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Case: BCE lancia
l'allarme, prezzi fuori controllo
Cinque
anni di corsa sfrenata (+45%)
ma adesso i costi delle abitazioni rischiano di diventare
"insostenibili". Anche se gli operatori, in Italia, non vedono
"almeno a breve, alcun rischio di bolla per il mercato del real
estate".
10
Febbraio 2005 16:27
Roma (ANSA)
Cinque
anni di corsa sfrenata, ora è allarme: i prezzi delle case rischiano di
diventare "insostenibili". Il richiamo, forte, è della Banca Centrale
Europea, anche se gli operatori, in Italia, non vedono, "almeno a breve,
alcun rischio di bolla per il mercato immobiliare". I prezzi delle case, in
Italia, sono infatti più bassi rispetto a quelli di Francia e Gran Bretagna e,
quest'anno, cresceranno di un modesto 4,1%, quindi - sostengono gli operatori -
"poco più dell'inflazione" e nulla in confronto al +12% segnato nel
2004 ed al +45% dell'ultimo quinquennio.
Il
mercato, comunque, è destinato a crescere ancora: "non avendo altro
settore in cui investire" gli italiani continueranno a puntare sul mattone.
"L'effetto congiunto dell'abbondante liquidità e della forte espansione
del credito potrebbe indurre incrementi non sostenibili dei prezzi sui mercati
immobiliari in alcune parti dell'area euro, avverte
la Bce
nel suo ultimo
bollettino.
La
domanda di mutui per l'acquisto di abitazioni continua a essere sostenuta,
contribuendo alla vigorosa dinamica dei prezzi degli immobili
residenziali". Affermazione questa che trova riscontro negli ultimi dati
della Banca d'Italia, dai quali emerge che in dicembre 2004 le richieste di
mutui hanno raggiunto livelli record attestandosi a 180 miliardi di euro, circa
30 miliardi miliardi in più rispetto all'anno precedente.
A
gettare acqua sull'allarme giunto da Francoforte sono gli operatori del mercato
immobiliare italiano, convinti che "ci sia una scarsa percezione" del
caro-prezzi, imputabile al fatto che il mercato è mosso ed alimentato
soprattutto da coloro che vendono una casa per acquistarne un'altra. "Solo
una piccola parte degli acquirenti è composta da famiglie che si affacciano per
la prima volta al mercato, circa un 20% - spiega il presidente di Scenari
Immobiliari, Mario Breglia - Il mercato è mosso da un notevolissimo ricambio
interno dove la percezione del rialzo è scarsa perché si tende a vendere una
casa che già si ha a 100 lire, per comprarne una a 130".
Secondo
Breglia,
"la preoccupazione della Bce non è tanto l'aumento dei prezzi, ma
il crescente indebitamento delle famiglie che, se i tassi torneranno a salire,
potrebbero trovarsi nella condizione di non poter far fronte ai pagamenti".
Nonostante il caro-prezzi, il mercato immobiliare continuerà comunque ad
espandersi: "Negli ultimi cinque anni le quotazioni in Italia sono
cresciute del 45%, pressoché in linea con il +40-60% registrato a livello
europeo - aggiunge Breglia - L'aumento ora è rallentato, pur non registrandosi
alcun calo o stabilità dei prezzi, ma la pressione dei consumatori continua ad
essere forte: chi acquista lo fa turandosi il naso, compra nonostante i prezzi
alti perché non ha altra alternativa in cui investire".
"Il
mercato è attivo - sottolinea Guido Lodigiani del centro studi di Tecnocasa -
c'é ancora interesse ma non ipotizziamo nessuna bolla per il mercato
immobiliare italiano a breve", anche perché la crescita dei prezzi
dovrebbe rallentare al +4,1%, con le quotazioni delle abitazioni dei centri
storici delle città stabili visto che "ormai hanno raggiunto il
picco".

Fonte
(ANSA)
Dollaro: ripresa
o fuoco di paglia ?
E
poi: lo sapete che Greenspan ha detto che raffreddare il mercato immobiliare,
che oggi è il vero motore della crescita americana, porterebbe a una riduzione
del deficit commerciale? Ecco perche' la valuta Usa...
