondi d’investimento, ma
anche fondi pensione ed endowment funds di college, che si
trovavano nella condizione di creditori privilegiati (secured)
perché, secondo questi investitori, l’azienda intende invertire
l’ordine di priorità nel pagamento dei debiti societari,
subordinando i creditori privilegiati a quelli ordinari, tra i
quali vi è il sindacato, che avrà il 55 per cento della nuova
Chrysler, dopo il rifiuto dei creditori privilegiati ad
accettare rimborsi in via extragiudiziale pari a soli 29
centesimi per dollaro.
La disputa, aldilà delle tecnicalità, presenta una valenza
politica molto rilevante. Gli avversari della soluzione scelta
da Obama denunciano la violazione dei principi della legge
fallimentare e l’introduzione di elementi di arbitrio politico
nella gestione delle crisi di aziende “sensibili”, che finirà
con l’indebolire la tutela dei diritti di proprietà. I creditori
privilegiati, si sostiene, hanno accettato una minore
remunerazione proprio in virtù delle garanzie collaterali
rappresentate da impianti e marchi. Questa entrata a gamba tesa
della Casa Bianca rischia di provocare l’aumento del premio al
rischio richiesto da chiunque reputi che il proprio investimento
possa essere espropriato in caso ciò possa servire a questa
amministrazione o ad una futura. Il costo del finanziamento,
debito ed azioni, salirà di conseguenza. Obama ha usato toni
molto duri contro i creditori privilegiati che hanno rifiutato
la proposta di rimborso, definendoli “speculatori”, ma scorrendo
la lista tra essi si trovano anche investitori (come le
mutualità di credito) che a tutto possono assomigliare tranne
che ad eredi di Gordon Gekko.
Colpisce la schizofrenia dei salvataggi pubblici: da un lato, il
governo non ha sinora accettato soluzioni che prevedano perdite
per i creditori delle banche (gli obbligazionisti, perché i
depositi fino a 250.000 dollari sono coperti), consentendo a
banche sottocapitalizzate di continuare ad operare senza la
necessaria ristrutturazione. Dall’altro, l’esecutivo forza
l’industria automobilistica ad assumere iniziative che si
risolvono in un vulnus dei creditori privilegiati. La prossima
tappa di questa “reinterpretazione” della legge è attesa per la
fine di maggio, quando scadrà l’ultimatum di Obama a General
Motors. Qui si è già avuto un prodromo nelle scorse settimane,
con la defenestrazione di Rick Wagoner per opera della Casa
Bianca, che ad evidenza non è (ancora) neppure azionista di
controllo di GM.
Anche se ci troviamo in un momento di crisi epocale, la priorità
dovrebbe essere la tutela dei diritti di proprietà e delle
regole del gioco capitalistico, che prevedono la punizione del
management che ha sbagliato ed anche dei gruppi di controllo
societario. Finora Obama ha usato una politica di
discrezionalità settoriale che rischia di portare il già
ammaccato capitalismo statunitense a livelli caratteristici dei
paesi emergenti
Fonte
- Liberal Quotidiano
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Banche
USA:
il gioco delle 3 carte
08 Maggio 2009 14:18 TORINO - di
Alberto Bisin
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La giornata di
ieri sembrerebbe aver segnato una svolta nella crisi finanziaria: la
Banca Centrale Europea ha abbassato il tasso di interesse di
riferimento al suo minimo storico, e il Tesoro americano ha
pubblicato i risultati dello stress test sui bilanci delle
principali banche.
Purtroppo non è così, siamo
ancora in alto mare. Innanzitutto, le misure classiche di politica
monetaria, come la riduzione dei tassi, hanno effetti minimi su una
crisi finanziaria profonda come quella in cui ci troviamo. La
Fed ha ridotto i tassi negli Stati Uniti essenzialmente a zero mesi
orsono, senza effetti significativi sulla disponibilità di credito a
famiglie e imprese.
Lo stress test dei bilanci
delle banche americane operato dal Tesoro ha invece un obiettivo
fondamentale.
Eliminare gli ostacoli che
la situazione finanziaria delle banche frappone alla
ristabilizzazione dei flussi di credito, senza i quali uscire dalla
recessione è impresa titanica anche per economie di mercato ben
sviluppate. Nonostante le intenzioni, però, anche questo
intervento rappresenta una grande occasione perduta piuttosto che
non la svolta necessaria alla crisi.
Vediamo perché. Nei bilanci
delle banche sono nascoste passività e rischi di enorme entità.
Le stime recenti del Fondo Monetario Internazionale riportano 1000
miliardi di dollari di perdite in tutto il sistema finanziario, il
50% in capo alle banche, di cui solo 200 miliardi realizzati a
bilancio. I creditori di
ogni singola banca, specie gli azionisti, hanno interesse a
mantenere queste passività nascoste fino a che la ripresa economica
non se le porti via (o fino a che il governo non le addossi ai
contribuenti). Ogni banca ha persino interesse a che le altre
banche ripuliscano i loro bilanci, così da sostenere una ripresa
economica che ne ripulisca il proprio.
Lo stallo che questa
situazione genera è estremamente dannoso per l’economia globale
proprio perché una ripresa vivace e tempestiva è impossibile fino a
che le banche non abbiano ripulito i propri bilanci e il mercato del
credito non torni a operare efficientemente.
È qui che lo stress test del
Tesoro potrebbe intervenire: passare i bilanci delle banche ai raggi
X, costringerle a realizzare le perdite e a ricapitalizzarsi in modo
da poter sopportare anche i rischi derivanti da una rinnovata
attività nei mercati del credito.
Ho usato il verbo «costringere» a ragion veduta. Come ho detto, le
banche non hanno interesse a ripulire i bilanci, mentre il sistema
economico ha interesse che lo facciano con celerità.
Lo stress test rappresenta
una grande occasione persa per due ragioni. Prima di tutto, perché
il Tesoro non ha prodotto un’analisi trasparente dei bilanci delle
banche, ma anzi ne ha concordato i risultati con le banche stesse.
In questo modo non si risolvono i dubbi degli investitori (cui
spetterà la necessaria ricapitalizzazione) sul reale stato di
solvibilità del sistema finanziario.
Ma lo stesso test è una
grande occasione perduta soprattutto perché il Tesoro non costringe
le banche a nulla. Anzi, continua a prometter loro interventi e
sussidi pubblici nel caso la ricapitalizzazione sul mercato privato
fallisca. In questo modo si riducono enormemente gli
incentivi delle banche a realizzare le perdite nascoste nelle pieghe
dei loro bilanci.
La politica perseguita dal
ministro Geithner è quindi la stessa iniziata dal ministro Paulson:
salvare le banche prima di tutto. Stime della commissione di
controllo del Congresso (Congressional Oversight Panel) riportano
perdite dirette per i contribuenti dagli interventi sui mercati
finanziari a oggi dell’ordine di 170 miliardi di dollari, cui vanno
aggiunte garanzie assicurative valutabili in oltre 100 miliardi di
dollari. Infine, i fondi di investimento a partecipazione pubblica e
privata che acquisteranno le attività «tossiche» delle banche,
annunciati ma non ancora istituiti, costeranno ai contribuenti
secondo i più attenti osservatori 2 dollari per ogni dollaro
investito dal settore privato.
Questa politica non ha dato
a oggi alcun significativo effetto positivo sui mercati finanziari e
continuerà a non darne in futuro. Il Tesoro sembra continuare a
proporsi di evitare a ogni costo di dichiarare alcune banche
insolventi, per timore di una crisi sistemica nei mercati
finanziari e forse anche per limitare le perdite di management e
azionisti delle banche, cui il ministro Geithner è vicino per
frequentazione e interessi politici. In questo modo però il mercato
del credito rimane congelato e la ripresa economica più lontana e
anemica. Era questo il momento per il Tesoro di sollevare la testa
dalla sabbia e proporre come meglio affrontare il rischio sistemico
invece di nasconderlo. Peccato, sarà per la prossima volta.
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Fonte
- La Stampa
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Economia:
ma è davvero finita la crisi?
10 Maggio 2009 23:59 MILANO - di
*Alessandro
Fugnoli
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di
Abaxbank
________________________________________
Alcuni
economisti e strategist continuano ad applicare i
criteri quantitativi della modernità e fanno notare che
i risultati macro, gli utili delle società e l’attivo
delle banche non offrono motivi per fare festa.
Il Pil mondiale sta ancora scendendo e non si
stabilizzerà ancora per qualche mese, l’attivo delle
banche continua a svalutarsi e gli utili nel loro
complesso, se anche hanno toccato i minimi nel primo
trimestre, rimarranno su livelli depressi.
Nei mercati, per
contro, è evidente una valutazione della realtà più
estesa e in particolare si considerano due
fattori. Il primo è che dopo il terremoto dei mesi
scorsi (che a un certo punto aveva fatto temere il
crollo del sistema) tutti gli edifici sono stati
puntellati in un modo che ne garantisce di nuovo
l’abitabilità.
La domanda
aggregata è stata puntellata con i pacchetti
fiscali, la liquidità con energiche misure di sostegno,
i titoli di stato e dei mutui con acquisti diretti da
parte di un numero crescente di banche centrali, le
grandi imprese industriali con un sostegno esplicito dei
governi, il capitale delle banche con iniezioni di
denaro pubblico, l’attivo delle banche con l’istituzione
di grandi strutture (Talf, Ppip) destinate a rilevarne
una parte decisiva, il passivo delle banche con
esplicite garanzie statali, l’est europeo (e ora
l’America Latina) con i soldi messi a disposizione del
Fondo Monetario debitamente ricapitalizzato e infine i
paesi deboli dell’Europa occidentale (Irlanda, Grecia e
Spagna) con semplici parole in tedesco che per la prima
volta hanno fatto trasparire la possibilità di un
soccorso misericordioso in caso di bisogno estremo.
L’azione di
puntellamento è stata così efficace che tutti gli
edifici sono ora in grado di sopportare lo sciame
sismico (ma non un’altra eventuale forte scossa nel
sistema bancario, come ha ricordato Bernanke).
E’ diminuito del
resto anche il carico che questi edifici devono
sopportare grazie ai 40-50 milioni di persone (8 in
America, poco meno in Europa, 20 in Cina e poi c’è il
resto del mondo) che tra fine 2007 e fine 2010 verranno
fatti uscire dal mercato del lavoro.
L’avere evitato
il crollo del sistema e di singoli edifici importanti ha
permesso l’uscita dal paradigma del terrore e la
fine di quell’extra premio per il rischio che aveva
portato le valutazioni, in numerosi casi, a livelli
estremi. Questo fattore, già da solo, giustifica il
recupero realizzato finora dai mercati. Da qui in avanti
(in realtà forse già da un paio di settimane) subentra
il secondo fattore, la considerazione per la buona
volontà. La buona volontà (o il carattere come dicono in
America quando si giudica qualcuno per come si comporta
o comporterebbe nelle situazioni estreme) dà ai mercati
lo spunto per arrotondare ulteriormente al rialzo le
valutazioni.
Già, si dirà, ma quale buona volontà? Quella, ad
esempio, delle imprese che non hanno aspettato un minuto
per ridurre la produzione e gli investimenti, quando in
passato, fino a tutti gli anni Novanta, i tempi di
reazione erano stati molto più lenti. Oppure quella
delle banche centrali che si dichiarano disponibili,
intellettualmente e praticamente, a prendere altre
misure ancora più aggressive se dovesse manifestarsene
la necessità. O ancora quella delle banche (poche ma
simbolicamente importanti) che si dichiarano già pronte
a restituire allo stato le iniezioni di capitale
pubblico ricevute.
Nonostante la
diffidenza diffusa, in ogni caso, i mercati hanno
premiato i titoli bancari dopo le anticipazioni
sull’esito dello stress test da parte del Tesoro
americano. Sfruttando la maggiore solidità psicologica
dei mercati il Tesoro ha infatti preso coraggio e non ha
dato la promozione politica a tutte le banche, imponendo
anzi ricapitalizzazioni abbastanza significative a quasi
tutte. In
questo modo lo stress test ha recuperato un minimo di
credibilità e la necessità da parte delle banche di
raccogliere nuovo capitale è ora vista non come
una misura disperata ma come l’inizio di un processo di
stabilizzazione.
Certo, non c’è
da illudersi sulla possibilità che questo ciclo di
ricapitalizzazioni prossimo venturo sistemi i problemi.
Altri cicli anche più robusti saranno necessari nei
prossimi tre anni, augurabilmente a prezzi azionari
crescenti.
Insistiamo sulle
banche perché continueranno a essere il punto debole del
sistema. Bernanke è stato chiaro. Non è il ciclo
economico di per sé a preoccupare più di tanto. Anche se
i disoccupati aumenteranno ancora parecchio nei prossimi
12 mesi (pur senza raggiungere, secondo la Fed, quel 10
per cento di consenso) il sistema sta già producendo
anticorpi. Se però le banche si giapponesizzano sul
serio allora tutto diventa molto, molto difficile.
