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PARTE  1

 

INDICE ARTICOLI di TESTA

 

Quadro macro USA/Europa

Borse, euro, riforme: il braccio destro di Roubini "legge" il 2010

Quadro macro USA/Europa

Il dilemma del prigioniero

Analisi geopolitica globale

Naim: «Manca il pilota di bordo per risolvere i problemi del mondo»

Crisi greca e situazione contingente

Tragedia greca: meglio che Atene esca dall'€uro

Cina - Proiezioni sviluppo a lungo termine

Nel 2040 la Cina sarà un paese di super ricchi

Cina - Analisi Macro/Politica

La Cina punta all'egemonia totale

Crisi greca e situazione contingente ZEU

Una rete di eurobond per i conti di Atene

Macro USA - Considerazioni Bernanke su stato economia

Bernanke: mercato del lavoro resterà debole a lungo

 
+++   ANSA   +++   Crisi, a Grecia servono 54mld euro   +++    Usa: bancarotte personali +32%   +++   Usa: Gensler (Cftc), Possibili Nuove Crisi Se Derivati Non Regolamentati   +++   Usa: Fed, Disoccupazione Restera' Alta e Limitera' Crescita   +++   Usa: Obama Vuole Recuperare 120 Miliardi Dlr Da Banche  +++   ANSA   +++ 
 
  Lunedì 01 Febbraio 2010   Martedì 02 Febbraio 2010   Venerdì 05 Febbraio 2010  
       
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INDICE ARTICOLI - Seconda pagina e flash

   

GIAPPONE IN AFFANNO, CINA SEMPRE PIU' VICINA

GRECIA & EUROPA: LE DURE REPLICHE DELLA STORIA

USA: LA RIPRESA COME UN CAMPO MINATO

La Fed alza i tassi, al via la exit strategy

Nella forte crescita Usa sotto c’e’ il trucco

Cina e debito muovono (o no) i mercati più della Fed

La Cina alla guida del mondo

Trucchi, errori, incompetenza Se il dato economico ...

Mercati del credito 10 Feb. 2010 euforia da salvataggio

FED E TASSI, COSA ACCADE DOPO LA FINE DELL'EMERGENZA

In America latina arriva il bel tempo

BERNANKE: TASSI FERMI ANCORA PER MOLTO

   
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  Borse, euro, riforme: il braccio destro di Roubini "legge" il 2010

01 Febbraio 2010 14:25 NEW YORK – di Il Giornale.it

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Arnab Das, responsabile delle Ricerche e delle analisi di mercato di Roubini Global Economics, era a Milano giovedì, invitato da Aberdeen Asset Management Italia, nota società d'investimento patrimoniale. Questa la versione integrale che ha concesso al Giornale.

Partiamo dalla Grecia alla prese con la crisi di bilancio. La Bce ha scelto la linea dura. A torto o a ragione?

«Direi a ragione. Oggi la Grecia non è l'unico Paese europeo ad avere questi problemi. Se venisse salvato dalla Bce o ricevesse finanziamenti privilegiati dalla Ue, gli altri direbbero: perchè Atene si e noi no? L'Irlanda ad esempio ha già tagliato del 20% le spese pubbliche. I greci non hanno scelta: devono trovare da soli, con grandi sacrifici, il modo per ridurre un deficit schizzato al 12,5% e che fino a pochi mesi fa era fermo al 3,5%».
E cosa prevede per le prossime settimane?
«La crisi in Grecia si inasprirà nel breve e lo spread con il Bund aumenterà. Il mercato continuerà a mettere alla prova l'impegno greco, quando ci sarà pieno serio di Atene, lo spread diminuirà. Sullo sfondo c'è un altro problema: quello della competitività. Negli ultimi anni l'economia locale non è cresciuta molto e non sono state fatte riforme strutturali per garantire flessibilità all'economia, necessarie da quando i tassi di cambio sono fissi. Anche l'Irlanda è in crisi, ma perlomeno per un decennio era cresciuta più del mondo.
Inoltre bisogna considerare la Germania, che dopo riunificazione ha affrontato deflazione dolorosa ma necessaria. Oggi non può dire alla Grecia: vi accordiamo uno sconto».

L'uscita della Grecia dall'euro è concepibile?

«La storia dimostra che nessuna unione monetaria è durata senza unità politica e fiscale. Può darsi che l'euro rappresenti l'eccezione, ma solo se i Paesi continueranno a rispettare Maastricht. Anche la California è in bancarotta, e la California pesa molto più della Grecia, ma non è uno Stato sovrano e il governo federale può soccorrerla trasferendo fondi. L'Eurozona invece non ha questa flessibilità. Dunque la crisi in Grecia sta mettendo in luce i limiti dell'euro».
Roubini da giorni avverte: attenti alla crisi del debito pubblico europeo. Anche di quello italiano?
«No, avete da tempo un debito enorme, ma siete diventati virtuosi. In questa crisi siete riusciti a mantenere i conti sotto controllo e il deficit è aumentato molto meno di altri Paesi. In più avete un basso indebitamento delle famiglie e non c'è stata la bolla dei mutui.

I problemi sono altrove».
E dove?

«Il debito di Francia e Germania è cresciuto molto, ma sono in grado di assorbirlo. I Paesi a rischio sono Irlanda, Spagna e Portogallo; oltre alla Grecia, naturalmente».
Anche Gran Bretagna e Usa si sono indebitati...
«Ma possono stampare moneta. E anche giocare con la leva fiscale, aumentando le tasse, mentre in Europa la pressione fiscale è già molto alta. La Banca d'Inghilterra ha salvato il sistema bancario stampando moneta, per questo la sterlina è crollata. Ora il rischio è l'inflazione. Anche negli Usa i problemi saranno sempre più seri se non ci saranno correzioni, ma in entrambi Paesi dibattito è già su come gestire il deficit. Si parla di investimenti da tagliare, della questione fiscale. Obama lo ha ribadito nel discorso sullo Stato dell'Unione. La coscienza del Paese è cambiata».
Nel 2009 il pessimismo dilagava, e Roubini vedeva nero., Invece i mercati...
«Roubini ha visto per primo e giustamente la crisi finanziaria americana e il suo rischio sistemico. Ci ha azzeccato nel 2007 e nel 2008. ha avuto la vista molto lunga. Nel 2009 abbiamo sottovalutato l'impatto degli stimoli fiscali e monetari. I mercati sono andati bene, ma siamo convinti che la ripresa del mondo occidentale sarà anemica.

E dunque cosa aspettarsi nel 2010?

«Non sarà come le altre recessioni del dopoguerra. Nonostante rally recente resta un'enorme distruzione di ricchezza, considerando l'immobiliare e l'azionario, di circa del 40%.Il problema è che il livello di indebitamento complessivo non è sceso, perché gli Stati sono messi peggio. Il debito pubblico ha sostituito quelli bancari e privati. Fannie e Freddie sono stati di fatto nazionalizzate. Anche se non c'è crisi sui titoli di Stato dell'America e dei grandi Paesi occidentali, il debito peserà a lungo sulle economia occidentali. Due ipotesi. Crescita lenta o più inflazione e tassi più alti».

I nostri lettori chiedono consigli pratici per investire i propri risparmi...

«I margini per una crescita ulteriore dei mercati oggi sono ridotti. Nel 2009 le Borse sono salite grazie ai piani di stimolo e ai tagli dei posti di lavoro. I primi si stanno esaurendo. Tagliare posti è logico e ti permette di difendere gli utili nel breve periodo, ma ha un limite. Non si può farlo per sempre. E ha un costo molto alto: più tagli, più danneggi l'economia reale, più ritardi la ripresa, tagliano i redditi delle famiglie. Da ora la crescita del S&P dipenderà dall'aumento del Pil. Sui mercati prevedo più volatilità con un alto rischio di correzioni. Per la prima parte dell'anno, vedo gli asset americani più brillanti degli altri Paesi industrializzati e dollaro più forte. Ma dopo calo. Per i mercati emergenti il contrario, siamo ottimisti sul secondo semestre. e i secondi non possono proseguire all'infinito. Dunque solo l'aumento del Pil potrebbe sostenere gli indici, ma secondo noi la ripresa sarà anemica».

La Cina è un mistero: crede al rischio di una bolla?

«Sì, il problema è che la Cina non può far raffreddare l'economia. Il suo modello richiede alti tassi di crescita perché altrimenti emergerebbero forti problemi sociali, di disoccupazione, e in ultima analisi di stabilità politica. E dunque deve tenere il remimbi ancorato al dollaro. Ma questo perpetua le distorsioni. Per continuare a difendere il tasso di cambio deve incrementare di molto le riserve e in questo modo alimenta la corsa sia dell'immobiliare che borsistica. Se non lasci fluttuare il remimbi il rischio di bolla aumenterà. E' già capitato negli Usa negli anni Venti e in Giappone negli anni Ottanta. Scenario: Borsa sale ancora alle stelle, poi crash e deflazione. Non è problema immediato, ma nemmeno lontanissimo».

La crisi finanziaria è stata superata davvero o è stata solo camuffata?

«Oggi non c'è più il rischio di fallimento grandi banche, ma le passività sono ancora enormi, noi le stimiamo a 1 trilione di dollari; inoltre l'immobiliare commerciale è un problema negli Usa e in Europa. Dunque non sono ancora in grado di prestare soldi ai privati e alle aziende».
La gente ha impressione che non ci sia più correlazione tra l'economia reale e quella finanziaria.

Come riequilibrare la situazione?

«Lo scollamento tra andamento degli indici e la disoccupazione o la crescita del Pil è tipico dei cicli economici. Questa volta però siamo in una situazione davvero particolare. Perchè il sistema bancario è stato salvato dallo Stato e perché la disoccupazione e di lungo periodo. Inoltre è passato il concetto "tto big to fail". Se sei grande o capace di condizionare il sistema in caso di problemi sarai salvato dallo Stato, il che incoraggia comportamenti irresponsabili. Dunque per rispondere alla sua domanda occorrono delle riforme in profondità»

Le riforme proposte dal consigliere di Obama Paul Volcker la convincono?

«Sono un passo nella giusta direzione. Sbaglia chi critica le misure contro gli Hedge Funds e le altre misure, sostenendo che non hanno provocato la crisi. Basta anadare a vedere cos'è successo a Bear Sterns. Ma non bastano.

Che cosa suggerisce?

«Bisogna separare di nuovo le banche di investimento da commerciali. E' importante ricordare che negli anni del Glass Steagle Act molte banche sono fallite, ma nessuna di queste ha provocato rischi sistemici, mentre prima e dopo questa legge ci sono stati fallimenti distruttivi. Glass Steagle dà stabilità e riduce rischi. Inoltre: bisogna esaminare attentamente l'nterconnettività. Basta too big to fail. Va ristrutturato anche il sistema bancario ombra. Dunque: rafforzare la singola banca e chiarire chi ha diritto alla rete di supporto e chi no. Banche di deposito possono essere soccorse, le altre no. Le banche commerciali non devono usare le proprie risorse per finanziarie le "banche ombra". E' un processo che richiederà anni».

E nel frattempo che cosa sarebbe necessario per rilanciare l'economia?

«Si potrebbe uscire solo con nuova rivoluzione tecnologica, ecologica, bio tech, eccetera. Ma queste sono cose che un governo difficilmente può creare, lo Stato può agevolare certi sviluppi con legislazioni particolari e rendendo l'economia più dinamica e flessibile. Ma negli Usa e ancor di più in Europa si va nella direzione opposta: più protezione lavoratori, più stato sociale, più tasse, meno spese pubbliche eccetera. Dunque rendendo la rivoluzione tecnologica molto più difficile. L'unica buona notizia è che nel mondo ci sarà più stabilità, e una minor volatilità del Prodotto interno lordo».
 

Fonte - Il Giornale.it

 

 

 

  Il dilemma del prigioniero

01 Febbraio 2010 14:25 MESSINA – di Leon Zingales e Carmela Vitanza

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Leon Zingales e' collaboratore di WSI. PhD in Fisica, Dipartimento di Matematica, Università di Messina, gestisce anche il bel blog IlCignoNero e che ringraziamo. Carmela Vitanza e' Professore Ordinario di Analisi Matematica, Dipartimento di Matematica, Università di Messina.

Nella teoria dei giochi è di esemplare importanza il dilemma del prigioniero elaborato inizialmente da Albert Tucker negli anni 50. Tale problema evidenzia l’importanza del processo di cooperazione onde ottenere una utilità totale maggiore. In altre parole la collaborazione consente di sostituire una configurazione Pareto-efficiente (ove si considerano le utilità individuali che nessuno è disposto a sacrificare) con una forma di equilibrio cooperativo (ove un contendente sacrifica una parte della propria utilità potenziale allorché in corrispondenza si registri un incremento dell’utilità dell’altro contendente superiore in valore assoluto).

Una delle principali conseguenze della politica della FED è stata quella di accoppiare il sistema finanziario con quello valutario. La necessità di permettere (se non addirittura di favorire) il carry-trade sulla valuta regina, ossia il Dollaro, onde tenere artificiosamente in alto i mercati finanziari ha determinato la creazione di una evidente debolezza per gli USA: in sostanza essi devono tener conto delle istanze di chi è in possesso dei propri Titoli di Stato.

I grandi creditori degli USA, in base alle dichiarazioni ufficiali (fonte Visual Economics) sono nell’ordine Cina (800 Miliardi di Dollari), Giappone (750 Miliardi) ed UK (231 Miliardi). In particolare il Giappone ha un debito pubblico fuori controllo e non può permettersi di perdere doppiamente per la svalutazione del Dollaro USA: innanzitutto per la svalutazione dei Titoli di Stato in possesso e poi per il crollo di esportazioni amplificato dal rafforzamento dello Yen (che si era abituato ad essere la valuta favorita dal carry-trade nel decennio precedente).