10
Febbraio 2005
15:28
Lugano
(di Alfonso Tour*)
*Alfonso
Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano
svizzero in lingua italiana.
Queste prime settimane dell’anno sono state caratterizzate dal rialzo del
dollaro rispetto all’euro e al franco svizzero. La convinzione degli operatori
è che siamo all’inizio di una vera e propria inversione di tendenza del
biglietto verde. Questa tesi viene sostenuta con alcuni dati di fatto e con
alcune ipotesi. Il dato di fatto è che la differenza tra i tassi di interesse
tra le due sponde dell’Atlantico giocano a favore del dollaro. Infatti i tassi
a breve americani sono ora al 2,5% mentre quelli di Eurolandia sono fermi al 2%.
Questo
differenziale è inoltre destinato a crescere poiché
la Federal Reserve
ha più volte comunicato
di voler continuare ad aumentare il costo del denaro, mentre le precarie
condizioni economiche di Eurolandia fanno prevedere che
la Banca
centrale europea dovrà
attendere ancora parecchio tempo prima di toccare il livello dei tassi. Il
differenziale dei tassi non è comunque l’unico fattore che spinge molti a
sostenere che la ripresa del dollaro sarà duratura.
Secondo
loro vi sarebbero almeno altri due motivi: una svolta politica
dell’amministrazione americana e le buone prospettive di crescita
dell’economia statunitense. Indubbiamente, sembra profilarsi un significativo
riorientamento della politica economica dell’amministrazione Bush, che può
essere sinteticamente descritto in questo modo: a Washington non si trascura più
il problema dei deficit gemelli (deficit federale e deficit commerciale). La
proposta di bilancio presentata dal presidente, anche se deve passare il vaglio
del Congresso, si propone di ridurre il disavanzo statale. D’altro canto,
sembra essere stata anche abbandonata la scelta di far scivolare il valore del
dollaro, di fronte all’evidenza che la sua svalutazione non ha prodotto alcun
miglioramento del disavanzo commerciale statunitense e che di fronte al pericolo
che un ulteriore indebolimento del dollaro avrebbe intaccato ulteriormente le già
deboli condizioni di salute delle economie europea e giapponese.
Quindi,
si sostiene, il secondo quadriennio di Bush alla Casa Bianca sarà dedicato a
risanare gli squilibri economici americani che pesano sul tasso di cambio del
dollaro e, si aggiunge, ciò avverrà in un contesto di crescita sostenuta
dell’economia statunitense. Quindi, differenziale dei tassi, cambiamento della
politica americana e prospettive di crescita degli Stati Uniti migliori di
quelle di Giappone ed Europa spingono alcuni a ritenere che il rialzo del
dollaro non sia un fuoco di paglia. Tutto appare logico e chiaro, ma in realtà
non lo è affatto.
L’indebolimento
del dollaro è il riflesso di un disavanzo commerciale che continua a lievitare
e che si traduce in un debito estero destinato a diventare insostenibile sia
economicamente sia politicamente per gli Stati Uniti. D’altro canto, la
tendenza all’aumento di questo disavanzo non verrà intaccata dalle misure di
risparmio prospettate da Bush.
Quindi, le prospettive sono essenzialmente due.
La prima è che continui a reggere il tacito accordo tra Asia e Stati Uniti, in
base al quale gli americani mantengono aperto il loro mercato all’export
asiatico, mentre le asiatiche continuano a finanziare il
disavanzo estero americano.
In
questo caso la ripresa del dollaro è in realtà solo un rimbalzo destinato a
precedere una nuova caduta.
La seconda alternativa è che invece gli americani
siano disposti a frenare la loro crescita economica per ridurre la loro fame di
importazioni. A quest’ultima eventualità ha fatto cenno a Londra anche il
presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, che di sfuggita ha detto che
vi è una stretta correlazione tra l’andamento del disavanzo commerciale e
quello del mercato immobiliare americano.
In
altre parole, Greenspan ha detto che raffreddare il mercato immobiliare, che
oggi è il principale motore della continua crescita dei consumi delle famiglie
statunitensi e quindi della crescita dell’intera americana, porterebbe ad una
riduzione del deficit commerciale. Questa ipotesi, ventilata da
Greenspan,
sembra avallata dalla previsione generalizzata che
la Federal Reserve
porterà entro la fine
dell’anno i tassi di interesse al 3,5% e dalla reazione dei mercati dei
capitali dove la discesa dei tassi a lungo termine sta a testimoniare non solo
che non si teme l’inflazione, ma che si prevede un forte rallentamento
dell’economia statunitense.
