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INDICE ARTICOLI

 

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Macro Euro e BCE - settore immobiliare

Case: BCE lancia l'allarme, prezzi fuori controllo

Valute - USD

Dollaro: ripresa o fuoco di paglia ?

Valute - USD

Cime abissali per il dollaro

Borse e Mercati

Borsa alle stelle, economia alle stalle

Borse e Mercati - Sentiment

Borse europee: ci crede solo 1/3 dei gestori

Finanza italiana

Class Action all'amatriciana

Finanza italiana

BOND, come manipolare il mercato

 

+++  La BCE lancia l'allarme, prezzi fuori controllo  +++

venerdì  11  febbraio  2005   sabato  12  febbraio  2005   martedì  08  febbraio  2005
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  Case: BCE lancia l'allarme, prezzi fuori controllo

Cinque anni di corsa sfrenata (+45%) ma adesso i costi delle abitazioni rischiano di diventare "insostenibili". Anche se gli operatori, in Italia, non vedono "almeno a breve, alcun rischio di bolla per il mercato del real estate".

10 Febbraio 2005 16:27 Roma (ANSA)

 

Cinque anni di corsa sfrenata, ora è allarme: i prezzi delle case rischiano di diventare "insostenibili". Il richiamo, forte, è della Banca Centrale Europea, anche se gli operatori, in Italia, non vedono, "almeno a breve, alcun rischio di bolla per il mercato immobiliare". I prezzi delle case, in Italia, sono infatti più bassi rispetto a quelli di Francia e Gran Bretagna e, quest'anno, cresceranno di un modesto 4,1%, quindi - sostengono gli operatori - "poco più dell'inflazione" e nulla in confronto al +12% segnato nel 2004 ed al +45% dell'ultimo quinquennio.

Il mercato, comunque, è destinato a crescere ancora: "non avendo altro settore in cui investire" gli italiani continueranno a puntare sul mattone. "L'effetto congiunto dell'abbondante liquidità e della forte espansione del credito potrebbe indurre incrementi non sostenibili dei prezzi sui mercati immobiliari in alcune parti dell'area euro, avverte la Bce nel suo ultimo bollettino.

La domanda di mutui per l'acquisto di abitazioni continua a essere sostenuta, contribuendo alla vigorosa dinamica dei prezzi degli immobili residenziali". Affermazione questa che trova riscontro negli ultimi dati della Banca d'Italia, dai quali emerge che in dicembre 2004 le richieste di mutui hanno raggiunto livelli record attestandosi a 180 miliardi di euro, circa 30 miliardi miliardi in più rispetto all'anno precedente.

A gettare acqua sull'allarme giunto da Francoforte sono gli operatori del mercato immobiliare italiano, convinti che "ci sia una scarsa percezione" del caro-prezzi, imputabile al fatto che il mercato è mosso ed alimentato soprattutto da coloro che vendono una casa per acquistarne un'altra. "Solo una piccola parte degli acquirenti è composta da famiglie che si affacciano per la prima volta al mercato, circa un 20% - spiega il presidente di Scenari Immobiliari, Mario Breglia - Il mercato è mosso da un notevolissimo ricambio interno dove la percezione del rialzo è scarsa perché si tende a vendere una casa che già si ha a 100 lire, per comprarne una a 130".

Secondo Breglia, "la preoccupazione della Bce non è tanto l'aumento dei prezzi, ma il crescente indebitamento delle famiglie che, se i tassi torneranno a salire, potrebbero trovarsi nella condizione di non poter far fronte ai pagamenti". Nonostante il caro-prezzi, il mercato immobiliare continuerà comunque ad espandersi: "Negli ultimi cinque anni le quotazioni in Italia sono cresciute del 45%, pressoché in linea con il +40-60% registrato a livello europeo - aggiunge Breglia - L'aumento ora è rallentato, pur non registrandosi alcun calo o stabilità dei prezzi, ma la pressione dei consumatori continua ad essere forte: chi acquista lo fa turandosi il naso, compra nonostante i prezzi alti perché non ha altra alternativa in cui investire".

"Il mercato è attivo - sottolinea Guido Lodigiani del centro studi di Tecnocasa - c'é ancora interesse ma non ipotizziamo nessuna bolla per il mercato immobiliare italiano a breve", anche perché la crescita dei prezzi dovrebbe rallentare al +4,1%, con le quotazioni delle abitazioni dei centri storici delle città stabili visto che "ormai hanno raggiunto il picco".  

