|
|
 |
|
 |
|
|
. |
|
|
Allarme
rosso
sul mercato immobiliare
In
assenza di accurate scelte di politica economica del governo Usa, nei prossimi
due anni assisteremo ad una serie di sconvolgimenti
sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression”.
6 Gennaio 2005
0:06
Los
Angeles
(di
Dario Bianchi)
*Dario Bianchi e' il Managing Director di Capitalife, Inc. www.capitalife.com.
E’
tempo di cambiamenti dirompenti sui mercati finanziari internazionali. In
questo momento il dollaro ha raggiunto i
minimi storici contro l’Euro. Non si vedevano cambi di questo genere dagli
anni '70, quando Nixon separò il golden standard dal dollaro.
Nel
lontano 1972 l’oro veniva quotato $32 per oncia. Se oggi tutte le valute
fossero legate ad un “hard asset” come l’oro,
o l’argento, la maggior parte dei paesi non dovrebbe fare continuo ricorso
alla creazione di carta moneta, ed i problemi monetari sarebbero
complessivamente e globalmente più gestibili.
Il valore di ogni moneta sarebbe solido,
la speculazione non intaccherebbe le valute con l’attuale intensità e si
eviterebbe un’eccessiva espansione della massa monetaria.
In aggiunta, i governi non avrebbero a disposizione leve finanziarie e non
spenderebbero più fondi di quelli realmente disponibili. Il risultato sarebbe
una tassazione più bassa ed equa, ed un risparmio più alto.
Dobbiamo
assumere che, non avendo esercitato tale
disciplina monetaria negli ultimi 30 anni, il governo degli Stati Uniti e quelli
Europei difficilmente la applicheranno in futuro. Se
il crescente debito degli USA ed il deficit corrente continueranno sugli attuali
livelli, il sistema di cambi che oggi conosciamo verrà distrutto.
Quanto tempo è necessario prima che questo accada? Difficile dirlo con
precisione, ma dobbiamo essere consapevoli che, in assenza di accurate scelte di
politica economica, nei prossimi due anni assisteremo ad una serie di
sconvolgimenti sui mercati finanziari che ci ricorderanno la “Great Depression”
degli anni 30.
Il dilemma
del Real Estate
In
un recente articolo, The Economist riporta che “negli ultimi tre anni
il valore totale del real estate residenziale nei paesi industrializzati, ha
avuto un incremento da un valore totale di circa $20,000 miliardi, ad uno
approssimativo di $60,000 miliardi. Anche se ciò
è in parte dovuto al declino del dollaro, è pur sempre il doppio
dell’incremento di $10,000 miliardi, che avvenne dal 1999 al 2000 con
l’esplosione del mercato azionario. E’ questa la più grande bolla della storia?” Questo
articolo ci fa capire come l’economia si sia sostenuta dal 2000 ad oggi.
Prendendo
come riferimento i principali indicatori real estate per queste previsioni
economiche, vediamo come lo scenario può
evolvere. Vari fattori portano a ritenere che nel 2005 e 2006, in alcune zone
degli USA (East Coast and West Coast) ed alcuni paesi Europei (Inghilterra,
Italia, Spagna, Olanda e Irlanda), centinaia di migliaia di persone non avranno
fondi a sufficienza per pagare i mutui, specialmente quelli legati ai tassi a
breve ed all’inflazione (in USA chiamati ARM’s). Questo porterà ad una
riduzione del valore del real estate residenziale.
Difficile prevedere le proporzioni di
tale fenomeno: se il prezzo delle case diminuirà fino ad un 10%, la riduzione
sarà ordinata e l’economia potrà sopravvivere e progredire. Se il prezzo
scenderà dal 20% al 25%, potremo assistere, analogamente a quanto successe
all’inizio degli anni '90, a proprietari che abbandonano le loro case alle
banche. A questo punto un intervento governativo si renderà necessario. Ricordate
la Resolution Trust Corporation, quando il salvataggio del governo americano era
costato all’erario circa 500 miliardi di dollari? Se questo scenario dovesse
ripetersi, in USA ci vorranno dai $700 miliardi ai $1.000 miliardi (un bilione)
di denaro fresco per prevenire il collasso di molte banche.
Il
paragone potrebbe essere il mercato immobiliare Giapponese dal 1991 al 2003.
Dove è possibile trovare una somma di questo tipo? D’accordo,
qualche investitore straniero, visti i prezzi molto bassi, comprerà real estate
in USA, ma la maggioranza verrà dal governo federale che dovra’ ricorrere
all’emissione di Treasury Bonds.
A
questo punto chiediamoci chi comprerà gli US Treasury Bonds per finanziare il
deficit federale, considerando il contemporaneo deficit statale, delle società
private, dei singoli individui e, soprattutto, una capacità di risparmio
praticamente inesistente? I cinesi, o forse i giapponesi?
E per quanto tempo? A quale costo? Dove andranno a finire i prezzi delle
commodities? Continueranno ad essere trattati in dollari? Cosa farà l’OPEC?
Potrebbe decidere domani di convertire il prezzo dai dollari agli Euro, oppure
in un basket di valute che comprende il dollaro, l’euro e lo yen. Cosa farà
la Russia? Contratti di gas naturale in Euro?
Se il governo USA non diminuisce il
proprio deficit corrente e riduce il debito che ha raggiunto $8.000 miliardi, si
puo' essere certi che avremo inflazione e stagnazione allo stesso tempo.
In
ogni caso la nostra opinione e' che il prezzo dell’oro andrà a $500 per oncia
prima della fine del 2005. E i tassi di interesse a breve (federal funds)
saranno tra il 3.5% ed il 3.75% alla fine del 2005.
