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L'America
scarica i suoi guai sul resto del mondo
Giovanni
Tamburi, uno dei migliori banchieri
d'affari della piazza milanese, e profondo
conoscitore della media impresa, spiega perchè
è
più pessimista che mai sull'economia mondiale.
02
Dicembre 2004
13:43 Milano
(di
Giuseppe Turani)
(WSI)
- "Ero pessimista un anno e mezzo fa e continuo a essere pessimista. Lo so
che molti vorrebbero finalmente un po' di ottimismo, ma la situazione è quella
che è e non è affatto bella. Anzi, continuano a esserci molte ragioni di
inquietudine. E questo senza andare a tirare fuori il terrorismo o la situazione
geo-politica. Il quadro, insomma, è già preoccupante così".
Giovanni
Tamburi è uno dei migliori banchieri d'affari della piazza milanese (pochi come
lui conoscono la media impresa italiana) e è difficile ricordare l'ultima volta
in cui è stato ottimista.
E'
cambiato qualcosa di recente?
"Vuol
dire se rimango sempre pessimista?"
Si.
"Non
vedo motivi di ottimismo intorno a noi. Per mesi e mesi abbiamo spiegato che
l'economia internazionale andava frenando e che la ripresa era alle ultime
battute. Oggi, vedo che questo comincia a essere consegnato anche nei documenti
previsionali delle grandi banche d'affari internazionali, quelle con uffici
studi che sembrano eserciti. Insomma, quella che fino a qualche settimana fa
sembrava una visione un po' estrema del mondo, adesso sta diventando una
previsione con tanto di timbri e firme". Il boom del 2004, cioè, sta
finendo? "Giudichi lei. Possiamo prendere una previsione a caso. Questa che
ho in mano è della banca Schroder, e forse non sono nemmeno quelli che vedono
più nero. Ebbene, fra il 2004 e il
2005 l
'America passa da una crescita del 4,3 per
cento a una del 3 per cento. L'area euro dall'1,8 per cento all'1,5. Il Giappone
dimezza addirittura la sua crescita: dal 4 al 2 per cento. E il mondo, nel suo
complesso, scende dal 3,7 per cento di crescita del 2004 al 2,7 del 2005. E,
ripeto, qui dentro non abbiamo le incognite di nuove azioni terroristiche come
non abbiamo eventi catastrofici. Qui stiamo ragionando di normale evoluzione
delle cose. E la semplice verità è che ci stiamo ripiegando, l'economia
mondiale si sta richiudendo, mette il freno e passa alla marcia inferiore".
Ma,
tutto sommato, non va poi così male...
"Nel
conto, ovviamente, non abbiamo messo
la Cina
, che di fatto sta dimezzando la sua velocità
di crescita".
Però
non siamo in recessione...
"Ma
ci sono in giro molti segnali preoccupanti. Vengono un po' da tutte le parti,
dall'America, dall'Europa e dall'Asia".
Dagli
Stati Uniti che cosa arriva?
"Il
mistero di un'economia che finora è andata avanti grazie a operazioni molto
spericolate e che si torva, secondo me, e anche secondo molti economisti di
valore, in uno stato di instabilità grave".
Cioè?
"Cerco
di spiegarmi. Se noi guardiamo i dati del Pil e le relative previsioni, tutto
sembra andare più o meno bene. Se invece andiamo un po' più a fondo, allora
vediamo emergere i guai. Di recente è stato calcolato l'andamento del debito
aggregato americano (famiglie, imprese, Stato). Ebbene, siamo al 300 per cento
del Pil. Si tratta del più alto valore dell'intera storia americana. All'inizio
degli anni Trenta era arrivato a quota 270 per cento. All'inizio degli anni
Novanta era un terzo in meno, a quota 200 per cento".
E
questo che cosa significa?
"Molte
cose e quasi nessuna bella".
Cioè?
