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INDICE ARTICOLI

 

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Finanza italiana - Crack e scandali

Scandali Italia: prima mi presto i soldi e poi ti rovino

Scandali USA

Scandali USA: la grande fuga dai fondi,bruciati 17 ..

Scandali USA - mercato creditizio

Scandali USA: Freddie Mac, utili sottostimati per 5 ..

FED e mercato creditizio

E' la FED l'artefice di questa bolla creditizia

Macro USA - situazione e previsioni

USA: una crescita col punto interrogativo

 

+++  Euro, di record in record  ---   Sfonda quota 1,91 e si prepara all'attacco di 1,20  ---  Trichet mette in guardia sul rispetto del Patto  +++

sabato  01  novembre  2003    mercoledì  19  novembre  2003    sabato  29  novembre  2003 
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  Scandali Italia: prima mi presto i soldi e poi ti rovino

16 Novembre 2003 21:11 Milano (di Maurizio Tortorella)

Come poteva mancare la Enron? No, non poteva. E infatti c'è anche il mostruoso crac della società elettrica americana di Kenneth Lay nelle 53 pagine con cui la procura di Brescia ha appena chiuso le indagini sullo scandalo della Bipop-Carire, banca nata dalla fusione tra Popolare di Brescia e Cassa di Reggio Emilia.

Quelle dedicate alla Enron sono poche righe, nella descrizione del disastro bancario tracciata dai pubblici ministeri bresciani Giancarlo Tarquini, Antonio Chiappani e Silvia Bonardi, ma servono per meglio chiarire le attività di quello che i tre pubblici ministeri chiamano un «comitato occulto d'affari». Perché gli inquirenti, che dopo due anni di inchiesta ora stanno per chiedere il rinvio a giudizio per 45 indagati, fra le tante operazioni di finanza allegra imputate al management della Bipop-Carire, e sistematicamente nascoste a investitori e azionisti, hanno accertato anche un'esposizione di 50 milioni di euro nei confronti di 50 società a rischio, fra le quali proprio la Enron. I reati ipotizzati dalla procura bresciana sono molti e gravi. Si sale dall'aggiotaggio al falso, dall'appropriazione indebita all'associazione per delinquere, che finora era stata utilizzata nel settore soltanto per il crac del Banco ambrosiano.

Per i suoi colpi di scena lo scandalo Bipop-Carire sembra quasi un giallo di Agatha Christie. Anzi, assomiglia proprio ad Assassinio sull'Orient Express: perché c'è il cadavere, c'è un treno che s'è fermato sotto la valanga e c'è perfino un investigatore che s'è visto passare davanti l'assassino. La soluzione del giallo, adesso, dovranno trovarla i giudici bresciani: dovranno dire chi ha ucciso la Bipop-Carire, un istituto di credito che fino a due anni fa correva come un treno e che è finito acquisito dal gruppo Capitalia. E forse dovranno stabilire perché mai Hercule Poirot, cioè la Banca d'Italia, non si sia accorto di nulla pur viaggiando su quello stesso convoglio.

Iniziata con la fusione tra i due istituti di Brescia e di Reggio nell'estate del 1999, la storia della Bipop-Carire descrive la classica parabola di una «banca dei miracoli» che cresce a dismisura e alla fine esplode in una bolla di sapone. A guidarla, negli anni del boom, si alternano due dei 45 indagati di oggi: il bresciano Bruno Sonzogni, ex parà della Folgore, e il romano Maurizio Cozzolini. Per tutti, i due amministratori delegati sono veri geni della finanza. Lanciata sui sentieri dorati della new economy, la Bipop-Carire acquista banche e società. Spesso prevale la megalomania.

Un'operazione per tutte: nel 2000 Sonzogni compra per 2,5 miliardi di euro la tedesca Entrium, una «banca sul web». Nel marzo di quell'anno, al vertice della quotazione di 12,6 euro per azione, la Bipop-Carire vale oltre 20 miliardi d'euro: come la Fiat.