Fonte (ANSA)

 

 

 

  Dollaro: ripresa o fuoco di paglia ?

E poi: lo sapete che Greenspan ha detto che raffreddare il mercato immobiliare, che oggi è il vero motore della crescita americana, porterebbe a una riduzione del deficit commerciale? Ecco perche' la valuta Usa...

10 Febbraio 2005 15:28 Lugano  (di Alfonso Tour*)

*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua italiana.

 

Queste prime settimane dell’anno sono state caratterizzate dal rialzo del dollaro rispetto all’euro e al franco svizzero. La convinzione degli operatori è che siamo all’inizio di una vera e propria inversione di tendenza del biglietto verde. Questa tesi viene sostenuta con alcuni dati di fatto e con alcune ipotesi. Il dato di fatto è che la differenza tra i tassi di interesse tra le due sponde dell’Atlantico giocano a favore del dollaro. Infatti i tassi a breve americani sono ora al 2,5% mentre quelli di Eurolandia sono fermi al 2%.

Questo differenziale è inoltre destinato a crescere poiché la Federal Reserve ha più volte comunicato di voler continuare ad aumentare il costo del denaro, mentre le precarie condizioni economiche di Eurolandia fanno prevedere che la Banca centrale europea dovrà attendere ancora parecchio tempo prima di toccare il livello dei tassi. Il differenziale dei tassi non è comunque l’unico fattore che spinge molti a sostenere che la ripresa del dollaro sarà duratura.

Secondo loro vi sarebbero almeno altri due motivi: una svolta politica dell’amministrazione americana e le buone prospettive di crescita dell’economia statunitense. Indubbiamente, sembra profilarsi un significativo riorientamento della politica economica dell’amministrazione Bush, che può essere sinteticamente descritto in questo modo: a Washington non si trascura più il problema dei deficit gemelli (deficit federale e deficit commerciale). La proposta di bilancio presentata dal presidente, anche se deve passare il vaglio del Congresso, si propone di ridurre il disavanzo statale. D’altro canto, sembra essere stata anche abbandonata la scelta di far scivolare il valore del dollaro, di fronte all’evidenza che la sua svalutazione non ha prodotto alcun miglioramento del disavanzo commerciale statunitense e che di fronte al pericolo che un ulteriore indebolimento del dollaro avrebbe intaccato ulteriormente le già deboli condizioni di salute delle economie europea e giapponese.

Quindi, si sostiene, il secondo quadriennio di Bush alla Casa Bianca sarà dedicato a risanare gli squilibri economici americani che pesano sul tasso di cambio del dollaro e, si aggiunge, ciò avverrà in un contesto di crescita sostenuta dell’economia statunitense. Quindi, differenziale dei tassi, cambiamento della politica americana e prospettive di crescita degli Stati Uniti migliori di quelle di Giappone ed Europa spingono alcuni a ritenere che il rialzo del dollaro non sia un fuoco di paglia. Tutto appare logico e chiaro, ma in realtà non lo è affatto.

L’indebolimento del dollaro è il riflesso di un disavanzo commerciale che continua a lievitare e che si traduce in un debito estero destinato a diventare insostenibile sia economicamente sia politicamente per gli Stati Uniti. D’altro canto, la tendenza all’aumento di questo disavanzo non verrà intaccata dalle misure di risparmio prospettate da Bush. Quindi, le prospettive sono essenzialmente due. La prima è che continui a reggere il tacito accordo tra Asia e Stati Uniti, in base al quale gli americani mantengono aperto il loro mercato all’export asiatico, mentre le banche centrali asiatiche continuano a finanziare il disavanzo estero americano.

In questo caso la ripresa del dollaro è in realtà solo un rimbalzo destinato a precedere una nuova caduta.

 La seconda alternativa è che invece gli americani siano disposti a frenare la loro crescita economica per ridurre la loro fame di importazioni. A quest’ultima eventualità ha fatto cenno a Londra anche il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, che di sfuggita ha detto che vi è una stretta correlazione tra l’andamento del disavanzo commerciale e quello del mercato immobiliare americano.

