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05 Febbraio
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Borse,
euro, riforme: il
braccio destro di Roubini "legge" il 2010
01 Febbraio 2010 14:25 NEW YORK
– di Il Giornale.it
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Arnab Das, responsabile delle Ricerche e delle analisi di
mercato di Roubini Global Economics, era a Milano giovedì,
invitato da Aberdeen Asset Management Italia, nota società
d'investimento patrimoniale. Questa la versione integrale
che ha concesso al Giornale.
Partiamo dalla Grecia alla prese con
la crisi di bilancio. La Bce ha scelto la linea dura. A
torto o a ragione?
«Direi a ragione.
Oggi la Grecia non è l'unico Paese europeo ad avere questi
problemi. Se venisse salvato dalla Bce o ricevesse
finanziamenti privilegiati dalla Ue, gli altri direbbero:
perchè Atene si e noi no? L'Irlanda ad esempio ha già
tagliato del 20% le spese pubbliche. I greci non hanno
scelta: devono trovare da soli, con grandi sacrifici, il
modo per ridurre un deficit schizzato al 12,5% e che fino a
pochi mesi fa era fermo al 3,5%».
E cosa prevede per le prossime settimane?
«La crisi in Grecia
si inasprirà nel breve e lo spread con il Bund aumenterà. Il
mercato continuerà a mettere alla prova l'impegno greco,
quando ci sarà pieno serio di Atene, lo spread diminuirà.
Sullo sfondo c'è un altro problema: quello della
competitività. Negli ultimi anni l'economia locale
non è cresciuta molto e non sono state fatte riforme
strutturali per garantire flessibilità all'economia,
necessarie da quando i tassi di cambio sono fissi. Anche
l'Irlanda è in crisi, ma perlomeno per un decennio era
cresciuta più del mondo.
Inoltre bisogna considerare la Germania, che dopo
riunificazione ha affrontato deflazione dolorosa ma
necessaria. Oggi non può dire alla Grecia: vi accordiamo uno
sconto».
L'uscita della Grecia dall'euro è
concepibile?
«La storia dimostra
che nessuna unione monetaria è durata senza unità politica e
fiscale. Può darsi che l'euro rappresenti l'eccezione, ma
solo se i Paesi continueranno a rispettare Maastricht.
Anche la California è in bancarotta, e la California pesa
molto più della Grecia, ma non è uno Stato sovrano e il
governo federale può soccorrerla trasferendo fondi.
L'Eurozona invece non ha questa flessibilità. Dunque la
crisi in Grecia sta mettendo in luce i limiti dell'euro».
Roubini da giorni avverte: attenti alla crisi del debito
pubblico europeo. Anche di quello italiano?
«No, avete da tempo un debito enorme, ma siete diventati
virtuosi. In questa crisi siete riusciti a mantenere i conti
sotto controllo e il deficit è aumentato molto meno di altri
Paesi. In più avete un basso indebitamento delle famiglie e
non c'è stata la bolla dei mutui.
I problemi sono altrove».
E dove?
«Il debito di
Francia e Germania è cresciuto molto, ma sono in grado di
assorbirlo. I Paesi a rischio sono Irlanda, Spagna e
Portogallo; oltre alla Grecia, naturalmente».
Anche Gran Bretagna
e Usa si sono indebitati...
«Ma possono stampare
moneta. E anche giocare con la leva fiscale, aumentando le
tasse, mentre in Europa la pressione fiscale è già molto
alta. La Banca d'Inghilterra ha salvato il sistema bancario
stampando moneta, per questo la sterlina è crollata. Ora il
rischio è l'inflazione. Anche negli Usa i problemi
saranno sempre più seri se non ci saranno correzioni, ma in
entrambi Paesi dibattito è già su come gestire il deficit.
Si parla di investimenti da tagliare, della questione
fiscale. Obama lo ha ribadito nel discorso sullo Stato
dell'Unione. La coscienza del Paese è cambiata».
Nel 2009 il pessimismo dilagava, e Roubini vedeva nero.,
Invece i mercati...
«Roubini ha visto per primo e giustamente la crisi
finanziaria americana e il suo rischio sistemico. Ci ha
azzeccato nel 2007 e nel 2008. ha avuto la vista molto
lunga. Nel 2009 abbiamo sottovalutato l'impatto degli
stimoli fiscali e monetari.
I mercati sono
andati bene, ma siamo convinti che la ripresa del mondo
occidentale sarà anemica.
E dunque cosa aspettarsi nel 2010?
«Non sarà come le
altre recessioni del dopoguerra. Nonostante rally recente
resta un'enorme distruzione di ricchezza, considerando
l'immobiliare e l'azionario, di circa del 40%.Il problema è
che il livello di indebitamento complessivo non è sceso,
perché gli Stati sono messi peggio. Il debito pubblico ha
sostituito quelli bancari e privati. Fannie e Freddie sono
stati di fatto nazionalizzate. Anche se non c'è crisi
sui titoli di Stato dell'America e dei grandi Paesi
occidentali, il debito peserà a lungo sulle economia
occidentali. Due ipotesi. Crescita lenta o più inflazione e
tassi più alti».
I nostri lettori chiedono consigli
pratici per investire i propri risparmi...
«I margini per una
crescita ulteriore dei mercati oggi sono ridotti. Nel 2009
le Borse sono salite grazie ai piani di stimolo e ai tagli
dei posti di lavoro. I primi si stanno esaurendo. Tagliare
posti è logico e ti permette di difendere gli utili nel
breve periodo, ma ha un limite. Non si può farlo per sempre.
E ha un costo molto
alto: più tagli, più danneggi l'economia reale, più ritardi
la ripresa, tagliano i redditi delle famiglie. Da ora la
crescita del S&P dipenderà dall'aumento del Pil. Sui
mercati prevedo più volatilità con un alto rischio di
correzioni. Per la prima parte dell'anno, vedo gli asset
americani più brillanti degli altri Paesi industrializzati e
dollaro più forte. Ma dopo calo. Per i mercati emergenti il
contrario, siamo ottimisti sul secondo semestre. e i secondi
non possono proseguire all'infinito. Dunque solo l'aumento
del Pil potrebbe sostenere gli indici, ma secondo noi la
ripresa sarà anemica».
La Cina è un mistero: crede al rischio
di una bolla?
«Sì, il problema è
che la Cina non può far raffreddare l'economia. Il suo
modello richiede alti tassi di crescita perché altrimenti
emergerebbero forti problemi sociali, di disoccupazione, e
in ultima analisi di stabilità politica.
E dunque deve tenere
il remimbi ancorato al dollaro. Ma questo perpetua le
distorsioni. Per continuare a difendere il tasso di cambio
deve incrementare di molto le riserve e in questo modo
alimenta la corsa sia dell'immobiliare che borsistica. Se
non lasci fluttuare il remimbi il rischio di bolla
aumenterà. E' già capitato negli Usa negli anni Venti e in
Giappone negli anni Ottanta. Scenario: Borsa sale ancora
alle stelle, poi crash e deflazione. Non è problema
immediato, ma nemmeno lontanissimo».
La crisi finanziaria è stata superata
davvero o è stata solo camuffata?
«Oggi non c'è più il
rischio di fallimento grandi banche, ma le passività sono
ancora enormi, noi le stimiamo a 1 trilione di dollari;
inoltre l'immobiliare commerciale è un problema negli Usa e
in Europa. Dunque non sono ancora in grado di prestare soldi
ai privati e alle aziende».
La gente ha
impressione che non ci sia più correlazione tra l'economia
reale e quella finanziaria.
Come riequilibrare la
situazione?
«Lo scollamento tra
andamento degli indici e la disoccupazione o la crescita del
Pil è tipico dei cicli economici. Questa volta però siamo in
una situazione davvero particolare. Perchè il sistema
bancario è stato salvato dallo Stato e perché la
disoccupazione e di lungo periodo. Inoltre è passato
il concetto "tto big to fail". Se sei grande o capace di
condizionare il sistema in caso di problemi sarai salvato
dallo Stato, il che incoraggia comportamenti irresponsabili.
Dunque per rispondere alla sua domanda occorrono delle
riforme in profondità»
Le riforme proposte dal consigliere di
Obama Paul Volcker la convincono?
«Sono un passo nella
giusta direzione. Sbaglia chi critica le misure
contro gli Hedge Funds e le altre misure, sostenendo che non
hanno provocato la crisi. Basta anadare a vedere cos'è
successo a Bear Sterns.
Ma non bastano.
Che cosa suggerisce?
«Bisogna separare di
nuovo le banche di investimento da commerciali. E'
importante ricordare che negli anni del Glass Steagle Act
molte banche sono fallite, ma nessuna di queste ha provocato
rischi sistemici, mentre prima e dopo questa legge ci sono
stati fallimenti distruttivi. Glass Steagle dà stabilità e
riduce rischi. Inoltre: bisogna esaminare
attentamente l'nterconnettività. Basta too big to fail. Va
ristrutturato anche il sistema bancario ombra. Dunque:
rafforzare la singola banca e chiarire chi ha diritto alla
rete di supporto e chi no. Banche di deposito possono essere
soccorse, le altre no. Le banche commerciali non devono
usare le proprie risorse per finanziarie le "banche ombra".
E' un processo che richiederà anni».
E nel frattempo che cosa sarebbe
necessario per rilanciare l'economia?
«Si potrebbe uscire solo con nuova rivoluzione tecnologica,
ecologica, bio tech, eccetera. Ma queste sono cose che un
governo difficilmente può creare, lo Stato può agevolare
certi sviluppi con legislazioni particolari e rendendo
l'economia più dinamica e flessibile. Ma negli Usa e ancor
di più in Europa si va nella direzione opposta: più
protezione lavoratori, più stato sociale, più tasse, meno
spese pubbliche eccetera. Dunque rendendo la rivoluzione
tecnologica molto più difficile. L'unica buona notizia è che
nel mondo ci sarà più stabilità, e una minor volatilità del
Prodotto interno lordo».
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Fonte -
Il Giornale.it
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Il
dilemma del prigioniero
01 Febbraio 2010 14:25 MESSINA
– di Leon Zingales e Carmela Vitanza
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Leon Zingales e'
collaboratore di WSI. PhD in Fisica, Dipartimento di
Matematica, Università di Messina, gestisce anche il bel
blog IlCignoNero e che ringraziamo. Carmela Vitanza e'
Professore Ordinario di Analisi Matematica, Dipartimento di
Matematica, Università di Messina.
Nella teoria dei giochi è di esemplare importanza il dilemma
del prigioniero elaborato inizialmente da Albert Tucker
negli anni 50. Tale problema evidenzia l’importanza del
processo di cooperazione onde ottenere una utilità totale
maggiore. In altre parole la collaborazione consente di
sostituire una configurazione Pareto-efficiente (ove si
considerano le utilità individuali che nessuno è disposto a
sacrificare) con una forma di equilibrio cooperativo (ove un
contendente sacrifica una parte della propria utilità
potenziale allorché in corrispondenza si registri un
incremento dell’utilità dell’altro contendente superiore in
valore assoluto).
Una delle principali
conseguenze della politica della FED è stata quella di
accoppiare il sistema finanziario con quello valutario. La
necessità di permettere (se non addirittura di favorire) il
carry-trade sulla valuta regina, ossia il Dollaro, onde
tenere artificiosamente in alto i mercati finanziari ha
determinato la creazione di una evidente debolezza per gli
USA: in sostanza essi devono tener conto delle istanze di
chi è in possesso dei propri Titoli di Stato.
I grandi creditori
degli USA, in base alle dichiarazioni ufficiali (fonte
Visual Economics) sono nell’ordine Cina (800 Miliardi di
Dollari), Giappone (750 Miliardi) ed UK (231 Miliardi).
In particolare il Giappone ha un debito pubblico fuori
controllo e non può permettersi di perdere doppiamente per
la svalutazione del Dollaro USA: innanzitutto per la
svalutazione dei Titoli di Stato in possesso e poi per il
crollo di esportazioni amplificato dal rafforzamento dello
Yen (che si era abituato ad essere la valuta favorita dal
carry-trade nel decennio precedente).
In seguito alla
crisi il sistema finanziario è giunto ad un equilibrio per
reciproca convenienza resasi obbligatoria dal precipitare
degli eventi.
La configurazione di equilibrio ottenuta è
stata la seguente: i paesi creditori continuavano a tenersi
i TBills (nel contempo la FED compra direttamente, o
indirettamente tramite le banche, la gran parte dei Titoli
di nuova emissione), mentre il Dollaro si svalutava rispetto
all’Euro per poter pompare i mercati azionari. Ovviamente il
trend delle monete (Yuan, Yen e Sterlina) dei grandi paesi
creditori doveva seguire il cammino del Dollaro, onde
annullare (o comunque ridurre al minimo) la svalutazione
relativa.
E’ inutile dire che il contendente che in questa
configurazione di equilibrio ha ceduto la maggiore utilità
individuale è stato il sistema Euro. La zona Euro, sia per
la incapacità di esprimere una unità di intenti che per
evidenti errori dei vertici della BCE, ha dovuto
passivamente accettare una sopravvalutazione della propria
moneta.
L’aver scaricato le tensioni sulla zona Euro
non è stato indolore: le sollecitazioni sul sistema hanno
reso drammatiche le condizioni dei paesi più deboli. In
particolare genera grande allarme la situazione della Grecia
che evidenzia un deficit del 12.7% ed una situazione dei
conti pubblici fuori controllo. Ed inoltre le prospettive di
altri paesi quali Spagna, Irlanda e Portogallo non sono
rosee.
I mercati
obbligazionari, azionari e valutari stanno danzando con il
ritmo della danza di Zorba. Si stanno diffondendo timori,
segnali inquietanti sono giunti a tal proposito in occasione
del recente incontro a Davos, che la tenuta del sistema Euro
è a rischio.
