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«Non
esistono 4 miliardi
di euro della Parmalat»
Bank
of America: non abbiamo un conto
con la Bonlat, società della isole Cayman
facente parte del gruppo alimentare italiano
PARMA
- Si aggrava la situazione
finanziaria della Parmalat
Parmalat.
La Bank of America non ha riconosciuto l'autenticità di un documento
dello scorso 6 marzo che attestava l'esistenza di posizioni in titoli e
liquidità corrispondenti a circa 3,95 miliardi di euro
appartenenti al 31 dicembre 2002 a Bonlat, società delle isole Cayman
facente parte del gruppo Parmalat. Lo afferma una nota della Parmalat
Finanziaria. Bank of America inoltre - secondo la nota - sostiene di non
intrattenere un conto con Bonlat.
Il documento del 6 marzo è stato però la base della certificazione
del bilancio 2002 Bonlat da parte di Grant Thornton, revisore dei
conti di Bonlat Financing Corporation.
CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIO - La Parmalat ha convocato
per il tardo pomeriggio di venerdì un consiglio di
amministrazione straordinario. Lo comunica la società con una nota
precisando che all'ordine del giorno ci sono «comunicazioni del
presidente».
TITOLO SOSPESO IN BORSA, OTTO VOLTE AL RIBASSO - Il titolo
Parmalat è stato sospeso al ribasso in apertura di contrattazioni a
Piazza Affari dopo la notizia di Bank of America. Il titolo è
precipitato a 0,80 euro prima dello stop. In chiusura giovedì le azioni
Parmalat erano state quotata 0,89 euro.
In Borsa in apertura forte ribasso anche per i titoli bancari:
Capitalia -7,5% recuperando poi a -6%, Intesa -3,7% Bnl -2,5%.
In mattinata, dopo otto tentativi Parmalat. Attualmente il prezzo
teorico è inchiodato a 0,51 euro (-42,61%).
RISPARMIATORI USA E GB TRATTANO RIMBORSO - Intanto in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti i sottoscrittori delle obbligazioni
Parmalat per 2 miliardi di dollari si sono accordati e hanno deciso
di dare mandato a consulenti legali e finanziari di contrattare
con la società di Tanzi la restituzione del loro patrimonio. Ne dà
notizia il «Wall Street Journal» precisando che i rappresentanti del
gruppo hanno già avuto colloqui con il nuovo numero uno di Parmalat,
Enrico Bondi.
Milano
11/12/2003
11:46 (ANSA)
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Parmalat:
i 10 mesi della crisi/cronologia
19
Dicembre 2003 14:12
ROMA (ANSA)
E' iniziata poco meno di un anno fa la lunga crisi della
Parmalat che ha portato oggi Enrico Bondi al comando del gruppo di Collecchio.
Alla fine di febbraio, infatti, un bond da 300 milioni veniva bocciato dal
mercato per mancanza di chiarezza dando i primi segnali della crisi di liquidità
che avrebbe colpito l'impero dei Tanzi. Da allora dieci mesi vissuti
pericolosamente:
-
FEBBRAIO 2003. Il 26 la Parmalat annuncia un bond da 300milioni rivolto a
investitori istituzionali della durata di sette anni. La Borsa risponde con un
crollo del titolo del 9% per mancanza di informativa sull'operazione: l'azienda
cancella il bond e ribadisce la propria solidità.
-
MARZO. Assogestioni bacchetta il gruppo per scarsa comunicazione. Il giorno dopo
Tanzi annuncia un incontro a tutto campo con gli analisti in programma dopo il
cda del 28. Il 12annuncia un aumento di capitale da 80 milioni, per rimborsare
un bond di fine 2002, da approvare all'assemblea di aprile. Il 21il titolo mette
il turbo in Borsa, sull'onda delle voci di un cambio ai vertici, smentite dalla
società. Il 26Fausto Tonna, in seguito al pasticcio del bond di febbraio,lascia
l'incarico di direttore finanziario, sostituito da Alberto Ferraris e da Luciano
del Soldato, ma rimane nel cda.
-
APRILE. Il 10 la Parmalat annuncia un rapporto tra posizione finanziaria netta e
patrimonio netto salito all'83%.Il 30 il nuovo socio Philips Pensioenfonds
Stichting (che detiene il 2,05%) chiede di migliorare la governance.
-
GIUGNO. Sia Philips Pensioenfonds Stichting sia Nextra(Intesa) scendono sotto il
2% del capitale. Il 18 viene emesso un nuovo bond da 300 milioni, interamente
comprato da Nextra.
-
SETTEMBRE. Il gruppo annuncia che non emetterà nel medio periodo obbligazioni
convertibili e obbligazioni nel breve periodo da collocare sul mercato retail,
avviando un programma di parziale buy-back. Il 15 viene emesso un nuovo bond da
350milioni interamente sottoscritto da Deutsche Bank. Lo stesso giorno Standard
& Poor's rivede al ribasso, da positivo a stabile, l'outlook, confermando
invece i rating del gruppo.
