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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Credit Crunch

Mercati: una bomba che deve ancora scoppiare

Macro USA

Recessione globale: chi l'ha vista ?

Macro & Tassi

Periodo di tempeste, dopo “Ben “ arriva “Jean Claude”

Macro USA

Economia: abituatevi alla stagflazione light

Materie Prime - Petrolio

Petrolio: la super-mega speculazione

Materie Prime - Petrolio

Il ritorno delle 7 sorelle spiega la guerra di Bush

Valute - USD

Il fieno del dollaro

Credit Crunch

Finanza, ma il giocattolo si è rotto ?

   

Elezioni USA

Presidenziali USA: da Wall Street sì a Obama

Elezioni USA

Mc Cain, l'eretico Repubblicano

Elezioni USA

Una campagna elettorale da un miliardo di $

   

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Vai alla 2° parte della Rassegna

 

 

+++   ANSA - Martedì 3 Giugno 2008, 15:12 -   Fed: Bernanke, consumi migliori delle aspettattive, ancora venti contrari   +++   Fed: Bernanke, i mercati finanziari migliorano, la situazione rimane ancora tesa   +++   ANSA   +++   20 Giugno 2008 18:21 MILANO   +++
 
  Martedì 03 giugno 2008   Sabato 07 giugno 2008   Mercoledì 11 giugno 2008  
       
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  Mercati: una bomba che deve ancora scoppiare

02 Giugno 2008 10:45 TRENTO - di Giorgio Lonardi

Parla Guido Rossi, ex n.1 Consob. «Secondo Soros ci sono in giro $45 trilioni ($45 mila miliardi): una cifra enorme composta da Default Debt Swaps, pari a 5 volte i bond americani oggi in circolazione».

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Ex presidente della Consob, padre della legislazione antitrust, ex presidente di Telecom che ha guidato in due diverse e delicate occasioni, Guido Rossi è qui al Festival dell´economia di Trento per discutere con Federico Rampini del suo ultimo libro "Il mercato d´azzardo". Un tema vasto, dunque. Ma anche un argomento che ha dei punti in comune con alcune delle osservazioni e delle proposte del governatore della Banca d´Italia.

Professor Rossi, secondo Mario Draghi il ciclone subprime «ha toccato le banche italiane meno che quelle di altri Paesi». Sempre per il governatore i nostri istituti «hanno retto bene in questi mesi l´urto della crisi: i loro attivi solo marginalmente toccati, i bilanci stabilmente fondati sulla raccolta dalla clientela». Lei che ne pensa?
«E´ probabile che la vicenda dei subprime sia ormai alle nostre spalle. Purtroppo, però, ci sono sul mercato altri strumenti finanziari, molto più pericolosi dei subprime. Penso ad alcuni derivati e ad alcuni "titoli atipici" che minacciano un po´ tutta la finanza mondiale. E in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo nessuno può sentirsi al sicuro, nemmeno le banche italiane».
A quali titoli atipici si riferisce?
«C´è un articolo molto interessante scritto recentemente da Soros sulla New York Review of Books che, con mio grande stupore, nessuno ha ripreso e commentato (nota di WSI: ecco il link). Ebbene, in questo articolo Soros ci dice che ci sono in giro 45 trilioni di dollari (45 mila miliardi di dollari, ndr), una cifra enorme pari a 5 volte i bond americani oggi in circolazione composta da Default Debt Swaps».

Ci può spiegare che cosa sono e come funzionano questi Default Debt Swaps?
«Come dice il termine in inglese si tratta di una "scommessa" sulla possibilità che le grandi aziende non siano in grado di onorare i loro debiti. E che quindi siano costrette al fallimento. Ovviamente questo mercato è totalmente deregolamentato. Non può sfuggire a nessuno il potenziale distruttivo di questa "scommessa"».
Quindi nessuno è al riparo dalla bomba ad orologeria innescata dai Default Debt Swaps, nemmeno le banche italiane, che pure, ci dice Draghi, sono più solide delle altre?
«Le banche italiane non sono più chiuse dentro gli angusti confini nazionali. E questo è certamente un bene. Tuttavia la globalizzazione finanziaria comporta dei rischi, non possiamo dimenticarcene. Chi l´avrebbe mai detto che l´Ubs, la più grande banca svizzera, sarebbe stata colpita dalla crisi dei subprime? Eppure è accaduto».
Insomma, i Default Debt Swaps sono come una lotteria perversa?
«Mi creda, sono molto peggio di una lotteria».

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

 

Settore bancario: torna la paura default

03 Giugno 2008 16:54 NEW YORK - di Il Sole 24 Ore
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Se le teste rotolano, vuol dire che la crisi avanza. Per questo nessuno ieri è riuscito a leggere qualcosa di positivo nel licenziamento di G. Kennedy Thompson, Ceo di Wachovia e nel ridimensionamento degli incarichi di Kerry Killinger, il capo di Washington Mutual: per il mercato, le due notizie, hanno prodotto un ritorno improvviso ai dolori della crisi subprime, ancora alla radice dei problemi delle due banche, proprio quando sembrava che le cose volgessero al meglio.
Le ricadute di queste due notizie le abbiamo subito viste sul mercato. I due titoli hanno trascinato al ribasso un po' tutti i bancari, anche i più grandi, come J.P Morgan Chase, Bank of America, Citigroup, che hanno registrato diminuzioni medie del 2%. Hanno indotto Standard and Poor's a ridurre ieri il merito di credito di Merrill Lynch, Lehman Brothers e Morgan Stanley perché hanno utilizzato "titoli ibridi" per rafforzare il loro capitale. S&P ha anche emesso un "warning", un "avvertimento", per Bank of America e J.P. Morgan Chase proprio per la fragilità del settore subprime. Il mercato non l'ha presa bene.
Nel durante l'indice Dow Jones perdeva fino all'1,4%, al ribasso di 182 punti, poi, in chiusura ridimensionava le perdite al l'1,06%, 134,50 a quota 12.503,82. Le notizie hanno anche scatenato una ridda di pettegolezzi. Si dice che il cambiamento ai vertici di Wachovia, dove le redini andranno ad interim a Lanty L. Smith, presidente indipendente (proprio come capitò a Merrill Lynch) preannunciano una nuova forte contabilizzazione in perdita per il prossimo trimestre, forse alcuni miliardi di dollari.
Nessuno dunque ha creduto alle parole di Smith. Il nuovo Presidente ha cercato di rassicurare. Ha escluso che vi sarà bisogno di nuovi aumenti di capitale e ha detto che i problemi di Golden West, la Cassa di risparmio con forti esposizioni ai prestiti subprime che Wachovia acquistò nel 2006, non rappresenta più un problema serio per i bilanci della banca. Le cose sono ancora più tristi per Washington Mutual. Il titolo aveva già subito una delle cadute più forti del settore, da quando la crisi subprime ha messo in ginocchio anche i colossi del comparto. Era passato da un massimo di quasi 45 dollari per azione, meno di un anno fa, a 8,96 dollari per azione alle quotazioni di ieri. Non solo, si dà per certo che il ridimensionamento di Killinger sarà soltanto l'anticamera del suo licenziamento e, ovviamente, come da copione, di nuove rivelazione negative sui bilanci della banca, un ex gioiellino che occupa 60.000 persone e ha un fatturato di 16 miliardi di dollari. Almeno, cosi affermano gli analisti di Citi, Ubs e Deutsche Bank.
Mike Mayo, proprio di Deutsche Bank ieri ha scritto: «Continuiamo ad avere un orientamento al ribasso e questa mossa sottolinea le nostra preoccupazione per un possibile deterioramento di attività patrimoniali». Come sappiamo, quando si deteriora la posizione di una banca il rischio di un effetto domino è sempre possibile. Quando le banche sono due, anzi, tre in un giorno, se aggiungiamo la crisi della banca inglese Bradford & Bingley, il rischio diventa quasi certezza.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Guida ai CDS: il concetto di “basis”

Thursday, 3 June, 2008 - by Charles Dexter Ward
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Per quanto detto in precedenza nella introduzione ai Credit Default Swap dovrebbe apparire chiaro come lo spread misurato dal CDS di un determinato emittente su una data scadenza dovrebbe essere direttamente confrontabile con lo spread offerto da un bond emesso dallo stesso emittente con stessa durata; in realtà sul mercato, benché concettualmente espressione dello stesso rischio, questi due livelli raramente coincidono a causa di motivi sia prettamente tecnici che di ordine fondamentale.
Andando con ordine iniziamo quindi a formalizzare il concetto di “basis”: con questo termine intendiamo la differenza tra lo spread del CDS e quello di un bond con esso direttamente confrontabile: quindi stesso emittente, stessa durata, dove si assume inoltre che il con il bond sia quotato alla parità.
Questa differenza può essere pari a zero, negativa o positiva. Cerchiamo di analizzare i casi in cui la base non sia nulla.
- Base Negativa: quando la base è negativa lo spread del CDS è inferiore a quello che caratterizza il bond. Questo accade quando c’è una eccessiva vendita di protezione sul contratto, ad esempio in conseguenza di momenti di vorticosa attività di credito strutturato come quelli cui abbiamo assistito appena un paio di anni fa. Anche una abbondante offerta di mercato primario può creare i presupposti per una base negativa, visto che per il gioco della domanda e offerta i cash bond tendono ad allargare più del corrispettivo derivato di credito. Va detto che l’esistenza di base negativa è facilmente “arbitraggiabile”: comprando il bond e comprando contestualmente protezione sul credito è possibile neutralizzare l’esposizione al rischio di default incassando contestualmente il differenziale di spread: per questo motivo difficilmente situazioni di base negativa rimangono lungamente nel mercato.
- Base Positiva: contrariamente a quanto avviene in caso di base negativa, quando ci si trova di fronte a uno spread del CDS maggiore dello spread offerto dal bond è molto meno agevole approfittarne strutturando un arbitraggio: infatti bisognerebbe vendere il bond allo scoperto (con tutte le difficoltà pratiche connesse allo short selling) e contestualmente vendere protezione. In caso di default inoltre esiste una opzionalità sul titolo consegnabile, che non necessariamente coinciderà con quello su cui si è aperta la posizione corta. Questa cheapest-to-deliver option implicita nel derivato di credito a favore di chi acquista protezione è uno dei principali motivi che contribuiscono all’esistenza di una base positiva.
Anche l’esistenza dei famosi bond covenants può spiegare in parte il perché ci si dovrebbe accontentare di uno spread lievemente più basso sui bond “in carne ed ossa” rispetto al CDS. Attraverso i bond covenants, il detentore del bond è più tutelato in una serie di circostanze come ad esempio in caso di change of control.
 

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

  Recessione globale: chi l'ha vista ?

03 Giugno 2008 10:30 MILANO - di Mario Seminerio

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A giudizio di alcuni economisti l’attuale congiuntura economica mondiale non assomiglierebbe agli Anni 30 del secolo scorso, quanto piuttosto ai Settanta, cioè un contesto dove la pressione inflazionistica determina il rallentamento globale e la riduzione del prodotto potenziale. Come negli anni Settanta, infatti, oggi ci troviamo con tassi d’interesse reali di mercato monetario in media negativi, e ciò alimenta una serie di bolle speculative. Secondo un’analisi dell’economista Joachim Fels, di Morgan Stanley, il tasso d’inflazione medio globale ponderato si situa oggi al 5,4 per cento, a fronte di tassi di mercato monetario del 4,3 per cento.

L’accumulazione di pressioni inflazionistiche ha portato alla creazione di bolle speculative, come quella immobiliare negli Stati Uniti, agevolata anche dall’innovazione finanziaria che ha potenziato il rilassamento degli standard creditizi. Quando l’eccesso di moneta ha terminato di dare la caccia ai pochi asset disponibili, con lo scoppio della bolla immobiliare, ha finito col volgersi alla caccia di merci, contribuendo ad alimentare l’inflazione delle materie prime. Secondo alcune stime il livello dei tassi d’interesse di equilibrio, tali cioè da garantire la stabilità dei prezzi, si trova oggi negli Stati Uniti alcuni punti percentuali sopra il valore corrente. Discorso analogo per la Banca Centrale Europea, sia pure con uno squilibrio meno eclatante di quello statunitense, grazie alla fermezza con cui Trichet ha gestito la politica monetaria, resistendo a fortissime pressioni politiche e mediatiche.
In altri termini le banche centrali, che hanno dapprima alimentato l’accumulazione di bolle speculative, si trovano ora a gestirne lo scoppio, ma il rallentamento da ciò causato e la perdita di credibilità nella gestione della politica monetaria negli Stati Uniti, paese-chiave dell’economia mondiale, hanno indotto una domanda aggiuntiva di materie prime di natura finanziaria, con finalità di protezione dall’inflazione. Da qui deriva l’ascesa di alcune commodities: alla robusta e crescente domanda reale si è sommata una domanda finanziaria di "protezione", e quest’ultima appare sganciata dal ciclo economico. Per questo le previsioni "rassicuranti" in base alle quali i prezzi delle materie prime sarebbero destinati a flettere per effetto del rallentamento statunitense non si stanno realizzando.