"Intanto
significa che, come peraltro si è già detto e scritto, dietro questo boom
americano recente, c'è una montagna di debiti. Anzi, la più alta montagna di
debiti della storia. E questo fa dell'economia americana (che è la più grande
del mondo e quella da cui dipende tutto il resto) un soggetto molto instabile.
Ma pone anche il problema di sistemare in qualche modo il debito. E la strada,
qualunque cosa dicano le autorità americane, è una sola: far pagare il debito,
il boom recente, agli altri, cioè al resto del mondo. La strategia economica
americana, in questo momento, è appunto quella di esportare il loro debito
attraverso il dollaro. Quelli che ci consigliano, quindi, di imitare l'America
(fare debiti per crescere, per consumare di più) trascurano appunto questo
piccolo particolare: gli americani possono farlo, con molti rischi, anche
perché hanno il dollaro, uno strumento fantastico per esportare i debiti e
farli pagare agli altri".
E
come si fa?
"E'
molto semplice: basta svalutare il dollaro. Questo rende un po' più competitive
le loro merci e quindi si migliora un po' la situazione. Tutti hanno sempre
detto che gli americani non potevano andare avanti con questo ritmo, e infatti
stanno cercando di rallentare un po'. Per non cadere in recessione, svalutano il
dollaro e cercano di aumentare le esportazioni, a danno ovviamente di tutti gli
altri, che possono solo subire".
Lei
vede dei rischi in questa operazione?
"Vedo
dei danni sicuri per noi. Ma c'è anche qualche rischio per loro. Nel senso che
non è affatto detto che queste operazioni riescano. Ripeto: l'America (non
Greenspan o Bush) non si è mai trovata nel corso della sua storia a dover
fronteggiare un debito così ciclopico. Ci stiamo muovendo su un terreno ignoto,
mai percorso da nessuna Amministrazione. A questo aggiunga che nel giro di pochi
mesi l'America deve ridurre del 30 per cento la sua velocità di crescita.
Sarebbe un'impresa difficile da fare con un'economia a posto. Con un'economia
piena di debiti (e con le imprese che già denunciano di non aver più tanta
voglia di investire) il rischio di qualche sbandata, il rischio di finire nel
fosso, è purtroppo reale. E, se sbanda l'America, sono guai seri per tutti, sul
serio...".
Insomma,
lei è preoccupato perché pensa che la locomotiva America possa sfuggire di
mano...
"Esatto.
Questo pericolo c'è. Ma poi sono preoccupato anche perchè nel mondo stanno
avvenendo tante cose importanti, tanti cambiamenti di fronte ai quali servirebbe
molta prudenza e invece vedo che la più grande economia del mondo li affronta
con leggerezza, indebitandosi come mai nella sua storia".
A
che cosa si riferisce?
"Quando
è mai successo che un'industria automobilistica giapponese abbia dovuto
chiudere i battenti per vari giorni non per mancanza di domanda (che è normale)
quanto per mancanza di acciaio?".
E
questo che cosa significa?
"Significa
che solo adesso ci stiamo accorgendo che il boom cinese è qualcosa che
sconvolge tutti i parametri economici internazionali. E' un problema e andrebbe
gestito meglio. Pochi forse sanno che ormai il consumo di petrolio della Cina ha
superato quello del Giappone. E questo nonostante
la Cina
abbia auto-limitato la sua crescita, di fatto
dimezzandola. In realtà, stiamo viaggiando con la locomotiva numero
1, l
'America, che si trova in uno stato di
instabilità (andrebbe messa in sicurezza, come le case lesionate) e con la
locomotiva numero 2,
la Cina
, che è talmente grande che rischia di creare
problemi ovunque".
La
svalutazione del dollaro non può essere una buona medicina per tutti?
"Assolutamente
no. E' solo un modo per ribaltare su altri un po' dei debiti americani.
Sull'Asia e sulla Cina, comunque, non avrà effetti perché quelle economie si
muovono insieme al dollaro. La faccenda riguarda, e molto da vicino, purtroppo,
noi europei".
In
che senso ci riguarda?
"Nel
senso che alla fine quelli che pagheranno siamo noi".
