Non
è il '29
e lo storico Ferguson boccia il Nobel
Krugman
01 Giugno 2009 13:05 MILANO - di
Niall Ferguson
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Mercoledì
scorso, il rendimento dei T-bond decennali del Tesoro americano –
generalmente considerato l'indice di riferimento per i tassi a lungo
termine – ha superato il 3,73%. Un tempo sarebbe stato considerato
un livello piuttosto basso, ma con la crisi finanziaria non più.
Alla fine del 2008 era sceso al 2,06%. In altre parole, i tassi a
lungo termine sono saliti di 165 punti base nell'arco di cinque mesi
(+81%). L'annuncio - coinciso con ammonimenti sulla salute fiscale
degli Usa - ha innervosito la maggior parte dei commentatori, ma per
me era una buona notizia. Poneva fine a una mia controversia con
Paul Krugman. Bisogna essere coraggiosi o temerari per
contraddire l'economista di Princeton e premio Nobel 2008. Ma se un
cane può guardare un re, uno storico può qualche volta sfidare un
economista. Un mese fa, a
una tavola rotonda sulla crisi finanziaria alla quale partecipavamo
entrambi, avevo affermato che «il deficit fiscale massiccio del
2009, superiore al 12% del Pil, e quindi l'emissione di enormi
quantità di buoni nuovi di zecca» avrebbero portato al rialzo dei
tassi a lungo termine proprio mentre la Fed cercava di tenerli
bassi.
Prevedevo «un doloroso
braccio di ferro tra politica monetaria e politica fiscale, non
appena i mercati si fossero accorti di quanti buoni avrebbero dovuto
essere assorbiti dal sistema finanziario quest'anno».
Guardato dall'alto in basso,
ricevetti una risposta paternalistica: ero rimasto ai secoli bui
dell'economia. Era «davvero sconfortante» che le mie nozioni
di quella triste scienza non arrivassero neppure al 1937 (l'anno
successivo alla pubblicazione della «Teoria generale» di Keynes) e
men che meno al suo apice nel 2005 (anno in cui è uscito il manuale
di macroeconomia del professor Krugman). Come poteva essermi
sfuggito che la chiave della crisi stava nel «forte eccesso di
propensione al risparmio rispetto alla propensione
all'investimento»? «C'è una saturazione globale del risparmio -
spiegò il professor Krugman - ecco perché non c'è alcuna pressione
verso l'alto dei tassi d'interesse». Io non ho bisogno di lezioni
sulla «Teoria generale», ma penso che al professore gioverebbe dare
una rinfrescata al contesto storico di quell'opera. Ha appena
ripresentato in libreria il suo «The Return of Depression Economics»
ed è chiaro che gli conviene presentare la crisi attuale come una
ripetizione degli anni Trenta. Ma così non è.
Il Fondo monetario internazionale prevede un calo del 2,8% del Pil
americano nel 2009, e una stagnazione nel 2010. Niente a che vedere
con l'inizio degli anni Trenta, quando il prodotto reale era
crollato del 30 per cento. Fin qui, siamo in una grande recessione -
paragonabile per dimensioni a quella del 1973-1975 - senza il crollo
della globalizzazione cui s'era assistito allora.
Il merito di aver evitato
una seconda Grande Depressione va innanzitutto al presidente della
Fed, Ben Bernanke, massimo esperto della crisi bancaria degli anni
Trenta, che è riuscito a fermare una pandemia di bancarotte tra gli
istituti di credito con una doppia dose di tassi a breve termine
prossimi a zero e di espansione quantitativa, con un raddoppio del
bilancio della Fed da settembre a oggi. Ed è certo che il piano di
stimolo da 787 miliardi di dollari ha migliorato il Pil di questo
trimestre. Ma lo stimolo rappresenta soltanto una parte del
massiccio deficit del governo federale.
Da qui a dicembre si
indebiterà per 1.840 miliardi di dollari, l'equivalente di circa
metà della spesa federale e del 13% del Pil americano. Il paese non
aveva avuto un deficit di queste dimensioni dalla Seconda guerra
mondiale. Secondo il Congressional Budget Office, aumenterà di altri
10.000 miliardi nel corso del decennio. E persino secondo le
previsioni assai rosee della Casa Bianca, nel 2017 il debito
nazionale lordo supererà il 100% del Pil, anche senza tener conto
delle passività fuori bilancio, come quelle dell'assistenza
sanitaria e della previdenza sociale.
Lo sbigottimento del mercato delle obbligazioni non ci deve
sorprendere: solo sul pianeta Eco-101 - il corso-base di macroecomia
martellato nella testa di ogni studente universitario del primo anno
- accade che una simile marea di obbligazioni non eserciti una
«pressione al rialzo sui tassi d'interesse». Il professor Krugman mi
aveva capito benissimo, ovviamente. «L'unica cosa che potrebbe far
rialzare i tassi d'interesse - aveva ammesso durante il dibattito -
è che la gente dubiti della solvabilità finanziaria dei governi».