In seguito alla crisi il sistema finanziario è giunto ad un equilibrio per reciproca convenienza resasi obbligatoria dal precipitare degli eventi.

La configurazione di equilibrio ottenuta è stata la seguente: i paesi creditori continuavano a tenersi i TBills (nel contempo la FED compra direttamente, o indirettamente tramite le banche, la gran parte dei Titoli di nuova emissione), mentre il Dollaro si svalutava rispetto all’Euro per poter pompare i mercati azionari. Ovviamente il trend delle monete (Yuan, Yen e Sterlina) dei grandi paesi creditori doveva seguire il cammino del Dollaro, onde annullare (o comunque ridurre al minimo) la svalutazione relativa.
E’ inutile dire che il contendente che in questa configurazione di equilibrio ha ceduto la maggiore utilità individuale è stato il sistema Euro. La zona Euro, sia per la incapacità di esprimere una unità di intenti che per evidenti errori dei vertici della BCE, ha dovuto passivamente accettare una sopravvalutazione della propria moneta.

L’aver scaricato le tensioni sulla zona Euro non è stato indolore: le sollecitazioni sul sistema hanno reso drammatiche le condizioni dei paesi più deboli. In particolare genera grande allarme la situazione della Grecia che evidenzia un deficit del 12.7% ed una situazione dei conti pubblici fuori controllo. Ed inoltre le prospettive di altri paesi quali Spagna, Irlanda e Portogallo non sono rosee.

I mercati obbligazionari, azionari e valutari stanno danzando con il ritmo della danza di Zorba. Si stanno diffondendo timori, segnali inquietanti sono giunti a tal proposito in occasione del recente incontro a Davos, che la tenuta del sistema Euro è a rischio. Una svalutazione repentina dell’Euro (in queste ultime settimane è evidente un trend di indebolimento) farebbe crollare, come conseguenza del frettoloso processo di ricopertura delle posizioni di carry-trade aperte, il castello di carte trasformando la recente debolezza dei mercati azionari in una valanga. Il governo greco è ben consapevole che un eventuale default avrebbe conseguenze catastrofiche e pertanto dispone di strumenti ricattatori nei confronti della BCE.

Il rischio è che, di fronte ai nuovi eventi, gli attori rompano il patto non scritto (fanno testo in questi ultimi giorni i contrasti tra Cina e Usa) e tornino alla sola ricerca dell’utilità individuale che il dilemma prigioniero insegna essere la soluzione peggiore. L’interesse globale impone che venga messa una pezza per tappare il grosso buco, ma sia comunque chiaro che la stoffa a disposizione sta per terminare.

 

Fonte - www.ilcignonero.it

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

 

 

 

GIAPPONE IN AFFANNO, CINA SEMPRE PIU' VICINA

01 Febbraio 2010 17:01 NEW YORK - di APCOM
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I samurai sentono sul collo il fiato del Dragone, la Cina si appresta a sorpassare l'Arcipelago quale seconda maggiore economia globale. Non solo Toyota, anche Honda, Japan Airlines e Sony in difficolta'.
Il gigantesco richiamo in officina di milioni di auto della Toyota segna un nuovo smacco tra i grandi gruppi industriali nipponici, mentre i samurai sentono sul collo il fiato del Dragone: la Cina che si appresta a sorpassare l'Arcipelago quale seconda maggiore economia globale. Il caso Toyota - salito alle cronache dopo un ampliamento dei richiami nei giorni scorsi, che ora oltre agli Usa toccano anche Europa e Cina - giunge proprio mentre il vettore di bandiera, la Japan Airlines ha fatto un 'atterraggio di emergenza' presso i tribunali fallimentari, da cui dovrà uscire dopo aver subito una drastica ristrutturazione.

Ma anche Honda, secondo produttore di auto del Sol Levante ha precedentemente richiamato 646.000 vetture per un difetto agli alzacristalli elettrici. E da tempo il gigante dell'elettronica Sony si è visto sopravanzare su diverse tipologie di prodotti di massa, come i lettori multimediali, dall'americana Apple, su alcuni segmenti, come le Tv a schermo piatto dai gruppi coreani.
In un contesto di agguerrita concorrenza, il Giappone vede offuscarsi la reputazione sull'elevata qualità dei suoi prodotti, un punto di forza su cui ha fatto leva negli scorsi decenni.

I problemi che hanno riguardato Toyota, Sony e Jal sono diversi tra loro, ma secondo alcuni analisti ci sono delle lezioni comuni da trarre: l'espansione a livello globale crea dei rischi di autoappagamento sulle posizioni conquistate, che si possono pagare a caro prezzo. Inoltre la mentalità di lavoro seguita in molti dei gruppi nipponici crea possibili problemi di comunicazioni interna alle stesse aziende.

"Alimentati dall'idea che la posizione di numero uno mondiale non era a rischio, sono entrati in gioco l'arroganza e un certo autocompiacimento", afferma Kirby Daley, trader di lungo corso della piazza di Tokyo ora capo della strategia per la Newedge Group, una finanziaria di Honk Kong. La crisi globale ha messo sotto pressione la coporate nippon nei suoi punti di debolezza, e "non c'è un posto in cui nascondersi". I problemi di Toyota e Sony si fanno sentire mentre in tutta l'Asia la concorrenza si fa più accesa. Altri paesi "possono offrire prodotti altrettanto buoni di quelli giapponesi a costi più bassi, e anche l'icona della qualità giapponese è in declino".

Ed è proprio dal Giappone che molti rivali asiatici hanno imparato le tecniche di espansione e di allestimento di nuove strutture produttive all'estero. Intanto nel Sol levante i duri programmi di taglio dei costi, per tenere il passo della concorrenza e restare agganciati alla domanda globale, hanno richiesto compromessi sui sistemi di controllo della qualità.

Toyota è riuscita a risparmiare utilizzando le stesse componenti su una vasta gamma di modelli, ma in questo modo ha aumentato i rischi legati a eventuali problemi su una di queste parti. Come è accaduto con gli acceleratori a rischio che dall'inizio della vicenda hanno implicato richiami di circa 7 milioni di veicoli nel mondo. "Uno smacco terribile", secondo Kenneth Grossberg, professore di marketing alla Waseda university. "Questo è un gruppo ritenuto a 'difetti zero'. Come è potuto accadere che un problema simile filtrasse i controlli? Va contro i loro principi operativi".

I primi problemi agli acceleratori e ad alcuni tappetini di Toyota sono iniziati ad evidenziarsi già nel 2007, su alcuni modelli. Casi risolti, ma solo per questi modelli, mentre la componente a rischio veniva utilizzata anche su altre vetture. Una questione che richiama l'attenzione sulle comunicazioni interne al gruppo, e questo non è un problema solo di Toyota.

Tra le grazi aziende giapponesi, rileva Grossberg, è che difficilmente un individuo si assume l'iniziativa di far presente un problema che potenzialmente potrebbe riguardare settori non di sua competenza e responsabilità. E questo può accadere anche sulle strategie di mercato: come le mancate comunicazioni che hanno contribuito a creare i problemi di Sony nell'individuare in anticipo il passaggio epocale tra le Tv a tubo catodico agli schermi piatti, partendo così in ritardo rispetto ai gruppi coreani.
 

Fonte - APCOM

 

 

USA: LA RIPRESA COME UN CAMPO MINATO

01 Febbraio 2010 23:00 NEW YORK - di WSI
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L'economista Nouriel Roubini fa le pulci al dato, apparentemente positivo, del Pil Usa nel quarto trimestre. Il consulente alla Casa Bianca Summers avverte: "recessione umana".
Gli Stati Uniti hanno davanti a se' un futuro ancora piuttosto incerto. A sostenerlo colui che nel 2007 aveva previsto la crisi: Nouriel Roubini.

In un intervista rilasciata a Bloomberg Television, il professore della New York University ha messo sotto la lente di ingrandimento l’ultimo dato sulla crescita del prodotto interno lordo a stelle e strisce(+5.7%), che nel quarto trimestre e’ stata la maggiore degli ultimi sei anni.
"Il risultato puo’ sembrare molto positivo, ma se lo si analizza nei dettagli appare debole", ha commentato. "Siamo nei guai". L’economista ha spiegato che gran parte dei consumi, per esempio sono stati trainati dagli stimoli di tipo monetario e fiscale adottati dall’amministrazione Obama. "Non appena questi fattori verranno meno", ha proseguito, "il dato scendera’ all’1.5% nella seconda parte dell’anno".

Pessimismo sul mercato occupazionale: Roubini e’ convinto che il tasso di disoccupazione superera’ l’attuale 10%. Insomma, "sembra di essere nel pieno della recessione anche se tecnicamente non lo saremo".

D’altra parte il consulente economico della Casa Bianca, da Davos, ha detto che la ripresa economica non nascondera’ una "recessione umana".
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

Nella forte crescita Usa sotto c’e’ il trucco

02/02/2010 - di Miaeconomia
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La crescita del Pil Usa del 5,7% nel quarto trimestre dello scorso anno, fa impressione. Non a caso una progressione simile non avveniva dal lontano 2004. Un balzo che ha permesso all’economia americana di chiudere il 2009 con un calo del prodotto interno lordo del 2,4%, la piu’ forte contrazione dell’economia dal 1946 ma inferiore alle previsioni che ad inizio 2009 stimavano un calo del Pil tra il 4% e il 5%.
Eppure non e’ tutto oro quello che luccica e la flessione di Wall Street di venerdi’ dopo l’iniziale rialzo ha una ragione precisa. Il pessimismo deriva da come nasce questa insperata crescita del Pil. Del 5,7% di incremento il 3,3% e’ dovuto alla crescita delle scorte di magazzino e solo il 2,4% e’ spiegato dall’incremento della domanda di consumo. Non a caso la spesa per consumi a dicembre e’ salita dello 0,2% su base mensile, contro un tasso stimato dello 0,1%.
In consumi sono un pilastro dell’economia americana rappresentando da soli i due terzi dell’intero prodotto interno lordo. Mentre la ricostituzione delle scorte di magazzino e’ un fatto occasionale, non porta effetti positivi sull’occupazione a meno che non vi sia una attesa di crescita delle vendite e successivamente dei consumi; ma questa visione non fa parte dello scenario attuale.
L’amministrazione Obama ha sparato oramai tutte le sue cartucce per favorire la crescita economica. Se il piano di sostegno all’economia non produce l’effetto di fare risalire l’occupazione e quindi i consumi privati delle famiglie americane, la ripresa attuale rischia di essere un semplice rimbalzo e a fine 2010 o al piu’ tardi ad inizio 2011 ci potrebbe essere il rischio del verificarsi dello scenario del double dip, ovvero di una nuova ricaduta dell’economia Usa in recessione.
 

 

 

La Cina alla guida del mondo

02/02/2010 - di Miaeconomia
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Lo scenario mondiale è cambiato a una velocità che ha dell'incredibile, ormai la Cina e' la seconda potenzia economica mondiale e entro 5-7 anni prendera' il primo posto davanti agli States. Nel frattempo Pechino sta gia' portando l'economia mondiale a uscire dalla recessione, anzi, rischia perfino di vedere la sua ricchezza crescere troppo in fretta tanto che il governo sta mettendo a punto una politica monetaria più rigida.
E' il quadro disegnato dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, che mette assieme le economie piu' avanzate del mondo.
Il punto e' pero' un altro, avverte l'Ocse, la Cina sta crescendo a ritmi folli ma allo stesso tempo non ha messo in campo nessuna seria strategia di riforme sociali, con una spesa pubblica piu' attenta alle esigenze della popolazione.
Per fare un esempio, il debito pubblico complessivo degli stati membri ormai e' al 100% del Prodotto interno lordo, la Cina e' impegnata sul fronte della spesa globale appena per il 21% del Pil e le recenti misure pubbliche di stimolo all'economia stanno pesando appena per un altro 3%.
Del resto l'Ocse suggerisce una strategia più attenta in termini sociali anche perche' potrebbe avere un importante riflesso in termini di mercato interno cinese. Da qui l'ipotesi di interventi per un welfare piu' esteso, sul fronte assistenziale e previdenziale, espandendo i piani in questo senso dalle grandi citta' al resto del paese.
 

Fonte - miaeconomia

 

 

 

 

 

 

  Naim: «Manca il pilota di bordo per risolvere i problemi del mondo»

03 Febbraio 2010 14:25 MILANO – di Il Sole 24 Ore

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«La ripresa dopo la crisi è andata meglio del previsto, ma non si vede ancora una nuova architettura finanziaria globale». Lo ha detto Moisés Naím, economista e politico venezuelano, direttore di «Foreign Policy» , durante un incontro-dibattito, organizzato dal «Sole 24 Ore» e coordinato dal direttore Gianni Riotta.

«Oggi c'è un deficit di governo mondiale o meglio una disparità tra la necessità di un'azione collettiva - ha proseguito - per affrontare i problemi globali e l'effettiva capacità di risposta. È un po' come se non ci fosse il pilota di bordo o se si sia addormentato o comunque non sia nelle condizioni di operare». Infatti «mentre i problemi aumentano e si moltiplicano, la capacità di affrontarli sembra diminuire. Sono pochi a credere che l'Onu o altri organismi multilaterali sappiano quello che stanno facendo o possiedano le risorse necessarie per agire con efficacia. Anche le grandi potenze sembrano paralizzate. La sconfitta di Copenhagen è un sintomo di un mondo che è costretto ad agire congiuntamente in molti ambiti, ma che non è in grado di farlo. La tragedia di Haiti è il simbolo di altre emergenze per cui, assente qualcuno che assuma le responsabilità, la solidarietà mondiale produce confusione a causa del mancato coordinamento, e genera morti che avrebbero potuto essere salvati». Piuttosto Naím cerca di scrutare quali sono "segnali deboli", cioè quali potranno essere i nuovi possibili attori dello scenario internazionale.

