|
|
 |
|
 |
|
|
. |
|
|
Scandali Italia: prima
mi presto i soldi e poi ti rovino
16
Novembre 2003 21:11 Milano (di Maurizio
Tortorella)
Come poteva mancare la
Enron? No, non poteva. E infatti c'è anche il mostruoso
crac della società elettrica americana di Kenneth Lay nelle 53 pagine con cui
la procura di Brescia ha appena chiuso le indagini sullo scandalo della
Bipop-Carire, banca nata dalla fusione tra Popolare di Brescia e Cassa di Reggio
Emilia.
Quelle
dedicate alla Enron sono poche righe, nella descrizione del disastro bancario
tracciata dai pubblici ministeri bresciani Giancarlo Tarquini, Antonio Chiappani
e Silvia Bonardi, ma servono per meglio chiarire le attività di quello che i
tre pubblici ministeri chiamano un «comitato occulto d'affari». Perché gli
inquirenti, che dopo due anni di inchiesta ora stanno per chiedere il rinvio a
giudizio per 45 indagati, fra le tante operazioni di finanza allegra imputate al
management della Bipop-Carire, e sistematicamente nascoste a investitori e
azionisti, hanno accertato anche un'esposizione di 50 milioni di euro nei
confronti di 50 società a rischio, fra le quali proprio la Enron. I reati
ipotizzati dalla procura bresciana sono molti e gravi. Si sale dall'aggiotaggio
al falso, dall'appropriazione indebita all'associazione per delinquere, che
finora era stata utilizzata nel settore soltanto per il crac del Banco
ambrosiano.
Per
i suoi colpi di scena lo scandalo Bipop-Carire sembra quasi un giallo di Agatha
Christie. Anzi, assomiglia proprio ad Assassinio sull'Orient Express: perché c'è
il cadavere, c'è un treno che s'è fermato sotto la valanga e c'è perfino un
investigatore che s'è visto passare davanti l'assassino. La soluzione del
giallo, adesso, dovranno trovarla i giudici bresciani: dovranno dire chi ha
ucciso la Bipop-Carire, un istituto di credito che fino a due anni fa correva
come un treno e che è finito acquisito dal gruppo Capitalia. E forse dovranno
stabilire perché mai Hercule Poirot, cioè la Banca d'Italia, non si sia
accorto di nulla pur viaggiando su quello stesso convoglio.
Iniziata
con la fusione tra i due istituti di Brescia e di Reggio nell'estate del 1999,
la storia della Bipop-Carire descrive la classica parabola di una «banca dei
miracoli» che cresce a dismisura e alla fine esplode in una bolla di sapone. A
guidarla, negli anni del boom, si alternano due dei 45 indagati di oggi: il
bresciano Bruno Sonzogni, ex parà della Folgore, e il romano Maurizio Cozzolini.
Per tutti, i due amministratori delegati sono veri geni della finanza. Lanciata
sui sentieri dorati della new economy, la Bipop-Carire acquista banche e società.
Spesso prevale la megalomania.
Un'operazione
per tutte: nel 2000 Sonzogni compra per 2,5 miliardi di euro la tedesca Entrium,
una «banca sul web». Nel marzo di quell'anno, al vertice della quotazione di
12,6 euro per azione, la Bipop-Carire vale oltre 20 miliardi d'euro: come la
Fiat.
Poi
la finanza via internet rallenta, si ferma, e cominciano le difficoltà per chi
ci ha investito tanto. I primi scricchiolii di bilancio risalgono alla fine
dell'estate 2001. Quindi un esposto
dell'Adusbef, l'Associazione per la difesa
degli utenti di servizi bancari e finanziari, denuncia alla procura di Brescia
gravi irregolarità: «Ci viene segnalato» riferisce Elio Lannutti, presidente
dell'Adusbef, «che esiste una lista di clienti privilegiati della banca:
ottengono affidamenti miliardari. E i soldi, in parte, servono per acquistare
azioni della Bipop-Carire e tenerne artificialmente alto il prezzo».
