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Mercati:
una bomba che deve ancora scoppiare
02 Giugno 2008 10:45 TRENTO -
di Giorgio Lonardi
Parla Guido Rossi,
ex n.1 Consob. «Secondo Soros ci sono in giro $45 trilioni ($45 mila
miliardi): una cifra enorme composta da Default Debt Swaps, pari a 5
volte i bond americani oggi in circolazione».
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Ex presidente della Consob, padre della legislazione
antitrust, ex presidente di Telecom che ha guidato in due diverse e
delicate occasioni, Guido Rossi è qui al Festival dell´economia di
Trento per discutere con Federico Rampini del suo ultimo libro "Il
mercato d´azzardo". Un tema vasto, dunque. Ma anche un argomento che
ha dei punti in comune con alcune delle osservazioni e delle
proposte del governatore della Banca d´Italia.
Professor Rossi, secondo Mario Draghi il ciclone subprime «ha
toccato le banche italiane meno che quelle di altri Paesi». Sempre
per il governatore i nostri istituti «hanno retto bene in questi
mesi l´urto della crisi: i loro attivi solo marginalmente toccati, i
bilanci stabilmente fondati sulla raccolta dalla clientela». Lei che
ne pensa?
«E´ probabile che la vicenda dei subprime sia ormai alle nostre
spalle. Purtroppo, però, ci sono sul mercato altri strumenti
finanziari, molto più pericolosi dei subprime. Penso ad alcuni
derivati e ad alcuni "titoli atipici" che minacciano un po´ tutta la
finanza mondiale. E in un mondo globalizzato come quello in cui
viviamo nessuno può sentirsi al sicuro, nemmeno le banche italiane».
A quali titoli atipici si riferisce?
«C´è un articolo molto interessante scritto recentemente da Soros
sulla New York Review of Books che, con mio grande stupore, nessuno
ha ripreso e commentato (nota di WSI: ecco il link). Ebbene, in
questo articolo Soros ci dice che ci sono in giro 45 trilioni di
dollari (45 mila miliardi di dollari, ndr), una cifra enorme pari a
5 volte i bond americani oggi in circolazione composta da Default
Debt Swaps».
Ci può spiegare che cosa sono e come funzionano questi Default Debt
Swaps?
«Come dice il termine in inglese si tratta di una "scommessa" sulla
possibilità che le grandi aziende non siano in grado di onorare i
loro debiti. E che quindi siano costrette al fallimento. Ovviamente
questo mercato è totalmente deregolamentato. Non può sfuggire a
nessuno il potenziale distruttivo di questa "scommessa"».
Quindi nessuno è al riparo dalla bomba ad orologeria innescata dai
Default Debt Swaps, nemmeno le banche italiane, che pure, ci dice
Draghi, sono più solide delle altre?
«Le banche italiane non sono più chiuse dentro gli angusti confini
nazionali. E questo è certamente un bene. Tuttavia la
globalizzazione finanziaria comporta dei rischi, non possiamo
dimenticarcene. Chi l´avrebbe mai detto che l´Ubs, la più grande
banca svizzera, sarebbe stata colpita dalla crisi dei subprime?
Eppure è accaduto».
Insomma, i Default Debt Swaps sono come una lotteria perversa?
«Mi creda, sono molto peggio di una lotteria».
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Fonte
- La Repubblica |
Settore
bancario: torna la paura default
03 Giugno 2008 16:54
NEW YORK -
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Se le teste rotolano,
vuol dire che la crisi avanza. Per questo nessuno ieri è
riuscito a leggere qualcosa di positivo nel licenziamento di
G. Kennedy Thompson, Ceo di Wachovia e nel ridimensionamento
degli incarichi di Kerry Killinger, il capo di Washington
Mutual: per il mercato, le due notizie, hanno prodotto un
ritorno improvviso ai dolori della crisi subprime, ancora
alla radice dei problemi delle due banche, proprio quando
sembrava che le cose volgessero al meglio.
Le ricadute di queste due notizie le abbiamo subito viste
sul mercato. I due titoli hanno trascinato al ribasso un po'
tutti i bancari, anche i più grandi, come J.P Morgan Chase,
Bank of America, Citigroup, che hanno registrato diminuzioni
medie del 2%. Hanno indotto Standard and Poor's a ridurre
ieri il merito di credito di Merrill Lynch, Lehman Brothers
e Morgan Stanley perché hanno utilizzato "titoli ibridi" per
rafforzare il loro capitale. S&P ha anche emesso un "warning",
un "avvertimento", per Bank of America e J.P. Morgan Chase
proprio per la fragilità del settore subprime. Il mercato
non l'ha presa bene.
Nel durante l'indice Dow Jones perdeva fino all'1,4%, al
ribasso di 182 punti, poi, in chiusura ridimensionava le
perdite al l'1,06%, 134,50 a quota 12.503,82. Le notizie
hanno anche scatenato una ridda di pettegolezzi. Si dice che
il cambiamento ai vertici di Wachovia, dove le redini
andranno ad interim a Lanty L. Smith, presidente
indipendente (proprio come capitò a Merrill Lynch)
preannunciano una nuova forte contabilizzazione in perdita
per il prossimo trimestre, forse alcuni miliardi di dollari.
Nessuno dunque ha creduto alle parole di Smith. Il nuovo
Presidente ha cercato di rassicurare. Ha escluso che vi sarà
bisogno di nuovi aumenti di capitale e ha detto che i
problemi di Golden West, la Cassa di risparmio con forti
esposizioni ai prestiti subprime che Wachovia acquistò nel
2006, non rappresenta più un problema serio per i bilanci
della banca. Le cose sono ancora più tristi per Washington
Mutual. Il titolo aveva già subito una delle cadute più
forti del settore, da quando la crisi subprime ha messo in
ginocchio anche i colossi del comparto. Era passato da un
massimo di quasi 45 dollari per azione, meno di un anno fa,
a 8,96 dollari per azione alle quotazioni di ieri. Non solo,
si dà per certo che il ridimensionamento di Killinger sarà
soltanto l'anticamera del suo licenziamento e, ovviamente,
come da copione, di nuove rivelazione negative sui bilanci
della banca, un ex gioiellino che occupa 60.000 persone e ha
un fatturato di 16 miliardi di dollari. Almeno, cosi
affermano gli analisti di Citi, Ubs e Deutsche Bank.
Mike Mayo, proprio di Deutsche Bank ieri ha scritto:
«Continuiamo ad avere un orientamento al ribasso e questa
mossa sottolinea le nostra preoccupazione per un possibile
deterioramento di attività patrimoniali». Come sappiamo,
quando si deteriora la posizione di una banca il rischio di
un effetto domino è sempre possibile. Quando le banche sono
due, anzi, tre in un giorno, se aggiungiamo la crisi della
banca inglese Bradford & Bingley, il rischio diventa quasi
certezza.
Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Guida ai CDS: il concetto
di “basis”
Thursday, 3 June, 2008 -
by Charles Dexter Ward ______________________________________________
Per quanto detto in precedenza
nella introduzione ai Credit Default Swap dovrebbe apparire
chiaro come lo spread misurato dal CDS di un determinato
emittente su una data scadenza dovrebbe essere direttamente
confrontabile con lo spread offerto da un bond emesso dallo
stesso emittente con stessa durata; in realtà sul mercato,
benché concettualmente espressione dello stesso rischio, questi
due livelli raramente coincidono a causa di motivi sia
prettamente tecnici che di ordine fondamentale.
Andando con ordine iniziamo quindi a formalizzare il concetto di
“basis”: con questo termine intendiamo la differenza tra lo
spread del CDS e quello di un bond con esso direttamente
confrontabile: quindi stesso emittente, stessa durata, dove si
assume inoltre che il con il bond sia quotato alla parità.
Questa differenza può essere pari a zero, negativa o positiva.
Cerchiamo di analizzare i casi in cui la base non sia nulla.
- Base Negativa: quando la base è negativa lo spread del CDS è
inferiore a quello che caratterizza il bond. Questo accade
quando c’è una eccessiva vendita di protezione sul contratto, ad
esempio in conseguenza di momenti di vorticosa attività di
credito strutturato come quelli cui abbiamo assistito appena un
paio di anni fa. Anche una abbondante offerta di mercato
primario può creare i presupposti per una base negativa, visto
che per il gioco della domanda e offerta i cash bond tendono ad
allargare più del corrispettivo derivato di credito. Va detto
che l’esistenza di base negativa è facilmente “arbitraggiabile”:
comprando il bond e comprando contestualmente protezione sul
credito è possibile neutralizzare l’esposizione al rischio di
default incassando contestualmente il differenziale di spread:
per questo motivo difficilmente situazioni di base negativa
rimangono lungamente nel mercato.
- Base Positiva: contrariamente a quanto avviene in caso di base
negativa, quando ci si trova di fronte a uno spread del CDS
maggiore dello spread offerto dal bond è molto meno agevole
approfittarne strutturando un arbitraggio: infatti bisognerebbe
vendere il bond allo scoperto (con tutte le difficoltà pratiche
connesse allo short selling) e contestualmente vendere
protezione. In caso di default inoltre esiste una opzionalità
sul titolo consegnabile, che non necessariamente coinciderà con
quello su cui si è aperta la posizione corta. Questa
cheapest-to-deliver option implicita nel derivato di credito a
favore di chi acquista protezione è uno dei principali motivi
che contribuiscono all’esistenza di una base positiva.
Anche l’esistenza dei famosi bond covenants può spiegare in
parte il perché ci si dovrebbe accontentare di uno spread
lievemente più basso sui bond “in carne ed ossa” rispetto al CDS.
Attraverso i bond covenants, il detentore del bond è più
tutelato in una serie di circostanze come ad esempio in caso di
change of control.
Fonte - Macromonitor
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Recessione
globale:
chi l'ha vista
?
03 Giugno 2008 10:30 MILANO -
di Mario Seminerio
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A giudizio di alcuni economisti l’attuale congiuntura
economica mondiale non assomiglierebbe agli Anni 30 del secolo
scorso, quanto piuttosto ai Settanta, cioè un contesto dove la
pressione inflazionistica determina il rallentamento globale e la
riduzione del prodotto potenziale. Come negli anni Settanta,
infatti, oggi ci troviamo con tassi d’interesse reali di mercato
monetario in media negativi, e ciò alimenta una serie di bolle
speculative. Secondo un’analisi dell’economista Joachim Fels, di
Morgan Stanley, il tasso d’inflazione medio globale ponderato si
situa oggi al 5,4 per cento, a fronte di tassi di mercato monetario
del 4,3 per cento.
L’accumulazione di pressioni inflazionistiche ha
portato alla creazione di bolle speculative, come quella immobiliare
negli Stati Uniti, agevolata anche dall’innovazione finanziaria che
ha potenziato il rilassamento degli standard creditizi. Quando
l’eccesso di moneta ha terminato di dare la caccia ai pochi asset
disponibili, con lo scoppio della bolla immobiliare, ha finito col
volgersi alla caccia di merci, contribuendo ad alimentare
l’inflazione delle materie prime. Secondo alcune stime il livello
dei tassi d’interesse di equilibrio, tali cioè da garantire la
stabilità dei prezzi, si trova oggi negli Stati Uniti alcuni punti
percentuali sopra il valore corrente. Discorso analogo per la Banca
Centrale Europea, sia pure con uno squilibrio meno eclatante di
quello statunitense, grazie alla fermezza con cui Trichet ha gestito
la politica monetaria, resistendo a fortissime pressioni politiche e
mediatiche.
In altri termini le banche centrali, che hanno dapprima alimentato
l’accumulazione di bolle speculative, si trovano ora a gestirne lo
scoppio, ma il rallentamento da ciò causato e la perdita di
credibilità nella gestione della politica monetaria negli Stati
Uniti, paese-chiave dell’economia mondiale, hanno indotto una
domanda aggiuntiva di materie prime di natura finanziaria, con
finalità di protezione dall’inflazione. Da qui deriva l’ascesa di
alcune commodities: alla robusta e crescente domanda reale si è
sommata una domanda finanziaria di "protezione", e quest’ultima
appare sganciata dal ciclo economico. Per questo le previsioni
"rassicuranti" in base alle quali i prezzi delle materie prime
sarebbero destinati a flettere per effetto del rallentamento
statunitense non si stanno realizzando.