Poi la finanza via internet rallenta, si ferma, e cominciano le difficoltà per chi ci ha investito tanto. I primi scricchiolii di bilancio risalgono alla fine dell'estate 2001. Quindi un esposto dell'Adusbef, l'Associazione per la difesa degli utenti di servizi bancari e finanziari, denuncia alla procura di Brescia gravi irregolarità: «Ci viene segnalato» riferisce Elio Lannutti, presidente dell'Adusbef, «che esiste una lista di clienti privilegiati della banca: ottengono affidamenti miliardari. E i soldi, in parte, servono per acquistare azioni della Bipop-Carire e tenerne artificialmente alto il prezzo».

La situazione precipita. Nell'ottobre 2001 parte l'inchiesta giudiziaria. Intanto la Kpmg, società di revisione, boccia i bilanci della Bipop-Carire: è la prima volta, tanto che ora i pm bresciani ipotizzano che i consulenti della stessa Kpmg, per troppo tempo, abbiano «limitato la propria analisi a mero e acritico recepimento dei dati forniti dalla banca».

Nei conti, improvvisamente, emergono le perdite, si scoprono sofferenze e ammanchi. Passano i mesi e migliaia di risparmiatori possono solo piangere sui soldi versati. Nel 2002 l'istituto viene inglobato nel gruppo bancario Capitalia. Infine l'azione Bipop-Carire viene cancellata da Piazza Affari.

Oggi, sulla base di 80 mila pagine fra documenti e testimonianze, i pm si sono convinti che in due anni i 45 indagati e il loro «occulto comitato d'affari» abbiano saccheggiato la banca: cercando di arginare il crollo della new economy eseguivano spericolate operazioni sui future per somme quasi pari a 5 mila miliardi di lire al giorno; e i clienti «garantiti», spesso gli stessi manager inquisiti, avrebbero ottenuto centinaia di milioni d'euro senza garanzie.

Uno degli indagati, il bresciano Mauro Ardesi, si difende con i denti: è stato il primo azionista privato della banca, con il 9 per cento, ma è uscito dal consiglio d'amministrazione alla fine del 2000. Assistito dal penalista Gian Piero Biancolella, Ardesi sostiene di essere la principale vittima dello scandalo. Perché, dice, è stato «tirato dentro» nell'acquisizione Entrium, indebitandosi per mille miliardi di lire e consegnando tutte le sue azioni in pegno alla Banca popolare di Milano. Ardesi, però, si era impegnato anche a non venderle per due anni. Questo impedimento, con il successivo crollo di borsa, gli ha strappato l'intero patrimonio.

Intanto, mentre sta per partire la richiesta di rinvio a giudizio penale e l'Adusbef ha già ricevuto un mandato da 4.800 risparmiatori che vogliono costituirsi parte civile contro i futuri imputati, a Brescia sono state avviate decine di cause civili contro il gruppo Capitalia, in quanto «erede» del buco. L'avvocato Antonio Tanza da solo ne segue una cinquantina: «So che anche la Capitalia vuole essere parte civile nel processo penale» dice. «Bene. A me, per ora, si sono rivolti oltre 600 risparmiatori danneggiati. Anche noi chiederemo risarcimenti, ma credo che sarà la Capitalia a pagarli».

Resta il capitolo Banca d'Italia. I pm bresciani accusano 32 manager della Bipop-Carire di avere «sistematicamente omesso e occultato» la verità dei conti alle autorità di controllo. Prima dello scandalo, la Banca d'Italia aveva condotto un'ispezione nel 1997. Dopo la denuncia delle malversazioni, una nuova ispezione era partita nell'ottobre 2001 e si era conclusa nell'aprile 2002 con «un giudizio nettamente negativo sulla gestione».

Ma c'è chi ora attacca anche l'istituto centrale. L'accusa non è da poco: omessa vigilanza. «In via Nazionale» sostiene Lannutti «si conosceva lo scandalo Bipop-Carire sei mesi prima che scoppiasse: l' 11 aprile 2001 il vertice della vigilanza di Bankitalia si era incontrato con tre ex consiglieri reggiani della banca». Perché, chiede l'Adusbef, non è stato fatto nulla già allora? È un giallo nel giallo. Ci vorrebbe davvero un Poirot.

 

 

 

 

 

I numeri di un disastro

16 Novembre 2003 21:11 Milano (di Maurizio Tortorella)

 

Le principali cifre del disastro Bipop-Carire contenute nelle accuse della procura di Brescia

2,58 miliardi di euro il valore quotidiano di rischiose operazioni speculative sui future, eseguite dalla Bipop-Carire e nascoste alla Banca d'Italia.