E
come pagheremo?
"Abbiamo
già cominciato. Grazie alla svalutazione del dollaro nel 2005 cresceremo meno
del 2004, e penso che la cosa andrà avanti per parecchio tempo. Il boom
americano, insomma, non nasce dalla genialità di Greenspan e di Bush, ma dal
fatto che alla fine saremo noi a pagare. E questo spiega perché sono fuori dal
mondo quelli che ci dicono di imitare gli Stati Uniti. A chi facciamo pagare i
nostri debiti? All'America?".
Quindi
è un disastro, qui in Europa?
"Sì,
anche perché le aziende, per resistere, stanno delocalizzando in Asia. Stanno
fuggendo, chiudono gli impianti qui e vanno ovunque, ma fuori dall'Europa.
D'altra parte, in quei paesi un lavoratore costa fra i 70 e i 100 dollari al
mese. Poco più di mille dollari all'anno. Qui da noi, gira e rigira, siamo
introno ai 25 mila dollari all'anno. Non c'è gara, purtroppo".
E
quindi che cosa accadrà dell'Europa?
"Continueremo
a perdere industrie. Saremo un continente di cultura, servizi e turismo.
Insomma, faremo i camerieri di americani e cinesi. Qui c'è un mercato
interessante: dieci anni i cinesi in giro per il mondo a fare i turisti erano
3,7 milioni, quest'anno sono già 24 milioni e crescono continuamente".
Fuori
dallo scherzo...
"Guardi
che non scherzo molto. L'industria tessile è già quasi tutta all'estero, credo
che qui non si faccia più una sola mutanda o un solo paio di jeans. Molte
aziende di scarpe si trovano nella stessa identica situazione Mentre noi
parliamo e discutiamo, qui le aziende scappano..."
La
Repubblica
- Affari & Finanza
Perchè
Bush
vuole il dollaro debole ?
I
tassi di interesse a breve americani si formano in maniera indipendente da
quelli del resto del mondo e li influenzano senza esserne influenzati. In
Europa invece...
01
Dicembre 2004
05:40
Milano (di Marcello De Cecco)
Questo
del cambio è un problema che mai comprenderò". Così confidava al suo
diario il re di Spagna Filippo II alle prese coi banchieri genovesi. Dopo
tanti secoli sono evidentemente ancora molti a trovarsi nelle condizioni di
Filippo se, come accade, uomini politici anche di rilievo si abbandonano a
dichiarazioni poco avvedute in merito al cambio attuale tra euro e dollaro.
Il
cambio, vale dunque ricordare a tutti gli epigoni del re spagnolo, che almeno
era sincero col suo diario, è il rapporto tra due monete. Quando esso si
muove, a quale delle due monete attribuire la causa del movimento? Negli anni
´20 e ´30 del ´900, e poi a partire dalla fine del sistema di Bretton Woods,
che durò dal 1944 al 1971 e coincise con una poderosa crescita dell´economia
occidentale, economisti e politici si sono affannati attorno a questo
problema. A partire dal ´71 tra dollaro e monete forti europee si sono
registrati tre cicli completi di sopravvalutazione e sottovalutazione. I tre
cicli del dollaro debole, che precedono quello appena iniziato , sono stati
tutti marcati da un forte deficit dei conti esteri americani, sempre più
gravi col passare dei decenni. Ad esso si sono accompagnati tassi di
inflazione elevati, prezzi delle materie prime particolarmente alti, e deficit
fiscali americani superiori ai livelli della prudenza.
Se
si eccettua l´84, anno della rielezione di Reagan, tutti gli altri anni
elettorali dell´era dei cambi flessibili iniziata il ´71 sono stati
affrontati dalla presidenza uscente in condizioni di più o meno accentuata
sottovalutazione del dollaro, frutto di una politica economica elettorale
dichiaratamente espansiva.