La possibilità
di un lungo e logorante credit crunch per anni e anni a
venire è il singolo elemento più citato dai pessimisti,
a partire da quasi tutti gli economisti e strategist di
Morgan Stanley. E’ un tema assolutamente decisivo,
ancora di più di quello della solvibilità strategica
delle banche (sempre risolvibile con le
nazionalizzazioni, all’occorrenza).
In questo contesto ci pare molto appropriata una
considerazione degli economisti americani di Goldman
Sachs. Anche se dovesse esserci una contrazione del
volume degli impieghi delle banche, dicono, non è detto,
quanto meno in astratto, che questo debba comportare per
forza una contrazione del Pil.
L’esempio pratico che fanno merita di essere riportato.
Supponete di avere da molti anni un reddito annuo di
40,000 e di avere dalla notte dei tempi un debito con la
banca di 100,000. Ogni anno, il 31 dicembre, la banca
decide se e come rinnovare il finanziamento. Dopo molti
anni di stabilità assoluta la banca decide (mettiamo a
fine 2007) di rinnovare i soliti 100,000 e di concederne
altri 10,000. Il vostro reddito spendibile (e quindi il
Pil) sale nel 2008 da 40,000 a 50,000.
A fine 2008, tuttavia, la banca si spaventa e decide di
riportare il finanziamento a 100,000. Dovete quindi
restituire 10,000 e il vostro reddito spendibile per
tutto il 2009 passa da 50,000 a 30,000 (i 40 che
guadagnate con il lavoro meno i 10 che dovete ridare
indietro).
A fine 2009 la banca, ancora preoccupata, riduce
ulteriormente il finanziamento da 100,000 a 95,000. Il
credit crunch, attenzione, si intensifica. Fate però due
conti e vedrete che il reddito che potrete spendere nel
2010 sale da 30 a 35,000 (i 40 che guadagnate con il
lavoro meno i 5 che dovete restituire).
Ci è sembrato utile riportare questo esempio perché sono
davvero in molti quelli che affermano che il Pil, a
parità di moltiplicatore bancario, è un multiplo del
credito, per cui se cala uno deve calare anche l’altro.
E invece non è detto. Detto questo, nel breve termine
degli uno due mesi i mercati potranno ancora recuperare,
anche se molto più lentamente di quanto abbiano fatto
finora. Va tenuto però presente che i mercati, da qui in
avanti, cominceranno a fare credito alla realtà, ad
anticipare cioè una stabilizzazione che entro un paio di
mesi dovrà dare conferme di sé.
La
stabilizzazione è la stabilizzazione, non la
decelerazione della caduta che vediamo adesso. Se non
risaliremo davvero verso lo zero (e se nel frattempo i
mercati saranno saliti ancora) ci sarà un consolidamento
e si tornerà vicino ai valori attuali.
Riteniamo ancora valido il programma di acquisto a rate
in borsa per i prossimi tre-quattro trimestri, con
l’obiettivo di vedere prezzi più alti a fine 2010. I
paesi emergenti vanno tenuti molto d’occhio. Il Fondo
Monetario ha ribadito che l’America Latina, non
appesantita da problemi bancari, sarà la prossima a
ripartire (Cina e India l’hanno già fatto).
Nel clima di ripresa il dollaro mostra qualche modesto
segno di debolezza. E’ importante notare che non si
tratta, al momento, di una valutazione negativa dei
fondamentali americani, quanto della ripresa del carry
trade, che in sé è un segno di ripresa della voglia di
rischiare.
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Fonte
- Il Rosso e il Nero
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Il futuro europeo
del welfare americano May 14th, 2009 -
di Mario Seminerio
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Gli amministratori della Social Security (il sistema
previdenziale americano) e del Medicare hanno pubblicato questa
settimana il rapporto annuale sulle condizioni finanziarie dei
due programmi di spesa federale. Il Medicare quest’anno sarà in
deficit, cioè avrà esborsi per prestazioni in eccedenza su
quanto riceve dalla fiscalità. Tutti gli americani pagano
contributi sociali sulla busta paga pari al 2,9 per cento per il
Medicare, ripartiti a metà tra lavoratore e datore di lavoro. Il
saldo finanziario della Social Security è ancora in attivo, ma è
atteso entrare in deficit nel 2016. La Social Security è
finanziata al 12,4 per cento della retribuzione lorda, anche in
questo caso ripartita paritariamente tra lavoratore (fino ad un
tetto retributivo indicizzato all’inflazione) e datore di
lavoro.
Quando i programmi saranno strutturalmente in deficit il governo
federale avrà tre opzioni, variamente combinabili: aumentare le
tasse, tagliare le prestazioni o aumentare il tasso di
rendimento dell’attivo. Secondo i Trustees, ipotizzando
l’invarianza dei benefici, l’aliquota di contribuzione di
equilibrio dovrebbe salire per la Social Security al 14,4 per
cento (con un aumento del 16 per cento sui livelli attuali), e
per il Medicare al 6,78 per cento, con un aumento del 134 per
cento. Complessivamente, quindi, l’equilibrio finanziario dei
due programmi, a benefici invariati, richiederebbe un’aliquota
della payroll tax al 21,18 per cento, prima delle imposte
federali e statali. Per un lavoratore che percepisce il salario
minino federale di 7,25 dollari l’ora (pari a 15.080 dollari
annui), ciò significherebbe maggiori trattenute per 1500 dollari
l’anno, con un depauperamento difficilmente sostenibile, e
destinato a produrre effetti devastanti sui consumi, considerata
anche la maggiore propensione ai consumi che gli strati sociali
a minor reddito presentano.
Saranno quindi necessarie correzioni strutturali ai due
programmi di spesa federale. Obama ha già suggerito in campagna
elettorale la possibilità di rimuovere il tetto di retribuzione
massima indicizzabile sul quale applicare la trattenuta per la
Social Security. Difficilmente, poi, il governo sceglierà una
correzione esclusivamente centrata sul versante delle entrate, a
benefici invariati, visto l’impatto sul costo del lavoro e
sull’occupazione che ciò implicherebbe. Per la Social Security,
inoltre, una rettifica alle assunzioni attuariali sul tasso
atteso di crescita del Pil tende a riportare i conti in
equilibrio, ovviamente con il caveat della fattibilità di
raggiungimento dei nuovi target di crescita, per non scadere
nella contabilità creativa. Per il sistema sanitario si attende
la Grande Riforma di Obama, il cui obiettivo strategico è quello
di piegare il trend di crescita della spesa sanitaria sul Pil,
frutto di avanzamenti tecnologici e di incentivi sfavorevoli
prodotti dall’attuale sistema, come l’eccesso di ricorso alle
strutture di pronto soccorso causato dall’assenza di spesa per
la prevenzione da parte dei soggetti non assicurati, o l’eccesso
di costi di marketing da parte delle assicurazioni, per cercare
di acquisire soggetti in salute ed evitare quelli a rischio, o
la overmedication causata dall’assenza di compartecipazione alla
spesa sanitaria (l’”effetto-ticket”) da parte degli assicurati.
La riforma di questi due capitoli di spesa sarà cruciale per il
futuro del sistema-paese statunitense. L’andamento esplosivo
della spesa prevista per gli entitlements deve essere affrontato
in modo radicale, lungo due direttrici strategiche: evitare
aumenti del costo del lavoro, e lo sviluppo di deficit
strutturali che peserebbero in modo “europeo” sul bilancio
federale ma senza avere il tipo di copertura sociale, su
pensioni e sanità, che gli europei riescono ancora, malgrado
tutto, ad ottenere. Sono due modelli squilibrati ma quello
americano, senza interventi radicali, rischia di esserlo ancora
di più.
Fonte
- Libero Mercato
Obama preme per la
riforma delle carte di credito
11 Maggio 2009 09:01 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
Se l'America vuole uscire dalla
recessione deve manifestare «trasparenza e responsabilità» a
tutti i livelli per rafforzare la fiducia dei consumatori.
Questo traguardo passa anche, banalmente, dal modo in cui in
America si utilizzano le carte di credito. È tempo che gli
istituti mettano gli utenti in grado di capire «sempre» quale
sia il costo delle carte, che operino con «trasparenza e
responsabilita», e che sulla materia l'America abbia insomma una
nuova legge.
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha inviato questo
messaggio sabato al Congresso chiedendo a Capitol Hill di
approvare al più presto la proposta di legge che riforma in
America il ricorso alla cosiddetta 'plastic money'.
Nel consueto discorso radiofonico e via Youtube del sabato Obama
ha insistito sulla necessità che i consumatori americani siano
messi nelle condizioni di capire in modo chiaro quanto costa
l'utilizzo della carta, e che dunque ogni istituto bancario
fornisca loro in termini «facilmente comprensibili e
assolutamente trasparenti» i resoconti di gestione delle carte.
Obama ha insistito sulla necessità che le istituzioni americane
siano di esempio nei loro comportamenti («devono agire secondo
quel senso di responsabilità e giustizia che la gente si aspetta
da loro»). PeRchè sono loro, le istituzioni, a dare per prime
l'esempio, «comportandosi come la gente si aspetta che le
istituzioni si comportino».
Secondo il presidente, se l'America vuole uscire dalla
recessione in cui è precipitata, «ognuno deve assumersi le
proprie responsabilita» e se questo vale per la politica, per le
grandi banche e per le grandi istituzioni di Wall Street, a
maggior ragione vale per gli istituti che gestiscono le carte di
credito, quelle cioè che in definitiva hanno un rapporto diretto
sui consumi quotidiani degli americani.
«È più che mai evidente - ha detto il presidente - che in nessun
altro settore come in quello delle carte di credito sia
necessaria trasparenza e giustizia». I consumatori hanno bisogno
di ricevere rendiconti chiari, facilmente comprensibili, che non
«nascondano» penali o ricarichi che non riescono a capire.
«Invece di rendiconti stampati in modo elegante, è tempo di
adottare un linguaggio immediatamente comprensibile», ha
precisato Obbama. Che ha invitato il Senato ad approvare la
legge di riforma del settore.
Il provvedimento è già stato approvato dalla Camera, ma deve
ancora essere esaminato dal Senato. Obama ha chiesto che questo
esame venga fatto in fretta, in modo che lui la possa firmare la
nuova legge il 25 maggio prossimo, in occasione del Memorial Day,
il giorno in cui l'America ricorda il sacrificio dei soldati
caduti.
Fonte
- APCOM
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La felicità
è un bene globale
19 Maggio 2009 08:11 - di
Dani Rodrik*
*L'autore insegna
Economia politica ad Harvard
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Forse ci vorrà
qualche mese o forse un paio d'anni, ma in un modo o nell'altro gli
Stati Uniti e le altre economie avanzate alla fine supereranno la
crisi odierna. Probabilmente, però, l'economia mondiale non tornerà
più come prima.
Passata la fase peggiore
della crisi, è probabile che ci ritroveremo in un mondo per certi
versi deglobalizzato, un mondo dove gli scambi internazionali
crescono a un ritmo più lento, dove c'è meno finanza esterna e dove
i paesi ricchi saranno molto meno disposti a tenere in piedi deficit
consistenti nella bilancia dei pagamenti. Si preparano tempi duri
per i paesi emergenti?
Non necessariamente. La
crescita nei paesi in via di sviluppo di solito assume tre varianti
distinte. Prima
arriva la crescita trainata dal debito estero. Poi arriva la
crescita come effetto collaterale di un boom delle materie prime.
Poi arriva la crescita trainata dalla ristrutturazione economica e
dalla diversificazione in nuovi prodotti.
I primi due modelli comportano rischi maggiori del terzo. Ma non c'è
da perderci il sonno, perché sono modelli imperfetti e in definitiva
insostenibili. Quello di cui ci dovremmo preoccupare è la sorte dei
paesi dell'ultimo gruppo. Queste nazioni dovranno procedere a
modifiche significative delle loro politiche per adeguarsi alle
nuove realtà odierne.
I primi due modelli di
crescita conducono invariabilmente a un finale infausto.
Prendere in prestito soldi da Paesi esteri può consentire a
consumatori e Governi di vivere al di sopra dei loro mezzi per un
po' di tempo, ma non è saggio fare affidamento sui capitali esteri.
Il problema non è soltanto che questi flussi di capitale possono
facilmente invertire rotta, ma anche che producono un tipo di
crescita sbagliato, basato su monete sopravvalutate e investimenti
in beni e servizi non scambiati, come l'immobiliare e l'edilizia.