Le
dimensioni del disavanzo commerciale americano e le difficoltà di un suo
risanamento inducono a ritenere che sia ancora presto per scartare l’ipotesi
che l’attuale ripresa del dollaro non sia in realtà altro che un
significativo rimbalzo.
 |
Il Corriere del Ticino |
Cime
abissali per il dollaro
15
Febbraio 2005
2:59
Milano (di
Giulietto Chiesa)
Il
dollaro è risalito, di poco, ma se dovessi darvi un consiglio continuerei a
puntare sull’euro, perché sospetto che dopo la salita ci sarà una discesa
ancora più ripida. Sapete perché?
Perché ho letto quello che scrive un noto rivoluzionario, di nome Robert Reich,
già ministro del lavoro dell’Amministrazione Clinton e oggi professore di
politica economica e sociale alla Brandeis University. E, a costo di
venire nuovamente redarguito dai soloni del Foglio dell’ex informatore della
Cia Giuliano Ferrara, tornerò a “copiare” qualche nota offertaci da Reich,
che farà il paio con quelle a suo tempo citate di John Kenneth Galbraith.
Dice
Reich, sicuramente in preda a un raptus antiamericano, che il deficit degli
Stati Uniti, stando alle previsioni di quel covo ci provocatori comunisti
dell’Ufficio del Congresso per il bilancio, aumenterà di 2000 miliardi di
dollari nei prossimi dieci anni. Ovviamente nel caso che l’attuale presidente
degli Stati Uniti d’America riesca a rendere permanente la sua attuale
filo-pluto-antropica politica di tagli fiscali (dove il termine
filo-pluto-antropico si può tradurre con “amante degli uomini ricchi”).
Infatti
questa è – scrive sempre Reich – una politica che ha consentito “agli
americani più ricchi - che hanno beneficiato della maggior parte dei tagli
fiscali – di continuare a essere sempre più ricchi”. Si aggiunga poi che “la maggior parte degli analisti”
è convinta che il costo della privatizzazione della Social Security sarà di
oltre 2000 miliardi di dollari, di nuovo nel corso dei prossimi dieci anni. E
che le spese belliche, presenti e future, dovranno aggiungersi a questi deficit
stellari.
L’Irak
è già costato oltre 200 miliardi di dollari e non è finito.
Se si mette nel conto un possibile attacco contro l’Iran, si dovrà arrivare a
800-1000
miliardi di dollari
all’anno.
Ora
noi siamo perfettamente consapevoli che questo è il migliore dei mondi
possibili e che l’economia statunitense è la migliore del pianeta.
Cionondimeno ci riesce difficile, insieme a Robert Reich, non cogliere che
gli
Stati Uniti stanno spendendo, con la loro carta di credito universale, qualche
cosa come un quarto dell’intera economia americana. Insomma gli Usa spendono troppo e si affidano ai soldi
altrui per tirare avanti. Vivono di credito e si indebitano ulteriormente per
pagare gl’interessi del credito. Il che, a sua volta, comporta che i
loro titoli (inclusi i biglietti di banca verdi – perdono valore in quanto il
rischio di possederli aumenta per gl’investitori. Per attirare i quali,
conseguentemente, si deve aumentare il tasso d’interesse, cioè il costo del
denaro.
Ma
questo, ahinoi, costringe gli americani, tutti gli americani, a pagare di più
per i beni e i servizi che comprano. E anche di più sui mutui con cui comprano
le seconde case e le terze automobili. Insomma su tutto quello che si compra a
credito. Nello
stesso tempo gl’investimenti diverranno più difficili perché più costosi e
anche perché più aleatori, non essendoci risparmio disponibile (gli americani
non risparmiano quasi più niente) e dipendendo esso dall’afflusso estero, a
sua volta sempre più precario.
Un bel pasticcio, anzi un bel vicolo cieco.