«Potrebbe»? O sarebbe meglio dire: «potrà»? Fatto sta che la gente,
non ultimo il governo cinese, ne sta già dubitando. Sa che la
politica fiscale americana implica enormi acquisti di titoli
pubblici da parte della Fed quest'anno: non ci sono abbastanza
acquirenti stranieri o interni per finanziare il deficit. Questa
politica si chiama stampare denaro ed è quella tentata da molti
governi negli anni 70 con conseguenze per l'inflazione che non serve
essere storico per ricordare.
È vero che oggi soffiano
nella direzione opposta forti venti di deflazione. C'è un eccesso
mondiale di capacità produttiva manufatturiera. Ma da febbraio il
prezzo delle materie prime sta aumentando. Negli Stati Uniti dove
l'M2 cresce di un 9% all'anno, un valore molto al di sopra della
media dagli anni Sessanta in poi, è probabile che l'espansione
monetaria porti all'inflazione se non quest'anno l'anno prossimo.
Per dirla con l'ultimo rapporto trimestrale della Banca centrale
cinese, «un provvedimento errato...comporterebbe rischi d'inflazione
per il mondo intero».
Quel provvedimento – una
politica fiscale da guerra mondiale usata per combattere una
recessione – è già stato adottato. In assenza di impegni credibili
per porre fine al deficit strutturale cronico degli Stati Uniti, ci
sarà un'ulteriore spinta al rialzo dei tassi d'interesse a dispetto
della saturazione dei risparmi globali. Proprio Keynes aveva notato
che «persino il più realistico degli uomini d'affari è schiavo di
qualche economista defunto». Oggi, l'economista defunto è Keynes e
gli schiavi delle sue idee sono i professori di economia, non gli
uomini pratici.
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Traduzione
- Sylvie Coyaud
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Il nuovo conundrum:
più risparmi, su i retailers
Monday, 2 June, 2009 at 22:49
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di phastidio ______________________________________________
Il nuovo conundrum: più risparmi,
su i retailers
leave a comment »
Al termine di una giornata trionfale per i mercati azionari, ed
entro una cornice rialzista il cui significato fondamentale
continua a sfuggirci, segnaliamo l’eccellente performance dei
retailers, proprio nel giorno in cui i dati macro segnalano
l’aumento del tasso di risparmio. Contraddittorio, ma il mercato
pare non farsi più troppe domande: i crediti stringono, i govies
vengono pesantemente venduti, determinando uno spettacolare
irripidimento della curva. Le motivazioni del rally dei
retailers sono al solito razionalizzazioni ex-post: il
miglioramento della fiducia dei consumatori, che pur restando su
livelli ancora piuttosto depressi potrebbe aver contribuito ad
innescare ricoperture sul settore; oppure l’indice ISM
manifatturiero, uscito meno peggiore delle stime, o l’indice dei
direttori acquisti delle imprese manifatturiere cinesi, ormai
confortevolmente sopra la soglia di espansione di 50. Noi invece
pensiamo che questi siano soprattutto pretesti per innescare una
rotazione settoriale, in un quadro di mercato dominato dalla
liquidità. Ma potremmo sbagliarci.
Fonte
-
Macromonitor
BERNANKE VEDE
GRADUALE RIPRESA ECONOMICA
03 Giugno 2009 16:32 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Il presidente della Fed si
aspetta che il rallentamento della contrazione continui e che le
condizioni migliorino quest'anno. Nessuna misura per mettere un
freno al balzo dei tassi. Mercato del lavoro visto ancora
debole.
Gli ultimi dati giunti dal fronte macro suggeriscono che il
ritmo della contrazione economica e' in fase di moderazione e
che le condizioni sono destinate a migliorare gradualmente. Lo
ha detto il presidente della Banca Centrale americana nel corso
del suo intervento dinanzi alla Commissione di bilancio della
Camera.
Tuttavia il numero uno della Fed ha segnalato che "l'economia
statunitense ha subito una netta contrazione dallo scorso
autunno, con il Pil che e' scivolato ad un tasso annuale di
circa il 6% nel quarto trimestre del 2008 e nel primo trimestre
di quest'anno. Tra i costi enormi di tale rallentamento la
perdita di 6 milioni di posti di lavoro dall'inizio del 2008. Le
ultime informazioni che abbiamo sul mercato dell'occupazione,
come il numero di richieste di sussidio, nuove e continuative,
ci dicono che le perdite di posti di lavoro e l'incremento del
tasso di disoccupazione continueranno nei prossimi mesi".
Una serie di fattori continuera' a compromettere le spese al
consumo, tra cui, oltre alla debolezza del mercato del lavoro,
il calo dello stato di salute del mercato immobiliare e dei
mercati finanziari, che ha pesato sui bilanci delle famiglie
negli ultimi due anni, e la stretta creditizia che ancora non si
e' allentata.
Le attivita' nel settore del mattone, invece, dopo un lungo
periodo di depressione hanno mostrato segnali che indicano che
il fondo e' vicino. "Continuiamo a prevedere che l'attivitita'
economica globale si riprendera' per poi ripartire alla fine
dell'anno. Anche dopo l'inizio della ripresa, tuttavia, per un
certo periodo il tasso di crescita delle attivita' dell'economia
reale rimarra' probabilmente sotto il potenziale a lungo
termine. Questo implica che l'attuale momento di ristagno
nell'utilizzazione delle risorse verra' ancora confermato".