Ma l’aumento del prezzo delle materie prime
energetiche non fa altro che drenare potere d’acquisto dai consumi,
e le banche centrali si trovano soggette ad un drammatico dilemma di
politica monetaria: non possono alzare i tassi in funzione
antinflazionistica perché così facendo ucciderebbero definitivamente
la congiuntura, ma tenendo i tassi stabili (o riducendoli) finiscono
con l’accentuare il fenomeno dei tassi reali negativi, che
alimentano inflazione e corsa alle materie prime. Se oggi
l’inflazione appare meno rampante che negli anni Settanta è a causa
soprattutto della sostanziale assenza di inflazione salariale. La
deregolamentazione dei mercati del lavoro e la globalizzazione hanno
progressivamente ridotto i salari reali, spostando la bilancia della
distribuzione del valore aggiunto a favore del capitale. Ma salari
reali in diminuzione significano minori consumi, condizione
ulteriormente aggravata dall’attuale restrizione del credito. La
scomparsa dei consumi spegne il principale motore della crescita,
data l’incidenza della spesa delle famiglie sul pil.
A ciò si aggiunge il protezionismo montante; è evidente ed
inequivocabile che il commercio internazionale crea anche perdenti.
Ma quando la congiuntura peggiora il loro numero aumenta
significativamente, la loro capacità di organizzarsi politicamente
si accentua. Ma il protezionismo è, per definizione, un formidabile
generatore di stagflazione: in questo senso oggi siamo messi peggio
degli anni Settanta, un periodo in cui la liberalizzazione del
commercio si stava lentamente sviluppando.
Abbiamo quindi descritto uno scenario
stagflazionistico quasi da libro di testo. Che evoluzione
attendersi? Lo squilibrio americano, che si traduce in un poderoso
deficit delle partite correnti, necessiterà ancora per molto tempo
di un dollaro strutturalmente debole, ma anche così, data la
struttura dell’economia statunitense (dove il peso della manifattura
sull’export è sui minimi storici), non dobbiamo attenderci alcun
riequilibrio rapido e miracoloso. Le aree del pianeta in surplus
commerciale (segnatamente la Cina) stanno a loro volta lottando
contro una crescente pressione inflazionistica, e difficilmente
riusciranno a destinare quel surplus allo stimolo della domanda
interna, ed al conseguente sviluppo delle importazioni. Noi pensiamo
quindi ad uno scenario di recessione più protratta (anche se non
necessariamente più profonda) rispetto all’ottimismo di quanti
ipotizzano una congiuntura a forma di V, che implica una ripresa
rapida e vigorosa.
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Fonte
- Libero Mercato |
FED:
Bernanke, i tassi rimangono "ben posizionati"
Martedì 3 Giugno 2008, 15:51 -
di
ANSA ______________________________________________
I tassi di interesse rimangono
ben posizionati per promuovere la crescita e la stabilità
dei prezzi, e la Federal Reserve (Fed) mantiene sempre la
guardia alta sul movimento del dollaro. È quanto ha
dichiarato il numero uno della Fed, Ben Bernanke, durante la
conferenza monetaria internazionale in corso a Barcellona,
alla presenza dei principali banchieri delle banche
centrali, con Jean-Claude Trichet, presidente della Banca
centrale europea, Masaaki Shirakawa, governatore della banca
giapponese, e Miguel Fernandez Ordonez, numero uno della
banca centrale iberica. Nel suo intervento, Bernanke ha
sottolineato come "adesso, la Fed monitorerà con attenzioni
le fluttuazioni del biglietto verde". Nell'ultimo anno, il
dollaro è arrivato a cedere il 16% rispetto alla moneta
unica europea. Bernanke è tornato a parlare della situazione
dei mercati, che, a suo avviso, "rimane tesa", e rimarcando
il fatto che i consumatori dovranno far fronte ai
significativi "venti contrari" dal declino dei prezzi delle
case agli alti costi energetici.
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Bernanke
scuote il mercato valutario. Quali
prospettive?
Martedì 3 Giugno 2008,
16:23 - di
Fabio Caldato
- Euroforex ______________________________________________
In una giornata in cui
il cross euro dollaro aveva rotto al rialzo la resistenza
statica di breve collocata in area 1,5570,fino a superare
1,56 figura,le parole del capo della FED hanno determinato
un'inversione di rotta su tutti i cambi della moneta
americana.
Pur non rilevando nulla di veramente eclatante,Bernanke ha
fatto capire che altri tagli sul fronte tassi saranno
evitati,se non strettamente necessari.
Ciò ha innescato un'ondata di acquisti di biglietto verde:
il cambio euro dollaro è tornato in area 1,54 scendendo di
due figure abbondanti,mentre scriviamo.
Alle 16,00,inoltre,è uscito un dato positivo per l'economia
USA che ha incrementato gli acquisti di dollaro: gli ordini
industriali sono usciti sopra le attese.
Da settimane indichiamo il livello 1,5340-1,54 figura come
spartiacque tra fase rialzista e ribassista per il cross
principale.
Va detto però che una candela del genere,soprattutto a
seguito di un intervento verbale di autorità monetarie ha
una importante valenza,una volta confermata nel giorno
seguente dal mercato.
La conferma,infatti,sarebbe testimonianza concreta del fatto
che i grossi investitori hanno raccolto il messaggio di
Bernanke.
Attendiamo,quindi,di valutare i prezzi del close odierno e
di domani.
Il cambio dollaro contro franco svizzero tiene la rialzista
dinamica in zona 1,0270 e si riporta in prossimità delle
resistenza statiche sopra 1,05.
Anche il cambio dollaro yen torna in area di resistenza e
105,50 si rivela nuovamente ostacolo solido per la
prosecuzione del rimbalzo con target 108.
Il franco svizzero aveva approfondito il suo recupero contro
euro segnalando l'avversione al rischio in forte
aumento,anche a causa delle tensioni sul fronte bancario.
Le parole rasserenanti di Bernanke hanno contribuito
all'inversione netta :il cambio euro franco è rimbalzato da
1,6050 a 1,6160. Area 1,6100 è vero supporto,la cui rottura
ribassista confermerebbe il ritracciamento in atto.
Fonte
- Euroforex
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La Bce lascia i tassi
invariati al 4%
05 Giugno 2008 14:04 ROMA - di
ANSA ______________________________________
La Banca centrale europea ha lasciato i tassi
d'interesse invariati, mantenendo il tasso principale al 4%. Lo
ha deciso oggi il Consiglio direttivo dell'istituto centrale a
Francoforte. La decisione era ampiamente attesa dal mercato. Con
la decisione di oggi, la Banca centrale europea mantiene il
tasso di rifinanziamento principale al 4,00%, quello marginale
al 5,00% e quello sui depositi overnight al 3,00%. Il divario
fra il costo del denaro in Eurolandia (misurato dal tasso
principale) e quello negli Stati Uniti e' pari a 2 punti
percentuali, dopo che il 30 aprile scorso la Federal Reserve ha
tagliato di 25 punti base i tassi sui Fed Fund portandoli al 2%.
(ANSA).
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BCE: RIVEDE INFLAZIONE AL RIALZO, 3,2-3,6% IN 2008
05 Giugno 2008 14:50 FRANCOFORTE - di
ANSA _________________________________
FRANCOFORTE, 5 GIU - La Banca centrale europea ha
rivisto al rialzo le previsioni per l'inflazione di Eurolandia
per il 2008 e il 2009, in base alle 'staff projections'
presentate oggi dal presidente Jean-Claude Trichet. Le nuove
stime indicano una 'forchetta' compresa fra il 3,2 e il 3,6% per
il 2008, in netto rialzo dal 2,9% medio stimato a marzo. Per il
2009 gli economisti dela Bce si aspettano invece una forchetta
compresa fra 1,8% e 3%, dal precedente 2,1% medio. (ANSA).
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Bce: RIVEDE STIME CRESCITA 2008 EUROLANDIA, FRA 1,5% E 2,1%
05 Giugno 2008 14:56 FRANCOFORTE - di
ANSA __________________________________
FRANCOFORTE, 5 GIU - La Banca centrale europea ha
rivisto le sue previsioni di crescita di Eurolandia per il 2008
e il 2009, in base alle 'staff projections' presentate oggi dal
presidente Jean-Claude Trichet. Le nuove stime indicano una
'forchetta' compresa fra L'1,5% e il 2,1% per quest'anno, contro
il +1,7% medio delle previsioni fornite a marzo. Per il 2009 gli
economisti dela Bce si aspettano ora una forchetta compresa fra
1% e 2%, dal precedente 1,8%.(ANSA).
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Bce TRICHET, POSSIBILE AUMENTO TASSI A LUGLIO
05 Giugno 2008 15:04 ROMA - di
ANSA ______________________________
FRANCOFORTE, 5 GIU - "Non è escluso che dopo aver
esaminato attentamente la situazione, potremmo aumentare i tassi
nel prossimo meeting". Lo ha detto il presidente della Bce,
Jean-Claude Trichet, spiegando che "ci sono argomenti" a favore
di un aumento dei tassi" ma anche che l'eventuale aumento "non è
certo, ma possibile". (ANSA).
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Periodo
di tempeste, dopo “Ben “ arriva “Jean
Claude”
Venerdì 6 Giugno 2008,
8:23 - di Saverio Berlinzani
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Il clima in questo periodo dell'anno non è certo dei migliori, la
tanto decantata siccità degli ultimi anni ha lasciato spazio ad un
periodo di grandi piogge accompagnate da venti forti ed ora da
qualche giorno anche da tempeste e uragani.
E' passato l'uragano Ben in settimana e si pensava che bastasse, con
venti da nord a sud che avevano provocato ingenti danni, ma come in
un film dell'orrore, ieri, è arrivata una tempesta contraria da sud
a nord, già nominata “Jean Claude”, la quale , se possibile, ha
fatto ancor più danni della prima.
Il tutto, come sempre, nasce dalla difficoltà dei metereologi di
fare previsioni azzeccate.
Riportando tutto nell'alveo del nostro mondo, possiamo dire che
quello che sta accadendo nasce dalla difficoltà estrema di prevedere
l'andamento dell'inflazione, causata dalle materie prime, petrolio
in testa, ma causata anche a nostro parere dalla non conoscenza
degli effetti delle correlazioni tra i mercati.
Sanno tutti infatti che il petrolio e il suo andamento hanno si una
ragione strutturale, ma sembrerebbe altrettanto vero che la maggior
parte del movimento è dettato da azioni speculative che poco hanno a
che fare con la domanda e offerta reale del bene sottostante.
Tanto è vero che nell'ultimo anno la correlazione petrolio dollaro è
stata talmente forte da essere considerata dalla maggior parte degli
operatori finanziari, come la correlazione più perversa che esista e
la ragione è data dal fatto che più il dollaro scende , più il
petrolio sale e più di conseguenza sale l'inflazione negli States
(che pagano il petrolio in dollari e che importano prodotti in
valute che costano sempre di più a causa della svalutazione del
biglietto verde) ma anche fuori dagli States nei paesi importatori
netti di materie prime. Fin qui tutto ok !
Ebbene se Bernanke due giorni orsono, con le sue dichiarazioni,
sembrava aver spezzato questa catena che tiene legato il mondo
occidentale e lo rende ormai sempre più schiavo (lo è da anni , lo
sappiamo) dal petrolio, o perlomeno la sua azione aveva prodotto una
correzione che sembrava avviata sia sul biglietto verde che sul
petrolio, le dichiarazioni di Trichet ieri, ancorchè giustificate da
un sano realismo per il livello di inflazione nei paesi europei, non
hanno tenuto conto degli effetti reali sul mercato.
E' vero che l'inflazione in Europa è un problema, è vero che l'Euro
è uno scudo perché se il petrolio sale del 2% l'Euro sale dell'1%
(la variazione dei prezzi sul petrolio è assai superiore di quella
del cambio) e quindi gli effetti inflattivi sono annacquati dalla
forza della valuta, ma se il presidente della Bce afferma che
probabilmente la Bce dovrà alzare i tassi per mantenere la stabilità
dei prezzi, probabilmente conoscerà anche gli effetti di queste sue
parole, e quali sono stati questi effetti ?
Il petrolio è salito da 123.50 a 128.00 dollari al barile (circa il
3.5%) e il dollaro è sceso (-1.5%) anche se non si sa se il primo è
salito a causa del secondo o viceversa. Ma certamente la
correlazione tra i due sottostanti è e rimane forte. Pertanto le
parole di Trichet e della Bce hanno diversi effetti: fanno salire
materie prime ed euro e fanno crescere l'inflazione in quanto le
materie prime salgono di più di quanto l'euro non riesca a
compensare. Se invece si cercasse di dare fiato al dollaro, è
probabile che parte della speculazione che pesa sul petrolio si
sgonfierebbe, allentando la pressione inflazionistica globale e di
converso anche nel vecchio continente.