536 milioni di euro il buco improvvisamente scoperto nei bilanci dell'istituto alla fine del 2001.

250 i clienti vip delle gestioni patrimoniali della banca, tra i quali anche la Caritas bresciana, cui venivano garantiti rendimenti elevati per gonfiare la raccolta.

490 i milioni di euro concessi nel 2001 senza garanzie a 10 tra clienti e amministratori della banca stessa.

94 i milioni di euro erogati dalla banca nel solo giugno 2000 a una serie di clienti e amministratori, allo scopo occulto di acquistare azioni della Bipop-Carire per sostenerne il prezzo.

  

Panorama

 

   

 

 

        

  Scandali USA: la grande fuga dai fondi,bruciati 17 mld $

11 Novembre 2003   11,14   New York  (ANSA)

 

Le compravendite azionarie irregolari compiute da diversi fondi di investimento e finite al centro dell'attenzione della Sec e della Procura di New York sono già costate svariati miliardi di dollari alle società del settore. 

A poco più di due mesi dall'apertura ufficiale delle indagini sulle procedure di 'late trading' e 'timing' avviate dalla Procura di New York e dall'Authority di controllo della Borsa, gli investitori americani - feriti dall'ennesimo scandalo abbattutosi sullo loro teste - hanno iniziato a ritirare le somme investite nei fondi, facendo sparire dalle casse delle aziende coinvolte non meno di 17 miliardi di dollari (circa 34.000 miliardi di vecchie lire). A soffrire maggiormente del dietrofront degli investitori statunitensi è stato, sino ad ora, Putnam Investments: il quinto fondo dell'Unione ha visto volatilizzarsi ben 14 miliardi di dollari solo nella prima settimana di novembre. L'ingente somma è stata ritirata dalle sue casse in seguito alla chiamata in giudizio per frode da parte dello Stato del Massachusetts e dalla Sec lo scorso 28 ottobre: al termine della prima settimana di novembre, il patrimonio gestito da Putnam Investments è ammontato a 263 miliardi di dollari (171 infondi e 82 in asset istituzionali), mentre alla conclusione del mese precedente era a 277 miliardi di dollari ( 175 in fondi e 92 in asset istituzionali). 

Tra gli investitori più adirati e quindi tra i più lesti a ritirare dollari da Putnam  Investments diversi fondi pensione statali guidati da quello del Massachusetts che ha riportato a casa la somma di 1,7 miliardi di dollari. Sulla sua scia, nonostante Putnam abbia sempre negato ogni addebito, si sono mossi anche il Vermont, il Rhode Island, lo Iowa, la Pennsylvania e il Texas. Se Putnam piange, anche altri fondi di investimento non hanno di che ridere. Gli investitori colpiti dallo scandalo, infatti,hanno sottratto circa 3,1 miliardi di dollari complessivi ad altri quattro protagonisti del settore come Alliance CapitalManagement, AmvestCap, Federated Investment e Janus. Nel dettaglio, Alliance Capital ha visto uscire dal proprioportafoglio 391 milioni di dollari, AmvesCap 1,6 miliardi di dollari mentre Federated Investments 113 milioni di dollari e Janus 971 milioni di dollari. 

Intanto, sempre sul fronte dei fondi di investimento,proseguono serrate le indagini della Procura di New York e della Sec, le quali stanno stringendo il cerchio intorno a StrongCapital e al suo fondatore Richard Strong, titolare del 90%della società. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, infatti, la Procura guidata da Eliot Spitzer è pronta ad aprire - al più tardi nelle prossime settimane - un'azione legale di natura penale nei confronti del fondo e dello stesso Strong il quale è indagato con l'accusa di avere ottenuto profitti per almeno 600.000 dollari attraverso pratiche di compravendita azionaria compiute fuori dai limiti temporali stabiliti dalla legge. Strong - che il 2 novembre scorso ha abbandonato la carica di presidente del fondo - rischia di essere il primo top manager ad essere incriminato penalmente da parte della Procura la quale - come riporta il quotidiano newyorchese - dovrebbe essere seguita a ruota dalla Sec attesa a presentare una causa in sede civile.