Ma l’aumento del prezzo delle materie prime energetiche non fa altro che drenare potere d’acquisto dai consumi, e le banche centrali si trovano soggette ad un drammatico dilemma di politica monetaria: non possono alzare i tassi in funzione antinflazionistica perché così facendo ucciderebbero definitivamente la congiuntura, ma tenendo i tassi stabili (o riducendoli) finiscono con l’accentuare il fenomeno dei tassi reali negativi, che alimentano inflazione e corsa alle materie prime. Se oggi l’inflazione appare meno rampante che negli anni Settanta è a causa soprattutto della sostanziale assenza di inflazione salariale. La deregolamentazione dei mercati del lavoro e la globalizzazione hanno progressivamente ridotto i salari reali, spostando la bilancia della distribuzione del valore aggiunto a favore del capitale. Ma salari reali in diminuzione significano minori consumi, condizione ulteriormente aggravata dall’attuale restrizione del credito. La scomparsa dei consumi spegne il principale motore della crescita, data l’incidenza della spesa delle famiglie sul pil.
A ciò si aggiunge il protezionismo montante; è evidente ed inequivocabile che il commercio internazionale crea anche perdenti. Ma quando la congiuntura peggiora il loro numero aumenta significativamente, la loro capacità di organizzarsi politicamente si accentua. Ma il protezionismo è, per definizione, un formidabile generatore di stagflazione: in questo senso oggi siamo messi peggio degli anni Settanta, un periodo in cui la liberalizzazione del commercio si stava lentamente sviluppando.

Abbiamo quindi descritto uno scenario stagflazionistico quasi da libro di testo. Che evoluzione attendersi? Lo squilibrio americano, che si traduce in un poderoso deficit delle partite correnti, necessiterà ancora per molto tempo di un dollaro strutturalmente debole, ma anche così, data la struttura dell’economia statunitense (dove il peso della manifattura sull’export è sui minimi storici), non dobbiamo attenderci alcun riequilibrio rapido e miracoloso. Le aree del pianeta in surplus commerciale (segnatamente la Cina) stanno a loro volta lottando contro una crescente pressione inflazionistica, e difficilmente riusciranno a destinare quel surplus allo stimolo della domanda interna, ed al conseguente sviluppo delle importazioni. Noi pensiamo quindi ad uno scenario di recessione più protratta (anche se non necessariamente più profonda) rispetto all’ottimismo di quanti ipotizzano una congiuntura a forma di V, che implica una ripresa rapida e vigorosa.

 

Fonte - Libero Mercato

 

 

 

+++   ANSA - Martedì 3 Giugno 2008, 15:12 -   Fed: Bernanke, consumi migliori delle aspettattive, ancora venti contrari   +++   Fed: Bernanke, i mercati finanziari migliorano, la situazione rimane ancora tesa   +++   ANSA   +++

 

FED: Bernanke, i tassi rimangono "ben posizionati"

Martedì 3 Giugno 2008, 15:51 - di ANSA
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I tassi di interesse rimangono ben posizionati per promuovere la crescita e la stabilità dei prezzi, e la Federal Reserve (Fed) mantiene sempre la guardia alta sul movimento del dollaro. È quanto ha dichiarato il numero uno della Fed, Ben Bernanke, durante la conferenza monetaria internazionale in corso a Barcellona, alla presenza dei principali banchieri delle banche centrali, con Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, Masaaki Shirakawa, governatore della banca giapponese, e Miguel Fernandez Ordonez, numero uno della banca centrale iberica. Nel suo intervento, Bernanke ha sottolineato come "adesso, la Fed monitorerà con attenzioni le fluttuazioni del biglietto verde". Nell'ultimo anno, il dollaro è arrivato a cedere il 16% rispetto alla moneta unica europea. Bernanke è tornato a parlare della situazione dei mercati, che, a suo avviso, "rimane tesa", e rimarcando il fatto che i consumatori dovranno far fronte ai significativi "venti contrari" dal declino dei prezzi delle case agli alti costi energetici.
 

 

 

 

Bernanke scuote il mercato valutario. Quali prospettive?

Martedì 3 Giugno 2008, 16:23 - di Fabio Caldato - Euroforex
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In una giornata in cui il cross euro dollaro aveva rotto al rialzo la resistenza statica di breve collocata in area 1,5570,fino a superare 1,56 figura,le parole del capo della FED hanno determinato un'inversione di rotta su tutti i cambi della moneta americana.
Pur non rilevando nulla di veramente eclatante,Bernanke ha fatto capire che altri tagli sul fronte tassi saranno evitati,se non strettamente necessari.
Ciò ha innescato un'ondata di acquisti di biglietto verde: il cambio euro dollaro è tornato in area 1,54 scendendo di due figure abbondanti,mentre scriviamo.
Alle 16,00,inoltre,è uscito un dato positivo per l'economia USA che ha incrementato gli acquisti di dollaro: gli ordini industriali sono usciti sopra le attese.
Da settimane indichiamo il livello 1,5340-1,54 figura come spartiacque tra fase rialzista e ribassista per il cross principale.
Va detto però che una candela del genere,soprattutto a seguito di un intervento verbale di autorità monetarie ha una importante valenza,una volta confermata nel giorno seguente dal mercato.
La conferma,infatti,sarebbe testimonianza concreta del fatto che i grossi investitori hanno raccolto il messaggio di Bernanke.
Attendiamo,quindi,di valutare i prezzi del close odierno e di domani.
Il cambio dollaro contro franco svizzero tiene la rialzista dinamica in zona 1,0270 e si riporta in prossimità delle resistenza statiche sopra 1,05.
Anche il cambio dollaro yen torna in area di resistenza e 105,50 si rivela nuovamente ostacolo solido per la prosecuzione del rimbalzo con target 108.
Il franco svizzero aveva approfondito il suo recupero contro euro segnalando l'avversione al rischio in forte aumento,anche a causa delle tensioni sul fronte bancario.
Le parole rasserenanti di Bernanke hanno contribuito all'inversione netta :il cambio euro franco è rimbalzato da 1,6050 a 1,6160. Area 1,6100 è vero supporto,la cui rottura ribassista confermerebbe il ritracciamento in atto.
 

Fonte - Euroforex

 

 

 

 

  Mercoledì 11 giugno 2008   Sabato 14 giugno 2008   Lunedì 16 giugno 2008  
       
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+++   ANSA - 05 Giugno 2008 14:04 ROMA - La Bce lascia i tassi invariati al 4%  +++  BCE: RIVEDE INFLAZIONE AL RIALZO, 3,2-3,6% IN 2008  +++  RIVEDE STIME CRESCITA 2008 EUROLANDIA, FRA 1,5% E 2,1%  +++  BCE: TRICHET, POSSIBILE AUMENTO TASSI A LUGLIO  +++   ANSA  +++

 

La Bce lascia i tassi invariati al 4%

05 Giugno 2008 14:04 ROMA - di ANSA
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La Banca centrale europea ha lasciato i tassi d'interesse invariati, mantenendo il tasso principale al 4%. Lo ha deciso oggi il Consiglio direttivo dell'istituto centrale a Francoforte. La decisione era ampiamente attesa dal mercato. Con la decisione di oggi, la Banca centrale europea mantiene il tasso di rifinanziamento principale al 4,00%, quello marginale al 5,00% e quello sui depositi overnight al 3,00%. Il divario fra il costo del denaro in Eurolandia (misurato dal tasso principale) e quello negli Stati Uniti e' pari a 2 punti percentuali, dopo che il 30 aprile scorso la Federal Reserve ha tagliato di 25 punti base i tassi sui Fed Fund portandoli al 2%. (ANSA).
 

 

 

BCE: RIVEDE INFLAZIONE AL RIALZO, 3,2-3,6% IN 2008

05 Giugno 2008 14:50 FRANCOFORTE - di ANSA
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FRANCOFORTE, 5 GIU - La Banca centrale europea ha rivisto al rialzo le previsioni per l'inflazione di Eurolandia per il 2008 e il 2009, in base alle 'staff projections' presentate oggi dal presidente Jean-Claude Trichet. Le nuove stime indicano una 'forchetta' compresa fra il 3,2 e il 3,6% per il 2008, in netto rialzo dal 2,9% medio stimato a marzo. Per il 2009 gli economisti dela Bce si aspettano invece una forchetta compresa fra 1,8% e 3%, dal precedente 2,1% medio. (ANSA).
 

 

 

Bce: RIVEDE STIME CRESCITA 2008 EUROLANDIA, FRA 1,5% E 2,1%

05 Giugno 2008 14:56 FRANCOFORTE - di ANSA
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FRANCOFORTE, 5 GIU - La Banca centrale europea ha rivisto le sue previsioni di crescita di Eurolandia per il 2008 e il 2009, in base alle 'staff projections' presentate oggi dal presidente Jean-Claude Trichet. Le nuove stime indicano una 'forchetta' compresa fra L'1,5% e il 2,1% per quest'anno, contro il +1,7% medio delle previsioni fornite a marzo. Per il 2009 gli economisti dela Bce si aspettano ora una forchetta compresa fra 1% e 2%, dal precedente 1,8%.(ANSA).
 

 

 

Bce TRICHET, POSSIBILE AUMENTO TASSI A LUGLIO

05 Giugno 2008 15:04 ROMA - di ANSA
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FRANCOFORTE, 5 GIU - "Non è escluso che dopo aver esaminato attentamente la situazione, potremmo aumentare i tassi nel prossimo meeting". Lo ha detto il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, spiegando che "ci sono argomenti" a favore di un aumento dei tassi" ma anche che l'eventuale aumento "non è certo, ma possibile". (ANSA).
 

 

 

 

 
 

  Periodo di tempeste, dopo “Ben “ arriva “Jean Claude”

Venerdì 6 Giugno 2008, 8:23 - di Saverio Berlinzani

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Il clima in questo periodo dell'anno non è certo dei migliori, la tanto decantata siccità degli ultimi anni ha lasciato spazio ad un periodo di grandi piogge accompagnate da venti forti ed ora da qualche giorno anche da tempeste e uragani.
E' passato l'uragano Ben in settimana e si pensava che bastasse, con venti da nord a sud che avevano provocato ingenti danni, ma come in un film dell'orrore, ieri, è arrivata una tempesta contraria da sud a nord, già nominata “Jean Claude”, la quale , se possibile, ha fatto ancor più danni della prima.
Il tutto, come sempre, nasce dalla difficoltà dei metereologi di fare previsioni azzeccate.
Riportando tutto nell'alveo del nostro mondo, possiamo dire che quello che sta accadendo nasce dalla difficoltà estrema di prevedere l'andamento dell'inflazione, causata dalle materie prime, petrolio in testa, ma causata anche a nostro parere dalla non conoscenza degli effetti delle correlazioni tra i mercati.

Sanno tutti infatti che il petrolio e il suo andamento hanno si una ragione strutturale, ma sembrerebbe altrettanto vero che la maggior parte del movimento è dettato da azioni speculative che poco hanno a che fare con la domanda e offerta reale del bene sottostante.
Tanto è vero che nell'ultimo anno la correlazione petrolio dollaro è stata talmente forte da essere considerata dalla maggior parte degli operatori finanziari, come la correlazione più perversa che esista e la ragione è data dal fatto che più il dollaro scende , più il petrolio sale e più di conseguenza sale l'inflazione negli States (che pagano il petrolio in dollari e che importano prodotti in valute che costano sempre di più a causa della svalutazione del biglietto verde) ma anche fuori dagli States nei paesi importatori netti di materie prime. Fin qui tutto ok !
Ebbene se Bernanke due giorni orsono, con le sue dichiarazioni, sembrava aver spezzato questa catena che tiene legato il mondo occidentale e lo rende ormai sempre più schiavo (lo è da anni , lo sappiamo) dal petrolio, o perlomeno la sua azione aveva prodotto una correzione che sembrava avviata sia sul biglietto verde che sul petrolio, le dichiarazioni di Trichet ieri, ancorchè giustificate da un sano realismo per il livello di inflazione nei paesi europei, non hanno tenuto conto degli effetti reali sul mercato.