Anche la crescita trainata da un prezzo alto delle materie prime può
portare a disastri, per ragioni analoghe. I prezzi delle materie
prime tendenzialmente hanno un andamento ciclico. Quando sono alti,
si prestano a escludere gli investimenti in prodotti lavorati e
altri beni scambiabili non tradizionali. Inoltre, i boom delle
materie prime spesso producono situazioni politiche sgradevoli in
Paesi dotati di istituzioni deboli, dando origine a conflitti
costosi per il controllo dei proventi di queste risorse, che
raramente vengono investiti con saggezza.
E dunque non c'è da stupirsi
che i paesi che negli ultimi sessant'anni sono riusciti a realizzare
una crescita costante e di lungo periodo siano quelli che si sono
affidati a una strategia diversa: promuovere la diversificazione in
prodotti lavorati e altri beni "moderni". Conquistandosi una fetta
crescente dei mercati mondiali di prodotti lavorati e altri prodotti
non primari, queste nazioni hanno incrementato le opportunità
occupazionali interne in attività ad alta produttività. I
loro governi non si sono concentrati unicamente sui "fondamentali"
(ad esempio la stabilità macroeconomica e la tendenza ad aprirsi
all'esterno), ma anche su quelle che potremmo definire politiche "produttiviste":
monete sottovalutate, politiche industriali e controlli finanziari.
La Cina esemplifica questo
approccio. La sua crescita è stata alimentata da una trasformazione
strutturale straordinariamente rapida verso un insieme di beni
industriali sempre più sofisticato. Negli ultimi anni, inoltre, la
Cina ha sviluppato un grosso surplus commerciale nei confronti degli
Stati Uniti, il corrispettivo della sua moneta sottovalutata.
Ma non è stata solo la Cina.
I Paesi che sono cresciuti rapidamente nel periodo precedente al
grande crack del 2008 di solito erano caratterizzati da surplus
commerciali (o da deficit molto contenuti). Questi Paesi non avevano
nessuna voglia di accogliere flussi di capitale perché erano
consapevoli che una cosa del genere avrebbe messo seriamente a
rischio l'esigenza di mantenere una valuta competitiva.
Ora tutti sono del parere
che i grandi squilibri nella bilancia dei pagamenti - esemplificati
dalla relazione commerciale tra Cina e Stati Uniti - hanno giocato
un ruolo importante nel grande crack.
Per il bene della stabilità
macroeconomica simili squilibri sono da evitare in futuro.
Ma perché la crescita torni
a viaggiare a ritmi sostenuti nei paesi in via di sviluppo è
necessario che questi ultimi riprendano a concentrarsi su beni e
servizi scambiabili. In passato questa situazione era agevolata
dalla disponibilità degli Stati Uniti e di altre nazioni sviluppate
a tenere in piedi ingenti deficit commerciali, ma ora non è più una
strategia praticabile per i Paesi in via di sviluppo ad alto o medio
reddito.
La stabilità macroeconomica globale e la crescita dei Paesi in via
di sviluppo dunque sono due obbiettivi in contraddizione tra loro?
L'esigenza dei Paesi emergenti di generare importanti incrementi
dell'offerta di prodotti industriali è inevitabilmente in contrasto
con il fatto che gli squilibri commerciali sono insostenibili per
l'economia mondiale?
In realtà non esiste nessun conflitto intrinseco, una volta messo in
chiaro che ciò che conta per la crescita dei Paesi in via di
sviluppo non sono le dimensioni dei loro surplus commerciali, e
nemmeno il volume delle loro esportazioni.
Quello che conta è la
produzione di beni (e servizi) industriali moderni, che è possibile
espandere illimitatamente se contemporaneamente si espande la
domanda interna.
Mantenere sottovalutata la propria moneta ha il vantaggio di
sovvenzionare la produzione di questi beni, ma anche lo svantaggio
di tassare i consumi interni, ed è per questo che una simile
politica dà origine a un surplus commerciale. Incoraggiando
direttamente la produzione industriale è possibile godere dei
vantaggi senza subirne gli svantaggi.
Ci sono molti modi per fare
una cosa del genere, come ad esempio ridurre il costo dei fattori
produttivi interni e dei servizi mediante investimenti mirati nelle
infrastrutture. Le politiche industriali esplicite possono essere
uno strumento ancora più efficace. Il punto chiave è che i
Paesi in via di sviluppo che puntano a rendere più competitivi i
loro settori moderni possono permettersi di far apprezzare le loro
valute (in termini reali) solo se hanno la possibilità di mettere in
campo politiche alternative che promuovano in modo più diretto le
attività industriali.
Dunque la buona notizia è
che i Paesi in via di sviluppo possono continuare a crescere
rapidamente anche se gli scambi mondiali rallentano e se c'è meno
fame di flussi di capitale e squilibri commerciali. Le loro
potenzialità di crescita non vengono seriamente penalizzate, a patto
che siano ben chiare le implicazioni di questo nuovo contesto
rispetto alle politiche interne e internazionali.
Una di queste implicazioni è
che i Paesi in via di sviluppo dovranno sostituire le politiche
industriali che fanno leva sul tasso di cambio con politiche
industriali vere. Un'altra è che gli attori esterni (ad
esempio l'Organizzazione mondiale del commercio) dovranno essere più
tolleranti nei confronti di queste politiche, a patto di
neutralizzarne gli effetti sulla bilancia dei pagamenti attraverso
adeguati aggiustamenti del tasso di cambio. Un maggior ricorso alle
politiche industriali è il prezzo da pagare per una riduzione degli
squilibri macroeconomici.
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Traduzione
- Fabio Galimberti
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Fonte
estera
- Project Syndicate
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Fonte
- SOLE24ORE
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La
crisi del 1929 e le sue false
morali
20 Maggio 2009 08:48 MILANO - di
Alberto Alesina
________________________________________
L'analisi più
comune sulla crisi che stiamo attraversando è questa. Oggi come nel
'29 il capitalismo, soprattutto quello di stampo anglosassone,
rivela di essere profondamente instabile. I mercati, non solo quelli
finanziari ma anche in altri settori, sono troppo poco regolati e
per questo provocano gravi danni. Come Franklin Delano
Roosevelt salvò l'America dalla crisi del '29 con un forte
intervento pubblico nell'economia, e con stringenti
regolamentazioni, così oggi bisogna ristabilire la supremazia della
politica sui mercati, regolandoli fortemente sia a livello nazionale
che internazionale. La crisi
di oggi, continua questa analisi, porterà a una benvenuta svolta
interventista e dirigista. C'è bisogno di qualcosa di simile a un
nuovo New Deal.
Questa lettura della crisi
del 2009 si basa su di una visione superficiale di quella del '29 e,
quindi, porta a trarre delle lezioni sbagliate, sul presente e sul
futuro. Partiamo da un fatto: la politica, non il mercato, fu la
causa principale dello shock 80 anni fa.
Clamorosi errori di politica
economica trasformarono un aggiustamento dei mercati finanziari in
una tragedia per l'economia reale. Lo stesso crollo di Borsa
fu in parte accentuato da errori della politica monetaria. In
secondo luogo, un'analisi attenta del presidente del New Deal,
eletto nel novembre 1932, dimostra che non fu Roosevelt a far uscire
l'America dalla depressione; anzi, alcune sue scelte politiche non
fecero che prolungarla. Quello che stupisce della depressione
americana è il fatto che durò così a lungo – ben un decennio, e
chissà quanto ancora se non ci fossero state la Seconda guerra
mondiale e la ricostruzione post bellica – e fu più grave che in
Europa.
Gli sbagli di Herbert Hoover,
predecessore di Roosevelt, e quelli della Federal Reserve causarono
la crisi. Hoover era un ingegnere, poco capiva di economia e
credeva che un sistema economico andasse diretto come una macchina,
dando ordini e direttive alle sue componenti. E, infatti,
insediatosi all'alba del funesto '29, ai primi segnali di recessione
e deflazione convocò i maggiori industriali americani e impose loro
di non abbassare i salari nominali per mantenerne il potere
d'acquisto e sostenere i consumi.
Non potendo mantenere salari nominali costanti mentre i prezzi dei
beni cadevano, gli imprenditori accelerarono le chiusure e fecero
schizzare in su la disoccupazione.
Poi, Hoover si scagliò contro la finanza, spaventando gli
investitori e accelerando il crollo del Dow Jones. Inoltre, accettò
il ritorno al protezionismo approvando la tariffa Smoot Hawley,
nonostante una famosa petizione contraria firmata da 1.028
economisti. Ne derivò una guerra commerciale che polverizzò quello
che era rimasto della globalizzazione prebellica (la Belle époque) e
fece precipitare il mondo nella crisi piu grave del capitalismo.
Infine, preoccupato per il deficit in aumento, Hoover aumentò, e di
molto, le imposte, dando un'altra batosta alla domanda aggregata.
Hoover consegnò a Roosevelt
all'inizio del 1933 un'economia con un tasso di disoccupazione di
circa il 20 per cento. Due anni dopo era al 23 per cento. Una
ripresa nel '37 fu, poi, seguita da una nuova recessione l'anno
successivo. In media, il totale delle ore lavorate in Usa fu
inferiore del 23% durante il New Deal ('33-'39) rispetto agli anni
prima del '29, nonostante fosse salita di molto la spesa pubblica. I
consumi degli americani rimasero al 25% sotto trend durante quel
periodo ritenuto leggendario. Non sembra un grande successo.
Che cosa fece Roosevelt? Una
parte delle sue scelte politiche furono ottime: i sussidi alla
disoccupazione limitarono i danni sociali della depressione, il
sistema pensionistico pubblico tranquillizzò i consumatori sul loro
futuro, l'assicurazione sui depositi bancari e la creazione di un
regolatore dei mercati stessi (la Sec) contribuirono a stabilizzare
i mercati finanziari. Ma il suo estremo dirigismo nella
regolamentazione dell'economia fece gravi danni.
I teorici del New Deal erano convinti che il capitalismo andasse
gestito e diretto dal centro della politica. In questo senso il
National Recovery Act, che fu la prima mossa di Roosevelt nel '33,
fu un disastro. Questa legge voleva fissare (o influenzare) prezzi e
salari, impedire la concorrenza e promuovere monopoli centralizzati,
anche meglio controllabili politicamente. Introdusse
regolamentazioni molto specifiche su cosa si poteva e non si poteva
fare nel campo della produzione e della scelta dei prodotti.
Potenziali forze vitali dell'economia privata vennero essenzialmente
schiacciate da queste asfissianti regole, nel loro insieme contrarie
a qualunque basilare principio di economia.
Molti potenziali investitori spaventati dalle prospettive
dell'economia di mercato e dal futuro status giuridico delle
imprese, messi in discussione dal New Deal con la sua tesi della
superiorità della politica, cessarono di investire peggiorando cosi
la depressione. La Corte suprema dichiaro il National Recovery Act
incostituzionale nel '35, ma quelle politiche industriali
continuarono essenzialmente immutate. Roosevelt minacciò perfino
l'indipendenza della Corte suprema nella sua battaglia dirigista. Ma
alla fine lo stesso presidente riconobbe come un errore l'eccesso di
regolamentazione e, in un discorso del '38, ammise di aver
consegnato l'economia americana a dei monopolisti.
L'altro cardine delle
politiche di Roosevelt fu il forte aumento della spesa pubblica,
soprattutto per opere pubbliche. A giudicare dai risultati
sull'occupazione sopra ricordati, tutto questo sforzo ebbe effetti
molto meno straordinari di quanto normalmente si pensi.
Anche altre recessioni
aggredite con espansioni fiscali nel secondo dopoguerra dimostrano
che i benefici della spesa pubblica, in particolare di grandi opere
edili, per stimolare la crescita sono alquanto dubbi.
Insomma, quello che stupisce
nell'America del New Deal non è un veloce recupero dalla crisi del
'29, ma un decennio di difficoltà più gravi che in altri Paesi
industrializzati nella stessa epoca. I tentennamenti e le
indecisioni di Roosevelt sull'abbandono del gold standard non fecero
che aggravare il problema.
La lezione da trarre dalla
crisi del '29 è, allora, molto diversa dalla riscoperta della
regolamentazione, del dirigismo e dello statalismo.
La crisi di oggi è stata sì
determinata dalle distorsioni dei mercati finanziari. Ma la gestione
dell'economia ci ha messo del suo, a partire da tassi troppo bassi
fissati dalla Fed nei primi anni del Duemila. Fra l'altro, molti dei
leader europei che oggi si scagliano contro il capitalismo
anglosassone sono gli stessi che criticavano la più prudente e
saggia Banca centrale europea.
E osannavano, invece,
Greenspan per le sue politiche espansive, che poi, come si è visto,
contribuirono alla crisi finanziaria. E se oggi, per fortuna,
abbiamo in larga parte evitato gli errori di Hoover, adesso dobbiamo
evitare anche quelli di Roosevelt. Protezione sociale sì, ma non
reintroduzione del dirigismo e del capitalismo di Stato.
