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INDICE ARTICOLI

 

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Macro mondo - settore immobiliare

Allarme rosso sul mercato immobiliare

Borse e Mercati

Wall Street nelle mani dei big

Macro USA - credito

Fiat Money

Geo politica

Terrorismo: 10, 100, 100 Al Quaeda

Mercati obbligazionari

Casa Rosada: sì ma di vergogna

Mercati obbligazionari

Cosa fare con quei pirati di Buenos Aires

Mercati obbligazionari

Cirio Bond: condannata la prima banca

Finanza italiana - Risparmio gestito

Famiglie più ricche a ruba azioni e obbligazioni

 

ANSA  +++  Nuova scossa di terremoto nella zona di Giakarta  +++  partono gli aiuti per le regioni sconvolte dal maremoto  +++  Bush schiera due ex presidenti per fronteggiare l'emergenza tzunami  +++  elezioni di sangue in Iraq  +++  Le bombe non fermano il voto  +++  ANSA

lunedì 3 gennaio 2005   martedì 4 gennaio 2005   giovedì 27 gennaio 2005   lunedì 31 gennaio 2005
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  Allarme rosso sul mercato immobiliare

In assenza di accurate scelte di politica economica del governo Usa, nei prossimi due anni assisteremo ad una serie di sconvolgimenti sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression”.

 

6 Gennaio 2005 0:06 Los Angeles (di Dario Bianchi)

*Dario Bianchi e' il Managing Director di Capitalife, Inc. www.capitalife.com

 

E’ tempo di cambiamenti dirompenti sui mercati finanziari internazionali. In questo momento il dollaro ha raggiunto i minimi storici contro l’Euro. Non si vedevano cambi di questo genere dagli anni '70, quando Nixon separò il golden standard dal dollaro.

Nel lontano 1972 l’oro veniva quotato $32 per oncia. Se oggi tutte le valute fossero legate ad un “hard asset” come l’oro, o l’argento, la maggior parte dei paesi non dovrebbe fare continuo ricorso alla creazione di carta moneta, ed i problemi monetari sarebbero complessivamente e globalmente più gestibili.

Il valore di ogni moneta sarebbe solido, la speculazione non intaccherebbe le valute con l’attuale intensità e si eviterebbe un’eccessiva espansione della massa monetaria. In aggiunta, i governi non avrebbero a disposizione leve finanziarie e non spenderebbero più fondi di quelli realmente disponibili. Il risultato sarebbe una tassazione più bassa ed equa, ed un risparmio più alto.

Dobbiamo assumere che, non avendo esercitato tale disciplina monetaria negli ultimi 30 anni, il governo degli Stati Uniti e quelli Europei difficilmente la applicheranno in futuro. Se il crescente debito degli USA ed il deficit corrente continueranno sugli attuali livelli, il sistema di cambi che oggi conosciamo verrà distrutto. Quanto tempo è necessario prima che questo accada? Difficile dirlo con precisione, ma dobbiamo essere consapevoli che, in assenza di accurate scelte di politica economica, nei prossimi due anni assisteremo ad una serie di sconvolgimenti sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression” degli anni 30.

 

Il dilemma del Real Estate

In un recente articolo, The Economist riporta che “negli ultimi tre anni il valore totale del real estate residenziale nei paesi industrializzati, ha avuto un incremento da un valore totale di circa $20,000 miliardi, ad uno approssimativo di $60,000 miliardi. Anche se ciò è in parte dovuto al declino del dollaro, è pur sempre il doppio dell’incremento di $10,000 miliardi, che avvenne dal 1999 al 2000 con l’esplosione del mercato azionario. E’ questa la più grande bolla della storia?” Questo articolo ci fa capire come l’economia si sia sostenuta dal 2000 ad oggi.

Prendendo come riferimento i principali indicatori real estate per queste previsioni economiche, vediamo come lo scenario può evolvere. Vari fattori portano a ritenere che nel 2005 e 2006, in alcune zone degli USA (East Coast and West Coast) ed alcuni paesi Europei (Inghilterra, Italia, Spagna, Olanda e Irlanda), centinaia di migliaia di persone non avranno fondi a sufficienza per pagare i mutui, specialmente quelli legati ai tassi a breve ed all’inflazione (in USA chiamati ARM’s). Questo porterà ad una riduzione del valore del real estate residenziale.

Difficile prevedere le proporzioni di tale fenomeno: se il prezzo delle case diminuirà fino ad un 10%, la riduzione sarà ordinata e l’economia potrà sopravvivere e progredire. Se il prezzo scenderà dal 20% al 25%, potremo assistere, analogamente a quanto successe all’inizio degli anni '90, a proprietari che abbandonano le loro case alle banche. A questo punto un intervento governativo si renderà necessario. Ricordate la Resolution Trust Corporation, quando il salvataggio del governo americano era costato all’erario circa 500 miliardi di dollari? Se questo scenario dovesse ripetersi, in USA ci vorranno dai $700 miliardi ai $1.000 miliardi (un bilione) di denaro fresco per prevenire il collasso di molte banche.

Il paragone potrebbe essere il mercato immobiliare Giapponese dal 1991 al 2003. Dove è possibile trovare una somma di questo tipo? D’accordo, qualche investitore straniero, visti i prezzi molto bassi, comprerà real estate in USA, ma la maggioranza verrà dal governo federale che dovra’ ricorrere all’emissione di Treasury Bonds.

A questo punto chiediamoci chi comprerà gli US Treasury Bonds per finanziare il deficit federale, considerando il contemporaneo deficit statale, delle società private, dei singoli individui e, soprattutto, una capacità di risparmio praticamente inesistente? I cinesi, o forse i giapponesi? E per quanto tempo? A quale costo? Dove andranno a finire i prezzi delle commodities? Continueranno ad essere trattati in dollari? Cosa farà l’OPEC? Potrebbe decidere domani di convertire il prezzo dai dollari agli Euro, oppure in un basket di valute che comprende il dollaro, l’euro e lo yen. Cosa farà la Russia? Contratti di gas naturale in Euro?