E' vero che l'inflazione in Europa è un problema, è vero che l'Euro è uno scudo perché se il petrolio sale del 2% l'Euro sale dell'1% (la variazione dei prezzi sul petrolio è assai superiore di quella del cambio) e quindi gli effetti inflattivi sono annacquati dalla forza della valuta, ma se il presidente della Bce afferma che probabilmente la Bce dovrà alzare i tassi per mantenere la stabilità dei prezzi, probabilmente conoscerà anche gli effetti di queste sue parole, e quali sono stati questi effetti ?
Il petrolio è salito da 123.50 a 128.00 dollari al barile (circa il 3.5%) e il dollaro è sceso (-1.5%) anche se non si sa se il primo è salito a causa del secondo o viceversa. Ma certamente la correlazione tra i due sottostanti è e rimane forte. Pertanto le parole di Trichet e della Bce hanno diversi effetti: fanno salire materie prime ed euro e fanno crescere l'inflazione in quanto le materie prime salgono di più di quanto l'euro non riesca a compensare. Se invece si cercasse di dare fiato al dollaro, è probabile che parte della speculazione che pesa sul petrolio si sgonfierebbe, allentando la pressione inflazionistica globale e di converso anche nel vecchio continente.
L'altro effetto che le parole di Trichet hanno è quello legato alla crescita, ma si sa questo problema non è tale per la Bce, che si limita a svolgere il mandato che le è stato affidato, ovvero quello di mantenere la stabilità dei prezzi. Per la crescita rivolgersi per piacere ai Governi Nazionali, che però non possono ne muovere la leva tassi di interesse, ne pensare a svalutazioni competitive. Pertanto si dovranno muovere in altre direzioni, facciamocene una ragione. E gli effetti sui principali rapporti di cambio ?

Ebbene, inizia la guerra Bce Fed, la prima alzerà forse i tassi, la seconda non ancora ma ha paura della debolezza del dollaro e della forza del petrolio, una azione che è tutto meno che congiunta e comune, e poi ai G7 si parla tanto di collaborazione reciproca. Si fa fatica a vederla in questo modo oggi dopo quello che è successo.
Andiamo ora a vedere gli obiettivi dei principali rapporti di cambio perché dopo il passaggio dell'uragano sono cambiate alcune cose.
Per quel che riguarda il cambio EurUsd proponiamo il grafico a 4 ore che evidenzia una fascia di congestione tra 1.5600 e 1.5630 che inizialmente dovrebbe tenere. Se poi i prezzi avranno la capacità di sfondare questi livelli, allora probabilmente vedremo 1.5680-1.5700.
La price action di mercato è stata forte e oggi molte cose potrebbero cambiare perché sono attesi i payrolls, ovvero gli occupati del settore non agricolo, un vero e proprio banco di prova per l'economia americana.
Siamo curiosi di vedere come reagirà il mercato e soprattutto siamo curiosi di ascoltare le rezioni di Bernanke alla nuova caduta del dollaro.
La partita si fa veramente interessante, ottimo per chi come noi deve cercare di capire dove sarà il prezzo tra uno o due giorni al massimo , la volatilità è alta e rimarrà tale.

 

Fonte - TrendonLine

 

 

 

 

E' UNA CRISI PEGGIO DEL '29, COLPA DEGLI STATI UNITI

07 Giugno 2008 09:56 MOSCA - di ANSA
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Il presidente russo Dmitri Medvedev ha accusato la politica delle grandi compagnie e quella della maggiore economia mondiale, gli Usa, di star spingendo il mondo verso una crisi analoga a quella esplosa nel 1929.
''Per i mercati finanziari globali - ha detto il presidente inaugurando il forum internazionale di San Pietroburgo - il 2007 è stato uno degli anni più pesanti degli ultimi decenni, la crisi è la più profonda dalla grande depressione degli anni '30. E' dovuta alla sottovalutazione dei rischi da parte delle grandi compagnie e dalla politica aggressiva della maggiore economia mondiale.
Ciò non ha solo portato a perdite nelle grandi compagnie, ma ha impoverito la maggioranza della popolazione mondiale. Vale non solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per i più ricchi. I ritmi della crescita mondiale sono bruscamente rallentati, e secondo alcune previsioni la crisi potrebbe ripetere il momento più nero nella storia mondiale, quando per alcuni anni certi paesi avevano un tasso di crescita a meno 5%".
«Nel mondo - ha esordito -si manifestano sempre più evidentemente le conseguenze del conflitto fra globalizzazione e protezionismo. Alcuni paesi vogliono proteggere la propria sovranità economica, ottenendo il massimo vantaggio per i propri cittadini, senza dividere i vantaggi coi vicini. L'egoismo economico è in crescita». Quanto agli Usa, «il loro ruolo formale nel sistema economico mondiale non corrisponde alle loro reali possibilità, e questo è una delle cause della crisi globale corrente. Per quanto sia grande il mercato americano e per quando sia sicuro il sistema finanziario, non sono in grado di sostituire i mercati finanziari e commercial globali».La Russia vuole un ruolo di primo piano nell'economia globale, «non per ambizioni imperialistiche, ma perchè abbiamo le risorse e le capacità reali»: lo ha detto il presidente russo Dmitri Medvedev in un discorso di apertura del Forum economico internazionale di San Pietroburgo che si è rivelato un duro attacco alla politica statunitense. «Le crisi di oggi - ha detto ancora il presidente russo - la penuria alimentare, la crescita dei prezzi per i beni di prima necessità e le catastrofi naturali che si verificano sempre più spesso dimostrano pienamente che il sistema di istituzioni alle sfide. Si registra un certo vuoto istituzionale. Mancano organismi internazionali per la soluzione dei problemi concreti. L'idea che un paese (gli Usa, ndr) possa prendersi il ruolo di governatore globale si è rivelata un'illusione.
Gli istituti internazionali, prima di tutto il Fondo monetario internazionale, di fatto non hanno leve per le strategie realizzate dai partecipanti al mercato. Ciò conferma la necessità di riformare l'architettura finanziaria globale». Medvedev ha proposto di tenere in Russia entro l'anno una conferenza internazionale con la partecipazione delle maggiori compagnie finanziarie e dei più noti analisti e ricercatori. «Una conferenza- ha detto - che potrebbe diventare un appuntamento regolare».

 

Fonte - ANSA
 

 

 

 

E' IL MERCATO IMMOBILIARE, BELLEZZA!

08 Giugno 2008 18:13 NEW YORK - di Charlie Minter
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Vi ricordate quanto Bush senior era in corsa per la presidenza con Bill Clinton e, allo scopo di enfatizzare l’aspetto più rilevante per la campagna elettorale, lo staff di quest’ultimo coniò la famosa frase "è l’economia, stupido!"? potremmo impiegare una frase simile per essere certi di sottolineare quello che è l’aspetto più importante per l’economia e la borsa americane. Se il settore immobiliare continuerà a calare, come crediamo, la massiccia perdita di ricchezza inciderà sui consumi personali, sull’economia, sugli utili aziendali e sul mercato azionario.
Per mettere tuttò ciò in prospettiva, bisogna ricordare che il valore complessivo del mercato immobiliare è vicino ai 21000 miliardi di dollari (dati del 2006). A questi livelli siamo giunti pressoché raddoppiando dal 2000 grazie a pratiche di finanziamento discutibili, a denaro a buon mercato, e ad una massiccia speculazione edilizia in relazione alla crescita del reddito personale. Ad un certo punto ci si è convinti che il settore in questione sarebbe sceso di almeno il 20% e forse fino al 35%; per il momento ha ceduto mediamente il 16%, il che equivale a 3000 miliardi di ricchezza estratti dalle tasche dei cittadini.
Se il mercato immobiliare cederà nel complesso più del 30%, l’estrazione di ricchezza equivarrà a oltre 6000 miliardi di dollari, e questo a fronte un consumatore già sovraccaricato da un debito prossimo ai 14000 miliardi.
Se ciò non bastasse, il prezzo crescente dell’energia e dei generi alimentari avrà chiaramente un effetto avverso sulla propensione di spesa, e questo vale non solo per gli Stati Uniti. E’ chiaro che il consumatore ha subito l’impatto all’inizio dell’anno, e le statistiche di vendita di auto del mese di maggio (Ford -19%, Chrysler -28%, General Motors -30%) sono l’esempio più lampante.
I rialzisti sostengono che tutto ciò di cui hanno bisogno è un dollaro che salga. Questo indurrebbe un calo delle quotazioni dell’energia e delle altre materie prime. Una volta che le commodities spazzeranno via la minaccia inflazionistica i problemi si allenteranno e la borsa potrà salire.
Ad un certo punto ai Tori sembrava che fossero stati ascoltati, con Bernanke che dedicava ampio spazio alla forza del dollaro: ha parlato di monitorare la moneta e di seguirne con attenzione le evoluzioni. Nel passato difficilmente ha parlato del dollaro, evidenziando che si trattava di una competenza del Dipartimento del Tesoro e di Paulson in particolare. Adesso Bernanke pare più interessato ad una politica di dollaro forte; Paulson, che ha sempre argomentato a favore di una divisa robusta, non ha mai attuato politiche in tal senso.
 

Fonte - SmartTrading

 

 

 

 

 

  Economia: abituatevi alla stagflazione light

08 Giugno 2008 16:53 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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E’ un momento ricco di spunti. Partiamo dall’attualità con due temi, il dollaro e la rivisitazione del tema della crisi finanziaria. Saremo telegrafici, perché ci sono anche altre questioni da affrontare.
Sul dollaro la Fed fa capire di non essere favorevole a un ulteriore indebolimento. Dice di essere su questo in accordo con il Tesoro, che ha in effetti giurisdizione sul cambio. Il fatto è che il Tesoro, dopo avere affermato in tutti questi anni di volere un dollaro forte, ha perso ogni credibilità, per cui deve essere adesso la Fed, con tutta la sua autorevolezza, a lanciare il messaggio.
Una parte del mercato ha interpretato la presa di posizione di Bernanke come l’inizio di un ciclo di rafforzamento del dollaro. Non è il caso di spingersi a tanto. E’ meglio limitarsi a prendere alla lettera quanto detto dalla Fed, per la quale in questo momento è vitale limitare il veloce aumento delle aspettative di inflazione.
Confermiamo quindi l’idea di un range ampio 1.50-1.60 per i prossimi 12-18 mesi, con una fascia più piccola, tra 1.55 e 1.50, per il terzo trimestre, durante il quale l’economia americana dovrebbe mostrare qualche segno di temporanea riaccelerazione. Sperare di più, in questa fase, sembra velleitario. Il disavanzo delle partite correnti americane è ancora sopra il 4 per cento e le esportazioni sono l’elemento che permette di continuare a evitare una recessione. Per un recupero del dollaro degno di questo nome bisognerà aspettare il 2010.
 