Non ci deve essere una
restaurazione. La lezione da trarre da questa crisi è quella che ha
tratteggiato Guido Tabellini sul Sole 24 Ore del 7 maggio. Ovvero,
il capitalismo dopo questo shock non cambierà. Riscriveremo alcune
regole per mercati finanziari. Cercheremo di migliorare la
supervisione e gli incentivi per i manager della finanza, oltre a
cambiarne parecchi. Ma il
capitalismo anglosassone, fondato sul mercato, continuerà a essere
quello che produce piu crescita. Teniamocelo.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Sabato 16
Maggio
2009 |
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Mercoledì 20
Maggio
2009 |
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USA: I CONSUMATORI
HANNO SEMPRE PIU' FIDUCIA NELLA RIPRESA ECONOMICA
26 Maggio 2009 17:40 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
La sensazione delle famiglie
americane e' che il peggio sia ormai alle spalle. Tirano un
sospiro di sollievo i commercianti. Ma i mercati del lavoro e
immobiliare restano ancora deboli.
Continua a crescere la fiducia dei consumatori, salita in maggio
sui massimi di otto mesi, mentre si fa sempre piu' alto il
numero di famiglie americane che ha la sensazione che il peggio
della recessione sia ormai alle spalle.
Il Conference Board, un centro di ricerca privato di New York,
ha reso noto che, dopo essere aumentato nettamente in aprile,
l'indice Consumer Confidence e' cresciuto ancora in maggio,
attestandosi a 54,9 punti dai 40,8 del mese precedente. Gli
analisti si attendevano in media un risultato di 42,6 punti. Si
tratta del livello piu' alto dallo scorso settembre, quando il
dato era stato pari a 61,4 punti.
L'indice Present Situation, che misura la fiducia dei
consumatori nell'economia, e' cresciuto a 28,9 punti dai 25,5
del mese scorso. Ma a sorprendere e' soprattutto il balzo dell'Expectations
Index. L'indicatore che misura l'outlook dei consumatori nei
prossimi sei mesi, e' aumentato a 72,3 punti dai 51,0 di aprile.
"Guardando al futuro, i consumatori sono decisamente meno
pessimisti di quanto non fossero all'inizio dell'anno e
prevedono che nei prossimi mesi le condizioni economiche, il
mercato del lavoro e i redditi miglioreranno", ha commentato
Lynn Franco, direttore del Conference Board Consumer Research
Center. "Se da un lato la fiducia e' ancora debole rispetto agli
standard, il peggio e' ormai alle nostre spalle", ha concluso
Franco.
La lettura dell'indice ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai
commercianti, che tanto fanno assegnamento sulle spese dei
consumatori, in particolare dopo che nei mesi scorsi la fiducia
delle famiglie americane era crollata sui minimi storici.
Il rally azionario, che dura da oltre due mesi, ha sicuramente
contribuito a rassicurare le famiglie americane sul futuro dei
propri fondi pensione. Inoltre i risultati fiscali migliori
delle attese annunciati da diverse societa' del settore delle
vendite al dettaglio, come Sears Holdings, Gap e Aeropostale,
hanno offerto una prova evidente della stabilizzazione delle
spese, anche se i livelli generali delle attivita' restano
ancora deboli.
Tuttavia va detto che gli economisti temono che il rally del
mercato azionario non possa essere sostenibile, a causa degli
ostacoli che l'economia si trova ancora a dover superare prima
di poter uscire dalla recessione. Quelli piu' difficili da
sormontare sono senza dubbio la debolezza del mercato del lavoro
e del settore immobiliare.
Da questo punto di vista, l'ultimo aggiornamento sui prezzi
delle case, non e' stato confortante. Il rapporto Standard &
Poor's/Case Shiller, l'indicatore che monitora il prezzo medio
degli immobili nelle 20 maggiori citta' statunitensi, su base
annuale e' risultato in calo del 18,70% nel mese di marzo. Le
attese degli analisti erano in media per una contrazione del
18,40%.
Nel primo trimestre la flessione e' stata del 19,1%, il peggior
dato nella storia del dato. Da quando hanno toccato il punto
piu' alto nel secondo trimestre del 2006, i prezzi sono scesi
del 32,2% e attualmente si trovano sui livelli che non si
vedevano dalla fine del 2002.
Fonte
- APCOM
UNA FAMIGLIA SU 5 IN
DIFFICOLTA'
26 Maggio 2009 13:23 ROMA
-
di La Stampa ______________________________________________
Una famiglia su cinque ha
difficoltà economiche crescenti e il 6,3% addirittura non riesce
ad arrivare a fine mese. Lo scenario è tratteggiato dall'Istat
nel Rapporto annuale 2008. Secondo l'Istituto di statistica, il
22% circa delle famiglie italiane è vulnerabile mentre il 41,5%
si può definire «agiato». Nel dettaglio, l'Istat spiega che del
22% di chi ha problemi circa 2 milioni e mezzo di famiglie (il
10,4%) segnalano difficoltà economiche più o meno gravi e
risultano potenzialmente vulnerabili soprattutto a causa di
forti vincoli di bilancio. Spesso non riescono a effettuare
risparmi e nella maggioranza dei casi non hanno risorse per
affrontare una spesa imprevista di 700 euro. Sono la Sicilia
(20,1% e la Calabria 17,1% le regioni dove è maggiore la
frequenza di questo gruppo.
DIFFICOLTA' - Circa 1 milione 330 mila famiglie (5,5%) incontra
difficoltà nel fronteggiare alcune spese. La maggioranza di
queste famiglie si è trovata almeno una volta nel corso del 2007
senza soldi per pagare le spese alimentari, i vestiti, le spese
mediche e quelle per i trasporti. Dal punto di vista
territoriale «le famiglie in difficoltà per le spese della vita
quotidiana» risultano relativamente più diffuse nel Mezzogiorno.
In particolare Sicilia 12,3%, Calabria 11,6 e Puglia 10,3%.
Circa 1 milione e 500 mila famiglie (6,3%) denunciano, oltre a
seri problemi di bilancio e di spesa quotidiana, più alti rischi
di arretrati nel pagamento delle spese dell'affitto e delle
bollette, nonchè maggiori limitazioni nella possibilità di
riscaldare adeguatamente la casa e nella dotazione di beni
durevoli.
Sono residenti al Sud, in Campania 15,1% e in Puglia 12,3%,
mentre in tutte le regione del Centro-Nord rappresentano meno
del 5% della popolazione di ciascuna regione. Altri dieci
milioni di famiglie (il 41,5% del totale) invece mostrano
livelli inesistenti o minimi di disagio economico. Si tratta di
famiglie con redditi alti e medio-alti, più diffuse nel Nord del
Paese, in particolare residenti in Trentino-Alto Adige e in
Valle D'Aosta. Circa 8 milioni e 800 mila famiglie infine (il
36,3%) vivono in condizioni di relativo benessere. Si tratta
prevalentemente di famiglie formate da adulti e anziani a
reddito medio (concentrate soprattutto in Molise con il 39,4% e
in Liguria 36,7%) e di altre più giovani a reddito medio e
medio-alto, che hanno come problema quasi esclusivo il rimborso
del mutuo. Sono diffuse nelle regioni del Centro e del Nord, in
particolare in Lombardia con il 10%, e nelle Marche e in Toscana
con il 9,7%.
OCCUPAZIONE - Le condizioni del mercato del lavoro in Italia
«peggiorano a causa della crisi in atto». Per la prima volta dal
1995, infatti, la crescita degli occupati nel 2008, che sono
aumentati di 183 mila unità rispetto al 2007, è risultata
inferiore a quella dei disoccupati, saliti di 186 mila unità
sempre rispetto all'anno prima. Lo scorso anno la disoccupazione
è tornata a crescere dopo circa dieci anni di diminuzione,
coinvolgendo in misura maggiore gli uomini. Il fenomeno ha
interessato in particolare il Centro e il Nord-Ovest, anche se
il Mezzogiorno si è confermata l'area con la maggiore
concentrazione di disoccupati.
Nel 2008, inoltre, gli occupati «standard», cioè a tempo pieno e
con durata indeterminata, sono risultati circa 18 milioni; i
lavoratori «parzialmente standard» (a tempo parziale e con
durata non predeterminata) circa 2,6 milioni; gli atipici
(dipendenti a termine e collaboratori) quasi 2,8 milioni. Per
quanto riguarda gli atipici, evidenzia ancora il rapporto, quasi
la metà - nello specifico un milione e 300 mila - sono presenti
nel mercato del lavoro da più di dieci anni. Tratteggiato anche
l'identikit del «disoccupato medio»: è un uomo di età compresa
tra i 35 e i 54 anni che abita nel Centro-Nord, con un livello
di istruzione non superiore alla licenza secondaria e che ha
perso un lavoro alle dipendenze nell’industria.
Il mercato del lavoro evidenzia ancora una volta un divario
strutturale tra il Nord e il Sud del Paese, ma anche nel
Mezzogiorno ci sono territori in controtendenza. I lavoratori
dipendenti a tempo indeterminato e con orario full time crescono
nelle regioni settentrionali e centrali e nelle classi di età
adulte, mentre diminuiscono tra i giovani fino a 34 anni e nelle
regioni del Mezzogiorno.
Il 2008 è stato caratterizzato da segni negativi e rallentamenti
in tutto il mondo del lavoro, tuttavia la flessione più forte
degli occupati si è registrata nei settori nell'agricoltura e
nell'industria in senso stretto, con la crescita del ricorso
alla cassa integrazione, mentre aumentano lievemente nel
terziario e solo al Nord i posti di lavoro nelle costruzioni.
REDDITO - L'Italia è anche uno dei paesi europei con «la
maggiore diffusione di situazioni di reddito relativamente
basso: una persona su cinque è a rischio di vulnerabilità
economica» sottolinea ancora il rapporto annuale dell'Istat,
evidenziando che «rischi altrettanto elevati» si osservano in
Spagna, Grecia, Romania, Regno Unito e nei Paesi baltici. Il
rischio di vulnerabilità riguarda, invece, soltanto una persona
su dieci nei paesi scandinavi, nei Paesi Bassi, nella Repubblica
Ceca e in Slovacchia. Questo si rileva particolarmente nelle
regioni meridionali: nel 2007 risultano esposte al rischio meno
dell'8% nel Nord-est, poco più del 10% nel Nord-ovest e nel
Centro e circa una su tre nel Mezzogiorno.
IMPRESE - Il rapporto evidenzia anche come la crisi per le
imprese italiane sia iniziata prima che in altre parti del
mondo. Nei primi mesi del 2008, in fase ancora espansiva, la
metà delle imprese esportatrici già mostrava una caduta
rilevante del livello di export (-12,5%) rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente, a fronte di un aumento delle
esportazioni di circa il 10%. Nel primo bimestre 2009 però più
di un’impresa esportatrice su quattro (circa 6.500 imprese) ha
registrato incrementi delle vendite all’estero, nonostante la
crisi.
URBANIZZAZIONE - L'Istat segnala come continui ancora
l'espansione delle aree urbanizzate in Italia, tanto che ogni
anno il cemento aumenta in media di 22 metri cubi per abitante.
Molise, Puglia, Marche, Basilicata insieme al Veneto le regioni
in cui la corsa all'edificazione è più accentuata. Il Rapporto
spiega che quest'espansione si è verificata spesso «in assenza
di pianificazione urbanistica sovracomunale». Tra il 2001 e il
2008, limitatamente alle regioni per le quali è già in corso il
processo di perimetrazione delle aree urbanizzate - si legge nel
rapporto -, la superficie edificata è aumentata in misura più
consistente in Molise (18%) e in Puglia, Marche e Basilicata (il
12% e il 15%). In Veneto, che sià nel 1991 condivideva con la
Lombardia il primato della regione «più costruita» d'Italia, le
superfici edificate sono cresciute ancora del 5,4%,
«approssimando situazioni di saturazione territoriale», segnala
l'Istat. Con Lazio e Puglia - specifica ancora il rapporto - il
Veneto è anche la regione dove in assoluto si è costruito di
più, con oltre 100 chilometri quadrati di nuove superfici
edificate.
IMMIGRAZIONE - Nel 2008 in Italia sono arrivati più
extracomunitari che comunitari. Nel corso dell'anno, rende noto
l'istituto nel rapporto, sono arrivati 274 mila stranieri
extracomunitari, contro 185 mila comunitari. Questo è avvenuto,
secondo l'Istat, per il concorso di due cause: il rilascio di un
consistente numero di permessi di soggiorno che si sono
accumulati nei periodi precedenti, da un lato, e il rallentato
ritmo di incremento degli ingressi di neocomunitari, dall'altro.
Dei 3 milioni e 900 mila stranieri residenti in Italia al 1
gennaio 2009, la comunità più presente è quella romena (780
mila).