Una svalutazione repentina dell’Euro (in queste ultime
settimane è evidente un trend di indebolimento) farebbe
crollare, come conseguenza del frettoloso processo di
ricopertura delle posizioni di carry-trade aperte, il
castello di carte trasformando la recente debolezza dei
mercati azionari in una valanga. Il governo greco è
ben consapevole che un eventuale default avrebbe conseguenze
catastrofiche e pertanto dispone di strumenti ricattatori
nei confronti della BCE.
Il rischio è che, di
fronte ai nuovi eventi, gli attori rompano il patto non
scritto (fanno testo in questi ultimi giorni i contrasti tra
Cina e Usa) e tornino alla sola ricerca dell’utilità
individuale che il dilemma prigioniero insegna essere la
soluzione peggiore. L’interesse globale impone che
venga messa una pezza per tappare il grosso buco, ma sia
comunque chiaro che la stoffa a disposizione sta per
terminare.
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Fonte -
www.ilcignonero.it |
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Fonte -
www.wallstreetitalia.com
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GIAPPONE IN AFFANNO,
CINA SEMPRE PIU' VICINA
01 Febbraio 2010 17:01 NEW YORK -
di APCOM ______________________________________________
I samurai sentono sul collo il
fiato del Dragone, la Cina si appresta a sorpassare
l'Arcipelago quale seconda maggiore economia globale. Non
solo Toyota, anche Honda, Japan Airlines e Sony in
difficolta'.
Il gigantesco richiamo in officina di milioni di auto della
Toyota segna un nuovo smacco tra i grandi gruppi industriali
nipponici, mentre i samurai sentono sul collo il fiato del
Dragone: la Cina che si appresta a sorpassare l'Arcipelago
quale seconda maggiore economia globale. Il caso Toyota -
salito alle cronache dopo un ampliamento dei richiami nei
giorni scorsi, che ora oltre agli Usa toccano anche Europa e
Cina - giunge proprio mentre il vettore di bandiera, la
Japan Airlines ha fatto un 'atterraggio di emergenza' presso
i tribunali fallimentari, da cui dovrà uscire dopo aver
subito una drastica ristrutturazione.
Ma anche Honda, secondo produttore di auto del Sol Levante
ha precedentemente richiamato 646.000 vetture per un difetto
agli alzacristalli elettrici. E da tempo il gigante
dell'elettronica Sony si è visto sopravanzare su diverse
tipologie di prodotti di massa, come i lettori multimediali,
dall'americana Apple, su alcuni segmenti, come le Tv a
schermo piatto dai gruppi coreani.
In un contesto di agguerrita concorrenza, il Giappone vede
offuscarsi la reputazione sull'elevata qualità dei suoi
prodotti, un punto di forza su cui ha fatto leva negli
scorsi decenni.
I problemi che hanno riguardato Toyota, Sony e Jal sono
diversi tra loro, ma secondo alcuni analisti ci sono delle
lezioni comuni da trarre: l'espansione a livello globale
crea dei rischi di autoappagamento sulle posizioni
conquistate, che si possono pagare a caro prezzo. Inoltre la
mentalità di lavoro seguita in molti dei gruppi nipponici
crea possibili problemi di comunicazioni interna alle stesse
aziende.
"Alimentati dall'idea che la posizione di numero uno
mondiale non era a rischio, sono entrati in gioco
l'arroganza e un certo autocompiacimento", afferma Kirby
Daley, trader di lungo corso della piazza di Tokyo ora capo
della strategia per la Newedge Group, una finanziaria di
Honk Kong. La crisi globale ha messo sotto pressione la
coporate nippon nei suoi punti di debolezza, e "non c'è un
posto in cui nascondersi". I problemi di Toyota e Sony si
fanno sentire mentre in tutta l'Asia la concorrenza si fa
più accesa. Altri paesi "possono offrire prodotti
altrettanto buoni di quelli giapponesi a costi più bassi, e
anche l'icona della qualità giapponese è in declino".
Ed è proprio dal Giappone che molti rivali asiatici hanno
imparato le tecniche di espansione e di allestimento di
nuove strutture produttive all'estero. Intanto nel Sol
levante i duri programmi di taglio dei costi, per tenere il
passo della concorrenza e restare agganciati alla domanda
globale, hanno richiesto compromessi sui sistemi di
controllo della qualità.
Toyota è riuscita a risparmiare utilizzando le stesse
componenti su una vasta gamma di modelli, ma in questo modo
ha aumentato i rischi legati a eventuali problemi su una di
queste parti. Come è accaduto con gli acceleratori a rischio
che dall'inizio della vicenda hanno implicato richiami di
circa 7 milioni di veicoli nel mondo. "Uno smacco
terribile", secondo Kenneth Grossberg, professore di
marketing alla Waseda university. "Questo è un gruppo
ritenuto a 'difetti zero'. Come è potuto accadere che un
problema simile filtrasse i controlli? Va contro i loro
principi operativi".
I primi problemi agli acceleratori e ad alcuni tappetini di
Toyota sono iniziati ad evidenziarsi già nel 2007, su alcuni
modelli. Casi risolti, ma solo per questi modelli, mentre la
componente a rischio veniva utilizzata anche su altre
vetture. Una questione che richiama l'attenzione sulle
comunicazioni interne al gruppo, e questo non è un problema
solo di Toyota.
Tra le grazi aziende giapponesi, rileva Grossberg, è che
difficilmente un individuo si assume l'iniziativa di far
presente un problema che potenzialmente potrebbe riguardare
settori non di sua competenza e responsabilità. E questo può
accadere anche sulle strategie di mercato: come le mancate
comunicazioni che hanno contribuito a creare i problemi di
Sony nell'individuare in anticipo il passaggio epocale tra
le Tv a tubo catodico agli schermi piatti, partendo così in
ritardo rispetto ai gruppi coreani.
Fonte
-
APCOM
USA: LA RIPRESA COME
UN CAMPO MINATO
01 Febbraio 2010 23:00 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
L'economista Nouriel Roubini fa
le pulci al dato, apparentemente positivo, del Pil Usa nel
quarto trimestre. Il consulente alla Casa Bianca Summers
avverte: "recessione umana".
Gli Stati Uniti hanno davanti a se' un futuro ancora
piuttosto incerto. A sostenerlo colui che nel 2007 aveva
previsto la crisi: Nouriel Roubini.
In un intervista rilasciata a Bloomberg Television, il
professore della New York University ha messo sotto la lente
di ingrandimento l’ultimo dato sulla crescita del prodotto
interno lordo a stelle e strisce(+5.7%), che nel quarto
trimestre e’ stata la maggiore degli ultimi sei anni.
"Il risultato puo’ sembrare molto positivo, ma se lo si
analizza nei dettagli appare debole", ha commentato. "Siamo
nei guai". L’economista ha spiegato che gran parte dei
consumi, per esempio sono stati trainati dagli stimoli di
tipo monetario e fiscale adottati dall’amministrazione
Obama. "Non appena questi fattori verranno meno", ha
proseguito, "il dato scendera’ all’1.5% nella seconda parte
dell’anno".
Pessimismo sul mercato occupazionale: Roubini e’ convinto
che il tasso di disoccupazione superera’ l’attuale 10%.
Insomma, "sembra di essere nel pieno della recessione anche
se tecnicamente non lo saremo".
D’altra parte il consulente economico della Casa Bianca, da
Davos, ha detto che la ripresa economica non nascondera’ una
"recessione umana".
Fonte
-
www.wallstreetitalia.com
Nella forte crescita Usa
sotto c’e’ il trucco
02/02/2010 -
di Miaeconomia ______________________________________________
La crescita del Pil Usa del 5,7%
nel quarto trimestre dello scorso anno, fa impressione. Non
a caso una progressione simile non avveniva dal lontano
2004. Un balzo che ha permesso all’economia americana di
chiudere il 2009 con un calo del prodotto interno lordo del
2,4%, la piu’ forte contrazione dell’economia dal 1946 ma
inferiore alle previsioni che ad inizio 2009 stimavano un
calo del Pil tra il 4% e il 5%.
Eppure non e’ tutto oro quello che luccica e la flessione di
Wall Street di venerdi’ dopo l’iniziale rialzo ha una
ragione precisa. Il pessimismo deriva da come nasce questa
insperata crescita del Pil. Del 5,7% di incremento il 3,3%
e’ dovuto alla crescita delle scorte di magazzino e solo il
2,4% e’ spiegato dall’incremento della domanda di consumo.
Non a caso la spesa per consumi a dicembre e’ salita dello
0,2% su base mensile, contro un tasso stimato dello 0,1%.
In consumi sono un pilastro dell’economia americana
rappresentando da soli i due terzi dell’intero prodotto
interno lordo. Mentre la ricostituzione delle scorte di
magazzino e’ un fatto occasionale, non porta effetti
positivi sull’occupazione a meno che non vi sia una attesa
di crescita delle vendite e successivamente dei consumi; ma
questa visione non fa parte dello scenario attuale.
L’amministrazione Obama ha sparato oramai tutte le sue
cartucce per favorire la crescita economica. Se il piano di
sostegno all’economia non produce l’effetto di fare risalire
l’occupazione e quindi i consumi privati delle famiglie
americane,
la ripresa attuale rischia di essere un semplice
rimbalzo e a fine 2010 o al piu’ tardi ad inizio 2011 ci
potrebbe essere il rischio del verificarsi dello scenario
del double dip, ovvero di una nuova ricaduta dell’economia
Usa in recessione.
La Cina alla guida
del mondo
02/02/2010 -
di Miaeconomia ______________________________________________
Lo scenario mondiale è cambiato a
una velocità che ha dell'incredibile, ormai la Cina e' la
seconda potenzia economica mondiale e entro 5-7 anni
prendera' il primo posto davanti agli States. Nel frattempo
Pechino sta gia' portando l'economia mondiale a uscire dalla
recessione, anzi, rischia perfino di vedere la sua ricchezza
crescere troppo in fretta tanto che il governo sta mettendo
a punto una politica monetaria più rigida.
E' il quadro disegnato dall'Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo, che mette assieme le economie
piu' avanzate del mondo.
Il punto e' pero' un altro, avverte l'Ocse, la Cina sta
crescendo a ritmi folli ma allo stesso tempo non ha messo in
campo nessuna seria strategia di riforme sociali, con una
spesa pubblica piu' attenta alle esigenze della popolazione.
Per fare un esempio, il debito pubblico complessivo degli
stati membri ormai e' al 100% del Prodotto interno lordo, la
Cina e' impegnata sul fronte della spesa globale appena per
il 21% del Pil e le recenti misure pubbliche di stimolo
all'economia stanno pesando appena per un altro 3%.
Del resto l'Ocse suggerisce una strategia più attenta in
termini sociali anche perche' potrebbe avere un importante
riflesso in termini di mercato interno cinese. Da qui
l'ipotesi di interventi per un welfare piu' esteso, sul
fronte assistenziale e previdenziale, espandendo i piani in
questo senso dalle grandi citta' al resto del paese.
Fonte
-
miaeconomia
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Naim:
«Manca il pilota di bordo per risolvere i problemi del
mondo»
03 Febbraio 2010 14:25 MILANO
– di
Il Sole 24 Ore
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«La ripresa dopo la crisi è andata
meglio del previsto, ma non si vede ancora una nuova
architettura finanziaria globale». Lo ha detto Moisés Naím,
economista e politico venezuelano, direttore di «Foreign
Policy» , durante un incontro-dibattito, organizzato dal
«Sole 24 Ore» e coordinato dal direttore Gianni Riotta.
«Oggi c'è un deficit
di governo mondiale o meglio una disparità tra la necessità
di un'azione collettiva - ha proseguito - per affrontare i
problemi globali e l'effettiva capacità di risposta. È un
po' come se non ci fosse il pilota di bordo o se si sia
addormentato o comunque non sia nelle condizioni di
operare».
Infatti «mentre i problemi aumentano e si moltiplicano, la
capacità di affrontarli sembra diminuire. Sono pochi
a credere che l'Onu o altri organismi multilaterali sappiano
quello che stanno facendo o possiedano le risorse necessarie
per agire con efficacia.
Anche le grandi
potenze sembrano paralizzate. La sconfitta di
Copenhagen è un sintomo di un mondo che è costretto ad agire
congiuntamente in molti ambiti, ma che non è in grado di
farlo. La tragedia di Haiti è il simbolo di altre emergenze
per cui, assente qualcuno che assuma le responsabilità, la
solidarietà mondiale produce confusione a causa del mancato
coordinamento, e genera morti che avrebbero potuto essere
salvati». Piuttosto Naím cerca di scrutare quali sono
"segnali deboli", cioè quali potranno essere i nuovi
possibili attori dello scenario internazionale.
Il direttore di «Foreign
Policy», nonché editorialista del «Sole 24 Ore» Moisés Naím
ha osservato tuttavia come le potenzialità di cooperazione
fra Paesi, di coinvolgimento diretto in realtà lontane, non
sia mai stata tanto grande: «Tuttavia al momento
rimane questa incapacità di offrire una risposta coerente e
armonizzata a livello globale e temo che ancora una volta si
perderà l'opportunità di riformare il mondo della finanza.
Certo la legge
Volcker porterà mutamenti, anche importanti, ma quanti
operano nel sistema finanziario ombra continueranno a
operare e prosperare. E voglio ricordare che prima della
crisi questa finanza ombra era ben superiore a quella
ufficiale. Ci sarà una corsa a sfruttare le
asimmetrie nelle regole fra i vari paesi e in molti si
arricchiranno grazie a questi meccanismi».
All'orizzonte Naím
vede anche altri elementi di preoccupazione e due di questi
riguardano la Cina che «da un lato sta diventando una
superpotenza mondiale, ma se si esce un po' da Pechino e ci
si avventura per due ore di treno nella campagna, allora ci
si ritrova in pieno Medio Evo. È un gigante con larghe
sacche di povertà - ha indicato - e quello che più preoccupa
è la rivalità con un altro paese in condizioni simili,
l'India. Credo che fra questi due Stati vi sia il rischio
potenziale di un conflitto, che deve essere tenuto sotto
stretta osservazione». La Cina preoccupa Naím anche per i
rapporti con l'Occidente.