Il secondo spunto di attualità è la rivisitazione delle mefitiche atmosfere pre-Bear Stearns con l’attacco a un’altra grande banca d’investimento e i timori di una nuova crisi di fiducia. Su questo facciamo due considerazioni. La prima è che il mercato aveva troppo frettolosamente archiviato il tema delle difficoltà del settore finanziario. La seconda è che queste difficoltà, salvo casi isolati, coinvolgeranno da qui in avanti, più che il mondo del cartolarizzato e delle grandi istituzioni, quello dei finanziamenti più tradizionali (prestiti a piccole e medie imprese) e delle banche regionali. Quanto ai casi isolati, la Fed farà di tutto per evitare di replicare l’esperienza di Bear Stearns organizzando una risposta di sistema preventiva per i soggetti considerati sani.
In sintesi la fase attuale può ancora essere considerata di consolidamento moderato dopo il grande recupero terminato a metà maggio. Da metà giugno in avanti il flusso di notizie macro americane (meno in Europa e in Asia) si farà più positivo, con un’esplorazione e un possibile superamento dei massimi di maggio.
Corre però l’obbligo di segnalare il ritorno, per ora solo sottotraccia, di una variabile esogena dimenticata da tempo, la geopolitica. La questione iraniana è tornata al centro dell’attenzione della politica e della diplomazia. I mercati, dopo anni passati a temere eventi che poi non si sono realizzati, non si stanno occupando della questione, ma la questione c’è lo stesso.
Il fatto è che l’amministrazione Bush resterà in carica solo per sette mesi. A fine gennaio si insedierà probabilmente un’amministrazione democratica. Se Israele vuole dare una risposta preventiva alla minaccia nucleare iraniana deve darla adesso se vuole contare su un’America favorevole.
L’ipotesi è stata finora lanciata da fonti democratiche negli Stati Uniti e pacifiste in Europa (l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer) con la probabile intenzione di bruciarla. L’amministrazione Bush nega con forza. La preoccupazione dei democratici è dovuta anche al fatto che un attacco condotto prima delle elezioni di novembre riporterebbe il tema della sicurezza al centro dell’attenzione, favorendo McCain rispetto a Obama.
Un attacco israeliano sarebbe ovviamente limitato alle installazioni nucleari (come fu il caso con l’Irak e come è stato l’anno scorso con la Siria). Quella che è difficile valutare, in questa ipotesi, è la risposta iraniana. L’Iran non avrebbe la solidarietà dei regimi sunniti, che lo temono e lo vedrebbero volentieri indebolito, e un embargo generalizzato del petrolio sul modello del 1973-74 sarebbe improbabile. L’Iran potrebbe però contare sul Venezuela e potrebbe cercare di bloccare il golfo Persico. I governi occidentali renderebbero disponibili le riserve strategiche di greggio e potrebbero essere prese misure per frenare la speculazione, ma il prezzo si muoverebbe comunque in una direzione sola.
La geopolitica, per le sue incognite e la sua incommensurabilità, non deve essere messa al centro dei pensieri di un asset manager, ma deve essere considerata con attenzione da ogni risk manager. In altre parole, un evento al quale attribuiamo, tanto per mettere un numero, un dieci per cento di probabilità, non deve influenzare la direzionalità attesa, ma deve essere ponderato nel decidere il grado di aggressività o, meglio ancora, per acquistare protezione su certe aree del portafoglio più esposte (linee aeree, auto e ciclici in generale). Niente di più, per il momento. Quanto al petrolio e ai titoli dell’energia, siamo dell’idea che vadano acquistati su debolezza indipendentemente dalla questione iraniana (volendo invece includerla, sarebbero da privilegiare i produttori americani, che non hanno interessi in Iran).

Finora abbiamo vissuto quella che l’Economist ha definito una crisi energetica lenta, capace di generare una risposta positiva in termini di riduzione ordinata della domanda e di ricerca di fonti alternative. Un’ipotesi di conflitto produrrebbe però una crisi acuta e una recessione. Il conflitto, inoltre, avrebbe dei costi in sé. Lo scenario degli anni Settanta (con le due crisi energetiche acute e la guerra del Vietnam da finanziare), finora lontano sull’orizzonte anche se in avvicinamento, apparirebbe più vicino.
Prima di vedere che cosa sono stati gli anni Settanta facciamo però il punto sugli ultimi dieci, senza alcuna pretesa di completezza e limitando l’analisi agli Stati Uniti.
Emerge subito che dal 1998 al 2008 il cash e la borsa non hanno prodotto praticamente nulla in termini reali (a salvare la borsa c’è solo un flusso del 28 per cento di dividendi). Il bond trentennale comperato 10 anni fa esatti ha invece reso l’80 per cento nominale (e il 50 reale), supponendo di avere reinvestito le cedole nel bond stesso.
Le case, che da manuale dovrebbero apprezzarsi sul lungo termine in linea con il Pil nominale, hanno fatto qualcosa di più, ma non molto. L’oro è andato certamente bene, ma non tanto come si potrebbe pensare, mentre il vero vincitore, tra gli asset considerati, è il petrolio, che si è apprezzato di quasi sei volte. Da questa rincorsa decennale dovremmo ora entrare, nel peggiore degli scenari possibili, in una riedizione degli anni Settanta. Vediamo allora che cosa significarono.
Dal 1970 al 1981 il costo della vita raddoppiò, ma chi aveva un bond trentennale nel 1970 si ritrovò lo stesso valore nominale nel 1981, con metà del potere d’acquisto. Sappiamo che solo nella finanza neanderthaliana si comprava un trentennale per tenerlo trent’anni, ma quarant’anni fa qualche zia Evelina che si comportava così c’era ancora.
Nei formidabili anni Settanta le case e le borse mantennero il loro potere d’acquisto (nel caso della borsa solo grazie a un 39 per cento di dividendi) e la vera sorpresa, vista con gli occhi di oggi, fu il cash, che in undici anni raddoppiò il suo potere d’acquisto. Dopo i primi anni, infatti, il Tesoro americano non riuscì più a rifilare T-Bill a tasso reale zero o negativo (come oggi) e dovette pagare profumati tassi reali. I trionfatori della stagflazione furono non le case (come abbiamo visto) ma l’oro e il petrolio che aumentarono rispettivamente di 13 e di 19 volte (o di 6 e di 8 in termini reali). Prima di fare qualche considerazione sul futuro che ci aspetta, vediamo, già che ci siamo, il quadro di sintesi dal 1970 al 2008.
In questi quasi 40 anni di dopo Bretton Woods il costo della vita (si parla sempre di America) è aumentato di 5 volte, il valore di un investimento in trentennali di 9, esattamente come le case. Il cash (difficile a credersi, ma abbiamo verificato) è aumentato di 13 volte. L’oro di 18. La borsa di 20 (di 25 se calcoliamo i dividendi) e il petrolio di 40.
Sono cifre che fanno venire il capogiro (un grazie a Maurizio Binelli per il number crunching). A un cash che batte case e bond non avremmo mai pensato. Venendo alle lezioni per il futuro ribadiamo che lo scenario di base rimane quello di stagflazione light (crescita bassa ma non nulla e inflazione brillante ma sotto controllo) e non quello di un ritorno conclamato agli anni Settanta.
In ogni caso, per i prossimi anni non si può aspettare dal cash e dai bond un ritorno totale così favorevole. Lo stesso per le case.

Per le borse, lo stabilizzarsi di un’inflazione più alta dovrebbe portare a un’ulteriore erosione dei multipli, compensata augurabilmente da un miglioramento lento degli utili. Al termine di questo lungo ciclo di correzione, iniziato nel 2000, le borse risulteranno particolarmente interessanti.
L’oro terrà il suo potere d’acquisto e lo accrescerà moderatamente in questa fase di stagflazione leggera (a condizione che non ci siano recessioni) e inizierà a splendere meno se a questa fase seguirà un ciclo di disinflazione e di rialzo delle borse.
Il petrolio, che nei dati presentati risulta sempre vincitore, scese in realtà drammaticamente per due decenni, gli anni Ottanta e Novanta. Non vediamo però all’orizzonte nessuna possibilità di discesa prolungata e importante. Il fatto che il greggio costi oggi 40 volte di più che nel 1970 non è dovuto necessariamente a una bolla, ma al fatto che sta cominciando a diventare prezioso. Il petrolio non è riciclabile come l’oro o il rame o quasi tutto. Se ne va per sempre. Nel 1970 tutto il gas che usciva dai pozzi durante l’estrazione di greggio veniva bruciato sul posto, tanto valeva poco ed era considerato infinito.
E’ lo stesso gas che, diventato prezioso, preoccupa oggi l’Europa perché la mette alla mercé della Russia e che è diventato insufficiente perfino nel golfo Persico. 

 

Fonte - Il Rosso e il Nero

 

 

 

  Venerdì 20 giugno 2008   Sabato 21 giugno 2008   Sabato 21 giugno 2008  
       
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  Petrolio: la super-mega speculazione

10 Giugno 2008 15:31 LUGANO - di Alfonso Tuor

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È sempre più difficile sostenere che l’impennata del prezzo del petrolio non è dovuta in gran parte alla speculazione finanziaria, soprattutto dopo il balzo di 10 dollari il barile registrato nella giornata di venerdì.
Questi violenti movimenti, che hanno spinto il prezzo del greggio ad un soffio dai 140 dollari il barile, sono la manifestazione inequivocabile della bolla finanziaria che si è formata nel mercato delle materie prime e dei prodotti alimentari. Alcune cifre confermano questa tesi.
Come ha scritto sul «Financial Times» Lord Desai, docente alla London School of Economics, nello scorso mese di maggio, al New York Mercantile Exchange sono stati scambiati ogni giorno contratti per circa 850 milioni di barili, ossia un volume corrispondente a dieci volte la produzione giornaliera di petrolio (che ammonta a 85 milioni di barili). Questi semplici dati confermano che ha ragione il finanziere George Soros, il quale, in una recente audizione davanti al Senato statunitense, ha dichiarato: «Ci sono tutti i segnali di una bolla, ma non è detto che essa scoppierà tanto presto».
I segnali di una bolla ci sono in effetti tutti. Il prezzo del petrolio è più che raddoppiato negli ultimi 12 mesi ed è salito quest’anno dai 90 dollari il barile dello scorso mese di febbraio ai 139 dollari di venerdì scorso.
Nell’economia reale non è successo nulla che possa giustificare un incremento superiore al 9%. La domanda cinese ed indiana, additata spesso come causa principe del rialzo del greggio, non ha subito negli ultimi cinque mesi alcun balzo. Inoltre, la richiesta di greggio di Cina e di India non influisce direttamente sulle quotazioni di breve termine del greggio, poiché avviene fuori dal mercato, con contratti a lungo termine firmati con i paesi esportatori.
Anche i termini dei problemi produttivi dei paesi esportatori di greggio non sono cambiati negli ultimi mesi. Anzi, l’aneddotica indica – come ha sottolineato «Il Sole 24 Ore» – che si moltiplicano le petroliere che vagano per gli Oceani in cerca di attracchi, cioè di acquirenti, cui vendere a sconto il loro carico di greggio.
Il problema è che i mercati a termine sui combustibili non obbediscono alle leggi della domanda e dell’offerta, ma alle aspettative sul prezzo futuro. E in questo mercato di carta si sono fiondate le istituzioni finanziarie, le quali negli ultimi anni hanno investito 260 miliardi di dollari. È quindi evidente che quando la Goldman Sachs, la banca di investimento più attiva in questo mercato, prevede che entro la fine dell’anno il barile supererà i 200 dollari, non fa una previsione, ma in buona sostanza dice alla concorrenza di continuare a scommettere sul rialzo del greggio.
Ciò induce a ritenere che la corsa del prezzo del petrolio potrebbe ancora continuare e quindi decurtare ancor di più il reddito di famiglie ed imprese. Non sorprende che si moltiplichino le proposte di trattare con gli arabi, affinché aumentino la produzione; oppure di detassare il prezzo del petrolio per calmare la rabbia crescente di consumatori, pescatori ed autotrasportatori. È pure difficilmente spiegabile come non si reagisca a questa corsa del greggio che sta intaccando la crescita di economie già sotto stress a causa della crisi dei mutui subprime e che sta favorendo il ritorno dell’inflazione.
Comunque è incomprensibile che rispetto alle numerose idee in circolazione nessuna proposta miri ad aggredire la causa prima di questa enorme bolla finanziaria attorno al prezzo del petrolio. Eppure basterebbe una regola semplice per far cadere il castello costruito sul greggio dai «maghi della carta straccia».
La regola è la seguente: coloro che comprano a termine il greggio devono alla scadenza del contratto comprare il petrolio fisico e non possono più evitare di farlo pagando una piccola compensazione monetaria, come invece avviene oggi. In pratica, si tratterebbe di ripristinare le leggi dei mercati a termine. Nessuno però sembra avere il coraggio di rovinare l’ultimo giocattolo, che frutta ancora soldi, creato da Wall Street.
Così dopo la bolla delle borse, scoppiata all’inizio del decennio, e quella del mercato immobiliare americano, esplosa l’anno scorso, ora abbiamo la «mania» del petrolio. Anche questa bolla è certamente destinata prima o poi a scoppiare, ma nel frattempo rischia di aggravare pesantemente le condizioni di un’economia mondiale che già stenta a fare i conti con la crisi dei mutui subprime.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 
 

 

 

 

 

IL PETROLIO TOCCHERA' I $250 AL BARILE

11 Giugno 2008 10:51 DEAUVILLE (FRANCIA) - di ANSA
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C'è chi come la banca d'affari americana ha previsto che il petrolio raggiungerà i 200 dollari al barile entro il 2010. Una profezia accusata dagli analisti di autoavverarsi solo per il fatto che essa stessa produce una nuova fiammata speculativa sul greggio. Ma c'è chi va oltre. Secondo il numero uno del gruppo petrolifero russo Gazprom, Alexei Miller, il prezzo del petrolio potrà arrivare a 250 dollari al barile. Miller, che parlava nel corso di una conferenza stampa, non ha precisato i tempi. «Oggi siamo testimoni di un aumento dei prezzi critico per gli idrocarburi, ma il prezzo del barile arriverà a livelli mai pensati, la prospettiva è di 250 dollari al barile».
COMPETIZIONE - «La competizione per questa risorsa - ha aggiunto il leader del monopolista russo degli idrocarburi - sarà più forte». Questo, secondo il numero uno di Gazprom, il fattore determinante. Miller ha comunque registrato, sulla formazione del prezzo del barile, «un’influenza seria delle operazioni degli speculatori», tuttavia stima che «questa influenza non è decisiva».
Il manager russo ha inoltre spiegato che Gazprom vende il gas all’Europa attualmente a 410 dollari ogni mille metri cubi e non a 400 dollari, come precedentemente annunciato in precedenza. A marzo Miller aveva previsto che il metano russo avrebbe raggiunto i 400 dollari nel 2008. Il prezzo del gas è indicizzato su quello del petrolio.
 