La
situazione precipita. Nell'ottobre 2001 parte l'inchiesta giudiziaria. Intanto
la Kpmg, società di revisione, boccia i bilanci della Bipop-Carire: è la prima
volta, tanto che ora i pm bresciani ipotizzano che i consulenti della stessa
Kpmg, per troppo tempo, abbiano «limitato la propria analisi a mero e acritico
recepimento dei dati forniti dalla banca».
Nei
conti, improvvisamente, emergono le perdite, si scoprono sofferenze e ammanchi.
Passano i mesi e migliaia di risparmiatori possono solo piangere sui soldi
versati. Nel 2002 l'istituto viene inglobato nel gruppo bancario
Capitalia.
Infine l'azione Bipop-Carire viene cancellata da Piazza Affari.
Oggi,
sulla base di 80 mila pagine fra documenti e testimonianze, i pm si sono
convinti che in due anni i 45 indagati e il loro «occulto comitato d'affari»
abbiano saccheggiato la banca: cercando di arginare il crollo della new economy
eseguivano spericolate operazioni sui future per somme quasi pari a 5 mila
miliardi di lire al giorno; e i clienti «garantiti», spesso gli stessi manager
inquisiti, avrebbero ottenuto centinaia di milioni d'euro senza garanzie.
Uno
degli indagati, il bresciano Mauro Ardesi, si difende con i denti: è stato il
primo azionista privato della banca, con il 9 per cento, ma è uscito dal
consiglio d'amministrazione alla fine del 2000. Assistito dal penalista Gian
Piero Biancolella, Ardesi sostiene di essere la principale vittima dello
scandalo. Perché, dice, è stato «tirato dentro» nell'acquisizione Entrium,
indebitandosi per mille miliardi di lire e consegnando tutte le sue azioni in
pegno alla Banca popolare di Milano. Ardesi, però, si era impegnato anche a non
venderle per due anni. Questo impedimento, con il successivo crollo di borsa,
gli ha strappato l'intero patrimonio.
Intanto,
mentre sta per partire la richiesta di rinvio a giudizio penale e l'Adusbef ha
già ricevuto un mandato da 4.800 risparmiatori che vogliono costituirsi parte
civile contro i futuri imputati, a Brescia sono state avviate decine di cause
civili contro il gruppo Capitalia, in quanto «erede» del buco. L'avvocato
Antonio Tanza da solo ne segue una cinquantina: «So che anche la Capitalia
vuole essere parte civile nel processo penale» dice. «Bene. A me, per ora, si
sono rivolti oltre 600 risparmiatori danneggiati. Anche noi chiederemo
risarcimenti, ma credo che sarà la Capitalia a pagarli».
Resta
il capitolo Banca d'Italia. I pm bresciani accusano 32 manager della
Bipop-Carire di avere «sistematicamente omesso e occultato» la verità dei
conti alle autorità di controllo. Prima dello scandalo, la Banca d'Italia aveva
condotto un'ispezione nel 1997. Dopo la denuncia delle malversazioni, una nuova
ispezione era partita nell'ottobre 2001 e si era conclusa nell'aprile 2002 con
«un giudizio nettamente negativo sulla gestione».
Ma
c'è chi ora attacca anche l'istituto centrale. L'accusa non è da poco: omessa
vigilanza. «In via Nazionale» sostiene Lannutti «si conosceva lo scandalo
Bipop-Carire sei mesi prima che scoppiasse: l'
11 aprile 2001
il vertice della vigilanza di Bankitalia si
era incontrato con tre ex consiglieri reggiani della banca». Perché, chiede l'Adusbef,
non è stato fatto nulla già allora? È un giallo nel giallo. Ci vorrebbe
davvero un Poirot.

I
numeri
di un disastro
16
Novembre 2003 21:11 Milano (di Maurizio
Tortorella)
Le
principali cifre del disastro Bipop-Carire contenute nelle accuse della
procura di Brescia
2,58
miliardi di euro il valore quotidiano di rischiose operazioni
speculative sui future, eseguite dalla Bipop-Carire e nascoste alla
Banca d'Italia.
536
milioni di euro il buco improvvisamente scoperto nei bilanci
dell'istituto alla fine del 2001.