Non
sempre l´espansione fiscale e monetaria sono bastate ad assicurare al partito
del presidente la permanenza al potere per un altro quadriennio. Ma non per
difetto di sforzi. Ormai da molti anni tutti hanno capito che gli Stati Uniti,
possessori dell´unica moneta veramente internazionale, del sistema
finanziario più ampio ed evoluto del mondo, di una economia di dimensioni
continentali perfettamente integrata al suo interno, e del solo apparato
militare da grande potenza rimasto al mondo, sono l´unico paese veramente
padrone del proprio destino, capace quindi di scegliere la politica economica
ritenuta migliore a fini esclusivamente interni e di imporla al resto del
mondo.
Questo
vuol dire che i tassi di interesse a breve americani si formano in maniera
indipendente da quelli del resto del mondo e li influenzano senza esserne
influenzati.
L´Unione
europea non è affatto nelle stesse condizioni. Innanzitutto non tutti gli
stati che ne fanno parte hanno adottato l´euro. L´euro non è ancora una
vera moneta di riserva. Non lo è perché l´economia europea, e in
particolare il suo cuore industriale, raccolto attorno alla Germania renana,
dipende in maniera pesante dalle esportazioni al resto del mondo. Il mercato
finanziario europeo, inoltre, è molto grande solo per quanto riguarda il
debito pubblico dei vari Stati, ma non per le occasioni di investimento in
azioni e obbligazioni private che offre. Infine, ed è un elemento
fondamentale, la politica fiscale europea resta privilegio di ciascuno dei
paesi membri.
Tutto
questo vuol dire che è ancora la politica economica americana a indicare la
rotta all´intera economia mondiale, col deficit fiscale e dei conti esteri
che decide di avere, e con i tassi di interesse a breve che
la Federal Reserve
impone ai mercati con le proprie azioni.
Nella
prospettiva di una crescita interna meno robusta di quella ottenuta prima
delle elezioni , il presidente Bush e il suo staff hanno evidentemente deciso
di mantenere invariata la rotta di politica economica scelta per vincerle,
puntando sull´indebolimento progressivo del dollaro, al quale permetteranno
di allontanarsi sempre di più dai picchi di sopravvalutazione raggiunti nel
2001. Il deficit fiscale, in tempo di guerra, continuerà dunque a crescere e
i tassi a breve saliranno a passo di lumaca malgrado il rimarchevole buco che
si è aperto nei conti esteri del paese. Il presidente e i suoi collaboratori
sanno che , rispetto ai massimi raggiunti nei precedenti cicli, la
sottovalutazione del dollaro è ancora modesta.
Essa
raggiunse nei confronti delle monete forti europee il 30% nel 1992 e
addirittura il 40% nel 1980. Si aggiunga a ciò che il dollaro era ancora
sopravvalutato del 30% nel 2001. Ora siamo ancora a meno del 10% di
sottovalutazione nei confronti dell´euro. Il rapporto tra le due monete ha
dunque conosciuto ben altre oscillazioni prima che si sia arrivati ad accordi
intergovernativi destinati a frenarle. Il governo americano sa di poter tirare
ancora parecchio la corda senza temere che essa si spezzi.
E
in questa opinione lo rinforza il sapere che i governi asiatici, che vogliono
a tutti i costi tenere le loro monete aggrappate al dollaro, specialmente ora
che è debole e tende a indebolirsi, continueranno ad assorbire (anche se con
qualche mugugno) le valanghe di dollari che le autorità americane li
costringono a comprare.
La Cina
, in particolare, ha una tale offerta di
manodopera ancora da mobilitare, che può continuare a comprar dollari senza
temere l´inflazione. E le importazioni a buon mercato dall´Asia
continueranno a tenere a freno i prezzi anche negli Stati Uniti e nel resto
del mondo sviluppato.
Di
fronte ad una politica di ribasso del dollaro tanto esplicita non vale la pena
cadere nella trappola che consiste nell´addossare le sue conseguenze
internazionali alle autorità europee e addirittura nel ritenerle responsabili
del dollaro basso. Vale la pena notare che il deficit dei conti pubblici è
oltre il tre per cento sia negli Usa che nei principali paesi europei, che
solo una piccola frazione percentuale separa i tassi della Bce da quelli della
Fed. Ancora meno ragionevole è l´accusa rivolta agli europei di impigrire le
proprie popolazioni in un welfare state troppo generoso. Lo stesso welfare
state vigeva quando il dollaro era sopravvalutato e quando era sottovalutato.