Il direttore di «Foreign Policy», nonché editorialista del «Sole 24 Ore» Moisés Naím ha osservato tuttavia come le potenzialità di cooperazione fra Paesi, di coinvolgimento diretto in realtà lontane, non sia mai stata tanto grande: «Tuttavia al momento rimane questa incapacità di offrire una risposta coerente e armonizzata a livello globale e temo che ancora una volta si perderà l'opportunità di riformare il mondo della finanza. Certo la legge Volcker porterà mutamenti, anche importanti, ma quanti operano nel sistema finanziario ombra continueranno a operare e prosperare. E voglio ricordare che prima della crisi questa finanza ombra era ben superiore a quella ufficiale. Ci sarà una corsa a sfruttare le asimmetrie nelle regole fra i vari paesi e in molti si arricchiranno grazie a questi meccanismi».

All'orizzonte Naím vede anche altri elementi di preoccupazione e due di questi riguardano la Cina che «da un lato sta diventando una superpotenza mondiale, ma se si esce un po' da Pechino e ci si avventura per due ore di treno nella campagna, allora ci si ritrova in pieno Medio Evo. È un gigante con larghe sacche di povertà - ha indicato - e quello che più preoccupa è la rivalità con un altro paese in condizioni simili, l'India. Credo che fra questi due Stati vi sia il rischio potenziale di un conflitto, che deve essere tenuto sotto stretta osservazione». La Cina preoccupa Naím anche per i rapporti con l'Occidente.
«Non vorrei che si stabilisse una regola costante del "rischio del doppio dieci": 10% di crescita in Cina e 10% di disoccupazione negli Stati Uniti - ha proseguito il direttore di «Foreign Policy» - perché se così fosse, e se si arrivasse a credere che un fattore é il risultato dell'altro, allora le conseguenze potrebbero essere molto gravi». Per contro, ha ricordato Naím avviandosi alla conclusione del dibattito, «proprio in Asia troviamo che i giovani, ma più ancora le giovani donne - che hanno un lavoro - hanno aspettative crescenti, cioè si aspettano di poter raggiungere un livello di vita più elevato rispetto alla generazione dei loro genitori», esattamente come capitò in Europa nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale».

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2010/02/Moises-Naim-riotta-diretta-video-3-feb.shtml?uuid=941685ae-1099-11df-a809-c23ba46922d2&DocRulesView=Libero

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Venerdì 05 Febbraio 2010   Venerdì 05 Febbraio 2010   Venerdì 05 Febbraio 2010  
       
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  Tragedia greca: meglio che Atene esca dall'€uro

08 Febbraio 2010 02:42 NEW YORK – di *Luca Ciarrocca

*Luca Ciarrocca e' il direttore e fondatore di Wall Street Italia.

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Sono ore critiche per la Grecia. I mercati si aspettano qualche scossone violento. Ma Jurgen Stark, uno dei tedeschi di punta della BCE, dice che i mercati "rimarranno delusi" se pensano che altri pagheranno per salvare Atene, sola responsabile del proprio disastro. E il capo della Bundesbank, Axel Weber, ha aggiunto che sarebbe "politicamente impossibile" chiedere ai contribuenti europei di andare al salvataggio di un paese con le mani bucate. Attenzione, se e' vero che i tedeschi tirano le fila dell'euro, bisogna anche sappiate che il settimanale Die Welt ha chiesto gia' il ritiro della Grecia dalla moneta unica.

Per la terza volta in 18 mesi, dunque, il sistema finanziario globale rischia di andare fuori controllo. Questa "tragedia greca" si sta consumando mentre cresce il volume di capitali in fuga dal paese nostro vicino di mediterraneo. Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph parla di "improvviso ritiro" di capitali tedeschi ed asiatici dalle nazioni del Club Med (quelle che gli americani chiamano con l'acronimo spregiativo P.I.I.G.S.).

Secondo Barclays Capital il debito estero netto della Grecia ammonta all'87% del Pil, o €208 miliardi. La Spagna e' messa perfino peggio, al 91% (€950 miliardi), il Portogallo batte tutti in negativo con il 108% (€177 miliardi). L'Irlanda e' al 68% (€123 miliardi), mentre l'Italia in percentuale sta meglio di quanto si pensasse (23%) ma in valore assoluto c'e' poco da stare allegri, con €347 miliardi. Aggiungendo le nazioni dell'Est Europa, la bolla del debito UE supera di gran lunga il tanto deprecato deficit degli Stati Uniti, visto che sorpassa in totale i 2 trilioni di euro.

Insomma mentre lo specchio della crisi e' l'euro che continua a perdere terreno nei confronti del dollaro, il rischio e' questo sia il primo test serio per la tenuta dell'Unione Europea. Finira' come il Messico o l'Asia nel 1998 o l'Argentina? Voci che rimbalzano dalle varie capitali europee parlano di un "eurobond" pronto a un'emissione di emergenza per consentire ad Atene di raccogliere denaro sufficiente a salvarsi, evitando allo stesso tempo l'effetto domino o il contagio agli altri paesi deboli della catena.

La facciata come al solito e' imbellettata di dichiarazioni evasive e ottimismo ostentato. "I membri europei del G7 hanno detto alle loro controparti che i problemi di bilancio della Grecia non sono di pertinenza del Fondo Monetario Internazionale", ha dichiarato nel weekend il ministro delle Finanze della Germania, Wolfgang Schaeuble. Il quale, alla fine del meeting del G7 a Iqaluit ha spiegato: "non ci sono dubbi" sul fatto che "i paesi membri dell'euro-zona si oppongono a qualsiasi coinvolgimento esterno per aiutare la Grecia a risolvere i propri problemi". "Noi abbiamo con forza, e all'unanimita' - ha aggiunto Schaeuble - rifiutato di discutere qualsivoglia problema interno". E per essere ancora piu' chiaro, il ministro ha buttato li' un paragone poco gradito dal mercato (anche perche' concettualmente sbagliato): "L'Europa non discute i problemi della Grecia cosi' come gli Stati Uniti non discutono i problemi della California".

Nel frattempo, ricordando che nel pieno della crisi finanziaria dell'ottobre 2008 in alcuni casi ci furono fughe degli investitori e depositanti da singoli istituti di credito in difficilta' (Northern Rock in Gran Bretagna e Indymac negli Stati Uniti) adesso si potrebbe verificare una situazione di "fuga dai paesi", visto che le turbolenze non riguardano tanto il sistema bancario/finanziario, ma coinvolgono in pieno il livello piu' alto di questo meccanismo degenerato, cioe' i debiti sovrani degli stati/nazione.

L'inglese The Guardian (ovviamente chi e' fuori dall'euro non puo' essere imparziale) conferma l'assunto riportando oggi che gli "investitori hanno fatto uscire dalla Grecia la stupefacente cifra di €8-10 miliardi di euro da quando la crisi ha cominciato a rivelarsi lo scorso novembre" (A staggering €8bn-€10bn (£7bn-£8.7bn) may have been taken out of Greece by private investors since it became engulfed by economic turmoil in November), fuga di capitali che si e' intensificata dal momento in cui il governo di Atene per evitare il default ha annunciato un aumento delle tasse sulle proprieta' immobiliari e una stretta nella lotta all'evasione fiscale.

La Grecia somiglia molto all'Italia, ahinoi, in cui troppa gente non paga le imposte che dovrebbe pagare, nonostante gli alti redditi guadagnati. "La Grecia ha molta gente ricca che non viene tassata in modo appropriato e questo per via della forte evasione fiscale", ha detto al quotidiano Observer il ministro delle Finanze greco Giorgos Papaconstantinou.

"Se si guarda ai numeri reali, si vede che il numero di persone che dichiarano sopra i €100,000 euro l'anno e' circa 15.000", ha aggiunto il ministro. "E io non penso che nessuno in questo paese possa credere che ci sono solo 15.000 greci che guadagnano €100,000 euro l'anno". In Italia, stando ai dati piu' recenti, con una popolazione che e' oltre 5 volte quella greca e un Pil 6 volte piu' alto (la Grecia ha il 2,5% del Pil UE, l'Italia il 13%) ci sono appena 17.000 italiani che dichiarano un reddito di €200,000 euro l'anno e oltre.

Fisco a parte, sara' meglio per tutti - a cominciare dal collega di Giorgos Papaconstantinou, Giulio Tremonti - seguire attentamente come si sviluppa nei prossimi giorni questa crisi finanziaria ellenica gia' soprannominata dell'ouzo. Cerchiamo di capire dove non andare a parare.
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

 

 

Mercati del credito 10 Febbraio 2010 – euforia da salvataggio

Wednesday, 10 February, 2010 at 8:29 - di John Christian Falkenberg
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Mercati del credito in forte rialzo dopo le voci di un piano tedesco per il salvataggio della Grecia.
A mercati quasi chiusi sono emerse voci di un piano per fornire una garanzia sul debito ellenico da parte della Repubblica Federale tedesca. Non vi sono ancora notizie ufficiali, mentre un portavoce del governo di Berlino ha smentito la presenza di un piano ufficiale, ma è ormai chiaro come la prospettiva di un salvataggio in grande stile sia ormai all’orizzonte. Oltre alla necessità di risparmiare all’area euro il test del fallimento di uno stato sovrano. A questo si aggiunge la preoccupazione per le possibili perdite per le banche tedesche in caso di un default: la sola esposizione per il finanziamento del commercio è di circa 33 miliardi di dollari, a cui si aggiungerebbe l’esposizione delle banche statali (Landesbanken). Le banche a partecipazione statale avrebbero acquistato ingenti quantitativi di titoli di Stato greci ed avrebbero venduto protezione sul CDS della Grecia per miliardi di euro, ribadendo la propria reputazione per pessimi investimenti ad alto rischio già emersa durante la crisi dei subprime. Ancora nessuna notizia dal governo francese: le banche transalpine sono ancora più esposte di quelle tedesche (si parla di 47 miliardi), ma Parigi sembra intenzionata per ora a fare come sempre: lasciar pagare il conto a Berlino, limitandosi alla retorica.
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

In America latina arriva il bel tempo

10-02-10 - di Marco Caprotti
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Le nubi sul cielo dell’America latina sono passeggere. A dirlo, sono gli analisti, secondo cui l’andamento dell’indice Msci della regione nell’ultimo mese (-9% fino all’8 febbraio e calcolato in euro) non è foriero di tempeste sull’area che, nel 2009, aveva guadagnato quasi il 92%.
A pesare sull’andamento del Sudamerica sono state (oltre alle perplessità sulla tenuta di una ripresa globale che ha fatto preoccupare gli investitori spingendoli verso asset più sicuri) le considerazioni di alcuni organismi internazionali. Su tutte, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e la Commissione economica Onu per l’America latina e i Caraibi, secondo cui l’area sarebbe andata incontro a un rallentamento della crescita del 2% l’anno scorso. Le stime per il 2010, parlano di una progressione del 4%, più forte di quella dei mercati sviluppati, ma più debole, ad esempio, di quella asiatica.

“Anche se non è paragonabile al +5% degli anni scorsi, ci sono un mucchio di ragioni per essere ottimisti”, spiega uno studio di Knowledge-Whorton, società di analisi che fa capo all’Università della Pennsylvania. La prima è la vitalità che stanno dimostrando i Paesi della zona. Il Brasile, ad esempio, ha intenzione di investire 20 miliardi di real (circa 8 miliardi di euro), per rilanciare la compagnia telefonica Telebra, di cui è azionista insieme agli spagnoli di Telefonica. L’obiettivo del governo guidato da Luiz Inacio Lula è quello di fare concorrenza nella banda larga agli operatori privati soprattutto sul fronte dei prezzi. Anche l’Ecuador vuole un maggiore controllo sui servizi essenziali. L’esecutivo guidato dal Presidente Rafael Correa, infatti, ha intenzione di acquistare un impianto di gas naturale da Noble Energy. “All’apparenza si tratta di manovre che si muovono in senso contrario al libero mercato”, continua lo studio. “In realtà, a differenza del passato, i Paesi sudamericani non hanno scelto la strada della nazionalizzazione, ma si propongono come normali attori di una compravendita”.

Novità sono attese anche dal Cile, dove si è appena insediato il governo guidato da Sebastian Pinera. Gli occhi della comunità internazionale sono puntati su Felipe Larrain, il ministro delle Finanze che entrerà in carica il mese prossimo, che ha promesso di dare una nuova spinta all’economia del Paese e di creare un milione di nuovi posti di lavoro. Secondo gli ultimi dati, il Pil cileno a dicembre è cresciuto del 3,9% rispetto a novembre. Si tratta del secondo mese al rialzo dall’ottobre del 2008. Il Paese, intanto, un obiettivo l’ha già raggiunto: a gennaio è diventato il primo stato sudamericano ad entrare nell’Ocse.
Un comparto da tenere d’occhio in America latina, secondo gli analisti, è quello bancario. “Gli istituti della regione hanno resistito alla crisi mondiale come pochi altri”, spiega uno studio della società di consulenza Oxford Analytica. “Hanno continuato a fornire prestiti alle aziende grazie ai depositi e sono riusciti ad evitare il contagio degli strumenti tossici che hanno avvelenato i Paesi più sviluppati. Per questo, anche alla luce di una crescita – che seppur rallentata ci sarà – ci aspettiamo un miglioramento dei conti di almeno il 10% per molte banche dell’area”.
 