Se il governo USA non diminuisce il proprio deficit corrente e riduce il debito che ha raggiunto $8.000 miliardi, si puo' essere certi che avremo inflazione e stagnazione allo stesso tempo.

In ogni caso la nostra opinione e' che il prezzo dell’oro andrà a $500 per oncia prima della fine del 2005. E i tassi di interesse a breve (federal funds) saranno tra il 3.5% ed il 3.75% alla fine del 2005.

 

Asset allocation

Nello scenario di cui sopra ogni investitore dovrebbe essere preparato da tempo a diversificare in valute. Il nostro model portfolio è dinamico ed attualmente strutturato come segue: 40% in dollari US, il resto in Euro, Sterlina Inglese, Dollaro Australiano, Dollaro Canadese.

Per quanto riguarda l’asset allocation il nostro model portfolio è il seguente:

10% cash o money market

7% azioni di miniere di oro e argento, certificati di investimento in oro (Perth Mint Certificate), fondi che investono in oro, e monete d’oro

33% in azioni di vario tipo (Life Sciences al 40%) e mutual funds

20% in mercati esteri ed emergenti attraverso fondi di investimento

30% in obbligazioni a breve termine (3 anni) in differenti valute, con rating A o superiore.

 

By Dario A. Bianchi • Capitalife, Inc.

 

 

 

 

  Wall Street nelle mani dei big

Per gli analisti sarà un anno positivo. Ma solo Yardeni pensa che il Dow Jones possa già battere il record del 2000. Dopo il rally delle small cap, ora si punta su titoli solidi come Citigroup, 3M, General Electric.

27 Gennaio 2005 - 02,38 New York (di M. Teresa Cometto)

 

Solo il più ottimista fra i guru di Wall Street si azzarda a scommettere che, entro il 2005, l 'indice Dow Jones delle blue chip tornerà al suo massimo di 11.722,98 punti, toccato ormai cinque anni fa, il 14 gennaio 2000 . Per tutti gli altri quel traguardo sembra ancora lontano, nonostante il 2005 si presenti come un anno favorevole alla società con maggiore capitalizzazione di Borsa.

Il 2004 infatti si è chiuso con un rally della Borsa dovuto soprattutto alle società medio-piccole: l'indice S&P500 (quello più generale) ha guadagnato il 9% in 12 mesi, mentre il Russell2000 - rappresentativo delle small cap - è risalito del 17% e il Dow Jones Industrial Average - DJIA, composto dalle 30 aziende più grandi e più diffuse fra il pubblico - si è fermato al 3,15%.

Ora tocca a quest'ultimo guidare la ripresa, secondo Jason Trennert , strategist azionario di ISI Group , che l'anno scorso aveva quasi azzeccato in pieno le sue previsioni sul Dow Jones: aveva detto che avrebbe chiuso il 2004 a 10.800, appena 17 punti sopra il livello realmente raggiunto, 10.783. Ma la ripresa sarà piuttosto lenta, in linea con una crescita del 5-6% nominale (al lordo dell'inflazione) del prodotto interno lordo e del 6-7% dei profitti, secondo i calcoli di ISI Group.

«In questo scenario - spiega Trennert - dovrebbero comportarsi meglio le società più grandi, perché hanno molta liquidità a disposizione e la possono usare per guadagnare quote di mercato o per ripagare i debiti o per fusioni e acquisizioni o ancora per aumentare la quota di dividendi pagati agli azionisti. Possono insomma sfruttare le economie di scala per alimentare la propria crescita».

Fra le blue chip Trennert preferisce i titoli industriali - come General Electric e 3M -, perché il loro business è uno dei pochi in cui le aziende hanno il potere di alzare i prezzi; e i farmaceutici, come Pfizer, che sono molto sottovalutati. Quanto al record storico - dice Trennert - forse il Dow Jones tornerà a toccarlo nel 2006, ma nel frattempo bisogna accontentarsi di arrivare quest'anno a quota 11.250, con un rialzo del 4,3%.

Ancor più cauto è Henry Dickson , responsabile delle strategie sulla Borsa americana per Lehman Brothers (anche lui molto accurato nelle previsioni 2004): il suo target è 11.100 punti (»2,9%). «Il mercato sta ancora soffrendo le conseguenze della Bolla - dice Dickson -. Ma poiché nel complesso le aziende siedono su 750 miliardi di dollari di liquidità, gli investitori possono aspettarsi che questo cash sia usato per aumentare i dividendi e, forse, anche i profitti».

Il tema dei dividendi è in effetti uno dei più ricorrenti fra le idee d'investimento per il 2005. Soprattutto gli strategist che si aspettano poco dal rialzo delle quotazioni di Borsa - come Thomas McManus e Richard Bernstein, rispettivamente di Banc of America Securities e Merrill Lynch - raccomandano di puntare sulle società solide, con il miglior rendimento in termini di rapporto fra dividendo e prezzo delle azioni.

Fra le 30 blue chip del Dow Jones, ce ne sono ben dieci che possono fregiarsi del titolo «nobiliare» Dividend Aristocrat (aristocratico del dividendo), inventato dalla società di analisi Standard & Poor's per designare le aziende che per 25 anni di fila hanno distribuito dividendi sempre in crescita: Altria, Coca-Cola, General Electric, Johnson&Johnson, McDonald's, Merck, Pfizer, Procter&Gamble, Wal-Mart, 3M. Fra queste dieci, poi, alcune offrono un rendimento che fa concorrenza ai titoli di Stato: il 4,9% Merck (le cui quotazioni sono scese del 30% nel 2004 per la crisi dell'antidolorifico Vioox), il 4,7% Altria (gruppo a cui fa capo il colosso del tabacco Philip Morris), il 2,9% Pfizer (che l'anno scorso ha perso il 24%).