«Non vorrei che si
stabilisse una regola costante del "rischio del doppio
dieci": 10% di crescita in Cina e 10% di disoccupazione
negli Stati Uniti - ha proseguito il direttore di «Foreign
Policy» - perché se così fosse, e se si arrivasse a credere
che un fattore é il risultato dell'altro, allora le
conseguenze potrebbero essere molto gravi». Per
contro, ha ricordato Naím avviandosi alla conclusione del
dibattito, «proprio in Asia troviamo che i giovani, ma più
ancora le giovani donne - che hanno un lavoro - hanno
aspettative crescenti, cioè si aspettano di poter
raggiungere un livello di vita più elevato rispetto alla
generazione dei loro genitori», esattamente come capitò in
Europa nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale».
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2010/02/Moises-Naim-riotta-diretta-video-3-feb.shtml?uuid=941685ae-1099-11df-a809-c23ba46922d2&DocRulesView=Libero
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Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Tragedia
greca: meglio che
Atene esca dall'€uro
08 Febbraio 2010 02:42 NEW YORK
– di *Luca Ciarrocca
*Luca
Ciarrocca e' il direttore e fondatore di Wall Street Italia.
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Sono ore critiche
per la Grecia. I mercati si aspettano qualche scossone
violento. Ma Jurgen Stark, uno dei tedeschi di punta della
BCE, dice che i mercati "rimarranno delusi" se pensano che
altri pagheranno per salvare Atene, sola responsabile del
proprio disastro. E il capo della Bundesbank, Axel Weber, ha
aggiunto che sarebbe "politicamente impossibile" chiedere ai
contribuenti europei di andare al salvataggio di un paese
con le mani bucate. Attenzione, se e' vero che i
tedeschi tirano le fila dell'euro, bisogna anche sappiate
che il settimanale Die Welt ha chiesto gia' il ritiro della
Grecia dalla moneta unica.
Per la terza volta
in 18 mesi, dunque, il sistema finanziario globale rischia
di andare fuori controllo. Questa "tragedia greca" si
sta consumando mentre cresce il volume di capitali in fuga
dal paese nostro vicino di mediterraneo. Ambrose
Evans-Pritchard sul Telegraph parla di "improvviso ritiro"
di capitali tedeschi ed asiatici dalle nazioni del Club Med
(quelle che gli americani chiamano con l'acronimo
spregiativo P.I.I.G.S.).
Secondo Barclays Capital il debito estero netto della Grecia
ammonta all'87% del Pil, o €208 miliardi. La Spagna e' messa
perfino peggio, al 91% (€950 miliardi), il Portogallo batte
tutti in negativo con il 108% (€177 miliardi). L'Irlanda e'
al 68% (€123 miliardi), mentre l'Italia in percentuale sta
meglio di quanto si pensasse (23%) ma in valore assoluto
c'e' poco da stare allegri, con €347 miliardi. Aggiungendo
le nazioni dell'Est Europa, la bolla del debito UE supera di
gran lunga il tanto deprecato deficit degli Stati Uniti,
visto che sorpassa in totale i 2 trilioni di euro.
Insomma mentre lo
specchio della crisi e' l'euro che continua a perdere
terreno nei confronti del dollaro, il rischio e' questo sia
il primo test serio per la tenuta dell'Unione Europea.
Finira' come il Messico o l'Asia nel 1998 o l'Argentina?
Voci che rimbalzano dalle varie capitali europee parlano di
un "eurobond" pronto a un'emissione di emergenza per
consentire ad Atene di raccogliere denaro sufficiente a
salvarsi, evitando allo stesso tempo l'effetto domino o il
contagio agli altri paesi deboli della catena.
La facciata come al
solito e' imbellettata di dichiarazioni evasive e ottimismo
ostentato. "I membri europei del G7 hanno detto alle loro
controparti che i problemi di bilancio della Grecia non sono
di pertinenza del Fondo Monetario Internazionale", ha
dichiarato nel weekend il ministro delle Finanze della
Germania, Wolfgang Schaeuble. Il quale, alla fine del
meeting del G7 a Iqaluit ha spiegato: "non ci sono dubbi"
sul fatto che "i paesi membri dell'euro-zona si oppongono a
qualsiasi coinvolgimento esterno per aiutare la Grecia a
risolvere i propri problemi". "Noi abbiamo con forza, e all'unanimita'
- ha aggiunto Schaeuble - rifiutato di discutere
qualsivoglia problema interno". E per essere ancora piu'
chiaro, il ministro ha buttato li' un paragone poco gradito
dal mercato (anche perche' concettualmente sbagliato):
"L'Europa non discute i problemi della Grecia cosi' come gli
Stati Uniti non discutono i problemi della California".
Nel frattempo,
ricordando che nel pieno della crisi finanziaria
dell'ottobre 2008 in alcuni casi ci furono fughe degli
investitori e depositanti da singoli istituti di credito in
difficilta' (Northern Rock in Gran Bretagna e Indymac negli
Stati Uniti) adesso si potrebbe verificare una situazione di
"fuga dai paesi", visto che le turbolenze non
riguardano tanto il sistema bancario/finanziario, ma
coinvolgono in pieno il livello piu' alto di questo
meccanismo degenerato, cioe' i debiti sovrani degli
stati/nazione.
L'inglese The Guardian (ovviamente chi e' fuori dall'euro
non puo' essere imparziale) conferma l'assunto riportando
oggi che gli "investitori hanno fatto uscire dalla Grecia la
stupefacente cifra di €8-10 miliardi di euro da quando la
crisi ha cominciato a rivelarsi lo scorso novembre" (A
staggering €8bn-€10bn (£7bn-£8.7bn) may have been taken out
of Greece by private investors since it became engulfed by
economic turmoil in November), fuga di capitali che si e'
intensificata dal momento in cui il governo di Atene per
evitare il default ha annunciato un aumento delle tasse
sulle proprieta' immobiliari e una stretta nella lotta
all'evasione fiscale.
La Grecia somiglia molto all'Italia, ahinoi, in cui troppa
gente non paga le imposte che dovrebbe pagare, nonostante
gli alti redditi guadagnati. "La Grecia ha molta gente ricca
che non viene tassata in modo appropriato e questo per via
della forte evasione fiscale", ha detto al quotidiano
Observer il ministro delle Finanze greco Giorgos
Papaconstantinou.
"Se si guarda ai numeri reali, si vede che il numero di
persone che dichiarano sopra i €100,000 euro l'anno e' circa
15.000", ha aggiunto il ministro. "E io non penso che
nessuno in questo paese possa credere che ci sono solo
15.000 greci che guadagnano €100,000 euro l'anno". In
Italia, stando ai dati piu' recenti, con una popolazione che
e' oltre 5 volte quella greca e un Pil 6 volte piu' alto (la
Grecia ha il 2,5% del Pil UE, l'Italia il 13%) ci sono
appena 17.000 italiani che dichiarano un reddito di €200,000
euro l'anno e oltre.
Fisco a parte, sara' meglio per tutti - a cominciare dal
collega di Giorgos Papaconstantinou, Giulio Tremonti -
seguire attentamente come si sviluppa nei prossimi giorni
questa crisi finanziaria ellenica gia' soprannominata dell'ouzo.
Cerchiamo di capire dove non andare a parare.
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Fonte -
www.wallstreetitalia.com
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Mercati del credito 10
Febbraio 2010 – euforia da salvataggio
Wednesday, 10 February, 2010 at
8:29 -
di John Christian Falkenberg ______________________________________________
Mercati del credito in forte
rialzo dopo le voci di un piano tedesco per il salvataggio
della Grecia.
A mercati quasi chiusi sono emerse voci di un piano per
fornire una garanzia sul debito ellenico da parte della
Repubblica Federale tedesca. Non vi sono ancora notizie
ufficiali, mentre un portavoce del governo di Berlino ha
smentito la presenza di un piano ufficiale, ma è ormai
chiaro come la prospettiva di un salvataggio in grande stile
sia ormai all’orizzonte. Oltre alla necessità di risparmiare
all’area euro il test del fallimento di uno stato sovrano. A
questo si aggiunge la preoccupazione per le possibili
perdite per le banche tedesche in caso di un default: la
sola esposizione per il finanziamento del commercio è di
circa 33 miliardi di dollari, a cui si aggiungerebbe
l’esposizione delle banche statali (Landesbanken). Le banche
a partecipazione statale avrebbero acquistato ingenti
quantitativi di titoli di Stato greci ed avrebbero venduto
protezione sul CDS della Grecia per miliardi di euro,
ribadendo la propria reputazione per pessimi investimenti ad
alto rischio già emersa durante la crisi dei subprime.
Ancora nessuna notizia dal governo francese: le banche
transalpine sono ancora più esposte di quelle tedesche (si
parla di 47 miliardi), ma Parigi sembra intenzionata per ora
a fare come sempre: lasciar pagare il conto a Berlino,
limitandosi alla retorica.
Itraxx S12 Levels Nota: Gli indici di credito sono quotati
in spread (rendimento), come i tassi d’interesse. Un segno
negativo equivale ad un miglioramento delle valutazioni del
mercato, equivalente ad una salita degli indici di Borsa. Un
cambiamento positivo è un segnale di peggioramento delle
condizioni, equivalente al calo di un indice di Borsa.
Fonte
-
Macromonitor
In America latina
arriva il bel tempo
10-02-10 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
Le nubi sul cielo dell’America
latina sono passeggere. A dirlo, sono gli analisti, secondo
cui l’andamento dell’indice Msci della regione nell’ultimo
mese (-9% fino all’8 febbraio e calcolato in euro) non è
foriero di tempeste sull’area che, nel 2009, aveva
guadagnato quasi il 92%.
A pesare sull’andamento del Sudamerica sono state (oltre
alle perplessità sulla tenuta di una ripresa globale che ha
fatto preoccupare gli investitori spingendoli verso asset
più sicuri) le considerazioni di alcuni organismi
internazionali. Su tutte, l’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e la Commissione
economica Onu per l’America latina e i Caraibi, secondo cui
l’area sarebbe andata incontro a un rallentamento della
crescita del 2% l’anno scorso. Le stime per il 2010, parlano
di una progressione del 4%, più forte di quella dei mercati
sviluppati, ma più debole, ad esempio, di quella asiatica. “Anche se non è paragonabile al
+5% degli anni scorsi, ci sono un mucchio di ragioni per essere
ottimisti”, spiega uno studio di Knowledge-Whorton, società di
analisi che fa capo all’Università della Pennsylvania. La prima
è la vitalità che stanno dimostrando i Paesi della zona. Il
Brasile, ad esempio, ha intenzione di investire 20 miliardi di
real (circa 8 miliardi di euro), per rilanciare la compagnia
telefonica Telebra, di cui è azionista insieme agli spagnoli di
Telefonica. L’obiettivo del governo guidato da Luiz Inacio Lula
è quello di fare concorrenza nella banda larga agli operatori
privati soprattutto sul fronte dei prezzi. Anche l’Ecuador vuole
un maggiore controllo sui servizi essenziali. L’esecutivo
guidato dal Presidente Rafael Correa, infatti, ha intenzione di
acquistare un impianto di gas naturale da Noble Energy.
“All’apparenza si tratta di manovre che si muovono in senso
contrario al libero mercato”, continua lo studio. “In realtà, a
differenza del passato, i Paesi sudamericani non hanno scelto la
strada della nazionalizzazione, ma si propongono come normali
attori di una compravendita”. Novità sono attese anche dal
Cile, dove si è appena insediato il governo guidato da Sebastian
Pinera. Gli occhi della comunità internazionale sono puntati su
Felipe Larrain, il ministro delle Finanze che entrerà in carica
il mese prossimo, che ha promesso di dare una nuova spinta
all’economia del Paese e di creare un milione di nuovi posti di
lavoro. Secondo gli ultimi dati, il Pil cileno a dicembre è
cresciuto del 3,9% rispetto a novembre. Si tratta del secondo
mese al rialzo dall’ottobre del 2008. Il Paese, intanto, un
obiettivo l’ha già raggiunto: a gennaio è diventato il primo
stato sudamericano ad entrare nell’Ocse.
Un comparto da tenere d’occhio in America latina, secondo gli
analisti, è quello bancario. “Gli istituti della regione hanno
resistito alla crisi mondiale come pochi altri”, spiega uno
studio della società di consulenza Oxford Analytica. “Hanno
continuato a fornire prestiti alle aziende grazie ai depositi e
sono riusciti ad evitare il contagio degli strumenti tossici che
hanno avvelenato i Paesi più sviluppati. Per questo, anche alla
luce di una crescita – che seppur rallentata ci sarà – ci
aspettiamo un miglioramento dei conti di almeno il 10% per molte
banche dell’area”.
Fonte
-
www.morningstar.it
GRECIA & EUROPA: LE
DURE REPLICHE DELLA STORIA
11 Febbraio 2010 17:24 NEW YORK -
di Luca Ciarrocca
Luca Ciarrocca
e' il direttore e fondatore di Wall Street Italia. ______________________________________________
Che ci fosse la necessita' di un
"annuncio" per non far saltare Grecia ed euro era evidente
da vari giorni - nonostante le smentite ufficiali - ma il
mercato certamente si aspetta al piu' presto tutti i
dettagli sulle modalita' del salvataggio: garanzie,
prestiti, utilizzo o meno del Fmi, cifre sul tavolo. I
dettagli saranno rivelati all'Econfin di lunedi', dicono a
Bruxelles. Siamo scettici ma vedremo. Per adesso possiamo
affermare che il piano di intervento per salvare la Grecia
e' fiacco, debole, confuso, generico. Mentre la speculazione
rimane all'attacco con potenti armi a disposizione.