-
3 NOVEMBRE. Ricapitalizzazione in vista per la Parmalat Spa:gli azionisti
vengono convocati in assemblea il 24 dicembre per deliberare un aumento di
capitale a pagamento da 400 a 500milioni di euro.- 6 NOVEMBRE. La Consob, anche
sull'onda della vicenda Cirio,chiede al gruppo di chiarire nella prossima
trimestrale come intende rimborsare i bond in scadenza da qui al 2004.- 10
NOVEMBRE. La Parmalat risponde all'Autorità che i bond saranno rimborsati
utilizzando la liquidità.- 11 NOVEMBRE. E' il primo vero giorno di passione
della Parmalat story. La Deloitte & Touche esprime i suoi dubbi
sull'investimento nel fondo delle Isole Cayman, Epicurum: il gruppo risponde
respingendo le ipotesi di dissesto e ribadendola propria solidità finanziaria.
Ma a fine giornata Standard & Poor's pone sotto creditwatch negativo tutti i
rating assegnati ai titoli Parmalat a causa dei dubbi relativi alla contabilità
dell'azienda e alle modalità in cui ha investito la propria liquidità.- 12
NOVEMBRE. Il gruppo annuncia l'imminente smobilizzo della quota nel fondo
Epicurum e resuscita in Borsa.- 13 NOVEMBRE. Nonostante l'uscita da Epicurum,
S&P mantiene il creditwatch con implicazioni negative. Il titolo sale
ancora.- 14 NOVEMBRE. Alberto Ferraris lascia la funzione di direttore
finanziario e la direzione Finanza viene accorpata all'Amministrazione e
Controllo diretta da Luciano Del Soldato.- 25 NOVEMBRE. Deutsche Bank sale al
5,15% del capitale.- 27 NOVEMBRE. Via libera dall'assemblea di Epicurum alla
liquidazione della quota di Parmalat. Venduta la Parmatour ad Argho.
-
8 DICEMBRE. Scade il bond da 150 milioni di cui è in dubbio il rimborso. La
Consob chiede al gruppo di dare informazioni e di rassicurare il mercato.
Parmalat comunica che Epicurum non ha proceduto alla liquidazione della quota
alla scadenza prevista del 4 dicembre. Titoli sospesi in attesa del cda del 9.-
9 DICEMBRE. Il Cda assicura che il bond verrà rimborsato entro il 15 dicembre,
accoglie le dimissioni di Del Soldato e nomina Enrico Bondi superconsulente.
Tanzi parla di "momento difficile" e assicura l'impegno della
famiglia. S&P declassa Parmalat a livello di junk bond.- 10 DICEMBRE.
S&P taglia il rating a livello CC/C e parla di rischio default. Tanzi e
Bondi sono ascoltati dalla Consob.Tonna lascia il Cda e tutti gli incarichi nel
gruppo. La relazione di Bondi arriverà a fine gennaio 2004.- 11 DICEMBRE. Alla
riammissione in Borsa, il titolo perde oltre il 40%.- 12 DICEMBRE. Nel
pomeriggio, dopo un ennesimo bagno di sangue a Piazza Affari annuncia che il
bond da 150 milioni è stato rimborsato. Un successo raggiunto grazie
soprattutto al superconsulente Enrico Bondi: dall'Erario e da un gruppo di
banche arrivano rispettivamente 35 milioni come restituzione dell'Iva e 25
milioni.- 15 DICEMBRE. Tanzi lascia cariche. Tutti i poteri affidati a Enrico
Bondi che diventa presidente e ad del gruppo. Mandato a Mediobanca e Lazard per
assistere la situazione economica e finanziaria del gruppo.- 18 DICEMBRE. Si
bloccano i colloqui con Epicurum, facendo slittare la possibilità di rientrare
in possesso dei 500 milioni di euro svaniti, che il fondo avrebbe dovuto mettere
a disposizione.- 19 DICEMBRE. Nuovo scivolone in borsa dopo che Bank of America
ha negato la l'esistenza di liquidità della Parmalat per 3,9 miliardi di euro,
di pertinenza di Bonlat.(ANSA).

19
Dicembre 2003 14:12
ROMA (ANSA)
PARMALAT:
THE ECONOMIST,
migliore
imitazione Enron in Europa
(ANSA)
- LONDRA, 18 DIC - Il caso Parmalat potrebbe "fornire la migliore
imitazione europea mai vista finora del caso Enron", con le dovute
differenze in fatto di controllo familiare. E' quanto scrive il
settimanale britannico The Economist in un articolo che verrà
pubblicato sull'edizione in edicola domani. Come la società americana
Enron, fallita a causa di un maxi- scandalo finanziario, la Parmalat era
"troppo affezionata ad elaborate operazioni obbligazionarie e sul
mercato dei derivati,spesso con l'uso di complesse strutture offshore
che coinvolgevano alcune delle sue numerose controllate". Dopo il
crollo del 2002 di Vivendi, ricorda il settimanale,la multinazionale
francese venne definita la "Enron europea".Il titolo è
passato questa primavera all'olandese Ahold a causa dei suoi problemi di
contabilità nelle sue controllate estere. Adesso, man mano che emergono
nuovi dettagli, sembra che sia la Parmalat a rappresentare l'imitazione
migliore del caso Enron, commenta l'Economist. Anche la Parmalat, come
l'ex società Usa, aveva "acquisito una reputazione di mancanza di
trasparenza". E
come nel caso della Enron, anche gli investitori ed i banchieri della
Parmalat "avevano difficoltà nel capire il suo bilancio o nel
valutare la vera portata delle sue passività". La Enron
"distrusse" la reputazione della sua società di revisione, la
Arthur Andersen, prosegue la testata. Adesso, la società di revisione
della Parmalat, la Deloitte, "deve dare spiegazioni". E
neanche le società per la valutazione dell'affidabilità creditizia ne
escono a testa alta. La Standard & Poor's (S&P) aveva dato
"allegramente" il disco verde alle obbligazioni della Parmalat
e solo quando la società è entrata in crisi "é stato chiaro come
la S&P fosse sbagliata. Non c'é stato nessun campanello
d'allarme?". (ANSA).