250
i clienti vip delle gestioni patrimoniali della banca, tra i quali anche
la Caritas bresciana, cui venivano garantiti rendimenti elevati per
gonfiare la raccolta.
490
i milioni di euro concessi nel 2001 senza garanzie a 10 tra clienti e
amministratori della banca stessa.
94
i milioni di euro erogati dalla banca nel solo giugno 2000 a una serie
di clienti e amministratori, allo scopo occulto di acquistare azioni
della Bipop-Carire per sostenerne il prezzo.
Panorama
|
Scandali USA: la grande
fuga dai fondi,bruciati 17 mld $
11
Novembre 2003
11,14 New York
(ANSA)
Le compravendite
azionarie irregolari compiute da diversi fondi di investimento e finite al
centro dell'attenzione della Sec e della Procura di New York sono già costate
svariati miliardi di dollari alle società del settore.
A
poco più di due mesi dall'apertura ufficiale delle indagini sulle
procedure di 'late trading' e 'timing' avviate dalla Procura di New York e dall'Authority
di controllo della Borsa, gli
investitori americani - feriti dall'ennesimo scandalo abbattutosi sullo loro
teste - hanno iniziato a ritirare le somme investite nei fondi, facendo sparire
dalle casse delle aziende coinvolte non meno di 17 miliardi di dollari
(circa 34.000 miliardi di vecchie lire). A soffrire maggiormente del dietrofront
degli investitori statunitensi è stato, sino ad ora, Putnam Investments: il
quinto fondo dell'Unione ha visto volatilizzarsi ben 14 miliardi di dollari solo
nella prima settimana di novembre. L'ingente somma è stata ritirata dalle sue
casse in seguito alla chiamata in giudizio per frode da parte dello Stato del
Massachusetts e dalla Sec lo scorso 28 ottobre: al termine della prima settimana
di novembre, il patrimonio gestito da Putnam Investments è ammontato a 263
miliardi di dollari (171 infondi e
82
in
asset istituzionali), mentre alla conclusione del mese precedente era a 277
miliardi di dollari (
175
in
fondi e
92
in
asset istituzionali).
Tra
gli investitori più adirati e quindi tra i più lesti a ritirare dollari da
Putnam Investments diversi fondi pensione statali guidati da quello del
Massachusetts che ha riportato a casa la somma di 1,7 miliardi di dollari.
Sulla sua scia, nonostante Putnam abbia
sempre negato ogni addebito, si sono mossi anche il Vermont, il Rhode Island, lo
Iowa,
la
Pennsylvania
e il Texas. Se Putnam piange, anche altri fondi di investimento non hanno
di che ridere. Gli investitori colpiti dallo scandalo, infatti,hanno sottratto
circa 3,1 miliardi di dollari complessivi ad altri quattro protagonisti del
settore come Alliance CapitalManagement, AmvestCap, Federated Investment e Janus.
Nel dettaglio, Alliance Capital ha visto uscire dal proprioportafoglio 391
milioni di dollari, AmvesCap 1,6 miliardi di dollari mentre Federated
Investments 113 milioni di dollari e Janus 971 milioni di dollari.
Intanto,
sempre sul fronte dei fondi di investimento,proseguono serrate le indagini della
Procura di New York e della Sec, le quali stanno stringendo il cerchio intorno a
StrongCapital e al suo fondatore Richard Strong, titolare del 90%della società.
Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, infatti, la Procura guidata da
Eliot Spitzer è pronta ad aprire - al più tardi nelle prossime settimane -
un'azione legale di natura penale nei confronti del fondo e dello stesso Strong
il quale è indagato con l'accusa di avere ottenuto profitti per almeno 600.000
dollari attraverso pratiche di compravendita azionaria compiute fuori dai limiti
temporali stabiliti dalla legge. Strong - che il 2 novembre scorso ha
abbandonato la carica di presidente del fondo - rischia di essere il primo top
manager ad essere incriminato penalmente da parte della Procura la quale - come
riporta il quotidiano newyorchese - dovrebbe essere seguita a ruota dalla Sec
attesa a presentare una causa in sede civile.