Asset
allocation
Nello
scenario di cui sopra ogni investitore dovrebbe essere preparato da tempo a
diversificare in valute. Il nostro model portfolio è dinamico ed attualmente
strutturato come segue: 40% in dollari US, il resto in Euro, Sterlina Inglese,
Dollaro Australiano, Dollaro Canadese.
Per
quanto riguarda l’asset allocation il nostro model portfolio è il seguente:
10%
cash o money market
7%
azioni di miniere di oro e argento, certificati di investimento in oro (Perth
Mint Certificate), fondi che investono
in oro, e monete d’oro
33%
in azioni di vario tipo (Life Sciences al 40%) e mutual
funds
20%
in mercati esteri ed emergenti attraverso fondi di investimento
30%
in obbligazioni a breve termine (3 anni) in differenti valute, con rating A o
superiore.

By Dario A.
Bianchi • Capitalife, Inc.
Wall
Street
nelle mani dei big
Per
gli analisti sarà un anno positivo.
Ma solo Yardeni pensa che il Dow Jones possa già battere il record del 2000.
Dopo il rally delle small cap, ora si punta su titoli solidi come Citigroup, 3M,
General Electric.
27
Gennaio 2005 - 02,38
New York (di M. Teresa Cometto)
Solo il più ottimista fra i guru di Wall Street si azzarda a scommettere che,
entro il
2005, l
'indice Dow Jones delle blue chip tornerà al suo massimo di 11.722,98 punti,
toccato ormai cinque anni fa, il
14 gennaio 2000
. Per tutti gli altri quel traguardo sembra ancora lontano, nonostante il 2005
si presenti come un anno favorevole alla società con maggiore capitalizzazione
di Borsa.
Il
2004 infatti si è chiuso con un rally della Borsa dovuto soprattutto alle
società medio-piccole: l'indice S&P500 (quello più generale) ha guadagnato
il 9% in 12 mesi, mentre il Russell2000 - rappresentativo delle small cap - è
risalito del 17% e il Dow Jones Industrial Average - DJIA, composto dalle 30
aziende più grandi e più diffuse fra il pubblico - si è fermato al 3,15%.
Ora
tocca a quest'ultimo guidare la ripresa, secondo Jason Trennert , strategist
azionario di ISI Group , che l'anno scorso aveva quasi azzeccato in pieno le sue
previsioni sul Dow Jones: aveva detto che avrebbe chiuso il
2004 a
10.800, appena 17 punti sopra il livello realmente raggiunto, 10.783. Ma la
ripresa sarà piuttosto lenta, in linea con una crescita del 5-6% nominale (al
lordo dell'inflazione) del prodotto interno lordo e del 6-7% dei profitti,
secondo i calcoli di ISI Group.
«In
questo scenario - spiega Trennert - dovrebbero comportarsi meglio le società più
grandi, perché hanno molta liquidità a disposizione e la possono usare per
guadagnare quote di mercato o per ripagare i debiti o per fusioni e acquisizioni
o ancora per aumentare la quota di dividendi pagati agli azionisti. Possono
insomma sfruttare le economie di scala per alimentare la propria crescita».
Fra
le blue chip Trennert preferisce i titoli industriali - come General Electric e
3M -, perché il loro business è uno dei pochi in cui le aziende hanno il
potere di alzare i prezzi; e i farmaceutici, come Pfizer, che sono molto
sottovalutati. Quanto al record storico - dice Trennert - forse il Dow Jones
tornerà a toccarlo nel 2006, ma nel frattempo bisogna accontentarsi di arrivare
quest'anno a quota 11.250, con un rialzo del 4,3%.
Ancor
più cauto è Henry Dickson , responsabile delle strategie sulla Borsa americana
per Lehman Brothers (anche lui molto accurato nelle previsioni 2004): il suo
target è 11.100 punti (»2,9%). «Il mercato sta ancora soffrendo le
conseguenze della Bolla - dice Dickson -. Ma poiché nel complesso le aziende
siedono su 750 miliardi di dollari di liquidità, gli investitori possono
aspettarsi che questo cash sia usato per aumentare i dividendi e, forse, anche i
profitti».
Il
tema dei dividendi è in effetti uno dei più ricorrenti fra le idee
d'investimento per il 2005. Soprattutto gli strategist che si aspettano poco dal
rialzo delle quotazioni di Borsa - come Thomas McManus e Richard Bernstein,
rispettivamente di Banc of America Securities e Merrill Lynch - raccomandano di
puntare sulle società solide, con il miglior rendimento in termini di rapporto
fra dividendo e prezzo delle azioni.
Fra
le 30 blue chip del Dow Jones, ce ne sono ben dieci che possono fregiarsi del
titolo «nobiliare» Dividend Aristocrat (aristocratico del dividendo),
inventato dalla società di analisi Standard & Poor's per designare le
aziende che per 25 anni di fila hanno distribuito dividendi sempre in crescita:
Altria, Coca-Cola, General Electric, Johnson&Johnson, McDonald's, Merck,
Pfizer, Procter&Gamble, Wal-Mart, 3M. Fra queste dieci, poi, alcune offrono
un rendimento che fa concorrenza ai titoli di Stato: il 4,9% Merck (le cui
quotazioni sono scese del 30% nel 2004 per la crisi dell'antidolorifico Vioox),
il 4,7% Altria (gruppo a cui fa capo il colosso del tabacco Philip Morris), il
2,9% Pfizer (che l'anno scorso ha perso il 24%).