L'altro effetto che le parole di Trichet hanno è quello legato alla
crescita, ma si sa questo problema non è tale per la Bce, che si
limita a svolgere il mandato che le è stato affidato, ovvero quello
di mantenere la stabilità dei prezzi. Per la crescita rivolgersi per
piacere ai Governi Nazionali, che però non possono ne muovere la
leva tassi di interesse, ne pensare a svalutazioni competitive.
Pertanto si dovranno muovere in altre direzioni, facciamocene una
ragione. E gli effetti sui principali rapporti di cambio ?
Ebbene, inizia la guerra Bce Fed, la prima alzerà forse i tassi, la
seconda non ancora ma ha paura della debolezza del dollaro e della
forza del petrolio, una azione che è tutto meno che congiunta e
comune, e poi ai G7 si parla tanto di collaborazione reciproca. Si
fa fatica a vederla in questo modo oggi dopo quello che è successo.
Andiamo ora a vedere gli obiettivi dei principali rapporti di cambio
perché dopo il passaggio dell'uragano sono cambiate alcune cose.
Per quel che riguarda il cambio EurUsd proponiamo il grafico a 4 ore
che evidenzia una fascia di congestione tra 1.5600 e 1.5630 che
inizialmente dovrebbe tenere. Se poi i prezzi avranno la capacità di
sfondare questi livelli, allora probabilmente vedremo 1.5680-1.5700.
La price action di mercato è stata forte e oggi molte cose
potrebbero cambiare perché sono attesi i payrolls, ovvero gli
occupati del settore non agricolo, un vero e proprio banco di prova
per l'economia americana.
Siamo curiosi di vedere come reagirà il mercato e soprattutto siamo
curiosi di ascoltare le rezioni di Bernanke alla nuova caduta del
dollaro.
La partita si fa veramente interessante, ottimo per chi come noi
deve cercare di capire dove sarà il prezzo tra uno o due giorni al
massimo , la volatilità è alta e rimarrà tale.
 |
Fonte
- TrendonLine |
E'
UNA CRISI PEGGIO DEL '29,
COLPA DEGLI STATI UNITI
07 Giugno 2008 09:56 MOSCA -
di
ANSA ______________________________________________
Il presidente russo Dmitri
Medvedev ha accusato la politica delle grandi compagnie e
quella della maggiore economia mondiale, gli Usa, di star
spingendo il mondo verso una crisi analoga a quella esplosa
nel 1929.
''Per i mercati finanziari globali - ha detto il presidente
inaugurando il forum internazionale di San Pietroburgo - il
2007 è stato uno degli anni più pesanti degli ultimi
decenni, la crisi è la più profonda dalla grande depressione
degli anni '30. E' dovuta alla sottovalutazione dei rischi
da parte delle grandi compagnie e dalla politica aggressiva
della maggiore economia mondiale.
Ciò non ha solo portato a perdite nelle grandi compagnie, ma
ha impoverito la maggioranza della popolazione mondiale.
Vale non solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per i
più ricchi. I ritmi della crescita mondiale sono bruscamente
rallentati, e secondo alcune previsioni la crisi potrebbe
ripetere il momento più nero nella storia mondiale, quando
per alcuni anni certi paesi avevano un tasso di crescita a
meno 5%".
«Nel mondo - ha esordito -si manifestano sempre più
evidentemente le conseguenze del conflitto fra
globalizzazione e protezionismo. Alcuni paesi vogliono
proteggere la propria sovranità economica, ottenendo il
massimo vantaggio per i propri cittadini, senza dividere i
vantaggi coi vicini. L'egoismo economico è in crescita».
Quanto agli Usa, «il loro ruolo formale nel sistema
economico mondiale non corrisponde alle loro reali
possibilità, e questo è una delle cause della crisi globale
corrente. Per quanto sia grande il mercato americano e per
quando sia sicuro il sistema finanziario, non sono in grado
di sostituire i mercati finanziari e commercial globali».La
Russia vuole un ruolo di primo piano nell'economia globale,
«non per ambizioni imperialistiche, ma perchè abbiamo le
risorse e le capacità reali»: lo ha detto il presidente
russo Dmitri Medvedev in un discorso di apertura del Forum
economico internazionale di San Pietroburgo che si è
rivelato un duro attacco alla politica statunitense. «Le
crisi di oggi - ha detto ancora il presidente russo - la
penuria alimentare, la crescita dei prezzi per i beni di
prima necessità e le catastrofi naturali che si verificano
sempre più spesso dimostrano pienamente che il sistema di
istituzioni alle sfide. Si registra un certo vuoto
istituzionale. Mancano organismi internazionali per la
soluzione dei problemi concreti. L'idea che un paese (gli
Usa, ndr) possa prendersi il ruolo di governatore globale si
è rivelata un'illusione.
Gli istituti internazionali, prima di tutto il Fondo
monetario internazionale, di fatto non hanno leve per le
strategie realizzate dai partecipanti al mercato. Ciò
conferma la necessità di riformare l'architettura
finanziaria globale». Medvedev ha proposto di tenere in
Russia entro l'anno una conferenza internazionale con la
partecipazione delle maggiori compagnie finanziarie e dei
più noti analisti e ricercatori. «Una conferenza- ha detto -
che potrebbe diventare un appuntamento regolare».
Fonte
-
ANSA
|
E'
IL MERCATO
IMMOBILIARE, BELLEZZA!
08 Giugno 2008 18:13
NEW YORK -
di
Charlie
Minter ______________________________________________
Vi ricordate quanto
Bush senior era in corsa per la presidenza con Bill Clinton
e, allo scopo di enfatizzare l’aspetto più rilevante per la
campagna elettorale, lo staff di quest’ultimo coniò la
famosa frase "è l’economia, stupido!"? potremmo impiegare
una frase simile per essere certi di sottolineare quello che
è l’aspetto più importante per l’economia e la borsa
americane. Se il settore immobiliare continuerà a calare,
come crediamo, la massiccia perdita di ricchezza inciderà
sui consumi personali, sull’economia, sugli utili aziendali
e sul mercato azionario.
Per mettere tuttò ciò in prospettiva, bisogna ricordare che
il valore complessivo del mercato immobiliare è vicino ai
21000 miliardi di dollari (dati del 2006). A questi livelli
siamo giunti pressoché raddoppiando dal 2000 grazie a
pratiche di finanziamento discutibili, a denaro a buon
mercato, e ad una massiccia speculazione edilizia in
relazione alla crescita del reddito personale. Ad un certo
punto ci si è convinti che il settore in questione sarebbe
sceso di almeno il 20% e forse fino al 35%; per il momento
ha ceduto mediamente il 16%, il che equivale a 3000 miliardi
di ricchezza estratti dalle tasche dei cittadini.
Se il mercato immobiliare cederà nel complesso più del 30%,
l’estrazione di ricchezza equivarrà a oltre 6000 miliardi di
dollari, e questo a fronte un consumatore già sovraccaricato
da un debito prossimo ai 14000 miliardi.
Se ciò non bastasse, il prezzo crescente dell’energia e dei
generi alimentari avrà chiaramente un effetto avverso sulla
propensione di spesa, e questo vale non solo per gli Stati
Uniti. E’ chiaro che il consumatore ha subito l’impatto
all’inizio dell’anno, e le statistiche di vendita di auto
del mese di maggio (Ford -19%, Chrysler -28%, General Motors
-30%) sono l’esempio più lampante.
I rialzisti sostengono che tutto ciò di cui hanno bisogno è
un dollaro che salga. Questo indurrebbe un calo delle
quotazioni dell’energia e delle altre materie prime. Una
volta che le commodities spazzeranno via la minaccia
inflazionistica i problemi si allenteranno e la borsa potrà
salire.
Ad un certo punto ai Tori sembrava che fossero stati
ascoltati, con Bernanke che dedicava ampio spazio alla forza
del dollaro: ha parlato di monitorare la moneta e di
seguirne con attenzione le evoluzioni. Nel passato
difficilmente ha parlato del dollaro, evidenziando che si
trattava di una competenza del Dipartimento del Tesoro e di
Paulson in particolare. Adesso Bernanke pare più interessato
ad una politica di dollaro forte; Paulson, che ha sempre
argomentato a favore di una divisa robusta, non ha mai
attuato politiche in tal senso.
Fonte
- SmartTrading
|
Economia:
abituatevi alla stagflazione light
08 Giugno 2008 16:53
MILANO - di *Alessandro Fugnoli
*Questo documento e'
stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
________________________________________
E’ un momento ricco di spunti. Partiamo dall’attualità con due temi,
il dollaro e la rivisitazione del tema della crisi finanziaria.
Saremo telegrafici, perché ci sono anche altre questioni da
affrontare.
Sul dollaro la Fed fa capire di non essere favorevole a un ulteriore
indebolimento. Dice di essere su questo in accordo con il Tesoro,
che ha in effetti giurisdizione sul cambio. Il fatto è che il
Tesoro, dopo avere affermato in tutti questi anni di volere un
dollaro forte, ha perso ogni credibilità, per cui deve essere adesso
la Fed, con tutta la sua autorevolezza, a lanciare il messaggio.
Una parte del mercato ha interpretato la presa di posizione di
Bernanke come l’inizio di un ciclo di rafforzamento del dollaro. Non
è il caso di spingersi a tanto. E’ meglio limitarsi a prendere alla
lettera quanto detto dalla Fed, per la quale in questo momento è
vitale limitare il veloce aumento delle aspettative di inflazione.
Confermiamo quindi l’idea di un range ampio 1.50-1.60 per i prossimi
12-18 mesi, con una fascia più piccola, tra 1.55 e 1.50, per il
terzo trimestre, durante il quale l’economia americana dovrebbe
mostrare qualche segno di temporanea riaccelerazione. Sperare di
più, in questa fase, sembra velleitario. Il disavanzo delle partite
correnti americane è ancora sopra il 4 per cento e le esportazioni
sono l’elemento che permette di continuare a evitare una recessione.
Per un recupero del dollaro degno di questo nome bisognerà aspettare
il 2010.
Il secondo spunto di attualità è la rivisitazione delle mefitiche
atmosfere pre-Bear Stearns con l’attacco a un’altra grande banca
d’investimento e i timori di una nuova crisi di fiducia. Su questo
facciamo due considerazioni.
La prima è che il mercato aveva troppo frettolosamente archiviato il
tema delle difficoltà del settore finanziario. La seconda è che
queste difficoltà, salvo casi isolati, coinvolgeranno da qui in
avanti, più che il mondo del cartolarizzato e delle grandi
istituzioni, quello dei finanziamenti più tradizionali (prestiti a
piccole e medie imprese) e delle banche regionali. Quanto ai casi
isolati, la Fed farà di tutto per evitare di replicare l’esperienza
di Bear Stearns organizzando una risposta di sistema preventiva per
i soggetti considerati sani.
In sintesi la fase attuale può ancora essere considerata di
consolidamento moderato dopo il grande recupero terminato a metà
maggio. Da metà giugno in avanti il flusso di notizie macro
americane (meno in Europa e in Asia) si farà più positivo, con
un’esplorazione e un possibile superamento dei massimi di maggio.
Corre però l’obbligo di segnalare il ritorno, per ora solo
sottotraccia, di una variabile esogena dimenticata da tempo, la
geopolitica. La questione iraniana è tornata al centro
dell’attenzione della politica e della diplomazia. I mercati, dopo
anni passati a temere eventi che poi non si sono realizzati, non si
stanno occupando della questione, ma la questione c’è lo stesso.
Il fatto è che l’amministrazione Bush resterà in carica solo per
sette mesi. A fine gennaio si insedierà probabilmente
un’amministrazione democratica. Se Israele vuole dare una risposta
preventiva alla minaccia nucleare iraniana deve darla adesso se
vuole contare su un’America favorevole.
L’ipotesi è stata finora lanciata da fonti democratiche negli Stati
Uniti e pacifiste in Europa (l’ex ministro degli esteri tedesco
Joschka Fischer) con la probabile intenzione di bruciarla.
L’amministrazione Bush nega con forza. La preoccupazione dei
democratici è dovuta anche al fatto che un attacco condotto prima
delle elezioni di novembre riporterebbe il tema della sicurezza al
centro dell’attenzione, favorendo McCain rispetto a Obama.