11
Novembre 2003
11,14
NEW YORK
(ANSA)
Scandali USA: Freddie
Mac, utili sottostimati per 5 mld $
21
Novembre 2003 13:14 (ANSA-BLOOMBERG)
Freddie
Mac, la società statunitense che è numero 2 negli Usa nel comparto dei
prestiti immobiliari, ha ufficialmente comunicato l' esito del restyling
dei conti effettuato dopo che sono scattate, nei mesi scorsi, le
inchieste a suo carico per irregolarità
nei bilanci. Dai risultati di questa verifica è emersa una sottovalutazione
degli utili per un importo pari a cinque miliardi di dollari, superiore
alle previsioni a suo tempo formulate dalla stessa società secondo cui i
profitti sarebbero stati sottostimati per un importo pari a 1,5-4,5 miliardi. La
vicenda relativa a Freddie Mac ha sollevato un polverone negli Stati Uniti, con
riferimento ai controlli cui sono assoggettati questo tipo di società,
considerati da più parti insufficienti.
La
revisione dei conti che ha portato ad accertare appunto cinque miliardi di
dollari in più di utili fa riferimento agli ultimi tre esercizi annuali.
Lo scandalo di cui è stata protagonista Freddie Mac ha portato fra l' altro
all' estromissione dalla società di due chief executive officer, di un
direttore e del responsabile finanziario, travolti dalle polemiche che hanno
fatto seguito alle inchieste. A seguito
della revisione dei bilanci la società ha inoltre comunicato che le riserve
aumenteranno di 6,7 miliardi di dollari. La vicenda ha avuto come conseguenza
un' accelerazione delle spinte in seno al Congresso statunitense per far
approvare una riforma in questo delicato settore, che vede come numero 1 la
rivale di Freddie Mac, cioé
Fannie Mae. Entrambe queste società gestiscono circa il 42% del mercato dei
prestiti ipotecari negli Stati Uniti, un settore che continua a vivere
una situazione estremamente florida, contestualmente al continuo 'boom' degli
immobili. In pratica, queste società conseguono un guadagno che deriva a sua
volta dalla differenza fra gli oneri legati al rendimento delle emissioni
obbligazionarie collocate sul mercato e gli interessi percepiti sui crediti
immobiliari. Le irregolarità contabili
sono venute alla luce in quanto questo tipo di società, una sorta di Agenzie
governative, fanno ricorso all'
utilizzo di strumenti derivati,
allo scopo di attenuare l' impatto derivante dalle oscillazioni dei tassi d'
interesse. Proprio il ricorso ai derivati ha fatto sì che l' andamento
dei profitti iscritti a bilancio in questo caso risultasse inferiore a quello

21
Novembre 2003 13:14 (ANSA-BLOOMBERG)
E'
la FED
l'artefice
di questa bolla creditizia
02
Novembre 2003
21:18 New York
(Us
Equity
& Macro Lab)
All’incirca
due anni fa, come punto di partenza della nostra ricerca ponemmo un’economia
americana fortemente sbilanciata nei propri aggregati, non ancora in
grado di riemergere, a differenza di quello che allora sostenevano le analisi e
le opinioni di mainstream, dal rallentamento economico che aveva interessato i
primi tre trimestri dell’anno 2001. Identificammo
la causa di quegli squilibri nella più forte espansione creditizia di tutti i
tempi. Il materializzarsi della bolla speculativa del mercato azionario, per
dimensioni e capitali coinvolti ben superiore a tutti i casi precendenti, aveva
di gran lunga contribuito ad aggravare gli squilibri prodotti nel corso del
boom. Coerentemente all’analisi
austriaca del ciclo economico, tali squilibri avrebbero dovuto portare a un
necessario riaggiustamento delle variabili coinvolte attraverso un periodo di
recessione ed eventualmente di depressione economica.
Per
quanto negli ultimi tre anni le naturali forze economiche abbiano effettivamente
spinto lungo questa direzione, l’opposizione di forti politiche monetarie e
fiscali è riuscita nell'intento di realizzare almeno due chiari obiettivi.
Il
primo è stato quello di evitare che un disordinato processo di
correzione del mercato azionario potesse causare al sistema economico uno shock
difficilmente gestibile.