Decisamente
più ottimista - dopo aver sbagliato ad essere Orso (negativo) nel 2004 - è
Tobias Levkovich di Smith Barney (Citigroup): vede il Dow Jones a quota 11.700
(più 8,5%) per fine 2005 e non è sorpreso dagli scivoloni di inizio anno. «Avevo
avvisato i miei clienti che gennaio sarebbe stato un mese difficile, con l'ansia
per i risultati dell'ultimo trimestre 2004, le tensioni geopolitiche per le
elezioni in Iraq, le paure per il caro-petrolio - sostiene Levkovich -. Ma nel
complesso l'anno sarà positivo, grazie al netto miglioramento dei bilanci
aziendali». A Levkovich piacciono in particolare le grandi società
farmaceutiche, le cui quotazioni sono basse come ai tempi del tentativo di
Hillary Clinton di rivoluzionare il sistema sanitario Usa.
L'unico
che sogna il record entro 12 mesi è Ed Yardeni , strategist di Oak Associates,
che però è tradizionalmente un Toro (ottimista sulla Borsa) e già a fine 2004
vedeva il Dow Jones a quota 11.700. «L'economia globale sta vivendo un boom e
la seconda metà degli anni 2000 sarà per gli investitori brillante come lo era
stata la seconda metà degli anni Novanta», dichiara Yardeni, che fra le 30
blue chip predilige il colosso bancario Citigroup.
 |
Corriere della Sera |
FIAT
MONEY
Un
dollaro del 1913, anno in cui fu costituita
la
Federal Reserve
– una banca centrale operante nella logica di una moneta non legata all'oro
– equivale a circa 30 dollari di oggi. Cioè
ha perso quasi il 97% del suo valore. Per cui...
11
Gennaio 2005 02:00 Milano
(di
Francesco Arcucci)
La
moneta all’interno di un Paese deve essere creata dalle autorità monetarie su
base discrezionale oppure in stretto rapporto con un bene reale, tipicamente
l’oro? Il primo modo di creare
moneta è detto, in particolare negli Stati Uniti, moneta tratta dall’area
sottile (out
of thin air) o anche "sia fatta la moneta" (fiat money)
e presenta molti vantaggi rispetto alla moneta merce. In particolare quello di
venir offerta per qualità e quantità in relazione all’evoluzione del Pil o
anche per stimolare lo sviluppo del medesimo e, quindi, in funzione anticiclica
(abbondante in fase recessiva e più scarsa in fase di espansione eccessiva).
Tuttavia
la moneta fiat è intrinsecamente inflazionistica e profondamente immorale. E’
inflazionistica perché le autorità monetarie, per non sbagliare in senso
restrittivo (provocando recessione), tendono ad esagerare in senso espansivo.
Gli oppositori della fiat money portano a sostegno della loro tesi che, nel
tempo, nessuna fiat money ha conservato inalterato , o quasi inalterato, il suo
valore.
Anche
in un Paese come gli Stati Uniti, avente grandi risorse e vincitore di due
guerre mondiali, un dollaro del 1913, anno in cui fu costituita
la Fed
– cioè una banca centrale operante nella logica della fiat money –
equivale a circa 30 dollari di oggi, cioè ha perso quasi il 97% del suo valore
(in Italia lo stesso calcolo porterebbe ad una perdita del valore della lira di
circa il 99,99%). In definitiva se è vero si sostiene che il prestigio
di una banca centrale si misura con la sua capacità di governare la moneta fiat
come se fosse una moneta aurea (vedi Deutsche Bundesbasnk nei decenni passati), perché
non ricorrere alla soluzione di ripristinare una moneta convertibile in oro?
Così
si eliminerebbe la tendenza intrinsecamente inflazionistica e si ripristinerebbe
un sistema monetario sano e non immorale.
Dove l’immoralità consiste nel fatto che le persone devono lavorare e
faticare tutta la vita per ottenere quella moneta che per la banca centrale è
solo un piccolo giro di rotativa.
Ma
tant’è. Il ritorno ad una moneta merce, a livello nazionale, è improponibile
perché si tratterebbe di ingabbiare lo sviluppo e di far dipendere il ciclo
economico dalla disponibilità di oro.
Se
il capitalismo tentasse di ritornare ancora su questa strada sarebbe spazzato
via in breve tempo dalla furiosa reazione delle masse popolari che, in certi
periodi, sarebbero ridotte alla fame. Rimane, quindi, solo la moneta atto
di volontà con i suoi peccati originali intrinseci fra cui – come si è detto
quello di essere inflazionistica. Per
questo le banche centrali vedono nell’inflazione il prodotto delle loro azioni
e insieme la loro bestia nera, il nemico con cui combattere una battaglia
incessante, continua, senza quartiere.
Questo
è il paradosso delle banche centrali del ‘900, o di questo secolo, rispetto
ai vecchi istituti di emissione dell’800: creare necessariamente
inflazione e combattere senza tregua la loro creatura. Fiat
money e inflazione sono due fratelli gemelli e, contemporaneamente, due nemici
acerrimi. E così è stato sempre, dal New Deal roosveltiano della metà degli
anni ’30 alla fine degli anni ’80.
Ma
poi è venuto lo shock: l’esperienza giapponese degli anni ’90.
L’esperienza, cioè, di un Paese in cui la banca centrale, attrezzata a
combattere l’inflazione, si è trovata indifesa contro la deflazione.
E a questo punto i banchieri centrali hanno giurato a se stessi di fare
qualunque cosa pur di non trovarsi invischiati nell’accoppiata moneta
fiat/deflazione.
In
particolare il banchiere centrale che, con più convinzione, ha giurato a se
stesso di evitare questa accoppiata funesta è stato Greenspan. Anche
perché egli ha capito che, essendo il Giappone un Paese creditore e i
giapponesi dei grandi risparmiatori la deflazione ha prodotto ivi danni
consistenti al sistema economico, ma limitati. Negli
Stati Uniti, Paese debitore e i cui cittadini sono indebitati fino al collo, gli
effetti della deflazione sarebbero catastrofici.