Ma
il cui effetto prevedibile e principale è che, in queste condizioni,
l’economia rallenta, il deficit pubblico sprofonda in cime abissali e gli
americani diventano, molto semplicemente, più poveri. Tutti salvo i più
ricchi, che diventano ancora più ricchi.
Reich
è preoccupato, perché tutto ciò gli sembra una follia, appunto
filo-pluto-antropica. Dove ci porterà tutto questo? Ma – che domanda! –
alla guerra, naturalmente. Perché gli Stati Uniti non pagheranno questi debiti.
Non li pagheranno mai più. I loro amici (anche europei) paiono disposti a
transigere, a fare finta di niente, ad accollarsi il peso. Il fatto è, però,
che gli altri creditori erano disarmati e e non potevano esigere nulla, proprio
per questa ragione. Ma per domani già si delineano creditori armati. E allora
bisognerà sparare per tenerli a bada. Dunque, riassumendo, chi ha euro se li
tenga ben stretti, anche se l’economia europea cresce più lentamente di
quella americana.

FOLLIE:
la BCE vuole alzare i tassi
16 Febbraio 2005
05:17
Roma
L'economia
europea si è fermata, di nuovo, alla fine del 2004. Anzi in realtà è persino
difficile definirla battuta d'arresto visto che per tutto l'anno è sembrata
muoversi per forza d'inerzia e non per meriti propri, trainata dall'ottimo
andamento globale dei paesi emergenti e soprattutto dagli Stati Uniti.
Gli
Usa poche settimane fa avevano annunciato una crescita del 4,4%, la la più alta
dal '99, per il vecchio continente invece le cose sono andate diversamente: la
differenza tra gli ultimi tre mesi del 2004 e lo stesso periodo dell'anno prima
è +1,6% per Eurolandia e +1,8% per l'Europa a 25. Ma il dato che
racconta meglio la brusca frenata è quello più congiunturale: nel quarto
trimestre dell'anno appena concluso il pil si è contratto in Germania (-0,2%)
Olanda (-0,1%) e soprattutto Italia (-0,3%) rispetto ai tre mesi precedenti.
Si
riaffacciano dunque i timori di un 2005 in rallentamento, offuscato persino
dalla minaccia di una recessione. E dire che il 2004, stagnante ma
tranquillo con tassi di crescita medi superiori all'1% anche nei paesi europei
più deboli, doveva essere il trampolino di lancio verso un anno di sviluppo
vicino al massimo potenziale. Ma ora il fatidico obiettivo di un +2% adottato
dall'Italia, ma anche dal resto d' Europa assomiglia molto di più a una
chimera. Se ne è accorta anche la Commissione Ue che ha ritoccato le stime di
crescita del primo e del secondo trimestre 2005 (ora sono tra lo 0,2% e lo
0,6%), lasciando tra l'altro una forchetta molto ampia, ennesimo segno
d'incertezza.
Dati
così al di sotto delle previsioni avranno una serie di conseguenze rilevanti su
molti fronti, innanzitutto rendono molto più arduo per la Bce aumentare i tassi
d'interesse. A
Francoforte ormai ritengono eccessivo il gap tra il costo del denaro americano
(2,5%) e quello europeo (2%) e ieri ci ha pensato il governatore della Banca di
Francia, Christian Noyer, a prefigurare «politiche monetarie meno accomodanti».
Rimane il fatto che un rialzo del costo del denaro in questo momento sarebbe un
segnale di ulteriore depressione.
E di
certo un peso dati congiunturali così negativi li avranno anche nel dibattito
sulla riforma del Patto di stabilità che oggi e domani affronta una tappa
decisiva all'Ecofin. I pericoli per l'economia spingeranno i ministri a “fare
qualcosa” e quindi spingere per una riforma da varare in occasione del vertice
di primavera dei capi di Stato e di governo. Sul messaggio di fondo, che il
patto deve favorire maggiore crescita oltre che rigore, sono tutti d'accordo ma,
fanno notare molti economisti, in realtà né i dati di ieri né serie storiche
degli ultimi anni danno la certezza che sia stata un interpretazione rigida dei
parametri sul deficit pubblico a spingere verso la stagnazione l'Europa.