Il
secondo è stato quello di contenere al minimo, caratterizzandolo
tuttavia in maniera estremamente anomala, il periodo di recessione economica che
non solo sarebbe stato naturale attendersi alla luce delle analisi compiute, ma
che sarebbe stato anche necessario per ripristinare quelle condizioni economiche
in grado di poter dare vita a nuovo ciclo espansivo.
Tuttavia,
questo pesante interventismo nei processi dinamici di mercato, pur avendo
alleggerito i costi generalmente richiesti da una fase di post-boom,
All'interno
di un sistema monetario puramente cartaceo, capace di estendere oltre i limiti
tradizionali le proprie promesse di pagamento legate alla creazione della
propria moneta fiduciaria e di tutti i suoi derivati, questo nuovo corso di
sviluppo è stato favorito e reso possibile da due fattori principali:
•
il virtuoso, benché in tal caso malamente impiegato, processo di
globalizzazione economica da un lato,
•
le sorprendenti risorse di un sistema finanziario sempre più aggressivo e
prolifico di innovazione, dall’altro.
In
questo contesto, pertanto, la nostra chiave principale di lettura è rimasta
ancora estremamente valida e quindi pressochè immutata. Non solo, coinvolgendo
oramai un caso di portata ben più ampia e profonda di quello originariamente
preso in considerazione, l'indagine che abbiamo modo di sviluppare di giorno in
giorno ha sicuramente trovato stimoli nuovi e decisamente più interessanti .
Allo
stesso tempo, l’approfondimento della teoria economica Austriaca (di Menger,
Bohm Bawerk, Von Mises, Hayek, Rothbard per citarne solo gli esponenti storici
più rilievanti), è divenuta primaria fonte di arricchimento per le nostre
analisi, tale da porsi non solo come indispensabile punto di riferimento ma
anche come nuovo e diretto campo di indagine da percorrere accanto al nostro
consueto lavoro. Siamo sicuri che nel
prossimo futuro, anche e soprattutto al di fuori di questo modesto spazio, la
teoria economica Austriaca sia destinata a ricevere molta più considerazione di
quella purtroppo riservatagli fino ad oggi.
I
principali campi di investigazione pratica finora seguiti in questa sede, ai
quali si sono affiancati e continueranno quindi ad affiancarsi con maggiore
intensità contributi di natura teorica, possono essere suddivisi in quattro
grandi aree: mercato azionario, mercato dei tassi, mercato valutario ed economia
reale. Vediamo di ripercorrerli velocemente alla luce degli sviluppi intervenuti
nelle ultime settimane.
Come
prossimamente avremo modo di analizzare più in dettaglio, ancora
una volta la ripresa economica americana si presenta come una ottima operazione
di cosmetica che trova da un lato le proprie basi sul massiccio ricorso
all’indebitamento e, dall'altro, il proprio forte nelle componenti consumi e
spesa pubblica. Per il resto essa rimane caratterizzata da una bassa
crescita del reddito, dalla persistenza di un alto livello di disoccupazione
(non ingannino a tal proposito le statistiche americane di natura ben differente
da quelle europee e soggette peraltro a continue revisioni al ribasso dei dati
forniti in precedenza) e dalla carenza di investimenti tangibili sul territorio
americano.
La
spinta che sembra avere rilanciato l’economia americana (e che le impedisce
allo stesso tempo quei riaggiustamenti propedeutici a una nuova sana fase di
crescita) viene alimentata quindi dal consumo del reddito futuro e dal consumo
del reddito straniero, come continuano a confermare rispettivamente la crescita
esponenziale del debito domestico e l’enorme deficit delle partite correnti.
All’atto
pratico questa intera dinamica si traduce per gli americani in un consumo di
ricchezza superiore a quello realmente prodotto, ovvero in un
impoverimento graduale sia degli operatori economici domestici che della
struttura economica interna, la sopravvivenza della quale, in assenza di altri
aggiustamenti, continua a spingere verso l’esportazione in terra straniera
(India e paesi asiatici) sia dei posti di lavoro che degli investimenti reali. Un
istinto alla sopravvivenza ben poco lungimirante che si priva delle stesse fonti
di reddito future necessarie al proprio sostegno e che riflette la chiara volontà
di continuare a vivere ben al di sopra dei propri mezzi e delle proprie
possibilità.