In altre parole, Greenspan ha detto che raffreddare il mercato immobiliare, che oggi è il principale motore della continua crescita dei consumi delle famiglie statunitensi e quindi della crescita dell’intera americana, porterebbe ad una riduzione del deficit commerciale. Questa ipotesi, ventilata da Greenspan, sembra avallata dalla previsione generalizzata che la Federal Reserve porterà entro la fine dell’anno i tassi di interesse al 3,5% e dalla reazione dei mercati dei capitali dove la discesa dei tassi a lungo termine sta a testimoniare non solo che non si teme l’inflazione, ma che si prevede un forte rallentamento dell’economia statunitense.

Le dimensioni del disavanzo commerciale americano e le difficoltà di un suo risanamento inducono a ritenere che sia ancora presto per scartare l’ipotesi che l’attuale ripresa del dollaro non sia in realtà altro che un significativo rimbalzo.  

 

Il Corriere del Ticino

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GR1 RAI - 07 FEB ore 19:15     MP3 (34 KB)
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GR1 RAI - 10 FEB ore 22:00     MP3 (67 KB)
 
GR1 RAI - 16 FEB ore 19:15     MP3 (47 KB)

 

 

 

+++  Intesa fra Fiat e General Motors, alla Fiat 2 miliardi di dollari  ---  Iraq, no dell'unione al premier  ---  Giuliana Sgrena  in lacrime in un video trasmesso dalla tv del Catar  ---  Bush alla NATO: aiutatemi in Iraq  +++

mercoledì  16  febbraio  2005   giovedì  17  febbraio  2005   lunedì  21  febbraio  2005
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  Cime abissali per il dollaro

 

15 Febbraio 2005 2:59 Milano (di Giulietto Chiesa)

 

Il dollaro è risalito, di poco, ma se dovessi darvi un consiglio continuerei a puntare sull’euro, perché sospetto che dopo la salita ci sarà una discesa ancora più ripida. Sapete perché? Perché ho letto quello che scrive un noto rivoluzionario, di nome Robert Reich, già ministro del lavoro dell’Amministrazione Clinton e oggi professore di politica economica e sociale alla Brandeis University. E, a costo di venire nuovamente redarguito dai soloni del Foglio dell’ex informatore della Cia Giuliano Ferrara, tornerò a “copiare” qualche nota offertaci da Reich, che farà il paio con quelle a suo tempo citate di John Kenneth Galbraith.

Dice Reich, sicuramente in preda a un raptus antiamericano, che il deficit degli Stati Uniti, stando alle previsioni di quel covo ci provocatori comunisti dell’Ufficio del Congresso per il bilancio, aumenterà di 2000 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Ovviamente nel caso che l’attuale presidente degli Stati Uniti d’America riesca a rendere permanente la sua attuale filo-pluto-antropica politica di tagli fiscali (dove il termine filo-pluto-antropico si può tradurre con “amante degli uomini ricchi”).

Infatti questa è – scrive sempre Reich – una politica che ha consentito “agli americani più ricchi - che hanno beneficiato della maggior parte dei tagli fiscali – di continuare a essere sempre più ricchi”. Si aggiunga poi che “la maggior parte degli analisti” è convinta che il costo della privatizzazione della Social Security sarà di oltre 2000 miliardi di dollari, di nuovo nel corso dei prossimi dieci anni. E che le spese belliche, presenti e future, dovranno aggiungersi a questi deficit stellari. L’Irak è già costato oltre 200 miliardi di dollari e non è finito. Se si mette nel conto un possibile attacco contro l’Iran, si dovrà arrivare a 800-1000 miliardi di dollari all’anno.

Ora noi siamo perfettamente consapevoli che questo è il migliore dei mondi possibili e che l’economia statunitense è la migliore del pianeta. Cionondimeno ci riesce difficile, insieme a Robert Reich, non cogliere che gli Stati Uniti stanno spendendo, con la loro carta di credito universale, qualche cosa come un quarto dell’intera economia americana. Insomma gli Usa spendono troppo e si affidano ai soldi altrui per tirare avanti. Vivono di credito e si indebitano ulteriormente per pagare gl’interessi del credito. Il che, a sua volta, comporta che i loro titoli (inclusi i biglietti di banca verdi – perdono valore in quanto il rischio di possederli aumenta per gl’investitori. Per attirare i quali, conseguentemente, si deve aumentare il tasso d’interesse, cioè il costo del denaro.