Decisamente più ottimista - dopo aver sbagliato ad essere Orso (negativo) nel 2004 - è Tobias Levkovich di Smith Barney (Citigroup): vede il Dow Jones a quota 11.700 (più 8,5%) per fine 2005 e non è sorpreso dagli scivoloni di inizio anno. «Avevo avvisato i miei clienti che gennaio sarebbe stato un mese difficile, con l'ansia per i risultati dell'ultimo trimestre 2004, le tensioni geopolitiche per le elezioni in Iraq, le paure per il caro-petrolio - sostiene Levkovich -. Ma nel complesso l'anno sarà positivo, grazie al netto miglioramento dei bilanci aziendali». A Levkovich piacciono in particolare le grandi società farmaceutiche, le cui quotazioni sono basse come ai tempi del tentativo di Hillary Clinton di rivoluzionare il sistema sanitario Usa.

L'unico che sogna il record entro 12 mesi è Ed Yardeni , strategist di Oak Associates, che però è tradizionalmente un Toro (ottimista sulla Borsa) e già a fine 2004 vedeva il Dow Jones a quota 11.700. «L'economia globale sta vivendo un boom e la seconda metà degli anni 2000 sarà per gli investitori brillante come lo era stata la seconda metà degli anni Novanta», dichiara Yardeni, che fra le 30 blue chip predilige il colosso bancario Citigroup.

 

Corriere della Sera

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  FIAT MONEY

Un dollaro del 1913, anno in cui fu costituita la Federal Reserve – una banca centrale operante nella logica di una moneta non legata all'oro – equivale a circa 30 dollari di oggi. Cioè ha perso quasi il 97% del suo valore. Per cui...

11 Gennaio 2005  02:00 Milano (di Francesco Arcucci)

 

La moneta all’interno di un Paese deve essere creata dalle autorità monetarie su base discrezionale oppure in stretto rapporto con un bene reale, tipicamente l’oro? Il primo modo di creare moneta è detto, in particolare negli Stati Uniti, moneta tratta dall’area sottile (out of thin air) o anche "sia fatta la moneta" (fiat money) e presenta molti vantaggi rispetto alla moneta merce. In particolare quello di venir offerta per qualità e quantità in relazione all’evoluzione del Pil o anche per stimolare lo sviluppo del medesimo e, quindi, in funzione anticiclica (abbondante in fase recessiva e più scarsa in fase di espansione eccessiva).

Tuttavia la moneta fiat è intrinsecamente inflazionistica e profondamente immorale. E’ inflazionistica perché le autorità monetarie, per non sbagliare in senso restrittivo (provocando recessione), tendono ad esagerare in senso espansivo. Gli oppositori della fiat money portano a sostegno della loro tesi che, nel tempo, nessuna fiat money ha conservato inalterato , o quasi inalterato, il suo valore.

Anche in un Paese come gli Stati Uniti, avente grandi risorse e vincitore di due guerre mondiali, un dollaro del 1913, anno in cui fu costituita la Fed – cioè una banca centrale operante nella logica della fiat money – equivale a circa 30 dollari di oggi, cioè ha perso quasi il 97% del suo valore (in Italia lo stesso calcolo porterebbe ad una perdita del valore della lira di circa il 99,99%). In definitiva se è vero si sostiene che il prestigio di una banca centrale si misura con la sua capacità di governare la moneta fiat come se fosse una moneta aurea (vedi Deutsche Bundesbasnk nei decenni passati), perché non ricorrere alla soluzione di ripristinare una moneta convertibile in oro?

Così si eliminerebbe la tendenza intrinsecamente inflazionistica e si ripristinerebbe un sistema monetario sano e non immorale. Dove l’immoralità consiste nel fatto che le persone devono lavorare e faticare tutta la vita per ottenere quella moneta che per la banca centrale è solo un piccolo giro di rotativa.

Ma tant’è. Il ritorno ad una moneta merce, a livello nazionale, è improponibile perché si tratterebbe di ingabbiare lo sviluppo e di far dipendere il ciclo economico dalla disponibilità di oro.

Se il capitalismo tentasse di ritornare ancora su questa strada sarebbe spazzato via in breve tempo dalla furiosa reazione delle masse popolari che, in certi periodi, sarebbero ridotte alla fame. Rimane, quindi, solo la moneta atto di volontà con i suoi peccati originali intrinseci fra cui – come si è detto quello di essere inflazionistica. Per questo le banche centrali vedono nell’inflazione il prodotto delle loro azioni e insieme la loro bestia nera, il nemico con cui combattere una battaglia incessante, continua, senza quartiere.

Questo è il paradosso delle banche centrali del ‘900, o di questo secolo, rispetto ai vecchi istituti di emissione dell’800: creare necessariamente inflazione e combattere senza tregua la loro creatura. Fiat money e inflazione sono due fratelli gemelli e, contemporaneamente, due nemici acerrimi. E così è stato sempre, dal New Deal roosveltiano della metà degli anni ’30 alla fine degli anni ’80.

Ma poi è venuto lo shock: l’esperienza giapponese degli anni ’90. L’esperienza, cioè, di un Paese in cui la banca centrale, attrezzata a combattere l’inflazione, si è trovata indifesa contro la deflazione. E a questo punto i banchieri centrali hanno giurato a se stessi di fare qualunque cosa pur di non trovarsi invischiati nell’accoppiata moneta fiat/deflazione.