E’
stata l’imprevedibile accelerazione della credit bubble, favorita
dall’innovazione ma consentita dall’assenza di ogni vincolo di controllo sul
sistema monetario cartaceo, ad avere permesso per la prima volta nella storia il
prolungamento spazio-temporale del boom di natura creditizia sperimentato negli
anni novanta, i cui effetti e le cui conseguenze saranno da esaminare
contestualmente secondo due piani di ricerca, quello interno al sistema
economico americano dove essa stessa ha origine e quello esterno, a livello di
economia globale, sul quale inevitabilmente si ripercuote.
Dopo
avere portato a valutazioni estreme sia il mercato obbligazionario che il
mercato immobiliare, a livello domestico l'espansione della credit bubble
è riuscita quest'anno a rilanciare una nuova fase di ottimismo e fiducia che
sul mercato azionario si è tradotta velocemente nell'emersione di fenomeni
speculativi del tutto analoghi a quelli di fine anni novanta.
A
livello globale essa ha avuto il virtuoso effetto di riuscire a moltiplicare e
quindi a riversare la propria liquidità praticamente su ogni altro sistema
economico, con effetti spesso non dissimili a quelli sperimentati internamente,
persino nelle economie fino a un anno fa considerate a rischio.
Due
fattori sono potenzialmente in grado di arrestare lo sviluppo di questa
pericolosa recrudescenza della credit bubble. In primo luogo la discesa del
dollaro, oramai in un ben definito canale ribassista, e in secondo luogo il
rialzo dei tassi di mercato, processo iniziato, come già visto, all’inizio di
questa estate. Tuttavia in entrambi i casi si è assistito alla pronta
opposizione di forze artificiali che pur riuscendo ad appianare le cose (in
altre parole, ad evitare il peggio) hanno continuato ad impedire al mercato il
proprio ruolo di aggiustamento e correzione degli squilibri in essere.
Per
quanto riguarda il dollaro, così come a suo tempo
la FED
era riuscita a gestire l'ordinata discesa del
mercato azionario, il sostegno dei paesi asiatici è stato e continua ad essere
determinante nella ordinata discesa del dollaro. Come si è effettivamente
riscontrato durante l’anno in corso, l’acquisto di dollari da parte dei
paesi asiatici con un surplus commerciale verso gli USA, in misura tanto
maggiore quanto più esso tende a perdere valore, mantiene in effetti un profilo
costi benefici che ancora tende dalla parte di questi ultimi. Il senso di questa
attività in forte perdita (si pensi come parallelo alla infelice posizione di
un acquirente di azioni che continua a mediare al ribasso un titolo in caduta
libera) trova infatti un corrispettivo più che adeguato nei benefici che ne
derivano in termini di produzione e vendita dei propri prodotti al consumatore
americano.
Nel
complesso questo rapporto continua a sostenere lo sviluppo disarmonico di una
economia mondiale sempre più marcatamente squilibrata tra paesi produttori e
paesi consumatori. Comune denominatore di tutti i partecipanti a questa
netta divisione dei ruoli una valuta sempre più debole ma sempre più presente
destinata a perdere ulteriore terreno sia nei confronti delle altre valute che
verso le principali materie prime. Come era prevedibile, infatti, il dollaro
continua a perdere potere d’acquisto su quasi tutti i mercati a danno di tutti
i partecipanti al gioco, tranne naturalmente l'emittente originario della moneta
fiduciaria in questione. I problemi a
nostro avviso emergeranno quando questi danni cominceranno a superare i benefici
del consumatore americano, costretto presto o tardi a reinserire la parola
risparmio nel proprio dizionario, o quelli del produttore asiatico, costretto
presto o tardi a valutare i rischi associati alla propria egoistica generosità.