Germania e Francia,
maggiormente coinvolte per l'esposizione delle proprie
banche ad Atene, hanno mantenuto la leadership assoluta
durante i frenetici negoziati. E' evidente l'intento di
Merkel e Sarkozy di voler dare l'impressione ai propri
cittadini che non sara' utilizzato denaro dei contribuenti
per risolvere questa "tragedia greca". La
piazza - il pubblico - sono caldi ovunque non per
irrazionalita' o anarchismo ma per i morsi della crisi
economica. I cittadini sono assolutamente insofferenti ormai
per le tattiche globali di banche e banchieri, supportate da
salvataggi strumentali al mantenimento del potere (lo status
quo e' messo a repentaglio da nuovi equilibri) grazie a
enormi quantita' di denaro pubblico sperperate ad uso e
consumo di elite politiche, mentre l'economia personale di
ciascuno, di ogni famiglia europea, soffre ancora in modo
vistoso per crisi e recessione.
Ecco perche' i
dettagli monetari/tecnici sul piano di salvataggio di Atene
non sono ancora noti. La verita' e' che Bce e Unione Europea
non sanno come affrontare e risolvere una situazione da
"economia di guerra" molto simile, se non piu' pericolosa, a
quella che l'America affronto' e risolse nelle drammatiche
giornate dell'ottobre 2008, con il varo del piu' poderoso
salvataggio finanziario della storia (altro
che "Piano Marshall" nel 1948...) per evitare un collasso
epocale.
Eppure e' francamente inaccettabile che non si sappia nulla.
Anche se si capisce il perche': l'Europa non sara' mai un'entita'
politica ne' militare al pari di Stati Uniti e Cina e stando
cosi' le cose e' destinata a rimanere soltanto un ambizioso
palcoscenico di facciata. Sembra che i ministri delle
Finanze UE si siano accordati (unanimita' a 27, ne siamo
proprio sicuri?) per non chiedere aiuti al Fondo Monetario
Internazionale (protesterebbero i cittadini americani che ne
sono i maggiori contribuenti). Ma allora, chi mettera' i
soldi per risolvere la crisi dell'ouzo?
La Grecia e' sotto attacco perche' ha un deficit al 13% del
Pil; bene, ma che senso ha, a questo punto, quel parametro
del 3% fissato dal Trattato di Maastricht? Il debito
pubblico greco e' al 125% del Pil (quello dell'Italia al
118%) mentre le griglie europee parlano di un limite massimo
del 60%. Allora: rivediamo tutti gli schemi e regole UE,
oppure preferiamo salvare quei paesi "deboli" del Club Med
oggi viziati e "drogati" dal loro finto benessere? Diciamo
l'ovvio: sara' impossibile ottenere dalla Grecia e dagli
altri stati P.I.I.G.S. il rientro nei parametri entro tempi
rispettabili. Per questo l'euro vale oggi tanto quanto
valgono i fondamentali del piu' tenue anello della catena,
in questo momento la Grecia. Ogni catena si spezza sul suo
link debole anche se gli altri anelli sono fatti di titanio
indistruttibile. Quindi con l'annuncio odierno dalla UE il
problema greco e' risolto? No. Crediamo quindi ci pensera'
il mercato finanziario a smascherare l'ipocrisia dei nostri
burocrati europei, nelle settimane che verranno. Fonte
-
www.wallstreetitalia.com
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Nel
2040 la Cina sarà un
paese di super ricchi
15 Febbraio 2010 11:29 MILANO
– di Robert Fogel
Robert Fogel è
direttore del Center for Population Economics alla
University of Chicago Booth School of Business, e ha
ricevuto nel 1993 il Nobel Memorial Prize in Economia.
________________________________________
Nel 2040 l'economia cinese raggiungerà un giro d'affari di
123.000 miliardi di dollari, più o meno il triplo della
produttività economica complessiva dell'intero pianeta nel
2000. Il reddito procapite in Cina toccherà gli 85.000
dollari, più del doppio di quanto si prevede per l'Unione
Europea, e una cifra di gran lunga superiore a quella di
India e Giappone. In altre parole, l'abitante medio di una
metropoli cinese vivrà due volte meglio del francese medio
quando la Cina passerà dall'essere stata un Paese povero
ancora nel 2000 a un paese super-ricco nel 2040. Anche se
non sorpasserà secondo le mie previsioni la ricchezza
procapite degli Stati Uniti, tra trent'anni la quota di
Prodotto Interno Lordo globale della Cina – 40 per cento –
renderà al confronto minuscola quella degli Stati Uniti (14
per cento) e dell'Unione Europea (5 per cento). La Cina,
insomma, apparirà l'egemonia economica dominante.
La maggior parte di ciò che si dice in merito all'ascesa
economica della Cina prospetta informazioni generali, vaghe
o anche soltanto minacciose, ma di solito sottovaluta
fortemente la portata di tale ascesa, ciò che essa implica e
la velocità con la quale essa si avvicina. (Per esempio, uno
studio recente del Carnegie Endowment for International
Peace prevede che entro il 2050 l'economia cinese sarà
superiore a quella degli Stati Uniti appena del 20 per
cento). Simili previsioni mancano di tenere in giusto conto
le forze che sono al lavoro dietro al recente successo della
Cina o di comprendere fino in fondo in che modo questi trend
plasmeranno il futuro. Gli stessi dati economici cinesi per
taluni aspetti di fatto sottostimano la produttività
economica.
La stessa cosa accade con il declino relativo di un'Europa
afflitta da una fertilità in calo nel momento stesso in cui
la sua epoca di influenza economica globale si avvicina alla
propria fine. Anche qui, la traiettoria sarà più repentina e
brusca di quanto emerge da molti rapporti. Il basso tasso di
natalità in Europa e il suo consumismo così particolare
implicano che il suo contributo al Pil globale crollerà a un
quarto del suo share attuale entro i prossimi 30 anni. A
quel punto l'insieme delle economie dei primi 15 Paesi
dell'Unione Europea arriverà a essere un ottavo di quella
cinese.
Questo è il futuro che si prospetta tra una generazione, ed
è molto vicino, più di quello che si possa pensare. Di
preciso che cosa fa sì che la Cina abbia imboccato una
strada così proficua?
Il primo fattore cruciale è quello meno spesso preso in
considerazione: l' enorme investimento che la Cina sta
facendo nel settore dell'istruzione. Lavoratori più istruiti
equivalgono a lavoratori più produttivi. (Come ho riferito
già altrove, dai dati relativi agli Stati Uniti emerge che i
lavoratori con un diploma universitario sono tre volti più
produttivi e un lavoratore con diploma di scuola superiore è
più produttivo di 1,8 volte rispetto a chi ha soltanto un
diploma di scuola media inferiore). In Cina le iscrizioni
alle scuole superiori e all'università stanno aumentando
enormemente grazie soprattutto a un significativo
investimento statale.
Nel 1998, l'allora presidente Jian Zemin incoraggiò un
aumento di massa della frequenza delle scuole superiori.
All'epoca soltanto 3,4 milioni di studenti frequentavano i
college e le università cinesi. La risposta alla sua
esortazione fu immediata: nell'arco di soli quattro anni le
iscrizioni alle scuole di secondo grado aumentarono del 165
per cento e il numero dei cinesi che studiavano all'estero
balzò al 152 per cento. Tra il 2000 e il 2004, le iscrizioni
alle università continuarono ad aumentare costantemente, di
circa il 50 per cento. Secondo i miei calcoli la Cina sarà
in grado di aumentare il suo tasso di iscrizione nelle
scuole di secondo grado portandolo più o meno al 100 per
cento e nel corso della prossima generazione le iscrizioni
all'università arriveranno a interessare il 50 per cento dei
giovani, il che basterebbe di per sé ad aumentare di oltre 6
punti percentuali il tasso di crescita economico annuale del
Paese. Questi obiettivi di un'educazione di più alto livello
non sono fuori dalla nostra portata: dovremmo ricordare che
soltanto negli ultimi venti anni del XX secolo parecchi
Paesi dell'Europa Occidentale videro balzare il tasso delle
iscrizioni nelle università dal 25 al 50 per cento.
Con un'istruzione superiore, non sono soltanto i singoli
lavoratori a far registrare un vero e proprio salto di
qualità della loro produttività: la stessa cosa vale per le
aziende, secondo una ricerca dell'economista Edwin Mansfield.
In uno studio risalente al 1971, Mansfield aveva appurato
che i presidenti delle aziende che avevano precocemente
adottato le nuove tecnologie più complesse erano mediamente
più giovani e meglio istruiti dei capi di aziende più lente
ad adeguarsi ai processi di innovazione.
Il secondo elemento che molti non tengono nella debita
considerazione allorché cercano di eseguire proiezioni per
l'economia cinese è l'inarrestabile ruolo del settore
agricolo. Quando ragioniamo sul futuro, infatti, tendiamo a
immaginare i grattacieli di Shanghai e le fabbriche del
Guangdong, mentre trascuriamo e non teniamo granché in
considerazione i cambiamenti in atto nelle campagne della
Cina che le hanno trasformate in un vero e proprio motore
economico inarrestabile. Analizzando la crescita economica,
quindi, è opportuno distinguere l'economia in tre settori:
agricoltura, servizi e industria. Nel quarto di secolo
trascorso dal 1978 al 2003, la crescita della produttività
della manodopera in Cina è stata alta in tutti e tre questi
settori, sfiorando la media del 6 per cento circa su base
annua. Il livello di produttività per lavoratore è stato più
alto nel settore industriale e dei servizi e questi sono
anche i settori ai quali si sono prestate maggiore
attenzione e analisi. (Io calcolo che il rapido processo di
urbanizzazione in Cina, che sposta i lavoratori verso le
industrie e nei servizi, abbia contribuito per circa 3 punti
percentuali al tasso di crescita nazionale annuale). In ogni
caso, la produttività è in aumento anche per coloro che sono
rimasti nelle aree rurali: nel 2009 circa il 55 per cento
della popolazione cinese - pari a ben 700 milioni di persone
- viveva ancora nelle campagne. A questo mastodontico
settore rurale, che perdurerà quanto meno per altri trenta
anni, è riconducibile circa un terzo dell'odierna crescita
economica cinese.
Terzo elemento: benché sia un ritornello più volte ripetuto
che i dati cinesi sono inesatti o gonfiati di proposito in
modo cruciale, gli esperti cinesi di statistica potrebbero
benissimo sottostimare il progresso economico. Ciò è tanto
più vero per il settore dei servizi, perché le piccole
aziende spesso non riportano al governo le cifre reali e i
funzionari cinesi spesso non calcolano adeguatamente le
migliorie nella qualità dei prodotti. Negli Stati Uniti come
in Cina, le stime ufficiali del Pil sottovalutano
notevolmente la crescita nazionale se non tengono conto dei
miglioramenti in servizi di importanza fondamentale come
l'istruzione e l'assistenza sanitaria. (La maggior parte dei
grandi progressi in questi ambiti non è conteggiata in pieno
nel Pil, perché i valori di questi settori si misurano in
input più che in output. Un'ora di lavoro di un medico, per
esempio, non è considerata di maggior qualità rispetto
all'ora di lavoro di un medico prima dell'avvento degli
antibiotici o della chirurgia moderna). Altri Paesi hanno
problemi di contabilità nazionale simili, ma la rapida
crescita del settore dei servizi cinesi rende la
sottovalutazione ancora più ragguardevole.
Quarto punto, per alcuni molto sorprendente: il sistema
politico cinese non è come si pensa che sia. Benché
osservatori esterni spesso deducano che sia Pechino al
timone del Paese, la maggior parte delle riforme economiche,
incluse quelle di maggior successo, nascono dal basso,
altrove, e sono di norma sorvegliate a livello locale.
Benché di sicuro la Cina non possa dirsi una democrazia
aperta, negli stadi più alti della politica ci sono critiche
e c'è dialogo, più di quanto molti possano presumere. Ordini
incontrollati possono ovviamente condurre al disastro, ma
c'è una ragione precisa per la quale Pechino ha evitato di
ripetere negli ultimi anni il Grande Balzo in Avanti.
Per esempio, c'è un convegno annuale di economisti cinesi,
denominato Associazione degli economisti cinesi, al quale ho
preso spesso parte io stesso. Vi partecipano persone che
sono molto critiche nei confronti del governo cinese, e lo
fanno apertamente. Naturalmente, questi individui non
grideranno mai "Abbasso Hu Jintao", ma nondimeno faranno
presente che le ultime decisioni prese dal ministero delle
Finanze, per esempio, sono sbagliate o destano
preoccupazione in relazione alla proposta di ritocco dei
prezzi dell'energia e del carbone, oppure richiamano
l'attenzione generale su temi pertinenti all'onestà. Alcuni
arrivano perfino a pubblicare lettere critiche su un
quotidiano di Pechino. A quel punto capita anche che il
ministro delle Finanze cinese li chiami e comunichi loro che
vorrebbe organizzare un vertice per approfondire il loro
punto di vista. Sono in molti a non essere consapevoli di
questo andirivieni a Pechino. Da questo punto di vista, la
pianificazione dell'economia cinese è diventata molto più
reattiva e aperta alle nuove idee di quanto non fosse in
passato.
Infine, la gente non dà sufficiente credito alle tendenze
consumistiche a lungo represse della Cina. Per molti
aspetti, la Cina è il Paese più capitalista al mondo, in
questo periodo. Nelle grandi città cinesi, gli standard di
vita e il reddito pro-capite sono al livello dei Paesi che
la Banca Mondiale reputa di "reddito medio-alto", in ogni
caso più alto – per fare un esempio – di quelli della
Repubblica Ceca. In queste città vi è già un alto standard
di vita e anche accanto alla decantata propensione dei
cinesi a risparmiare, vi è una chiara ed evidente
propensione a comperare abbigliamento, articoli elettronici,
fast food, automobili, tutti articoli che offrono una
visione fugace del futuro della Cina. In effetti, il governo
è giunto alla conclusione che aumentare i consumi domestici
è di vitale importanza per l'economia cinese, e molteplici
politiche di incentivi mirano ad aumentare il desiderio
consumistico dei cinesi per indurli a fare acquisti.
E l'Europa? L'Europa – e mi riferisco ai 15 primi Paesi
dell'Ue – deve far fronte alla duplice sfida della cultura e
della demografia, e il suo futuro economico pare gravato da
un mix di abitudini riproduttive e di moderazione dai
consumi.