 

 

PETROLIO: HAYWARD (BP), LASCIATECI TRIVELLARE IN ANTARTIDE

12 Giugno 2008 15:10 LONDRA - di ANSA
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(ANSA) - LONDRA, 12 GIU - Il mondo, stando alle parole di Tony Hayward, amministratore delegato di British Petroleum (BP), ha davanti ha sé ancora 40 anni buoni di 'era del petrolio' - ma se si vuole stare al passo con la crescente domanda di oro nero ci si deve rassegnare ad 'aprire' l'Antartide alle compagnie petrolifere. Il boss di BP, che ieri ha presentato l'annuale rapporto sull'energia compilato dal colosso energetico britannico, ha detto che ai livelli di produzione attuali le riserve petrolifere mondiali possono garantire 41 anni di greggio. Ma quando si tratta di aumentare la produzione, allora son dolori. Sono troppi, a detta di Hayward, i 'lacci e lacciuoli' che impediscono alle società petrolifere di operare liberamente. "In altre parole", ha sintetizzato Hayward, "quando si parla di rendere disponibile più petrolio, i problemi non s'incontrano sottoterra, ma sopra, sono politici, non geologici". Per questo Hayward da un lato si è lamentato della difficoltà di operare in paesi come il Venezuela, la Russia o il Medio-Oriente, e dal'altro i sussidi che alcune compagnie petrolifere ricevono nei paesi in via di sviluppo e "che distorcono la competizione". Il boss di BP ha poi negato che il picco di produzione sia stato raggiunto e che gli alti prezzi del greggio dipendono "dalla volatilità dei prezzi stessi e dallo stretto margine tra produzione e consumo". Quindi l'affondo: aprire l'Antartide - nonché le aree protette degli Stati Uniti d'America - alle trivelle sarebbe l'unica soluzione reale per soddisfare la sempre crescente sete di petrolio del mondo. Il trattato di Madrid, ratificato nel 1998, impedisce però ogni sfruttamento delle ingenti risorse naturali del 'continente bianco' sino al 2048. Nemmeno un anno fa, a scopo 'precauzionale', il governo britannico ha compilato all'ONU una richiesta di attribuzione di un'area vasta un milione di chilometri quadrati confinante all'attuale Antartide britannica. (ANSA)
 

 

 

 

 

  Il ritorno delle 7 sorelle spiega la guerra di Bush

26 Giugno 2008 13:17 TORINO - di Mimmo Candito

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Gli americani la chiamano "the smokin’ gun", la pistola fumante, per dire: ecco qui la prova inequivocabile, quella che inchioda il colpevole al di là di qualsiasi possibile dubbio. La pistola fumante che inchioda Bush e Cheney alle loro colpe sulla guerra lanciata 5 anni fa la si potrà trovare lunedì prossimo sulla scrivania del Ministro iracheno del petrolio quando, schierate di fronte a lui, siederanno con la penna già in mano le "sette sorelle", o comunque quanto resta di loro dopo le fusioni, pronte a firmare il contratto che gli concede di tornare a metter le mani sul petrolio della Mesopotamia.
Le aveva rimandate a casa più di trent’anni fa Saddam Hussein, con un decreto di nazionalizzazione degli idrocarburi; ma ora che Saddam è stato messo a tacere, le majors possono godersi il miele della vendetta e rientrare in pompa magna a farsi i loro affari.
Questa è la notizia che circola in molti blog americani negli ultimi giorni, a dire qual è l’umore sprezzante che sempre più viene rivolto al Presidente e alla sua politica irachena, con lo stillicidio quotidiano dei 4 mila morti interrati nella coscienza della nazione. Cadute le facili illusioni dei primi giorni di quel 2003, nell’opinione pubblica ha finito per acquistare sempre maggiore credibilità l’ipotesi che la vera ragione di questa guerra fosse il petrolio, altro che "la democrazia da esportare".
E l’Iraq, di petrolio ne ha davvero un mare. Le sue riserve conosciute sono di 115 miliardi di barili (più i 45 miliardi di metri cubi di gas), che è una cifra che lo mette al terzo posto della classifica mondiale; ma nelle settimane che precedettero il lancio della guerra l’Energy Information Agency del governo americano dava una stima assai più elevata, di 332 miliardi di barili, valutando che nella pancia del deserto occidentale ci siano riserve preziosissime, che porteranno l’Iraq al primo posto dei paesi produttori, sopravanzando di 70 miliardi di barili perfino l’Arabia Saudita, oggi il più ricco di pozzi e di petrodollari.
A confortare il giudizio amaro sui reali interessi di Bush e di Cheney – legati da sempre al mondo petrolifero, che gli finanziò la campagna elettorale dopo averli avuti anche come qualificati membri dei consigli di amministrazione – è la specifica che accompagna i contratti da firmare lunedì: contrariamente a quanto si pratica in questo comparto industriale, gli accodi sono stati raggiunti a trattativa privata, senza alcun bando pubblico, che è come dire che la Exxon Mobil, la Shell, la Total e la Bp (che facevano parte di quell’Iraq Petroleum Company che gestiva i ricchi affari iracheni prima di Saddam), più la Chevron –Amoco potranno spartirsi l’oro nero iracheno indisturbate, senza concorrente alcuno.
L’Iraq, che oggi produce 2 milioni e mezzo di barili al giorno (ma, con investimenti adeguati e un incisivo rinnovamento tecnologico, frenato a lungo dall’embargo contro Saddam, potrebbe arrivare fino a 6 milioni), conta di avere dai nuovi soci una immediata capacità di portare la produzione a 3, 1 milioni già entro l’anno; e giustifica il contratto "di favore" con due spiegazioni: l’alto know-how delle majors, che potranno aiutare l’industria irachena a migliorarsi decisamente, e poi la durata del contratto limitata a 2 anni. "Poi si ridiscuterà".
Certo, ogni illusione è lecita, poi. Il "Columbia Journalism Review", pubblicando recentemente in un numero speciale i più importanti reportage sulla guerra, stampava anche quanto aveva detto ai suoi ascoltatori l’inviata della National Public Radio, Anne Garrett: "Gli iracheni, al nostro arrivo, erano scioccati per il fatto che i soldati americani non facessero niente contro le violenze e i saccheggi, e ricorderà per sempre che praticamente l’unico edificio a essere protetto era il ministero del Petrolio; questo ricordava a tanti il motivo per il quale gli Stati Uniti si trovavano là".
 

Fonte - La Stampa

 

 

 

  Martedì 24 giugno 2008   Giovedì 26 giugno 2008   Venerdì 27 giugno 2008  
       
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GR1 RAI - 23 GIU ore 22:00

   

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GR1 RAI - 30 GIU ore 22:00

   

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  Il fieno del dollaro

19 Giugno 2008 03:34 NEW YORK - di Il Foglio

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Dice un proverbio cinese che un cavallo non diventa grasso senza rubare il fieno agli altri. Nonostante dica che "la Cina ha bisogno degli Stati Uniti e gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina", il vicepremier Wang Qishan sembra avere un piano semplice e preciso per accrescere le fortune economiche del suo paese: rubare più fieno possibile al cavallo americano.
I toni amichevoli e un viatico fatto di trenta accordi commerciali tra grandi aziende dell’una e dell’altra parte e l’annuncio di accordi bilaterali su energia e ambiente potrebbero ingannare: in realtà il vertice sinoamericano che si è aperto ieri ad Annapolis, nel Maryland, sotto la guida del segretario al Tesoro, Henry Paulson, potrebbe essere quello del sempre più probabile raffreddamento tra Cina e Stati Uniti.

Senza mai essere diventati alleati, i due paesi hanno tentato negli ultimi anni un riavvicinamento, dettato anche dalla voglia di Washington di non pagare le conseguenze della crescita economica cinese e di normalizzare il vantaggio monetario di Pechino, che senza scambiarlo sui mercati tiene artificiosamente basso il valore dello yuan. Tre sessioni semestrali di negoziato bilaterale non hanno però appianato le divergenze, nonostante Paulson, alla vigilia del vertice, abbia ricordato ai giornalisti di essere riuscito a strappare un apprezzamento della valuta cinese del 20 per cento in tre anni. Per l’economia americana, però, potrebbe essere troppo poco e troppo tardi.
Paulson, mostrando di saperlo, ha chiarito che al centro della nuova sessione (la quarta) del negoziato strategico ci sarà la questione delle ingenti scorte petrolifere cinesi: a Washington vorrebbero sapere come Pechino intenda gestirle in futuro.
La questione non è di poco conto. Gli americani (e non soltanto loro) temono che la politica di accumulo di petrolio portata avanti dalle autorità cinesi nasconda l’obiettivo di voler incidere sulle quotazioni del greggio e chiedono a Pechino di essere chiara, magari dicendo che le riserve strategiche del paese servono soltanto a garantire continuità ai rifornimenti.
Difficilmente, però, il vicepremier cinese farà chiarezza su questo punto. Forte di una crescita economica ancora solida, la Cina si trova per la prima volta a trattare con un’America in difficoltà, seppure non in recessione, e ha intenzione di approfittarne. Se la preoccupazione americana è legata al ruolo di Pechino (principale importatore dopo Washington) sul mercato petrolifero, quella dei cinesi ha invece origine proprio nell’attuale debolezza del sistema economico statunitense.
Le riserve della Banca centrale cinese, principalmente in dollari, hanno perso consistenza via via che la valuta americana si deprezzava sui mercati, tanto da scatenare i commenti tutt’altro che amichevoli di un alto funzionario dell’autorità di controllo sul sistema bancario cinese e dell’inviato di Pechino all’Organizzazione mondiale del commercio. Entrambi hanno recentemente accusato Washington di "irresponsabilità" per aver scatenato la crisi dei mutui subprime e per aver permesso una così rapida svalutazione del dollaro. "E’ colpa dell’America se ora i prezzi di derrate e petrolio sono così elevati", è stata la conclusione del diplomatico cinese.
La strategia di Wang partirà da queste dichiarazioni: il vicepremier punterà sulla debolezza dell’economia statunitense (che penalizza anche Pechino) per respingere le richieste di Paulson e ottenere una riduzione della resistenza che Washington continua a opporre ai prodotti e ai capitali cinesi.
I dati, in questo senso, parlano chiaro: lo scorso anno, complice il crollo delle quotazioni del dollaro, l’export americano verso la Cina è aumentato del 20 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti, quello cinese verso gli Stati Uniti soltanto del dieci. Le barriere ci sono e non riguardano soltanto le merci. Il Financial Times ha rivelato che la Federal Reserve avrebbe provvisoriamente negato alle due maggiori banche cinesi di aprire una succursale americana.
In particolare, la Banca industriale e commerciale cinese non avrebbe chiarito a sufficienza il ruolo del suo principale azionista, un fondo di investimento controllato dal governo di Pechino. Per i cinesi si tratta di "un giochetto per avere un’arma ad Annapolis" che potrebbe inasprire ulteriormente i rapporti bilaterali, già tesi per le recenti prese di posizione di Pechino sul nucleare iraniano e sull’allargamento della Nato (in accordo con Mosca). Per Paulson, "l’importante è continuare a parlarci". Tutto sta a capire se qualcuno lo ascolterà.