Ed
effettivamente paesi molto virtuosi come Spagna e Olanda stanno sperimentando
situazioni economiche opposte con la recessione che attanaglia il paese dei
tulipani e una solida crescita che arride alla Spagna (+2,7 di crescita
tendenziale a fine 2004). Stesso discorso per gli “indisciplinati” Francia e
Germania che da quattro anni superano la soglia del 3% con risultati molto
diversi. I transalpini si sono risollevati (+2%) mentre i tedeschi continuano a
deludere soprattutto a causa di un mercato interno praticamente piatto.
Prospettive
grigie anche per l'Italia che ha chiuso, secondo le stime provvisorie dell'Istat
con un +1,1% cioè molto al di sotto dell'1,4% delle previsioni del ministero
dell'Economia. Le speranze di Siniscalco di centrare l'obiettivo
rimangono appese ad una successiva revisione che tenga conto dei cinque giorni
di lavoro in più di cui il 2004 ha beneficiato rispetto al 2003. Ma sarebbe una
ben magra consolazione, innanzitutto anche raggiungendo la soglia del 1,4% non
si potrà ribaltare il dato congiunturale sugli ultimi tre mesi che segnala
addirittura uno 0,3%. Per il 2005 si annuncia una partenza ad handicap che rende
l'obiettivo del 2% di crescita del pil proibitivo e non esclude che il minor
gettito fiscale derivante da un'attività economica ridotta apra un buco nelle
finanze pubbliche sempre al limite. Possibilità esclusa da Siniscalco.
E
poi c'è il problema
strutturale di un'economia che vede perdere sempre più il proprio peso
industriale, l'Istat ha segnalato un aumento del valore aggiunto realizzato
dall'industria (0,7%) solo per i giorni lavorativi in più, depurato segnala una
contrazione dello (0,4%). La vera emergenza che dovrebbe essere tamponata
dal famoso decreto competitività quotidianamente oggetto di vertici nelle
maggioranza (ieri An Siniscalco) ma sempre lontano da una configurazione
definitiva.

Il Riformista
per Wall Street Italia.com
|
Borsa
alle stelle,
economia alle stalle
16 Febbraio 2005
20:11
New York
La
Borsa sta tirando come un mulo ed è ai massimi da due anni a questa parte.
L'economia reale è invece a terra e non passa giorno che non ci sia un
bollettino di guerra.
A
parte la Fiat, di cui è diventato quasi demodé parlare, c'è la crisi delle
acciaierie di Terni, la vendita della Lucchini ad un gruppo estero, l'irrisolta
crisi Alitalia, etc, etc, etc, ed ancora etcetera, perché non è nemmeno il
caso di parlare dell'assai incerto equilibrio dei conti pubblici, ciò che
costringerà, assai probabilmente, il Governo ad una nuova manovrina in corso
d'anno, con tanti saluti ed ossequi alla diminuzione delle tasse.
Eppure,
a fronte di una situazione dell'economia reale che è da "I quattro
cavalieri dell'apocalisse", la Borsa tira come, per l'appunto, un mulo.
La
prima spiegazione di tanta effervescenza appartiene, per solidarietà col mulo,
al regno animale. Quindi, parliamo dell'asino, o meglio, dell'"attacca
l'asino al carro del padrone", dove il padrone è Wall Street.
Il
Dow Jones, nonostante il triplo deficit dell'economia USA (privato, del bilancio
federale, della bilancia commerciale) è a quota 10.700 punti, un livello
distante circa il 10% dai suoi massimi storici, quelli della bolla.
E' giustificato tale livello? Il Pil americano cresce, le aziende fanno utili,
ma, c'è un ma grosso come una casa, anzi come un grattacielo.
L'occupazione
stenta a crescere e il triplo deficit guida la politica del dollaro debole.
Greenspan dirige una politica monetaria attenta ad assecondare il difficile
riequilibrio di squlibri che potrebbero scoppiare con una forza deflagrante. Su
tutto incombe il pericolo dello sboom della bolla sul mercato immobiliare.
Ma
intanto, Wall strett va, e le borse europee seguono, e Piazza Affari segue
ancora di più perché nel 2004 ha registrato la migliore performance tra quelle
del vecchio continente.