Un attacco israeliano sarebbe ovviamente limitato alle installazioni
nucleari (come fu il caso con l’Irak e come è stato l’anno scorso
con la Siria). Quella che è difficile valutare, in questa ipotesi, è
la risposta iraniana. L’Iran non avrebbe la solidarietà dei regimi
sunniti, che lo temono e lo vedrebbero volentieri indebolito, e un
embargo generalizzato del petrolio sul modello del 1973-74 sarebbe
improbabile. L’Iran potrebbe però contare sul Venezuela e potrebbe
cercare di bloccare il golfo Persico. I governi occidentali
renderebbero disponibili le riserve strategiche di greggio e
potrebbero essere prese misure per frenare la speculazione, ma il
prezzo si muoverebbe comunque in una direzione sola.
La geopolitica, per le sue incognite e la sua incommensurabilità,
non deve essere messa al centro dei pensieri di un asset manager, ma
deve essere considerata con attenzione da ogni risk manager. In
altre parole, un evento al quale attribuiamo, tanto per mettere un
numero, un dieci per cento di probabilità, non deve influenzare la
direzionalità attesa, ma deve essere ponderato nel decidere il grado
di aggressività o, meglio ancora, per acquistare protezione su certe
aree del portafoglio più esposte (linee aeree, auto e ciclici in
generale). Niente di più, per il momento. Quanto al petrolio e ai
titoli dell’energia, siamo dell’idea che vadano acquistati su
debolezza indipendentemente dalla questione iraniana (volendo invece
includerla, sarebbero da privilegiare i produttori americani, che
non hanno interessi in Iran).
Finora abbiamo vissuto quella che l’Economist ha definito una crisi
energetica lenta, capace di generare una risposta positiva in
termini di riduzione ordinata della domanda e di ricerca di fonti
alternative. Un’ipotesi di conflitto produrrebbe però una crisi
acuta e una recessione. Il conflitto, inoltre, avrebbe dei costi in
sé. Lo scenario degli anni Settanta (con le due crisi energetiche
acute e la guerra del Vietnam da finanziare), finora lontano
sull’orizzonte anche se in avvicinamento, apparirebbe più vicino.
Prima di vedere che cosa sono stati gli anni Settanta facciamo però
il punto sugli ultimi dieci, senza alcuna pretesa di completezza e
limitando l’analisi agli Stati Uniti.
Emerge subito che dal 1998 al 2008 il cash e la borsa non hanno
prodotto praticamente nulla in termini reali (a salvare la borsa c’è
solo un flusso del 28 per cento di dividendi). Il bond trentennale
comperato 10 anni fa esatti ha invece reso l’80 per cento nominale
(e il 50 reale), supponendo di avere reinvestito le cedole nel bond
stesso.
Le case, che da manuale dovrebbero apprezzarsi sul lungo termine in
linea con il Pil nominale, hanno fatto qualcosa di più, ma non
molto. L’oro è andato certamente bene, ma non tanto come si potrebbe
pensare, mentre il vero vincitore, tra gli asset considerati, è il
petrolio, che si è apprezzato di quasi sei volte. Da questa rincorsa
decennale dovremmo ora entrare, nel peggiore degli scenari
possibili, in una riedizione degli anni Settanta. Vediamo allora che
cosa significarono.
Dal 1970 al 1981 il costo della vita raddoppiò, ma chi aveva un bond
trentennale nel 1970 si ritrovò lo stesso valore nominale nel 1981,
con metà del potere d’acquisto. Sappiamo che solo nella finanza
neanderthaliana si comprava un trentennale per tenerlo trent’anni,
ma quarant’anni fa qualche zia Evelina che si comportava così c’era
ancora.
Nei formidabili anni Settanta le case e le borse mantennero il loro
potere d’acquisto (nel caso della borsa solo grazie a un 39 per
cento di dividendi) e la vera sorpresa, vista con gli occhi di oggi,
fu il cash, che in undici anni raddoppiò il suo potere d’acquisto.
Dopo i primi anni, infatti, il Tesoro americano non riuscì più a
rifilare T-Bill a tasso reale zero o negativo (come oggi) e dovette
pagare profumati tassi reali. I trionfatori della stagflazione
furono non le case (come abbiamo visto) ma l’oro e il petrolio che
aumentarono rispettivamente di 13 e di 19 volte (o di 6 e di 8 in
termini reali). Prima di fare qualche considerazione sul futuro che
ci aspetta, vediamo, già che ci siamo, il quadro di sintesi dal 1970
al 2008.
In questi quasi 40 anni di dopo Bretton Woods il costo della vita
(si parla sempre di America) è aumentato di 5 volte, il valore di un
investimento in trentennali di 9, esattamente come le case. Il cash
(difficile a credersi, ma abbiamo verificato) è aumentato di 13
volte. L’oro di 18. La borsa di 20 (di 25 se calcoliamo i dividendi)
e il petrolio di 40.
Sono cifre che fanno venire il capogiro (un grazie a Maurizio
Binelli per il number crunching). A un cash che batte case e bond
non avremmo mai pensato. Venendo alle lezioni per il futuro
ribadiamo che lo scenario di base rimane quello di stagflazione
light (crescita bassa ma non nulla e inflazione brillante ma sotto
controllo) e non quello di un ritorno conclamato agli anni Settanta.
In ogni caso, per i prossimi anni non si può aspettare dal cash e
dai bond un ritorno totale così favorevole. Lo stesso per le case.
Per le borse, lo stabilizzarsi di un’inflazione più alta dovrebbe
portare a un’ulteriore erosione dei multipli, compensata
augurabilmente da un miglioramento lento degli utili. Al termine di
questo lungo ciclo di correzione, iniziato nel 2000, le borse
risulteranno particolarmente interessanti.
L’oro terrà il suo potere d’acquisto e lo accrescerà moderatamente
in questa fase di stagflazione leggera (a condizione che non ci
siano recessioni) e inizierà a splendere meno se a questa fase
seguirà un ciclo di disinflazione e di rialzo delle borse.
Il petrolio, che nei dati presentati risulta sempre vincitore, scese
in realtà drammaticamente per due decenni, gli anni Ottanta e
Novanta. Non vediamo però all’orizzonte nessuna possibilità di
discesa prolungata e importante. Il fatto che il greggio costi oggi
40 volte di più che nel 1970 non è dovuto necessariamente a una
bolla, ma al fatto che sta cominciando a diventare prezioso. Il
petrolio non è riciclabile come l’oro o il rame o quasi tutto. Se ne
va per sempre. Nel 1970 tutto il gas che usciva dai pozzi durante
l’estrazione di greggio veniva bruciato sul posto, tanto valeva poco
ed era considerato infinito.
E’ lo stesso gas che, diventato prezioso, preoccupa oggi l’Europa
perché la mette alla mercé della Russia e che è diventato
insufficiente perfino nel golfo Persico.
 |
Fonte
- Il Rosso e il Nero |
Petrolio:
la super-mega
speculazione
10 Giugno 2008 15:31 LUGANO -
di Alfonso Tuor
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È sempre più difficile sostenere che l’impennata del prezzo del
petrolio non è dovuta in gran parte alla speculazione finanziaria,
soprattutto dopo il balzo di 10 dollari il barile registrato nella
giornata di venerdì.
Questi violenti movimenti, che hanno spinto il prezzo del greggio ad
un soffio dai 140 dollari il barile, sono la manifestazione
inequivocabile della bolla finanziaria che si è formata nel mercato
delle materie prime e dei prodotti alimentari. Alcune cifre
confermano questa tesi.
Come ha scritto sul «Financial Times» Lord Desai, docente alla
London School of Economics, nello scorso mese di maggio, al New York
Mercantile Exchange sono stati scambiati ogni giorno contratti per
circa 850 milioni di barili, ossia un volume corrispondente a dieci
volte la produzione giornaliera di petrolio (che ammonta a 85
milioni di barili). Questi semplici dati confermano che ha ragione
il finanziere George Soros, il quale, in una recente audizione
davanti al Senato statunitense, ha dichiarato: «Ci sono tutti i
segnali di una bolla, ma non è detto che essa scoppierà tanto
presto».
I segnali di una bolla ci sono in effetti tutti. Il prezzo del
petrolio è più che raddoppiato negli ultimi 12 mesi ed è salito
quest’anno dai 90 dollari il barile dello scorso mese di febbraio ai
139 dollari di venerdì scorso.
Nell’economia reale non è successo nulla che possa giustificare un
incremento superiore al 9%. La domanda cinese ed indiana, additata
spesso come causa principe del rialzo del greggio, non ha subito
negli ultimi cinque mesi alcun balzo. Inoltre, la richiesta di
greggio di Cina e di India non influisce direttamente sulle
quotazioni di breve termine del greggio, poiché avviene fuori dal
mercato, con contratti a lungo termine firmati con i paesi
esportatori.
Anche i termini dei problemi produttivi dei paesi esportatori di
greggio non sono cambiati negli ultimi mesi. Anzi, l’aneddotica
indica – come ha sottolineato «Il Sole 24 Ore» – che si moltiplicano
le petroliere che vagano per gli Oceani in cerca di attracchi, cioè
di acquirenti, cui vendere a sconto il loro carico di greggio.
Il problema è che i mercati a termine sui combustibili non
obbediscono alle leggi della domanda e dell’offerta, ma alle
aspettative sul prezzo futuro. E in questo mercato di carta si sono
fiondate le istituzioni finanziarie, le quali negli ultimi anni
hanno investito 260 miliardi di dollari. È quindi evidente che
quando la Goldman Sachs, la banca di investimento più attiva in
questo mercato, prevede che entro la fine dell’anno il barile
supererà i 200 dollari, non fa una previsione, ma in buona sostanza
dice alla concorrenza di continuare a scommettere sul rialzo del
greggio.
Ciò induce a ritenere che la corsa del prezzo del petrolio potrebbe
ancora continuare e quindi decurtare ancor di più il reddito di
famiglie ed imprese. Non sorprende che si moltiplichino le proposte
di trattare con gli arabi, affinché aumentino la produzione; oppure
di detassare il prezzo del petrolio per calmare la rabbia crescente
di consumatori, pescatori ed autotrasportatori. È pure difficilmente
spiegabile come non si reagisca a questa corsa del greggio che sta
intaccando la crescita di economie già sotto stress a causa della
crisi dei mutui subprime e che sta favorendo il ritorno
dell’inflazione.
Comunque è incomprensibile che rispetto alle numerose idee in
circolazione nessuna proposta miri ad aggredire la causa prima di
questa enorme bolla finanziaria attorno al prezzo del petrolio.
Eppure basterebbe una regola semplice per far cadere il castello
costruito sul greggio dai «maghi della carta straccia».
La regola è la seguente: coloro che comprano a termine il greggio
devono alla scadenza del contratto comprare il petrolio fisico e non
possono più evitare di farlo pagando una piccola compensazione
monetaria, come invece avviene oggi. In pratica, si tratterebbe di
ripristinare le leggi dei mercati a termine. Nessuno però sembra
avere il coraggio di rovinare l’ultimo giocattolo, che frutta ancora
soldi, creato da Wall Street.
Così dopo la bolla delle borse, scoppiata all’inizio del decennio, e
quella del mercato immobiliare americano, esplosa l’anno scorso, ora
abbiamo la «mania» del petrolio. Anche questa bolla è certamente
destinata prima o poi a scoppiare, ma nel frattempo rischia di
aggravare pesantemente le condizioni di un’economia mondiale che già
stenta a fare i conti con la crisi dei mutui subprime.
 |
Fonte - Corriere del
Ticino |
IL PETROLIO TOCCHERA' I
$250 AL BARILE
11 Giugno 2008 10:51
DEAUVILLE (FRANCIA) - di
ANSA ______________________________________________
C'è chi come la banca
d'affari americana ha previsto che il petrolio raggiungerà i
200 dollari al barile entro il 2010. Una profezia accusata
dagli analisti di autoavverarsi solo per il fatto che essa
stessa produce una nuova fiammata speculativa sul greggio.
Ma c'è chi va oltre. Secondo il numero uno del gruppo
petrolifero russo Gazprom, Alexei Miller, il prezzo del
petrolio potrà arrivare a 250 dollari al barile. Miller, che
parlava nel corso di una conferenza stampa, non ha precisato
i tempi. «Oggi siamo testimoni di un aumento dei prezzi
critico per gli idrocarburi, ma il prezzo del barile
arriverà a livelli mai pensati, la prospettiva è di 250
dollari al barile».