 

Fonte - Il Foglio

 

 

 

 

CRISI ECONOMICA: NASCE DALLA BOLLA IMMOBILIARE

11 Giugno 2008 16:51 NEW YORK - di ANSA
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"L'attuale crisi dei mercati finanziari nasce dall'esplosione della bolla del settore immobiliare ed edilizio, con le banche che hanno riversato incertezze e asset dubbi su tutto il sistema".
Lo afferma il premio Nobel 2006 per l'Economia, lo statunitense Edmund Phelps, secondo il quale una soluzione potrebbe essere quella di rivalutare il dollaro, per non fermare gli investimenti interni statunitensi e rilanciare quindi tutta l'economia Usa. "La crisi - spiega Phelps a Milano partecipando al primo Italian gold forum - è nata con l'esplosione della bolla immobiliare che ha portato i prezzi delle case fino al 40% oltre il loro valore reale.
Dal 2010 il settore potrà ripartire grazie alle seconde case o alla richiesta di alloggi migliori, ma intanto le banche si sono trovate con un enorme aumento del loro patrimonio immobiliare rispetto agli scarsi capitali a disposizione, con il risultato che hanno cercato capitali sul mercato finanziario, 'cartolarizzando' ipoteche e mutui molto dubbi, che sono stati acquistati da hedge fund, altri istituti o ceduti anche con transazioni fuori bilancio. E così prodotti molto rischiosi sono andati a finire in tutto il sistema".
Secondo il premio Nobel, professore associato di Politica economica alla Columbia University, "c'é anche un altro problema, che è quello dell'aumento del petrolio senza che vi sia una reale riduzione delle riserve, quindi un aumento tutto speculativo, spinto anche dai produttori contro il 'retail', come dimostra l'intervento di Gazprom di ieri che parla di raddoppio del prezzo entro breve".
Una soluzione potrebbe allora essere rappresentata dalla crescita del valore del dollaro, "perché con una moneta così debole gli Usa riescono sì a esportare di più, ma senza fare investimenti sul sistema interno della ricerca e della produzione, che invece deve ripartire per far riprendere tutta l'economia americana". Ma c'é un elemento che non va giù al combattivo premio Nobel: "Le risposte della politica - afferma Phelps - sono insoddisfacenti, a partire dalla politica monetaria.
Non bisogna avere paura dell'aumento momentaneo dei prezzi dei beni primari: l'inflazione è un'altra cosa, è l'attesa da parte di tutti di tassi di svalutazione insopportabili. Non siamo in questa fase e aumentare i tassi di interesse sembra sia l'unica cosa che sanno fare le banche centrali", fermando quindi i primi timidi tentativi di crescita, pensa il premio Nobel.
 

 

 

STAGFLAZIONE E BOLLE SPECULATIVE

17 Giugno 2008 07:37 ROMA - di Massimo Giannini
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C’è nell’aria una paura di stagflazione da anni ’70, dice sul Financial Times Stephen Roach, uno dei più brillanti banchieri d’affari della Morgan Stanley. Provate a dargli torto. Le prospettive della congiuntura, nel medio periodo, restano nere. La bolletta petrolifera impone un conto salatissimo alle economie mondiali.
Per avere un’idea, nell’ultimo mese i consumi di benzina negli Stati Uniti sono scesi del 9%. Un dato che ha un solo precedente: gli anni della Seconda Guerra Mondiale. È vero che la stagflazione moderna è diversa da quella del passato perché oggi l’inflazione, priva dei vecchi meccanismi di indicizzazione, non ruota attorno alla spirale perversa prezzisalari. Ma questo, paradossalmente, complica le cose. Ed è altrettanto vero che oggi Usa e Europa importano inflazione dall’Asia, dove i prezzi corrono a ritmi del 7,5%.
Parzialmente diverso è il quadro dei mercati, dove i problemi strutturali sono acuiti dai fenomeni speculativi. Nel breve periodo qualche «bolla» potrebbe esplodere. Dal grano al cacao, dall’olio alle commodities: gli aumenti esponenziali di queste ultime settimane non si spiegano solo con la «fame» di materie prime degli emergenti del «Bric». Prima dell’estate potrebbero in parte rientrare. E questo, come prevede George Soros, potrebbe generare un «rimbalzino» delle borse.
Quello che non abbiamo capito è cosa aspettano i banchieri centrali a concertare una politica monetaria all’altezza della sfida. La Bce, finora, ha avuto ragione a tenere stretti i cordoni della borsa sulla stabilità dei prezzi, mentre la Fed ha pagato la manica troppo larga di questi anni. Ma ormai è giudizio unanime che un rafforzamento del dollaro aiuterebbe a calmierare il prezzo del petrolio, e quindi attenuerebbe l’impatto recessivo dello shock. «È troppo chiedere una collaborazione tra Francoforte e Washington?», chiedeva tre giorni fa James B. Stewart sul Wall Street Journal. Buona domanda. Si attende risposta.
 

Fonte - La Repubblica
 

 

 

 

 

  Finanza, ma il giocattolo si è rotto ?

22 Giugno 2008 16:00 MILANO - di Giuseppe Turani

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La crisi dei prestiti subprime non ha creato problemi solo all´economia mondiale e a milioni di risparmiatori. Sta cambiando anche la geografia del potere economico. Fino ad un anno fa tutti consideravamo i fondi di private equity una sorta di nuovo grande potere pronto non solo a comprare aziende di qualsiasi dimensione, ma anche a tentare di condizionare paesi, economie, settori industriali.
L´estate scorsa però è successo qualcosa che ha stravolto un trend che durava da almeno vent´anni. E´ successo che, partendo dall´esposizione in mutui subprime e cartolarizzazioni relative, molte banche hanno cominciato a guardare più attentamente il proprio portafoglio impieghi ed hanno realizzato che sul settore del private equity (prestiti a chi comprava aziende in parte con soldi propri ma in gran parte con soldi presi a prestito) c´era stata un po´ troppa disinvoltura. E hanno chiuso improvvisamente i rubinetti.
Dall´autunno scorso il numero delle operazioni di private equity è crollato. Si è praticamente salvato solo chi aveva una trattativa già molto avanzata ed era più complicato smontarla che portarla a termine, salvo spesso dover pagare tassi di interesse più alti. Da mesi però quelli che erano considerati una grande minaccia, mai neanche paventata in passato, sono tornati a dormire. Erano pronti, i fondi di private equity, a diventare i padroni del mondo, ma hanno dovuto fermarsi.
Ma dove sono andati questi signori, dove sono finiti tutti quei soldi? Quei soldi sono ancora li, nelle loro casse, ma si è scoperto che ormai valgono assai poco, visto che di norma si devono mescolare a tanto debito per poter essere messi a frutto in modo adeguato. E´ come quelle formule chimiche dove, se non si combinano due componenti, non succede nulla. Il private equity classico, cioè quello dei grandi leveraged buy out (operazioni di acquisizione effettuate utilizzando la leva finanziaria, cioè i debiti con le banche che poi dovranno essere ripagati dai cash flows delle aziende acquistate) è diventato impotente di fronte al credit crunch che si sta manifestando in tutto il mondo: le banche non hanno più soldi.
E cosa succederà, che fine faranno tutti quei denari rimasti nelle casse dei fondi di private equity? Visto che è poco probabile che i gestori di questi fondi decidano di rimborsare i rispettivi investitori rinunciando alle commissioni che incassano da anni, la cosa più logica è che cambino parzialmente mestiere, cioè si rimettano a spendere e continuino a comprare società e pacchetti azionari, ma senza dover necessariamente far ricorso al debito. Faranno pertanto operazioni meno aggressive, più prudenti, anche se per loro meno lucrose.
D´altra parte era un po´ strano che i margini di quelli che sono stati chiamati barbari, locuste, talvolta avvoltoi, fossero enormemente superiori a quelli delle aziende e delle banche. Cioè di coloro che consentivano quei guadagni. A parte quello che faranno, gli strascichi che lasciano sul mercato sono, secondo alcuni, molto problematici: aziende con debiti altissimi e che in molti casi sarà impossibile ripagare, banche preoccupatissime di finanziamenti che - figli della disinvoltura di cui sopra - occupano una parte importante ed ingombrante dei loro bilanci e, fatto non marginale, dipendenti di società che si trovano all´interno di situazioni rese complicate e difficili da un´aggressività degli azionisti a cui non hanno potuto opporsi.
In generale poi si può notare come le società con azionisti che hanno privilegiato l´estrazione di liquidità alle prospettive future siano notevolmente più deboli sul piano tecnologico (carenza di investimenti in particolare nella ricerca e sviluppo di prodotti e processi), commerciale (timidezza nel marketing dovuta alla scarsezza di risorse finanziarie) e spesso anche sul piano manageriale perché comunque il privilegiare la finanza sui processi industriali non fa mai bene. D´altra parte se si vuole "mungere la mucca", come insegnano i manuali di strategia, non si può aspirare a diventare delle super star dello sviluppo.
Però, analizzando alcune operazioni recenti, specie al di la dell´oceano, si vede che si starebbe per "saldare" una combinazione virtuosa, una nuova formula chimico-finanziaria: la liquidità dei fondi di private equity potrebbe essere utilizzata proprio per riempire i buchi nei bilanci delle banche attraverso la partecipazione alle cospicue ricapitalizzazioni che ogni settimana sono all´ordine del giorno (Ubs, Rbs, Citicorp, Barclays, Lehman, solo per citarne alcune) e che finora hanno trovato nei fondi sovrani (di proprietà di Stati esteri), oltre ad altre banche apparentemente più solide, il maggior investitore.
Insomma, qualche preoccupazione nel dare in mano ad arabi, russi, cinesi ed indiani dei pacchetti azionari di rilievo nelle principali istituzioni finanziarie del mondo comincia a serpeggiare e, tutto sommato, far intervenire dei fondi "amici" può essere più prudente. O comunque un argine. Con il risultato che il ruolo dei grandi operatori del private equity, malgrado le operazioni che hanno fatto e le conseguenze che hanno causato, continua ad essere molto importante. Forse anche più di prima: vanno a salvare le banche.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

ANSA  +++  25 Giugno 2008 10:44 BRUXELLES - ++ BCE: TRICHET,FORTE INCERTEZZA SU PROSPETTIVE CRESCITA ++ ++ TASSI: TRICHET,POSSIBILE RIALZO,NON PRIMO DI UNA SERIE +++  25 Giugno 2008 20:10 NEW YORK - TASSI USA: LA FED LI LASCIA INVARIATI AL 2.00% ++  ++ FED: SALE RISCHIO-INFLAZIONE, PREOCCUPA MENO ECONOMIA   +++    ANSA 

 

TASSI USA: LA FED LI LASCIA INVARIATI AL 2.00%

25 Giugno 2008 20:10 NEW YORK - di ANSA
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La Banca Centrale americana ha lasciato invariato il tasso sui fed funds. Si chiude dunque la serie di tagli iniziata a settembre dello scorso anno. Un solo voto contrario.
Il Federal Open Market Committee, il braccio operativo della Federal Reserve, ha lasciato invariato il costo del denaro degli Stati Uniti al 2.00%. Si chiude la serie di tagli ai fed funds iniziata nel mese di settembre dello scorso anno che aveva abbassato i tassi a breve dal 5.25% all’attuale 2%.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Il Federal Open Market Committee ha deciso oggi di mantenere il target sui fed funds al 2.00%.
Le ultime informazioni indicano che nel complesso l’attivita’ economica sta continuando ad espandersi, riflettendo parzialmente una ripresa della spesa delle famiglie. Tuttavia, il mercato del lavoro si e’ indebolito ulteriormente e i mercati finanziari restano sotto un considerevole stress. Le peggiorate condizioni del credito, la contrazione in corso del comparto immobiliare, e l’aumento dei prezzi energetici continueranno a pesare con molte probabilita’ sulla crescita economica nei prossimi trimestri
Il Comitato si aspetta una moderazione dell’inflazione nei prossimi mesi e nel prossimo anno. Tuttavia, alla luce del continuo incremento dei prezzi energetici e di altre commodities ed a causa dell’elevato stato di alcuni indicatori sulle aspettative inflazionistiche, l’incertezza circa l’outlook dei prezzi resta alta.
La politica monetaria espansiva condotta fino ad oggi, in combinazione con le misure in atto per garantire la liquidita’ sul mercato, dovrebbero promuovere una crescita moderata nel tempo. Sebbene restino i rischi al ribasso per la crescita, sembra che questi siano in qualche modo diminuiti, mentre sono cresciuti i rischi di un’accelerazione dell’inflazione e delle aspettative inflazionistiche. Il Comitato continuera' a monitorare gli sviluppi economici e finanziari ed agira' come necessario per promuovere una crescita economica sostenibile e la stabilita' dei prezzi.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; e Kevin M. Warsh. A votare contro e’ stato Richard W. Fisher e che avrebbero preferito un aumento del target sui fed funds in questo incontro.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la decisione della Federal Reserve di confermare il tasso interbancario al 2.00%:
The Federal Open Market Committee decided today to keep its target for the federal funds rate at 2 percent.
Recent information indicates that overall economic activity continues to expand, partly reflecting some firming in household spending. However, labor markets have softened further and financial markets remain under considerable stress. Tight credit conditions, the ongoing housing contraction, and the rise in energy prices are likely to weigh on economic growth over the next few quarters.
The Committee expects inflation to moderate later this year and next year. However, in light of the continued increases in the prices of energy and some other commodities and the elevated state of some indicators of inflation expectations, uncertainty about the inflation outlook remains high.
The substantial easing of monetary policy to date, combined with ongoing measures to foster market liquidity, should help to promote moderate growth over time. Although downside risks to growth remain, they appear to have diminished somewhat, and the upside risks to inflation and inflation expectations have increased. The Committee will continue to monitor economic and financial developments and will act as needed to promote sustainable economic growth and price stability.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke, Chairman; Timothy F. Geithner, Vice Chairman; Donald L. Kohn; Randall S. Kroszner; Frederic S. Mishkin; Sandra Pianalto; Charles I. Plosser; Gary H. Stern; and Kevin M. Warsh. Voting against was Richard W. Fisher, who preferred an increase in the target for the federal funds rate at this meeting.