Il
perché è spiegabile con la debolezza della nostra economia reale. Nello
standard&poor mib (in pratica il vecchio mib30 incrementato di 10 azioni) e
nel mibtel, ogni azione ha una certa ponderazione, e ciò significa che diverso
è l'effetto sull' indice di Borsa se aumenta l'Eni o aumenta, ad esempio,
Fastweb, Fiat o Finmeccanica.
E
qui viene il punto: la forza
della nostra Borsa dipende, come già detto, proprio dalla debolezza della
nostra economia. Infatti, il peso maggiore negli indici è rappresentato da Eni,
Enel, Tim e Telecom. Ora, Eni, che pesa circa il 10% nello Standard&poor mib,
è ai massimi storici in virtù del rialzo del prezzo del petrolio e guida la
carica di Borsa.
Le
industrie, al contrario, sono quasi assenti, o hanno un peso quasi
insignificante, e sono travolte, quanto ad incidenza sulle variazioni
degli indici di Borsa, dalle società di cui sopra, nonché da banche e da
assicurazioni. Quindi, le industrie vanno male, ma la loro influenza in una
Borsa fatta di società di servizi, o quasi, è irrilevante.
Così
si è creata questa discrasia tra un'economia reale rantolante ed una Borsa
effervescente. Le ragioni di tale frattura, ovviamente, sono anche altre,
prima fra tutte una certa preoccupazione nell'investire ancora sul mercato
immobiliare, attesi i livelli a cui è giunto questo mercato.
Durerà
questa discrasia? Sarà l'economia reale a migliorare e ad adeguarsi
all'andamento della Borsa, o sarà la Borsa, alla fine, a seguire il precipizio
dell' economia reale?
Personalmente,
nonostante alcuni temi interessanti come quello della possibile apertura delle
banche italiane, Fazio battuto, al capitale estero, credo che in Borsa siamo alla vigilia
di un grosso storno perché, alla fin fine, con l'economia reale bisogna fare i
conti, e qui sono guai.
Fonte Wall Street Italia.com
Borse
europee: ci crede solo 1/3 dei gestori
4
Febbraio 2005
00:58 Milano
(di Sara Silano*)
*Sara
Silano è Vicecaposervizio di Morningstar in Italia.
Patto di stabilità sì, Patto di stabilità no. Ribasso o rialzo dei tassi
d’interesse. Sono i due dilemmi che dividono l’Unione europea. Intanto, i
gestori promuovono le Borse del Vecchio continente, che nel primo mese del 2005
sono salite dell’1,7% (indice Msci Euro netto).
Sulla
proposta di rendere flessibile il Patto di stabilità, formulata lo scorso
settembre, si sono formati due schieramenti. Da un lato gli ortodossi,
capeggiati da Olanda e Austria, che si oppongono alla modifica, che, a loro
giudizio, rappresenta una minaccia per l’Unione monetaria. Dall’altro lato,
i revisionisti, inclusi i tre principali Paesi, Germania, Francia e Italia,
oltre a Portogallo, Grecia e con il sostegno esterno del Regno Unito, che
vorrebbero escludere alcune spese dal computo del debito, come la ricerca e la
difesa.
Per
Vincenzo Guzzo, economista di Morgan Stanley, “Il Patto non può rimanere così
com’è”, ma la soluzione non consiste nell’escludere alcune spese, bensì
nel trasformarlo da vincolo in catalizzatore per le riforme strutturali. Resta
indiscutibile, comunque, il ruolo del Patto, perché quando
la Banca
centrale europea (Bce)
alzerà i tassi, i mercati finanziari diventeranno più selettivi e i governi
pagheranno il prezzo di politiche fiscali troppo espansive.
Ma
quando ci sarà la stretta? Sono pochi i gestori che scommettono nel breve.
Nell’ultimo incontro
la Bce
ha lasciato invariati i
tassi al 2% e recentemente non è cambiato molto l’outlook sull’economia. Si
prevede che il Prodotto interno lordo aumenterà a ritmo moderato, mentre
diminuiscono i rischi di inflazione nel breve periodo, per il ridimensionamento
dei prezzi del petrolio. Per contro, l’elevata liquidità presente sul mercato
creditizio rappresenta una minaccia nel medio periodo. Secondo l’istituto di
Francoforte, il caro-vita rientrerà nel target del 2% nel corso dell’anno.