COMPETIZIONE - «La competizione per questa risorsa - ha
aggiunto il leader del monopolista russo degli idrocarburi -
sarà più forte». Questo, secondo il numero uno di Gazprom,
il fattore determinante. Miller ha comunque registrato,
sulla formazione del prezzo del barile, «un’influenza seria
delle operazioni degli speculatori», tuttavia stima che
«questa influenza non è decisiva».
Il manager russo ha inoltre spiegato che Gazprom vende il
gas all’Europa attualmente a 410 dollari ogni mille metri
cubi e non a 400 dollari, come precedentemente annunciato in
precedenza. A marzo Miller aveva previsto che il metano
russo avrebbe raggiunto i 400 dollari nel 2008. Il prezzo
del gas è indicizzato su quello del petrolio.
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PETROLIO: HAYWARD (BP), LASCIATECI TRIVELLARE IN ANTARTIDE
12 Giugno 2008 15:10 LONDRA - di
ANSA ______________________________________________
(ANSA) - LONDRA, 12 GIU - Il
mondo, stando alle parole di Tony Hayward, amministratore
delegato di British Petroleum (BP), ha davanti ha sé ancora
40 anni buoni di 'era del petrolio' - ma se si vuole stare
al passo con la crescente domanda di oro nero ci si deve
rassegnare ad 'aprire' l'Antartide alle compagnie
petrolifere. Il boss di BP, che ieri ha presentato l'annuale
rapporto sull'energia compilato dal colosso energetico
britannico, ha detto che ai livelli di produzione attuali le
riserve petrolifere mondiali possono garantire 41 anni di
greggio. Ma quando si tratta di aumentare la produzione,
allora son dolori. Sono troppi, a detta di Hayward, i 'lacci
e lacciuoli' che impediscono alle società petrolifere di
operare liberamente. "In altre parole", ha sintetizzato
Hayward, "quando si parla di rendere disponibile più
petrolio, i problemi non s'incontrano sottoterra, ma sopra,
sono politici, non geologici". Per questo Hayward da un lato
si è lamentato della difficoltà di operare in paesi come il
Venezuela, la Russia o il Medio-Oriente, e dal'altro i
sussidi che alcune compagnie petrolifere ricevono nei paesi
in via di sviluppo e "che distorcono la competizione". Il
boss di BP ha poi negato che il picco di produzione sia
stato raggiunto e che gli alti prezzi del greggio dipendono
"dalla volatilità dei prezzi stessi e dallo stretto margine
tra produzione e consumo". Quindi l'affondo: aprire
l'Antartide - nonché le aree protette degli Stati Uniti
d'America - alle trivelle sarebbe l'unica soluzione reale
per soddisfare la sempre crescente sete di petrolio del
mondo. Il trattato di Madrid, ratificato nel 1998, impedisce
però ogni sfruttamento delle ingenti risorse naturali del
'continente bianco' sino al 2048. Nemmeno un anno fa, a
scopo 'precauzionale', il governo britannico ha compilato
all'ONU una richiesta di attribuzione di un'area vasta un
milione di chilometri quadrati confinante all'attuale
Antartide britannica. (ANSA)
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Il ritorno
delle 7 sorelle spiega la
guerra di Bush
26 Giugno 2008 13:17 TORINO -
di Mimmo Candito
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Gli americani la chiamano "the smokin’ gun", la pistola fumante, per
dire: ecco qui la prova inequivocabile, quella che inchioda il
colpevole al di là di qualsiasi possibile dubbio.
La pistola fumante che
inchioda Bush e Cheney alle loro colpe sulla guerra lanciata 5 anni
fa la si potrà trovare lunedì prossimo sulla scrivania del Ministro
iracheno del petrolio quando, schierate di fronte a lui, siederanno
con la penna già in mano le "sette sorelle", o comunque quanto resta
di loro dopo le fusioni, pronte a firmare il contratto che gli
concede di tornare a metter le mani sul petrolio della Mesopotamia.
Le aveva rimandate a casa
più di trent’anni fa Saddam Hussein, con un decreto di
nazionalizzazione degli idrocarburi; ma ora che Saddam è stato messo
a tacere, le majors possono godersi il miele della vendetta e
rientrare in pompa magna a farsi i loro affari.
Questa è la notizia che circola in molti blog americani negli ultimi
giorni, a dire qual è l’umore sprezzante che sempre più viene
rivolto al Presidente e alla sua politica irachena, con lo
stillicidio quotidiano dei 4 mila morti interrati nella coscienza
della nazione. Cadute le facili illusioni dei primi giorni di quel
2003, nell’opinione pubblica ha finito per acquistare sempre
maggiore credibilità l’ipotesi che la vera ragione di questa guerra
fosse il petrolio, altro che "la democrazia da esportare".
E l’Iraq, di petrolio ne ha
davvero un mare. Le sue riserve conosciute sono di 115 miliardi di
barili (più i 45 miliardi di metri cubi di gas), che è una cifra che
lo mette al terzo posto della classifica mondiale; ma nelle
settimane che precedettero il lancio della guerra l’Energy
Information Agency del governo americano dava una stima assai più
elevata, di 332 miliardi di barili, valutando che nella pancia del
deserto occidentale ci siano riserve preziosissime, che porteranno
l’Iraq al primo posto dei paesi produttori, sopravanzando di 70
miliardi di barili perfino l’Arabia Saudita, oggi il più ricco di
pozzi e di petrodollari.
A confortare il giudizio amaro sui reali interessi di Bush e di
Cheney – legati da sempre al mondo petrolifero, che gli finanziò la
campagna elettorale dopo averli avuti anche come qualificati membri
dei consigli di amministrazione – è la specifica che accompagna i
contratti da firmare lunedì: contrariamente a quanto si pratica in
questo comparto industriale, gli accodi sono stati raggiunti a
trattativa privata, senza alcun bando pubblico, che è
come dire che la Exxon
Mobil, la Shell, la Total e la Bp (che facevano parte di quell’Iraq
Petroleum Company che gestiva i ricchi affari iracheni prima di
Saddam), più la Chevron –Amoco potranno spartirsi l’oro nero
iracheno indisturbate, senza concorrente alcuno.
L’Iraq, che oggi produce 2
milioni e mezzo di barili al giorno (ma, con investimenti adeguati e
un incisivo rinnovamento tecnologico, frenato a lungo dall’embargo
contro Saddam, potrebbe arrivare fino a 6 milioni), conta di avere
dai nuovi soci una immediata capacità di portare la produzione a 3,
1 milioni già entro l’anno;
e giustifica il contratto
"di favore" con due spiegazioni: l’alto know-how delle majors, che
potranno aiutare l’industria irachena a migliorarsi decisamente, e
poi la durata del contratto limitata a 2 anni. "Poi si ridiscuterà".
Certo, ogni illusione è lecita, poi. Il "Columbia Journalism Review",
pubblicando recentemente in un numero speciale i più importanti
reportage sulla guerra, stampava anche quanto aveva detto ai suoi
ascoltatori l’inviata della National Public Radio, Anne Garrett:
"Gli iracheni, al nostro arrivo, erano scioccati per il fatto che i
soldati americani non facessero niente contro le violenze e i
saccheggi, e ricorderà per sempre che praticamente l’unico edificio
a essere protetto era il ministero del Petrolio; questo ricordava a
tanti il motivo per il quale gli Stati Uniti si trovavano là".
 |
Fonte - La Stampa |
Il fieno
del dollaro
19 Giugno 2008 03:34 NEW YORK
-
di
Il Foglio
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Dice un proverbio cinese che
un cavallo non diventa grasso senza rubare il fieno agli altri.
Nonostante dica che "la Cina ha bisogno degli Stati Uniti e gli
Stati Uniti hanno bisogno della Cina", il vicepremier Wang Qishan
sembra avere un piano semplice e preciso per accrescere le fortune
economiche del suo paese: rubare più fieno possibile al cavallo
americano.
I toni amichevoli e un viatico fatto di trenta accordi commerciali
tra grandi aziende dell’una e dell’altra parte e l’annuncio di
accordi bilaterali su energia e ambiente potrebbero ingannare:
in realtà il vertice
sinoamericano che si è aperto ieri ad Annapolis, nel Maryland, sotto
la guida del segretario al Tesoro, Henry Paulson, potrebbe essere
quello del sempre più probabile raffreddamento tra Cina e Stati
Uniti.
Senza mai essere diventati alleati, i due paesi hanno tentato negli
ultimi anni un riavvicinamento, dettato anche dalla voglia di
Washington di non pagare le conseguenze della crescita economica
cinese e di normalizzare il vantaggio monetario di Pechino, che
senza scambiarlo sui mercati tiene artificiosamente basso il valore
dello yuan. Tre sessioni semestrali di negoziato bilaterale non
hanno però appianato le divergenze, nonostante Paulson, alla vigilia
del vertice, abbia ricordato ai giornalisti di essere riuscito a
strappare un apprezzamento della valuta cinese del 20 per cento in
tre anni. Per l’economia americana, però, potrebbe essere troppo
poco e troppo tardi.
Paulson, mostrando di saperlo, ha chiarito che al centro della nuova
sessione (la quarta) del negoziato strategico ci sarà la questione
delle ingenti scorte petrolifere cinesi: a Washington vorrebbero
sapere come Pechino intenda gestirle in futuro.
La questione non è di poco
conto. Gli americani (e non soltanto loro) temono che la politica di
accumulo di petrolio portata avanti dalle autorità cinesi nasconda
l’obiettivo di voler incidere sulle quotazioni del greggio e
chiedono a Pechino di essere chiara, magari dicendo che le riserve
strategiche del paese servono soltanto a garantire continuità ai
rifornimenti.
Difficilmente, però, il
vicepremier cinese farà chiarezza su questo punto. Forte di una
crescita economica ancora solida, la Cina si trova per la prima
volta a trattare con un’America in difficoltà, seppure non in
recessione, e ha intenzione di approfittarne. Se la
preoccupazione americana è legata al ruolo di Pechino (principale
importatore dopo Washington) sul mercato petrolifero, quella dei
cinesi ha invece origine proprio nell’attuale debolezza del sistema
economico statunitense.
Le riserve della Banca centrale cinese, principalmente in dollari,
hanno perso consistenza via via che la valuta americana si
deprezzava sui mercati, tanto da scatenare i commenti tutt’altro che
amichevoli di un alto funzionario dell’autorità di controllo sul
sistema bancario cinese e dell’inviato di Pechino all’Organizzazione
mondiale del commercio.
Entrambi hanno recentemente accusato Washington di
"irresponsabilità" per aver scatenato la crisi dei mutui subprime e
per aver permesso una così rapida svalutazione del dollaro. "E’
colpa dell’America se ora i prezzi di derrate e petrolio sono così
elevati", è stata la conclusione del diplomatico cinese.
La strategia di Wang partirà
da queste dichiarazioni: il vicepremier punterà sulla debolezza
dell’economia statunitense (che penalizza anche Pechino) per
respingere le richieste di Paulson e ottenere una riduzione della
resistenza che Washington continua a opporre ai prodotti e ai
capitali cinesi.
I dati, in questo senso, parlano chiaro: lo scorso anno, complice il
crollo delle quotazioni del dollaro, l’export americano verso la
Cina è aumentato del 20 per cento rispetto ai dodici mesi
precedenti, quello cinese verso gli Stati Uniti soltanto del dieci.
Le barriere ci sono e non riguardano soltanto le merci. Il Financial
Times ha rivelato che la Federal Reserve avrebbe provvisoriamente
negato alle due maggiori banche cinesi di aprire una succursale
americana.
In particolare, la Banca industriale e commerciale cinese non
avrebbe chiarito a sufficienza il ruolo del suo principale
azionista, un fondo di investimento controllato dal governo di
Pechino. Per i cinesi si tratta di "un giochetto per avere un’arma
ad Annapolis" che potrebbe inasprire ulteriormente i rapporti
bilaterali, già tesi per le recenti prese di posizione di Pechino
sul nucleare iraniano e sull’allargamento della Nato (in accordo con
Mosca). Per Paulson, "l’importante è continuare a parlarci". Tutto
sta a capire se qualcuno lo ascolterà.
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Fonte - Il Foglio |
CRISI ECONOMICA: NASCE
DALLA BOLLA IMMOBILIARE
11 Giugno 2008 16:51
NEW YORK - di
ANSA ______________________________________________
"L'attuale crisi dei mercati
finanziari nasce dall'esplosione della bolla del settore
immobiliare ed edilizio, con le banche che hanno riversato
incertezze e asset dubbi su tutto il sistema".