Fonte - www.morningstar.it

 

 

 

GRECIA & EUROPA: LE DURE REPLICHE DELLA STORIA

11 Febbraio 2010 17:24 NEW YORK - di Luca Ciarrocca

Luca Ciarrocca e' il direttore e fondatore di Wall Street Italia.
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Che ci fosse la necessita' di un "annuncio" per non far saltare Grecia ed euro era evidente da vari giorni - nonostante le smentite ufficiali - ma il mercato certamente si aspetta al piu' presto tutti i dettagli sulle modalita' del salvataggio: garanzie, prestiti, utilizzo o meno del Fmi, cifre sul tavolo. I dettagli saranno rivelati all'Econfin di lunedi', dicono a Bruxelles. Siamo scettici ma vedremo. Per adesso possiamo affermare che il piano di intervento per salvare la Grecia e' fiacco, debole, confuso, generico. Mentre la speculazione rimane all'attacco con potenti armi a disposizione.

Germania e Francia, maggiormente coinvolte per l'esposizione delle proprie banche ad Atene, hanno mantenuto la leadership assoluta durante i frenetici negoziati. E' evidente l'intento di Merkel e Sarkozy di voler dare l'impressione ai propri cittadini che non sara' utilizzato denaro dei contribuenti per risolvere questa "tragedia greca". La piazza - il pubblico - sono caldi ovunque non per irrazionalita' o anarchismo ma per i morsi della crisi economica. I cittadini sono assolutamente insofferenti ormai per le tattiche globali di banche e banchieri, supportate da salvataggi strumentali al mantenimento del potere (lo status quo e' messo a repentaglio da nuovi equilibri) grazie a enormi quantita' di denaro pubblico sperperate ad uso e consumo di elite politiche, mentre l'economia personale di ciascuno, di ogni famiglia europea, soffre ancora in modo vistoso per crisi e recessione.

Ecco perche' i dettagli monetari/tecnici sul piano di salvataggio di Atene non sono ancora noti. La verita' e' che Bce e Unione Europea non sanno come affrontare e risolvere una situazione da "economia di guerra" molto simile, se non piu' pericolosa, a quella che l'America affronto' e risolse nelle drammatiche giornate dell'ottobre 2008, con il varo del piu' poderoso salvataggio finanziario della storia (altro che "Piano Marshall" nel 1948...) per evitare un collasso epocale.

Eppure e' francamente inaccettabile che non si sappia nulla. Anche se si capisce il perche': l'Europa non sara' mai un'entita' politica ne' militare al pari di Stati Uniti e Cina e stando cosi' le cose e' destinata a rimanere soltanto un ambizioso palcoscenico di facciata. Sembra che i ministri delle Finanze UE si siano accordati (unanimita' a 27, ne siamo proprio sicuri?) per non chiedere aiuti al Fondo Monetario Internazionale (protesterebbero i cittadini americani che ne sono i maggiori contribuenti). Ma allora, chi mettera' i soldi per risolvere la crisi dell'ouzo?

La Grecia e' sotto attacco perche' ha un deficit al 13% del Pil; bene, ma che senso ha, a questo punto, quel parametro del 3% fissato dal Trattato di Maastricht? Il debito pubblico greco e' al 125% del Pil (quello dell'Italia al 118%) mentre le griglie europee parlano di un limite massimo del 60%. Allora: rivediamo tutti gli schemi e regole UE, oppure preferiamo salvare quei paesi "deboli" del Club Med oggi viziati e "drogati" dal loro finto benessere? Diciamo l'ovvio: sara' impossibile ottenere dalla Grecia e dagli altri stati P.I.I.G.S. il rientro nei parametri entro tempi rispettabili. Per questo l'euro vale oggi tanto quanto valgono i fondamentali del piu' tenue anello della catena, in questo momento la Grecia. Ogni catena si spezza sul suo link debole anche se gli altri anelli sono fatti di titanio indistruttibile. Quindi con l'annuncio odierno dalla UE il problema greco e' risolto? No. Crediamo quindi ci pensera' il mercato finanziario a smascherare l'ipocrisia dei nostri burocrati europei, nelle settimane che verranno.

 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

 

 

  Venerdì 05 Febbraio 2010   Mercole 10 Febbraio 2010   Sabato 13 Febbraio 2010  
       
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  Nel 2040 la Cina sarà un paese di super ricchi

15 Febbraio 2010 11:29 MILANO – di Robert Fogel

Robert Fogel è direttore del Center for Population Economics alla University of Chicago Booth School of Business, e ha ricevuto nel 1993 il Nobel Memorial Prize in Economia.

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Nel 2040 l'economia cinese raggiungerà un giro d'affari di 123.000 miliardi di dollari, più o meno il triplo della produttività economica complessiva dell'intero pianeta nel 2000. Il reddito procapite in Cina toccherà gli 85.000 dollari, più del doppio di quanto si prevede per l'Unione Europea, e una cifra di gran lunga superiore a quella di India e Giappone. In altre parole, l'abitante medio di una metropoli cinese vivrà due volte meglio del francese medio quando la Cina passerà dall'essere stata un Paese povero ancora nel 2000 a un paese super-ricco nel 2040. Anche se non sorpasserà secondo le mie previsioni la ricchezza procapite degli Stati Uniti, tra trent'anni la quota di Prodotto Interno Lordo globale della Cina – 40 per cento – renderà al confronto minuscola quella degli Stati Uniti (14 per cento) e dell'Unione Europea (5 per cento). La Cina, insomma, apparirà l'egemonia economica dominante.

La maggior parte di ciò che si dice in merito all'ascesa economica della Cina prospetta informazioni generali, vaghe o anche soltanto minacciose, ma di solito sottovaluta fortemente la portata di tale ascesa, ciò che essa implica e la velocità con la quale essa si avvicina. (Per esempio, uno studio recente del Carnegie Endowment for International Peace prevede che entro il 2050 l'economia cinese sarà superiore a quella degli Stati Uniti appena del 20 per cento). Simili previsioni mancano di tenere in giusto conto le forze che sono al lavoro dietro al recente successo della Cina o di comprendere fino in fondo in che modo questi trend plasmeranno il futuro. Gli stessi dati economici cinesi per taluni aspetti di fatto sottostimano la produttività economica.
La stessa cosa accade con il declino relativo di un'Europa afflitta da una fertilità in calo nel momento stesso in cui la sua epoca di influenza economica globale si avvicina alla propria fine. Anche qui, la traiettoria sarà più repentina e brusca di quanto emerge da molti rapporti. Il basso tasso di natalità in Europa e il suo consumismo così particolare implicano che il suo contributo al Pil globale crollerà a un quarto del suo share attuale entro i prossimi 30 anni. A quel punto l'insieme delle economie dei primi 15 Paesi dell'Unione Europea arriverà a essere un ottavo di quella cinese.

Questo è il futuro che si prospetta tra una generazione, ed è molto vicino, più di quello che si possa pensare. Di preciso che cosa fa sì che la Cina abbia imboccato una strada così proficua?
Il primo fattore cruciale è quello meno spesso preso in considerazione: l' enorme investimento che la Cina sta facendo nel settore dell'istruzione. Lavoratori più istruiti equivalgono a lavoratori più produttivi. (Come ho riferito già altrove, dai dati relativi agli Stati Uniti emerge che i lavoratori con un diploma universitario sono tre volti più produttivi e un lavoratore con diploma di scuola superiore è più produttivo di 1,8 volte rispetto a chi ha soltanto un diploma di scuola media inferiore). In Cina le iscrizioni alle scuole superiori e all'università stanno aumentando enormemente grazie soprattutto a un significativo investimento statale.
Nel 1998, l'allora presidente Jian Zemin incoraggiò un aumento di massa della frequenza delle scuole superiori. All'epoca soltanto 3,4 milioni di studenti frequentavano i college e le università cinesi. La risposta alla sua esortazione fu immediata: nell'arco di soli quattro anni le iscrizioni alle scuole di secondo grado aumentarono del 165 per cento e il numero dei cinesi che studiavano all'estero balzò al 152 per cento. Tra il 2000 e il 2004, le iscrizioni alle università continuarono ad aumentare costantemente, di circa il 50 per cento. Secondo i miei calcoli la Cina sarà in grado di aumentare il suo tasso di iscrizione nelle scuole di secondo grado portandolo più o meno al 100 per cento e nel corso della prossima generazione le iscrizioni all'università arriveranno a interessare il 50 per cento dei giovani, il che basterebbe di per sé ad aumentare di oltre 6 punti percentuali il tasso di crescita economico annuale del Paese. Questi obiettivi di un'educazione di più alto livello non sono fuori dalla nostra portata: dovremmo ricordare che soltanto negli ultimi venti anni del XX secolo parecchi Paesi dell'Europa Occidentale videro balzare il tasso delle iscrizioni nelle università dal 25 al 50 per cento.
Con un'istruzione superiore, non sono soltanto i singoli lavoratori a far registrare un vero e proprio salto di qualità della loro produttività: la stessa cosa vale per le aziende, secondo una ricerca dell'economista Edwin Mansfield. In uno studio risalente al 1971, Mansfield aveva appurato che i presidenti delle aziende che avevano precocemente adottato le nuove tecnologie più complesse erano mediamente più giovani e meglio istruiti dei capi di aziende più lente ad adeguarsi ai processi di innovazione.

Il secondo elemento che molti non tengono nella debita considerazione allorché cercano di eseguire proiezioni per l'economia cinese è l'inarrestabile ruolo del settore agricolo. Quando ragioniamo sul futuro, infatti, tendiamo a immaginare i grattacieli di Shanghai e le fabbriche del Guangdong, mentre trascuriamo e non teniamo granché in considerazione i cambiamenti in atto nelle campagne della Cina che le hanno trasformate in un vero e proprio motore economico inarrestabile. Analizzando la crescita economica, quindi, è opportuno distinguere l'economia in tre settori: agricoltura, servizi e industria. Nel quarto di secolo trascorso dal 1978 al 2003, la crescita della produttività della manodopera in Cina è stata alta in tutti e tre questi settori, sfiorando la media del 6 per cento circa su base annua. Il livello di produttività per lavoratore è stato più alto nel settore industriale e dei servizi e questi sono anche i settori ai quali si sono prestate maggiore attenzione e analisi. (Io calcolo che il rapido processo di urbanizzazione in Cina, che sposta i lavoratori verso le industrie e nei servizi, abbia contribuito per circa 3 punti percentuali al tasso di crescita nazionale annuale). In ogni caso, la produttività è in aumento anche per coloro che sono rimasti nelle aree rurali: nel 2009 circa il 55 per cento della popolazione cinese - pari a ben 700 milioni di persone - viveva ancora nelle campagne. A questo mastodontico settore rurale, che perdurerà quanto meno per altri trenta anni, è riconducibile circa un terzo dell'odierna crescita economica cinese.

Terzo elemento: benché sia un ritornello più volte ripetuto che i dati cinesi sono inesatti o gonfiati di proposito in modo cruciale, gli esperti cinesi di statistica potrebbero benissimo sottostimare il progresso economico. Ciò è tanto più vero per il settore dei servizi, perché le piccole aziende spesso non riportano al governo le cifre reali e i funzionari cinesi spesso non calcolano adeguatamente le migliorie nella qualità dei prodotti. Negli Stati Uniti come in Cina, le stime ufficiali del Pil sottovalutano notevolmente la crescita nazionale se non tengono conto dei miglioramenti in servizi di importanza fondamentale come l'istruzione e l'assistenza sanitaria. (La maggior parte dei grandi progressi in questi ambiti non è conteggiata in pieno nel Pil, perché i valori di questi settori si misurano in input più che in output. Un'ora di lavoro di un medico, per esempio, non è considerata di maggior qualità rispetto all'ora di lavoro di un medico prima dell'avvento degli antibiotici o della chirurgia moderna). Altri Paesi hanno problemi di contabilità nazionale simili, ma la rapida crescita del settore dei servizi cinesi rende la sottovalutazione ancora più ragguardevole.

Quarto punto, per alcuni molto sorprendente: il sistema politico cinese non è come si pensa che sia. Benché osservatori esterni spesso deducano che sia Pechino al timone del Paese, la maggior parte delle riforme economiche, incluse quelle di maggior successo, nascono dal basso, altrove, e sono di norma sorvegliate a livello locale. Benché di sicuro la Cina non possa dirsi una democrazia aperta, negli stadi più alti della politica ci sono critiche e c'è dialogo, più di quanto molti possano presumere. Ordini incontrollati possono ovviamente condurre al disastro, ma c'è una ragione precisa per la quale Pechino ha evitato di ripetere negli ultimi anni il Grande Balzo in Avanti.
Per esempio, c'è un convegno annuale di economisti cinesi, denominato Associazione degli economisti cinesi, al quale ho preso spesso parte io stesso. Vi partecipano persone che sono molto critiche nei confronti del governo cinese, e lo fanno apertamente. Naturalmente, questi individui non grideranno mai "Abbasso Hu Jintao", ma nondimeno faranno presente che le ultime decisioni prese dal ministero delle Finanze, per esempio, sono sbagliate o destano preoccupazione in relazione alla proposta di ritocco dei prezzi dell'energia e del carbone, oppure richiamano l'attenzione generale su temi pertinenti all'onestà. Alcuni arrivano perfino a pubblicare lettere critiche su un quotidiano di Pechino. A quel punto capita anche che il ministro delle Finanze cinese li chiami e comunichi loro che vorrebbe organizzare un vertice per approfondire il loro punto di vista. Sono in molti a non essere consapevoli di questo andirivieni a Pechino. Da questo punto di vista, la pianificazione dell'economia cinese è diventata molto più reattiva e aperta alle nuove idee di quanto non fosse in passato.
Infine, la gente non dà sufficiente credito alle tendenze consumistiche a lungo represse della Cina. Per molti aspetti, la Cina è il Paese più capitalista al mondo, in questo periodo. Nelle grandi città cinesi, gli standard di vita e il reddito pro-capite sono al livello dei Paesi che la Banca Mondiale reputa di "reddito medio-alto", in ogni caso più alto – per fare un esempio – di quelli della Repubblica Ceca. In queste città vi è già un alto standard di vita e anche accanto alla decantata propensione dei cinesi a risparmiare, vi è una chiara ed evidente propensione a comperare abbigliamento, articoli elettronici, fast food, automobili, tutti articoli che offrono una visione fugace del futuro della Cina. In effetti, il governo è giunto alla conclusione che aumentare i consumi domestici è di vitale importanza per l'economia cinese, e molteplici politiche di incentivi mirano ad aumentare il desiderio consumistico dei cinesi per indurli a fare acquisti.