La
stretta è considerata improbabile fino a metà anno, ma Joachim Fels,
economista capo del reddito fisso globale di Morgan Stanley, è convinto che il
momento giusto per un rialzo sia già arrivato perché l’economia è più
forte di quanto atteso, l’euro ha frenato la corsa e c’è un eccesso di
liquidità nel sistema.
Sulla
moneta unica, tuttavia, i pareri sono discordi. Per il 47% dei gestori
intervistati da Morningstar nell’ultimo sondaggio europeo, l’euro sarà la
miglior valuta nel 2005 e per il 69% il dollaro sarà la peggiore, con
innegabili effetti negativi, secondo gli economisti di Schroders, sulle
esportazioni. Per contro, il super euro determinerà un incremento del reddito
reale in Eurolandia, con riflessi positivi sui consumi.
Se
l’economia non entusiasta, le Borse del Vecchio continente raccolgono sempre
più favori. A gennaio, è balzata dal 23 al 32% la percentuale di fund manager
che considerano l’area come la migliore nel 2005. Per John Hatherly,
responsabile analisi globale di M&G Investments, il tema dominante non sono
più le ristrutturazioni e il taglio dei costi da parte delle imprese, ma
l’attività di fusioni e acquisizioni, i buy back azionari, gli elevati
dividendi e la crescita dei profitti.

Fonte
Morningstar.it
Class
Action all'amatriciana
Se
la vita dei pendolari in treno è così dura, se la sorte dei piccoli
risparmiatori è così amara, se basta uno sciopero di quattro gatti a Bormio
per ridicolizzare il paese, la
risposta deve essere politica e non giudiziaria.
13 Febbraio 2005
- 22:56
Torino (di Angelo Benassia)
«Class
action», finita la pacchia? Parrebbe. In America queste azioni consentono di
fare un'unica causa quando i danneggiati sono così tanti che sarebbe
impossibile avere l'adesione di tutti prima di cominciare. Succede allora che
alcuni di essi, organizzati da studi legali specializzati - chi non ricorda la
Erin Brockovich di Julia Roberts nel film omonimo? - si proclamino
rappresentanti di tutti quelli (la «classe») che hanno subito il medesimo
danno. Una corte stabilisce che la causa è ricevibile e l'azione può partire.
Si tratta di casi per lo più riguardanti la responsabilità per prodotti
difettosi, per medicine dannose, per disservizi e così via. Clamorosa la
transazione dei fabbricanti di sigarette nel 1998, per 206 miliardi di dollari
pagati in 46 Stati americani.
Tutto
bene, dunque, al punto da adottare anche da noi, come vorrebbe qualcuno, questo
strumento di (apparente) democrazia giudiziaria? A quanto pare le cose stanno
diversamente, tanto che a Washington il Senato ha approvato, giovedì scorso, un
progetto di legge che limita drasticamente la possibilità di iniziare questo
genere di cause.
«Negli
scorsi decenni - si legge nelle premesse della nuova legge - lo strumento della
class action ha dato luogo a degli abusi che hanno danneggiato sia i richiedenti
sia le parti convenute, pregiudicando la stima del pubblico verso il sistema
giudiziario. I richiedenti spesso ricevono un esiguo o inesistente vantaggio e
anzi qualche volta subiscono un danno, dato che agli avvocati sono liquidati
grandi compensi, lasciando agli aderenti alla classe piccole somme o dei coupons
di nessun valore».
Con
le nuove regole non sarà più possibile che una class action di valore
superiore ai 5 milioni di dollari sia intentata davanti a una delle tante
piccole corti dei singoli Stati, dovendosi rivolgere, invece, a una corte
federale (sono 13 in tutto). Ma così, hanno obiettato le associazioni dei
consumatori, si finirà davanti a giudici che avranno meno «simpatia» per
iniziative del genere. Però si otterrà una giurisprudenza più equilibrata,
ribattono i sostenitori del cambiamento, e si migliorerà il commercio fra Stato
e Stato, che oggi è influenzato dall'inceretezza sugli orientamenti di questa o
di quella corte statuale.
L'accesso
alla corte federale sarà più difficile (almeno un terzo dei danneggiati deve
risiedere nel medesimo Stato, altrimenti niente azione) e sarà più complicato
transigere in cambio, anziché di denaro, di coupons che diano soltanto il
diritto a ricevere beni o prestazioni aventi valore pro capite irrisorio. Feroci
limitazioni sono state introdotte, infine, per tagliare le unghie agli avvocati.