Londra
18/12/2003
20:38 (ANSA)
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PARMALAT:
BONLAT, cassaforte con 1$ di capitale
(ANSA)
- MILANO, 19 DIC - Il capitale è di appena 1 dollaro, come risulta dal
bilancio consolidato 2002 di Parmalat, un elemento che accresce
ulteriormente il mistero intorno a Bonlat, la cassaforte offshore del
gruppo di Collecchio, nei cui conti però non risulterebbero liquidità e
titoli per un ammontare di 3,95 miliardi di euro. Bonlat Financing
Corporation, questa la denominazione completa, ha sede al terzo piano West
Wind Building a George Town, nel paradiso di Gran Cayman. La ingente
liquidità era depositata in un conto della Bank of America - almeno
secondo il gruppo alimentare, che è stato, come reso noto in mattinata,
"disconosciuto" dalla colosso Usa. La Bank of America ha infatti
negato l'autenticità di un documento del 6 marzo 2003 che attestava
l'esistenza di posizioni in titoli e liquidità corrispondenti a circa
3.950 milioni di euro al 31 dicembre 2002 di pertinenza di Bonlat,
documento "preso a base della certificazione del bilancio Bonlat
2002". La holding dei misteri è stata costituita nel 1998 da
un'altra controllata di Parmalat, l'italiana Contal srl, mentre ora fa
capo direttamente alla Parmalat Capital Finance Limited, costituita alle
Cayman e domiciliata nell'isola di Malta in Savona Street, Sliema. E la
crisi finanziaria di Parmalat passa proprio attraverso la Bonlat, che
sarebbe stata proprio il crocevia di tutte le operazioni denominate back
to back. Attraverso uno schema semplice quanto rischioso, che vede
un'azienda versare finanziamenti, con una propria controllata, in una
banca estera, che, a sua volta, li trattiene a titolo di garanzia per
apertura di nuovo credito a favore di una parte terza indicata
dall'azienda iniziale. Nel caso di Bonlat, il meccanismo avrebbe
consentito (utilizzando parte dei 6,9 miliardi di dollari di bond emessi
da Parmalat) l'affidamento di finanziamenti ad altre società del gruppo
alimentare provocando, inevitabilmente, distorsioni in bilancio, con le
diverse poste riportate come liquidità o come credito. A seconda delle
circostanze. (ANSA)
Milano
19/12/2003
19:50 (ANSA)
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Parmalat:
FT,
i tanti perchè della Enron europea
22
Dicembre 2003 11:01
Londra (ANSA)
Il buco nero della
Parmalat potrebbe anche arrivare a 7
miliardi di euro, intitola in prima pagina il Financial Times che dedica ampio
spazio ed anche un editoriale alle vicende della "Enron europea". Anche
se emerge che all'origine "c'é stato un imbroglio calcolato, la velocità
con cui l'edificio della Parmalat è crollato fa nascere domande sul perché in
tanti erano disposti a dare il beneficio del dubbio ad una società che forniva
così poche informazioni", scrive tra l'altro nell'editoriale.
Quello
che è
cominciato due settimane fa "come un problema di rimborso di bond per 150
milioni di euro è diventata alla fine della scorsa settimana l'ammissione di un
buco di 3,95 miliardidi euro". Tre cose devono avvenire, aggiunge il
giornale: salvare il più possibile patrimonio e posti di lavoro; i responsabili
e quelli che hanno sbagliato devono essere identificati; la lezione deve essere
imparata. Questa per FT è "una dura prova per l'Italia che ha la fama di
avere un debole sistema di controlli". E Silvio Berlusconi, il primo
ministro, "non ha aiutato sabato quando ha fatto capire di voler salvare la
società che ha circa 35 mila dipendenti in 30 paesi. Può essere stato un
momento di impeto, ma un soccorso pubblico finirebbe per incoraggiare un lassismo
delle regole societarie". Il giornale rileva che ora i nuovi manager
porranno probabilmente la società in amministrazione controllata e che le banche
ritengono che il valore mondiale di Parmalat possa coprire i sei miliardi di
debiti a bilancio "ma potrebbero essercene altri due o più fuori bilancio.
E c'é il timore che altre irregolarità possano emergere".
FT
sottolinea che le conseguenze vanno ben oltre l'Italia e che resta da stabilire:
come Parmalat abbia costruito una rete impenetrabile di transazioni offshore;
come i controllori non siano riusciti a prevenire che il denaro fosse drenato
altrove; come le società di rating abbiano garantito lo status degli
investimenti
sulla base di scarse informazioni e perché banche ed investitori abbiano
rischiato denari su una società chechiaramente non conoscevano. Una volta
capita la lezione conclude il giornale - le riforme devono seguire.