Ma questo, ahinoi, costringe gli americani, tutti gli americani, a pagare di più per i beni e i servizi che comprano. E anche di più sui mutui con cui comprano le seconde case e le terze automobili. Insomma su tutto quello che si compra a credito. Nello stesso tempo gl’investimenti diverranno più difficili perché più costosi e anche perché più aleatori, non essendoci risparmio disponibile (gli americani non risparmiano quasi più niente) e dipendendo esso dall’afflusso estero, a sua volta sempre più precario. Un bel pasticcio, anzi un bel vicolo cieco.

Ma il cui effetto prevedibile e principale è che, in queste condizioni, l’economia rallenta, il deficit pubblico sprofonda in cime abissali e gli americani diventano, molto semplicemente, più poveri. Tutti salvo i più ricchi, che diventano ancora più ricchi.

Reich è preoccupato, perché tutto ciò gli sembra una follia, appunto filo-pluto-antropica. Dove ci porterà tutto questo? Ma – che domanda! – alla guerra, naturalmente. Perché gli Stati Uniti non pagheranno questi debiti. Non li pagheranno mai più. I loro amici (anche europei) paiono disposti a transigere, a fare finta di niente, ad accollarsi il peso. Il fatto è, però, che gli altri creditori erano disarmati e e non potevano esigere nulla, proprio per questa ragione. Ma per domani già si delineano creditori armati. E allora bisognerà sparare per tenerli a bada. Dunque, riassumendo, chi ha euro se li tenga ben stretti, anche se l’economia europea cresce più lentamente di quella americana.

 

 

 

 

 

 

FOLLIE: la BCE vuole alzare i tassi

 

16 Febbraio 2005 05:17 Roma

L'economia europea si è fermata, di nuovo, alla fine del 2004. Anzi in realtà è persino difficile definirla battuta d'arresto visto che per tutto l'anno è sembrata muoversi per forza d'inerzia e non per meriti propri, trainata dall'ottimo andamento globale dei paesi emergenti e soprattutto dagli Stati Uniti.

Gli Usa poche settimane fa avevano annunciato una crescita del 4,4%, la la più alta dal '99, per il vecchio continente invece le cose sono andate diversamente: la differenza tra gli ultimi tre mesi del 2004 e lo stesso periodo dell'anno prima è +1,6% per Eurolandia e +1,8% per l'Europa a 25. Ma il dato che racconta meglio la brusca frenata è quello più congiunturale: nel quarto trimestre dell'anno appena concluso il pil si è contratto in Germania (-0,2%) Olanda (-0,1%) e soprattutto Italia (-0,3%) rispetto ai tre mesi precedenti.

Si riaffacciano dunque i timori di un 2005 in rallentamento, offuscato persino dalla minaccia di una recessione. E dire che il 2004, stagnante ma tranquillo con tassi di crescita medi superiori all'1% anche nei paesi europei più deboli, doveva essere il trampolino di lancio verso un anno di sviluppo vicino al massimo potenziale. Ma ora il fatidico obiettivo di un +2% adottato dall'Italia, ma anche dal resto d' Europa assomiglia molto di più a una chimera. Se ne è accorta anche la Commissione Ue che ha ritoccato le stime di crescita del primo e del secondo trimestre 2005 (ora sono tra lo 0,2% e lo 0,6%), lasciando tra l'altro una forchetta molto ampia, ennesimo segno d'incertezza.

Dati così al di sotto delle previsioni avranno una serie di conseguenze rilevanti su molti fronti, innanzitutto rendono molto più arduo per la Bce aumentare i tassi d'interesse. A Francoforte ormai ritengono eccessivo il gap tra il costo del denaro americano (2,5%) e quello europeo (2%) e ieri ci ha pensato il governatore della Banca di Francia, Christian Noyer, a prefigurare «politiche monetarie meno accomodanti». Rimane il fatto che un rialzo del costo del denaro in questo momento sarebbe un segnale di ulteriore depressione.