Gli europei, naturalmente, non mangeranno erba nel 2040. Il
loro declino economico nei prossimi trenta anni sarà
relativo, non assoluto, in quanto i progressi tecnologici e
altri fattori dovrebbero consentire alla produttività della
manodopera europea nel suo complesso di continuare a
migliorare al ritmo dell'1,8 per cento annuo. Eppure, il
loro contributo in percentuale al Pil globale precipiterà,
restringendosi nell'arco di una sola generazione di ben 4
volte, e passando dal 21 al 5 per cento.
La demografia è il primo fattore chiave: la popolazione dei
Paesi europei occidentali sta invecchiando rapidamente e
verosimilmente continuerà a farlo per svariati decenni. La
ragione principale è da ricercare nel fatto che le coppie
europee non mettono più al mondo un numero di figli
adeguato. Il tasso di fertilità complessivo in Europa per
oltre 34 anni è rimasto inferiore al livello necessario a
garantire il ricambio generazionale, secondo uno studio
risalente al 2005 di Rand Corp. Di conseguenza, la
percentuale di donne in età tale da avere figli calerà, nei
primi 15 Paesi dell'Unione, passando da circa il 50 per
cento nel 2000 (anche nel 1950 era del 50 per cento circa)
al 35 per cento nel 2040 secondo le proiezioni delle Nazioni
Unite. Ci troviamo pertanto di fronte a una duplice iattura:
non soltanto le donne in età riproduttiva hanno tassi di
fertilità fortemente ridotti, ma oltretutto la percentuale
di donne in età tale da poter avere figli scenderà
drasticamente. Entro il 2040, circa un terzo della
popolazione dell'Europa Occidentale potrebbe essere
ultrasessantacinquenne.
Perché si fanno meno bambini? Una delle ragioni principali è
che l'atteggiamento degli europei nei confronti del sesso è
cambiato drasticamente. Centocinquanta anni fa era
considerato peccato trovare il sesso qualcosa di piacevole e
l'unico scopo legittimo per farlo era a fini procreativi.
Oggi, invece, le giovani donne considerano il sesso alla
stregua di una qualsiasi altra attività ricreativa. Dietro
il trend della fertilità c'è dunque un enorme spostamento
culturale rispetto alla generazione che combatté nella
Seconda guerra mondiale, che si sposò giovane e diede vita
al grande baby boom degli anni 1945-1965. Il facile accesso
a mezzi contraccettivi, il diffondersi di pratiche sessuali
intese come "svago" ha implicato una forte riduzione della
popolazione in molti Paesi europei. Già nel 2000 il tasso
naturale di aumento della popolazione (il numero delle
nascite meno il numero delle morti) era già negativo in
Germania e in Italia. Nel 2040 è verosimile che l'aumento
naturale sarà negativo nei cinque Paesi europei più grandi,
a eccezione della Gran Bretagna.
Ma che c'è di male se ogni tanto gli europei si sollazzano
un po'? Beh, il divertimento ha le sue conseguenze. La
fertilità in calo spinge verso l'alto l'età della piena
cittadinanza, riducendo al contempo la percentuale della
popolazione facente parte della forza lavoro, e frenando
così la crescita. I cambiamenti demografici, oltretutto,
incidono e hanno un impatto sulle assunzioni e le promozioni
delle singole aziende, e non necessariamente per il meglio.
Se i più anziani restano aggrappati ai posti di lavoro
migliori ben oltre la soglia del pensionamento, i lavoratori
più giovani possono dover aspettare altri dieci anni, forse
anche di più, prima che venga il loro turno. E poiché i
lavoratori più giovani sono una risorsa preziosa di nuove
idee, rallentare l'ascesa ai vertici delle aziende della
nuova generazione può rallentare il passo delle
trasformazioni tecnologiche. (Se i tassi di fertilità
rimarranno bassi come sono stati, entro 50 anni la
popolazione italiana sarà dimezzata. Naturalmente i politici
fanno tutto ciò che è loro possibile fare e insieme alla
Santa Sede esortano le donne a procreare).
Su un altro versante, la cultura europea sconcerta gli
economisti. Gli abitanti dei Paesi europei ricchi non
lavorano di più per guadagnare di più e accumulare più beni.
La cultura europea, invece, continua a dare grande valore
alle lunghe vacanze, al pensionamento anticipato, a
settimane lavorative più brevi, invece di darlo al possesso
di maggiori beni materiali, quanto meno rispetto ad altri
Paesi del mondo sviluppato quali gli Stati Uniti. Da quanto
ho avuto modo di osservare io stesso, la maggior parte di
coloro che vivono nei Paesi dell'Europa occidentale pare
molto più soddisfatta di quello che già possiede, rispetto
agli americani, per esempio, e non aspira a possedere un
numero maggiore di televisori per nucleo famigliare.
Lasciamo perdere se ciò sia virtuoso o meno: passeggiare nei
Giardini del Lussemburgo a Parigi invece di andare da
Walmart a comperare un nuovo televisore a schermo piatto non
migliorerà la crescita del Pil dell'Unione Europea.
Naturalmente, anche la Cina deve affrontare i propri incubi
demografici, e gli scettici in effetti non mancano di
indicare i molti ostacoli che potrebbero deragliare il treno
cinese ad altissima velocità nei prossimi trenta anni: un
aumento delle ineguaglianze di reddito, possibili
insurrezioni e disordini sociali, dispute territoriali,
penuria di combustibile e di acqua, inquinamento ambientale
e un sistema bancario tuttora malsicuro. Benché ai critici
vada assegnato per lo meno un punto, queste preoccupazioni
non sono un segreto per i leader cinesi: negli ultimi anni
Pechino si è dimostrata alquanto esperta nell'affrontare i
problemi che ha deciso di affrontare. Inoltre, la Storia
pare muoversi nella direzione giusta per la Cina. La
controversia locale più turbolenta, quella riguardante la
sovranità di Taiwan, pare avviarsi ormai a una soluzione. E
in patria l'aumentata sensibilità da parte del governo per
l'opinione pubblica, unitamente a migliori standard di vita,
ha alimentato nella popolazione un livello di fiducia verso
il governo che, da quel che mi risulta, rende quanto mai
inverosimile l'eventualità di grossi tumulti politici.
L'Europa potrebbe ancora stupirci crescendo
considerevolmente più di quanto io abbia previsto? Pare
inverosimile, ma potrebbe anche capitare che gli europei
riducano le loro vacanze o sopprimano l'ora della siesta per
adottare un'etica più attaccata al lavoro, oppure che le
giovani donne e i loro partner si mettano maggiormente in
sintonia in relazione al sesso con le indicazioni del Papa e
non con quelle delle stelle del cinema. Tutto è possibile.
Ma non scommettiamoci. Gli europei paiono proprio ritenere
che il loro stile di vita sia assolutamente buono e da tempo
hanno rinunciato ai loro sogni di predominio sul mondo.
Certo, un'inaspettata invenzione tecnologica potrebbe sempre
cambiare radicalmente la situazione, anche se questo non è
quel genere di cose sul quale gli economisti possono basare
le loro previsioni.
Per l'Occidente, un concetto di mondo nel quale il centro di
gravità dell'economia mondiale è in Asia potrebbe essere
impensabile. Ma non sarebbe la prima volta. Come
sottolineano gli esperti sinologi, che godono di un'ottica
storica molto lunga, la Cina è stata la più grande potenza
economica al mondo per buona parte degli ultimi due
millenni. (Chris Patten, ultimo governatore britannico di
Hong Kong, ritiene che la Cina sia stata l'economia più
potente al mondo per 18 dei passati 20 secoli). Mentre
l'Europa procedeva a tentoni negli evi oscuri, combattendo
disastrose guerre di religione, la Cina godeva dei più alti
standard di vita al mondo. Oggi il concetto di una Cina in
ascesa – quanto meno agli occhi dei cinesi – è semplicemente
un ritorno allo status quo.
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Traduzione - Anna Bissanti |
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Fonte italiana -
Il Sole 24 Ore
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Martedì
16 Febbraio
2010 |
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Sabato
20 Febbraio
2010 |
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Martedì
23 Febbraio
2010 |
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La
Cina punta all'egemonia totale
18 Febbraio 2010 13:42 WASHINGTON
– di Federico Rampini
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Quando oggi Barack
Obama riceverà qui il Dalai Lama, nella Map Room della Casa
Bianca, Washington aspetterà col fiato sospeso la nuova
bordata di proteste da Pechino. Gli Stati Uniti si
chiederanno quale prezzo la Repubblica Popolare potrebbe far
pagare, per punire quell'omaggio al Tibet che considera
un'interferenza nella propria sovranità nazionale.
È un America nervosa
perché si scopre vulnerabile, assediata dalla grande rivale
asiatica, su fronti nuovi e insospettati: l'industria
e la finanza, certo, ma ora anche la ricerca scientifica, la
cultura, il "soft power" su cui si costruisce un'egemonia
globale. Lo sconvolgimento dei rapporti di forze parte
naturalmente dall'economia. Proprio alla vigilia dell'arrivo
del Dalai Lama si è appreso che Pechino ha "liquidato" una
parte dei suoi giganteschi investimenti in Buoni del Tesoro
degli Stati Uniti.
Commentando la
vendita record dei Treasury Bond, per 34 miliardi di dollari
(ne restano comunque 755 miliardi nelle casse della banca
centrale cinese) il Wall Street Journal si chiede con ansia
se sia "un segnale di sfiducia verso l'America". Che
umiliazione: il Tesoro degli Stati Uniti trattato come fosse
la Grecia, in balìa del giudizio dei cinesi. Più
probabilmente il disinvestimento di Pechino è una mossa
cautelativa. Il
premier cinese Wen Jiabao da mesi denuncia il rischio che
l'alto debito americano rilanci l'inflazione, e che
Washington rimborsi i cinesi con carta straccia.
Perciò Pechino
diversifica i suoi investimenti. Anziché Bot, compra
direttamente aziende americane. Il fondo sovrano del governo
di Pechino (China Investment Corporation) ha divulgato la
lista delle grandi imprese di cui è diventato azionista, per
ora di minoranza. C'è il meglio del capitalismo americano:
Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson
& Johnson.
Un altro segnale
enigmatico, alla vigilia dell'incontro tra Obama e il Dalai
Lama, è il nulla osta del governo cinese per l'attracco a
Hong Kong di una flotta di cinque navi militari americane,
guidate dalla portaerei ammiraglia Uss Nimitz. Orville
Schell, il direttore dell'Asia Society e l'esperto di Cina
più ascoltato da Hillary Clinton, commenta così: "Pechino
sta imparando a usare con l'America il bastone e la carota,
tiene Washington sulla corda, alterna minacce e blandizie".
Per una singolare
coincidenza, proprio in questi giorni di alta tensione
s'inaugura al China Institute di New York una grande mostra
su Confucio. È il filosofo dell'ottavo secolo avanti
Cristo di cui il regime cinese si "appropria" il pensiero
rivisitandolo, per farne il teorico di un moderno
paternalismo autoritario.
La mostra su
Confucio, così come tutto il China Institute, è
un'iniziativa di Stato finanziata dalla Repubblica Popolare.
"Confucius: his Life and Legacy" costa meno di una
partecipazione azionaria in Apple, ma segnala il nuovo
fronte della penetrazione cinese che si è aperto.
L'offensiva
culturale, sostenuta dalla potenza economica, sfida
l'Occidente anche sul terreno delle idee. Il mandarino ha
soppiantato lo spagnolo per la rapidità di diffusione come
prima lingua straniera nelle scuole americane. Quando
è uscita la notizia che il boom delle iscrizioni ai corsi di
cinese alle elementari è sussidiato generosamente da Pechino
(con borse di studio, formazione degli insegnanti, regali di
materiale didattico e audiovisivo) sul New York Times sono
apparse lettere di protesta dei genitori.
"È inaccettabile - ha scritto un padre allarmato - che la
politica scolastica degli Stati Uniti venga decisa da un
governo straniero". E quale governo. Certo non suscitano lo
stesso allarme i sussidi di Nicolas Sarkozy per lo studio
del francese all'estero. La promozione della civiltà cinese
non viene percepita dall'Occidente come un fenomeno
puramente culturale. Minxin Pei, ricercatore della
Fondazione Carnegie, ricorda che America e Cina sono divise
da "insormontabili differenze in termini di valori, sistemi
politici, visione dell'ordine internazionale, e interessi
geopolitici".
Quasi per un crudele
scherzo del destino, i finanziamenti della Repubblica
Popolare per lo studio del mandarino dilagano nelle scuole
americane proprio quando gli Stati Usa sull'orlo della
bancarotta (dalla California alla Florida) devono tagliare
gli stipendi agli insegnanti e ridurre gli orari delle
lezioni.
Martin Jacques, lo studioso britannico autore di un
libro-shock che vuole aprire gli occhi all'America ("When
China Rules the World": quando la Cina dominerà il mondo)
sostiene che questo è proprio uno degli effetti più
dirompenti della crisi economica dell'Occidente: "La Cina è
un modello di Stato che funziona.
D'ora in avanti il dibattito sul ruolo dello Stato nelle
società moderne non potrà più prescindere dall'esempio
cinese". Ian Buruma, un altro esperto di Estremo Oriente che
abbiamo intervistato per questa inchiesta, sottolinea che
"di fronte alla crisi delle liberaldemocrazie occidentali,
il fascino della Cina avanza anche in aree del mondo vicine
a noi".
Non passa giorno
senza che il raffronto con la Cina sia motivo di ansia e
frustrazione per la superpotenza leader. La settimana scorsa
Barack Obama ha finalmente firmato il via libera ai fondi
federali per avviare il progetto dell'alta velocità in
California e in Florida. Per il presidente doveva
essere un fiore all'occhiello, una di quelle grandi opere
infrastrutturali che aveva annunciato fin dal suo
insediamento.