E l'Europa? L'Europa – e mi riferisco ai 15 primi Paesi dell'Ue – deve far fronte alla duplice sfida della cultura e della demografia, e il suo futuro economico pare gravato da un mix di abitudini riproduttive e di moderazione dai consumi.
Gli europei, naturalmente, non mangeranno erba nel 2040. Il loro declino economico nei prossimi trenta anni sarà relativo, non assoluto, in quanto i progressi tecnologici e altri fattori dovrebbero consentire alla produttività della manodopera europea nel suo complesso di continuare a migliorare al ritmo dell'1,8 per cento annuo. Eppure, il loro contributo in percentuale al Pil globale precipiterà, restringendosi nell'arco di una sola generazione di ben 4 volte, e passando dal 21 al 5 per cento.
La demografia è il primo fattore chiave: la popolazione dei Paesi europei occidentali sta invecchiando rapidamente e verosimilmente continuerà a farlo per svariati decenni. La ragione principale è da ricercare nel fatto che le coppie europee non mettono più al mondo un numero di figli adeguato. Il tasso di fertilità complessivo in Europa per oltre 34 anni è rimasto inferiore al livello necessario a garantire il ricambio generazionale, secondo uno studio risalente al 2005 di Rand Corp. Di conseguenza, la percentuale di donne in età tale da avere figli calerà, nei primi 15 Paesi dell'Unione, passando da circa il 50 per cento nel 2000 (anche nel 1950 era del 50 per cento circa) al 35 per cento nel 2040 secondo le proiezioni delle Nazioni Unite. Ci troviamo pertanto di fronte a una duplice iattura: non soltanto le donne in età riproduttiva hanno tassi di fertilità fortemente ridotti, ma oltretutto la percentuale di donne in età tale da poter avere figli scenderà drasticamente. Entro il 2040, circa un terzo della popolazione dell'Europa Occidentale potrebbe essere ultrasessantacinquenne.

Perché si fanno meno bambini? Una delle ragioni principali è che l'atteggiamento degli europei nei confronti del sesso è cambiato drasticamente. Centocinquanta anni fa era considerato peccato trovare il sesso qualcosa di piacevole e l'unico scopo legittimo per farlo era a fini procreativi. Oggi, invece, le giovani donne considerano il sesso alla stregua di una qualsiasi altra attività ricreativa. Dietro il trend della fertilità c'è dunque un enorme spostamento culturale rispetto alla generazione che combatté nella Seconda guerra mondiale, che si sposò giovane e diede vita al grande baby boom degli anni 1945-1965. Il facile accesso a mezzi contraccettivi, il diffondersi di pratiche sessuali intese come "svago" ha implicato una forte riduzione della popolazione in molti Paesi europei. Già nel 2000 il tasso naturale di aumento della popolazione (il numero delle nascite meno il numero delle morti) era già negativo in Germania e in Italia. Nel 2040 è verosimile che l'aumento naturale sarà negativo nei cinque Paesi europei più grandi, a eccezione della Gran Bretagna.
Ma che c'è di male se ogni tanto gli europei si sollazzano un po'? Beh, il divertimento ha le sue conseguenze. La fertilità in calo spinge verso l'alto l'età della piena cittadinanza, riducendo al contempo la percentuale della popolazione facente parte della forza lavoro, e frenando così la crescita. I cambiamenti demografici, oltretutto, incidono e hanno un impatto sulle assunzioni e le promozioni delle singole aziende, e non necessariamente per il meglio. Se i più anziani restano aggrappati ai posti di lavoro migliori ben oltre la soglia del pensionamento, i lavoratori più giovani possono dover aspettare altri dieci anni, forse anche di più, prima che venga il loro turno. E poiché i lavoratori più giovani sono una risorsa preziosa di nuove idee, rallentare l'ascesa ai vertici delle aziende della nuova generazione può rallentare il passo delle trasformazioni tecnologiche. (Se i tassi di fertilità rimarranno bassi come sono stati, entro 50 anni la popolazione italiana sarà dimezzata. Naturalmente i politici fanno tutto ciò che è loro possibile fare e insieme alla Santa Sede esortano le donne a procreare).

Su un altro versante, la cultura europea sconcerta gli economisti. Gli abitanti dei Paesi europei ricchi non lavorano di più per guadagnare di più e accumulare più beni. La cultura europea, invece, continua a dare grande valore alle lunghe vacanze, al pensionamento anticipato, a settimane lavorative più brevi, invece di darlo al possesso di maggiori beni materiali, quanto meno rispetto ad altri Paesi del mondo sviluppato quali gli Stati Uniti. Da quanto ho avuto modo di osservare io stesso, la maggior parte di coloro che vivono nei Paesi dell'Europa occidentale pare molto più soddisfatta di quello che già possiede, rispetto agli americani, per esempio, e non aspira a possedere un numero maggiore di televisori per nucleo famigliare. Lasciamo perdere se ciò sia virtuoso o meno: passeggiare nei Giardini del Lussemburgo a Parigi invece di andare da Walmart a comperare un nuovo televisore a schermo piatto non migliorerà la crescita del Pil dell'Unione Europea.
Naturalmente, anche la Cina deve affrontare i propri incubi demografici, e gli scettici in effetti non mancano di indicare i molti ostacoli che potrebbero deragliare il treno cinese ad altissima velocità nei prossimi trenta anni: un aumento delle ineguaglianze di reddito, possibili insurrezioni e disordini sociali, dispute territoriali, penuria di combustibile e di acqua, inquinamento ambientale e un sistema bancario tuttora malsicuro. Benché ai critici vada assegnato per lo meno un punto, queste preoccupazioni non sono un segreto per i leader cinesi: negli ultimi anni Pechino si è dimostrata alquanto esperta nell'affrontare i problemi che ha deciso di affrontare. Inoltre, la Storia pare muoversi nella direzione giusta per la Cina. La controversia locale più turbolenta, quella riguardante la sovranità di Taiwan, pare avviarsi ormai a una soluzione. E in patria l'aumentata sensibilità da parte del governo per l'opinione pubblica, unitamente a migliori standard di vita, ha alimentato nella popolazione un livello di fiducia verso il governo che, da quel che mi risulta, rende quanto mai inverosimile l'eventualità di grossi tumulti politici.

L'Europa potrebbe ancora stupirci crescendo considerevolmente più di quanto io abbia previsto? Pare inverosimile, ma potrebbe anche capitare che gli europei riducano le loro vacanze o sopprimano l'ora della siesta per adottare un'etica più attaccata al lavoro, oppure che le giovani donne e i loro partner si mettano maggiormente in sintonia in relazione al sesso con le indicazioni del Papa e non con quelle delle stelle del cinema. Tutto è possibile. Ma non scommettiamoci. Gli europei paiono proprio ritenere che il loro stile di vita sia assolutamente buono e da tempo hanno rinunciato ai loro sogni di predominio sul mondo. Certo, un'inaspettata invenzione tecnologica potrebbe sempre cambiare radicalmente la situazione, anche se questo non è quel genere di cose sul quale gli economisti possono basare le loro previsioni.

Per l'Occidente, un concetto di mondo nel quale il centro di gravità dell'economia mondiale è in Asia potrebbe essere impensabile. Ma non sarebbe la prima volta. Come sottolineano gli esperti sinologi, che godono di un'ottica storica molto lunga, la Cina è stata la più grande potenza economica al mondo per buona parte degli ultimi due millenni. (Chris Patten, ultimo governatore britannico di Hong Kong, ritiene che la Cina sia stata l'economia più potente al mondo per 18 dei passati 20 secoli). Mentre l'Europa procedeva a tentoni negli evi oscuri, combattendo disastrose guerre di religione, la Cina godeva dei più alti standard di vita al mondo. Oggi il concetto di una Cina in ascesa – quanto meno agli occhi dei cinesi – è semplicemente un ritorno allo status quo.

 

Traduzione - Anna Bissanti

Fonte italiana - Il Sole 24 Ore

 

 

 

  Martedì 16 Febbraio 2010   Sabato 20 Febbraio 2010   Martedì 23 Febbraio 2010  
       
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  La Cina punta all'egemonia totale

18 Febbraio 2010 13:42 WASHINGTON – di Federico Rampini

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Quando oggi Barack Obama riceverà qui il Dalai Lama, nella Map Room della Casa Bianca, Washington aspetterà col fiato sospeso la nuova bordata di proteste da Pechino. Gli Stati Uniti si chiederanno quale prezzo la Repubblica Popolare potrebbe far pagare, per punire quell'omaggio al Tibet che considera un'interferenza nella propria sovranità nazionale.

È un America nervosa perché si scopre vulnerabile, assediata dalla grande rivale asiatica, su fronti nuovi e insospettati: l'industria e la finanza, certo, ma ora anche la ricerca scientifica, la cultura, il "soft power" su cui si costruisce un'egemonia globale. Lo sconvolgimento dei rapporti di forze parte naturalmente dall'economia. Proprio alla vigilia dell'arrivo del Dalai Lama si è appreso che Pechino ha "liquidato" una parte dei suoi giganteschi investimenti in Buoni del Tesoro degli Stati Uniti.

Commentando la vendita record dei Treasury Bond, per 34 miliardi di dollari (ne restano comunque 755 miliardi nelle casse della banca centrale cinese) il Wall Street Journal si chiede con ansia se sia "un segnale di sfiducia verso l'America". Che umiliazione: il Tesoro degli Stati Uniti trattato come fosse la Grecia, in balìa del giudizio dei cinesi. Più probabilmente il disinvestimento di Pechino è una mossa cautelativa. Il premier cinese Wen Jiabao da mesi denuncia il rischio che l'alto debito americano rilanci l'inflazione, e che Washington rimborsi i cinesi con carta straccia.

Perciò Pechino diversifica i suoi investimenti. Anziché Bot, compra direttamente aziende americane. Il fondo sovrano del governo di Pechino (China Investment Corporation) ha divulgato la lista delle grandi imprese di cui è diventato azionista, per ora di minoranza. C'è il meglio del capitalismo americano: Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson & Johnson.

Un altro segnale enigmatico, alla vigilia dell'incontro tra Obama e il Dalai Lama, è il nulla osta del governo cinese per l'attracco a Hong Kong di una flotta di cinque navi militari americane, guidate dalla portaerei ammiraglia Uss Nimitz. Orville Schell, il direttore dell'Asia Society e l'esperto di Cina più ascoltato da Hillary Clinton, commenta così: "Pechino sta imparando a usare con l'America il bastone e la carota, tiene Washington sulla corda, alterna minacce e blandizie".

Per una singolare coincidenza, proprio in questi giorni di alta tensione s'inaugura al China Institute di New York una grande mostra su Confucio. È il filosofo dell'ottavo secolo avanti Cristo di cui il regime cinese si "appropria" il pensiero rivisitandolo, per farne il teorico di un moderno paternalismo autoritario. La mostra su Confucio, così come tutto il China Institute, è un'iniziativa di Stato finanziata dalla Repubblica Popolare. "Confucius: his Life and Legacy" costa meno di una partecipazione azionaria in Apple, ma segnala il nuovo fronte della penetrazione cinese che si è aperto.

L'offensiva culturale, sostenuta dalla potenza economica, sfida l'Occidente anche sul terreno delle idee. Il mandarino ha soppiantato lo spagnolo per la rapidità di diffusione come prima lingua straniera nelle scuole americane. Quando è uscita la notizia che il boom delle iscrizioni ai corsi di cinese alle elementari è sussidiato generosamente da Pechino (con borse di studio, formazione degli insegnanti, regali di materiale didattico e audiovisivo) sul New York Times sono apparse lettere di protesta dei genitori.

"È inaccettabile - ha scritto un padre allarmato - che la politica scolastica degli Stati Uniti venga decisa da un governo straniero". E quale governo. Certo non suscitano lo stesso allarme i sussidi di Nicolas Sarkozy per lo studio del francese all'estero. La promozione della civiltà cinese non viene percepita dall'Occidente come un fenomeno puramente culturale. Minxin Pei, ricercatore della Fondazione Carnegie, ricorda che America e Cina sono divise da "insormontabili differenze in termini di valori, sistemi politici, visione dell'ordine internazionale, e interessi geopolitici".

Quasi per un crudele scherzo del destino, i finanziamenti della Repubblica Popolare per lo studio del mandarino dilagano nelle scuole americane proprio quando gli Stati Usa sull'orlo della bancarotta (dalla California alla Florida) devono tagliare gli stipendi agli insegnanti e ridurre gli orari delle lezioni. Martin Jacques, lo studioso britannico autore di un libro-shock che vuole aprire gli occhi all'America ("When China Rules the World": quando la Cina dominerà il mondo) sostiene che questo è proprio uno degli effetti più dirompenti della crisi economica dell'Occidente: "La Cina è un modello di Stato che funziona.