Lo afferma il premio Nobel 2006 per l'Economia, lo
statunitense Edmund Phelps, secondo il quale una soluzione
potrebbe essere quella di rivalutare il dollaro, per non
fermare gli investimenti interni statunitensi e rilanciare
quindi tutta l'economia Usa. "La crisi - spiega Phelps a
Milano partecipando al primo Italian gold forum - è nata con
l'esplosione della bolla immobiliare che ha portato i prezzi
delle case fino al 40% oltre il loro valore reale.
Dal 2010 il settore potrà ripartire grazie alle seconde case
o alla richiesta di alloggi migliori, ma intanto le banche
si sono trovate con un enorme aumento del loro patrimonio
immobiliare rispetto agli scarsi capitali a disposizione,
con il risultato che hanno cercato capitali sul mercato
finanziario, 'cartolarizzando' ipoteche e mutui molto dubbi,
che sono stati acquistati da hedge fund, altri istituti o
ceduti anche con transazioni fuori bilancio. E così prodotti
molto rischiosi sono andati a finire in tutto il sistema".
Secondo il premio Nobel, professore associato di Politica
economica alla Columbia University, "c'é anche un altro
problema, che è quello dell'aumento del petrolio senza che
vi sia una reale riduzione delle riserve, quindi un aumento
tutto speculativo, spinto anche dai produttori contro il 'retail',
come dimostra l'intervento di Gazprom di ieri che parla di
raddoppio del prezzo entro breve".
Una soluzione potrebbe allora essere rappresentata dalla
crescita del valore del dollaro, "perché con una moneta così
debole gli Usa riescono sì a esportare di più, ma senza fare
investimenti sul sistema interno della ricerca e della
produzione, che invece deve ripartire per far riprendere
tutta l'economia americana". Ma c'é un elemento che non va
giù al combattivo premio Nobel: "Le risposte della politica
- afferma Phelps - sono insoddisfacenti, a partire dalla
politica monetaria.
Non bisogna avere paura dell'aumento momentaneo dei prezzi
dei beni primari: l'inflazione è un'altra cosa, è l'attesa
da parte di tutti di tassi di svalutazione insopportabili.
Non siamo in questa fase e aumentare i tassi di interesse
sembra sia l'unica cosa che sanno fare le banche centrali",
fermando quindi i primi timidi tentativi di crescita, pensa
il premio Nobel.
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STAGFLAZIONE E BOLLE SPECULATIVE
17 Giugno 2008 07:37 ROMA - di
Massimo
Giannini ______________________________________________
C’è nell’aria una paura di
stagflazione da anni ’70, dice sul Financial Times Stephen
Roach, uno dei più brillanti banchieri d’affari della Morgan
Stanley. Provate a dargli torto. Le prospettive della
congiuntura, nel medio periodo, restano nere. La bolletta
petrolifera impone un conto salatissimo alle economie
mondiali.
Per avere un’idea, nell’ultimo mese i consumi di benzina
negli Stati Uniti sono scesi del 9%. Un dato che ha un solo
precedente: gli anni della Seconda Guerra Mondiale. È vero
che la stagflazione moderna è diversa da quella del passato
perché oggi l’inflazione, priva dei vecchi meccanismi di
indicizzazione, non ruota attorno alla spirale perversa
prezzisalari. Ma questo, paradossalmente, complica le cose.
Ed è altrettanto vero che oggi Usa e Europa importano
inflazione dall’Asia, dove i prezzi corrono a ritmi del
7,5%.
Parzialmente diverso è il quadro dei mercati, dove i
problemi strutturali sono acuiti dai fenomeni speculativi.
Nel breve periodo qualche «bolla» potrebbe esplodere. Dal
grano al cacao, dall’olio alle commodities: gli aumenti
esponenziali di queste ultime settimane non si spiegano solo
con la «fame» di materie prime degli emergenti del «Bric».
Prima dell’estate potrebbero in parte rientrare. E questo,
come prevede George Soros, potrebbe generare un «rimbalzino»
delle borse.
Quello che non abbiamo capito è cosa aspettano i banchieri
centrali a concertare una politica monetaria all’altezza
della sfida. La Bce, finora, ha avuto ragione a tenere
stretti i cordoni della borsa sulla stabilità dei prezzi,
mentre la Fed ha pagato la manica troppo larga di questi
anni. Ma ormai è giudizio unanime che un rafforzamento del
dollaro aiuterebbe a calmierare il prezzo del petrolio, e
quindi attenuerebbe l’impatto recessivo dello shock. «È
troppo chiedere una collaborazione tra Francoforte e
Washington?», chiedeva tre giorni fa James B. Stewart sul
Wall Street Journal. Buona domanda. Si attende risposta.
Fonte
- La Repubblica
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Finanza, ma il giocattolo si è rotto ?
22 Giugno 2008 16:00 MILANO -
di Giuseppe Turani
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La crisi dei
prestiti subprime non ha creato problemi solo all´economia mondiale
e a milioni di risparmiatori. Sta cambiando anche la geografia del
potere economico. Fino ad un anno fa tutti consideravamo i
fondi di private equity una sorta di nuovo grande potere pronto non
solo a comprare aziende di qualsiasi dimensione, ma anche a tentare
di condizionare paesi, economie, settori industriali.
L´estate scorsa però è
successo qualcosa che ha stravolto un trend che durava da almeno
vent´anni. E´ successo che, partendo dall´esposizione in mutui
subprime e cartolarizzazioni relative, molte banche hanno cominciato
a guardare più attentamente il proprio portafoglio impieghi
ed hanno realizzato che sul settore del private equity (prestiti a
chi comprava aziende in parte con soldi propri ma in gran parte con
soldi presi a prestito) c´era stata un po´ troppa disinvoltura. E
hanno chiuso improvvisamente i rubinetti.
Dall´autunno scorso il
numero delle operazioni di private equity è crollato. Si è
praticamente salvato solo chi aveva una trattativa già molto
avanzata ed era più complicato smontarla che portarla a termine,
salvo spesso dover pagare tassi di interesse più alti. Da mesi però
quelli che erano considerati una grande minaccia, mai neanche
paventata in passato, sono tornati a dormire.
Erano pronti, i fondi di
private equity, a diventare i padroni del mondo, ma hanno dovuto
fermarsi.
Ma dove sono andati questi
signori, dove sono finiti tutti quei soldi? Quei soldi sono ancora
li, nelle loro casse, ma si è scoperto che ormai valgono assai poco,
visto che di norma si devono mescolare a tanto debito per poter
essere messi a frutto in modo adeguato. E´ come quelle
formule chimiche dove, se non si combinano due componenti, non
succede nulla. Il private equity classico, cioè quello dei grandi
leveraged buy out (operazioni di acquisizione effettuate utilizzando
la leva finanziaria, cioè i debiti con le banche che poi dovranno
essere ripagati dai cash flows delle aziende acquistate) è diventato
impotente di fronte al credit crunch che si sta manifestando in
tutto il mondo: le banche non hanno più soldi.
E cosa succederà, che fine
faranno tutti quei denari rimasti nelle casse dei fondi di private
equity? Visto che è poco probabile che i gestori di questi fondi
decidano di rimborsare i rispettivi investitori rinunciando alle
commissioni che incassano da anni, la cosa più logica è che cambino
parzialmente mestiere, cioè si rimettano a spendere e continuino a
comprare società e pacchetti azionari, ma senza dover
necessariamente far ricorso al debito. Faranno pertanto
operazioni meno aggressive, più prudenti, anche se per loro meno
lucrose.
D´altra parte era un po´ strano che i margini di quelli che sono
stati chiamati barbari, locuste, talvolta avvoltoi, fossero
enormemente superiori a quelli delle aziende e delle banche. Cioè di
coloro che consentivano quei guadagni. A parte quello che faranno,
gli strascichi che lasciano sul mercato sono, secondo alcuni, molto
problematici: aziende con debiti altissimi e che in molti casi sarà
impossibile ripagare, banche preoccupatissime di finanziamenti che -
figli della disinvoltura di cui sopra - occupano una parte
importante ed ingombrante dei loro bilanci e, fatto non marginale,
dipendenti di società che si trovano all´interno di situazioni rese
complicate e difficili da un´aggressività degli azionisti a cui non
hanno potuto opporsi.
In generale poi si può notare come le società con azionisti che
hanno privilegiato l´estrazione di liquidità alle prospettive future
siano notevolmente più deboli sul piano tecnologico (carenza di
investimenti in particolare nella ricerca e sviluppo di prodotti e
processi), commerciale (timidezza nel marketing dovuta alla
scarsezza di risorse finanziarie) e spesso anche sul piano
manageriale perché comunque il privilegiare la finanza sui processi
industriali non fa mai bene. D´altra parte se si vuole "mungere la
mucca", come insegnano i manuali di strategia, non si può aspirare a
diventare delle super star dello sviluppo.
Però, analizzando alcune
operazioni recenti, specie al di la dell´oceano, si vede che si
starebbe per "saldare" una combinazione virtuosa, una nuova formula
chimico-finanziaria: la liquidità dei fondi di private equity
potrebbe essere utilizzata proprio per riempire i buchi nei bilanci
delle banche attraverso la partecipazione alle cospicue
ricapitalizzazioni che ogni settimana sono all´ordine del giorno (Ubs,
Rbs, Citicorp, Barclays, Lehman, solo per citarne alcune) e che
finora hanno trovato nei fondi sovrani (di proprietà di Stati
esteri), oltre ad altre banche apparentemente più solide, il maggior
investitore.
Insomma, qualche
preoccupazione nel dare in mano ad arabi, russi, cinesi ed indiani
dei pacchetti azionari di rilievo nelle principali istituzioni
finanziarie del mondo comincia a serpeggiare e, tutto sommato, far
intervenire dei fondi "amici" può essere più prudente. O
comunque un argine. Con il risultato che il ruolo dei grandi
operatori del private equity, malgrado le operazioni che hanno fatto
e le conseguenze che hanno causato, continua ad essere molto
importante. Forse anche più di prima: vanno a salvare le banche.
 |
Fonte
- La Repubblica |
TASSI USA: LA FED LI LASCIA
INVARIATI AL 2.00%
25 Giugno 2008 20:10 NEW YORK - di
ANSA ______________________________________________
La Banca Centrale americana ha
lasciato invariato il tasso sui fed funds. Si chiude dunque
la serie di tagli iniziata a settembre dello scorso anno. Un
solo voto contrario.
Il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della
Federal Reserve, ha lasciato invariato il costo del denaro
degli Stati Uniti al 2.00%. Si chiude la serie di tagli ai
fed funds iniziata nel mese di settembre dello scorso anno
che aveva abbassato i tassi a breve dal 5.25% all’attuale
2%.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di mantenere
il target sui fed funds al 2.00%.
Le ultime informazioni indicano che nel complesso l’attivita’
economica sta continuando ad espandersi, riflettendo
parzialmente una ripresa della spesa delle famiglie.
Tuttavia, il mercato del lavoro si e’ indebolito
ulteriormente e i mercati finanziari restano sotto un
considerevole stress. Le peggiorate condizioni del credito,
la contrazione in corso del comparto immobiliare, e
l’aumento dei prezzi energetici continueranno a pesare con
molte probabilita’ sulla crescita economica nei prossimi
trimestri
Il Comitato si aspetta una moderazione dell’inflazione nei
prossimi mesi e nel prossimo anno. Tuttavia, alla luce del
continuo incremento dei prezzi energetici e di altre
commodities ed a causa dell’elevato stato di alcuni
indicatori sulle aspettative inflazionistiche, l’incertezza
circa l’outlook dei prezzi resta alta.
La politica monetaria espansiva condotta fino ad oggi, in
combinazione con le misure in atto per garantire la
liquidita’ sul mercato, dovrebbero promuovere una crescita
moderata nel tempo. Sebbene restino i rischi al ribasso per
la crescita, sembra che questi siano in qualche modo
diminuiti, mentre sono cresciuti i rischi di
un’accelerazione dell’inflazione e delle aspettative
inflazionistiche. Il Comitato continuera' a monitorare gli
sviluppi economici e finanziari ed agira' come necessario
per promuovere una crescita economica sostenibile e la
stabilita' dei prezzi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner,
Vice Chairman; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic
S. Mishkin; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H.
Stern; e Kevin M. Warsh. A votare contro e’ stato Richard W.
Fisher e che avrebbero preferito un aumento del target sui
fed funds in questo incontro.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di confermare il tasso
interbancario al 2.00%:
The Federal Open Market Committee decided today to keep its
target for the federal funds rate at 2 percent.