Nell'articolo in prima pagina FT rileva che dopo l'annuncio che non c'era
contabilizzazione dei 3,95 miliardi di euro nella Banca d'America, persone che
conoscono il gruppo sostengono che il buco nero potrebbe essere anche superiore
ai 7 miliardi di euro. FT ricorda che all'inizio del mese Callisto Tanzi
aveva ammonito le banche creditrici che la società avrebbe potuto non
rimborsare
i 7 miliardi di bond e di debiti che diceva di avere allora. Il giornale ricorda
anche che i magistrati che indagano sul crack hanno raccolto molti documenti
negli uffici della GrantThornton a Milano, la società di auditing della maggior
parte delle sussidiarie della Parmalat. (ANSA).
22
Dicembre 2003 11:01
Londra (ANSA)
Economia:
USA; nuovi dati, recessione iniziò nel 2000
10
Dicembre 2003 16:29
ROMA (ANSA-BLOOMBERG)
L'
ultima recessione dell' economia a stelle e strisce non è iniziata nel marzo
2001, come finora dichiarato
dall' arbitro ufficiale dei cicli economici Usa, ovvero il National Bureau of
Economic Research, ma alcuni mesi prima, cioé nel terzo trimestre del 2000,
quando si ebbe una contrazione del pil dello 0,5% contro la stima finora
accreditata di +0,6%. La novità emerge dalla tradizionale revisione sui
principali dati economici del Paese compilata ogni quattro-cinque anni da
Dipartimento del Commercio americano che, in base al miglioramento delle
statistiche e al cambiamento delle definizioni, si estende fino a diversi anni
addietro, in questo caso addirittura al
1929.
L
'
inizio anticipato della recessione, in quell' anno 2000 che pure ha segnato una
crescita del 3,7% (dato rivisto, +3,8% la stima iniziale), dà peraltro sostegno
alla dichiarazione del presidente Bush di aver ereditato la recessione dalla
amministrazione del democratico Clinton. Il rapporto rivede anche
leggermente al ribasso, al 2,6% contro il precedente 2,7%, la crescita Usa
registratasi dal termine della recessione, ovvero novembre 2001, al secondo
trimestre di quest' anno. Riguardo al 2003, secondo il nuovo rapporto il pil è
salito al 2% nei primi tre mesi dell' anno contro la prima stima di 1,4%, mentre
nel secondo trimestre è cresciuto al 3,1% contro il precedente 3,3%. La
revisione attenua anche l' impatto della recessione, rivedendo la contrazione
dal quarto trimestre 2000 al terzo trimestre 2001 allo 0,5% contro il precedente
0,6% PROFITTI SU, RISPARMI GIU' -
Buone
notizie sul fronte degli utili societari, rivisti consistentemente al rialzo per
il 2002 e i primi sei mesi del 2003. Nel primo caso i profitti sono
risultati pari a 904,2 miliardi di dollari, ovvero il 15% in più circa rispetto
alla stima iniziale; per quanto riguarda, invece, i primi sei mesi di quest'
anno, gli utili sono risultati pari a 975 miliardi di dollari, con un balzo del
14% circa rispetto alla prima stima.
A
spingere gli utili, la diminuzione da parte dei lavoratori dipendenti dell'
esercizio delle stock options, stante la situazione poco rosea della Borsa Usa,
che solo da marzo scorso ha ripreso a correre. Note dolenti, invece, sul fronte
dei risparmi, rivisti al ribasso a partire dall' '
87
in
seguito alla correzione in alto della spesa personale e a quella verso il basso
che ha riguardato, invece, il reddito personale.
Per quanto riguarda il
2002, i risparmi sono dunque risultati di 2,3 cents per ciascun dollaro del
reddito personale disponibile, contro la precedente stima di 3,7 cents. E il
calo si e' ulteriormente accentuato nel primo e secondo trimestre di quest'
anno, con la correzione, rispettivamente, a 1,9 cents dai precedenti 3,5 e 2,3
dai precedenti 3,2.(ANSA).
10
Dicembre 2003 16:29
ROMA (ANSA-BLOOMBERG)
Catastrofisti
in estinzione ?
01
Dicembre 2003
15,45 MILANO
(Alessandro
Fugnoli)
La
sottile linea rossa tra sana ripresa e bolla planetaria è ancora lontana
sull’orizzonte. Karl Popper è passato di moda da un pezzo, ma una sua
idea resta ancora utile per chi si confronta con i mercati. L’idea è che chi
formula un’ipotesi deve poi passare il suo tempo e impiegare tutte le sue
energie intellettuali a cercare di confutarsela da solo. Se poi ci riesce, deve
essere stoicamente contento, non deluso.
Essendo
positivi su economie, azioni e bond siamo dunque, popperianamente, avidi
consumatori di letteratura finanziaria
catastrofista e il fatto che ce ne sia in giro sempre meno induce già di per sè
a una certa cautela. Sono rimasti in circolazione, infatti, solo i
professionisti del negativo. Tra questi ci sono quelli, come il Fondo
Monetario o l’Ocse, che avvertono sempre e comunque, per dovere
d’ufficio, dei pericoli in agguato. Il loro moniti si sono fatti di recente più
stanchi e burocratici e si concentrano su un possibile crollo del dollaro (che
non si capisce bene se sia un problema americano o non piuttosto, come
sospettiamo, un problema europeo). Ci
sono poi i negativi a sfondo politico, alla Joseph Stiglitz o alla Paul Krugman.