Ma la Tav di Obama è
stata così liquidata l'indomani da un giornale "amico", il
New York Times: "Se tutto va bene, il primo treno ad alta
velocità comincerà il servizio nel 2014 fra Tampa e Orlando,
una tratta di sole 84 miglia. Ma a Capodanno i viaggiatori
cinesi hanno inaugurato il nuovo treno ad alta velocità, 664
miglia in tre ore, da Guangzhou a Wuhan. Entro il 2012 le
linee ad alta velocità in funzione saranno 42, tutta la Cina
sarà collegata". Un raffronto amaro. Tanto più se
viene fatto quando Washington è reduce da una "chiusura per
neve" di una settimana. La capitale federale della nazione
più ricca del pianeta, per penuria di spazzaneve, si è
arresa alle intemperie e ha smesso di funzionare per sette
giorni consecutivi. Nella gara tra due modelli di Stato, è
l'America che si ritrova in serie B.
Forse nessuno più di
Obama ne è consapevole. Per questo presidente il confronto
con la Cina è diventato una costante, il tema che ricorre
più spesso nei suoi discorsi. Obama cerca di spronare il suo
paese, come John Kennedy fece per la gara con l'Unione
sovietica nella conquista dello spazio dopo il sorpasso
dello Sputnik.
Usando la Cina come
"benchmark", come punto di riferimento, Obama spera di
rovesciare le umiliazioni in positivo, di trasformarle in
adrenalina, in altrettanti stimoli a riconquistare la
leadership. Avverte che "la Cina ci sta dando dei
punti anche sul terreno della Green Economy, produce più
pannelli solari e pale eoliche di noi". Gli esperti
energetici disegnano un quadro inquietante. In un futuro non
troppo lontano, l'America potrebbe scoprirsi due volte
dipendente: dal petrolio arabo e dalle tecnologie verdi
(pannelli fotovoltaici, batterie per auto elettriche) sempre
più made in China.
Ma l'establishment e
il sistema istituzionale americano sembrano intorpiditi,
incapaci di reagire alle frustate del presidente.
Dall'energia all'ambiente le riforme languono, bloccate da
veti politici e resistenze lobbistiche.
Di fronte
all'autoritarismo cinese la democrazia americana arranca.
Gli Stati Uniti perdono colpi nella ricerca scientifica,
penalizzata dai tagli di bilancio, mentre gli investimenti
cinesi in questo campo aumentano ogni anno a ritmi
vertiginosi, di due cifre percentuali. Dalle
università americane comincia un riflusso di talenti,
numerosi cervelli asiatici - cinesi e anche indiani -
tornano in patria attirati da nuove opportunità.
La gara tra America e Cina non lascia indifferenti gli
europei. Non è un caso se l'avvertimento più severo agli
americani oggi viene da Martin Jacques, un intellettuale
inglese, cittadino di un altro impero decaduto che dovette
cedere il suo primato. Noi occidentali, sostiene Jacques, ci
siamo illusi che la Cina a furia di modernizzarsi sarebbe
diventata sempre più simile a noi. La storia dimostra al
contrario che la diversità cinese è profonda, radicata,
irriducibile.
La mancanza di democrazia non è un handicap nel breve
termine: anche la maggior parte delle nazioni europee (e il
Giappone) governarono la modernizzazione e lo sviluppo
attraverso regimi autoritari. E l'egemonia cinese -
espandendosi dal denaro alla politica, dalla tecnica alla
cultura - può riproporre in forma moderna quella che fu
l'antica relazione tra l'Impero Celeste e i suoi vicini: un
"sistema tributario" di Stati vassalli, satelliti
ossequiosi.
 |
Fonte -
La Repubblica
|
La Fed alza i tassi,
al via la exit strategy
19/02/2010 -
di Miaeconomia ______________________________________________
La paura dei mercati
azionari ha del paradossale: se l'economia riparte allora la
banca centrale Usa - la Fed - puo' dire di avere compiuto la
sua missione e puo' iniziare a drenare tutta la massa di
denaro messa in circolazione per fronteggiare i momenti piu'
drammatici della crisi.
Ma uno dei motivi per cui le borse si stanno muovendo benino
e' anche (non solo) legata alla gigantesca massa di dollari
in circolazione. Cosi' ieri sera l'annuncio della Fed di
avere alzato il tasso di sconto di un quarto di punto (allo
0,75% dallo 0,5%) ha visto i future dopo la chiusura di Wall
Street annunciare un mercato azionario piuttosto teso.
Eppure la Fed ha
voluto subito chiarire che la mossa non comporta una nuova
politica monetaria e neanche una qualche novita' seria
sull'economia. Di fatto non ci crede nessuno.
Perche' intanto,
oltre a toccare il tasso di sconto, la Fed ha cosi' messo
mano al costo del denaro per le banche. E' vero, il tasso di
riferimento invece rimane a minimi da record, tra zero e
0,25% ma il costo del denaro per le banche e' stata per ora
un punto forte per aiutare il sistema finanziario.
Non a caso il
dollaro ha guadagnato subito altro terreno rispetto
all'euro, e allo stesso tempo si conferma che proprio l'exit
strategy e' partita.
Da meta' marzo, tanto per capire, finiranno alcuni programmi
pubblici di aiuto al sistema finanziario, mentre i tempi di
rientro dai prestiti legati alla speciale finestra di tasso
di sconto tornera' a essere overnight e non piu' certo lunga
28 giorni come sta accadendo ora. Insomma, la
normalizzazione sta partendo dagli Usa, sperando che non sia
troppo presto e troppo ottimistico.
Fonte
-
Miaeconomia
Cina e debito
muovono (o no) i mercati più della Fed
19 Febbraio 2010 20:25 MILANO -
di Giuseppe Chiellino ______________________________________________
Per i mercati
finanziari, alla fine, l'aumento del tasso di sconto Usa di
25 punti base da parte della Federal Reserve si è rivelato
«un non evento», pur essendo il primo rialzo dal dicembre
2008. È questo il verdetto al termine della seduta
delle borse europee mentre Wall Street ha ben digerito la
decisione e viaggia in territorio leggermente positivo.
Alessandro Fugnoli,
strategist di Kairos, la spiega a modo suo. «Non vorrei
essere drastico ma è come se un corteo di auto lanciato a
tutta velocità e a sirene spiegate, avesse spento le sirene
ma continuasse a correre alla stessa velocità: le politiche
monetarie della Federal Reserve restano espansive, non c'è
alcun dubbio, si stanno solo cominciando a eliminare gli
strumenti necessari per l'emergenza. Ma questo non vuol dire
normalizzazione».
Non a caso il
presidente della Fed di Atlanta, Dennis Lockhart, qualche
ora dopo l'annuncio della banca centrale americana ha
ricordato che «la ripresa economica americana resta
fragile», sottolineando che «l'aumento del tasso di sconto
non segnala una stretta della politica monetaria della Fed,
che resta accomodante». Concetto sottolineato anche
dal presidente della Federal Reserve di New York, William
Dudley. «Non c'è un irrigidimento della politica monetaria.
Abbiamo fatto solo un piccolissimo aggiustamento tecnico che
riflette il fatto che le banche non hanno più necessità di
fonti di finanziamento d'emergenza a basso costo», come
invece era accaduto durante la crisi.
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Fonte - XXX |
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Dopo la reazione piuttosto
«emotiva» della borsa di Tokyo, la prima a poter reagire, i
mercati hanno preso le distanze e hanno cominciato a ragionare:
«Quella dei listini giapponesi è la classica reazione di un
mercato lontano che fa fatica a decodificare i messaggi. Anche
il timing, al di fuori dalla riunione del Fomc - sottolinea
Fugnoli al Sole24Ore.com - va letto come la volontà della Fed di
dare al rialzo una connotazione esclusivamente tecnica e non
politica. L'Europa, e poi anche l'America, hanno riassorbito
subito il colpo».
Colpo che comunque nelle
prime ora c'è stato, soprattutto sul cambio con l'euro,
scivolato fino a quota 1,344 sul dollaro per poi risalire quasi
a 1,36, ben al di sopra del livello precedente alla mini-stretta
Usa. Certo il segnale è arrivato e dunque «malgrado le
rassicurazioni scritte e verbali della banca centrale americana
è inevitabile ipotizzare che i mercati - scrive Antonio Cesarano,
responsabile Market strategy di Mps Capital Services -
tenderanno ad incorporare nei prezzi uno scenario al rialzo dei
fed funds», l'altro strumento monetario della Riserva federale.
«Occorre tener presente che siamo comunque in un contesto
restrittivo. Quello della Fed è solo un piccolissimo passo,
ampiamente previsto e annunciato, a cui però ne seguiranno
altri, anch'essi previsti».
Per esempio, a marzo -
ricorda Cesarano - si chiuderanno le operazioni di
rifinanziamento a sei mesi della Bce e per tutto il 2010 non
sono previste operazioni a 12 mesi. Ma il fronte più caldo è
quello cinese: «Se l'inflazione, oggi all'1,25%, salirà sopra la
soglia del 2,25% che è il tasso di remunerazione dei depositi a
un anno in yuan, le autorità monetarie saranno costrette ad
alzare i rendimenti dei depositi con il conseguente effetto di
stretta sulla liquidità».
Secondo Fugnoli i tempi per un più consistente aumento dei tassi
negli Stati Uniti non saranno comunque rapidi. «Che i tassi
siano destinati a salire - afferma - è la previsione più facile
del mondo quando sono prossimi allo zero». Il nodo è quando:
«Non entro quest'anno - risponde secco lo strategist e
responsabile della newsletter Il rosso e il nero -. Come si può
pensare di alzare il costo del denaro quando negli Stati Uniti
c'è il 16-17% di disoccupati o sottoccupati?». In quest'ottica,
c'è chi tende quasi a considerare un «messaggio di ottimismo» la
mossa dell'istituto guidato da Ben Bernanke, un'attestazione di
fiducia nella capacità di ripresa dell'economia che però resta
tutta da dimostrare.
È
di oggi, del resto, il dato dell'inflazione di gennaio salita
dello 0,2% rispetto al mese precedente, ma con l'indice core (al
netto di alimentari ed energetici) diminuito dello 0,1%: è la
prima volta che accade dal 1982. Mps Capital Services ritiene
«che a partire da marzo i governi e le banche centrali
proveranno a "staccare la spina" degli aiuti drenando liquidità.
Noi riteniamo che la reazione del mercato sarà negativa e le
autorità politiche e monetarie dovranno fare una parziale marcia
indietro nella seconda parte dell'anno, quando - tanto per
citarne uno - verrà a scadenza il piano biennale cinese».
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
Trucchi, errori,
incompetenza
Se il dato economico è «falsato»
20 Febbraio 2010 10:54 MILANO -
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
«Nell'ultimo trimestre 2009 il
Pil Usa è cresciuto del 5,7 % contro l'0,1% di Eurolandia».
Quanti hanno realizzato questo paragone! Peccato che il dato
americano è annualizzato e il giusto confronto sia: 1,42%
per gli Stati Uniti e 0,1% per l'area euro.
Ancora: prima lettura, a inizio dicembre 2009, delle buste
paga americane di novembre: «Il calo è di 11.000 unità, un
trend che resta negativo». Peccato che, nella lettura di due
mesi dopo, il dato definitivo è: «Crescita di 64.000 unità».
Gli esempi di questo tipo potrebbero continuare per un bel
po'. Nel mondo dei numeri economici e finanziari, sempre più
vasto e complesso, le inesattezze , le revisioni e i
confronti non proprio ortodossi sono all'ordine del giorno.
Situazioni che gli esperti evitano senza troppi problemi ma
che, invece, ingannano il profano. Il sole24ore.com, senza
alcuna pretesa di completezza, ha voluto passarne in
rassegna alcune.
Quando l'indicazione flash non
c'azzecca
Così, ci sono dati il più possibile anticipati («il tempo è
denaro» di Paperone non è solo una battuta) che servono
all'industria e ai mercati. Numeri usati per i bugdet di
spesa o le strategie d'investimento che, però, sono spesso
oggetto di revisioni troppo ampie. Clamoroso il caso
dell'andamento del Pil a stelle e strisce sul quarto
trimestre 2008: la prima lettura flash indicava un calo del
3,6 per cento; il dato definitivo sentenziò un ribasso del
6,2 per cento. La domanda è spontanea: com'è stata possibile
una simile differenza? «Negli Usa - spiega Marco Valli,
economista di UniCredit - l'indicazione flash sul Pil è
anticipata rispetto all'Europa, dove la prima lettura
avviene 45 giorni dopo la fine del trimestre in
considerazione. Il dato flash si basa su numeri preliminari:
giocoforza, la sua revisione è inevitabile». A ben vedere,
però, non è solo questione di dati ancora incompleti.
Diversi esperti sottolineano che , in periodi di recessione,
i modelli di rilevazione funzionano con più difficoltà.
Reagiscono bene all'interno di un determinato "regime":
cioè, quando esiste un trend delineato che, seppure
caratterizzato dai cicli economici, vanta una tendenza di
fondo sul lungo periodo. In questo caso le serie storiche di
numeri permettono di definire la probabilità del verificarsi
di un evento. Al contrario se il regime cambia, come è
accaduto nella crisi, cogliere le variazioni diventa
difficile. C'è una novità all'interno della serie storica
che diventa "inattendibile".
In un simile scenario, per evitare clamorosi abbagli,
sarebbe utile offrire al lettore (soprattutto inesperto)
maggiori informazioni. «In effetti stressare maggiormente il
disclaimer - dice Valli - può essere corretto. Magari,
pensando a un'indicazione in cui viene spiegato con
chiarezza che si tratta di un numero preliminare». E non
solo. Si dovrebbero aggiungere due ulteriori precisazioni:
una forchetta all'interno del quale il numero probabilmente
si muoverà; e lo scenario macro-economico considerato più
probabile. Senza la paura di apparire non così puntuali:
l'economia è complessa; pensare di prevederne esattamente i
suoi sviluppi è utopia.
Quali dati comparabili?