Così come il crollo demografico europeo, iniziato molto tempo fa, ha
convissuto sia coi picchi che con gli abissi del cambio tra euro e dollaro.
Varrebbe
la pena, invece, iniziare un serio dibattito sulla necessità che l´Euro
divenga una vera alternativa al dollaro. Questo richiede integrare il mercato
finanziario europeo, unificare la politica fiscale e quella delle opere
pubbliche, riformando anche le modalità di finanziamento delle imprese
private in Europa. E, soprattutto, iniziare una politica comune di grande
respiro nel campo della ricerca scientifica e della tecnologia. Erano gli
obiettivi di Lisbona. Ma il 2010 non è lontano e di progetti esecutivi se ne
vedono davvero pochi.

La
Repubblica
- Affari & Finanza
|
Risparmio,
passata
la paura torna la Borsa
04
Dicembre 2004
14:11 Milano
(di
Rosaria Amato)
Il
grande successo riscosso dal debutto di Geox in Borsa è solo l'ennesimo
indicatore del fatto che, a poco a poco, i risparmiatori stanno riprendendo
fiducia nei mercati azionari. Lo attesta anche Iposentiment, l'indice elaborato
dalla Hill & Knowlton e dalla Tns Infratest, che misura ogni mese
l'intenzione degli italiani di investire nei mercati azionari. A novembre
Iposentiment segna un rialzo di 3 punti, attestandosi a quota 33 (il massimo è
100), il livello più alto da novembre 2002 (da quando cioè l'indice viene
elaborato). Lontano anni luce, tuttavia, dalla preferenza dei risparmiatori per
il mattone: oltre il 60 per cento degli intervistati, infatti, ha detto di
essere interessato all'investimento immobiliare.
L'indice
Iposentiment viene calcolato attraverso 1.000 interviste a un campione
rappresentativo di risparmiatori italiani.
Dal
punto di vista borsistico il mese di novembre ha fatto registrare un andamento
positivo del listino italiano e di quello americano, sospinto anche dalla
riconferma di Bush alla presidenza degli Stati Uniti.
L'aumento
dell'interesse per il mercato azionario non corrisponde però a un effettivo
aumento degli investimenti: si mantiene infatti invariata la percentuale di
persone che dichiarano di essere possessori di azioni e di fondi (circa il 17
per cento per entrambi). A conferma dell'ottimismo dimostrato verso il mercato
si riduce però la percentuale di persone che sarebbero disposte a vendere le
azioni possedute ad un prezzo superiore a quello di mercato (53 per cento degli
azionisti contro il 62 per cento di ottobre).
"L'indice
Iposentiment ha raggiunto il punto più basso nel marzo del 2004 - spiega
Valerio Vago, generale manager Hill & Knowlton Italia - dopo ha ricominciato
a crescere, probabilmente anche grazie al buon andamento delle società che sono
approdate in Borsa negli ultimi mesi (principalmente Enel e Geox). Più le IPO
hanno successo, più poi la gente ha fiducia nelle quotazioni successive".
Tuttavia,
è ancora bassa la percentuale degli intervistati che dichiara di preferire il
mercato azionario, si tratta del 20 per cento. Il 60 per cento degli
intervistati (sia azionisti che non) ha dichiarato che, sul fronte degli
investimenti per il 2005, il comparto più interessante risulta ancora essere il
mercato immobiliare, e infine il 24 per cento del totale della popolazione non
sa indicare una risposta.