Già erano critici ai tempi di Clinton, figuriamoci ora con Bush.
Infine
è rimasto un nucleo duro di strategist ed economisti di mercato, da Bernstein a
Roach a pochi altri, che hanno scelto (fede? partito preso? sadismo?
infanzia infelice?) di fare i permabear, quelli che sono sempre negativi. Prima
hanno negato la possibilità di una ripresa, poi l’hanno giudicata effimera e
ora sono pronti, se per caso continua, a denigrarla come bolla. Il fatto che la
loro performance nell’ultimo anno sia stata deludente non significa che lo sarà
anche in futuro. Il fatto che siano negativi da tempo immemorabile non toglie
nulla alla possibile efficacia delle loro argomentazioni. Uno
spunto di riflessione stimolante lo offre Andy Xie di Morgan Stanley. Questa
volta, dice, non c’è una bolla solo sulla borsa, ma su tutti gli asset,
finanziari e reali. Questa bolla è riuscita ad avviare la ripresa
dell’economia globale e le darà ossigeno ancora per il 2004. Ma una bolla è
sempre una bolla e la sua sorte è segnata.
Ci
pare elegante la teoria della bolla diffusa. Effettivamente
la Fed
ha fatto tesoro dell’esperienza della bolla
precedente e propone questa volta un bubble management di nuova concezione. Il
1999 vide il crollo dei bond e il boom della borsa. Questa volta si vuole
evitare a tutti i costi di strafare ossessivamente con la borsa (e la sua
componente tecnologica) e si dà
qualcosa a tutti. Ai bond, alle case, alle azioni (tutte). Si dà meno
nell’occhio e ci si garantisce un rientro meno traumatico a festa finita.
Questa tesi ha un elemento di verità e una possibile forzatura.
L’elemento
di verità è che questa è un’epoca storica di deflazione strutturale.
Lasciato a se stesso il ciclo si muove a
ondate di fiducia e sfiducia estreme, come nell’Ottocento.
La fiducia genera eccessi di investimento (finanziario e reale) che portano a
una continua espansione dell’offerta e alla creazione di asset inflation.
In questa fase i prezzi di materie prime, prodotti e servizi recuperano parte
della discesa precedente (ma non sono inflazione come quella che abbiamo vissuto
nei decenni scorsi). A questa fase segue
quella dell’implosione e della liquidazione di capacità produttiva in
eccesso, accompagnata da asset disinflation e default. Oggi non siamo
nell’Ottocento, ma ci accomuna a quel secolo la potenziale violenza dei cicli,
la mancanza di inflazione strutturale e la tendenza, periodicamente, a buttare
al vento capitale, ovvero ad allocarlo male.
La Fed
è oggi impegnata in un esercizio di fine
tuning degli spiriti animali di investitori e imprenditori. Si vuole ricreare
fiducia senza generare la sua caricatura, l’entusiasmo.
La Fed
fa così da reattore nucleare della ripresa
mondiale, ma è questa volta molto attenta a controllare l’emissione di
radiazioni.
L’elemento
di forzatura nella tesi della bolla diffusa sta nel definire fin da subito come
bolla la ripresa in corso. Attivare enormi capacità inutilizzate non
significa creare una bolla. Al massimo significa riscoprire
Keynes. Quale può essere, allora, la sottile linea rossa che separa una
sana ripresa da una bolla? Non è l’inflazione. In un contesto di deflazione
strutturale l’inflazione è sempre circoscritta e temporanea. L’oro a 400
dollari non significa assolutamente niente. Le altre materie prime in rialzo
significano qualcosa di più, ma fino a un certo punto. Non si riapre una
miniera chiusa (o non se ne apre una nuova) due giorni dopo l’inizio di un
rialzo dei prezzi. Si aspetta di vedere se il rialzo è serio. Con un po’ di
pazienza l’offerta si fa viva. Nel mondo ci sono tutti i minerali che si
vogliono. Il petrolio è sovrabbondante e più a lungo l’Opec ne tiene su
artificialmente il prezzo più grande sarà la caduta sotto i 20 dollari quando
non ce la farà più. Quanto al capitale umano, c’è probabilmente mezzo
miliardo di persone in esubero nell’agricoltura mondiale. Nelle sole periferie
delle città cinesi e indiane ci sono almeno 50 milioni di persone pronte a fare
qualsiasi lavoro immediatamente.
Quando
si pensa al limite teorico della crescita mondiale si fa veramente fatica a
trovarne uno. Forse il collo di bottiglia più stretto è l’energia elettrica.
Brasile, Messico e Cina potrebbero crescere molto di più se risolvessero il
nodo delle centrali.
La Cina
aumenta l’offerta di energia del 10 per
cento all’anno, ma riesce comunque a crescere di più togliendola
massicciamente all’uso domestico con black out imponenti. Il vincolo, dunque,
non è l’inflazione. Una bolla diventa bolla solo quando il capitale inizia a
essere usato male non solo dagli investitori ma anche dagli imprenditori. Nella
fase finale di un bull market azionario è normale fare investimenti a casaccio,
comperare al meglio, non studiare più quello che si compra. Lo stesso fanno le
imprese. Probabilmente la storiografia stabilirà che, nel disastro del
2000-2002
, hanno ancora più responsabilità degli
investitori. Ci sono oggi segnali di deterioramento nell’allocazione del
capitale? Uno solo, si direbbe. In Cina si è costruito troppo e lo si è fatto
a credito. Ora è in atto una stretta, si costruirà molto meno e si metterà
meno pressione sui corsi delle materie prime (che avranno in più, come abbiamo
visto, un aumento di offerta).