E di certo un peso dati congiunturali così negativi li avranno anche nel dibattito sulla riforma del Patto di stabilità che oggi e domani affronta una tappa decisiva all'Ecofin. I pericoli per l'economia spingeranno i ministri a “fare qualcosa” e quindi spingere per una riforma da varare in occasione del vertice di primavera dei capi di Stato e di governo. Sul messaggio di fondo, che il patto deve favorire maggiore crescita oltre che rigore, sono tutti d'accordo ma, fanno notare molti economisti, in realtà né i dati di ieri né serie storiche degli ultimi anni danno la certezza che sia stata un interpretazione rigida dei parametri sul deficit pubblico a spingere verso la stagnazione l'Europa.

Ed effettivamente paesi molto virtuosi come Spagna e Olanda stanno sperimentando situazioni economiche opposte con la recessione che attanaglia il paese dei tulipani e una solida crescita che arride alla Spagna (+2,7 di crescita tendenziale a fine 2004). Stesso discorso per gli “indisciplinati” Francia e Germania che da quattro anni superano la soglia del 3% con risultati molto diversi. I transalpini si sono risollevati (+2%) mentre i tedeschi continuano a deludere soprattutto a causa di un mercato interno praticamente piatto.

Prospettive grigie anche per l'Italia che ha chiuso, secondo le stime provvisorie dell'Istat con un +1,1% cioè molto al di sotto dell'1,4% delle previsioni del ministero dell'Economia. Le speranze di Siniscalco di centrare l'obiettivo rimangono appese ad una successiva revisione che tenga conto dei cinque giorni di lavoro in più di cui il 2004 ha beneficiato rispetto al 2003. Ma sarebbe una ben magra consolazione, innanzitutto anche raggiungendo la soglia del 1,4% non si potrà ribaltare il dato congiunturale sugli ultimi tre mesi che segnala addirittura uno 0,3%. Per il 2005 si annuncia una partenza ad handicap che rende l'obiettivo del 2% di crescita del pil proibitivo e non esclude che il minor gettito fiscale derivante da un'attività economica ridotta apra un buco nelle finanze pubbliche sempre al limite. Possibilità esclusa da Siniscalco.

E poi c'è il problema strutturale di un'economia che vede perdere sempre più il proprio peso industriale, l'Istat ha segnalato un aumento del valore aggiunto realizzato dall'industria (0,7%) solo per i giorni lavorativi in più, depurato segnala una contrazione dello (0,4%). La vera emergenza che dovrebbe essere tamponata dal famoso decreto competitività quotidianamente oggetto di vertici nelle maggioranza (ieri An Siniscalco) ma sempre lontano da una configurazione definitiva.

 

Il Riformista per Wall Street Italia.com

 

 

 

 

 

 

 Borsa alle stelle, economia alle stalle

16 Febbraio 2005 20:11 New York

 

 

La Borsa sta tirando come un mulo ed è ai massimi da due anni a questa parte. L'economia reale è invece a terra e non passa giorno che non ci sia un bollettino di guerra.

A parte la Fiat, di cui è diventato quasi demodé parlare, c'è la crisi delle acciaierie di Terni, la vendita della Lucchini ad un gruppo estero, l'irrisolta crisi Alitalia, etc, etc, etc, ed ancora etcetera, perché non è nemmeno il caso di parlare dell'assai incerto equilibrio dei conti pubblici, ciò che costringerà, assai probabilmente, il Governo ad una nuova manovrina in corso d'anno, con tanti saluti ed ossequi alla diminuzione delle tasse.

Eppure, a fronte di una situazione dell'economia reale che è da "I quattro cavalieri dell'apocalisse", la Borsa tira come, per l'appunto, un mulo.

La prima spiegazione di tanta effervescenza appartiene, per solidarietà col mulo, al regno animale. Quindi, parliamo dell'asino, o meglio, dell'"attacca l'asino al carro del padrone", dove il padrone è Wall Street.

Il Dow Jones, nonostante il triplo deficit dell'economia USA (privato, del bilancio federale, della bilancia commerciale) è a quota 10.700 punti, un livello distante circa il 10% dai suoi massimi storici, quelli della bolla. E' giustificato tale livello? Il Pil americano cresce, le aziende fanno utili, ma, c'è un ma grosso come una casa, anzi come un grattacielo.

L'occupazione stenta a crescere e il triplo deficit guida la politica del dollaro debole. Greenspan dirige una politica monetaria attenta ad assecondare il difficile riequilibrio di squlibri che potrebbero scoppiare con una forza deflagrante. Su tutto incombe il pericolo dello sboom della bolla sul mercato immobiliare.