Recent information indicates that overall economic activity
continues to expand, partly reflecting some firming in
household spending. However, labor markets have softened
further and financial markets remain under considerable
stress. Tight credit conditions, the ongoing housing
contraction, and the rise in energy prices are likely to
weigh on economic growth over the next few quarters.
The Committee expects inflation to moderate later this year
and next year. However, in light of the continued increases
in the prices of energy and some other commodities and the
elevated state of some indicators of inflation expectations,
uncertainty about the inflation outlook remains high.
The substantial easing of monetary policy to date, combined
with ongoing measures to foster market liquidity, should
help to promote moderate growth over time. Although downside
risks to growth remain, they appear to have diminished
somewhat, and the upside risks to inflation and inflation
expectations have increased. The Committee will continue to
monitor economic and financial developments and will act as
needed to promote sustainable economic growth and price
stability.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S.
Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman;
Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin;
Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; and
Kevin M. Warsh. Voting against was Richard W. Fisher, who
preferred an increase in the target for the federal funds
rate at this meeting.
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FED: FISHER IL DISSIDENTE,
PER LUI QUARTO VOTO CONTRARIO
25 Giugno 2008 21:55 NEW YORK - di
ANSA ______________________________________________
(ANSA) - NEW YORK, 25 GIU -
Richard Fisher, presidente della Fed di Dallas e membro del
Fomc, continua a dissentire dalle scelte di politica
monetaria della Fed: nelle quattro votazioni alle quali ha
partecipato quest'anno non si è mai trovato d'accordo con le
scelte effettuate. Ma questa volta è rimasto solo: il suo
consueto compagno di opposizione, il presidente della Fed di
Philadelphia Charles Plosser, lo ha abbandonato,
accontentandosi della decisione di lasciare invariato il
costo del denaro al 2%. La riunione odierna rappresenta il
settimo meeting consecutivo della Fed con almeno un
dissenso. E mentre Ficher continua a opporsi alle scelte del
board, Plosser che finora lo aveva sostenuto schierandosi
contro la maggioranza, oggi ha optato per votare a favore
del mantenimento dello status quo, accontentandosi così di
interrompere il ciclo ribassista. In aprile, Fisher e
Plosser avevano votato per mantenere i tassi fermi, in
controtendenza così rispetto alla decisione finali di
ridurre il costo del denaro al 2%. In marzo, invece, si
erano espressi per un taglio meno aggressivo dei tassi
rispetto allo 0,75% poi deciso. In gennaio, nel corso della
riunione ordinaria, Fisher aveva dissentito dal taglio di
mezzo punto percentuale del costo del denaro. Sempre nello
stesso mese, il presidente della Fed di St. Louis William
Poole, nel corso del meeting straordinario via conference
call, aveva votato contro la decisione di intervenire,
invitando ad attendere l'appuntamento istituzionale per
agire. Nel dicembre 2007 Eric Rosengren, presidente della
Fed di Boston, aveva votato per un taglio di mezzo punto,
dichiarandosi contrario alla riduzione di un quarto di punto
decisa. In ottobre, il presidente della Kansas City, Thomas
Hoenig, aveva invece votato per il mantenimento dello status
quo rispetto alla riduzione di un quarto di punto che era
stata decisa. (ANSA).
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FED: TRE POSTI VACANTI IN
BOARD, SFIDA PER BERNANKE
25 Giugno 2008 19:41 NEW YORK - di
ANSA ______________________________________________
(ANSA) - NEW YORK, 25 GIU - Tre
posti vacanti nel board della Fed pongono il presidente
della banca centrale Ben Bernanke di fronte ad una sfida, in
quanto il rimpasto che dovrebbe avvenire potrebbe in qualche
modo influenzare la politica monetaria. E' la prima volta
dal 1935, cioé da quando è nato il Fomc, che ci sono tre
posti vuoti e al momento una soluzione non sembra vicina a
causa dell'empasse venutasi a creare fra il Senato
democratico e l'amministrazione Bush. Dai sette membri che
compongono il board della Fed attualmente due sono già out,
mentre un terzo governatore si appresta a lasciare alla fine
dell'estate. Il rimpasto del Fomc non è comunque destinato a
impattare radicalmente nel breve periodo sulle scelte della
Fed. Ma potrebbe spingere però Bernanke a muoversi verso un
atteggiamento più falco, complicando allo stesso tempo le
modalità di comunicazione. A votare nel Fomc sono
solitamente 12 membri: sette governatori a Washington e 5
presidenti delle 12 banche regionali della Fed. Il
presidente della Fed di New York ha un voto: i restanti 11
presidenti delle banche regionali votano a rotazione. Con
due governatori già assenti e uno che si appresta a
lasciare, alla fine dell'estate i presidenti delle banche
regionali avranno presto la maggioranza dei voti. I
presidenti delle banche regionali, al contrario dei sette
governatori del board, non sono nominati dal presidente e
confermati dal Senato.(ANSA).
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Presidenziali
USA: da Wall Street sì a Obama
04 Giugno 2008 16:57 NEW YORK -
di
Reuters
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Wall Street sta finanziando il candidato democratico
Barak Obama nella sua corsa alle Presidenza degli Stati Uniti,
nonostante la preoccupazione che la sua amministrazione possa alzare
le tasse e avere un approccio più severo su commercio e
regolamentazione. I segnali che Wall Street legge puntano verso la
vittoria dei Democratici nelle elezioni presidenziali e generali di
novembre, con gli elettori che puniranno il Partito repubblicano in
carica per il rallentamento dell'economia e la lunga guerra in Iraq.
Il fatto che Obama abbia iniziato a rastrellare una quota crescente
di denaro mentre la sua campagna spiccava il volo, fa pensare che
gli investitori vogliano semplicemente sostenere il probabile
vincitore.
Obama, senatore dell'Illinois, che ha conquistato martedì la
candidatura democratica alle presidenziali con oltre i 2.188
delegati necessari per sconfiggere Hillary Clinton, senatrice di New
York, ha ricevuto 7,9 milioni di dollari (5,1 milioni di euro) di
finanziamenti dal mondo della finanza e delle banche, secondo i dati
elaborati dal Center for Responsive Politics (Crp). Il suo
avversario, il senatore dell'Arizona repubblicano John McCain, ha
incassato poco meno di 4,2 milioni di dollari (2,7 milioni di euro),
meno dei suoi colleghi repubblicani Rudolph Giuliani e Mitt Romney,
che hanno abbandonato la corsa molto prima. Nel complesso i
Democratici hanno raccolto il 57% dei finanziamenti erogati dai big
della finanza. Se questa tendenza continuerà per tutto novembre,
sarebbe la prima volta dal 1994 che in un'elezione presidenziale
sono stati in grado di attrarre più soldi da Wall Street dei
Repubblicani, secondo i dati del Crp. Sebbene il flusso di denaro
quest'anno abbia decisamente cambiato direzione, il fatto che i
Democratici siano riusciti a raccogliere più fondi dei Repubblicani
può dire molto di più sulla natura di questa competizione che sulle
alleanze di Wall Street.
Obama e Clinton hanno avuto più bisogno di soldi per finanziare la
loro lunga battaglia per ottenere la nomination. Alla fine del 2007
la Clinton era al primo posto nella graduatoria dei finanziamenti da
Wall Street con 6,3 milioni di dollari (4,1 milioni di euro), Obama
era terzo dietro a Giuliani, secondo il Crp. McCain era sesto.
Robert Boatright, professore della Clark University in Worchester
(Massachusetts), che studia l'aspetto finanziario della campagna, ha
detto che le cifre di McCain potrebbero essere distorte nel caso
Wall Street stesse facendo delle donazioni al Comitato nazionale
repubblicano piuttosto che alla sua campagna.
ROTTA DI COLLISIONE
Se investire non è altro che scommettere su quel che il futuro ha in
serbo, e le elezioni presidenziali non fanno eccezione, i trader
stanno dando al candidato democratico un buon margine. Intrade, sito
internet con base a Dublino nel quale si comprano e vendono
contratti legati a eventi del mondo reale, dà a Obama un robusto
vantaggio su McCain. Anche questo contribuisce a spiegare perché il
denaro di Wall Street si stia accumulando nelle sue casse, sebbene
molte delle sue posizioni politiche non siano molto popolari tra i
grandi investitori. La Security Industry and Financial Market
Association (Sifma), che rappresenta più di 650 società finanziarie,
banche e asset manager, si è espressa a favore di rendere permanente
i tagli alle tasse introdotti mentre George W. Bush era in carica.
Obama ha promesso di eliminarli. La Sifma inoltre vorrebbe
introdurre accordi per il libero scambio con paesi tra cui la Corea
del Sud, cosa alla quale Obama si è opposto. Il commercio al momento
è particolarmente importante per Wall Street dato che è il segmento
più sano dell'economia statunitense. Le esportazioni hanno
costituito la maggior parte della crescita dell'economia dello
scorso trimestre e quasi il totale dei profitti aziondali. "Senza il
commercio internazionale l'economia sarebbe in condizioni
decisamente peggiori", ha detto Joseph LaVorgna, economista capo
della filiale Usa Deutsche Bank.
Obama e Clinton si sono confrontati su chi avvrebbe avuto posizioni
più dure sul commercio mentre lottavano in stati con un'alta
presenza manifatturiera, come Ohio e Pennsylvania, dove molti
elettori incolpano la globalizzazione per la perdita del lavoro.
Entrambi hanno detto che avrebbero rinegoziato il North American
Free Trade Agreement (Nafta, Trattato per il libero commercio nel
Nord America) per aumentare le tutele dei lavoratori. Secondo Andrew
Busch, stratega del commercio estero globale per BMO Capital Markets
a Chicago, la retorica della campagna elettorale potrebbe
raffreddarsi ora che la lunga stagione delle primarie è finita.
Riscrivere il Nafta "sarebbe un disastro", ha detto Busch. "Non
possiamo tornare dai nostri partner commerciali e dire che non ci
piace questo o quell'aspetto dell'accordo. I nostri partner
commerciali potrebbero avere da ridire su ciò che non gli piace".
 |
Fonte - Reuters |
Mc
Cain,
l'eretico Repubblicano
05 Giugno 2008 10:56
WASHINGTON -
di Alberto Pasolini Zanelli
________________________________________
John McCain è apparso combattivo e stanco la notte in
cui ha voluto giocare d’anticipo e inserirsi nei festeggiamenti dei
democratici a Barack Obama. E le differenze sono apparse più
profonde che mai. E non perché potrebbe essere il padre del rivale.
E non soltanto perché egli è repubblicano invece che democratico: ma
perché egli è differente.
La campagna elettorale, quella vera, che si è aperta nella notte
brava dei «tre grandi», attenuerà probabilmente le distanze perché
gareggiare per la Casa Bianca impone anche un certo galateo non
necessariamente dettato dal rispetto ma attento a una contesa per la
conquista del «centro». La diversità si coglie dunque meglio adesso,
all’inizio, e potrà riproporsi dopo le elezioni nel modo in cui il
vincitore agirà.
Dato che l’avversario è Obama e che Obama ha come scelta obbligata
di attaccare McCain, il contrasto è davvero in bianco e nero e non
per il colore della pelle ma per le origini, la mentalità, le
esperienze dei due rivali. Qualità e difetti, punti di forza e di
debolezza sono opposti, speculari. Obama è visto come troppo
giovane, McCain, da molti, come troppo vecchio. L’uno è sospettato
di debolezza nella politica estera, l’altro di una eccessiva
rigidità. La sua visione del mondo si ricollega in qualche modo alla
cosiddetta «lezione del Vietnam», quella che vide il «fronte
interno» americano sgretolarsi sotto il peso della lunga guerra.
McCain quegli anni non li ha vissuti nelle strade o nelle aule della
politica di Washington ma in un carcere di Hanoi, abbattuto dalla
contraerea Viet durante un bombardamento, ferito, maltrattato,
torturato. Era una preda di valore. Era il figlio dell’ammiraglio
McCain, comandante delle forze Usa nel Pacifico e dunque anche dei
combattenti in Vietnam. Per lui, in una cella di quello che
sarcasticamente si chiamava lo «Hanoi Hilton», non c’erano echi del
«fronte interno» ma solo una guerra in corso che l’America finì col
perdere, unica nella storia.
Se tornò a casa fu per «merito» di un armistizio che preparava la
sconfitta. Scese dall’aereo appoggiato a due stampelle. Tornò a casa
nell’anno nero dell’America. Entrò in politica senza porsi troppe
domande ma rispondendo a un impulso patriottico oltre che ai dettami
di una tradizione di famiglia: anche il nonno era ammiraglio. Sempre
rieletto, fu attratto presto da obiettivi più importanti, il che lo
fece un rivale personale di George W. Bush.