Con quella degli italiani, cresce anche la disoccupazione
straniera. Il tasso di disoccupazione della popolazione
straniera in Italia nel 2008 è dell'8,5%, due decimi di punto in
più rispetto al 2007. Sono 162 mila gli stranieri in cerca di
lavoro nel 2008, 26 mila in più rispetto all'anno precedente.
SCUOLA - La crescita del numero degli stranieri nel nostro Paese
ha cambiato anche il volto delle nostre classi scolastiche.
Nell'anno scolastico 2007-08 gli alunni stranieri nelle scuole
italiane arrivano a quota 574 mila, in aumento dell'87% rispetto
al 2003/04; in questo periodo, l'incidenza degli alunni
stranieri sul totale è passata da 3,5 a 6,4 studenti non
italiani ogni 100 iscritti. La maggior presenza di studenti
stranieri si registra nelle scuole primarie, sia in termini
assoluti (218 mila) sia relativi (7,7 ogni 100 iscritti). Nelle
scuole secondarie di secondo grado, invece, l'incidenza di
alunni stranieri è più contenuta (4,3 ogni 100 iscritti), anche
se la loro presenza è più che raddoppiata rispetto al 2003-04,
quando rappresentavano soltanto il 2% degli iscritti.
Fonte
- La
Stampa
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Sbagliare
non era obbligatorio
26 Maggio 2009 16:47 MILANO - di
Marco Vitale
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«Abbiamo
evitato un grande blow up e ora ci troviamo nel mezzo di un grande
tentativo di cover up». Così riassume l'attuale momento un lucido
finanziere svizzero con il quale concordo. Abbiamo evitato
una grossa esplosione e questa è un'ottima notizia. Ma non l'abbiamo
evitata come qualche anima bella del partito dei talebani del
mercato si ostina pateticamente e, contro ogni evidenza, a ripetere,
grazie alla capacità di autoregolamentazione dei mercati.
L'abbiamo evitata perché i governi hanno buttato nel fuoco trilioni
di dollari, a debito dei contribuenti presenti e futuri (per molti
anni), scardinando gli equilibri di finanza pubblica di tutti i
principali paesi, sacrificando qualunque logica di mercato e di
giustizia all'esigenza del "too big to fail", nazionalizzando di
fatto gran parte del sistema bancario, sacrificando gli investimenti
di cui il mondo ha bisogno, ponendo, quasi sicuramente, le premesse
per una prossima severa inflazione.
Penso che i governi abbiano
fatto bene a fare ciò, ma che dobbiamo essere consapevoli di quanto
è realmente successo e incominciare a porci delle domande sulle
conseguenze (tipo: resterà la politica fuori dalla gestione delle
banche dopo averci messo tanto capitale?) anziché continuare a
raccontare fiabe.
Oggi è partita a livello internazionale una grande azione di cover
up, per evitare sia una corretta resa di conti dei responsabili, sia
una seria correzione del sistema. Ho sempre considerato come uno dei
sintomi più inequivocabili dell'estrema gravità della crisi il fatto
che, questa volta, l'America non abbia, per ora, attaccato i
responsabili. L'America, in materia finanziaria, è sempre stata
disinvolta e tollerante, salvo poi, in caso di sviluppi infausti,
chiamare i responsabili a una dura resa di conto. L'ultima volta è
stata con gli scandali societari dal 2001-2003, per i quali
l'America usò, nei confronti dei responsabili, il pugno di ferro.
In questa crisi, invece, che è tante cose ma nella quale c'è anche
certamente il più colossale schema Ponzi di tutti i tempi, di fronte
al quale il povero Madoff appare un'educanda, non vi è per ora
nessuna seria chiamata al tavolo delle responsabilità. Non esiste
segnale più evidente della grande paura che ha attanagliato
l'America ufficiale di questa non consueta inerzia. Sarà necessario
aspettare le liti furibonde che si scateneranno tra banche,
assicurazioni, hedge fund, fondi pensione, gestori di patrimoni,
portatori di obbligazioni bidone (tipo Rembs, Residential mortgage
backed securities), famiglie mutuatarie che rientrano nei criteri
dell'Helping families save their homes act (circa 4 milioni di
famiglie), per sentire parlare seriamente di responsabilità.
Ma vi è un altro cover up, più grave e insidioso, che interessa non
solo l'America ma tutti noi e che attiene alla natura stessa della
crisi. È il cover up intellettuale che tende a descrivere la crisi
come un imprevedibile incidente tecnico di percorso. Questa lettura
serve per poi poter concludere: e quindi non vi è nulla da fare e
nulla da cambiare, ma solo aspettare che la congiuntura passi per
riprendere tutto come prima.
Su questa linea si pone uno dei maggiori responsabili, l'ex
governatore della Fed Alan Greenspan: «Ma prevedere l'insorgere di
una crisi è qualcosa che appare al di là delle nostre capacità di
previsione». Sulla stessa linea il premio Nobel Vernon L. Smith in
una delle più futili, superficiali ancorché, come si dice, eleganti,
letture della crisi che mi è capitato di ascoltare in una conferenza
a Milano presso l'istituto Bruno Leoni: «I fenomeni di cui stiamo
indagando sono intrinsecamente imprevedibili». Su una linea analoga
si pone il professor Guido Tabellini: «In molti si aspettavano che
la bolla immobiliare americana prima o poi sarebbe scoppiata. Ma ben
pochi immaginavano che ciò avrebbe travolto i mercati finanziari di
tutto il mondo».
E invece la crisi era prevedibile ed è stata prevista dai soliti
grilli parlanti che hanno detto, più o meno, quello che il grillo
parlante disse a Pinocchio: «Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli
che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito
o sono matti o sono imbroglioni». Ma, come capita sempre ai grilli
parlanti, non furono ascoltati. È più eccitante ascoltare e seguire
il gatto e la volpe, cioè i banchieri d'affari, che promettono
raccolti mirabolanti nel Campo dei miracoli ben concimato dai
funamboli alla Greenspan.
Fu prevista, solo per fare qualche veloce esempio, da Claude Bébéar
(Uccideranno il capitalismo, 2003); da John R. Talbott (The coming
crash in the Housing Market, 2003; e Sell Now! The End of the
Housing Bubble, 2006); Jean Peyrelevade (Capitalismo totale, 2005);
Robert J. Shiller (Irrational Exuberance, 2000); Marco Vitale
(America. Punto e a capo, 2002) e da tutti coloro che sapevano,
anche su basi teoriche e storiche ben solide, che: la corsa al
gigantismo bancario (come aveva già bene analizzato il rapporto
Ferguson nel 1999-2000, tenuto ben nascosto sotto strati di
silenzio); l'uso sfrenato del leverage a tutti i livelli: bancario,
conti pubblici, private equity, famiglie; la concentrazione spinta
della ricchezza legittimata dalla demenziale teoria della trickle
down economy con la crescente polarizzazione tra ricchi e poveri che
uno studioso americano serio, profondo, documentatissimo,
conservatore, repubblicano, consulente di presidenti repubblicani da
Nixon a Bush padre ha, in termini molto preoccupati, chiamato senza
esitazione: plutocrazia; che l'abnorme, inaccettabile e non
contestata posizione di potere e di denaro assunta dai Ceo, veri e
propri neofeudatari; che tutto questo non poteva non portare, prima
o poi, a un disastro anche se restava incerto il quando e quale
sarebbe stato il detonatore. Tabellini attribuisce questo disastro
mondiale a un «banale errore di valutazioni tecniche... La crisi è
scoppiata per via di alcuni specifici problemi tecnici riguardanti
il funzionamento e la regolamentazione dei mercati finanziari ed è
stata acuita da una serie di errori commessi durante la gestione
della crisi... Parlare di crisi del capitalismo, di fine della
globalizzazione, di crisi di un sistema e di un modo di pensare,
sarebbe una solenne stupidaggine».
Per trovare queste solenni stupidaggini il lettore non deve fare
difficili ricerche bibliografiche. È sufficiente che legga i
discorsi di Barack Obama nel corso della campagna elettorale, con la
quale, il neo-presidente, ha riacceso la speranza nel cuore degli
americani, ben riassunti e commentati da John R. Talbott
nell'importante libro Obamanomics (2008).
All'inizio dello scoppio della crisi (Il Sole 24 Ore del 28
settembre 2008) scrissi: «Questa non è la fine o la crisi del
capitalismo, ma la fine di una degenerazione del capitalismo e di
una concezione che lo ha retto negli ultimi vent'anni..., questa non
è la crisi del mercato ma della degenerazione del mercato...;
è
profondamente errato dire (come allora molti economisti dicevano)
che questa è una crisi finanziaria che non tocca l'economia reale,
anche se l'impatto sull'economia reale non avrà niente a che fare
con quello che ebbe la crisi del '29; la natura della crisi è tale
che essa non solo avrà effetti importanti sull'economia reale, ma
avrà effetti geopolitici; dalla crisi si sta consolidando l'immagine
di un mondo più articolato e con molteplici motori di sviluppo».
Questi cinque punti d'orientamento restano a mio avviso più che mai
validi dopo quasi un anno di crisi e sugli stessi bisogna esercitare
un grande sforzo di pensiero, serio, profondo, indipendente. Altro
che «stupidaggini».
Per fortuna ci sono studiosi e operatori che, non rientrando tra i
menestrelli del supercapitalismo, hanno iniziato una riflessione
molto seria sulle reali cause di fondo della crisi (altro che errori
di valutazione tecnica!) come Zamagni, Soros, Attali, Stiglitz,
Fitoussi. Questi sono buoni compagni di strada per andare a fondo
delle cose e per sforzarci di uscire migliori e quindi profondamente
cambiati da prima della crisi.
Sono i menestrelli del tutto come prima e i talebani del mercato i
veri nemici del capitalismo, se vogliamo continuare ad usare questa
parola che grandi storici dell'economia come Braudel e Cipolla (ma
prima di loro Einaudi) ci hanno insegnato essere molto ambigua e da
dismettere. Qualcosa, sia pure lentamente, sta cambiando, come il
seguente test può dimostrare. «Le banche non sono fatte per pagare
stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un
saldo utile; ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto con
il servire meglio il pubblico».
Queste parole furono pronunciate da Luigi Einaudi nella Relazione
del Governatore della Banca d'Italia per l'esercizio 1943 letta
nell'aprile 1945. Se Luigi Einaudi avesse pronunciato queste parole
nell'America di quattro anni fa sarebbe stato, probabilmente,
internato al neurodeliri. Oggi rimarrebbe a piede libero, anche se
sarebbe irriso a mezza bocca dai Summers, Geithner, Rubin e dai
cantori e maggiordomi del supercapitalismo. Ma sarebbe difeso da
Barack Obama e da Volcker, forse l'unico personaggio rispettabile
del vecchio establishment finanziario americano.
 |
Fonte
- Il Sole 24 Ore
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La tripla A
non fa sempre America
26 Maggio 2009 08:54 MILANO - di
Mario Margiocco
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«A questo punto, è il caso di bere qualcosa di forte»,
disse chi presiedeva una sessione dei lavori - la sala non era
stracolma - a un incontro del Fondo monetario, a Washington, il 7
settembre 2006. Nouriel Roubini aveva appena detto, tra
l'incredulità e qualche sorriso, che il mercato immobiliare
americano sarebbe crollato e che l'effetto impoverimento avrebbe
fatto sparire il grande consumatore americano, tolto credibilità a
centinaia di miliardi di titoli immobiliari cartolarizzati sparsi
per il mondo, e portato a una grande recessione globale. Esattamente
quanto è successo.
Roubini non era molto in alto allora nella gerarchia accademica ma,
uomo di punta di una piccola pattuglia che ha visto sostanzialmente
giusto e per tempo, adesso vola da un continente all'altro,
richiestissimo da convegni blasonati, grandi gruppi, banche centrali
e governi. Ha parlato al Congresso, al Council on Foreign Relations,
a Davos, e in dozzine di club ancora più esclusivi in giro per il
mondo. Di famiglia ebrea iraniana, cresciuto in Turchia e in Italia,
allievo di Jeffrey Sachs ad Harvard, scapolo, cinquantenne da due
mesi, Roubini è un cittadino del mondo e un inveterato giramondo,
che ama parlare di un paese dopo averlo visto. Per la rivista
«American prospect» è il numero due tra i 100 intellettuali che più
contano, secondo solo al generale David Petraeus. Il suo sito e la
sua società di consulenza, Rge Monitor, sono richiestissimi.
È sempre interessante ascoltare l'opinione di chi, nuotando
controcorrente, è andato avanti per la propria strada. Questo non
perché ha vinto alla lotteria delle previsioni, ma perché ha
dimostrato di avere criteri di analisi più giusti di altri, che non
garantiscono automaticamente la stessa capacità in futuro, ma
valgono certamente di più della griglia interpretativa di chi non
aveva capito nulla, o poco.