Un certo grado di inflazione è cioè connaturato al buon funzionamento
dell’economia americana. La
deflazione, gonfiando i valori reali dei debiti, sarebbe sconvolgente a livello
macro e micro economico.
Pur
di evitare questa tragedia Greenspan non si è peritato, negli ultimi anni, di
inondare il suo Paese, e indirettamente il mondo, di liquidità, minacciando
quasi di lanciare i dollari sulla popolazione con gli aerei.
Che questo comportamento della Fed potesse generare una nuova bolla speculativa,
un nuovo rialzo insano dei prezzi delle azioni, dei bonds, degli immobili, delle
materie prime era secondario. Che poi questa politica monetaria si
scaricasse sulla debolezza del dollaro abbassando il cambio fino a livelli
inimmaginabili in termini di potere d’acquisto era ininfluente. Per
sopravvivere occorre fare una lotta senza quartiere alla deflazione. Poi si
discute. Primum vivere, deinde philosophari.
La Repubblica
- Affari & Finanza
Soros:
euro a livelli "insostenibilmente alti"
29
Gennaio 2005 Davos (Svizzera) ANSA
Per
George Soros l' euro sta diventando valuta di riserva ed è così spinto
a livelli "insostenibilmente alti". "L' euro sta
emergendo come valuta di riserva ed è questo che fa scendere il dollaro
e salire l' euro", ha detto il presidente del Soros Fund Management
oggi a Davos (Svizzera) dove è in corso il 'World Economic Forum'.
"E'
una situazione molto pericolosa. E' come - ha spiegato - un sistema
circolatorio dove tre delle quattro valvole cardiache sono bloccate.
Molti sono legati al dollaro e la maggior parte della pressione per
diversificare dal dollaro ricade sull' euro. Questo spinge l' euro a
livelli insostenibilmente alti", ha sottolineato Soros.
Fonte
ANSA
|
Se
l'euro diventa moneta di riserva
Molte
banche centrali stanno sempre più considerando la valuta europea come
riserva mondiale al posto del dollaro. Lo si deduce da una
indagine sui gestori delle riserve di 65 Banche Centrali che ne
detengono per $1.700 miliardi.
26
Gennaio 2005 0,11 Milano
Molte
banche centrali stanno sempre più considerando l’euro come moneta di
riserva mondiale. Lo si deduce da una indagine sui gestori delle riserve
di 65 Banche centrali che ne detengono per 1700 miliardi di dollari.
Attualmente le Banche centrali hanno, su scala mondiale, il 70 per cento
delle loro riserve in dollari e titoli denominati in dollari. E, nel
2003 gli acquisti di titoli in dollari da parte delle Banche centrali
hanno coperto l’80 per cento del deficit della bilancia commerciale
degli Stati Uniti, che quest’anno ha un disavanzo di 650 miliardi di
dollari.
La
crescita delle riserve valutarie delle banche centrali tra il 2000 e il
2004 è stata anormalmente elevata: occorreva finanziare i nuovi
sviluppi dei mercati asiatici e dei paesi dell’ex area sovietica, e
sostituire parte dell’oro che non rende, con titoli fruttiferi. Ora
l’incremento delle riserve subirà un rallentamento, ma sarà pur
sempre robusto ed emerge la tendenza a fare largo spazio all’euro.
L’euro
ormai è considerato una moneta di riserva altrettanto valida del
dollaro, perché l’eurozona dal punto di vista economico ha dimensioni
paragonabili a quella del dollaro e un crescente numero di paesi usa la
valuta europea negli scambi internazionali. Questa prospettiva dà al
sistema finanziario dell’euro alcuni vantaggi, ma pone anche grosse
responsabilità di politica monetaria e fiscale all’Unione europea e
alla Bce.
La
tendenza delle Banche centrali ad acquistare euro infatti comporta che
la bilancia dei pagamenti dell’eurozona, per mantenersi in equilibrio,
debba avere un deficit di parte corrente, finanziato con il nuovo
afflusso di mezzi finanziari. Se ciò non accadrà, la bilancia dei
pagamenti dell’eurozona avrà un costante surplus: il cambio
dell’euro tenderà a salire a livelli molto superiori alla parità
fissata dal potere di scambio dei paesi membri con gli altri,
alimentando la deindustrializzazione. Così è accaduto alla Spagna dal
Seicento sino all’Ottocento a causa dei possedimenti di oro in America
Latina. D’altra parte il cambio dell’euro dipenderà sempre di più
dalle politiche dei paesi che ne detengono le riserve e la politica
europea dovrà guardare di più all’esterno.

Il Foglio
|
Terrorismo:
10, 100, 100 Al Quaeda
Tra
le conclusioni a cui sono giunti gli esperti del Consiglio nazionale
dell’intelligence degli Stati Uniti, c'è questa: il
terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare e a cambiare strategie
e tattiche, nei prossimi anni.
19
Gennaio 2005 03,15 Roma
Quando
si analizza lo stesso problema a lungo e a breve termine spesso si giunge a
conclusioni diametralmente opposte. E’ il caso, per esempio, della
minaccia posta dal terrorismo di matrice islamica alla sicurezza degli Stati
Uniti.
Mapping
the Global Future è un dossier accessibile al pubblico in cui il Consiglio
nazionale dell’intelligence discute il proprio ruolo futuro, in quanto
centro di studio strategico per il governo di Washington, a lungo termine. Negli
ultimi sette anni sono stati stilati tre dossier di questo tipo: il primo
analizzava i trend globali fino al 2010, il secondo fino al 2015, mentre è
stato pubblicato giovedì un terzo dossier che prende in considerazione lo
scenario internazionale fino al 2020.