 

 

FED: FISHER IL DISSIDENTE, PER LUI QUARTO VOTO CONTRARIO

25 Giugno 2008 21:55 NEW YORK - di ANSA
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(ANSA) - NEW YORK, 25 GIU - Richard Fisher, presidente della Fed di Dallas e membro del Fomc, continua a dissentire dalle scelte di politica monetaria della Fed: nelle quattro votazioni alle quali ha partecipato quest'anno non si è mai trovato d'accordo con le scelte effettuate. Ma questa volta è rimasto solo: il suo consueto compagno di opposizione, il presidente della Fed di Philadelphia Charles Plosser, lo ha abbandonato, accontentandosi della decisione di lasciare invariato il costo del denaro al 2%. La riunione odierna rappresenta il settimo meeting consecutivo della Fed con almeno un dissenso. E mentre Ficher continua a opporsi alle scelte del board, Plosser che finora lo aveva sostenuto schierandosi contro la maggioranza, oggi ha optato per votare a favore del mantenimento dello status quo, accontentandosi così di interrompere il ciclo ribassista. In aprile, Fisher e Plosser avevano votato per mantenere i tassi fermi, in controtendenza così rispetto alla decisione finali di ridurre il costo del denaro al 2%. In marzo, invece, si erano espressi per un taglio meno aggressivo dei tassi rispetto allo 0,75% poi deciso. In gennaio, nel corso della riunione ordinaria, Fisher aveva dissentito dal taglio di mezzo punto percentuale del costo del denaro. Sempre nello stesso mese, il presidente della Fed di St. Louis William Poole, nel corso del meeting straordinario via conference call, aveva votato contro la decisione di intervenire, invitando ad attendere l'appuntamento istituzionale per agire. Nel dicembre 2007 Eric Rosengren, presidente della Fed di Boston, aveva votato per un taglio di mezzo punto, dichiarandosi contrario alla riduzione di un quarto di punto decisa. In ottobre, il presidente della Kansas City, Thomas Hoenig, aveva invece votato per il mantenimento dello status quo rispetto alla riduzione di un quarto di punto che era stata decisa. (ANSA).
 

 

 

FED: TRE POSTI VACANTI IN BOARD, SFIDA PER BERNANKE

25 Giugno 2008 19:41 NEW YORK - di ANSA
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(ANSA) - NEW YORK, 25 GIU - Tre posti vacanti nel board della Fed pongono il presidente della banca centrale Ben Bernanke di fronte ad una sfida, in quanto il rimpasto che dovrebbe avvenire potrebbe in qualche modo influenzare la politica monetaria. E' la prima volta dal 1935, cioé da quando è nato il Fomc, che ci sono tre posti vuoti e al momento una soluzione non sembra vicina a causa dell'empasse venutasi a creare fra il Senato democratico e l'amministrazione Bush. Dai sette membri che compongono il board della Fed attualmente due sono già out, mentre un terzo governatore si appresta a lasciare alla fine dell'estate. Il rimpasto del Fomc non è comunque destinato a impattare radicalmente nel breve periodo sulle scelte della Fed. Ma potrebbe spingere però Bernanke a muoversi verso un atteggiamento più falco, complicando allo stesso tempo le modalità di comunicazione. A votare nel Fomc sono solitamente 12 membri: sette governatori a Washington e 5 presidenti delle 12 banche regionali della Fed. Il presidente della Fed di New York ha un voto: i restanti 11 presidenti delle banche regionali votano a rotazione. Con due governatori già assenti e uno che si appresta a lasciare, alla fine dell'estate i presidenti delle banche regionali avranno presto la maggioranza dei voti. I presidenti delle banche regionali, al contrario dei sette governatori del board, non sono nominati dal presidente e confermati dal Senato.(ANSA).
 

 

 

 

 

  Mercoledì 04 giugno 2008   Domenica 08 giugno 2008   Giovedì 12 giugno 2008  
       
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  Presidenziali USA: da Wall Street sì a Obama

04 Giugno 2008 16:57 NEW YORK - di Reuters

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Wall Street sta finanziando il candidato democratico Barak Obama nella sua corsa alle Presidenza degli Stati Uniti, nonostante la preoccupazione che la sua amministrazione possa alzare le tasse e avere un approccio più severo su commercio e regolamentazione. I segnali che Wall Street legge puntano verso la vittoria dei Democratici nelle elezioni presidenziali e generali di novembre, con gli elettori che puniranno il Partito repubblicano in carica per il rallentamento dell'economia e la lunga guerra in Iraq. Il fatto che Obama abbia iniziato a rastrellare una quota crescente di denaro mentre la sua campagna spiccava il volo, fa pensare che gli investitori vogliano semplicemente sostenere il probabile vincitore.
Obama, senatore dell'Illinois, che ha conquistato martedì la candidatura democratica alle presidenziali con oltre i 2.188 delegati necessari per sconfiggere Hillary Clinton, senatrice di New York, ha ricevuto 7,9 milioni di dollari (5,1 milioni di euro) di finanziamenti dal mondo della finanza e delle banche, secondo i dati elaborati dal Center for Responsive Politics (Crp). Il suo avversario, il senatore dell'Arizona repubblicano John McCain, ha incassato poco meno di 4,2 milioni di dollari (2,7 milioni di euro), meno dei suoi colleghi repubblicani Rudolph Giuliani e Mitt Romney, che hanno abbandonato la corsa molto prima. Nel complesso i Democratici hanno raccolto il 57% dei finanziamenti erogati dai big della finanza. Se questa tendenza continuerà per tutto novembre, sarebbe la prima volta dal 1994 che in un'elezione presidenziale sono stati in grado di attrarre più soldi da Wall Street dei Repubblicani, secondo i dati del Crp. Sebbene il flusso di denaro quest'anno abbia decisamente cambiato direzione, il fatto che i Democratici siano riusciti a raccogliere più fondi dei Repubblicani può dire molto di più sulla natura di questa competizione che sulle alleanze di Wall Street.
Obama e Clinton hanno avuto più bisogno di soldi per finanziare la loro lunga battaglia per ottenere la nomination. Alla fine del 2007 la Clinton era al primo posto nella graduatoria dei finanziamenti da Wall Street con 6,3 milioni di dollari (4,1 milioni di euro), Obama era terzo dietro a Giuliani, secondo il Crp. McCain era sesto. Robert Boatright, professore della Clark University in Worchester (Massachusetts), che studia l'aspetto finanziario della campagna, ha detto che le cifre di McCain potrebbero essere distorte nel caso Wall Street stesse facendo delle donazioni al Comitato nazionale repubblicano piuttosto che alla sua campagna.

ROTTA DI COLLISIONE
Se investire non è altro che scommettere su quel che il futuro ha in serbo, e le elezioni presidenziali non fanno eccezione, i trader stanno dando al candidato democratico un buon margine. Intrade, sito internet con base a Dublino nel quale si comprano e vendono contratti legati a eventi del mondo reale, dà a Obama un robusto vantaggio su McCain. Anche questo contribuisce a spiegare perché il denaro di Wall Street si stia accumulando nelle sue casse, sebbene molte delle sue posizioni politiche non siano molto popolari tra i grandi investitori. La Security Industry and Financial Market Association (Sifma), che rappresenta più di 650 società finanziarie, banche e asset manager, si è espressa a favore di rendere permanente i tagli alle tasse introdotti mentre George W. Bush era in carica.
Obama ha promesso di eliminarli. La Sifma inoltre vorrebbe introdurre accordi per il libero scambio con paesi tra cui la Corea del Sud, cosa alla quale Obama si è opposto. Il commercio al momento è particolarmente importante per Wall Street dato che è il segmento più sano dell'economia statunitense. Le esportazioni hanno costituito la maggior parte della crescita dell'economia dello scorso trimestre e quasi il totale dei profitti aziondali. "Senza il commercio internazionale l'economia sarebbe in condizioni decisamente peggiori", ha detto Joseph LaVorgna, economista capo della filiale Usa Deutsche Bank.
Obama e Clinton si sono confrontati su chi avvrebbe avuto posizioni più dure sul commercio mentre lottavano in stati con un'alta presenza manifatturiera, come Ohio e Pennsylvania, dove molti elettori incolpano la globalizzazione per la perdita del lavoro. Entrambi hanno detto che avrebbero rinegoziato il North American Free Trade Agreement (Nafta, Trattato per il libero commercio nel Nord America) per aumentare le tutele dei lavoratori. Secondo Andrew Busch, stratega del commercio estero globale per BMO Capital Markets a Chicago, la retorica della campagna elettorale potrebbe raffreddarsi ora che la lunga stagione delle primarie è finita. Riscrivere il Nafta "sarebbe un disastro", ha detto Busch. "Non possiamo tornare dai nostri partner commerciali e dire che non ci piace questo o quell'aspetto dell'accordo. I nostri partner commerciali potrebbero avere da ridire su ciò che non gli piace".

 

Fonte - Reuters

 

 

 