Con il peso della crisi spostato ora dal mercato ai bilanci pubblici
scattati in soccorso, ci sarà il nodo del rating finanziario, anche
dei maggiori Paesi, cioè del livello della loro solvibilità di lungo
periodo, assoluta, buona, discreta o debole. La perdita della tripla
A, il punteggio massimo, è una possibilità che S&P prevede per la
Gran Bretagna fra tre anni se il debito pubblico sarà pari al 100%
del Pil, ed è una prospettiva non più impensabile per gli stessi
Stati Uniti, che questo rating d'affidibilità finanziaria hanno dal
1917, ininterrottamente.
«Washington farà di tutto per evitarlo, e
conosce il rischio. Ma questo - dice Roubini, secondo cui l'uscita
dalla crisi non sarà né semplice né rapida - potrebbe essere un
elemento cruciale».
Siamo o no alla vigilia di una ripresa consistente, e possiamo dire
che la crisi è finita?Io penso che l'uscita dalla crisi sia un
processo lento. Adesso abbiamo gli ottimisti secondo i quali siamo
già in ripresa, comunque ci saremmo fra pochissimi mesi. E i meno
ottimisti, fra i quali mi pongo, che non negano qualche fenomeno
positivo, il rallentamento della caduta, ma sono convinti che il
peso del debito è così alto che avremo circa due anni di crescita
molto debole. Quindi, il meltdown è stato arrestato, ma la ripresa,
quella vera, è ancora piuttosto lontana. Prevedo quindi due anni
pieni di crescita debole.
Ma l'ottimismo che si manifesta da più parti?
Si può essere un po' meno pessimisti di qualche mese fa, ma occorre
realismo. È un debito abnorme ad averci ridotto così male, e questo
debito deve essere ancora riassorbito. Tutto il sistema sta
continuando a rientrare dai debiti, e ne avrà ancora per un bel
pezzo. Da chi dovrebbe venire una ripresa pimpante, dalle famiglie
americane, britanniche, australiane, neozelandesi, spagnole,
irlandesi o islandesi che stanno onorando, quando ci riescono,
esposizioni debitorie senza precedenti? Lo slancio di una vera
ripresa non può venire dal sistema bancario e finanziario, che come
dice il Fondo monetario ha ancora qualche migliaia di miliardi,
circa tre secondo il Fondo, qualcosa di più secondo me, di perdite
da colmare. Non può venire dal settore corporate, dalle imprese, a
loro volta indebitate eccessivamente. I governi, che hanno salvato
la situazione, hanno messo gli Stati a garanzia di tutto questo
debito, e i mercati stanno reagendo positivamente, ma il debito
resta, e diventa in molti casi debito pubblico; un costo molto basso
del denaro aiuta, ma non so fino a che punto gli Stati riusciranno a
raccogliere denaro remunerandolo così poco.
C'è poi il fatto che
alcuni paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti fra questi, monetizzano il
debito o sono pronti a farlo, e questa è una ricetta per trasformare
l'attuale deflazione, o rischio di deflazione, in inflazione.
Quindi, la situazione è complessa e impone di procedere con tempi
non rapidi.
Vede il rischio di nuove forti perdite bancarie negli Stati Uniti e
in Europa?
Direi che i rischi sistemici sono stati superati. Non vedo più
situazioni da sala di rianimazione. Ma la possibilità di numerose
embolie locali. A fine aprile il senatore Richard Durbin,
democratico dell'Illinois, dopo un voto del Senato che favoriva il
punto di vista di Wall Street sulle norme per la rinegoziazione dei
mutui diceva: le grandi banche comandano a Washington. È vero?
Le grandi banche hanno avuto molto peso a Washington e non solo al
Congresso in passato, negli ultimi 15 anni almeno, e certamente la
loro influenza non svanisce presto. Ma direi che, rispetto a quando
ottenevano tutte le leggi che volevano, hanno un po' meno spazio,
dopo quanto successo.
Il budget presentato dall'amministrazioone Obama è ritenuto da molti
insostenibile sul lungo periodo, perché porterebbe a un raddoppio
del debito pubblico in una decina d'anni. E' d'accordo?
Credo che a Washginton considerino i deficit annuali che si stanno
preparando sostenibili per un anno o due, data l'eccezionalità della
situazione, e non per più tempo. Credo quindi che correranno ai
ripari, e non possono essere solo le tasse sui più ricchi a
risolvere la situazione.
Un debito pubblico pari al 100% del Pil è incompatibile con lo
status di tripla AAA, ha ricordato la settimana scorsa la società di
rating Standard&Poor riferendosi alla situazione britannica. Non
esiste un rischio analogo per gli Stati Uniti?
Fra due o tre anni la situazione potrebbe diventare a rischio. Ma
credo che togliere la tripla A agli Stati Uniti sia un passaggio
così delicato da non venire affrontato se non con molta cautela. Gli
Stati Uniti poi hanno parecchia influenza sulle societò di rating, e
sono già intervenuti per aiutare a mantenere il rating di Stati
dell'Unione e altri emittenti di debito. Ma certamente l'evoluzione
della crisi impone di prestare attenzione anche a questi aspetti.
I mercati finanziari sono ripartiti con cartolarizzazioni e
derivati, in attesa di nuove imminenti regole. Vede qualche rischio?
Il mercato americano delle cartolarizzazioni era crollato da 2mila
miliardi a zero e non poteva restare così. Si tratta di mettere a
punto un sistema che dia più garanzie, controlli la solvibilità di
chi offre un servizio sul mercato dei derivati, ed è un processo che
richiederà anni.
È stato saggio lasciare alla guida di grandi banche che hanno avuto
bisogno di aiutati pubblici lo stesso management che è responsabile
della situazione?
In alcuni casi il management è stato cambiato. In altri no. Non
credo si possa avere una regola generale, ma ogni situazione va
vista caso per caso.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Domenica 24
Maggio
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Mercoledì 27
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Venerdì 29
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Il paradosso
del debito mondiale
26 Maggio 2009 14:40 MILANO
-
di Mario Seminerio ______________________________________________
L’agenzia di rating Standard&Poor’s
ha posto il debito sovrano del Regno Unito in “negative outlook”,
con una probabilità su tre di un subire declassamento nelle
prossime settimane, e quindi di perdere il rating massimo. La
mossa ha subito portato a volgere lo sguardo agli Stati Uniti,
che stanno subendo una lievitazione del deficit indotta dalle
nuove iniziative di spesa e dal vero e proprio crollo verticale
di gettito fiscale causato dalla crisi. I timori per la
sostenibilità fiscale della situazione hanno causato un arresto
del forte (e quasi surreale) rally di borsa ed il continuo
aumento dei rendimenti dei titoli di stato sulle scadenze
intermedie e lunghe, tipicamente la decennale. I mercati
guardano alla montagna di debito che dovrà essere collocata già
quest’anno, e si chiedono da dove proverrà questa colossale
somma.
Dove troveranno gli Stati Uniti 10.000 miliardi di dollari nei
prossimi dieci anni per finanziare l’emissione prevista dei
nuovi titoli di stato, e che porteranno lo stock di debito a
21.300 miliardi, e ad una spesa di 1000 miliardi annui solo per
interessi (pari al 25 per cento degli incassi fiscali ed al 20
per cento delle spese pubbliche previste)? Il tutto assumendo
una crescita nominale del Pil del 4 per cento nei prossimi dieci
anni. Uno scenario inquietante, per usare un eufemismo. Per
questo i mercati obbligazionari sembrano convincersi ogni giorno
di più che questi deficit saranno difficilmente finanziabili, e
che ad un certo punto i governi saranno costretti a stampare
moneta. Oggi non è più possibile pensare di trarsi d’impaccio
puntando sull’export. Come ha scherzato cupamente il Nobel per
l’Economia, Paul Krugman, per tornare ai bei tempi andati
occorrerebbe trovare altri pianeti su cui esportare, visto che
sulla terra ciò non è più possibile.
Ci troviamo infatti in una condizione di crisi da eccesso di
debito, che genera il “paradosso del risparmio”, in cui famiglie
ed imprese tentano tutte di rientrare dall’eccesso di debito
risparmiando di più, e ciò causa il crollo della domanda
globale, vista l’interdipendenza dei mercati. Ma ciò produce
anche il paradosso dei deficit: gli Stati Uniti hanno avuto per
anni un gigantesco deficit commerciale, dove chi vendeva beni
agli Stati Uniti (Giappone, Cina, paesi produttori di petrolio)
investiva il ricavato in titoli americani. Ciò ha permesso di
tenere bassi i tassi d’interesse globali, stimolando crescita e
consumi, ma anche l’indebitamento, che ha causato la bolla
esplosa ormai da quasi due anni.
Oggi non è più così, e tutti i paesi devono competere per
prendere a prestito sui mercati, a fronte dell’esplosione dei
deficit pubblici. Ma non possono farlo tutti contemporaneamente,
o almeno non possono farlo indefinitamente. Ad un certo punto, i
mercati chiederanno tassi sempre più alti, fino a rifiutare di
sottoscrivere tutto o parte del nuovo debito. I governi
alzeranno le tasse, deprimendo ulteriormente la crescita. Il
gioco finirà con la necessità di monetizzare il deficit, e ciò
farà crollare il dollaro oltre a scatenare una corsa alle
materie prime, viste come riserva di potere d’acquisto.
Naturalmente, questo è lo scenario estremo ed “inerziale”, che
non considera la possibile ascesa di nuove potenze regionali,
come Cina, India e Brasile, che potrebbero finire con l’assumere
quel ruolo di locomotiva che gli Stati Uniti esercitavano
globalmente. Ma non sarà comunque un processo indolore, per
nessuno.
Fonte
- Liberal Quotidiano
USA: LA RECESSIONE
TERMINERA' QUEST'ANNO
27 Maggio 2009 16:40 NEW YORK
-
di APCOM ______________________________________________
Lo mostra un sondaggio a cura
della National Association for Business Economics. Per il 74%
degli economisti intervistati si assistera' ad un'inversione di
tendenza gia' dal terzo trimestre.
Da una ricerca condotta fra circa 47 economisti e' emerso che
oltre il 90% degli interpellati prevede che negli Stati Uniti la
recessione terminera' alla fine di quest'anno, anche se la
ripresa potrebbe essere incostante.
Il sondaggio a cura della National Association for Business
Economics verra' pubblicato oggi e generalmente le previsioni in
esso contenute rispecchiano quelle del presidente della Federal
Reserve, Ben Bernanke, e dei suoi colleghi.
Circa il 74% degli intervistati prevede che la recessione,
iniziata nel dicembre 2007 e la piu' lunga dalla Seconda Guerra
Mondiale ad oggi, si concludera' gia' nel terzo trimestre. Un
altro 19% scommette invece che bisognera' aspettare gli ultimi
tre mesi dell'anno per vedere un'inversione di rotta, mentre
solo il 7% ritiene che la recessione terminera' nel primo
trimestre del 2010.
"Sebbene il tono generale sia ancora debole, stanno emergendo
dei segnali che indicano che l'economia si sta stabilizzando",
ha osservato il presidente della NABE, Chris Varvares.
"Probabilmente la ripresa economica sara' decisamente piu'
moderata di quelle che solitamente seguono un periodo di forti
ribassi".
Una delle principali cause della recessione e' stata la crisi
finanziaria, esplosa lo scorso autunno. Gli economisti ritengono
che quando giunge dopo una crisi finanziara la ripresa tende ad
essere piu' lenta del solito.
Anche durante il periodo di ripresa economica, il tasso di
disoccupazione e' destinato a salire ancora quest'anno, stando
alle previsioni della NABE. Le aziende, infatti, torneranno ad
assumere solo quando avranno la certezza che la ripresa
economica sara' sostenibile.
Con il tasso di disoccupazione in crescita e' molto probabile
che i consumatori, ingranaggio fondamentale della macchina
economica statunitense, manterranno un approccio cauto e di
conseguenza la ripresa sara' tiepida.
Considerando l'impatto che la recessione ha avuto sul benessere
delle famiglie, colpendo in particolare il valore delle case e
il portafoglio investimenti, i consumatori per un po' di tempo
non saranno troppo propensi a mettere mano al portafogli.
Il 71% degli economisti interpellati ritiene che per almeno i
prossimi cinque anni i consumatori statunitensi adotteranno una
filosofia piu' improntata al risparmio. Il tasso di risparmio
delle famiglie americane e' salito al 4,2% nel mese di marzo. Si
e' trattata della prima volta in dieci anni che il tasso si e'
assestato sopra la quota del 4% per tre mesi consecutivi.
Anche se gli economisti ritengono che il Paese uscira' dalla
fase di recessione alla fine dell'anno, al contempo sono
convinti che la performance economica generale sara' negativa.
L'economia dovrebbe subire una contrazione del 2,8% quest'anno,
stando alle stime degli analisti. La previsione risulta
inferiore a quella dello scorso febbraio (pari al -1,9%). Se le
stime dovessero venire confermate, si tratterebbe del peggiore
risultato annuale dal 1946, quando l'attivita' economica ha
registrato una flessione dell'11%.