Rispetto
ai due progetti precedenti, quest’ultimo si è basato su simulazioni
computerizzate e una consultazione di oltre un migliaio di esperti, che
collaborando tra loro e in base alle rispettive competenze hanno contribuito a
sviluppare il futuro scenario politico, strategico e della sicurezza da oggi al
2020, lavorando per circa un anno. I
risultati dei vari workshop sono a disposizione del pubblico sul sito internet
della Cia cliccando sulla pagina del National
Intelligence Council.
Una
della conclusioni a cui gli esperti del Consiglio d’intelligence sono giunti
è che il terrorismo di matrice islamica è destinato ad aumentare nei prossimi
anni che, come in molti sostenevano già da prima, la globalizzazione fornirà
agli estremisti mezzi sempre maggiori e a basso costi e che (forse è
questa la notizia meno aspettata) il
terrorismo diverrà sempre più innovativo: «I terroristi probabilmente saranno
più originali, non tanto per quel che riguarda la tecnologia o le armi di cui
faranno uso, quanto piuttosto secondo l’aspetto operativo - cioè
nell’estensione, il progetto o la logistica di supporto di ogni attacco».
Come
a dire che c’è da aspettarsi un aumento della creatività del modus operandi
degli estremisti indipendentemente dai progressi tecnologici che essi
riusciranno a compiere; il che non significa che non stiano cercando di
acquisire nuovi mezzi scientifici. Secondo il dossier, infatti, «esiste la
preoccupazione che i terroristi possano impossessarsi di agenti biologici
oppure, meno probabilmente, di ordigni nucleari». In
particolare, la minaccia del bioterrorismo è sembrata agli esperti più reale,
perché le armi biologiche «sono particolarmente adatte a gruppi piccoli e bene
informati».
Stando
agli esperti, infatti, in tempo di globalizzazione il terrorismo di matrice
islamica andrà sviluppandosi in cellule di dimensioni sempre più ridotte e
meglio addestrate , che però si terranno in contatto tra loro, e internet
faciliterà la condivisione di materiali per la guerra e l’addestramento.
Al Qaida, insomma, è destinata ad essere gradualmente rimpiazzata da un network
di entità islamiste «sempre più decentralizzato, che si evolverà in una
schiera eclettica di gruppi, cellule ed individui senza alcun quartiere generale».
Davanti alla prospettiva di un simile scenario, il Consiglio d’intelligence
suggerisce un approccio al terrorismo «su diversi fronti», proprio in virtù
della prevista decentralizzazione e ubiquità della minaccia islamista.
Secondo
il dossier, inoltre, la capacità militare, politica, e tecnologica degli Stati
uniti è destinata a crescere nei prossimi 15 anni, tanto che Washington manterrà
il suo ruolo di guida mondiale nonostante l’ascesa di India e Cina, che pur
avrà “impatti drammatici” sull’equilibrio internazionale.

Il Riformista
Casa
Rosada: sì ma di vergogna
Il
problema è che a Parma il buco è stato di 19 miliardi di euro. Mentre Buenos
Aires è esposta con il mondo per 102,6 miliardi di dollari di titoli di Stato,
tra capitale e interessi mai pagati.
26
Gennaio 2005 04,50 New York
Il
giudizio più gentile è che è «un colossale imbroglio». Quello più duro,
che è «un volgare ricatto». Continuano tutti a chiamarli «tango-bond»,
con un termine intrinsecamente gentile. Ma la loro musica assomiglia sempre di
più a quella suonata ai risparmiatori dai (per ora presunti) responsabili del
crac Parmalat. Il problema è che a
Parma il buco è stato di 19 miliardi di euro. Mentre Buenos Aires è esposta
con il mondo per 102,6 miliardi di dollari di titoli di Stato, tra capitale e
interessi mai pagati.
La
storia dei tango-bond resterà fissa come un chiodo nella mente dei
risparmiatori di mezzo mondo. Era la notte del Natale 2001 quando il
governo del presidente argentino Adolfo Rodríguez Saa, appena insediato e
subito alle prese con una crisi finanziaria senza precedenti, che provocava
sommosse di piazza e morti, sospese il pagamento dei bond. Rendevano bene, fino
al 9%. Erano garantiti da uno Stato sovrano. Le banche italiane ne avevano
piazzati per circa 14 miliardi di euro a 450 mila risparmiatori: dopo
l’Argentina, nel globo, era il nostro Paese quello con la quota principale, un
sesto del totale.
Ora
il nuovo governo argentino di Néstor Kirchner, in sella dal maggio 2003,
propone al mondo di scambiare i 102,6 miliardi di quei maledetti tango-bond con
nuove obbligazioni fino a un massimo di 41,8 miliardi. Il taglio in media è del
60%. «Prendere o lasciare»
chiosa elegantemente il suo ministro dell’Economia, Roberto Lavagna. Le
nuove emissioni avranno scadenza fino al 2045, nessuno, neanche
la Casa Rosada
(che pure ha il colore dell’ottimismo), ne garantisce bontà e vendibilità.
Non è una provocazione. È quello che c’è scritto, nero su bianco, nelle 300
pagine del prospetto, approvato dalla Consob (leggere, per credere, l’articolo
su Economy a pag. 30).
Certo,
viene da domandarsi perché mai il Fondo monetario internazionale, che a
Kirchner ha promesso un prestito da 13,5 miliardi di dollari e ne ha già
versato una prima tranche da 3,5, non abbia cercato di ottenere in cambio almeno
un po’ di correttezza nei confronti di una clamorosa massa di risparmiatori e
di istituzioni finanziarie volgarmente gabbate.
Anche
perché, nei tre anni trascorsi da quella fatidica notte di Natale,
l’Argentina è molto cambiata. Pochi dati: allora l’inflazione era al 41%,
oggi è bloccata al 5,2. Nel 2001 il Pil era arretrato del 5,5%, nel 2004 è
cresciuto dell’8% e passa.