In particolare il banchiere centrale che, con più convinzione, ha giurato a se stesso di evitare questa accoppiata funesta è stato Greenspan. Anche perché egli ha capito che, essendo il Giappone un Paese creditore e i giapponesi dei grandi risparmiatori la deflazione ha prodotto ivi danni consistenti al sistema economico, ma limitati. Negli Stati Uniti, Paese debitore e i cui cittadini sono indebitati fino al collo, gli effetti della deflazione sarebbero catastrofici. Un certo grado di inflazione è cioè connaturato al buon funzionamento dell’economia americana. La deflazione, gonfiando i valori reali dei debiti, sarebbe sconvolgente a livello macro e micro economico.

Pur di evitare questa tragedia Greenspan non si è peritato, negli ultimi anni, di inondare il suo Paese, e indirettamente il mondo, di liquidità, minacciando quasi di lanciare i dollari sulla popolazione con gli aerei. Che questo comportamento della Fed potesse generare una nuova bolla speculativa, un nuovo rialzo insano dei prezzi delle azioni, dei bonds, degli immobili, delle materie prime era secondario. Che poi questa politica monetaria si scaricasse sulla debolezza del dollaro abbassando il cambio fino a livelli inimmaginabili in termini di potere d’acquisto era ininfluente. Per sopravvivere occorre fare una lotta senza quartiere alla deflazione. Poi si discute. Primum vivere, deinde philosophari. 

La Repubblica - Affari & Finanza

 

 

 

domenica 9 gennaio 2005   martedì 11 gennaio 2005   giovedì 13 gennaio 2005   venerdì 21 gennaio 2005
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ANSA  +++  Per George Soros l'euro sta diventando moneta di riserva ed è così spinto a livelli "insostenibilmete alti"  +++  ANSA

 

Soros: euro a livelli "insostenibilmente alti"

29 Gennaio 2005 Davos (Svizzera) ANSA

Per George Soros l' euro sta diventando valuta di riserva ed è così spinto a livelli "insostenibilmente alti". "L' euro sta emergendo come valuta di riserva ed è questo che fa scendere il dollaro e salire l' euro", ha detto il presidente del Soros Fund Management oggi a Davos (Svizzera) dove è in corso il 'World Economic Forum'.

"E' una situazione molto pericolosa. E' come - ha spiegato - un sistema circolatorio dove tre delle quattro valvole cardiache sono bloccate. Molti sono legati al dollaro e la maggior parte della pressione per diversificare dal dollaro ricade sull' euro. Questo spinge l' euro a livelli insostenibilmente alti", ha sottolineato Soros.

Fonte ANSA

 

 

 

 

Se l'euro diventa moneta di riserva

Molte banche centrali stanno sempre più considerando la valuta europea come riserva mondiale al posto del dollaro. Lo si deduce da una indagine sui gestori delle riserve di 65 Banche Centrali che ne detengono per $1.700 miliardi.

26 Gennaio 2005  0,11 Milano

Molte banche centrali stanno sempre più considerando l’euro come moneta di riserva mondiale. Lo si deduce da una indagine sui gestori delle riserve di 65 Banche centrali che ne detengono per 1700 miliardi di dollari. Attualmente le Banche centrali hanno, su scala mondiale, il 70 per cento delle loro riserve in dollari e titoli denominati in dollari. E, nel 2003 gli acquisti di titoli in dollari da parte delle Banche centrali hanno coperto l’80 per cento del deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti, che quest’anno ha un disavanzo di 650 miliardi di dollari.

La crescita delle riserve valutarie delle banche centrali tra il 2000 e il 2004 è stata anormalmente elevata: occorreva finanziare i nuovi sviluppi dei mercati asiatici e dei paesi dell’ex area sovietica, e sostituire parte dell’oro che non rende, con titoli fruttiferi. Ora l’incremento delle riserve subirà un rallentamento, ma sarà pur sempre robusto ed emerge la tendenza a fare largo spazio all’euro.

L’euro ormai è considerato una moneta di riserva altrettanto valida del dollaro, perché l’eurozona dal punto di vista economico ha dimensioni paragonabili a quella del dollaro e un crescente numero di paesi usa la valuta europea negli scambi internazionali. Questa prospettiva dà al sistema finanziario dell’euro alcuni vantaggi, ma pone anche grosse responsabilità di politica monetaria e fiscale all’Unione europea e alla Bce.

La tendenza delle Banche centrali ad acquistare euro infatti comporta che la bilancia dei pagamenti dell’eurozona, per mantenersi in equilibrio, debba avere un deficit di parte corrente, finanziato con il nuovo afflusso di mezzi finanziari. Se ciò non accadrà, la bilancia dei pagamenti dell’eurozona avrà un costante surplus: il cambio dell’euro tenderà a salire a livelli molto superiori alla parità fissata dal potere di scambio dei paesi membri con gli altri, alimentando la deindustrializzazione. Così è accaduto alla Spagna dal Seicento sino all’Ottocento a causa dei possedimenti di oro in America Latina. D’altra parte il cambio dell’euro dipenderà sempre di più dalle politiche dei paesi che ne detengono le riserve e la politica europea dovrà guardare di più all’esterno. 

Il Foglio

 

 

 

 

 

 

  Terrorismo: 10, 100, 100 Al Quaeda

Tra le conclusioni a cui sono giunti gli esperti del Consiglio nazionale dell’intelligence degli Stati Uniti, c'è questa: il terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare e a cambiare strategie e tattiche, nei prossimi anni.

19 Gennaio 2005  03,15 Roma

 

Quando si analizza lo stesso problema a lungo e a breve termine spesso si giunge a conclusioni diametralmente opposte. E’ il caso, per esempio, della minaccia posta dal terrorismo di matrice islamica alla sicurezza degli Stati Uniti.