Ma intanto, Wall strett va, e le borse europee seguono, e Piazza Affari segue ancora di più perché nel 2004 ha registrato la migliore performance tra quelle del vecchio continente.

Il perché è spiegabile con la debolezza della nostra economia reale. Nello standard&poor mib (in pratica il vecchio mib30 incrementato di 10 azioni) e nel mibtel, ogni azione ha una certa ponderazione, e ciò significa che diverso è l'effetto sull' indice di Borsa se aumenta l'Eni o aumenta, ad esempio, Fastweb, Fiat o Finmeccanica.

E qui viene il punto: la forza della nostra Borsa dipende, come già detto, proprio dalla debolezza della nostra economia. Infatti, il peso maggiore negli indici è rappresentato da Eni, Enel, Tim e Telecom. Ora, Eni, che pesa circa il 10% nello Standard&poor mib, è ai massimi storici in virtù del rialzo del prezzo del petrolio e guida la carica di Borsa.

Le industrie, al contrario, sono quasi assenti, o hanno un peso quasi insignificante, e sono travolte, quanto ad incidenza sulle variazioni degli indici di Borsa, dalle società di cui sopra, nonché da banche e da assicurazioni. Quindi, le industrie vanno male, ma la loro influenza in una Borsa fatta di società di servizi, o quasi, è irrilevante.

Così si è creata questa discrasia tra un'economia reale rantolante ed una Borsa effervescente. Le ragioni di tale frattura, ovviamente, sono anche altre, prima fra tutte una certa preoccupazione nell'investire ancora sul mercato immobiliare, attesi i livelli a cui è giunto questo mercato.

Durerà questa discrasia? Sarà l'economia reale a migliorare e ad adeguarsi all'andamento della Borsa, o sarà la Borsa, alla fine, a seguire il precipizio dell' economia reale?

Personalmente, nonostante alcuni temi interessanti come quello della possibile apertura delle banche italiane, Fazio battuto, al capitale estero, credo che in Borsa siamo alla vigilia di un grosso storno perché, alla fin fine, con l'economia reale bisogna fare i conti, e qui sono guai.

 

Fonte Wall Street Italia.com

 

 

 

  Borse europee: ci crede solo 1/3 dei gestori

4 Febbraio 2005 00:58 Milano  (di Sara Silano*)

*Sara Silano è Vicecaposervizio di Morningstar in Italia.

 

Patto di stabilità sì, Patto di stabilità no. Ribasso o rialzo dei tassi d’interesse. Sono i due dilemmi che dividono l’Unione europea. Intanto, i gestori promuovono le Borse del Vecchio continente, che nel primo mese del 2005 sono salite dell’1,7% (indice Msci Euro netto).

Sulla proposta di rendere flessibile il Patto di stabilità, formulata lo scorso settembre, si sono formati due schieramenti. Da un lato gli ortodossi, capeggiati da Olanda e Austria, che si oppongono alla modifica, che, a loro giudizio, rappresenta una minaccia per l’Unione monetaria. Dall’altro lato, i revisionisti, inclusi i tre principali Paesi, Germania, Francia e Italia, oltre a Portogallo, Grecia e con il sostegno esterno del Regno Unito, che vorrebbero escludere alcune spese dal computo del debito, come la ricerca e la difesa.

Per Vincenzo Guzzo, economista di Morgan Stanley, “Il Patto non può rimanere così com’è”, ma la soluzione non consiste nell’escludere alcune spese, bensì nel trasformarlo da vincolo in catalizzatore per le riforme strutturali. Resta indiscutibile, comunque, il ruolo del Patto, perché quando la Banca centrale europea (Bce) alzerà i tassi, i mercati finanziari diventeranno più selettivi e i governi pagheranno il prezzo di politiche fiscali troppo espansive.

Ma quando ci sarà la stretta? Sono pochi i gestori che scommettono nel breve. Nell’ultimo incontro la Bce ha lasciato invariati i tassi al 2% e recentemente non è cambiato molto l’outlook sull’economia. Si prevede che il Prodotto interno lordo aumenterà a ritmo moderato, mentre diminuiscono i rischi di inflazione nel breve periodo, per il ridimensionamento dei prezzi del petrolio. Per contro, l’elevata liquidità presente sul mercato creditizio rappresenta una minaccia nel medio periodo. Secondo l’istituto di Francoforte, il caro-vita rientrerà nel target del 2% nel corso dell’anno.