11 Novembre 2003   11,14   NEW YORK  (ANSA)

 

 

 

 

lunedì  03  novembre  2003    venerdì  07  novembre  2003    sabato  08  novembre  2003  
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  Scandali USA: Freddie Mac, utili sottostimati per 5 mld $

21 Novembre 2003 13:14 (ANSA-BLOOMBERG)

 

Freddie Mac, la società statunitense che è numero 2 negli Usa nel comparto dei prestiti immobiliari, ha ufficialmente comunicato l' esito del restyling dei conti effettuato dopo che sono scattate, nei mesi scorsi, le inchieste a suo carico per irregolarità nei bilanci. Dai risultati di questa verifica è emersa una sottovalutazione degli utili per un importo pari a cinque miliardi di dollari, superiore alle previsioni a suo tempo formulate dalla stessa società secondo cui i profitti sarebbero stati sottostimati per un importo pari a 1,5-4,5 miliardi. La vicenda relativa a Freddie Mac ha sollevato un polverone negli Stati Uniti, con riferimento ai controlli cui sono assoggettati questo tipo di società, considerati da più parti insufficienti.

  La revisione dei conti che ha portato ad accertare appunto cinque miliardi di dollari in più di utili fa riferimento agli ultimi tre esercizi annuali. Lo scandalo di cui è stata protagonista Freddie Mac ha portato fra l' altro all' estromissione dalla società di due chief executive officer, di un direttore e del responsabile finanziario, travolti dalle polemiche che hanno fatto seguito alle inchieste. A seguito della revisione dei bilanci la società ha inoltre comunicato che le riserve aumenteranno di 6,7 miliardi di dollari. La vicenda ha avuto come conseguenza un' accelerazione delle spinte in seno al Congresso statunitense per far approvare una riforma in questo delicato settore, che vede come numero 1 la rivale di Freddie Mac, cioé Fannie Mae. Entrambe queste società gestiscono circa il 42% del mercato dei prestiti ipotecari negli Stati Uniti, un settore che continua a vivere una situazione estremamente florida, contestualmente al continuo 'boom' degli immobili. In pratica, queste società conseguono un guadagno che deriva a sua volta dalla differenza fra gli oneri legati al rendimento delle emissioni obbligazionarie collocate sul mercato e gli interessi percepiti sui crediti immobiliari. Le irregolarità contabili sono venute alla luce in quanto questo tipo di società, una sorta di Agenzie governative, fanno ricorso all' utilizzo di strumenti derivati, allo scopo di attenuare l' impatto derivante dalle oscillazioni dei tassi d' interesse. Proprio il ricorso ai derivati ha fatto sì che l' andamento dei profitti iscritti a bilancio in questo caso risultasse inferiore a quello

 

               21 Novembre 2003 13:14 (ANSA-BLOOMBERG)

 

 

 

  E' la FED l'artefice di questa bolla creditizia

02 Novembre 2003   21:18  New York  (Us Equity & Macro Lab)

 

All’incirca due anni fa, come punto di partenza della nostra ricerca ponemmo un’economia americana fortemente sbilanciata nei propri aggregati, non ancora in grado di riemergere, a differenza di quello che allora sostenevano le analisi e le opinioni di mainstream, dal rallentamento economico che aveva interessato i primi tre trimestri dell’anno 2001. Identificammo la causa di quegli squilibri nella più forte espansione creditizia di tutti i tempi. Il materializzarsi della bolla speculativa del mercato azionario, per dimensioni e capitali coinvolti ben superiore a tutti i casi precendenti, aveva di gran lunga contribuito ad aggravare gli squilibri prodotti nel corso del boom. Coerentemente all’analisi austriaca del ciclo economico, tali squilibri avrebbero dovuto portare a un necessario riaggiustamento delle variabili coinvolte attraverso un periodo di recessione ed eventualmente di depressione economica.

Per quanto negli ultimi tre anni le naturali forze economiche abbiano effettivamente spinto lungo questa direzione, l’opposizione di forti politiche monetarie e fiscali è riuscita nell'intento di realizzare almeno due chiari obiettivi.

Il primo è stato quello di evitare che un disordinato processo di correzione del mercato azionario potesse causare al sistema economico uno shock difficilmente gestibile. 