Niente
altro, ci pare. Nell’M&A ci sono
solo timidi segni di risveglio. I collocamenti azionari sono ancora pochi. Manca
all’orizzonte una killer application come Internet che faccia sognare e
stimoli investimenti disordinati. I dati sulla produttività, del resto,
indicano una riluttanza estrema allo sperpero di capitale. Può darsi che
le cose stiano cambiando, ma siamo solo agli inizi. Tempo al tempo. Al momento
tutto sembra in ordine. La borsa è dove deve stare e cresce in linea con gli
utili. In questi giorni viene dato un po’ di gas per indurre gli americani a
spendere di più per Thanksgiving e Natale, ma tutto avviene all’insegna della
massima moderazione. I bond, dal canto loro, non sembrano particolarmente
vulnerabili, soprattutto in America.
Forse
avremo 150-200,000 posti di lavoro in più la settimana prossima, ma c’è
anche qualche segnale di rallentamento nella domanda di case (e il fatto che si
costruisca molto può aggravare il problema). E’ più che lecito nutrire dubbi
sulla tenuta della domanda interna nel 2004. Una domanda buona, ma non
spettacolare, non porrebbe nessun problema ai bond, anzi. Nemmeno il dollaro
deve preoccupare. Si approfitta di giornate di borsa forte per indebolirlo senza
creare problemi. Non c’è sotto nient’altro. Il ritorno all’orizzonte dei
rischi geopolitici e un conflitto commerciale a bassa intensità tra Cina e
Stati Uniti (con l’Europa felicissima di approfittarne per innalzare altre
barriere) sembrano al momento sufficienti a moderare gli entusiasmi (come quelli
un po’ interessati che va diffondendo
la Fed
). In questo modo si può spalmare positività
tra crescita, bond e azioni senza che la prima schiacci gli altri due.

01
Dicembre 2003
15,45 MILANO
(Alessandro
Fugnoli)
Chi
e perchè ha posizioni short sull'oro
04
Dicembre 2003
04:40 NEW YORK
(Us
Equity & Macro Lab)
L’oro
ha sfondato la soglia dei 400 dollari sopra la quale non chiudeva dal febbraio
1996. Nonostante sia stato discreditato sin dal suo sorgere e qualunque siano
gli sviluppi di breve periodo che ne caratterizzeranno il prossimo andamento, il
genuino mercato toro del metallo giallo ha continuato la sua salita raggiungendo
un traguardo molto importante.
E’
un dato di fatto che la salita dell’oro sia stata finora molto irrequieta e
turbolenta. Ed è molto probabile che continuerà a esserlo nel futuro. Come
ricordò tempo fa Richard Russell, è tipico dei mercati toro genuini,
soprattutto nelle loro fasi iniziali, avere movimenti bruschi di modo che, come
in un rodeo, rimangano in sella solo le mani forti. Proprio quello è accaduto
al mercato dell’oro e che invece da marzo non si è verificato nel caso del
mercato azionario.
Stando
alle dinamiche di mercato, ai grafici, e ai fondamentali, il termine di questo
mercato toro ancora giovane si preannuncia molto lontano, sia in termini
temporali che di prezzo. Il superamento dei massimi raggiunti nel 1980 potrebbe
rappresentare solo l’entrata nella terza e ultima fase, quella finale e più
speculativa, in grado di attrarre il pubblico in massa come fece il mercato
azionario negli anni
1998-2000
, o come accadde sullo stesso mercato
dell’oro 25 anni fa. Tuttavia per le gravi implicazioni economiche che
comporterebbe un valore dell’oro a quei livelli è impossibile oggi azzardare
qualunque tipo di congettura.
E’
quindi normale e in parte fisiologico che in questi due anni lo scetticismo nei
confronti dell’oro si sia mantenuto ben solido al crescere del prezzo. Per
altra parte il merito di tale scetticismo va sicuramente al costante lavoro di
dissuasione svolto della maggioranza dei media. Largo spazio di notizia
tendenzialmente neutrale su ogni nuovo massimo solo in preparazione di una
pubblicità negativa, decisamente altisonante, in occasione dello storno
successivo. Le cause imputabili sia ai nuovi massimi che agli storni violenti
che hanno fatto inevitabilmente seguito, sono state ricondotte quasi sempre a
motivi e fattori superficiali, talvolta alquanto bizzarri per non dire del tutto
ridicoli, che poco e niente avevano a che vedere con le reali cause a supporto
del trend crescente. Si veda ad esempio, per ultimo, il superamento temporaneo
di quota 400 avvenuto il 26 novembre scorso. A quanto pare (non ne siamo
testimoni) l'episodio venne attribuito da un network televisivo americano a
delle strane esalazioni fumose provenienti dalla metropolitana di New York!!
Jim
Sinclair, indubbiamente uno dei migliori esperti sul mercato dell’oro, chiosò
in occasione dell’avvenimento:
“Sappiamo
tutti che la metropolitana di New York emana sempre una puzza un po’ strana,
specialmente intorno a
mezzogiorno.