Ma non sono solo i dati preliminari. L'utente inesperto deve
fare attenzione anche quando si confrontano tra loro numeri
che appaiono simili, e in realtà non lo sono. In Italia, per
esempio, le vendite al dettaglio sono espresse in valori
nominali; in Francia, invece, è pubblicato il numero reale,
cioè i volumi. Sul fronte dei prezzi al consumo, poi, negli
Stati Uniti viene fornito sia il dato destagionalizzato sia
non destagionalizzato. In Europa, invece, di solito solo
quello non destagionalizzato. Gli esperti, ovviamente,
conoscono bene queste situazioni ma molti cascano
nell'inghippo. «A ben vedere -tiene a precisare Anna
Grimaldi, economista di Intesa Sanpaolo - tra i vari stati
c'è una differenza nella realizzazione delle statitistiche.
Tuttavia non è tale da impedire i confronti: alla fine la
comparabilità, nei paesi industrializzati, è possibile con
un certo grado di accuratezza». Una considerazione
assolutamente condivisibile. E tuttavia, giornali, media,
agenzie specializzate hanno confrontato il Pil Usa (+5,7%)
del quarto trimestre 2009 contro l'0,1% di Eurolandia. Un
errore marchiano: il numero americano andava, infatti,
diviso per quattro (i trimestri dell'anno).
La normalizzazione del cambi
Nel rutilante mondo della finanza esistono anche
dimenticanze più piccole che, proprio perché minime, spesso
non vengono prese in considerazione. Così è il rapporto tra
le performance degli indici azionari e la moneta con cui si
fa l'investimento. Da inizio anno, per esempio, l'S&P500 ha
perso circa lo 0,4%; l'investitore europeo, verrebbe da
dire, è anche lui in rosso. Invece no: in seguito
all'apprezzamento del biglietto verde sulla divisa europea
di circa il 5,4%, l'andamento dell'indice americano in euro
(come indicato da Reuters) è di una crescita del 5 per
cento. Una "minimalia", ma chissà che qualche gestore non si
faccia bello di questa performance di fronte al
risparmiatore. Il
consensus di mercato
Un altro luogo del "mistero", ben conosciuto nelle sale
operative, è quello del consensus di mercato. In generale, si
tratta di sondaggi realizzati tra esperti del settore per
definire un valore medio tra le loro indicazioni su diversi
argomenti: dagli utili per azione stimati fino alle previsioni
sul rialzo dei tassi d'interesse. Agenzie autorevoli, come
Reuters o Bloomberg, ne pubblicano diversi e sono attendibili.
Capita spesso, però, di imbattersi in numeri di "consensus" che
non indicano né l'ampiezza del panel di riferimento, né la sua
composizione né chi li ha realizzati. Dovrebbero finire nel
cestino della carta straccia e, invece, vengono ripresi,
ricopiati, riutilizzati in articoli e commenti. Soprattutto in
Internet. Magari perché, con un'azienda che prevede profitti
bassi, una stima di consensus ancora minore permette di dire:
battute le stime di mercato.
Fidarsi del Dragone?
Fin qui l'incompetenza, la distrazione, gli errori (più o meno)
in buona fede. Esistono però, e la recente storia delle finanze
pubbliche di Atene ne è la riprova, anche casi in cui il trucco
è voluto. Nel primo semestre 2009, l'ufficio di statitisca di
Beijing aveva pubblicato il dato del Prodotto interno lordo
cinese pari a 13,99mila miliardi di yuan. Peccato che i numeri
annunciati dalle 31 province e municipalità, in cui il paese del
Dragone è suddiviso, indicavano un Pil totale di 15,38mila
miliardi di yuan. Una bella diferenza che, oltre la questione
della correttezza, implica problemi di efficienza e credibilità.
Anche perché potenze economiche come il paese del Dragone ormai
sono al centro del capitalismo moderno.
Di recente, (l'11 febbraio) Wall Street è stata influenzata
proprio dal newsflow in arrivo da Beijing: la scelta della banca
centrale cinese per un incremento dei coefficienti di riserva
delle banche (portato al 16%), nel tentativo di raffreddare il
boom del credito, ha fatto scendere gli indici. Un chiaro
segnale di come il Dragone sia ormai price sensitive. Ma price
sensitive su numeri truccati? Il rischio esiste. «L'economia
cinese - spiega Federico Palazzari, fondatore della boutique
d'affari Palazzari&Turries, da anni attivo nell'M&A del Far East
-, che se ne dica, è ancora chiusa, iper controllata, basata su
piani quinquennali di crescita». E quindi? «Quindi non può
stupire che le statistiche siano "piegate" agli interessi
nazionali. Da un lato, il tema è spesso quello di produrre
numero positivi ma non tali da creare timori agli occhi degli
occidentali; dall'altro, la statitistica è ad uso e consumo del
"marketing" nazionale. Questo lo si vede anche nelle operazioni
con le singole aziende». Cosa intende dire? «Capita spesso che
le autorità locali chiedano l'assunzione di centinaia di
lavoratori, indicando un forte tasso di disoccupazione. Quando,
solo un giorno prima, l'ufficio accanto pubblicava dati su un
mercato del lavoro in salute». Gli esperti, peraltro, conoscono
bene questo fenomeno: da 7 anni il tasso di disoccupazione,
nonostante i grandi cambiamenti avvenuti, oscilla sempre tra il
3,9% e il 4,3 per cento. Una variazione troppo limitata:
evidentemente i numeri non tornano. Così come non tornano nel
l'andamento del settore tessile: «In questo caso -afferma
Palazzari - abbiamo dati dopati dall'industria del falso. Una
produzione "ombra" che non salta fuori nelle statitistiche
nazionali».
Fonte
-
Il Sole 24 Ore
|
Una
rete di eurobond per i
conti di Atene
23 Febbraio 2010 11:17 NEW YORK
– di George Soros
________________________________________
Otmar Issing, uno
dei padri dell'euro, espone correttamente il principio
fondante della moneta unica. Nelle intenzioni – ha spiegato
Issing al Financial Times – l'euro avrebbe dovuto essere
un'unione monetaria ma non politica. Gli stati partecipanti
crearono una Banca centrale comune ma rifiutarono di cedere
a un'autorità comune il diritto di tassare i propri
cittadini. Questo principio fu inserito solennemente
nel Trattato di Maastricht e da allora è stato interpretato
con rigore dalla Corte costituzionale tedesca.
L'euro è stato
un'impresa unica e inusuale, e adesso è la sua praticabilità
a essere in discussione.
È evidente che c'è
una falla. Perché una valuta possa dirsi veramente tale
devono esserci una Banca centrale e un Tesoro. Non è
necessario che il Tesoro gestisca l'imposizione fiscale
quotidiana dei cittadini, ma dev'essere disponibile nei
momenti di crisi.
Quando il sistema
finanziario è a rischio tracollo, la Banca centrale può
fornire la liquidità, ma solo un Tesoro può affrontare i
problemi di solvibilità. Questo è un fatto ben
noto, che tutti quelli coinvolti nella creazione dell'euro
avrebbero dovuto avere ben chiaro. Issing ammette che lui
era fra quelli convinti che «avviare un'unione monetaria
senza aver prima creato un'unione politica equivaleva a
mettere il carro davanti ai buoi».
L'Unione europea è
stata creata mettendo il carro davanti ai buoi, fissando
traguardi e scadenze limitati ma politicamente
raggiungibili, nella consapevolezza che non sarebbero stati
sufficienti e che al momento opportuno si sarebbero rese
necessarie misure aggiuntive.
Per varie ragioni,
però, il processo si è gradualmente inceppato. Ora l'Ue è
congelata nella sua forma corrente.
Lo stesso vale per
l'euro. Il crac del 2008 ha rivelato la falla
nella nave, quando i membri dell'euro hanno dovuto
provvedere in maniera indipendente a salvare i rispettivi
sistemi bancari.
La crisi del debito
in Grecia ha spinto la faccenda fino al parossismo. Se i
paesi membri non riusciranno a fare passi in avanti, la
moneta unica rischia di colare a picco.
La costruzione
originaria dell'euro ipotizzava che gli stati membri
avrebbero rispettato i limiti fissati dal trattato di
Maastricht. Ma i precedenti governi greci hanno
clamorosamente violato tali limiti. L'esecutivo di
Giorgos Papandreou, eletto lo scorso ottobre con il mandato
di fare un repulisti, ha reso noto che
il disavanzo di
bilancio ha toccato nel 2009 il 12,7%, scioccando le
autorità europee e i mercati.
Le autorità europee
hanno accettato un piano per ridurre gradualmente il
disavanzo con una prima tranche del 4%, ma non è bastato a
rassicurare i mercati. Il premio di rischio sui
titoli di stato greci rimane intorno al 3%, privando la
Grecia di gran parte dei benefici dell'appartenenza
all'euro. Se si continuerà su questa strada, c'è il concreto
pericolo che la Grecia, anche mettendo in campo il massimo
sforzo, non riesca a tirarsi fuori da questa situazione.
Ulteriori tagli di
bilancio avrebbero come risultato di deprimere ancora di più
l'attività economica, ridurre gli introiti delle tasse e
peggiorare il rapporto debito/Pil. Considerando questi
pericoli, in assenza di un'assistenza esterna il premio di
rischio non tornerà al livello precedente.
Ad aggravare la situazione ci pensa il mercato dei Credit
default swap (Cds), che è sbilanciato in favore di chi
specula sui fallimenti. Puntando sul rialzo dei Cds, il
rischio diminuisce automaticamente se ci si sbaglia. È il
contrario di vendere azioni allo scoperto, dove se ti sbagli
il rischio aumenta automaticamente.
La speculazione sui
Cds può spingere ancora più in alto il premio di rischio.
I ministri
dell'Economia dell'Ecofin, ammettendo l'esistenza del
problema, nell'ultima riunione si sono impegnati per la
prima volta «a preservare la stabilità finanziaria dell'area
euro nel suo complesso». Ma non sono ancora riusciti a
trovare un meccanismo per farlo,
perché gli accordi
istituzionali esistenti non ne offrono nessuno
(anche se l'articolo 123 del Trattato di Lisbona crea una
base legale in tal senso). La soluzione più efficace sarebbe
quella di emettere, separatamente e tutti insieme, titoli di
stato europei garantiti per rifinanziare, ad esempio, il 75%
del debito in scadenza, a patto che la Grecia rispetti i
traguardi fissati, lasciando ad Atene l'onere di finanziare
come meglio può il resto delle sue esigenze. In questo modo
si riuscirebbe a ridurre in modo significativo il costo del
finanziamento, e sarebbe la stessa cosa dell'Fmi che eroga
prestiti condizionali a scaglioni successivi.
Ma questo è politicamente impossibile perché
la Germania è
inflessibilmente contraria a svolgere la funzione di cassa
d'emergenza per partner dalle mani bucate. Dunque bisognerà
trovare delle soluzioni raffazzonate.
Il governo di
Papandreou è determinato a correggere gli abusi del passato
e può contare su un forte consenso nell'opinione pubblica.
Ci sono state proteste di massa e resistenza da parte della
vecchia guardia del partito di governo, ma la cittadinanza
sembra pronta ad accettare l'austerità se vedrà passi avanti
nella correzione degli abusi di bilancio (e gli abusi sono
talmente tanti che non sarà difficile).
Per la Grecia,
dunque, le soluzioni raffazzonate potrebbero bastare, ma
resta il problema degli altri, cioè Spagna, Italia,
Portogallo e Irlanda. Tutti insieme questi paesi
rappresentano una fetta di Eurolandia troppo grossa per
poter essere aiutata in questo modo.
La Grecia potrebbe
scamparla, ma il futuro dell'euro rimarrà in forse. Magari
riuscirà a gestire questa crisi, ma che cosa succederà
quando arriverà la prossima?
Che cosa serve è
evidente: sistemi istituzionali e di controllo più intrusivi
per un'assistenza condizionale, e sarebbe auspicabile la
creazione di un mercato di eurobond ben organizzato.
L'interrogativo è se si riuscirà a creare la volontà
politica per realizzare questi passi avanti.
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Traduzione -
Gaia Seller
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Fonte -
XXX
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Mercoledì
24 Febbraio
2010 |
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Giovedì
25 Febbraio
2010 |
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Domenica
28 Febbraio
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Bernanke:
mercato del lavoro resterà debole a lungo
24 Febbraio 2010 16:26 NEW YORK
– di
Il Sole 24 Ore
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Il presidente della Fed espone al congresso Usa il rapporto
semestrale sulla strategia della Fed. La disoccupazione
ancora un problema. Costo del denaro eccezionalmente basso a
lungo. «Comunque pronti a ridurre le misure straordinarie
sulla liquidità».
«Il mercato del lavoro resterà debole a lungo anche se la
perdita di posti di lavoro rallenta». Di più: proprio a
causa della dinamica della disoccupazione, e di una ripresa
ancora lenta, «i tassi d'interesse resteranno per un lungo
periodo a un livello basso». Ancora: «i mercati finanziari
migliorano e abbiamo i mezzi per ritirare le misure
straordinarie sulla liquidità», anche se l'economia non ha
ancora la forza per camminare da sola con le proprie gambe.
Sono questi alcuni dei temi al centro dell'intervento sulla
politica monetaria di Ben Bernanke davanti al Congresso Usa.
Un'audizione in cui il presidente della Fed spiega la
strategia prossima futura della Banca centrale americana.
Il lavoro preoccupa
Bernanke dice che la perdita di posti di lavoro rallenta, ma
il mercato del lavoro rimane debole.
Com'è noto il tasso di disoccupazione nell'ultimo trimestre
del 2009 dovrebbe essere compreso tra il 9,5 e il 9,7 per
cento. E le stime, realizzate da Bloomberg, indicano una
percentuale attorno al 9,1% nel 2011. Si tratta di valori un
po' al di sotto del picco del 10% raggiunto in autunno, ma
comunque numeri che indicano l'esistenza di un problema di
fondo nell'economia a stelle e strisce. Lo stesso senatore
democratico Bob Mendez, membro di quella Banking committee
che sta ascoltando le parole di Mr Fed, aveva sottolineato
in mattinata: «Dovremo capire come si vuole aiutare le
piccole e medie imprese che, in questo momento, sono le
uniche a creare posti di lavoro. Cosa vuole fare la Fed su
questo fronte?».