La stretta è considerata improbabile fino a metà anno, ma Joachim Fels, economista capo del reddito fisso globale di Morgan Stanley, è convinto che il momento giusto per un rialzo sia già arrivato perché l’economia è più forte di quanto atteso, l’euro ha frenato la corsa e c’è un eccesso di liquidità nel sistema.

Sulla moneta unica, tuttavia, i pareri sono discordi. Per il 47% dei gestori intervistati da Morningstar nell’ultimo sondaggio europeo, l’euro sarà la miglior valuta nel 2005 e per il 69% il dollaro sarà la peggiore, con innegabili effetti negativi, secondo gli economisti di Schroders, sulle esportazioni. Per contro, il super euro determinerà un incremento del reddito reale in Eurolandia, con riflessi positivi sui consumi.

Se l’economia non entusiasta, le Borse del Vecchio continente raccolgono sempre più favori. A gennaio, è balzata dal 23 al 32% la percentuale di fund manager che considerano l’area come la migliore nel 2005. Per John Hatherly, responsabile analisi globale di M&G Investments, il tema dominante non sono più le ristrutturazioni e il taglio dei costi da parte delle imprese, ma l’attività di fusioni e acquisizioni, i buy back azionari, gli elevati dividendi e la crescita dei profitti.  

Fonte Morningstar.it

 

 

 

 

 

 

venerdì  04  febbraio  2005   martedì  08  febbraio  2005   sabato  26  febbraio  2005
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  Class Action all'amatriciana

Se la vita dei pendolari in treno è così dura, se la sorte dei piccoli risparmiatori è così amara, se basta uno sciopero di quattro gatti a Bormio per ridicolizzare il paese, la risposta deve essere politica e non giudiziaria.

 

13 Febbraio 2005 - 22:56 Torino (di Angelo Benassia)

 

«Class action», finita la pacchia? Parrebbe. In America queste azioni consentono di fare un'unica causa quando i danneggiati sono così tanti che sarebbe impossibile avere l'adesione di tutti prima di cominciare. Succede allora che alcuni di essi, organizzati da studi legali specializzati - chi non ricorda la Erin Brockovich di Julia Roberts nel film omonimo? - si proclamino rappresentanti di tutti quelli (la «classe») che hanno subito il medesimo danno. Una corte stabilisce che la causa è ricevibile e l'azione può partire. Si tratta di casi per lo più riguardanti la responsabilità per prodotti difettosi, per medicine dannose, per disservizi e così via. Clamorosa la transazione dei fabbricanti di sigarette nel 1998, per 206 miliardi di dollari pagati in 46 Stati americani.

Tutto bene, dunque, al punto da adottare anche da noi, come vorrebbe qualcuno, questo strumento di (apparente) democrazia giudiziaria? A quanto pare le cose stanno diversamente, tanto che a Washington il Senato ha approvato, giovedì scorso, un progetto di legge che limita drasticamente la possibilità di iniziare questo genere di cause.

«Negli scorsi decenni - si legge nelle premesse della nuova legge - lo strumento della class action ha dato luogo a degli abusi che hanno danneggiato sia i richiedenti sia le parti convenute, pregiudicando la stima del pubblico verso il sistema giudiziario. I richiedenti spesso ricevono un esiguo o inesistente vantaggio e anzi qualche volta subiscono un danno, dato che agli avvocati sono liquidati grandi compensi, lasciando agli aderenti alla classe piccole somme o dei coupons di nessun valore».

Con le nuove regole non sarà più possibile che una class action di valore superiore ai 5 milioni di dollari sia intentata davanti a una delle tante piccole corti dei singoli Stati, dovendosi rivolgere, invece, a una corte federale (sono 13 in tutto). Ma così, hanno obiettato le associazioni dei consumatori, si finirà davanti a giudici che avranno meno «simpatia» per iniziative del genere. Però si otterrà una giurisprudenza più equilibrata, ribattono i sostenitori del cambiamento, e si migliorerà il commercio fra Stato e Stato, che oggi è influenzato dall'inceretezza sugli orientamenti di questa o di quella corte statuale.