Fonte
- APCOM
Mutui: le previsioni
di Euribor e Irs
27 Maggio 2009 09:10 MILANO
-
di Aritma I.F. ______________________________________________
La situazione
L'eccesso di debito pubblico creato dai governi per far fronte
alla crisi condiziona le aspettative suprattutto sui tassi a
medio-lungo termine
In Europa gli indici di fiducia (Zew, Ifo e Pmi) sono risultati
migliori delle attese, lasciando intendere che la recessione in
corso sia arginata. Tali indici restano tuttavia su livelli
storicamente bassi e segnalano ancora una contrazione della
crescita nei prossimi trimestri, anche se inferiore rispetto a
quanto registrato nei primi tre mesi 2009 (–2,5%). Negli Stati
Uniti i dati hanno invece deluso le aspettative e la Fed ha
rivisto al ribasso le sue precedenti stime sulla crescita per il
2009-2010 (il Pil Usa è previsto tra –2 e –1,3% per quest'anno e
tra +2 e +3% il prossimo).
A condizionare l'andamento dei tassi, in particolare di quelli a
medio-lungo termine (Irs), sono stati tuttavia i dubbi
sull'effettiva capacità di rientro dall'eccesso di debito che i
vari governi stanno creando nel tentativo di rianimare
l'economia, timori che si sono manifestati soprattutto dopo la
decisione dell'agenzia S&P di mettere sotto osservazione per un
possibile declassamento il rating della Gran Bretagna (al
momento tripla A).
L'Euribor
Si è interrotta la discesa dell'Euribor: tutte le scadenze
1-3-6-12 mesi (0,939%; 1,267%; 1,467%; 1,632%) sono oggi di
circa 3 centesimi superiori rispetto ai minimi storici
registrati martedì scorso, mentre il tasso interbancario a 1
mese è cresciuto addirittura di circa 12 centesimi (riducendo a
poco più di 30 centesimi il differenziale con il tasso a 3
mesi).
E' probabile che sul movimento abbiano influito anche fattori
tecnici destinati ad essere riassorbiti nelle prossime
settimane. Sul mercato interbancario si è infatti notata una
liquidità più "neutra" rispetto ai livelli eccessivi degli
ultimi periodi, un fenomeno dovuto probabilmente a una non
perfetta valutazione delle effettive necessità da parte delle
banche che hanno richiesto (la scorsa settimana) meno del solito
nell'operazione di finanziamento settimanale al tasso P/T.
I livelli attualmente raggiunti dall'Euribor dovrebbero a questo
punto tenere per qualche settimana e probabilmente per buona
parte del mese di giugno: la scadenza a 1 mese attorno allo
0,95%, quella a 3 mesi attorno all'1,25%. Nuovi spunti
direzionali in vista del prossimo meeting della Bce del 4 giugno
(previsioni di neutralità) sono poco probabili, mentre si
potrebbe assistere a maggiori movimenti a quello di inizio
luglio. Le attese del mercato per l'Euribor restano in ogni caso
abbastanza prudenti, visto che il punto di minimo per fine
estate sull'Euribor a 3 mesi si posiziona intorno all'1,15%: 6
centesimi in più di quello che il mercato prevedeva 1 settimana
fa, ma livelli comunque più bassi dell'attuale fixing.
Irs
Tutti i rendimenti governativi hanno subito una netta pressione
rialzista (30 cent. rispetto a metà maggio), legata in parte ai
dati incoraggianti che trapelano dagli indici di fiducia, ma
soprattutto alle preoccupanti dimensioni di deficit e debito di
molti paesi. Il Bund (titolo,di Stato tedesco) a 10 anni è oggi
intorno al 3,60%: sulla Germania pesa anche il peggioramento
dell'outlook fiscale, che richiederà almeno ulteriori 20
miliardi di euro di emissioni. Nelle ultime settimane i tassi
Irs hanno limato in gran parte il cuscinetto offerto dallo
spread Irs-Bund, che si è praticamente azzerato dai 10 anni in
poi.
Questo significa che i tassi Irs a lungo termine saranno in
"presa diretta" con l'andamento del Bund. Sotto questo aspetto,
le attuali previsioni per il '09-'10 di Pil e inflazione non
giustificano gli attuali livelli del Bund 10 anni, a meno
dell'insorgere di difficoltà nei prossimi collocamenti di titoli
tedeschi. L'Irs 30 anni, normalmente più lento ad adeguarsi alle
nuove prospettive economiche, rimane più basso delle scadenze
15-20 anni e resta quindi interessante per operazioni di mutui a
tasso fisso. Il rialzo dei governativi e degli Irs ha mosso
verso l'alto anche le attese su questo tipo di tassi. Ecco la
tabella con le previsioni dei tassi Irs.
Fonte
- Sole 24 Ore
Occhio a questo
bubbone
Wednesday, 27 May, 2009 at 20:28
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by phastidio ______________________________________________
La Fed attua l’easing
quantitativo sui Treasuries e sui mortgages: ma sui primi ha un
volume di fuoco piuttosto esiguo. Il mercato vende titoli di
stato a mani basse, perché pensa alla ripresa e/o teme
inflazione, i rendimenti sul decennale schizzano all’insù, e
incredibilmente si approssimano a quelli sui titoli trentennali
di Fannie Mae, coperti da mutui. Ora la risalita dei rendimenti
sta contagiando anche le scadenze più brevi, come la
quinquennale, mentre anche la carta Fannie comincia ad essere
venduta, facendo risalire i tassi sui mutui trentennali e
deragliare i rifinanziamenti, sui quali la Casa Bianca punta per
liberare equity con cui ridurre lo stock di debito e/o sostenere
i consumi. A questo punto, il mercato sta apertamente chiedendo
alla Fed di fornire ulteriore metadone, sottoforma di nuovo
carburante per l’easing quantitativo. Ma con un bilancio della
Fed ormai a 3200 miliardi di dollari, abbiamo da un pezzo
oltrepassato le porte di Tannhäuser. In tutto ciò, il mercato
azionario continua a tentare spunti al rialzo. Fino al giorno
del risveglio, quando si rischierà l’ennesima strage.
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FED USA New York -
EASING QUNTITATIVE Index |
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Fonte
- Macromonitor
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Economisti
alla sbarra, ecco
l'atto di accusa
27 Maggio 2009 08:44 MILANO - di
Roberto Perotti
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Con la crisi, agli economisti vengono mosse quattro
accuse, che ritengo ingiustificate. Eccole.
1) «Gli economisti non hanno previsto la crisi». Su questo punto c'è
molta confusione. È importante distinguere fra shock e propagazione
degli shock. I primi sono, per definizione, non prevedibili. Dai
sismologi non pretendiamo che prevedano i terremoti, ma che ci diano
indicazioni di cosa succederà in certe zone se dovesse accadere un
terremoto di una certa intensità. Per questo una critica più seria è
che gli economisti non hanno saputo prevedere le conseguenze degli
shock, una volta che questi si sono realizzati.
2) «Non hanno saputo prevedere né capire, perché la metodologia
economica prevalente si basa su modelli troppo astratti e
matematici».
Questa critica è frutto dell'ignoranza sugli sviluppi della scienza
economica. Per molti qualsiasi differenza dall'approccio discorsivo
e informale della "General Theory" di Keynes viene interpretato come
il frutto di una forma mentis che costringerebbe la realtà ad
accordarsi con modelli astratti. Chi fa questa critica ignora o non
capisce l'enorme letteratura prodotta da eccellenti economisti che
hanno allo stesso tempo una preparazione formale e una profonda
conoscenza dell'economia reale. Spesso ignora e non capisce l'enorme
letteratura empirica di economisti seri e assolutamente interessati
a comprendere come funziona il mondo in pratica, dediti a testare le
teorie economiche con dati macro e micro. E spesso i critici degli
economisti non riescono a concepire che uno studioso possa usare un
modello per organizzare il proprio pensiero, ma sia abbastanza
intelligente per comprenderne i limiti.
3) «Guardano la realtà con la lente perversa di ipotesi assurde come
le aspettative razionali, l'informazione completa, i mercati
efficienti».
Una tipica variante di questa accusa prende la seguente forma: «Loro
non lo sanno, ma noi che viviamo nel mondo e non nelle nuvole o
nella turris eburnea dell'università sappiamo che i mercati non sono
efficienti, che ci sono asimmetrie informative, che i prezzi degli
asset possono deviare per lungo tempo dai fondamentali...».
Anche questa critica è frutto di una profonda ignoranza degli
sviluppi dell'economia degli ultimi 30 anni, che si è dedicata in
gran parte proprio allo studio di miriadi di deviazioni dall'ipotesi
d'efficienza e d'informazione perfetta. Solo per fare un esempio,
un'enorme ricerca studia teoricamente ed empiricamente come e perché
vi possano essere bolle nei prezzi degli asset; e una enorme
letteratura studia gli incentivi dei manager in presenza di
asimmetrie informative.
4) «Molti non economisti hanno previsto la crisi».
Questo è falso. Dire per anni «la globalizzazione ha effetti
perversi», «la nostra economia è eccessivamente finanziarizzata»,
oppure «l'economia finanziaria ha preso il sopravvento sull'economia
reale» o ancora «il liberismo sfrenato comporta problemi sociali che
solo gli economisti possono ignorare», non significa avere previsto
la crisi. Accuse, tutte queste, a mio avviso infondate o
strumentali. Ci sono però accuse realmente rilevanti. Vediamone
alcune.
La stragrande maggioranza degli economisti non ha previsto né capito
la crisi finanziaria perché era totalmente all'oscuro di alcuni
fondamentali sviluppi del mercato del credito. Per mesi e anni siamo
andati avanti a dibattere le spiegazioni e le implicazioni del
fenomeno chiave dei primi anni 2000: il basso tasso d'interesse.
Ma mentre avveniva questo dibattito, i macroeconomisti hanno perso
di vista completamente uno sviluppo ben più importante, cioè
l'enorme evoluzione del mercato del credito. Con tassi d'interesse
molto bassi, l'unico modo di rendere redditizia l'attività
d'intermediazione delle banche era indebitarsi molto per comprare
attività finanziarie, cioè aumentare la leva finanziaria.
Ma per fare questo, le banche dovevano trovare modi per sbarazzarsi
del rischio di queste attività, sia perché in alcuni casi i
regolatori non permettevano di eccedere una certa leva finanziaria
per le attività più rischiose, sia perché le banche stesse non
volevano detenere troppe attività rischiose.
Ciò portò a due sviluppi:
1) Le banche crearono un sistema bancario ombra, delle entità
formalmente fuori bilancio in cui piazzarono le attività più
rischiose; dotarono queste entità di un minimo di capitale, ma la
gran parte dei fondi la raccolsero sul mercato con scadenza
brevissima, anche giornaliera (commercial papers e repurchase
agreements). Queste entità fuori bilancio avevano una garanzia
esplicita o implicita delle banche, ma permisero di ridurre il
capitale che le banche dovevano detenere, cioè di aumentare la leva
finanziaria. Le entità spesso cartolarizzarono le attività
trasferite dalle banche e le vendettero, spesso alle banche stesse.
2) Le banche decisero di detenere quantità sempre crescenti di
titoli cartolarizzati, cioè di titoli creati dall'impacchettamento
di centinaia o migliaia di mutui sottostanti, oppure di prestiti ai
consumatori o alle imprese.
Per capire lo sviluppo successivo, è importante comprendere
com'erano strutturati questi titoli cartolarizzati. Per consentire
di ottenere rendimenti elevati da titoli apparentemente poco
rischiosi, questi titoli erano divisi in tranche. La prima tranche
(junior tranche) è la più rischiosa; se qualche mutuo sottostante va
in default, la prima a esserne toccata è la junior tranche. L'ultima
tranche (senior tranche) è apparentemente molto poco rischiosa:
comincia a perdere valore solo se più del 10% dei muti va in default
- una percentuale impensabile fino a tre anni fa.
Il 99% degli economisti italiani, ancora nell'estate del 2007, era
all'oscuro di questi sviluppi, o al massimo ne aveva un'idea molto
confusa. Ma ancora più vaga era la consapevolezza degli sviluppi e
delle implicazioni successive. La teoria prevalente era che la
cartolarizzazione permettesse di spandere il rischio dei vari tipi
di credito al di fuori del sistema bancario, cioè da soggetti ad
alta leva finanziaria a soggetti (come fondi pensione e fondi del
mercato monetario) a bassa leva finanziaria.