Mapping the Global Future è un dossier accessibile al pubblico in cui il Consiglio nazionale dell’intelligence discute il proprio ruolo futuro, in quanto centro di studio strategico per il governo di Washington, a lungo termine. Negli ultimi sette anni sono stati stilati tre dossier di questo tipo: il primo analizzava i trend globali fino al 2010, il secondo fino al 2015, mentre è stato pubblicato giovedì un terzo dossier che prende in considerazione lo scenario internazionale fino al 2020.

Rispetto ai due progetti precedenti, quest’ultimo si è basato su simulazioni computerizzate e una consultazione di oltre un migliaio di esperti, che collaborando tra loro e in base alle rispettive competenze hanno contribuito a sviluppare il futuro scenario politico, strategico e della sicurezza da oggi al 2020, lavorando per circa un anno. I risultati dei vari workshop sono a disposizione del pubblico sul sito internet della Cia cliccando sulla pagina del National Intelligence Council.

Una della conclusioni a cui gli esperti del Consiglio d’intelligence sono giunti è che il terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare nei prossimi anni che, come in molti sostenevano già da prima, la globalizzazione fornirà agli estremisti mezzi sempre maggiori e a basso costi e che (forse è questa la notizia meno aspettata) il terrorismo diverrà sempre più innovativo: «I terroristi probabilmente saranno più originali, non tanto per quel che riguarda la tecnologia o le armi di cui faranno uso, quanto piuttosto secondo l’aspetto operativo - cioè nell’estensione, il progetto o la logistica di supporto di ogni attacco».

Come a dire che c’è da aspettarsi un aumento della creatività del modus operandi degli estremisti indipendentemente dai progressi tecnologici che essi riusciranno a compiere; il che non significa che non stiano cercando di acquisire nuovi mezzi scientifici. Secondo il dossier, infatti, «esiste la preoccupazione che i terroristi possano impossessarsi di agenti biologici oppure, meno probabilmente, di ordigni nucleari». In particolare, la minaccia del bioterrorismo è sembrata agli esperti più reale, perché le armi biologiche «sono particolarmente adatte a gruppi piccoli e bene informati».

Stando agli esperti, infatti, in tempo di globalizzazione il terrorismo di matrice islamica andrà sviluppandosi in cellule di dimensioni sempre più ridotte e meglio addestrate , che però si terranno in contatto tra loro, e internet faciliterà la condivisione di materiali per la guerra e l’addestramento. Al Qaida, insomma, è destinata ad essere gradualmente rimpiazzata da un network di entità islamiste «sempre più decentralizzato, che si evolverà in una schiera eclettica di gruppi, cellule ed individui senza alcun quartiere generale». Davanti alla prospettiva di un simile scenario, il Consiglio d’intelligence suggerisce un approccio al terrorismo «su diversi fronti», proprio in virtù della prevista decentralizzazione e ubiquità della minaccia islamista.

Secondo il dossier, inoltre, la capacità militare, politica, e tecnologica degli Stati uniti è destinata a crescere nei prossimi 15 anni, tanto che Washington manterrà il suo ruolo di guida mondiale nonostante l’ascesa di India e Cina, che pur avrà “impatti drammatici” sull’equilibrio internazionale. 

Il Riformista

 

 

 

+++  DDL: è ancora battaglia  +++  Tango Bond: l'alternativa alle scandalose proposte di Buenos Aires è un nuovo estenuante contenzioso con le banche  +++

venerdì 7 gennaio 2005   martedì 11 gennaio 2005   mercoledì 12 gennaio 2005   venerdì 14 gennaio 2005
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  Casa Rosada: sì ma di vergogna

Il problema è che a Parma il buco è stato di 19 miliardi di euro. Mentre Buenos Aires è esposta con il mondo per 102,6 miliardi di dollari di titoli di Stato, tra capitale e interessi mai pagati.

26 Gennaio 2005  04,50 New York

 

Il giudizio più gentile è che è «un colossale imbroglio». Quello più duro, che è «un volgare ricatto». Continuano tutti a chiamarli «tango-bond», con un termine intrinsecamente gentile. Ma la loro musica assomiglia sempre di più a quella suonata ai risparmiatori dai (per ora presunti) responsabili del crac Parmalat. Il problema è che a Parma il buco è stato di 19 miliardi di euro. Mentre Buenos Aires è esposta con il mondo per 102,6 miliardi di dollari di titoli di Stato, tra capitale e interessi mai pagati.

La storia dei tango-bond resterà fissa come un chiodo nella mente dei risparmiatori di mezzo mondo. Era la notte del Natale 2001 quando il governo del presidente argentino Adolfo Rodríguez Saa, appena insediato e subito alle prese con una crisi finanziaria senza precedenti, che provocava sommosse di piazza e morti, sospese il pagamento dei bond. Rendevano bene, fino al 9%. Erano garantiti da uno Stato sovrano. Le banche italiane ne avevano piazzati per circa 14 miliardi di euro a 450 mila risparmiatori: dopo l’Argentina, nel globo, era il nostro Paese quello con la quota principale, un sesto del totale.

Ora il nuovo governo argentino di Néstor Kirchner, in sella dal maggio 2003, propone al mondo di scambiare i 102,6 miliardi di quei maledetti tango-bond con nuove obbligazioni fino a un massimo di 41,8 miliardi. Il taglio in media è del 60%. «Prendere o lasciare» chiosa elegantemente il suo ministro dell’Economia, Roberto Lavagna. Le nuove emissioni avranno scadenza fino al 2045, nessuno, neanche la Casa Rosada (che pure ha il colore dell’ottimismo), ne garantisce bontà e vendibilità. Non è una provocazione. È quello che c’è scritto, nero su bianco, nelle 300 pagine del prospetto, approvato dalla Consob (leggere, per credere, l’articolo su Economy a pag. 30).