  Mc Cain, l'eretico Repubblicano

05 Giugno 2008 10:56 WASHINGTON - di Alberto Pasolini Zanelli

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John McCain è apparso combattivo e stanco la notte in cui ha voluto giocare d’anticipo e inserirsi nei festeggiamenti dei democratici a Barack Obama. E le differenze sono apparse più profonde che mai. E non perché potrebbe essere il padre del rivale. E non soltanto perché egli è repubblicano invece che democratico: ma perché egli è differente.
La campagna elettorale, quella vera, che si è aperta nella notte brava dei «tre grandi», attenuerà probabilmente le distanze perché gareggiare per la Casa Bianca impone anche un certo galateo non necessariamente dettato dal rispetto ma attento a una contesa per la conquista del «centro». La diversità si coglie dunque meglio adesso, all’inizio, e potrà riproporsi dopo le elezioni nel modo in cui il vincitore agirà.
Dato che l’avversario è Obama e che Obama ha come scelta obbligata di attaccare McCain, il contrasto è davvero in bianco e nero e non per il colore della pelle ma per le origini, la mentalità, le esperienze dei due rivali. Qualità e difetti, punti di forza e di debolezza sono opposti, speculari. Obama è visto come troppo giovane, McCain, da molti, come troppo vecchio. L’uno è sospettato di debolezza nella politica estera, l’altro di una eccessiva rigidità. La sua visione del mondo si ricollega in qualche modo alla cosiddetta «lezione del Vietnam», quella che vide il «fronte interno» americano sgretolarsi sotto il peso della lunga guerra.
McCain quegli anni non li ha vissuti nelle strade o nelle aule della politica di Washington ma in un carcere di Hanoi, abbattuto dalla contraerea Viet durante un bombardamento, ferito, maltrattato, torturato. Era una preda di valore. Era il figlio dell’ammiraglio McCain, comandante delle forze Usa nel Pacifico e dunque anche dei combattenti in Vietnam. Per lui, in una cella di quello che sarcasticamente si chiamava lo «Hanoi Hilton», non c’erano echi del «fronte interno» ma solo una guerra in corso che l’America finì col perdere, unica nella storia.
Se tornò a casa fu per «merito» di un armistizio che preparava la sconfitta. Scese dall’aereo appoggiato a due stampelle. Tornò a casa nell’anno nero dell’America. Entrò in politica senza porsi troppe domande ma rispondendo a un impulso patriottico oltre che ai dettami di una tradizione di famiglia: anche il nonno era ammiraglio. Sempre rieletto, fu attratto presto da obiettivi più importanti, il che lo fece un rivale personale di George W. Bush.
Cominciarono a duellare nel febbraio del 2000 e McCain mise a segno la prima stoccata, nel New Hampshire, prima di finire schiacciato dal rullo compressore di Bush negli Stati del Sud. I due non si sono mai troppo amati, al punto che nel 2004 al conservatore McCain fu offerta addirittura la candidatura vicepresidenziale nel ticket democratico guidato da John Kerry. Considerato un «eretico» per alcune sue iniziative di politica interna, troppo «laico» per la Destra religiosa, ancora non ha convinto tutti i repubblicani. Per i democratici, però, la sua elezione equivarrebbe a un «terzo mandato per Bush».
Un accostamento che gli pesa molto e da cui deve cercare di sfuggire da qui a novembre. E lo farà, ma non è disposto a «remare contro» nella politica estera e in particolare nel Medio Oriente. Ha già fatto troppo, sempre obbedendo alla sua coscienza, a schierarsi contro Guantanamo e, lui torturato, alla tortura.
È il più anziano candidato alla Casa Bianca nella storia, a tratti appare stanco, il sorriso non troppo convinto. Ma ne ha passate di peggio di una campagna elettorale. Spera che gli elettori si abituino a considerarlo per se stesso e non per una appendice dell’attuale amministrazione. Anche Obama, che i sondaggi in questo momento danno lievemente in vantaggio, ha i suoi problemi. È «troppo nuovo» così come McCain può apparire troppo vecchio. Ma i dadi sono tratti ed entrambi dovranno correre fino al 4 novembre.

 

Fonte - Il Giornale

 

 

 

 

Hillary Clinton lascia e invita i suoi a votare Obama

08 Giugno 2008 18:32 NEW YORK - dal corrispondente Mario Platero
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NEW YORK – Indomita, determinata, in abito "presidenziale", un tallieur nero, camicetta verde acqua, un filo di perle al collo, Hillary Clinton ha ceduto il suo sogno politico di tornare alla Casa Bianca a Barack Obama, ha chiesto di votare per lui, ha invocato l'unita' del partito, ha detto che le due campagne, la sua e quella di Obama hanno consentito di fare un balzo in avanti al Paese, "un passo in avanti in quello che ci attende nel ventunesimo secolo: oggi sappiamo che un afroamericano puo' essere presidente degli Stati Uniti, che una donna e' arrivata vicina alla candidatura del partito....le nostre sono candidature simbolo per il futuro".
Un futuro pero', che non le appartiene. E che considerava suo di diritto. Per questo il passaggio della concessione, ormai inevitabile davanti alla vittoria di Barack Obama sul fronte dei delegati, e' stato per Hillary difficile, anzi difficilissimo. Hillary - nell'ultimo comizio che ha ufficializzato la sua rinuncia alla corsa per la Casa Bianca e il suo appoggio a Obama - ha regalato pochi sorrisi, il tono restava duro, il momento chiaramente doloroso.
"Avrei voluto avere questo party per un'altra occasione" ha detto in apertura del suo discorso con un sottofondo di amarezza. Dal suo volto, dalle sue espressioni si coglieva un sentimento piu' simile ai boati di disapprovazione che venivano dal pubblico ogni volta che incoraggiava votare per Barack Obama, a lavorare per lui, a dedicarsi alla causa comune del partito, che alle parole ispirate, ma forse meccaniche con cui chiedeva di chiudere il "suo" capitolo, per aprirne un altro, in nome della storia del Paese e della vittoria a novembre contro i repubblicani.
Durante il discorso di Hillary, Bill, il marito, che l'ha seguita passo passo in questa lunghissima tormentata combattuta campagna, il suo piu' ascoltato consigliere politico, era mischiato al pubblico di fedelissimi al National Building Museum a Washington insieme alla figlia Chelsea. Anche lui abbattuto mentre ascoltava la moglie che dichiarava :" a questo punto, uniti, il messaggio di Barack Obama e' ancora piu' forte, "yes we can" ", diceva la signora.
Comunque sia, per i Clinton e per l'America, gia' oggi si archivia una pagina di storia: la concessione significa ammettere un passaggio generazionale, significa che la macchina politica dei Clinton, ammirata e potente e' stata sconfitta, significa che il vento del cambiamento che il Paese ha cercato prevale sugli interessi dei notabili e dell'establishment politico della Capitale. Adesso per Hillary non resta che aspettare. Non avra' piu' alcun input sulle decisioni future. Il braccio di ferro che ha provato a ingaggiare nei giorni scorsi per determinare alcune scelte, ad esempio la vicepreisdenza per lei, in nome dei 18 milioni di elettori che l'hanno appoggiata, di nuovo non ha portato a nulla. E a confermare quanto profonde siano le ferite da rimarginare, la forza dell'unita' non e' stata amplificata da un'apparizione congiunta" Barack Obama non e' venuto a questo discorso, e' riamsto a Chicago. E Hillary, in chiusura, al suo canto del cigno, non ha potuto fare a meno di rivendicare la sua base politica, appunto quei 18 milioni di elettori, la nuova coalizione dei poveri delle zone rurali, delle donne, dei gay, dei lavoratori che perdono il posto per la concorrenza internazionale, delle madri che allevano figli da sole, dei derelitti: "Io saro' sempre con voi, nessuno potra' dimenticarvi", ha detto. Una conferma insomma, l'assenza di Obama, i fischi e i boati, le rivendicazioni di Hillary sulla forza della sua base, che la spaccatura del partito e' stata davvero profonda e che il processo per rimarginare la ferita e' appena iniziato con l'appello all'Unita' della signora. Con una speranza di fondo per i democratici: che da qui a novembre il tempo sara' galantuomo.
 

Fonte - La Stampa on line

 

 

 

 

  Usa: una campagna elettorale da un miliardo di dollari

08 Giugno 2008 18:32 NEW YORK - di Christian Rocca

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"In politica ci sono due cose importanti – diceva nel 1896 Mark Hanna, lo stratega del presidente americano William McKinley – la prima sono i soldi e non mi ricordo quale sia la seconda". La partita tra Barack Obama e John McCain si gioca anche su questo, sul ruolo e sull’influenza del denaro nel processo politico, non solo su chi sarà capace di raccogliere più finanziamenti.
La campagna elettorale, finora, ha movimentato 950 milioni di dollari, già 250 milioni in più rispetto al ciclo elettorale del 2004. Il tetto di un miliardo di dollari sarà superato facilmente. La macchina da soldi di Obama ha già raccolto 264 milioni di dollari, contro i cento di McCain, ma il Partito repubblicano ha fatto meglio dei democratici. Oggi McCain e i repubblicani hanno a disposizione 85 milioni cash, mentre Obama e i democratici venti di meno, facilmente recuperabili anche grazie al consistente gruppo di contribuenti clintoniani ora pronti a sostenere il vincitore delle primarie. Entrambi i candidati hanno un curriculum da riformatori e sono impegnati a ridurre il potere dei lobbisti e il condizionamento degli interessi speciali.
Ma una cosa è fare politica da outsider, un’altra da candidati alla Casa Bianca. A volte qualche compromesso è necessario. McCain è l’autore della legge McCain-Feingold che limita e regolamenta il finanziamento alla politica, Obama è stato l’unico candidato a rinunciare ai soldi dei lobbisti (e a restituire i finanziamenti ricevuti dall’amico e consigliere Tony Rezko, prima accusato e poi condannato per corruzione).

McCain è noto per le sue battaglie contro i gruppi di pressione di K Street, ma Obama e i democratici lo accusano con un efficacissimo spot televisivo lanciato ieri mattina di avere tra i suoi top advisor gente che ha rappresentato gli interessi di governi stranieri, di feroci dittatori, di oligarchi russi, della famiglia reale saudita. Un paio di consiglieri si sono dimessi per aver curato gli interessi del regime birmano, anche se poi al Senato McCain si batte per impedire ai petrolieri della Chevron di fare affari con la giunta di Rangoon e i democratici sono favorevoli.
Il principale punto di scontro tra i due è quello del finanziamento pubblico. McCain accusa Obama di non voler onorare la promessa di accettare i soldi federali, una cosa mai successa da quando il "public financing" è stato introdotto nel 1976. Obama è convinto di poter raccogliere più soldi di quelli garantiti dalle casse federali e non vuole essere legato ai limiti di spesa imposti dal finanziamento pubblico.
Il candidato che riceve gli 84 milioni federali, da spendere tra le convention di fine agosto e inizio settembre e il giorno delle elezioni, rinuncia a convogliare nel processo ulteriori soldi.
Per evitare un contraccolpo alla sua immagine di uomo nuovo della politica, Obama giustifica il suo probabile rifiuto spiegando di aver messo in piedi un esercito di un milione e mezzo di piccoli contribuenti che può essere considerato un modello parallelo di finanziamento pubblico. I repubblicani fanno notare che nelle ultime due dichiarazioni dei redditi Obama non ha messo la croce sulla casella "3 dollari per la campagna presidenziale", e lo accusano di considerare buoni soltanto i soldi che raccoglie lui.

Trucchi per aggirare le leggi
Obama però ha confermato le sue credenziali riformatrici annunciando che sotto la sua guida d’ora in poi anche il Partito democratico, anche se non retroattivamente, adotterà le regole contrarie a ricevere i finanziamenti dei lobbisti federali e dai Pac, i comitati di azione politica che intervengono a sostegno di un candidato o di una battaglia politica. McCain, pressato da Obama, invece non sembra disposto a rinunciare a quei soldi, anche se sono una percentuale minima del totale, e spiega che aggirare le regole autoimposte dal suo avversario è facile, tanto è vero che Obama riceve contributi individuali da gran parte dei top manager di hedge fund e dai dipendenti di varie corporation.
McCain, invece, aggira la sua stessa legge che limita a 2.300 dollari il contributo massimo che una persona può versare a un candidato. Il senatore dell’Arizona, infatti, sta già delegando al partito la raccolta fondi, in modo che i grandi donatori possano versare in un colpo solo 70 mila dollari: 2.300 per le primarie, altri 2.300 per le presidenziali, 28.500 per il partito nazionale e il resto a comitati locali, anche se poi saranno tutti usati a favore del candidato.

 

Fonte - Il Foglio

 

 

 

 

SondaggI: BUSH AI MINIMI STORICI, OBAMA SU McCAIN

18 Giugno 2008 14:18 WASHINGTON - di WSI
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Il gradimento di George W. Bush fra gli americani è ai minimi storici: secondo un sondaggio condotto dall'istituto di ricerca Harris, meno di un americano su quattro, solo il 24%, ha del suo presidente una «buona opinione». Pessimo anche il giudizio che gli americani hanno della politica del loro paese: l'80% degli intervistati ritiene che gli Stati Uniti stiano seguendo una «strada sbagliata».
Bush in discesa. Il gradimento nei confronti di Bush, se si escludono i 22 punti di consenso raccolti nel luglio 1980 da Jimmy Carter, è il più basso mai rilevato per un presidente americano. Ad aprile Bush poteva contare sul sostegno di 26 americani su 100 ma la crisi petrolifera e il conseguente aumento del prezzo dei carburanti gli hanno fatto perdere altri preziosi consensi.
Obama in ascesa. Nel primo sondaggio pubblicato dopo la conclusione delle primarie democratiche, Barack Obama mantiene un leggero vantaggio sull'aspirante presidente repubblicano John McCain. Per il candidato democratico, comunque, non è ancora tempo di sonni tranquilli: i voti degli indipendenti alle elezioni potrebbero fare la differenza.
I risultati del sondaggio condotto da Washington Post-Abc vedono il senatore dell'Illinois in testa con il 48% delle preferenze, con un vantaggio di sei punti percentuali sull'avversiario. Il candidato repubblicano sembra però aver conquistato le simpatie degli elettori indipendenti, quelli che non sono registrati come votanti democratici o repubblicani, per i quali il senatore dell'Arizona sarebbe un presidente più credibile nella lotta al terrorismo.
 

Fonte - WallStreetItalia.com