Se la gente per pranzo smettesse di mangiare
cibo speziato e se i macchinari funzionassero con energia pulita, quella puzza,
probabilmente, sparirebbe all’istante. Una delle forme più pericolose di
terrorismo verbale è oggi quella dei commenti lava-cervello dei nostri maggiori
network televisivi. Evidentemente come causa principale della salita del prezzo
dell’oro non era lecito e appropriato menzionare il massiccio bombardamento
avvenuto oggi contro il dollaro sui mercati valutari .”
I
nostri complimenti a Jim Sinclair, sia per questa feroce ironia che,
soprattutto, per il suo ottimo lavoro di analisi, svolto e gratuitamente
pubblicato sul suo sito a delucidazione delle reali dinamiche che interessano il
mercato dell'oro.
Tornando
all’analisi del prezzo dell’oro, a febbraio 2002 avevamo fatto notare il
trend rialzista già in corso. A dicembre 2002 invece avevamo detto che il
mercato era entrato nella seconda fase di quel trend.
Tuttavia,
questa seconda fase ha trovato finora espressione e limite solo nel prezzo
espresso in dollari. In effetti, il prezzo dell’oro espresso nelle altre
valute principali giace ancora nella sua prima fase di accumulazione. La salita
in termini di dollari, infatti, è andata nell’ultimo anno e mezzo più o meno
di pari passo con l’apprezzamento delle principal valute mondiali.
A
questo comportamento corrisponde evidentemente una considerazione e preferenza
monetaria dell’oro rispetto al dollaro non inferiore di quella che ha
interessato le altre principali valute cartacee. Non solo, la tendenza generale
che sembra mostrare il recente andamento fa presupporre una prossima entrata
nella seconda fase anche in termini delle altre valute. Si veda a tal proposito,
per una visualizzazione dei singoli grafici, l’articolo: “Has the True Gold
Bull Begun & the Coming World Currency Crisis”.
Del
resto una salita del prezzo dell’oro anche in termini delle altre valute
sembrerebbe essere una conseguenze piuttosto logica e crediamo inevitabile.
Quella in atto è una svalutazione del dollaro a danno delle esportazioni degli
altri paesi. Tuttavia gli squilibri in essere rappresentati dalla già pesante
accumulazione di dollari e bond in mano straniera (siamo a oltre 1 trilione di
dollari) non possono essere liquidati a favore delle altre valute, pena un
ulteriore indebolimento del dollaro. Una situazione senza soluzione in cui
l’oro rappresenta l’unica via di fuga neutrale. Nel veloce processo di
disinvestimento dal dollaro, l'unica maniera per smobilizzare dollari senza
causare l'apprezzamento di altre valute è proprio l'acquisto di oro, la moneta
di tutti e di nessuno. Il problema è che in tal caso una salita dell’oro in
termini assoluti comincerebbe a rivestire un valore segnaletico non
trascurabile.
Il
titolo dell’articolo sopra citato è a tal proposito sufficientemente
significativo. La salita dell’oro, infatti, oltre a segnalare una politica
monetaria americana estremamente accomodante, a scontare crescenti aspettative
inflazionistiche e a misurare come un qualunque altro indice o altra cartamoneta
la forte discesa del dollaro sui mercati valutari, porta con sé significati
molto più profondi (di queste semplici e tutto sommato ingenue deduzioni) che
potrebbero presto trovare seguito e conferma nelle dinamiche economiche.
Nel
momento in cui la seconda fase si estendesse anche alle altre valute principali,
euro, pound e yen, il verdetto del mercato sarebbe chiaro: il prezzo dell’oro
starebbe segnalando l’eventualità di una crisi del sistema monetario mondiale
basato sul dollaro e, per immediata estensione, l’eventualità di una crisi
economica globale, dalle conseguenze difficilmente inimmaginabili. E’ forse
questo il motivo per cui le posizioni dei Commercial sull’oro (secondo Jim
Sinclair, sei grosse banche di investimento) sono ostinatamente corte (short,
posizionate al ribasso) e continuano ad essere in errore da oltre due anni.
Queste posizioni corte perseguono, a nostro avviso l'obiettivo di circoscrivere
l'importante valore segnaletico che le pressioni di mercato, esercitate dagli
enormi squilibri in essere, tendono tradizionalmente a trasmettere al prezzo
dell'oro. La manifestazione di tale valore segnaletico sarebbe sicuramente poco
gradita agli ingegneri economici, in quanto
minerebbe quella apparente stabilità
monetaria ed economica, da lungo tempo perduta, ottenuta oramai solo tramite la
corruzione delle spontanee dinamiche di mercato...
Tuttavia,
l'andamento dell'oro negli ultimi due anni e mezzo ha ben mostrato come il
lavoro di compressione del prezzo dell'oro, che aveva avuto sortito un ottimo
successo nella secondà metà degli anni novanta, stia riscontrando da due anni
a questa parte crescenti difficoltà. Come dimostrano anche i dati relativi agli
open interest sul mercato dei derivati, alle mani forti che accumulano oro sul
mercato del fisico si è affiancata ultimamente una consistente speculazione
rialzista sul mercato dei futures, come se quest'ultima avesse subodorato una
facile e ghiotta opportunità di guadagno. Basti ricordare per analogia gli
episodi relativi alla lira e alla sterlina del 1992.