Basta, si dice, con le parcelle milionarie e con risarcimenti irrisori.
Il
cambiamento di rotta dovrebbe indurre a cautela i nostri affrettati sostenitori
della class action all'amatriciana, anche perché ogni volta che si è cercato
di trapiantare in Italia modelli processuali nati in altri sistemi giuridici la
reazione di rigetto ha finito col procurare guai peggiori del sollievo
immaginato. Pensiamo ai riti speciali del processo penale, come il giudizio
abbreviato e il patteggiamento. Risolvono una minoranza di casi (il 16% contro
più del 90% in Usa) e la logica premiale finisce per creare sentenze assai
discutibili, come quella che ha dimezzato, in appello, la pena di 30 anni
inflitta in primo grado all'uccisore di una giovane studentessa.
Del
resto, se la vita dei pendolari in treno è così dura, se la sorte dei piccoli
risparmiatori è così amara, se le cure mediche sono tardive, se basta uno
sciopero di quattro gatti a Bormio per ridicolizzare il paese, la risposta deve
essere politica e non giudiziaria. E prima delle opinabili azioni di massa
vengono i diritti del singolo cittadino, che oggi un sistema processuale iniquo
e arruffone non tutela nelle aule civili e neppure in quelle penali. A questo,
cioè a migliorare la risposta alla domanda di giustizia da parte dei più
deboli, dovrebbe aspirare il ministro della Giustizia, invece di cedere alla
quotidiana tentazione del VistaVision mediatico, padano Kirk Douglas, nelle
stanche repliche della Sfida all'O.K. Corral.
La Stampa
BOND,
come manipolare il mercato
Gli
operatori di Citigroup che hanno tentato di destabilizzare il mercato europeo
delle obbligazioni, lanciando prima un enorme volume di ordini di vendita e
quindi ricomprando a prezzi inferiori, si
sono comportati in un modo davvero ingenuo.
16 Febbraio 2005
4:35
MILANO (di Fabrizio Tedeschi)
*Fabrizio
Tedeschi e´ editorialista di Panorama Economy. Consulente di grandi
banche e gruppi finanziari, per otto anni e´ stato responsabile della Divisione
Intermediari della Consob a Milano. Il contenuto di questo articolo esprime
esclusivamente il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la
linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Abili nella progettazione,
ingenui nell'attuazione. Gli operatori di Citigroup che la scorsa estate hanno
tentato di destabilizzare il mercato europeo dei bond, lanciando prima un enorme
volume di ordini di vendita e quindi ricomprando a prezzi inferiori, si sono
comportati in un modo davvero ingenuo.
Due
importanti trader, nel memo scambiatosi prima di lanciare il loro grande deal,
dichiarano cosa li ha spinti ad agire e i loro obiettivi. Il motivo principale della loro azione (illegittima) e'
che la trasparenza e l'efficienza del mercato dei bond, unite alla presenza di
troppi operatori, lo rendono poco profittevole. Occorre quindi dargli una bella
scossa per far si' che un buon numero di operatori venga 'annientato'
(letteralmente) e che diventi piu' simile a quello americano, dove e' piu'
facile organizzare queste operazioni.
Questo
appunto deve riempire d'orgoglio noi italiani, che dovendo negoziare il nostro
enorme debito pubblico, abbiamo costruito il piu' efficiente mercato di titoli
del debito pubblico del mondo. Dopo esserci compiaciuti, pero', dobbiamo riflettere sulla vicenda. In
primo luogo, bisogna prestare attenzione alla direttiva europea che
abolisce l'obbligo di concentrare gli scambi di strumenti finanziari nei mercati
regolamentati. L'opinione
degli operatori di Citigroup rende chiaro che dove non ci sono mercati
efficienti e trasparenti fanno breccia manovre destabilizzanti.
Il
secondo elemento riguarda il numero degli operatori sul mercato. Il processo di
concentrazione in atto a tutti i livelli portera' alla riduzione del loro numero
e a maggiore efficienza, ma il mercato risultera' piu' facilmente manipolabile.
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