Il secondo è stato quello di contenere al minimo, caratterizzandolo tuttavia in maniera estremamente anomala, il periodo di recessione economica che non solo sarebbe stato naturale attendersi alla luce delle analisi compiute, ma che sarebbe stato anche necessario per ripristinare quelle condizioni economiche in grado di poter dare vita a nuovo ciclo espansivo.

Tuttavia, questo pesante interventismo nei processi dinamici di mercato, pur avendo alleggerito i costi generalmente richiesti da una fase di post-boom, non ha risolto gli squilibri e i problemi analizzati a suo tempo. Li ha invece aggravati ulteriormente, amplificandoli ed estendendoli all’intero sistema economico mondiale, secondo una direzione mai sperimentata in precedenza.

All'interno di un sistema monetario puramente cartaceo, capace di estendere oltre i limiti tradizionali le proprie promesse di pagamento legate alla creazione della propria moneta fiduciaria e di tutti i suoi derivati, questo nuovo corso di sviluppo è stato favorito e reso possibile da due fattori principali:

• il virtuoso, benché in tal caso malamente impiegato, processo di globalizzazione economica da un lato,

• le sorprendenti risorse di un sistema finanziario sempre più aggressivo e prolifico di innovazione, dall’altro.

In questo contesto, pertanto, la nostra chiave principale di lettura è rimasta ancora estremamente valida e quindi pressochè immutata. Non solo, coinvolgendo oramai un caso di portata ben più ampia e profonda di quello originariamente preso in considerazione, l'indagine che abbiamo modo di sviluppare di giorno in giorno ha sicuramente trovato stimoli nuovi e decisamente più interessanti .

Allo stesso tempo, l’approfondimento della teoria economica Austriaca (di Menger, Bohm Bawerk, Von Mises, Hayek, Rothbard per citarne solo gli esponenti storici più rilievanti), è divenuta primaria fonte di arricchimento per le nostre analisi, tale da porsi non solo come indispensabile punto di riferimento ma anche come nuovo e diretto campo di indagine da percorrere accanto al nostro consueto lavoro. Siamo sicuri che nel prossimo futuro, anche e soprattutto al di fuori di questo modesto spazio, la teoria economica Austriaca sia destinata a ricevere molta più considerazione di quella purtroppo riservatagli fino ad oggi.

I principali campi di investigazione pratica finora seguiti in questa sede, ai quali si sono affiancati e continueranno quindi ad affiancarsi con maggiore intensità contributi di natura teorica, possono essere suddivisi in quattro grandi aree: mercato azionario, mercato dei tassi, mercato valutario ed economia reale. Vediamo di ripercorrerli velocemente alla luce degli sviluppi intervenuti nelle ultime settimane.

Come prossimamente avremo modo di analizzare più in dettaglio, ancora una volta la ripresa economica americana si presenta come una ottima operazione di cosmetica che trova da un lato le proprie basi sul massiccio ricorso all’indebitamento e, dall'altro, il proprio forte nelle componenti consumi e spesa pubblica. Per il resto essa rimane caratterizzata da una bassa crescita del reddito, dalla persistenza di un alto livello di disoccupazione (non ingannino a tal proposito le statistiche americane di natura ben differente da quelle europee e soggette peraltro a continue revisioni al ribasso dei dati forniti in precedenza) e dalla carenza di investimenti tangibili sul territorio americano.

La spinta che sembra avere rilanciato l’economia americana (e che le impedisce allo stesso tempo quei riaggiustamenti propedeutici a una nuova sana fase di crescita) viene alimentata quindi dal consumo del reddito futuro e dal consumo del reddito straniero, come continuano a confermare rispettivamente la crescita esponenziale del debito domestico e l’enorme deficit delle partite correnti. Allo stesso tempo essa riesce a realizzarsi grazie alla espansione della credit bubble che nel corso degli ultimi dodici mesi ha avuto modo di sperimentare una nuova e straordinaria fase di crescita assimilabile, e per certi versi ancora più potente ed efficace, di quella degli anni novanta.

All’atto pratico questa intera dinamica si traduce per gli americani in un consumo di ricchezza superiore a quello realmente prodotto, ovvero in un impoverimento graduale sia degli operatori economici domestici che della struttura economica interna, la sopravvivenza della quale, in assenza di altri aggiustamenti, continua a spingere verso l’esportazione in terra straniera (India e paesi asiatici) sia dei posti di lavoro che degli investimenti reali. Un istinto alla sopravvivenza ben poco lungimirante che si priva delle stesse fonti di reddito future necessarie al proprio sostegno e che riflette la chiara volontà di continuare a vivere ben al di sopra dei propri mezzi e delle proprie possibilità.