Cominciarono a duellare nel febbraio del 2000 e McCain mise a segno
la prima stoccata, nel New Hampshire, prima di finire schiacciato
dal rullo compressore di Bush negli Stati del Sud. I due non si sono
mai troppo amati, al punto che nel 2004 al conservatore McCain fu
offerta addirittura la candidatura vicepresidenziale nel ticket
democratico guidato da John Kerry. Considerato un «eretico» per
alcune sue iniziative di politica interna, troppo «laico» per la
Destra religiosa, ancora non ha convinto tutti i repubblicani. Per i
democratici, però, la sua elezione equivarrebbe a un «terzo mandato
per Bush».
Un accostamento che gli pesa molto e da cui deve cercare di sfuggire
da qui a novembre. E lo farà, ma non è disposto a «remare contro»
nella politica estera e in particolare nel Medio Oriente. Ha già
fatto troppo, sempre obbedendo alla sua coscienza, a schierarsi
contro Guantanamo e, lui torturato, alla tortura.
È il più anziano candidato alla Casa Bianca nella storia, a tratti
appare stanco, il sorriso non troppo convinto. Ma ne ha passate di
peggio di una campagna elettorale. Spera che gli elettori si
abituino a considerarlo per se stesso e non per una appendice
dell’attuale amministrazione. Anche Obama, che i sondaggi in questo
momento danno lievemente in vantaggio, ha i suoi problemi. È «troppo
nuovo» così come McCain può apparire troppo vecchio. Ma i dadi sono
tratti ed entrambi dovranno correre fino al 4 novembre.
 |
Fonte - Il Giornale |
Hillary
Clinton lascia e invita i
suoi a votare Obama
08 Giugno 2008 18:32
NEW YORK -
dal corrispondente Mario Platero ______________________________________________
NEW YORK – Indomita, determinata,
in abito "presidenziale", un tallieur nero, camicetta verde
acqua, un filo di perle al collo, Hillary Clinton ha ceduto
il suo sogno politico di tornare alla Casa Bianca a Barack
Obama, ha chiesto di votare per lui, ha invocato l'unita'
del partito, ha detto che le due campagne, la sua e quella
di Obama hanno consentito di fare un balzo in avanti al
Paese, "un passo in avanti in quello che ci attende nel
ventunesimo secolo: oggi sappiamo che un afroamericano puo'
essere presidente degli Stati Uniti, che una donna e'
arrivata vicina alla candidatura del partito....le nostre
sono candidature simbolo per il futuro".
Un futuro pero', che non le appartiene. E che considerava
suo di diritto. Per questo il passaggio della concessione,
ormai inevitabile davanti alla vittoria di Barack Obama sul
fronte dei delegati, e' stato per Hillary difficile, anzi
difficilissimo. Hillary - nell'ultimo comizio che ha
ufficializzato la sua rinuncia alla corsa per la Casa Bianca
e il suo appoggio a Obama - ha regalato pochi sorrisi, il
tono restava duro, il momento chiaramente doloroso.
"Avrei voluto avere questo party per un'altra occasione" ha
detto in apertura del suo discorso con un sottofondo di
amarezza. Dal suo volto, dalle sue espressioni si coglieva
un sentimento piu' simile ai boati di disapprovazione che
venivano dal pubblico ogni volta che incoraggiava votare per
Barack Obama, a lavorare per lui, a dedicarsi alla causa
comune del partito, che alle parole ispirate, ma forse
meccaniche con cui chiedeva di chiudere il "suo" capitolo,
per aprirne un altro, in nome della storia del Paese e della
vittoria a novembre contro i repubblicani.
Durante il discorso di Hillary, Bill, il marito, che l'ha
seguita passo passo in questa lunghissima tormentata
combattuta campagna, il suo piu' ascoltato consigliere
politico, era mischiato al pubblico di fedelissimi al
National Building Museum a Washington insieme alla figlia
Chelsea. Anche lui abbattuto mentre ascoltava la moglie che
dichiarava :" a questo punto, uniti, il messaggio di Barack
Obama e' ancora piu' forte, "yes we can" ", diceva la
signora.
Comunque sia, per i Clinton e per l'America, gia' oggi si
archivia una pagina di storia: la concessione significa
ammettere un passaggio generazionale, significa che la
macchina politica dei Clinton, ammirata e potente e' stata
sconfitta, significa che il vento del cambiamento che il
Paese ha cercato prevale sugli interessi dei notabili e
dell'establishment politico della Capitale. Adesso per
Hillary non resta che aspettare. Non avra' piu' alcun input
sulle decisioni future. Il braccio di ferro che ha provato a
ingaggiare nei giorni scorsi per determinare alcune scelte,
ad esempio la vicepreisdenza per lei, in nome dei 18 milioni
di elettori che l'hanno appoggiata, di nuovo non ha portato
a nulla. E a confermare quanto profonde siano le ferite da
rimarginare, la forza dell'unita' non e' stata amplificata
da un'apparizione congiunta" Barack Obama non e' venuto a
questo discorso, e' riamsto a Chicago. E Hillary, in
chiusura, al suo canto del cigno, non ha potuto fare a meno
di rivendicare la sua base politica, appunto quei 18 milioni
di elettori, la nuova coalizione dei poveri delle zone
rurali, delle donne, dei gay, dei lavoratori che perdono il
posto per la concorrenza internazionale, delle madri che
allevano figli da sole, dei derelitti: "Io saro' sempre con
voi, nessuno potra' dimenticarvi", ha detto. Una conferma
insomma, l'assenza di Obama, i fischi e i boati, le
rivendicazioni di Hillary sulla forza della sua base, che la
spaccatura del partito e' stata davvero profonda e che il
processo per rimarginare la ferita e' appena iniziato con
l'appello all'Unita' della signora. Con una speranza di
fondo per i democratici: che da qui a novembre il tempo
sara' galantuomo.
Fonte
- La Stampa on line
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Usa:
una campagna elettorale da un miliardo di dollari
08 Giugno 2008 18:32 NEW YORK -
di Christian Rocca
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"In politica ci sono due cose importanti – diceva nel
1896 Mark Hanna, lo stratega del presidente americano William
McKinley – la prima sono i soldi e non mi ricordo quale sia la
seconda". La partita tra Barack Obama e John McCain si gioca anche
su questo, sul ruolo e sull’influenza del denaro nel processo
politico, non solo su chi sarà capace di raccogliere più
finanziamenti.
La campagna elettorale, finora, ha movimentato 950 milioni di
dollari, già 250 milioni in più rispetto al ciclo elettorale del
2004. Il tetto di un miliardo di dollari sarà superato facilmente.
La macchina da soldi di Obama ha già raccolto 264 milioni di
dollari, contro i cento di McCain, ma il Partito repubblicano ha
fatto meglio dei democratici. Oggi McCain e i repubblicani hanno a
disposizione 85 milioni cash, mentre Obama e i democratici venti di
meno, facilmente recuperabili anche grazie al consistente gruppo di
contribuenti clintoniani ora pronti a sostenere il vincitore delle
primarie. Entrambi i candidati hanno un curriculum da riformatori e
sono impegnati a ridurre il potere dei lobbisti e il condizionamento
degli interessi speciali.
Ma una cosa è fare politica da outsider, un’altra da candidati alla
Casa Bianca. A volte qualche compromesso è necessario. McCain è
l’autore della legge McCain-Feingold che limita e regolamenta il
finanziamento alla politica, Obama è stato l’unico candidato a
rinunciare ai soldi dei lobbisti (e a restituire i finanziamenti
ricevuti dall’amico e consigliere Tony Rezko, prima accusato e poi
condannato per corruzione).
McCain è noto per le sue battaglie contro i gruppi di
pressione di K Street, ma Obama e i democratici lo accusano con un
efficacissimo spot televisivo lanciato ieri mattina di avere tra i
suoi top advisor gente che ha rappresentato gli interessi di governi
stranieri, di feroci dittatori, di oligarchi russi, della famiglia
reale saudita. Un paio di consiglieri si sono dimessi per aver
curato gli interessi del regime birmano, anche se poi al Senato
McCain si batte per impedire ai petrolieri della Chevron di fare
affari con la giunta di Rangoon e i democratici sono favorevoli.
Il principale punto di scontro tra i due è quello del finanziamento
pubblico. McCain accusa Obama di non voler onorare la promessa di
accettare i soldi federali, una cosa mai successa da quando il
"public financing" è stato introdotto nel 1976. Obama è convinto di
poter raccogliere più soldi di quelli garantiti dalle casse federali
e non vuole essere legato ai limiti di spesa imposti dal
finanziamento pubblico.
Il candidato che riceve gli 84 milioni federali, da spendere tra le
convention di fine agosto e inizio settembre e il giorno delle
elezioni, rinuncia a convogliare nel processo ulteriori soldi.
Per evitare un contraccolpo alla sua immagine di uomo nuovo della
politica, Obama giustifica il suo probabile rifiuto spiegando di
aver messo in piedi un esercito di un milione e mezzo di piccoli
contribuenti che può essere considerato un modello parallelo di
finanziamento pubblico. I repubblicani fanno notare che nelle ultime
due dichiarazioni dei redditi Obama non ha messo la croce sulla
casella "3 dollari per la campagna presidenziale", e lo accusano di
considerare buoni soltanto i soldi che raccoglie lui.
Trucchi per aggirare le leggi
Obama però ha confermato le sue credenziali riformatrici annunciando
che sotto la sua guida d’ora in poi anche il Partito democratico,
anche se non retroattivamente, adotterà le regole contrarie a
ricevere i finanziamenti dei lobbisti federali e dai Pac, i comitati
di azione politica che intervengono a sostegno di un candidato o di
una battaglia politica. McCain, pressato da Obama, invece non sembra
disposto a rinunciare a quei soldi, anche se sono una percentuale
minima del totale, e spiega che aggirare le regole autoimposte dal
suo avversario è facile, tanto è vero che Obama riceve contributi
individuali da gran parte dei top manager di hedge fund e dai
dipendenti di varie corporation.
McCain, invece, aggira la sua stessa legge che limita a 2.300
dollari il contributo massimo che una persona può versare a un
candidato. Il senatore dell’Arizona, infatti, sta già delegando al
partito la raccolta fondi, in modo che i grandi donatori possano
versare in un colpo solo 70 mila dollari: 2.300 per le primarie,
altri 2.300 per le presidenziali, 28.500 per il partito nazionale e
il resto a comitati locali, anche se poi saranno tutti usati a
favore del candidato.
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Fonte - Il Foglio |
SondaggI:
BUSH AI MINIMI STORICI, OBAMA SU McCAIN
18 Giugno 2008 14:18 WASHINGTON -
di WSI ______________________________________________
Il gradimento di George W. Bush
fra gli americani è ai minimi storici: secondo un sondaggio
condotto dall'istituto di ricerca Harris, meno di un
americano su quattro, solo il 24%, ha del suo presidente una
«buona opinione». Pessimo anche il giudizio che gli
americani hanno della politica del loro paese: l'80% degli
intervistati ritiene che gli Stati Uniti stiano seguendo una
«strada sbagliata».
Bush in discesa. Il gradimento nei confronti di Bush, se si
escludono i 22 punti di consenso raccolti nel luglio 1980 da
Jimmy Carter, è il più basso mai rilevato per un presidente
americano. Ad aprile Bush poteva contare sul sostegno di 26
americani su 100 ma la crisi petrolifera e il conseguente
aumento del prezzo dei carburanti gli hanno fatto perdere
altri preziosi consensi.
Obama in ascesa. Nel primo sondaggio pubblicato dopo la
conclusione delle primarie democratiche, Barack Obama
mantiene un leggero vantaggio sull'aspirante presidente
repubblicano John McCain. Per il candidato democratico,
comunque, non è ancora tempo di sonni tranquilli: i voti
degli indipendenti alle elezioni potrebbero fare la
differenza.
I risultati del sondaggio condotto da Washington Post-Abc
vedono il senatore dell'Illinois in testa con il 48% delle
preferenze, con un vantaggio di sei punti percentuali sull'avversiario.
Il candidato repubblicano sembra però aver conquistato le
simpatie degli elettori indipendenti, quelli che non sono
registrati come votanti democratici o repubblicani, per i
quali il senatore dell'Arizona sarebbe un presidente più
credibile nella lotta al terrorismo.
Fonte
- WallStreetItalia.com
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