Ma mentre i titoli più rischiosi (le junior tranche) vanno a ruba
perché, essendo più rischiosi, danno rendimenti più alti, le senior
tranche spesso rimangono nei portafogli delle banche o delle entità
fuori bilancio. Con poche eccezioni (JP Morgan), le banche non se ne
curano, perché sono ritenuti assolutamente sicuri. Nel 2008, banche
ed entità fuori bilancio detenevano probabilmente il 50% di queste
senior tranche. Lungi dall'aver diversificato i rischi, banche e
shadow banking system avevano fatto un enorme investimento in
economic catastrophe bonds, cioè in titoli di fatto rischiosissimi
perché davano un rendimento generalmente elevato ma molto basso
proprio nel momento peggiore, cioè nel caso di una recessione
globale.
Gli acquirenti di questi titoli spesso cercarono di assicurarsi
contro il rischio di default dei sottostanti. Lo fanno assicurandosi
con monolines, compagnie di assicurazione precedentemente dedite
all'assicurazione dei titoli municipali ma che ora tentano di
espandersi. Ma le monolines avevano un leverage di 150, e fu presto
chiaro a molti che non erano in grado di assicurare niente. Ma non
fu chiaro per esempio a Merrill Lynch, i cui dirigenti pensavano di
essersi assicurati con le monolines. Altri si assicurano con i
credit default swaps, il cui mercato raggiunge a un certo punto
quattro volte il Pil statunitense! Ma anche questi titoli sono
esposti al rischio sistemico. Singolarmente, una banca poteva
ritenere di aver fatto hedging; ma da un punto di vista
macroeconomico il mercato non stava fornendo alcun hedge, anzi stava
incrementando il rischio. Questo aspetto era compito dei
macroeconomisti, ma essi non se ne resero conto a causa della loro
mancanza d'informazione sui recenti sviluppi del mercato del
credito.
Anche di questi due ultimi sviluppi gli economisti erano
sostanzialmente ignari. Ancora nell'estate del 2008 è lecito
affermare che la stragrande maggioranza degli economisti non si
resero conto che il sistema finanziario aveva misspriced il rischio
in un modo abissale consentendo alle banche di investire percentuali
gigantesche del proprio attivo in catastrophe bonds, e l'irrilevanza
(anzi la pericolosità) macroeconomica delle assicurazioni fornite
dal mercato.
Come abbiamo imparato dal marzo del 2008, le banche centrali erano
male equipaggiate a intervenire in questi mercati a difesa di queste
istituzioni. Nel marzo del 2008 i problemi di Bear Stearns misero a
nudo il quasi collasso dei mercati dei Cds e dei repos. Ma questi
sono mercati di cui gli economisti non si sono mai occupati, perché
in condizioni normali funzionano senza alcun problema, e di cui non
avevano compreso il ruolo fondamentale nel nuovo sistema del
credito. L'esempio più lampante fu la decisione della Bce di alzare
i tassi nell'estate del 2008, quando già Bear Stearns era saltata
esattamente per i motivi esposti sopra. Molti economisti accademici
appoggiarono la decisione della Bce, perché così suggeriva la Taylor
rule. Ma molta acqua era passata sotto i ponti, e per parlare di
politica monetaria non era più sufficiente essere esperti di Taylor
rule. Semplicemente, non avevamo idea di quanto lontano dal classico
modello delle banche commerciali il mercato del credito era
arrivato. Non avevamo idea delle grandezze e delle implicazioni
macroeconomiche di tutto questo.
Eppure continuavamo a parlare di politica monetaria, quando era
impossibile parlare di politica monetaria se non si conoscevano
degli sviluppi recenti del mercato del credito. Come ha sostenuto
con forza John Taylor in Getting Off Track, il problema non era
tanto un classico problema di liquidità, quanto un problema di
rischio di controparte in mercati a brevissimo termine. Ma il
rischio di controparte non ha mai giocato il minimo ruolo nelle
teorie monetarie più accreditate.
Poiché economisti di valore erano alla guida delle maggiori banche
centrali, ci siamo convinti che il mondo fosse in buone mani. Ma non
ci siamo resi conto che anch'essi, come gli altri, all'inizio sono
stati tremendamente impreparati a comprendere i nuovi sviluppi.
Gli economisti hanno giocato troppo facilmente allo scaricabarile
con politici e regolatori. Invece di studiare i dettagli del mercato
del credito, hanno cercato di cavarsi dall'impiccio con facilità
usando facili riferimenti al problema del moral hazard causato dai
politici e a quello della regolamentazione.
Il moral hazard avviene quando le banche e le altre istituzioni
finanziarie sanno che i politici, di fronte a una crisi, le
salveranno. Questo ovviamente le incoraggia a prendere rischi molto
maggiori di quanto sarebbe prudente e ottimale dal punto di vista
del sistema economico nel suo complesso.
Il moral hazard è un vecchio cavallo di battaglia degli economisti,
che generalmente si oppongono ai salvataggi bancari. Salvo poi
criticare i policy makers per non avere salvato Lehman Brothers,
causando il caos che è seguito al 14 settembre. Ma molti economisti
hanno cambiato idea sul mancato salvataggio di Lehman Brothers
proprio perché non si erano resi conto di cosa comportasse lasciar
fallire una banca di investimento in un mercato del credito
completamente cambiato. Proprio perché avevano una vaga idea
dell'estensione e del ruolo del mercato dei Cds, pochissimi
economisti si erano resi conto delle conseguenze quasi fatali che vi
sarebbero state nel mercato dei Cds.
Alle prime avvisaglie di difficoltà, gli economisti hanno anche
cercato di salvarsi con frasi del tipo «gli eccessi nel mercato del
credito possono essere corretti con un'appropriata
regolamentazione». Ma fino al 2006, finché Greenspan e poi Bernanke
erano nettamente contrari a qualsiasi regolamentazione, dove erano
gli economisti? Se i politici avessero tentato d'imporre più
regolamentazione, cosa avrebbero detto gli economisti? Ma
soprattutto, pochi economisti hanno avuto il coraggio di sporcarsi
le mani dicendo esattamente quale regolamentazione si sarebbe dovuta
imporre. Né poteva essere altrimenti, perché la stragrande
maggioranza aveva una comprensione così limitata degli aspetti
tecnici da non poter offrire suggerimenti competenti in materia di
regolamentazione.
È stato anche facile per gli economisti scaricare le colpe sulla
Greenspan put. Ma tutto questo ex post. Dove erano gli economisti
quando il mondo inneggiava a Greenspan come il salvatore
dell'economia mondiale?
 |
Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Usa,
Cina e il ping pong planetario
28 Maggio 2009 09:13 MILANO - di
Barry Eichengreen
*L'autore insegna
economia e politologia all'Università di Berkeley
________________________________________
I libri di storia del futuro, a seconda di dove
saranno scritti, sceglieranno due diversi approcci per individuare
le responsabilità dell'attuale crisi economica e finanziaria.
Uno consisterà nel dare la colpa alla mancanza di regolamentazione,
alle politiche monetarie con espansione dell'offerta di moneta allo
stesso ritmo dell'inflazione, al tasso di risparmio troppo basso
delle famiglie statunitensi. L'altro, promosso da alti funzionari
americani di oggi e di ieri, come Alan Greenspan e Ben Bernanke,
assegnerà la colpa all'immenso bacino di liquidità generato dai
paesi ad alto tasso di risparmio dell'Asia Orientale e del Medio
Oriente. Tutta questa liquidità, diranno i sostenitori di questo
secondo approccio, da qualche parte doveva finire e la sua
destinazione logica era il paese con i mercati finanziari più
sviluppati, gli Stati Uniti, dove ha fatto salire i prezzi delle
attività fino a livelli insostenibili.
C'è un'unica cosa su cui entrambi gli schieramenti concordano: lo
squilibrio dei risparmi a livello globale - bassi risparmi negli
Stati Uniti e alti risparmi in Cina e in altri mercati emergenti -
ha giocato un ruolo chiave nella crisi perché ha consentito agli
americani di vivere al di sopra dei propri mezzi e ha incoraggiato
finanzieri smaniosi di realizzare profitti con gli abbondanti fondi
a disposizione a destinarli a un uso più speculativo. Se c'è una
tesi che trova consensi unanimi è l'impossibilità di comprendere la
bolla e la crisi senza prendere in considerazione il ruolo degli
squilibri globali.
Per impedire crisi future simili a questa bisogna dunque risolvere
tale problema. Da questo punto di vista i primi segnali sono
rassicuranti. Le famiglie americane hanno ricominciato a
risparmiare. Il deficit commerciale statunitense è sceso da 60
miliardi di dollari al mese ad appena 27,6 miliardi, secondo i dati
più recenti. Basta fare due conti e si capisce che i surplus del
resto del mondo devono essersi ridotti di conseguenza.
Ma quando le famiglie americane avranno rimesso in piedi i loro
conti pensione, potrebbero tornare alle passate abitudini
scialacquatrici. Anzi, l'amministrazione Obama e la Federal Reserve
stanno facendo tutto il possibile per pompare la spesa degli
americani. L'unico motivo per cui il deficit commerciale Usa è in
calo è che il paese è ancora in preda a una grave recessione, e
questo parallelamente sta provocando un tracollo dell'import-export
a stelle e strisce.
Con la ripresa, sia la spesa per i consumi che il deficit della
bilancia dei pagamenti potrebbero tornare ai livelli precedenti, e
ci ritroveremmo di nuovo con gli Stati Uniti appesantiti da un
deficit con l'estero pari al 6% del Pil. Non c'è stato nessun
cambiamento dei prezzi relativi e nessun deprezzamento del dollaro
di misura tale da indurre a prevedere una modifica permanente dei
modelli di spesa e dei modelli di scambi commerciali.
Se ci sarà o meno una riduzione permanente degli squilibri globali
dipenderà principalmente da decisioni prese al di fuori degli Stati
Uniti, in particolare in paesi come la Cina. E un pronostico su
queste decisioni dipenderà a sua volta dai motivi che hanno spinto
inizialmente gli altri paesi a tenere in piedi surplus tanto
cospicui nella bilancia dei pagamenti.
Una delle tesi a questo proposito è che i surplus commerciali di
questi paesi hanno rappresentato un corollario delle politiche in
favore di una crescita trainata dalle esportazioni, che hanno
funzionato ottimamente per molto tempo. I leader cinesi sono
comprensibilmente riluttanti ad abbandonare un modello ben
collaudato. Non possono ristrutturare la loro economia dall'oggi al
domani. Non possono trasferire con uno schiocco di dita gli operai
che dipingono giocattoli per bambini a Guangdong a costruire scuole
nella Cina occidentale. Hanno bisogno di tempo per costruire una
rete di sicurezza sociale che incoraggi le famiglie cinesi a ridurre
i loro risparmi precauzionali. Se questo punto di vista è corretto,
possiamo aspettarci che gli squilibri globali riemergano una volta
finita la recessione, con un riassetto che avverrà solo
successivamente e in modo molto lento.
L'altro punto di vista è che la Cina ha contribuito agli squilibri
globali non tramite l'esportazione di prodotti, ma tramite
l'esportazione di capitali. Quello che mancava alla Cina non era la
domanda di beni di consumo ma l'offerta di asset finanziari di alta
qualità, e questi asset li ha trovati negli Stati Uniti, soprattutto
sotto forma di buoni del Tesoro e altri titoli pubblici, spingendo a
sua volta altri investitori a investimenti più speculativi.
Gli eventi recenti hanno fatto perdere credibilità agli Usa come
fornitori di asset di alta qualità. E la Cina, da parte sua,
continuerà a sviluppare i propri mercati finanziari e la propria
capacità di generare attività finanziarie di alta qualità sul
mercato interno. Ma ci vorrà del tempo. E nel frattempo gli Stati
Uniti hanno i mercati finanziari più liquidi del pianeta. Anche
questa interpretazione implica un riaffioramento degli squilibri
globali una volta terminata la recessione, con una correzione molto
graduale in un secondo momento.
Uno sviluppo che potrebbe modificare questa previsione si
verificherà se la Cina arriverà a considerare l'investimento in
attività finanziarie statunitensi come un'impresa in perdita. I
deficit di bilancio americani potrebbero, in un futuro non remoto,
suscitare timori di perdite sui titoli pubblici Usa. Una politica
che miri di fatto a sgonfiare il debito usando l'inflazione potrebbe
alimentare ulteriormente queste paure. A quel punto la Cina
toglierebbe il tappo, il dollaro precipiterebbe e la Fed sarebbe
costretta ad alzare i tassi di interesse, facendo ripiombare gli
Stati Uniti nella recessione.
Ci sono due speranze per evitare questo esito disastroso. Una è fare
affidamento sulla disponibilità cinese a stabilizzare gli Stati
Uniti e l'economia mondiale. L'altra è che l'amministrazione Obama e
la Fed forniscano dettagli sulle misure che prenderanno per
eliminare il deficit di bilancio ed evitare l'inflazione una volta
terminata la recessione. La seconda opzione è chiaramente
preferibile. Dopo tutto, è sempre meglio avere il controllo sul
proprio destino.
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Fonte
estera
- Project Syndicate
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