Per
quanto riguarda invece i tassi di interesse, le naturali spinte verso una
riduzione effettiva della liquidità, oltre ad essere state contenute dalle
dinamiche del punto precedente,
hanno presto trovato una soluzione nella iperattività delle agenzie americane
impegnate nel settore dei mutui immobiliari. Il violento strappo al
rialzo dei tassi di mercato, che a luglio aveva colto di sorpresa molti
operatori, ha avuto modo in questi mesi di forzare la mano della FED verso un
rialzo dei tassi di breve periodo, come oramai sconta tutta la curva implicita
nella strip di futures dell’euro-dollar deposit. Le aspettative in merito a
tale futuro restringimento del credito hanno avuto già avuto qualche
ripercussione sugli aggregati monetari, come dimostra il trend al ribasso
registrato nelle ultime settimane (-37 B pari a un -1,9% annualizzato della M3
nelle ultime 12 settimane), tuttavia esse hanno trovato un contrappeso ancora più
significativo proprio ad opera delle agenzie Fannie
Mae e Freddie Mac.
e prestatore di ultima istanza: nel trimestre
che va da luglio a settembre Fannie Mae e Freddie Mac hanno complessivamente
aumentato i propri Retained Mortgage Portfolios di ben 160 B di dollari (+46%
annualizzato), di cui ben la metà solo nel mese di settembre. Una iniezione di
liquidità non registrata dagli aggregati monetari che ha più che compensato la
contrazione degli stessi.
In
questo secondo caso i problemi emergeranno all’effettivo materializzarsi del
rialzo dei tassi di interesse da parte della FED, quando i diversi operatori
alla ricerca sia di nuova liquidità che di strategie di copertura del rischio
potrebbe creare non pochi problemi a un sistema finanziario pesantemente e
unidirezionalmente esposto al rischio di interesse attraverso gli attuali 140
trilioni nominali di strumenti derivati in essere. Tanto più che queste
dinamiche inevitabilmente si intrecceranno con quelle legate al processo di
svalutazione del dollaro.
nel quale gli spazi per
l’interventismo a salvataggio del sistema finanziario ed economico saranno
molto più ridotti rispetto a quelli disponibili tre anni fa, e questo a fronte
di squilibri ben maggiori di quelli di allora.

Us Equity
& Macro Lab
USA:
una crescita col
punto interrogativo
02
Novembre 2003
17:35
Lugano
(di
Alfonso Tuor)
L’economia
statunitense è cresciuta allo strabiliante ritmo del 7,2% nel terzo trimestre
di quest’anno. Questo dato, nettamente superiore alle più rosee
aspettative, suffraga le previsioni di istituti di ricerca, analisti finanziari
ed economisti che danno ormai per certo che l’attuale ripresa dell’economia
statunitense sfocerà in una crescita solida e duratura, talmente forte da
riuscire a rilanciare anche la boccheggiante economia europea.
È
quindi legittimo domandarsi se effettivamente l’attuale forte espansione
dell’economia americana segni la fine della crisi prodotta dallo scoppio della
grande bolla speculativa formatasi nei mercati finanziari negli anni Novanta
oppure se gli squilibri dell’economia
americana e di quella mondiale siano destinati a frenare la crescita e a
rimettere in discussione l’ottimismo oggi prevalente.
Non
vi è alcun dubbio che l’attuale ripresa è il frutto di una politica
economica tesa a rilanciare l’economia ad ogni costo e che la forte crescita
del secondo e del terzo trimestre sono in gran parte da addebitare al taglio
delle tasse attuato dall’amministrazione Bush e più in particolare ai
rimborsi fiscali incassati in questo periodo dalle famiglie americane.
Quindi,
questo rimbalzo della crescita economica
conferma la «potenza» degli impulsi della politica fiscale, che
ultimamente erano stati messi in dubbio da molti economisti, ma non fornisce
ancora la certezza che sia stato messo in moto un meccanismo economico in grado
di sostenere nel tempo la crescita americana.
Per essere più chiari, resta aperto il dilemma se oggi l’economia
statunitense è assimilabile ad una economia
«drogata» da potenti dosi di anfetamine,
che quindi è destinata ad afflosciarsi non appena se ne esauriranno gli
effetti, oppure se questa cura da cavallo ha messo in moto un processo virtuoso
in grado di sostenersi nel tempo.