E
la bilancia dei pagamenti era in rosso di quasi 4 miliardi di dollari, mentre
nel solo primo semestre del
2004 ha
sfiorato un attivo di 3,5. Era davvero impossibile fare meglio di quel
misero 30-40% di rimborsi? Sarà. Nelle 20 ristrutturazioni di un debito statale
andate in porto dal 1990, non era mai accaduto che gli obbligazionisti
internazionali ci rimettessero più del 36 per cento.
Ora,
comunque, anche in Italia qualcuno deve fare qualcosa contro l’imbroglio
argentino e a favore degli obbligazionisti: si muova il governo italiano,
l’opposizione in Parlamento non si tiri indietro.
Perché
l’alternativa è un nuovo, infinito contenzioso tra risparmiatori e banche. E
questo Paese non può cavarsela sempre con un giro di valzer. O di tango.

Economy
Cosa
fare con quei pirati di Buenos Aires
Tango-bond:
per gli italiani respingere l’offerta è molto più pericoloso che accettarla.
Per cui la decisione di dire di sì sarà poca eroica, ma è molto prudente. Per
ora non c’è una fretta nera: la prima scadenza infatti è il 4 febbraio.
26
Gennaio 2005 04,17 Torino
(di Beppe scienza*)
*Beppe
Scienza e' Professore nel Dipartimento di Matematica dell’Università degli
Studi di Torino.
Molte
associazioni di consumatori fanno la voce grossa invitando i risparmiatori a
rifiutare la deludente soluzione che l’Argentina propone ai suoi
obbligazionisti. È stranamente la stessa posizione della cosiddetta Task
Force Argentina (TFA), finanziata dalle banche e quindi con un grave conflitto
d’interessi, che minaccia cause contro i cugini sudamericani.
Tali
discorsi non convincono. Come potranno costoro ottenere più di quanto hanno
ottenuto in tre anni, cioè niente, proprio dopo che l’Argentina avrà
sistemato almeno in parte le sue pendenze? È poi gravissimo che alcuni parlino
di un fantomatico (e inesistente) quorum necessario per la validità
dell’offerta, mentre è curioso che in altri paesi coinvolti, quali
la Germania
, non ci sia tanto can-can.
Più
saggia quindi la scelta della Confconsumatori, la cui presidente Mara Colla ha
anticipato a
la Repubblica
che
non adotteranno tale posizione di rifiuto aprioristico.
Respingere
l’offerta è infatti molto più pericoloso che accettarla.
I
rischi del no
Chi
non accetta lo scambio corre un forte rischio di trovarsi dopo la chiusura
dell’offerta con titoli deprezzati, non più quotati e con la prospettiva di
non incassare nulla per anni. L’Argentina ha infatti dichiarato
"che non intende riprendere i pagamenti per nessuna serie di obbligazioni
in circolazione" (paragrafo a.3.a.i).
Viceversa
ad aderire si rischia poco, perché c’è una clausola importantissima ma poco
nota,
per cui "qualora l’Argentina dovesse lanciare un’offerta di acquisto o
scambio entro il 2014" essa s’impegna a permettere la partecipazione
anche a chi ha aderito adesso (paragrafo e.1.1). Per cui la decisione di dire di
sì sarà poca eroica, ma è molto prudente.
Per
ora non c’è una fretta nera, perché la prima scadenza è il 4 febbraio e
vale solo per avere precedenza nell’assegnazione dei titoli cosiddetti Par. La
scadenza ultima è il 25 febbraio. Volendo si può anche aspettare sino alla
fine, sperando che una scarsa adesione costringa l’Argentina a migliorare
l’offerta. Ma arrivati agli sgoccioli, la situazione diventerà critica.
Potrebbe infatti essere consegnata una valanga di titoli proprio negli ultimi
due giorni, come spesso capita in tali casi, e allora per chi resta fuori
sarebbe molto grigia.
I
titoli migliori
Per
la stragrande maggioranza degli italiani che aderiscono, l’alternativa è fra
le obbligazioni Par 2038 e le Discount 2033. Ma solo nel caso di rendimenti
futuri superiori al 9,5% si otterrebbe di più con queste ultime, per cui in
linea di massima conviene optare per le Par. Non per niente sono
contingentate, in quanto pensate per i piccoli obbligazionisti. Peraltro le
differenze non saranno enormi.
Purtroppo
la proposta di scambio è molto complicata e stupisce che nessuno abbia
sollevato tale critica fra quanti strepitano contro di essa. Proprio per
facilitare le valutazioni dei lettori de
la Repubblica
, al Dipartimento di Matematica dell’Università di
Torino abbiamo predisposto un
apposito file in Excel liberamente scaricabile dall’indirizzo di Internet www.beppescienza.it
Esso
permette di valutare non solo i titoli Par e Discount in euro, ma anche i Quasi
Par
2045 in
pesos
(richiesta minima 280 mila euro!), considerando pure i Titoli PIL indicizzati al
Prodotto Interno Lordo argentino, che verranno consegnati insieme agli altri.
Si
possono così ottenere diverse stime, con differenti ipotesi sui tassi,
di quanto avrà in mano il 1° aprile chi aderisce all’offerta. Per la cronaca
ora il mercato stima tale valore in circa 2830 euro ogni 100 euro di valore di
scambio delle obbligazioni argentine attualmente in circolazione (e in
sofferenza).

La Repubblica
- Affari & Finanza
Cirio
Bond: condannata la prima banca
Un
tribunale costringe
la
Popolare Lodi
,
per
omessa informazione, a risarcire nove persone che avevano acquistato le
famose obbligazioni restituendo
loro l’intero ammontare dell’investimento oltre agli interessi
legali.