D'ora in avanti il dibattito sul ruolo dello Stato nelle società moderne non potrà più prescindere dall'esempio cinese". Ian Buruma, un altro esperto di Estremo Oriente che abbiamo intervistato per questa inchiesta, sottolinea che "di fronte alla crisi delle liberaldemocrazie occidentali, il fascino della Cina avanza anche in aree del mondo vicine a noi".

Non passa giorno senza che il raffronto con la Cina sia motivo di ansia e frustrazione per la superpotenza leader. La settimana scorsa Barack Obama ha finalmente firmato il via libera ai fondi federali per avviare il progetto dell'alta velocità in California e in Florida. Per il presidente doveva essere un fiore all'occhiello, una di quelle grandi opere infrastrutturali che aveva annunciato fin dal suo insediamento.

Ma la Tav di Obama è stata così liquidata l'indomani da un giornale "amico", il New York Times: "Se tutto va bene, il primo treno ad alta velocità comincerà il servizio nel 2014 fra Tampa e Orlando, una tratta di sole 84 miglia. Ma a Capodanno i viaggiatori cinesi hanno inaugurato il nuovo treno ad alta velocità, 664 miglia in tre ore, da Guangzhou a Wuhan. Entro il 2012 le linee ad alta velocità in funzione saranno 42, tutta la Cina sarà collegata". Un raffronto amaro. Tanto più se viene fatto quando Washington è reduce da una "chiusura per neve" di una settimana. La capitale federale della nazione più ricca del pianeta, per penuria di spazzaneve, si è arresa alle intemperie e ha smesso di funzionare per sette giorni consecutivi. Nella gara tra due modelli di Stato, è l'America che si ritrova in serie B.

Forse nessuno più di Obama ne è consapevole. Per questo presidente il confronto con la Cina è diventato una costante, il tema che ricorre più spesso nei suoi discorsi. Obama cerca di spronare il suo paese, come John Kennedy fece per la gara con l'Unione sovietica nella conquista dello spazio dopo il sorpasso dello Sputnik.

Usando la Cina come "benchmark", come punto di riferimento, Obama spera di rovesciare le umiliazioni in positivo, di trasformarle in adrenalina, in altrettanti stimoli a riconquistare la leadership. Avverte che "la Cina ci sta dando dei punti anche sul terreno della Green Economy, produce più pannelli solari e pale eoliche di noi". Gli esperti energetici disegnano un quadro inquietante. In un futuro non troppo lontano, l'America potrebbe scoprirsi due volte dipendente: dal petrolio arabo e dalle tecnologie verdi (pannelli fotovoltaici, batterie per auto elettriche) sempre più made in China.

Ma l'establishment e il sistema istituzionale americano sembrano intorpiditi, incapaci di reagire alle frustate del presidente. Dall'energia all'ambiente le riforme languono, bloccate da veti politici e resistenze lobbistiche. Di fronte all'autoritarismo cinese la democrazia americana arranca. Gli Stati Uniti perdono colpi nella ricerca scientifica, penalizzata dai tagli di bilancio, mentre gli investimenti cinesi in questo campo aumentano ogni anno a ritmi vertiginosi, di due cifre percentuali. Dalle università americane comincia un riflusso di talenti, numerosi cervelli asiatici - cinesi e anche indiani - tornano in patria attirati da nuove opportunità.

La gara tra America e Cina non lascia indifferenti gli europei. Non è un caso se l'avvertimento più severo agli americani oggi viene da Martin Jacques, un intellettuale inglese, cittadino di un altro impero decaduto che dovette cedere il suo primato. Noi occidentali, sostiene Jacques, ci siamo illusi che la Cina a furia di modernizzarsi sarebbe diventata sempre più simile a noi. La storia dimostra al contrario che la diversità cinese è profonda, radicata, irriducibile.

La mancanza di democrazia non è un handicap nel breve termine: anche la maggior parte delle nazioni europee (e il Giappone) governarono la modernizzazione e lo sviluppo attraverso regimi autoritari. E l'egemonia cinese - espandendosi dal denaro alla politica, dalla tecnica alla cultura - può riproporre in forma moderna quella che fu l'antica relazione tra l'Impero Celeste e i suoi vicini: un "sistema tributario" di Stati vassalli, satelliti ossequiosi.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

La Fed alza i tassi, al via la exit strategy

19/02/2010 - di Miaeconomia
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La paura dei mercati azionari ha del paradossale: se l'economia riparte allora la banca centrale Usa - la Fed - puo' dire di avere compiuto la sua missione e puo' iniziare a drenare tutta la massa di denaro messa in circolazione per fronteggiare i momenti piu' drammatici della crisi.
Ma uno dei motivi per cui le borse si stanno muovendo benino e' anche (non solo) legata alla gigantesca massa di dollari in circolazione. Cosi' ieri sera l'annuncio della Fed di avere alzato il tasso di sconto di un quarto di punto (allo 0,75% dallo 0,5%) ha visto i future dopo la chiusura di Wall Street annunciare un mercato azionario piuttosto teso.
Eppure la Fed ha voluto subito chiarire che la mossa non comporta una nuova politica monetaria e neanche una qualche novita' seria sull'economia. Di fatto non ci crede nessuno.
Perche' intanto, oltre a toccare il tasso di sconto, la Fed ha cosi' messo mano al costo del denaro per le banche. E' vero, il tasso di riferimento invece rimane a minimi da record, tra zero e 0,25% ma il costo del denaro per le banche e' stata per ora un punto forte per aiutare il sistema finanziario.
Non a caso il dollaro ha guadagnato subito altro terreno rispetto all'euro, e allo stesso tempo si conferma che proprio l'exit strategy e' partita.
Da meta' marzo, tanto per capire, finiranno alcuni programmi pubblici di aiuto al sistema finanziario, mentre i tempi di rientro dai prestiti legati alla speciale finestra di tasso di sconto tornera' a essere overnight e non piu' certo lunga 28 giorni come sta accadendo ora. Insomma, la normalizzazione sta partendo dagli Usa, sperando che non sia troppo presto e troppo ottimistico.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

Cina e debito muovono (o no) i mercati più della Fed

19 Febbraio 2010 20:25 MILANO - di Giuseppe Chiellino
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Per i mercati finanziari, alla fine, l'aumento del tasso di sconto Usa di 25 punti base da parte della Federal Reserve si è rivelato «un non evento», pur essendo il primo rialzo dal dicembre 2008. È questo il verdetto al termine della seduta delle borse europee mentre Wall Street ha ben digerito la decisione e viaggia in territorio leggermente positivo.

Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, la spiega a modo suo. «Non vorrei essere drastico ma è come se un corteo di auto lanciato a tutta velocità e a sirene spiegate, avesse spento le sirene ma continuasse a correre alla stessa velocità: le politiche monetarie della Federal Reserve restano espansive, non c'è alcun dubbio, si stanno solo cominciando a eliminare gli strumenti necessari per l'emergenza. Ma questo non vuol dire normalizzazione».

Non a caso il presidente della Fed di Atlanta, Dennis Lockhart, qualche ora dopo l'annuncio della banca centrale americana ha ricordato che «la ripresa economica americana resta fragile», sottolineando che «l'aumento del tasso di sconto non segnala una stretta della politica monetaria della Fed, che resta accomodante». Concetto sottolineato anche dal presidente della Federal Reserve di New York, William Dudley. «Non c'è un irrigidimento della politica monetaria. Abbiamo fatto solo un piccolissimo aggiustamento tecnico che riflette il fatto che le banche non hanno più necessità di fonti di finanziamento d'emergenza a basso costo», come invece era accaduto durante la crisi.
 

 

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Fonte - XXX

 

 

Dopo la reazione piuttosto «emotiva» della borsa di Tokyo, la prima a poter reagire, i mercati hanno preso le distanze e hanno cominciato a ragionare: «Quella dei listini giapponesi è la classica reazione di un mercato lontano che fa fatica a decodificare i messaggi. Anche il timing, al di fuori dalla riunione del Fomc - sottolinea Fugnoli al Sole24Ore.com - va letto come la volontà della Fed di dare al rialzo una connotazione esclusivamente tecnica e non politica. L'Europa, e poi anche l'America, hanno riassorbito subito il colpo».

Colpo che comunque nelle prime ora c'è stato, soprattutto sul cambio con l'euro, scivolato fino a quota 1,344 sul dollaro per poi risalire quasi a 1,36, ben al di sopra del livello precedente alla mini-stretta Usa. Certo il segnale è arrivato e dunque «malgrado le rassicurazioni scritte e verbali della banca centrale americana è inevitabile ipotizzare che i mercati - scrive Antonio Cesarano, responsabile Market strategy di Mps Capital Services - tenderanno ad incorporare nei prezzi uno scenario al rialzo dei fed funds», l'altro strumento monetario della Riserva federale. «Occorre tener presente che siamo comunque in un contesto restrittivo. Quello della Fed è solo un piccolissimo passo, ampiamente previsto e annunciato, a cui però ne seguiranno altri, anch'essi previsti».

Per esempio, a marzo - ricorda Cesarano - si chiuderanno le operazioni di rifinanziamento a sei mesi della Bce e per tutto il 2010 non sono previste operazioni a 12 mesi. Ma il fronte più caldo è quello cinese: «Se l'inflazione, oggi all'1,25%, salirà sopra la soglia del 2,25% che è il tasso di remunerazione dei depositi a un anno in yuan, le autorità monetarie saranno costrette ad alzare i rendimenti dei depositi con il conseguente effetto di stretta sulla liquidità».

Secondo Fugnoli i tempi per un più consistente aumento dei tassi negli Stati Uniti non saranno comunque rapidi. «Che i tassi siano destinati a salire - afferma - è la previsione più facile del mondo quando sono prossimi allo zero». Il nodo è quando: «Non entro quest'anno - risponde secco lo strategist e responsabile della newsletter Il rosso e il nero -. Come si può pensare di alzare il costo del denaro quando negli Stati Uniti c'è il 16-17% di disoccupati o sottoccupati?». In quest'ottica, c'è chi tende quasi a considerare un «messaggio di ottimismo» la mossa dell'istituto guidato da Ben Bernanke, un'attestazione di fiducia nella capacità di ripresa dell'economia che però resta tutta da dimostrare.

È di oggi, del resto, il dato dell'inflazione di gennaio salita dello 0,2% rispetto al mese precedente, ma con l'indice core (al netto di alimentari ed energetici) diminuito dello 0,1%: è la prima volta che accade dal 1982. Mps Capital Services ritiene «che a partire da marzo i governi e le banche centrali proveranno a "staccare la spina" degli aiuti drenando liquidità. Noi riteniamo che la reazione del mercato sarà negativa e le autorità politiche e monetarie dovranno fare una parziale marcia indietro nella seconda parte dell'anno, quando - tanto per citarne uno - verrà a scadenza il piano biennale cinese».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Trucchi, errori, incompetenza Se il dato economico è «falsato»

20 Febbraio 2010 10:54 MILANO - di Il Sole 24 Ore
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«Nell'ultimo trimestre 2009 il Pil Usa è cresciuto del 5,7 % contro l'0,1% di Eurolandia». Quanti hanno realizzato questo paragone! Peccato che il dato americano è annualizzato e il giusto confronto sia: 1,42% per gli Stati Uniti e 0,1% per l'area euro.
Ancora: prima lettura, a inizio dicembre 2009, delle buste paga americane di novembre: «Il calo è di 11.000 unità, un trend che resta negativo». Peccato che, nella lettura di due mesi dopo, il dato definitivo è: «Crescita di 64.000 unità».
Gli esempi di questo tipo potrebbero continuare per un bel po'. Nel mondo dei numeri economici e finanziari, sempre più vasto e complesso, le inesattezze , le revisioni e i confronti non proprio ortodossi sono all'ordine del giorno. Situazioni che gli esperti evitano senza troppi problemi ma che, invece, ingannano il profano. Il sole24ore.com, senza alcuna pretesa di completezza, ha voluto passarne in rassegna alcune.

Quando l'indicazione flash non c'azzecca
Così, ci sono dati il più possibile anticipati («il tempo è denaro» di Paperone non è solo una battuta) che servono all'industria e ai mercati. Numeri usati per i bugdet di spesa o le strategie d'investimento che, però, sono spesso oggetto di revisioni troppo ampie. Clamoroso il caso dell'andamento del Pil a stelle e strisce sul quarto trimestre 2008: la prima lettura flash indicava un calo del 3,6 per cento; il dato definitivo sentenziò un ribasso del 6,2 per cento. La domanda è spontanea: com'è stata possibile una simile differenza? «Negli Usa - spiega Marco Valli, economista di UniCredit - l'indicazione flash sul Pil è anticipata rispetto all'Europa, dove la prima lettura avviene 45 giorni dopo la fine del trimestre in considerazione. Il dato flash si basa su numeri preliminari: giocoforza, la sua revisione è inevitabile». A ben vedere, però, non è solo questione di dati ancora incompleti. Diversi esperti sottolineano che , in periodi di recessione, i modelli di rilevazione funzionano con più difficoltà. Reagiscono bene all'interno di un determinato "regime": cioè, quando esiste un trend delineato che, seppure caratterizzato dai cicli economici, vanta una tendenza di fondo sul lungo periodo. In questo caso le serie storiche di numeri permettono di definire la probabilità del verificarsi di un evento. Al contrario se il regime cambia, come è accaduto nella crisi, cogliere le variazioni diventa difficile. C'è una novità all'interno della serie storica che diventa "inattendibile".
In un simile scenario, per evitare clamorosi abbagli, sarebbe utile offrire al lettore (soprattutto inesperto) maggiori informazioni. «In effetti stressare maggiormente il disclaimer - dice Valli - può essere corretto. Magari, pensando a un'indicazione in cui viene spiegato con chiarezza che si tratta di un numero preliminare». E non solo. Si dovrebbero aggiungere due ulteriori precisazioni: una forchetta all'interno del quale il numero probabilmente si muoverà; e lo scenario macro-economico considerato più probabile. Senza la paura di apparire non così puntuali: l'economia è complessa; pensare di prevederne esattamente i suoi sviluppi è utopia.