E’ stata l’imprevedibile accelerazione della credit bubble, favorita dall’innovazione ma consentita dall’assenza di ogni vincolo di controllo sul sistema monetario cartaceo, ad avere permesso per la prima volta nella storia il prolungamento spazio-temporale del boom di natura creditizia sperimentato negli anni novanta, i cui effetti e le cui conseguenze saranno da esaminare contestualmente secondo due piani di ricerca, quello interno al sistema economico americano dove essa stessa ha origine e quello esterno, a livello di economia globale, sul quale inevitabilmente si ripercuote.

Dopo avere portato a valutazioni estreme sia il mercato obbligazionario che il mercato immobiliare, a livello domestico l'espansione della credit bubble è riuscita quest'anno a rilanciare una nuova fase di ottimismo e fiducia che sul mercato azionario si è tradotta velocemente nell'emersione di fenomeni speculativi del tutto analoghi a quelli di fine anni novanta.

A livello globale essa ha avuto il virtuoso effetto di riuscire a moltiplicare e quindi a riversare la propria liquidità praticamente su ogni altro sistema economico, con effetti spesso non dissimili a quelli sperimentati internamente, persino nelle economie fino a un anno fa considerate a rischio.

Due fattori sono potenzialmente in grado di arrestare lo sviluppo di questa pericolosa recrudescenza della credit bubble. In primo luogo la discesa del dollaro, oramai in un ben definito canale ribassista, e in secondo luogo il rialzo dei tassi di mercato, processo iniziato, come già visto, all’inizio di questa estate. Tuttavia in entrambi i casi si è assistito alla pronta opposizione di forze artificiali che pur riuscendo ad appianare le cose (in altre parole, ad evitare il peggio) hanno continuato ad impedire al mercato il proprio ruolo di aggiustamento e correzione degli squilibri in essere.

Per quanto riguarda il dollaro, così come a suo tempo la FED era riuscita a gestire l'ordinata discesa del mercato azionario, il sostegno dei paesi asiatici è stato e continua ad essere determinante nella ordinata discesa del dollaro. Come si è effettivamente riscontrato durante l’anno in corso, l’acquisto di dollari da parte dei paesi asiatici con un surplus commerciale verso gli USA, in misura tanto maggiore quanto più esso tende a perdere valore, mantiene in effetti un profilo costi benefici che ancora tende dalla parte di questi ultimi. Il senso di questa attività in forte perdita (si pensi come parallelo alla infelice posizione di un acquirente di azioni che continua a mediare al ribasso un titolo in caduta libera) trova infatti un corrispettivo più che adeguato nei benefici che ne derivano in termini di produzione e vendita dei propri prodotti al consumatore americano.

Nel complesso questo rapporto continua a sostenere lo sviluppo disarmonico di una economia mondiale sempre più marcatamente squilibrata tra paesi produttori e paesi consumatori. Comune denominatore di tutti i partecipanti a questa netta divisione dei ruoli una valuta sempre più debole ma sempre più presente destinata a perdere ulteriore terreno sia nei confronti delle altre valute che verso le principali materie prime. Come era prevedibile, infatti, il dollaro continua a perdere potere d’acquisto su quasi tutti i mercati a danno di tutti i partecipanti al gioco, tranne naturalmente l'emittente originario della moneta fiduciaria in questione. I problemi a nostro avviso emergeranno quando questi danni cominceranno a superare i benefici del consumatore americano, costretto presto o tardi a reinserire la parola risparmio nel proprio dizionario, o quelli del produttore asiatico, costretto presto o tardi a valutare i rischi associati alla propria egoistica generosità.