D'altra
parte, i risultati dell'indagine condotta da Hill & Knowlton e da Tns
Infratest trovano conferma nei dati sul mercato immobiliare, perennemente in
crescita: secondo un'indagine dell'Acri (l'associazione che raggruppa le Casse
di Risparmio e le fondazioni bancarie) realizzata in collaborazione con l'Ipsos
e pubblicata all'inizio di novembre, il 70 per cento degli italiani reputa
l'investimento immobiliare il modo migliore per salvaguardare i propri soldi,
con una brusca impennata dal 59 per cento del 2003, il 53 per cento del 2002 e
il 39 per cento del 2001.
E
questo a fronte di un calo generale della propensione al risparmio, dovuta alle
difficoltà economiche generali: il 48 per cento degli italiani intervistati
dichiara di avere consumato tutto il proprio reddito e solo il 34 per cento
afferma di essere riuscito a mettere da parte qualcosa, con un decremento di 4
punti percentuali rispetto al 2003 (era il 47 per cento nel 2002 e il 48 per
cento nel 2001, con un calo del 10 per cento complessivo in tre anni).

La
Repubblica
- Affari & Finanza
Una questione
di fiducia
Le
aspettative sul futuro della fiducia negli Stati Uniti continuare a
scendere mentre i mercati azionari
continuano a salire in controtendenza,
fattore assai anomalo.
Chi sta sbagliando? Bhe', e' ovvio: Wall Street.
02
Dicembre 2004
05:39 New
York (di Alex River)
(WSI)
- L'indice della fiducia dei consumatori rilevato dal Conference Board è
sceso a novembre ai minimi da nove mesi a questa parte, rivelando una crescita
del malcontento sulle condizioni dell'economia. L'indice è sceso a 90,5
punti, il livello più basso dallo scorso mese di febbraio, da 92,9 del mese
di ottobre. Ma allora, qualcosa non quadra?
Il
dato è risultato in netta controtendenza rispetto alle previsioni che si
attendevano un incremento a quota 96,0. A condizionare negativamente l'umore
dei consumatori, l'impennata dei prezzi petroliferi e la debolezza del mercato
occupazionale che accrescono i timori sulla tenuta dei redditi personali. Ma
la cosa più allarmante è il netto calo dell'ottimismo sull'andamento
dell'economia nei prossimi sei mesi con l'indice sceso a novembre a quota 87,4
da 92,2 del mese precedente. Gli intervistati hanno espresso preoccupazione
soprattutto per le difficoltà sul fronte occupazionale e sui propri redditi:
la percentuale di cittadini americani che vede con particolare pessimismo la
possibilità di trovare lavoro è salita a novembre a 28,1 punti da 27,9 del
mese di ottobre.
Alcuni
giorni fa segnalai come una anomalia si stesse verificando sui mercati
finanziari. Anomalia che viene ulteriormente confermata anche dopo questa
pubblicazione che vede quindi ancora le aspettative sul futuro della fiducia
continuare a scendere mentre i mercati azionari continuano a salire in
controtendenza, fattore assai anomalo. Chi sta sbagliando, in questa
correlazione, è senz’altro il mercato azionario che ha anticipato troppo
(in termini percentuali) il corso della fiducia scontando elementi che in
realtà non sussistono e che quindi potrebbero sgonfiarsi molto rapidamente.
C’è
poi un ulteriore elemento di sentiment (contrarian indicator), diciamo così,
che rischia ora di far deragliare i mercati azionari ed è quello visibile nel
grafico che rappresenta il consensus medio fra tre diversi survey di sentiment
azionari importanti negli Stati Uniti (Market Vane, AAII e Investor
Intelligence). La storia ci ha sempre insegnato che movimenti estremi di
qualsiasi misura non possono persistere per sempre. Anzi spesso a letture
estreme sono susseguiti reversal piuttosto dolorosi. Questo è appunto quello
che sembra oggi volerci suggerire il grafico che segue dove la “fiducia”
degli investitori verso il mercato azionario è ai suoi massimi come a Gennaio
del 2004.

SmartTrading.it
|
Mercati
mondiali in cerca di direzione
Non
c’è pace per le Borse. Ora è il
mini-dollaro a generare le maggiori preoccupazioni. Ma le banche centrali non
intervengono per attenuare la volatilità.