Quali dati comparabili?
Ma non sono solo i dati preliminari. L'utente inesperto deve fare attenzione anche quando si confrontano tra loro numeri che appaiono simili, e in realtà non lo sono. In Italia, per esempio, le vendite al dettaglio sono espresse in valori nominali; in Francia, invece, è pubblicato il numero reale, cioè i volumi. Sul fronte dei prezzi al consumo, poi, negli Stati Uniti viene fornito sia il dato destagionalizzato sia non destagionalizzato. In Europa, invece, di solito solo quello non destagionalizzato. Gli esperti, ovviamente, conoscono bene queste situazioni ma molti cascano nell'inghippo. «A ben vedere -tiene a precisare Anna Grimaldi, economista di Intesa Sanpaolo - tra i vari stati c'è una differenza nella realizzazione delle statitistiche. Tuttavia non è tale da impedire i confronti: alla fine la comparabilità, nei paesi industrializzati, è possibile con un certo grado di accuratezza». Una considerazione assolutamente condivisibile. E tuttavia, giornali, media, agenzie specializzate hanno confrontato il Pil Usa (+5,7%) del quarto trimestre 2009 contro l'0,1% di Eurolandia. Un errore marchiano: il numero americano andava, infatti, diviso per quattro (i trimestri dell'anno).

La normalizzazione del cambi
Nel rutilante mondo della finanza esistono anche dimenticanze più piccole che, proprio perché minime, spesso non vengono prese in considerazione. Così è il rapporto tra le performance degli indici azionari e la moneta con cui si fa l'investimento. Da inizio anno, per esempio, l'S&P500 ha perso circa lo 0,4%; l'investitore europeo, verrebbe da dire, è anche lui in rosso. Invece no: in seguito all'apprezzamento del biglietto verde sulla divisa europea di circa il 5,4%, l'andamento dell'indice americano in euro (come indicato da Reuters) è di una crescita del 5 per cento. Una "minimalia", ma chissà che qualche gestore non si faccia bello di questa performance di fronte al risparmiatore.

Il consensus di mercato
Un altro luogo del "mistero", ben conosciuto nelle sale operative, è quello del consensus di mercato. In generale, si tratta di sondaggi realizzati tra esperti del settore per definire un valore medio tra le loro indicazioni su diversi argomenti: dagli utili per azione stimati fino alle previsioni sul rialzo dei tassi d'interesse. Agenzie autorevoli, come Reuters o Bloomberg, ne pubblicano diversi e sono attendibili. Capita spesso, però, di imbattersi in numeri di "consensus" che non indicano né l'ampiezza del panel di riferimento, né la sua composizione né chi li ha realizzati. Dovrebbero finire nel cestino della carta straccia e, invece, vengono ripresi, ricopiati, riutilizzati in articoli e commenti. Soprattutto in Internet. Magari perché, con un'azienda che prevede profitti bassi, una stima di consensus ancora minore permette di dire: battute le stime di mercato.

Fidarsi del Dragone?
Fin qui l'incompetenza, la distrazione, gli errori (più o meno) in buona fede. Esistono però, e la recente storia delle finanze pubbliche di Atene ne è la riprova, anche casi in cui il trucco è voluto. Nel primo semestre 2009, l'ufficio di statitisca di Beijing aveva pubblicato il dato del Prodotto interno lordo cinese pari a 13,99mila miliardi di yuan. Peccato che i numeri annunciati dalle 31 province e municipalità, in cui il paese del Dragone è suddiviso, indicavano un Pil totale di 15,38mila miliardi di yuan. Una bella diferenza che, oltre la questione della correttezza, implica problemi di efficienza e credibilità. Anche perché potenze economiche come il paese del Dragone ormai sono al centro del capitalismo moderno.
Di recente, (l'11 febbraio) Wall Street è stata influenzata proprio dal newsflow in arrivo da Beijing: la scelta della banca centrale cinese per un incremento dei coefficienti di riserva delle banche (portato al 16%), nel tentativo di raffreddare il boom del credito, ha fatto scendere gli indici. Un chiaro segnale di come il Dragone sia ormai price sensitive. Ma price sensitive su numeri truccati? Il rischio esiste. «L'economia cinese - spiega Federico Palazzari, fondatore della boutique d'affari Palazzari&Turries, da anni attivo nell'M&A del Far East -, che se ne dica, è ancora chiusa, iper controllata, basata su piani quinquennali di crescita». E quindi? «Quindi non può stupire che le statistiche siano "piegate" agli interessi nazionali. Da un lato, il tema è spesso quello di produrre numero positivi ma non tali da creare timori agli occhi degli occidentali; dall'altro, la statitistica è ad uso e consumo del "marketing" nazionale. Questo lo si vede anche nelle operazioni con le singole aziende». Cosa intende dire? «Capita spesso che le autorità locali chiedano l'assunzione di centinaia di lavoratori, indicando un forte tasso di disoccupazione. Quando, solo un giorno prima, l'ufficio accanto pubblicava dati su un mercato del lavoro in salute». Gli esperti, peraltro, conoscono bene questo fenomeno: da 7 anni il tasso di disoccupazione, nonostante i grandi cambiamenti avvenuti, oscilla sempre tra il 3,9% e il 4,3 per cento. Una variazione troppo limitata: evidentemente i numeri non tornano. Così come non tornano nel l'andamento del settore tessile: «In questo caso -afferma Palazzari - abbiamo dati dopati dall'industria del falso. Una produzione "ombra" che non salta fuori nelle statitistiche nazionali».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Una rete di eurobond per i conti di Atene

23 Febbraio 2010 11:17 NEW YORK – di George Soros

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Otmar Issing, uno dei padri dell'euro, espone correttamente il principio fondante della moneta unica. Nelle intenzioni – ha spiegato Issing al Financial Times – l'euro avrebbe dovuto essere un'unione monetaria ma non politica. Gli stati partecipanti crearono una Banca centrale comune ma rifiutarono di cedere a un'autorità comune il diritto di tassare i propri cittadini. Questo principio fu inserito solennemente nel Trattato di Maastricht e da allora è stato interpretato con rigore dalla Corte costituzionale tedesca. L'euro è stato un'impresa unica e inusuale, e adesso è la sua praticabilità a essere in discussione.

È evidente che c'è una falla. Perché una valuta possa dirsi veramente tale devono esserci una Banca centrale e un Tesoro. Non è necessario che il Tesoro gestisca l'imposizione fiscale quotidiana dei cittadini, ma dev'essere disponibile nei momenti di crisi. Quando il sistema finanziario è a rischio tracollo, la Banca centrale può fornire la liquidità, ma solo un Tesoro può affrontare i problemi di solvibilità. Questo è un fatto ben noto, che tutti quelli coinvolti nella creazione dell'euro avrebbero dovuto avere ben chiaro. Issing ammette che lui era fra quelli convinti che «avviare un'unione monetaria senza aver prima creato un'unione politica equivaleva a mettere il carro davanti ai buoi».
L'Unione europea è stata creata mettendo il carro davanti ai buoi, fissando traguardi e scadenze limitati ma politicamente raggiungibili, nella consapevolezza che non sarebbero stati sufficienti e che al momento opportuno si sarebbero rese necessarie misure aggiuntive. Per varie ragioni, però, il processo si è gradualmente inceppato. Ora l'Ue è congelata nella sua forma corrente.
Lo stesso vale per l'euro. Il crac del 2008 ha rivelato la falla nella nave, quando i membri dell'euro hanno dovuto provvedere in maniera indipendente a salvare i rispettivi sistemi bancari.
La crisi del debito in Grecia ha spinto la faccenda fino al parossismo. Se i paesi membri non riusciranno a fare passi in avanti, la moneta unica rischia di colare a picco.
La costruzione originaria dell'euro ipotizzava che gli stati membri avrebbero rispettato i limiti fissati dal trattato di Maastricht. Ma i precedenti governi greci hanno clamorosamente violato tali limiti. L'esecutivo di Giorgos Papandreou, eletto lo scorso ottobre con il mandato di fare un repulisti, ha reso noto che il disavanzo di bilancio ha toccato nel 2009 il 12,7%, scioccando le autorità europee e i mercati.

Le autorità europee hanno accettato un piano per ridurre gradualmente il disavanzo con una prima tranche del 4%, ma non è bastato a rassicurare i mercati. Il premio di rischio sui titoli di stato greci rimane intorno al 3%, privando la Grecia di gran parte dei benefici dell'appartenenza all'euro. Se si continuerà su questa strada, c'è il concreto pericolo che la Grecia, anche mettendo in campo il massimo sforzo, non riesca a tirarsi fuori da questa situazione. Ulteriori tagli di bilancio avrebbero come risultato di deprimere ancora di più l'attività economica, ridurre gli introiti delle tasse e peggiorare il rapporto debito/Pil. Considerando questi pericoli, in assenza di un'assistenza esterna il premio di rischio non tornerà al livello precedente.
Ad aggravare la situazione ci pensa il mercato dei Credit default swap (Cds), che è sbilanciato in favore di chi specula sui fallimenti. Puntando sul rialzo dei Cds, il rischio diminuisce automaticamente se ci si sbaglia. È il contrario di vendere azioni allo scoperto, dove se ti sbagli il rischio aumenta automaticamente. La speculazione sui Cds può spingere ancora più in alto il premio di rischio.

I ministri dell'Economia dell'Ecofin, ammettendo l'esistenza del problema, nell'ultima riunione si sono impegnati per la prima volta «a preservare la stabilità finanziaria dell'area euro nel suo complesso». Ma non sono ancora riusciti a trovare un meccanismo per farlo, perché gli accordi istituzionali esistenti non ne offrono nessuno (anche se l'articolo 123 del Trattato di Lisbona crea una base legale in tal senso). La soluzione più efficace sarebbe quella di emettere, separatamente e tutti insieme, titoli di stato europei garantiti per rifinanziare, ad esempio, il 75% del debito in scadenza, a patto che la Grecia rispetti i traguardi fissati, lasciando ad Atene l'onere di finanziare come meglio può il resto delle sue esigenze. In questo modo si riuscirebbe a ridurre in modo significativo il costo del finanziamento, e sarebbe la stessa cosa dell'Fmi che eroga prestiti condizionali a scaglioni successivi.
Ma questo è politicamente impossibile perché la Germania è inflessibilmente contraria a svolgere la funzione di cassa d'emergenza per partner dalle mani bucate. Dunque bisognerà trovare delle soluzioni raffazzonate.

Il governo di Papandreou è determinato a correggere gli abusi del passato e può contare su un forte consenso nell'opinione pubblica. Ci sono state proteste di massa e resistenza da parte della vecchia guardia del partito di governo, ma la cittadinanza sembra pronta ad accettare l'austerità se vedrà passi avanti nella correzione degli abusi di bilancio (e gli abusi sono talmente tanti che non sarà difficile).
Per la Grecia, dunque, le soluzioni raffazzonate potrebbero bastare, ma resta il problema degli altri, cioè Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda. Tutti insieme questi paesi rappresentano una fetta di Eurolandia troppo grossa per poter essere aiutata in questo modo. La Grecia potrebbe scamparla, ma il futuro dell'euro rimarrà in forse. Magari riuscirà a gestire questa crisi, ma che cosa succederà quando arriverà la prossima? Che cosa serve è evidente: sistemi istituzionali e di controllo più intrusivi per un'assistenza condizionale, e sarebbe auspicabile la creazione di un mercato di eurobond ben organizzato. L'interrogativo è se si riuscirà a creare la volontà politica per realizzare questi passi avanti.
 

Traduzione - Gaia Seller

 

Fonte - XXX

 

 

 

  Mercole 24 Febbraio 2010   Giovedì 25 Febbraio 2010   Domenica 28 Febbraio 2010  
       
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  Bernanke: mercato del lavoro resterà debole a lungo

24 Febbraio 2010 16:26 NEW YORK – di Il Sole 24 Ore

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Il presidente della Fed espone al congresso Usa il rapporto semestrale sulla strategia della Fed. La disoccupazione ancora un problema. Costo del denaro eccezionalmente basso a lungo. «Comunque pronti a ridurre le misure straordinarie sulla liquidità».

«Il mercato del lavoro resterà debole a lungo anche se la perdita di posti di lavoro rallenta». Di più: proprio a causa della dinamica della disoccupazione, e di una ripresa ancora lenta, «i tassi d'interesse resteranno per un lungo periodo a un livello basso». Ancora: «i mercati finanziari migliorano e abbiamo i mezzi per ritirare le misure straordinarie sulla liquidità», anche se l'economia non ha ancora la forza per camminare da sola con le proprie gambe.
Sono questi alcuni dei temi al centro dell'intervento sulla politica monetaria di Ben Bernanke davanti al Congresso Usa. Un'audizione in cui il presidente della Fed spiega la strategia prossima futura della Banca centrale americana.