Certo, viene da domandarsi perché mai il Fondo monetario internazionale, che a Kirchner ha promesso un prestito da 13,5 miliardi di dollari e ne ha già versato una prima tranche da 3,5, non abbia cercato di ottenere in cambio almeno un po’ di correttezza nei confronti di una clamorosa massa di risparmiatori e di istituzioni finanziarie volgarmente gabbate.

Anche perché, nei tre anni trascorsi da quella fatidica notte di Natale, l’Argentina è molto cambiata. Pochi dati: allora l’inflazione era al 41%, oggi è bloccata al 5,2. Nel 2001 il Pil era arretrato del 5,5%, nel 2004 è cresciuto dell’8% e passa.

E la bilancia dei pagamenti era in rosso di quasi 4 miliardi di dollari, mentre nel solo primo semestre del 2004 ha sfiorato un attivo di 3,5. Era davvero impossibile fare meglio di quel misero 30-40% di rimborsi? Sarà. Nelle 20 ristrutturazioni di un debito statale andate in porto dal 1990, non era mai accaduto che gli obbligazionisti internazionali ci rimettessero più del 36 per cento.

Ora, comunque, anche in Italia qualcuno deve fare qualcosa contro l’imbroglio argentino e a favore degli obbligazionisti: si muova il governo italiano, l’opposizione in Parlamento non si tiri indietro.

Perché l’alternativa è un nuovo, infinito contenzioso tra risparmiatori e banche. E questo Paese non può cavarsela sempre con un giro di valzer. O di tango.  

Economy

 

 

 

  Cosa fare con quei pirati di Buenos Aires

Tango-bond: per gli italiani respingere l’offerta è molto più pericoloso che accettarla. Per cui la decisione di dire di sì sarà poca eroica, ma è molto prudente. Per ora non c’è una fretta nera: la prima scadenza infatti è il 4 febbraio.

26 Gennaio 2005  04,17 Torino (di Beppe scienza*)

*Beppe Scienza e' Professore nel Dipartimento di Matematica dell’Università degli Studi di Torino.

 

Molte associazioni di consumatori fanno la voce grossa invitando i risparmiatori a rifiutare la deludente soluzione che l’Argentina propone ai suoi obbligazionisti. È stranamente la stessa posizione della cosiddetta Task Force Argentina (TFA), finanziata dalle banche e quindi con un grave conflitto d’interessi, che minaccia cause contro i cugini sudamericani.

Tali discorsi non convincono. Come potranno costoro ottenere più di quanto hanno ottenuto in tre anni, cioè niente, proprio dopo che l’Argentina avrà sistemato almeno in parte le sue pendenze? È poi gravissimo che alcuni parlino di un fantomatico (e inesistente) quorum necessario per la validità dell’offerta, mentre è curioso che in altri paesi coinvolti, quali la Germania , non ci sia tanto can-can.

Più saggia quindi la scelta della Confconsumatori, la cui presidente Mara Colla ha anticipato a la Repubblica che non adotteranno tale posizione di rifiuto aprioristico.

Respingere l’offerta è infatti molto più pericoloso che accettarla.

 

I rischi del no

Chi non accetta lo scambio corre un forte rischio di trovarsi dopo la chiusura dell’offerta con titoli deprezzati, non più quotati e con la prospettiva di non incassare nulla per anni. L’Argentina ha infatti dichiarato "che non intende riprendere i pagamenti per nessuna serie di obbligazioni in circolazione" (paragrafo a.3.a.i).

Viceversa ad aderire si rischia poco, perché c’è una clausola importantissima ma poco nota, per cui "qualora l’Argentina dovesse lanciare un’offerta di acquisto o scambio entro il 2014" essa s’impegna a permettere la partecipazione anche a chi ha aderito adesso (paragrafo e.1.1). Per cui la decisione di dire di sì sarà poca eroica, ma è molto prudente.

Per ora non c’è una fretta nera, perché la prima scadenza è il 4 febbraio e vale solo per avere precedenza nell’assegnazione dei titoli cosiddetti Par. La scadenza ultima è il 25 febbraio. Volendo si può anche aspettare sino alla fine, sperando che una scarsa adesione costringa l’Argentina a migliorare l’offerta. Ma arrivati agli sgoccioli, la situazione diventerà critica. Potrebbe infatti essere consegnata una valanga di titoli proprio negli ultimi due giorni, come spesso capita in tali casi, e allora per chi resta fuori sarebbe molto grigia. 

I titoli migliori

Per la stragrande maggioranza degli italiani che aderiscono, l’alternativa è fra le obbligazioni Par 2038 e le Discount 2033. Ma solo nel caso di rendimenti futuri superiori al 9,5% si otterrebbe di più con queste ultime, per cui in linea di massima conviene optare per le Par. Non per niente sono contingentate, in quanto pensate per i piccoli obbligazionisti. Peraltro le differenze non saranno enormi.

Purtroppo la proposta di scambio è molto complicata e stupisce che nessuno abbia sollevato tale critica fra quanti strepitano contro di essa. Proprio per facilitare le valutazioni dei lettori de la Repubblica , al Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino abbiamo predisposto un apposito file in Excel liberamente scaricabile dall’indirizzo di Internet www.beppescienza.it

Esso permette di valutare non solo i titoli Par e Discount in euro, ma anche i Quasi Par 2045 in pesos (richiesta minima 280 mila euro!), considerando pure i Titoli PIL indicizzati al Prodotto Interno Lordo argentino, che verranno consegnati insieme agli altri.

Si possono così ottenere diverse stime, con differenti ipotesi sui tassi, di quanto avrà in mano il 1° aprile chi aderisce all’offerta. Per la cronaca ora il mercato stima tale valore in circa 2830 euro ogni 100 euro di valore di scambio delle obbligazioni argentine attualmente in circolazione (e in sofferenza). 