Che il tema dell'occupazione sia al centro del dibattito
sulla futura politica della Fed lo aveva già espresso Janet
Jellen, presidente della Fed di San Francisco, una delle
economiste più ascoltare negli Stati Uniti. La Jellen, solo
due giorni fa, ha detto che: «L'economia americana sta
sempre più imparando a crescere senza alti livelli di
occupazione. Il che, ovviamente è un problema». Il taglio
dei costi fissi, le ristrutturazioni e le maggiori
efficienze potranno sì permettere un buon andamento dei
profitti, ma questo farà felici soprattutto gli azionisti
della Corporate America; al contrario mette in difficoltà
quella middle-class che, senza lavoro, non spende più e,
quindi, fa calare la domanda aggregata. «Per questo - ha
aggiunto la Jellen - è necessario mantenere i tassi ad un
livello eccezionalmente basso per ancora molto tempo: la
crescita economica è ancora molto debole; l'ipotesi di una
ripresa a forma di "V" non è così scontata. Esiste la
possibilità di una ricaduta, con un percorso congiunturale
che potrebbe formare la figura della "W"». «Siamo certamente
in una ripresa "jobbless" », fa da eco Mark Gertler,
professore di economia all'Università di New York.
I tassi bassi ancora a lungo
La scorsa settimana la Banca centrale americana ha portato
allo 0,75% il tasso di sconto, in una mossa prevista dal
mercato e volutamente realizzata al di fuori del Fomc per
mostrare che la politica monetaria non viene cambiata.
«L'intenzione di Bernanke - era la spiegazione in "coro"
degli esperti - è finalizzata, passo dopo passo, ad avviare
l'uscita dalle politiche d'emergenza sulla liquidità». Una
tesi che Bernanke, nel dire che «i tassi resteranno bassi
ancora a lungo», ha pienamente confermato.
L'exit strategy
L'impostazione, d'altro canto, la si era capita proprio con
la mossa sul discount rate. Normalmente il tasso di sconto,
che è il tasso cui la Fed presta denaro alle banche nel
brevissimo periodo, è superiore di 100 basis points sui Fed
fund. Questa differenza, nel periodo più buio della crisi,
era scesa allo 0,25 % per permettere agli istituti di
credito di accedere con minori oneri alla liquidità della
Fed. Adesso si sta tornando alla normalità, come lo stesso
Bernanke aveva ampiamente annunciato. Una normalità che,
però, non riguarda la politica dei tassi, bensì la
liquidità.
Il timing esatto
Già la liquidità. Uno dei problemi che la Fed, ma anche la
Bce, deve affrontare è quello che, alla fine, tutti questi
fiumi di denaro non sono serviti a "irrogare" l'arida
pianura dell'economia reale. Ma, al contrario, sono rimasti
all'interno del sistema interbancario: le banche, cioè, li
hanno usati o per patrimonializzarsi; o per fare profitti
grazie alle divisioni di investment banking (ed elargire
"incredibili" bonus); o per acquistare «Treasury, da dare in
garanzia alla stessa Fed, per acquistare nuova liquidità»,
come dice Jim Rogers. In questo scenario è banale
sottolineare che la tempistica dell'uscita dalle politiche
straordinarie sulla liquidità è fondamentale. Nella sua
relazione Bernanke ha sottolineato che «la Fed ha tutti i
mezzi per eliminare quesgli interventi» ma fondamentale è il
timinng.
In questo periodo, infatti, viene meno la forza di diversi
programmi governativi a sostegno dell'economia reale. Per
tutti: negli Usa è in scadenza il programma di detrazione di
8.000 dollari per l'acquisto della prima casa. Così, la
domanda di diversi economisti è: cosa succede se, nel
momento in cui la "droga" della liquidità viene eliminata,
spariscono anche gli aiuti statali? Non c'è il rischio di
ricadere in una recessione ancora peggiore di quella da cui
(sembra) si sta lentamente e a fatica uscendo? La risposta a
simili quesiti e duplice: da un lato c'è chi, sottolineando
il boom del deficit di bialncio dei paesi dell'Occidente,
mette in guardia rispetto ad una politica di deficit
spending che sì, potrebbe portare a crescere ancora nel
breve periodo, ma prepara le basi per un crollo delle
finanze pubbliche. Dall'altro lato, invece, c'è chi sostiene
( tra cui il nobel Paul Krugman) che non bisogna
preoccuparsi troppo del deficit: il vero obiettivo è quello
di sostenere un'economia ancora troppo debole per
riprendersi da sola. In molti, propendono per una terza via.
Trovare il giusto equilibrio tra rigore di bilancio, exit
strategy e sostegni alle economie.
La Fed non si attende un downgrade
degli Usa
Bernanke, peraltro, ha indicato le sue stime sulla crescita
economica: il Pil Usa dovrebbe migliorare tra il 3% e il
3,5% quest'anno e tra il 3,5% e il 4,5% nel 2011, non
sufficiente per
compensare i posti di lavoro perduti durante la recessione.
Il presidente della Fed, poi, ha anche detto di non
aspettarsi un downgrade sull'affidabilità creditizia degli
Stati Uniti, nonostante l'enorme deficit del budget
federale.
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Fonte -
Il Sole 24 Ore
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USA: FED E
TASSI, COSA ACCADE DOPO LA FINE DELL'EMERGENZA
23 Febbraio 2010 02:00 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Il chief equity strategy di
BlackRock spiega che non siamo piu' nella situazione critica
di un anno fa. Lo dimostrano anche alcuni indicatori
economici, che fanno "fa presagire una ripresa della
crescita e dell’occupazione nei mesi a venire".
Il costo del denaro americano e’ destinato a salire entro
fine anno. Il periodo di emergenza e’ passato, lo dimostrano
anche alcuni indicatori economici e i risultati dalla
corporate america fanno ben sperare per il futuro. A
tracciare questo scenario ai microfoni di Cnbc Usa e’ Bob
Doll, chief equity strategy di BlackRock.
"C'e' una serie di fattori che si stanno muovendo nella
giusta direzione per l’economia, a cominciare dalla
produzione industriale, agli investimenti previsti dalle
aziende passando per i profitti messi a segno dalla stessa
corporate america", ha spiegato Doll aggiungendo che il
tutto "fa presagire una ripresa della crescita e
dell’occupazione nei mesi a venire".
La lettura dell’attuale congiuntura funge da fondamenta per
l’opinione dell’esperto sulle mosse di politica monetaria
targate Fed. La decisione della settimana scorsa di
aumentare il tasso di sconto, cioe’ il valore cui presta
denaro alle banche per i prestiti 'overnight', e’ "un
aggiustamento tecnico" definito "appropriato", che continua
"la Fed non avrebbe mai fatto questa mossa in tempi di paura
generalizzata".
E’ tempo, dunque, di attuare una exit strategy che comprende
per esempio "la fine dell’acquisto di Titoli di Stato e di
altre forme di quantitative easing. La decisione della
settimana scorsa potrebbe costituire un primo passo verso un
rialzo dei tassi di interesse. Dobbiamo ricordarci che
partiamo dallo zero per cento non dall’uno o dal due
percento. Il livello prossimo allo zero indica una
situazione di emergenza che pero’ non e’ piu’ in atto. Ecco
perche’ spererei che entro fine anno la Fed alzi il costo
del denaro", ha commentato Doll.
BERNANKE: TASSI
FERMI ANCORA PER MOLTO
24 Febbraio 2010 16:10 NEW YORK -
di WSI ______________________________________________
Il numero uno della Fed conferma
una politica monetaria accomodante. Prospettive inflative
stabili nel lungo termine. Il mercato del lavoro resta
debole, ma il calo rallenta.
Non sorprendono le parole di Ben Bernanke, che da Washington
sta tenendo di fronte al Congresso la relazione semestrale
sulla politica monetaria. Chi temeva, o sperava in un rialzo
del costo del denaro a stelle e strisce deve ricredersi. La
strada della ripresa e' ancora incerta e dunque tassi vicino
allo zero sono necessari, e ancora per un bel po'. "Tutto
dipende dalla domanda dal settore privato", ha spiegato.
Il governatore della banca centrale americana lancia
indicazioni incoraggianti: "ci sono segnali di ripresa, ma
il mercato del lavoro resta debole anche se la caduta si sta
contraendo".
Quanto alle aspettative sull'inflazione, la Fed e' sempre
pronta a prendere iniziative volte a prevenire l'inasprirsi
di pressioni inflative. "Abbiamo gli strumenti utili per
attuare le politiche giuste al momento piu' opportuno", ha
continuato. Tra le righe si intuisce l'intenzione di
sospendere, prima o poi, le mosse straordinarie che hanno
aiutato il mercato a risollevarsi.
D'altra parte, ha ricordato Bernanke, "i miglioramenti in
atto dalla scorsa primavera sui mercati finanziari
continuano. Le condizioni di finanziamento nel breve termine
sono tronate a livelli pre-crisi. Molti istituti, soprattuto
i piu' grandi, sono stati capaci di raccogliere nuovi
capitali ricorrendo direttamente al mercato. Ma l'erogazione
del credito continua a contrarsi".
Le stime per l'anno in corso sono simili a quelle fornite
dal Fomc nella riunione di gennaio: il 2010 dovrebbe
chiudersi con una crescita del 3-3.5% e del 3.5-4.5% l'anno
prossimo. Il tasso di disoccupazione dovrebbe scendere al
6.5%-7.5% entro il 2012, comunque sopra il 5% giudicato come
livello "sostenibile" dalla stessa Fed. I prezzi al consumo,
invece, dovrebbero muoversi in un range compreso tra l-1% e
il 2% nel 2010.
Non poteva mancare un riferimento esplicito alla decisione
della settimana scorsa di alzare il tasso di sconto sui
prestiti alle banche. Mossa attesa ma giunta prima delle
previsioni. Tale operazione "e' la risposta al miglioramento
delle condizioni del credito, in cui i principali operatori
hanno ridotto la loro dipendenza dalla banca centrale.
Questo aggiustamento non va ad intaccare i comuni cittadini
ne le aziende e non va interpretato come il primo passo
verso un cambio di rotta nella politica monetaria della
Fed", ha chiarito Bernanke.
Immediata la reazione del mercato valutario, con il dollaro
in calo e i prezzi dei Titoli di Stato in aumento. Il
rendimento di quelli decennali, che si muove in modo inverso
ai prezzi, scivola di 2 punti base al 3.67%, il livello piu'
basso in oltre una settimana.
Fonte
-
WallStreetItalia.com
I numeri
confondono gli Usa
giovedì, 25 febbraio 2010 - 14:27 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
Buoni risultati trimestrali ma
notizie macroeconomiche contraddittorie. E’ questa l’ultima
fotografia scattata agli Stati Uniti che sta disorientando
gli operatori finanziari. L’indice Msci North America
nell’ultimo mese (fino al 24 febbraio e calcolato in euro)
ha perso lo 0,76. Segno, spiegano gli analisti, che gli
investitori non sanno ancora in quale direzione muoversi e a
quali numeri dare retta.
Se, infatti, la maggior parte delle aziende raccolte nel
paniere S&P500 ha riportato risultati 2009 superiori alle
attese degli analisti, l’indice misurato dal Conference
Board è precipitato a quota 46 punti in febbraio, rispetto
ai 56,5 di gennaio. Il dato è peggiore delle attese degli
analisti che si attendevano un ribasso a quota 55 punti. La
componente che giudica le attuali condizioni di business è
scesa a da 25,2 a 19,4 punti, il livello più basso in 27
anni. L’indice delle attese per i prossimi sei mesi é invece
sceso a 63,8 punti da 77,3. Le ultime notizie arrivate sulla
produzione industriale a gennaio, invece, secondo le
elaborazioni fornite dalla Federal Reserve dicono che questa
componente salita dello 0,9% dopo il +0,8% di dicembre 2009.
E’ confusa la situazione sul fronte immobiliare. I nuovi
cantieri hanno fatto registrare in gennaio un aumento del
2,9% arrivando al livello più alto dal luglio scorso. Il
paniere S&P Case Shiller (che rileva l’andamento dei prezzi
di vendita delle abitazioni nelle prime 20 aree
metropolitane del Paese), nel frattempo ha registrato a
dicembre una contrazione pari a -0,2% su base mensile e
-3,1% su base annuale. E mentre le vendite al dettaglio a
gennaio sono salite dello 0,5% rispetto al mese precedente,
continua a salire la disoccupazione.
“In generale ci sentiamo di affermare che il recupero degli
Stati Uniti sia in vista”, dice un report firmato da Travis
Pascavis, analista di Morningstar. “Tuttavia, molto
dipenderà anche da quello che succederà nel resto del mondo.
La Cina, ad esempio, sta preparando una riduzione dei piani
di stimolo economico per evitare una crescita
dell’inflazione, mentre l’Europa è ancora alle prese con la
crisi della Grecia e con la situazione difficile di
Portogallo, Irlanda e Spagna”.
Dal punto di vista borsistico, sembrano tenere bene i titoli
della tecnologia considerati da sempre asset anticilici.
Soffrono, invece, i bancari che stanno ancora facendo i
conti, nonostante il miglioramento dei risultati, con le
perdite registrate negli anni scorsi.
L’amministrazione Obama, nel frattempo, sta cercando di
aggiustare il tiro sulla sua politica economica. Il Senato
ha approvato una legge che fornisce sgravi fiscali alle
aziende che assumono persone disoccupate da almeno 60
giorni. Il presidente, parlando davanti ai rappresentati
della Business Roundtable ha anche confermato il suo
programma (espresso anche nel discorso sullo Stato
dell’Unione) di voler investire di più in progetti legati
alle infrastrutture e all’energia pulita.
Fonte
-
MorninigStar.it
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