29
Gennaio 2005 15,35
Roma
(di Sergio Rizzo)
«Si
deve ritenere che l’intermediario è venuto meno all’obbligo di
curare l’interesse dell’investitore, obbligo che si spinge fino al
punto di imporre al primo di valutare l’adeguatezza di ogni operazione
disposta dal secondo». Con questa motivazione la nona sezione del
Tribunale civile di Roma, presieduta da Ernesto Caliento, ha condannato
qualche settimana fa
la Banca Popolare
di Lodi guidata da Gianpiero Fiorani a risarcire nove persone che
avevano acquistato Cirio bond restituendo loro l’intero ammontare
dell’investimento oltre agli interessi legali.
La
cifra non è astronomica: 100 mila euro in tutto. Ma per la prima volta
un Tribunale ritiene una banca responsabile di aver violato le regole «di
informazione e di valutazione dell’adeguatezza dell’operazione»
nella vendita di obbligazioni Cirio a risparmiatori che erano pure suoi
correntisti. Con una decisione destinata forse a rappresentare un
precedente.
I
nove piccoli investitori, nella causa patrocinata dagli avvocati Carlo
Felice Giampaolino e Alessandro Lendvai, avevano sostenuto di aver
acquistato i bond Cirio emessi a Lussemburgo (poi andati in default)
nell’agosto del 2000 su proposta della banca e senza adeguata
informazione. Il ricorso al Tribunale precisava inoltre che «le
obbligazioni non erano accompagnate da prospetto informativo, essendo
riservate a investitori istituzionali».
La Popolare
di Lodi ha replicato sostenendo di aver «adempiuto a tutti gli obblighi
previsti», chiedendo ai risparmiatori notizie circa le precedenti
esperienze in investimenti finanziari e la propensione al rischio,
consegnando loro il «documento sui rischi generali» degli investimenti
e valutando «l’adeguatezza dell’operazione». Anche se questa
valutazione, è la tesi della banca, sarebbe stata «resa impossibile
dal rifiuto dei clienti a fornire le informazioni richieste».
Il
giudice è invece arrivato alla conclusione che l’istituto sarebbe
venuto meno «al dovere di informarsi in ordine alla tipologia e
affidabilità del titolo» assumendo «un comportamento non diligente e
non rispondente alla necessità di proteggere investitori non
professionali». Secondo il Tribunale, inoltre, il rifiuto del
risparmiatore a fornire notizie non può «assumere il significato di un
esonero o di una limitazione di responsabilità dell’intermediario nei
confronti dell’investitore non professionale».
Caliento
ricorda al proposito che i risparmiatori avrebbero dichiarato «di aver
sottoscritto i documenti consegnati dalla controparte senza sapere cosa
stessero firmando», e che il regolamento Consob «impone agli
intermediari di astenersi da operazioni non adeguate». E secondo il
giudice era «chiaro», trattandosi di correntisti, sui quali la banca
disponeva quindi di proprie informazioni, «che l’operazione proposta
non fosse adeguata in relazione alla loro situazione patrimoniale e alla
scarsa propensione al rischio». La banca avrebbe perciò violato «i
doveri di informarsi e informare», omettendo «informazioni sulle
caratteristiche dei titoli» e «sulla non destinazione primaria ai
risparmiatori».

Corriere della Sera
|
Famiglie
più ricche a ruba azioni e obbligazioni
Dai
conti finanziari della Banca d' Italia emerge che nel terzo trimestre 2004 gli
italiani sono più ricchi (+10,41%) e hanno
riscoperto, complice il buon andamento in Borsa, l' amore per azioni e bond.
29
Gennaio 2005 - 13,55
Roma (ANSA)
Le
famiglie italiane sono più ricche (+10,41%) ed hanno riscoperto, complice il
buon andamento della Borsa, l' amore per le azioni. Non sono finiti nel
dimenticatoio, però, i vecchi e cari titoli di Stato che, pur essendo meno
redditizi, danno una maggiore sicurezza. A scattare la fotografia delle famiglie
italiane sono i conti finanziari della Banca d' Italia, dai quali emerge che nel
terzo trimestre del 2004 il circolante è ammontato a 498.445 milioni di euro,
l' 8,18% in più rispetto allo stesso periodo del 2003.
Negli
ultimi tre mesi dello scorso anno le azioni e le altre partecipazioni hanno
registrato una crescita degli stock del 26,65%, passando da 553.685 milioni di
euro del terzo trimestre 2003 agli attuali 701.221 milioni. Il confronto con il
trimestre precedente, però, mette in luce un rallentamento delle consistenze,
che nel periodo aprile-giugno erano ammontate a 708.654 milioni di euro.
A
confermare la decelerazione sono i dati negativi sui flussi di risparmio verso
le azioni, risultati negativi per 9.919 milioni di euro, a fronte di un attivo
di 6.889 milioni nel trimestre precedente. In salita, anche se in modo
decisamente meno accentuato, i titoli a medio e lungo termine, cioé le
obbligazioni: in un anno lo stock, infatti, è aumentato del 7,81% attestandosi
a 664.907 milioni di euro.