La Repubblica - Affari & Finanza

 

 

 

giovedì 20 gennaio 2005   venerdì 21 gennaio 2005   mercoledì 26 gennaio 2005   giovedì 27 gennaio 2005
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Cirio Bond: condannata la prima banca

Un tribunale costringe la Popolare Lodi , per omessa informazione, a risarcire nove persone che avevano acquistato le famose obbligazioni restituendo loro l’intero ammontare dell’investimento oltre agli interessi legali.

29 Gennaio 2005  15,35  Roma (di Sergio Rizzo)

«Si deve ritenere che l’intermediario è venuto meno all’obbligo di curare l’interesse dell’investitore, obbligo che si spinge fino al punto di imporre al primo di valutare l’adeguatezza di ogni operazione disposta dal secondo». Con questa motivazione la nona sezione del Tribunale civile di Roma, presieduta da Ernesto Caliento, ha condannato qualche settimana fa la Banca Popolare di Lodi guidata da Gianpiero Fiorani a risarcire nove persone che avevano acquistato Cirio bond restituendo loro l’intero ammontare dell’investimento oltre agli interessi legali.

La cifra non è astronomica: 100 mila euro in tutto. Ma per la prima volta un Tribunale ritiene una banca responsabile di aver violato le regole «di informazione e di valutazione dell’adeguatezza dell’operazione» nella vendita di obbligazioni Cirio a risparmiatori che erano pure suoi correntisti. Con una decisione destinata forse a rappresentare un precedente.

I nove piccoli investitori, nella causa patrocinata dagli avvocati Carlo Felice Giampaolino e Alessandro Lendvai, avevano sostenuto di aver acquistato i bond Cirio emessi a Lussemburgo (poi andati in default) nell’agosto del 2000 su proposta della banca e senza adeguata informazione. Il ricorso al Tribunale precisava inoltre che «le obbligazioni non erano accompagnate da prospetto informativo, essendo riservate a investitori istituzionali». La Popolare di Lodi ha replicato sostenendo di aver «adempiuto a tutti gli obblighi previsti», chiedendo ai risparmiatori notizie circa le precedenti esperienze in investimenti finanziari e la propensione al rischio, consegnando loro il «documento sui rischi generali» degli investimenti e valutando «l’adeguatezza dell’operazione». Anche se questa valutazione, è la tesi della banca, sarebbe stata «resa impossibile dal rifiuto dei clienti a fornire le informazioni richieste».

Il giudice è invece arrivato alla conclusione che l’istituto sarebbe venuto meno «al dovere di informarsi in ordine alla tipologia e affidabilità del titolo» assumendo «un comportamento non diligente e non rispondente alla necessità di proteggere investitori non professionali». Secondo il Tribunale, inoltre, il rifiuto del risparmiatore a fornire notizie non può «assumere il significato di un esonero o di una limitazione di responsabilità dell’intermediario nei confronti dell’investitore non professionale».

Caliento ricorda al proposito che i risparmiatori avrebbero dichiarato «di aver sottoscritto i documenti consegnati dalla controparte senza sapere cosa stessero firmando», e che il regolamento Consob «impone agli intermediari di astenersi da operazioni non adeguate». E secondo il giudice era «chiaro», trattandosi di correntisti, sui quali la banca disponeva quindi di proprie informazioni, «che l’operazione proposta non fosse adeguata in relazione alla loro situazione patrimoniale e alla scarsa propensione al rischio». La banca avrebbe perciò violato «i doveri di informarsi e informare», omettendo «informazioni sulle caratteristiche dei titoli» e «sulla non destinazione primaria ai risparmiatori». 

Corriere della Sera

 

 

 

 

  Famiglie più ricche a ruba azioni e obbligazioni

Dai conti finanziari della Banca d' Italia emerge che nel terzo trimestre 2004 gli italiani sono più ricchi (+10,41%) e hanno riscoperto, complice il buon andamento in Borsa, l' amore per azioni e bond.

29 Gennaio 2005 - 13,55 Roma  (ANSA)

Le famiglie italiane sono più ricche (+10,41%) ed hanno riscoperto, complice il buon andamento della Borsa, l' amore per le azioni. Non sono finiti nel dimenticatoio, però, i vecchi e cari titoli di Stato che, pur essendo meno redditizi, danno una maggiore sicurezza. A scattare la fotografia delle famiglie italiane sono i conti finanziari della Banca d' Italia, dai quali emerge che nel terzo trimestre del 2004 il circolante è ammontato a 498.445 milioni di euro, l' 8,18% in più rispetto allo stesso periodo del 2003.

Negli ultimi tre mesi dello scorso anno le azioni e le altre partecipazioni hanno registrato una crescita degli stock del 26,65%, passando da 553.685 milioni di euro del terzo trimestre 2003 agli attuali 701.221 milioni. Il confronto con il trimestre precedente, però, mette in luce un rallentamento delle consistenze, che nel periodo aprile-giugno erano ammontate a 708.654 milioni di euro.

A confermare la decelerazione sono i dati negativi sui flussi di risparmio verso le azioni, risultati negativi per 9.919 milioni di euro, a fronte di un attivo di 6.889 milioni nel trimestre precedente. In salita, anche se in modo decisamente meno accentuato, i titoli a medio e lungo termine, cioé le obbligazioni: in un anno lo stock, infatti, è aumentato del 7,81% attestandosi a 664.907 milioni di euro.