Gli alti prezzi delle materie prime spingono i mercati emergenti, i preferiti
dai gestori.
03
Dicembre 2004 04:55
Milano (di
*Sara Silano)
*Sara
Silano è Vicecaposervizio di Morningstar in Italia.
(WSI)-
Il mini-dollaro ha fermato il recente rally delle Borse mondiali, con l’indice
Msci World in crescita appena dello 0,7% a novembre. Nel complesso, il 2004 è
stato caratterizzato da movimenti laterali e mercati in cerca di direzione tra
rinnovate preoccupazioni per il rallentamento della congiuntura, alti prezzi del
petrolio e volatilità sui mercati monetari.
La
discesa del biglietto verde è cominciata dopo le elezioni presidenziali
statunitensi, che hanno portato alla riconferma di George W. Bush alla Casa
Bianca. L’euro è salito a 1,33 dollari, mentre lo yen ha sfiorato quota 103 e
non sono state da meno le valute asiatiche. Negli ultimi tre mesi, la moneta
unica ha guadagnato il 10% sul dollaro e la tendenza è destinata a continuare
sia perché gli Stati Uniti hanno lasciato intendere di essere favorevoli a un
moneta debole sia perché gli investitori sono preoccupati per il deficit
commerciale americano.
I
rapporti valutari sono una variabile fondamentale per il corretto funzionamento
del commercio internazionale e la volatilità è una minaccia alla crescita
mondiale. Per questo, la debolezza del dollaro è all’ordine del giorno negli
incontri tra le autorità monetarie e i governanti, ma finora non è emersa
un’unità di obiettivi per ristabilire gli equilibri. In particolare,
la Cina
non sembra intenzionata a rivedere il
rapporto fisso dello yuan con il biglietto verde. Anche il Giappone non ha
ancora agito per frenare la corsa dello yen e
la Banca
centrale russa ha depresso il dollaro dicendo
di voler ridurre le riserve a beneficio dell’euro.
Jean-Claude
Trichet, presidente della Banca centrale europea (Bce), ha più volte insistito
sull’importanza di stabilità dei cambi, ma non ha per il momento deciso di
intervenire. Non è avvenuto nessun cambiamento neppure nella politica dei
tassi, che restano fermi al 2%, nonostante la revisione al ribasso delle stime
di crescita economica per il 2005.
La
linea seguita dall’istituto di Francoforte trova molti in disaccordo. Secondo
gli strategist di Axa Investment Managers, “
la Bce
dovrebbe agire per prevenire un ulteriore
apprezzamento della moneta unica”. La casa di investimento è anche convinta
che la politica restrittiva della Federal Reserve potrebbe dare una boccata
d’ossigeno al dollaro. Per questo motivo, indica un rapporto tra le due valute
a 1,20 entro 6-12 mesi.
Con
il mini-dollaro deve fare i conti l’economia giapponese, che ha dato
nell’ultimo mese segnali contrastanti, con la produzione industriale in calo e
i consumi deboli.
La Borsa
di Tokyo, però, può contare sui buoni dati
societari, le valutazioni interessanti, la nuova stagione di fusioni e
acquisizioni e le ristrutturazioni nel sistema bancario.
Ma
è ai mercati emergenti che gli investitori guardano con maggior interesse, come
messo in luce dall’ultimo sondaggio di Merrill Lynch. Finora, l’ottimismo
non è stato incrinato da periodiche crisi, come la recente debolezza delle
Borse indiana e cinese o le traversie del colosso petrolifero russo,
Yukos.
Un
ruolo importante è rappresentato dall’aumento della domanda e dei prezzi
delle materie prime, che supporta la crescita economica, soprattutto in America
Latina. Per John Hatherly, responsabile analisi globali di M&G Investments,
comunque, nel 2005 l’entusiasmo potrebbe attenuarsi sulla scia del
rallentamento dei ritmi di sviluppo.
Morningstar
|