Il lavoro preoccupa
Bernanke dice che la perdita di posti di lavoro rallenta, ma il mercato del lavoro rimane debole.
Com'è noto il tasso di disoccupazione nell'ultimo trimestre del 2009 dovrebbe essere compreso tra il 9,5 e il 9,7 per cento. E le stime, realizzate da Bloomberg, indicano una percentuale attorno al 9,1% nel 2011. Si tratta di valori un po' al di sotto del picco del 10% raggiunto in autunno, ma comunque numeri che indicano l'esistenza di un problema di fondo nell'economia a stelle e strisce. Lo stesso senatore democratico Bob Mendez, membro di quella Banking committee che sta ascoltando le parole di Mr Fed, aveva sottolineato in mattinata: «Dovremo capire come si vuole aiutare le piccole e medie imprese che, in questo momento, sono le uniche a creare posti di lavoro. Cosa vuole fare la Fed su questo fronte?».
Che il tema dell'occupazione sia al centro del dibattito sulla futura politica della Fed lo aveva già espresso Janet Jellen, presidente della Fed di San Francisco, una delle economiste più ascoltare negli Stati Uniti. La Jellen, solo due giorni fa, ha detto che: «L'economia americana sta sempre più imparando a crescere senza alti livelli di occupazione. Il che, ovviamente è un problema». Il taglio dei costi fissi, le ristrutturazioni e le maggiori efficienze potranno sì permettere un buon andamento dei profitti, ma questo farà felici soprattutto gli azionisti della Corporate America; al contrario mette in difficoltà quella middle-class che, senza lavoro, non spende più e, quindi, fa calare la domanda aggregata. «Per questo - ha aggiunto la Jellen - è necessario mantenere i tassi ad un livello eccezionalmente basso per ancora molto tempo: la crescita economica è ancora molto debole; l'ipotesi di una ripresa a forma di "V" non è così scontata. Esiste la possibilità di una ricaduta, con un percorso congiunturale che potrebbe formare la figura della "W"». «Siamo certamente in una ripresa "jobbless" », fa da eco Mark Gertler, professore di economia all'Università di New York.

I tassi bassi ancora a lungo
La scorsa settimana la Banca centrale americana ha portato allo 0,75% il tasso di sconto, in una mossa prevista dal mercato e volutamente realizzata al di fuori del Fomc per mostrare che la politica monetaria non viene cambiata. «L'intenzione di Bernanke - era la spiegazione in "coro" degli esperti - è finalizzata, passo dopo passo, ad avviare l'uscita dalle politiche d'emergenza sulla liquidità». Una tesi che Bernanke, nel dire che «i tassi resteranno bassi ancora a lungo», ha pienamente confermato.

L'exit strategy
L'impostazione, d'altro canto, la si era capita proprio con la mossa sul discount rate. Normalmente il tasso di sconto, che è il tasso cui la Fed presta denaro alle banche nel brevissimo periodo, è superiore di 100 basis points sui Fed fund. Questa differenza, nel periodo più buio della crisi, era scesa allo 0,25 % per permettere agli istituti di credito di accedere con minori oneri alla liquidità della Fed. Adesso si sta tornando alla normalità, come lo stesso Bernanke aveva ampiamente annunciato. Una normalità che, però, non riguarda la politica dei tassi, bensì la liquidità.

Il timing esatto
Già la liquidità. Uno dei problemi che la Fed, ma anche la Bce, deve affrontare è quello che, alla fine, tutti questi fiumi di denaro non sono serviti a "irrogare" l'arida pianura dell'economia reale. Ma, al contrario, sono rimasti all'interno del sistema interbancario: le banche, cioè, li hanno usati o per patrimonializzarsi; o per fare profitti grazie alle divisioni di investment banking (ed elargire "incredibili" bonus); o per acquistare «Treasury, da dare in garanzia alla stessa Fed, per acquistare nuova liquidità», come dice Jim Rogers. In questo scenario è banale sottolineare che la tempistica dell'uscita dalle politiche straordinarie sulla liquidità è fondamentale. Nella sua relazione Bernanke ha sottolineato che «la Fed ha tutti i mezzi per eliminare quesgli interventi» ma fondamentale è il timinng.
In questo periodo, infatti, viene meno la forza di diversi programmi governativi a sostegno dell'economia reale. Per tutti: negli Usa è in scadenza il programma di detrazione di 8.000 dollari per l'acquisto della prima casa. Così, la domanda di diversi economisti è: cosa succede se, nel momento in cui la "droga" della liquidità viene eliminata, spariscono anche gli aiuti statali? Non c'è il rischio di ricadere in una recessione ancora peggiore di quella da cui (sembra) si sta lentamente e a fatica uscendo? La risposta a simili quesiti e duplice: da un lato c'è chi, sottolineando il boom del deficit di bialncio dei paesi dell'Occidente, mette in guardia rispetto ad una politica di deficit spending che sì, potrebbe portare a crescere ancora nel breve periodo, ma prepara le basi per un crollo delle finanze pubbliche. Dall'altro lato, invece, c'è chi sostiene ( tra cui il nobel Paul Krugman) che non bisogna preoccuparsi troppo del deficit: il vero obiettivo è quello di sostenere un'economia ancora troppo debole per riprendersi da sola. In molti, propendono per una terza via. Trovare il giusto equilibrio tra rigore di bilancio, exit strategy e sostegni alle economie.

La Fed non si attende un downgrade degli Usa
Bernanke, peraltro, ha indicato le sue stime sulla crescita economica: il Pil Usa dovrebbe migliorare tra il 3% e il 3,5% quest'anno e tra il 3,5% e il 4,5% nel 2011, non sufficiente per
compensare i posti di lavoro perduti durante la recessione. Il presidente della Fed, poi, ha anche detto di non aspettarsi un downgrade sull'affidabilità creditizia degli Stati Uniti, nonostante l'enorme deficit del budget federale.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

USA: FED E TASSI, COSA ACCADE DOPO LA FINE DELL'EMERGENZA

23 Febbraio 2010 02:00 NEW YORK - di WSI
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Il chief equity strategy di BlackRock spiega che non siamo piu' nella situazione critica di un anno fa. Lo dimostrano anche alcuni indicatori economici, che fanno "fa presagire una ripresa della crescita e dell’occupazione nei mesi a venire".
Il costo del denaro americano e’ destinato a salire entro fine anno. Il periodo di emergenza e’ passato, lo dimostrano anche alcuni indicatori economici e i risultati dalla corporate america fanno ben sperare per il futuro. A tracciare questo scenario ai microfoni di Cnbc Usa e’ Bob Doll, chief equity strategy di BlackRock.

"C'e' una serie di fattori che si stanno muovendo nella giusta direzione per l’economia, a cominciare dalla produzione industriale, agli investimenti previsti dalle aziende passando per i profitti messi a segno dalla stessa corporate america", ha spiegato Doll aggiungendo che il tutto "fa presagire una ripresa della crescita e dell’occupazione nei mesi a venire".
La lettura dell’attuale congiuntura funge da fondamenta per l’opinione dell’esperto sulle mosse di politica monetaria targate Fed. La decisione della settimana scorsa di aumentare il tasso di sconto, cioe’ il valore cui presta denaro alle banche per i prestiti 'overnight', e’ "un aggiustamento tecnico" definito "appropriato", che continua "la Fed non avrebbe mai fatto questa mossa in tempi di paura generalizzata".

E’ tempo, dunque, di attuare una exit strategy che comprende per esempio "la fine dell’acquisto di Titoli di Stato e di altre forme di quantitative easing. La decisione della settimana scorsa potrebbe costituire un primo passo verso un rialzo dei tassi di interesse. Dobbiamo ricordarci che partiamo dallo zero per cento non dall’uno o dal due percento. Il livello prossimo allo zero indica una situazione di emergenza che pero’ non e’ piu’ in atto. Ecco perche’ spererei che entro fine anno la Fed alzi il costo del denaro", ha commentato Doll.
 

 

 

BERNANKE: TASSI FERMI ANCORA PER MOLTO

24 Febbraio 2010 16:10 NEW YORK - di WSI
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Il numero uno della Fed conferma una politica monetaria accomodante. Prospettive inflative stabili nel lungo termine. Il mercato del lavoro resta debole, ma il calo rallenta.
Non sorprendono le parole di Ben Bernanke, che da Washington sta tenendo di fronte al Congresso la relazione semestrale sulla politica monetaria. Chi temeva, o sperava in un rialzo del costo del denaro a stelle e strisce deve ricredersi. La strada della ripresa e' ancora incerta e dunque tassi vicino allo zero sono necessari, e ancora per un bel po'. "Tutto dipende dalla domanda dal settore privato", ha spiegato.

Il governatore della banca centrale americana lancia indicazioni incoraggianti: "ci sono segnali di ripresa, ma il mercato del lavoro resta debole anche se la caduta si sta contraendo".

Quanto alle aspettative sull'inflazione, la Fed e' sempre pronta a prendere iniziative volte a prevenire l'inasprirsi di pressioni inflative. "Abbiamo gli strumenti utili per attuare le politiche giuste al momento piu' opportuno", ha continuato. Tra le righe si intuisce l'intenzione di sospendere, prima o poi, le mosse straordinarie che hanno aiutato il mercato a risollevarsi.

D'altra parte, ha ricordato Bernanke, "i miglioramenti in atto dalla scorsa primavera sui mercati finanziari continuano. Le condizioni di finanziamento nel breve termine sono tronate a livelli pre-crisi. Molti istituti, soprattuto i piu' grandi, sono stati capaci di raccogliere nuovi capitali ricorrendo direttamente al mercato. Ma l'erogazione del credito continua a contrarsi".

Le stime per l'anno in corso sono simili a quelle fornite dal Fomc nella riunione di gennaio: il 2010 dovrebbe chiudersi con una crescita del 3-3.5% e del 3.5-4.5% l'anno prossimo. Il tasso di disoccupazione dovrebbe scendere al 6.5%-7.5% entro il 2012, comunque sopra il 5% giudicato come livello "sostenibile" dalla stessa Fed. I prezzi al consumo, invece, dovrebbero muoversi in un range compreso tra l-1% e il 2% nel 2010.

Non poteva mancare un riferimento esplicito alla decisione della settimana scorsa di alzare il tasso di sconto sui prestiti alle banche. Mossa attesa ma giunta prima delle previsioni. Tale operazione "e' la risposta al miglioramento delle condizioni del credito, in cui i principali operatori hanno ridotto la loro dipendenza dalla banca centrale. Questo aggiustamento non va ad intaccare i comuni cittadini ne le aziende e non va interpretato come il primo passo verso un cambio di rotta nella politica monetaria della Fed", ha chiarito Bernanke.

Immediata la reazione del mercato valutario, con il dollaro in calo e i prezzi dei Titoli di Stato in aumento. Il rendimento di quelli decennali, che si muove in modo inverso ai prezzi, scivola di 2 punti base al 3.67%, il livello piu' basso in oltre una settimana.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

I numeri confondono gli Usa

giovedì, 25 febbraio 2010 - 14:27 - di Marco Caprotti
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Buoni risultati trimestrali ma notizie macroeconomiche contraddittorie. E’ questa l’ultima fotografia scattata agli Stati Uniti che sta disorientando gli operatori finanziari. L’indice Msci North America nell’ultimo mese (fino al 24 febbraio e calcolato in euro) ha perso lo 0,76. Segno, spiegano gli analisti, che gli investitori non sanno ancora in quale direzione muoversi e a quali numeri dare retta.

Se, infatti, la maggior parte delle aziende raccolte nel paniere S&P500 ha riportato risultati 2009 superiori alle attese degli analisti, l’indice misurato dal Conference Board è precipitato a quota 46 punti in febbraio, rispetto ai 56,5 di gennaio. Il dato è peggiore delle attese degli analisti che si attendevano un ribasso a quota 55 punti. La componente che giudica le attuali condizioni di business è scesa a da 25,2 a 19,4 punti, il livello più basso in 27 anni. L’indice delle attese per i prossimi sei mesi é invece sceso a 63,8 punti da 77,3. Le ultime notizie arrivate sulla produzione industriale a gennaio, invece, secondo le elaborazioni fornite dalla Federal Reserve dicono che questa componente salita dello 0,9% dopo il +0,8% di dicembre 2009.

E’ confusa la situazione sul fronte immobiliare. I nuovi cantieri hanno fatto registrare in gennaio un aumento del 2,9% arrivando al livello più alto dal luglio scorso. Il paniere S&P Case Shiller (che rileva l’andamento dei prezzi di vendita delle abitazioni nelle prime 20 aree metropolitane del Paese), nel frattempo ha registrato a dicembre una contrazione pari a -0,2% su base mensile e -3,1% su base annuale. E mentre le vendite al dettaglio a gennaio sono salite dello 0,5% rispetto al mese precedente, continua a salire la disoccupazione.

“In generale ci sentiamo di affermare che il recupero degli Stati Uniti sia in vista”, dice un report firmato da Travis Pascavis, analista di Morningstar. “Tuttavia, molto dipenderà anche da quello che succederà nel resto del mondo. La Cina, ad esempio, sta preparando una riduzione dei piani di stimolo economico per evitare una crescita dell’inflazione, mentre l’Europa è ancora alle prese con la crisi della Grecia e con la situazione difficile di Portogallo, Irlanda e Spagna”.

Dal punto di vista borsistico, sembrano tenere bene i titoli della tecnologia considerati da sempre asset anticilici. Soffrono, invece, i bancari che stanno ancora facendo i conti, nonostante il miglioramento dei risultati, con le perdite registrate negli anni scorsi.

L’amministrazione Obama, nel frattempo, sta cercando di aggiustare il tiro sulla sua politica economica. Il Senato ha approvato una legge che fornisce sgravi fiscali alle aziende che assumono persone disoccupate da almeno 60 giorni. Il presidente, parlando davanti ai rappresentati della Business Roundtable ha anche confermato il suo programma (espresso anche nel discorso sullo Stato dell’Unione) di voler investire di più in progetti legati alle infrastrutture e all’energia pulita.
 

Fonte - MorninigStar.it