Guardando alle varie componenti emerge però un andamento altalenante, con i Btp che segnano un progresso del 13,48%, a fronte del -37,31% dei Cct. Cedono anche i fondi comuni, realizzando nel terzo trimestre 2004 una perdita in termini di consistenze del 5,44% rispetto agli ultimi tre mesi del 2003, a quota 339.398 milioni di euro. Negativo anche il bilancio trimestrale in termini di flussi (-2.513 milioni di euro). Si mantengono stabili, invece, i Bot: dopo un primo trimestre difficile, i titoli del Tesoro hanno riscoperto l' appeal perduto raccogliendo nel periodo luglio-settembre 2004 uno stock di 22.816 milioni di euro (+6,89%), mentre il flusso è risultato pari a 84 mln, contro i 12,325 miliardi del trimestre precedente ed i -1.891 milioni degli ultimi tre mesi del 2003. Ecco di seguito una tabella che riporta le consistenze delle famiglie italiane suddivise nei vari strumenti finanziari. Il confronto è fra i dati del terzo trimestre 2003 e del terzo del 2004.

III TRIM.2003 III TRIM.2004

Biglietti, monete, depositi vista 460.767 498.445 Altri depositi 279.338 302.363 Titoli a breve termine 21.346 22.816-emessi dalle ammin. pubbliche 20.814 22.305-emessi da altri residenti 270 237-emessi dal resto del mondo 263 274Titoli a medio-lungo termine 616.723 664.907-emessi da istituz. finanz. mon. 291.378 320.706-emessi da ammin. centrali (Cct) 29.025 18.196-emessi da ammin. centrali (altri) 158.919 180.335-emessi da ammin. locali 1.788 2.246-emessi da altri residenti 40.880 55.027-emessi da resto del mondo 94.733 88.398Azioni ed altre partecipazioni 553.685 701.221-emesse da residenti 485.228 625.930-emessa da resto del mondo 68.457 75.291Quote di fondi comuni 358.910 339.398Riserve tecniche di assicurazione 453.504 501.193Altri conti attivi e passivi 4.788 4.894 TOTALE 2.749.061 3.035.235 

29 Gennaio 2005 - 13,55 Roma  (ANSA)

 

 

 

 

 

LA BOLLA DEI DERIVATI UNA SCOMMESSA TRUCCATA

21 gennaio 2005 - 16,15 Milano (di Fabrizio Tedeschi*)

*Fabrizio Tedeschi e´ editorialista di Panorama Economy. Consulente di grandi banche e gruppi finanziari, per otto anni e´ stato responsabile della Divisione Intermediari della Consob a Milano.

(WSI) - L’indagine conoscitiva della Consob alla commissione Finanze della Camera raccoglie una mole di dati rassicuranti sugli strumenti finanziari derivati collocati dalle banche alle imprese. In sostanza, le aziende coinvolte sarebbero 40-50 mila con una perdita media che non dovrebbe superare gli 80 mila euro. Tutto nella norma dunque?

A una prima lettura sembrerebbe di sì, ma andando più nel dettaglio dei numeri, alcuni suscitano in effetti qualche perplessità. In generale, comprendendo nel calcolo anche i rapporti tra intermediari veramente professionali e non solo quanti si sono limitati a dichiararlo, le posizioni di perdita e profitto di fatto si equivalgono (47 milioni di euro contro 54) con un margine di intermediazione dell’8%, molto elevato, ma in linea con quelli che sono i profitti da posizione. Il risultato cambia se si considerano le imprese non finanziarie: in questo caso le posizioni in perdita raggiungono una misura variabile dall’80 al 90%. Il risultato lascia perplessi anche se secondo la Consob è giustificato dal massiccio indebitamento a breve termine delle imprese italiane.

Lo strumento derivato è una scommessa sull’andamento del cosiddetto sottostante (tassi d’interesse, valute e indici), da cui derivano i propri risultati. Laddove uno dei due scommettitori vinca in misura superiore all’80% dei casi, viene da pensare che costui abbia giocato conoscendo qualche elemento in più dello sconfitto. Nel mercato finanziario questo potrebbe essere un classico esempio di asimmetria informativa, dove il soggetto che sa le cose ha giocato slealmente a danno di chi non le conosceva.  

 

Economy

 

 

 

 

LE IMPRESE ITALIANE PERDONO 4 MILIARDI IN DERIVATI 

13 Gennaio 2005 - 02,18 Milano

A tanto ammonta il buco che registrerebbero i clienti della banche, in primo luogo aziende, se chiudessero oggi le loro posizioni. I risultati di un´indagine Consob presentata alla Camera. Coinvolte ben 30.000 piccole e medie societa'.

Quattro miliardi. A tanto ammonta il buco che registrerebbero i clienti della banche, in primo luogo imprese, se chiudessero oggi le loro posizioni in derivati. È il risultato dell´indagine della Consob che ieri il funzionario generale Antonio Rosati ha esposto alla commissione Finanze della Camera.

«Se è vero che gran parte dei contratti stipulati aveva una finalità di copertura, soprattutto su variazioni dei tassi di interesse o dei tassi di cambio, il fatto che oggi tali contratti abbiano un valore di mercato negativo può non rappresentare di per sé un´evidenza di una situazione patologica, ma può indicare semplicemente il fatto che è stato coperto un rischio che non si è realizzato».

L´indagine dell´Autorità guidata da Lamberto Cardia ha riguardato i maggiori dieci gruppi bancari ed è dunque rappresentativa di circa il 65% del totale delle posizioni in essere. Le dimensioni del fenomeno potrebbero essere di circa un terzo superiori a quanto rilevato dalla Consob.

«Le imprese interessate all´indagine sui derivati sono circa 30.000, soprattutto piccole e medie» ha precisato il presidente di Confapi, Danilo Broggi, anch´egli sentito in commissione finanze alla Camera. Per Confapi, «sono state soprattutto le aziende più piccole a essere coinvolte, senza avere la dovuta conoscenza dei derivati. Da questa incomprensione - ha rilevato Broggi - è scaturito il "fenomeno dei derivati"».

 

La Repubblica