Per quanto riguarda invece i tassi di interesse, le naturali spinte verso una riduzione effettiva della liquidità, oltre ad essere state contenute dalle dinamiche del punto precedente, hanno presto trovato una soluzione nella iperattività delle agenzie americane impegnate nel settore dei mutui immobiliari. Il violento strappo al rialzo dei tassi di mercato, che a luglio aveva colto di sorpresa molti operatori, ha avuto modo in questi mesi di forzare la mano della FED verso un rialzo dei tassi di breve periodo, come oramai sconta tutta la curva implicita nella strip di futures dell’euro-dollar deposit. Le aspettative in merito a tale futuro restringimento del credito hanno avuto già avuto qualche ripercussione sugli aggregati monetari, come dimostra il trend al ribasso registrato nelle ultime settimane (-37 B pari a un -1,9% annualizzato della M3 nelle ultime 12 settimane), tuttavia esse hanno trovato un contrappeso ancora più significativo proprio ad opera delle agenzie Fannie Mae e Freddie Mac.

Come riporta Doug Noland nel suo ultimo Credit Bubble Bulletin, queste due agenzie di sponsorizzazione governativa che operano nel mercato dei mutui immobiliari sono riuscite di recente a sostituire il ruolo della FED come principale creatore di nuova liquidità e prestatore di ultima istanza: nel trimestre che va da luglio a settembre Fannie Mae e Freddie Mac hanno complessivamente aumentato i propri Retained Mortgage Portfolios di ben 160 B di dollari (+46% annualizzato), di cui ben la metà solo nel mese di settembre. Una iniezione di liquidità non registrata dagli aggregati monetari che ha più che compensato la contrazione degli stessi.

In questo secondo caso i problemi emergeranno all’effettivo materializzarsi del rialzo dei tassi di interesse da parte della FED, quando i diversi operatori alla ricerca sia di nuova liquidità che di strategie di copertura del rischio potrebbe creare non pochi problemi a un sistema finanziario pesantemente e unidirezionalmente esposto al rischio di interesse attraverso gli attuali 140 trilioni nominali di strumenti derivati in essere. Tanto più che queste dinamiche inevitabilmente si intrecceranno con quelle legate al processo di svalutazione del dollaro.

In conclusione, il prolungato sostegno della credit bubble al formarsi di aspettative che vanno oltre le reali possibilità del sistema economico, nonché le dinamiche reali messe in moto dallo stesso processo di accelerazione della credit bubble, hanno posto nuovamente le basi per un downturn economico ancora più pericoloso del precedente, nel quale gli spazi per l’interventismo a salvataggio del sistema finanziario ed economico saranno molto più ridotti rispetto a quelli disponibili tre anni fa, e questo a fronte di squilibri ben maggiori di quelli di allora.

Us Equity & Macro Lab

 

 

 

giovedì  13  novembre  2003     domenica  16  novembre  2003    martedì  18  novembre  2003 
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  USA: una crescita col punto interrogativo

02 Novembre 2003   17:35   Lugano  (di Alfonso Tuor)

 

L’economia statunitense è cresciuta allo strabiliante ritmo del 7,2% nel terzo trimestre di quest’anno. Questo dato, nettamente superiore alle più rosee aspettative, suffraga le previsioni di istituti di ricerca, analisti finanziari ed economisti che danno ormai per certo che l’attuale ripresa dell’economia statunitense sfocerà in una crescita solida e duratura, talmente forte da riuscire a rilanciare anche la boccheggiante economia europea.

È quindi legittimo domandarsi se effettivamente l’attuale forte espansione dell’economia americana segni la fine della crisi prodotta dallo scoppio della grande bolla speculativa formatasi nei mercati finanziari negli anni Novanta oppure se gli squilibri dell’economia americana e di quella mondiale siano destinati a frenare la crescita e a rimettere in discussione l’ottimismo oggi prevalente.

Non vi è alcun dubbio che l’attuale ripresa è il frutto di una politica economica tesa a rilanciare l’economia ad ogni costo e che la forte crescita del secondo e del terzo trimestre sono in gran parte da addebitare al taglio delle tasse attuato dall’amministrazione Bush e più in particolare ai rimborsi fiscali incassati in questo periodo dalle famiglie americane.

Quindi, questo rimbalzo della crescita economica conferma la «potenza» degli impulsi della politica fiscale, che ultimamente erano stati messi in dubbio da molti economisti, ma non fornisce ancora la certezza che sia stato messo in moto un meccanismo economico in grado di sostenere nel tempo la crescita americana. Per essere più chiari, resta aperto il dilemma se oggi l’economia statunitense è assimilabile ad una economia «drogata» da potenti dosi di anfetamine, che quindi è destinata ad afflosciarsi non appena se ne esauriranno gli effetti, oppure se questa cura da cavallo ha messo in moto un processo virtuoso in grado di sostenersi nel tempo.