Guardando
alle varie componenti emerge però un andamento altalenante, con i Btp che
segnano un progresso del 13,48%, a fronte del -37,31% dei Cct. Cedono anche i
fondi comuni, realizzando nel terzo trimestre 2004 una perdita in termini di
consistenze del 5,44% rispetto agli ultimi tre mesi del
2003, a
quota 339.398 milioni di euro. Negativo anche il bilancio trimestrale in
termini di flussi (-2.513 milioni di euro). Si mantengono stabili, invece, i Bot:
dopo un primo trimestre difficile, i titoli del Tesoro hanno riscoperto l'
appeal perduto raccogliendo nel periodo luglio-settembre 2004 uno stock di
22.816 milioni di euro (+6,89%), mentre il flusso è risultato pari a 84 mln,
contro i 12,325 miliardi del trimestre precedente ed i -1.891 milioni degli
ultimi tre mesi del 2003. Ecco di seguito una tabella che riporta le consistenze
delle famiglie italiane suddivise nei vari strumenti finanziari. Il confronto è
fra i dati del terzo trimestre 2003 e del terzo del 2004.
III
TRIM.2003 III TRIM.2004
Biglietti,
monete, depositi vista 460.767 498.445 Altri depositi 279.338 302.363 Titoli a
breve termine 21.346 22.816-emessi dalle ammin. pubbliche 20.814 22.305-emessi
da altri residenti 270 237-emessi dal resto del mondo 263 274Titoli a
medio-lungo termine 616.723 664.907-emessi da istituz. finanz. mon. 291.378
320.706-emessi da ammin. centrali (Cct) 29.025 18.196-emessi da ammin. centrali
(altri) 158.919 180.335-emessi da ammin. locali 1.788 2.246-emessi da altri
residenti 40.880 55.027-emessi da resto del mondo 94.733 88.398Azioni ed altre
partecipazioni 553.685 701.221-emesse da residenti 485.228 625.930-emessa da
resto del mondo 68.457 75.291Quote di fondi comuni 358.910 339.398Riserve
tecniche di assicurazione 453.504 501.193Altri conti attivi e passivi 4.788
4.894 TOTALE 2.749.061 3.035.235

29
Gennaio 2005 - 13,55
Roma (ANSA)
LA
BOLLA
DEI
DERIVATI
UNA SCOMMESSA TRUCCATA
21
gennaio 2005 - 16,15
Milano (di Fabrizio Tedeschi*)
*Fabrizio
Tedeschi e´ editorialista di Panorama Economy. Consulente di grandi
banche e gruppi finanziari, per otto anni e´ stato responsabile della
Divisione Intermediari della Consob a Milano.
(WSI)
- L’indagine conoscitiva della Consob alla commissione Finanze della
Camera raccoglie una mole di dati rassicuranti sugli strumenti finanziari
derivati collocati dalle banche alle imprese. In sostanza, le aziende
coinvolte sarebbero 40-50 mila con una perdita media che non dovrebbe
superare gli 80 mila euro. Tutto nella norma dunque?
A
una prima lettura sembrerebbe di sì, ma andando più nel dettaglio dei
numeri, alcuni suscitano in effetti qualche perplessità. In generale,
comprendendo nel calcolo anche i rapporti tra intermediari veramente
professionali e non solo quanti si sono limitati a dichiararlo, le
posizioni di perdita e profitto di fatto si equivalgono (47 milioni di
euro contro 54) con un margine di intermediazione dell’8%, molto
elevato, ma in linea con quelli che sono i profitti da posizione. Il
risultato cambia se si considerano le imprese non finanziarie: in questo
caso le posizioni in perdita raggiungono una misura variabile dall’80 al
90%. Il risultato lascia perplessi anche se secondo
la Consob
è giustificato dal massiccio indebitamento a breve termine delle imprese
italiane.
Lo
strumento derivato è una scommessa sull’andamento del cosiddetto
sottostante (tassi d’interesse, valute e indici), da cui derivano i
propri risultati. Laddove uno dei due scommettitori vinca in misura
superiore all’80% dei casi, viene da pensare che costui abbia giocato
conoscendo qualche elemento in più dello sconfitto. Nel mercato
finanziario questo potrebbe essere un classico esempio di asimmetria
informativa, dove il soggetto che sa le cose ha giocato slealmente a danno
di chi non le conosceva.
Economy
|
LE
IMPRESE ITALIANE PERDONO 4 MILIARDI IN DERIVATI
13
Gennaio 2005 - 02,18 Milano
A
tanto ammonta il buco che registrerebbero i clienti della banche, in primo
luogo aziende, se chiudessero oggi le loro posizioni. I risultati di un´indagine
Consob presentata alla Camera. Coinvolte ben 30.000 piccole e medie
societa'.
Quattro
miliardi. A tanto ammonta il buco che registrerebbero i clienti della
banche, in primo luogo imprese, se chiudessero oggi le loro posizioni in
derivati. È il risultato dell´indagine della Consob che ieri il
funzionario generale Antonio Rosati ha esposto alla commissione Finanze
della Camera.
«Se
è vero che gran parte dei contratti stipulati aveva una finalità di
copertura, soprattutto su variazioni dei tassi di interesse o dei tassi di
cambio, il fatto che oggi tali contratti abbiano un valore di mercato
negativo può non rappresentare di per sé un´evidenza di una situazione
patologica, ma può indicare semplicemente il fatto che è stato coperto
un rischio che non si è realizzato».
L´indagine
dell´Autorità guidata da Lamberto Cardia ha riguardato i maggiori dieci
gruppi bancari ed è dunque rappresentativa di circa il 65% del totale
delle posizioni in essere. Le dimensioni del fenomeno potrebbero essere di
circa un terzo superiori a quanto rilevato dalla Consob.
«Le
imprese interessate all´indagine sui derivati sono circa 30.000,
soprattutto piccole e medie» ha precisato il presidente di Confapi,
Danilo Broggi, anch´egli sentito in commissione finanze alla Camera. Per
Confapi, «sono state soprattutto le aziende più piccole a essere
coinvolte, senza avere la dovuta conoscenza dei derivati. Da questa
incomprensione - ha rilevato Broggi - è scaturito il "fenomeno dei
derivati"».
La
Repubblica
|
|