Il
fallimento definitivo ed eventuale di questa ostinata difesa del dollaro dal
prezzo dell’oro darebbe luogo a sviluppi sicuramente interessanti. Proviamo ad
abbozzare quello che potrebbe essere il principio di uno degli scenari
plausibili.
Ricordiamo
come ai primi di giugno avesse ben poco senso che il mercato dei bond salisse
verso nuovi record parallelamente a quello azionario. Uno dei due si stava
clamorosamente sbagliando. Considerata la gran confusione e speculazione che da
diversi anni
la FED
alimenta sui mercati finanziari, non era
certo un episodio di cui stupirsi. Per noi, si sbagliavano entrambi, ma mentre
la corsa del mercato azionario poteva ancora trovare sostegno grazie a ragioni
ben precise (le ondate di liquidità della FED) quella dei bond aveva raggiunto
eccessi difficilmente sostenibili.
Il
crollo di luglio proclamò come perdente il mercato obbligazionario e risparmiò
quello azionario. In quella caduta quest’ultimo trovò anzi motivi di conferma
per la ripresa che in effetti si è materializzata quantitativamente (benchè a
nostro avviso non qualitativamente) nei dati dell'ultimo trimestre. E ancora
oggi le borse mantengono gli attuali livelli più per l’effetto di un intenso
vortice speculativo, analogo e forse non inferiore a quello che caratterizzò le
borse tra il 1999 e l’inizio del 2000, che non per altre ragioni logicamente
convincenti.
Oggi
la stessa incongruenza è ravvisabile considerando l’andamento dell’oro, e
più in generale anche quello delle commodities, rispetto all’andamento dei
bond e dell’azionario. Non ha infatti molto senso che il dollaro continui a
scendere a beneficio sia del mercato obbligazionario che di quello azionario.
Il
mercato dei bond ha consolidato dopo la caduta di luglio, sostenuto dagli
interventi verbali degli ingegneri economici della FED che con la promessa di
mantenere tassi bassi continuano ad alimentare i flussi di liquidità e a
favorire le strategie di "carry trade" a sostegno dei tassi di lungo
termine. Tuttavia tale strategia è suscettibile di perdere quanto prima quella
credibilità ricostruita dopo la fase di sfiducia di luglio, proprio a causa
della forte pressione esercitata sia dal mercato azionario e, ancor più,
dall'andamento dei prezzi delle commodities.
In
questo momento, quindi, il mercato dei bond rimane, a nostro avviso, il più
vulnerabile. Un secondo shock della stessa intensità di quello di luglio non è
affatto da escludersi. A favore di questa ipotesi, si prendano in considerazione
anche i dati più recenti che hanno visto un graduale ritiro degli investitori
stranieri dai bond americani. Uno shock del genere avrebbe conseguenze quasi
immediate non solo sui bond di altre aree geografiche, ma anche sulle borse. Così
come avvenne nel 1987 una ulteriore gamba rialzista dei tassi potrebbe
facilmente contribuire a sgonfiare in maniera brusca e altrettanto traumatica la
minibolla azionaria in formazione da diversi mesi.
La
ripresa, o mini boom, del quale non abbiamo osato mettere in discussione gli
aspetti quantitativi, è infatti riconducibile ancora una volta, alla pari del
boom degli anni novanta, al ciclo economico di boom and bust sviluppato dalla
teoria economica Austriaca: espansione monetaria e creditizia che crea un boom
non sostenibile caratterizzato da malinvestments, squilibri, e distorsioni nella
struttura produttiva e nei processi economici. Inevitabilmente il mercato
richiederà una nuova correzione, il bust, e questa volta troverà
la FED
e le altre autorità preposte all’intervenzionismo
economico senza più la vasta gamma di strumenti che avevano a disposizione nel
2000.
Un'ulteriore
complicazione, purtroppo, è data dal fatto che i nuovi squilibri creati di
recente si sono sommati, e potremmo anche dire moltiplicati, a quelli già in
essere tre anni fa. Come più volte ripetuto quegli squilibri non hanno avuto
modo di essere riassorbiti dalle dinamiche del libero mercato proprio a causa
dell’intervento di quella che riteniamo essere la peggiore amministrazione
della FED di tutti i tempi. Nel corso di questi tre anni il cuore di tali
squilibri si è gradualmente e pericolosamente concentrato proprio in quella
istituzione basilare del processo economico che è costituita dalla moneta. E il
discorso di Ron Paul
(vedi bollettino
Settembre 2002 articolo "denaro di carta e tirannia")
da noi tradotto tempo fa non poteva essere a tal proposito
più chiaro e illuminante:
“La
moneta é una questione morale, economica e politica. Poiché l’unità
monetaria stabilisce qualsiasi transazione economica, dai salari ai prezzi,
dalle tasse ai tassi di interesse, é estremamente importante che il suo valore
venga stabilito in modo onesto dal mercato senza che banchieri, governi,
politici o
la Federal Reserve
manipolino il suo valore al fine di servire
interessi particolari”.
Proprio
quello che purtroppo è accaduto negli ultimi decenni. Il messaggio che porta
con sè il valore segnaletico incorporato nel prezzo dell’oro sta cercando di
dirci questo e niente altro. I banchieri centrali naturalmente non ascoltano e
continuano a vendere le loro riserve laddove l'unica via di scampo dalla crisi
sarebbe, forse, ricostituirle. Prima che sia troppo tardi.
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