La risposta di martedì scorso della banca centrale statunitense non è rassicurante. Se si eccettua il giudizio di un mercato del lavoro che tende a stabilizzarsi e non più ad indebolirsi, la Federal Reserve ha chiaramente dichiarato che il «paziente USA» è ancora bisognoso di attente e forti cure, per cui non ha alcuna intenzione di muovere i tassi di interesse per un «considerevole periodo di tempo».

La Fed ha addirittura sorprendentemente ribadito che i pericoli di una caduta del livello dei prezzi, ossia di deflazione, restano ancora superiori a quelli di un loro aumento. Il giudizio di Alan Greenspan è stato interpretato come un ennesimo tentativo di influenzare l’evoluzione dei tassi a lungo termine che negli ultimi tempi si erano mossi al rialzo.

È innegabile che questo sia uno degli obiettivi della Fed, ma è altrettanto innegabile che la banca centrale americana vuole che il costo del denaro rimanga molto basso, poiché teme che l’economia americana non sia oggi in grado di sopportare un aumento dei tassi di interesse, che li riporterebbe unicamente a un livello normale in una fase di forte ripresa economica. E le preoccupazioni di Greenspan appaiono giustificate.

Un rialzo del costo del denaro potrebbe, da un canto, frenare la voglia di spendere delle famiglie americane, che sono in misura crescente fortemente indebitate, e potrebbe allungare ulteriormente il processo di risanamento dei bilanci di imprese, appesantite dalla permanenza di forti sovraccapacità produttive e in molti casi da alti livelli di indebitamento, e, quindi, di rinviare ulteriormente quegli investimenti aziendali che dopo anni di forte caduta hanno ripreso a salire solo ultimamente.

Ma c’è di più, la ripresa americana comporta inevitabilmente un aumento delle importazioni e quindi, un peggioramento del disavanzo commerciale statunitense. Questo disavanzo non è destinato ad essere alterato sostanzialmente dallo shopping di beni americani che attueranno nelle prossime settimane le aziende cinesi con lo scopo di allentare le tendenze protezionistiche statunitensi o da legislazioni, lesive degli accordi del WTO, come il «Buy America», che impone al Pentagono di comprare solo prodotti americani senza componenti provenienti dall’estero.

Tutto lascia intendere che vi è una ferma volontà politica di arrivare a tutti i costi all’appuntamento delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo con una economia in crescita e, quindi, di utilizzare tutti i «cerotti» possibili per rinviare l’emergere di situazioni di crisi dovute agli squilibri interni ed esterni dell’economia statunitense.

Tra questi «cerotti» figurano anche la formazione di una nuova bolla speculativa nei mercati finanziari, che già oggi appaiono sopravvalutati, e l’uso della leva del tasso di cambio del dollaro. Vi è più di un motivo per dubitare del successo a medio termine di questa «scommessa».. Infatti qualsiasi evento non previsto può mettere all’improvviso in forse la volontà del resto del mondo di finanziare un paese che vanta un debito estero netto pari al 29% del suo Pil e un disavanzo della bilancia delle partite correnti superiore al 5%.

Per questi motivi, un aggiustamento è inevitabile e quindi l’unico interrogativo è quando e come si manifesterà. Quindi, il tasso di crescita registrato dall’economia statunitense nel terzo trimestre di quest’anno, che comunque sarà rivisto al ribasso, non fornisce alcuna certezza sulla sostenibilità nel tempo della crescita statunitense, poiché essa è alimentata sostanzialmente dal consumo di reddito futuro e di reddito straniero, come confermano la forte crescita del debito interno e di quello commerciale.

Tutto ciò dà maggior forza all’ipotesi che in realtà stiamo assistendo ad una riedizione dell’economia della bolla degli anni Novanta, in cui gli Stati Uniti sono disposti a creare nuove bolle per attutire gli effetti dello scoppio di quelle precedenti. In questo modo si guadagna solo tempo al prezzo però di un più pesante appuntamento con la realtà.

 

 Corriere del Ticino