La
risposta di martedì scorso della banca centrale statunitense non è
rassicurante. Se si eccettua il giudizio di un mercato del lavoro che
tende a stabilizzarsi e non più ad indebolirsi,
la
Federal Reserve
ha chiaramente dichiarato che il
«paziente USA» è ancora bisognoso di attente e forti cure, per cui non
ha alcuna intenzione di muovere i tassi di interesse per un «considerevole
periodo di tempo».
La Fed
ha addirittura sorprendentemente ribadito che i pericoli di una caduta del
livello dei prezzi, ossia di deflazione, restano ancora superiori a quelli di un
loro aumento. Il giudizio di Alan Greenspan è stato interpretato come un
ennesimo tentativo di influenzare l’evoluzione dei tassi a lungo termine che
negli ultimi tempi si erano mossi al rialzo.
È
innegabile che questo sia uno degli obiettivi della Fed, ma è altrettanto
innegabile che la banca centrale americana vuole che il costo del denaro rimanga
molto basso, poiché teme che l’economia americana non sia oggi in grado di
sopportare un aumento dei tassi di interesse, che li riporterebbe unicamente a
un livello normale in una fase di forte ripresa economica. E le
preoccupazioni di Greenspan appaiono giustificate.
Un
rialzo del costo del denaro potrebbe, da un canto, frenare la voglia di spendere
delle famiglie americane, che sono in misura crescente fortemente indebitate, e
potrebbe allungare ulteriormente il processo di risanamento dei bilanci di
imprese, appesantite dalla permanenza di forti sovraccapacità produttive
e in molti casi da alti livelli di indebitamento, e, quindi, di rinviare
ulteriormente quegli investimenti aziendali che dopo anni di forte caduta hanno
ripreso a salire solo ultimamente.
Ma
c’è di più, la ripresa americana comporta inevitabilmente un aumento delle
importazioni e quindi, un peggioramento
del disavanzo commerciale statunitense. Questo disavanzo non è destinato
ad essere alterato sostanzialmente dallo shopping di beni americani che
attueranno nelle prossime settimane le aziende cinesi con lo scopo di allentare
le tendenze protezionistiche statunitensi o da legislazioni, lesive degli
accordi del WTO, come il «Buy America», che impone al Pentagono di comprare
solo prodotti americani senza componenti provenienti dall’estero.
Tutto
lascia intendere che vi è una ferma volontà politica di arrivare
a tutti i costi all’appuntamento delle elezioni presidenziali dell’anno
prossimo con una economia in crescita e, quindi, di utilizzare tutti i «cerotti»
possibili per rinviare
l’emergere di situazioni di crisi dovute agli squilibri interni ed esterni
dell’economia statunitense.
Tra
questi «cerotti»
figurano anche la formazione di una nuova bolla speculativa nei mercati
finanziari, che già oggi appaiono sopravvalutati, e l’uso
della leva del tasso di cambio del dollaro. Vi
è più di un motivo per dubitare del successo a medio termine di questa «scommessa»..
Infatti qualsiasi evento non previsto può
mettere all’improvviso in forse la volontà del resto del mondo di finanziare
un paese che vanta un debito estero netto pari al 29% del suo Pil e un disavanzo
della bilancia delle partite correnti superiore al 5%.
Per
questi motivi, un aggiustamento è inevitabile e quindi l’unico interrogativo
è quando e come si manifesterà. Quindi, il tasso di crescita registrato
dall’economia statunitense nel terzo trimestre di quest’anno, che comunque
sarà rivisto al ribasso, non fornisce alcuna certezza sulla sostenibilità nel
tempo della crescita statunitense, poiché essa è alimentata sostanzialmente
dal consumo di reddito futuro e di reddito straniero, come confermano la forte
crescita del debito interno e di quello commerciale.
Tutto
ciò dà maggior forza all’ipotesi che in realtà stiamo assistendo ad una
riedizione dell’economia della bolla degli anni Novanta, in cui gli Stati
Uniti sono disposti a creare nuove bolle per attutire gli effetti dello scoppio
di quelle precedenti. In questo modo si guadagna solo tempo al prezzo però
di un più pesante appuntamento con la realtà.
Corriere del Ticino
|