L'accesso alla corte federale sarà più difficile (almeno un terzo dei danneggiati deve risiedere nel medesimo Stato, altrimenti niente azione) e sarà più complicato transigere in cambio, anziché di denaro, di coupons che diano soltanto il diritto a ricevere beni o prestazioni aventi valore pro capite irrisorio. Feroci limitazioni sono state introdotte, infine, per tagliare le unghie agli avvocati. Basta, si dice, con le parcelle milionarie e con risarcimenti irrisori.

Il cambiamento di rotta dovrebbe indurre a cautela i nostri affrettati sostenitori della class action all'amatriciana, anche perché ogni volta che si è cercato di trapiantare in Italia modelli processuali nati in altri sistemi giuridici la reazione di rigetto ha finito col procurare guai peggiori del sollievo immaginato. Pensiamo ai riti speciali del processo penale, come il giudizio abbreviato e il patteggiamento. Risolvono una minoranza di casi (il 16% contro più del 90% in Usa) e la logica premiale finisce per creare sentenze assai discutibili, come quella che ha dimezzato, in appello, la pena di 30 anni inflitta in primo grado all'uccisore di una giovane studentessa.

Del resto, se la vita dei pendolari in treno è così dura, se la sorte dei piccoli risparmiatori è così amara, se le cure mediche sono tardive, se basta uno sciopero di quattro gatti a Bormio per ridicolizzare il paese, la risposta deve essere politica e non giudiziaria. E prima delle opinabili azioni di massa vengono i diritti del singolo cittadino, che oggi un sistema processuale iniquo e arruffone non tutela nelle aule civili e neppure in quelle penali. A questo, cioè a migliorare la risposta alla domanda di giustizia da parte dei più deboli, dovrebbe aspirare il ministro della Giustizia, invece di cedere alla quotidiana tentazione del VistaVision mediatico, padano Kirk Douglas, nelle stanche repliche della Sfida all'O.K. Corral. 

La Stampa

 

 

 

 

  BOND, come manipolare il mercato

 

Gli operatori di Citigroup che hanno tentato di destabilizzare il mercato europeo delle obbligazioni, lanciando prima un enorme volume di ordini di vendita e quindi ricomprando a prezzi inferiori, si sono comportati in un modo davvero ingenuo.

 

16 Febbraio 2005 4:35 MILANO (di Fabrizio Tedeschi)

*Fabrizio Tedeschi e´ editorialista di Panorama Economy. Consulente di grandi banche e gruppi finanziari, per otto anni e´ stato responsabile della Divisione Intermediari della Consob a Milano. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

 

Abili nella progettazione, ingenui nell'attuazione. Gli operatori di Citigroup che la scorsa estate hanno tentato di destabilizzare il mercato europeo dei bond, lanciando prima un enorme volume di ordini di vendita e quindi ricomprando a prezzi inferiori, si sono comportati in un modo davvero ingenuo.

Due importanti trader, nel memo scambiatosi prima di lanciare il loro grande deal, dichiarano cosa li ha spinti ad agire e i loro obiettivi. Il motivo principale della loro azione (illegittima) e' che la trasparenza e l'efficienza del mercato dei bond, unite alla presenza di troppi operatori, lo rendono poco profittevole. Occorre quindi dargli una bella scossa per far si' che un buon numero di operatori venga 'annientato' (letteralmente) e che diventi piu' simile a quello americano, dove e' piu' facile organizzare queste operazioni.

Questo appunto deve riempire d'orgoglio noi italiani, che dovendo negoziare il nostro enorme debito pubblico, abbiamo costruito il piu' efficiente mercato di titoli del debito pubblico del mondo. Dopo esserci compiaciuti, pero', dobbiamo riflettere sulla vicenda. In primo luogo, bisogna prestare attenzione alla direttiva europea che abolisce l'obbligo di concentrare gli scambi di strumenti finanziari nei mercati regolamentati. L'opinione degli operatori di Citigroup rende chiaro che dove non ci sono mercati efficienti e trasparenti fanno breccia manovre destabilizzanti.

Il secondo elemento riguarda il numero degli operatori sul mercato. Il processo di concentrazione in atto a tutti i livelli portera' alla riduzione del loro numero e a maggiore efficienza, ma il mercato risultera' piu' facilmente manipolabile.

 

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