"La ripresa - ha proseguito Bernanke - guadagnera' momentum solo
gradualmente e il ristagno economico diminuira' ad un ritmo
lento. In particolare, le aziende continueranno a mantenere un
approccio cauto per quanto riguarda le assunzioni, e il tasso di
disoccupazione probabilmente salira' ancora per un certo periodo
di tempo, persino dopo che l'economia tornera' a crescere".
In un contesto di questo tipo Bernanke ha detto di prevedere che
l'inflazione si manterra' su livelli bassi, aggiungendo che il
bilancio fiscale deve essere uno degli obiettivi politici
primari.
Nel frattempo Bernanke non ha offerto una risposta al recente
rialzo dei tassi di interesse, limitandosi a citare i fattori
alla base del fenomeno. Secondo alcuni analisti pero', la Banca
Centrale potrebbe ricorrere ad alcune misure eccezionali, come
l'acquisto di altri Titoli di Stato.
Secondo il numero uno della Federal Reserve dietro all'impennata
dei rendimenti dei Treasury vi sarebbero molti elementi. Tra
questi le preoccupazioni sul deficit federale e la crescita
dell'ottimismo sulle prospettive economiche, un capovolgimento
dei flussi "fligh-to-quality" e altri fattori tecnici.
Bernanke non ha accennato ad eventuali misure che la Fed
potrebbe intraprendere nel tentativo di contrastare questo
movimento al rialzo dei tassi, che alcuni economisti ritengono
potrebbe compromettere la potenziale ripresa dell'economia.
Fonte
- WallStreetItalia
Stati Uniti
–
L’emorragia di occupati rallenta. Forse
Friday, 3 June, 2009 at 21:18
-
di phastidio ______________________________________________
Il dato di oggi dei non farm
payrolls mostra che in maggio sono stati persi 345.000 impieghi,
meno di metà del dato di gennaio. Il tasso di disoccupazione è
balzato al 9,4 per cento (era al 4,9 per cento a dicembre 2007,
mese di inizio ufficiale dell’attuale recessione), per effetto
dell’ingresso nella forza lavoro di più persone di quante ne
siano uscite. Questa circostanza potrebbe spiegarsi con i
reingressi o ingressi nella forza lavoro di soggetti che cercano
un’occupazione per integrare il reddito familiare, soprattutto
se quest’ultimo è stato colpito dal licenziamento del principale
percettore. Il rapporto occupati-popolazione è sceso al 59,7 per
cento, minimo da ottobre 1984 (vedi grafico sotto).
Oltre un quarto (il 27 per cento) dei 14,5 milioni di
disoccupati non sono riusciti a trovare un lavoro malgrado una
ricerca durata 27 settimane e oltre: cresce, quindi, la
componente di disoccupazione a lungo termine. La legislazione
economica adottata a inizio di quest’anno fornisce
l’assicurazione sulla disoccupazione ai lavoratori che hanno
esaurito le 26 settimane di sussidio regolare, ma il mercato del
lavoro è così debole che è probabile che molti lavoratori
esauriranno anche il benefit aggiuntivo prima di trovare un
nuovo lavoro. Inoltre, l’indice aggregato delle ore lavorate è
calato in maggio dello 0,7 per cento su base mensile, contro la
flessione dello 0,3 per cento segnata in aprile. Il calo
trimestrale annualizzato si è portato all’8,6 per cento. E’
utile rammentare che se occupazione e disoccupazione sono
considerati un lagging indicator (e spesso tendono a peggiorare
anche nei primi tempi dopo la fine della recessione), le ore
lavorate sono più propriamente un indicatore coincidente.
Per gli amanti del cospirazionismo, il dato di 345.000 posti
perduti in maggio, che è il risultato della procedura di
destagionalizzazione, non si riconcilia con i dati sui nuovi
sussidi di disoccupazione pubblicati su base settimanale. Poco
dopo l’uscita del dato, tra i desk di Wall Street si era fatta
largo l’ipotesi che il governo avesse “sbagliato” i conteggi. La
successiva smentita del Segretario al Lavoro, Hilda Solis, ha
rasserenato gli animi. Per ora. Ma il problema vero resta sempre
il net birth/death model, che ha aggiunto al totale ben 220.000
improbabili nuovi impieghi.
Fonte
-
Macromonitor
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Il
liberismo non è un cliché
03 Giugno 2009 08:26 MILANO - di
Carlo Trigilia
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Che ruolo
hanno giocato gli economisti nel favorire quelle modalità di
organizzazione delle attività economiche che hanno portato alla
crisi? La domanda può apparire a prima vista provocatoria e non ben
fondata. Dopotutto, gli economisti sono degli studiosi, degli
analisti. Perché dovrebbero aver avuto un ruolo importante nella
crisi? In realtà, questo interrogativo si giustifica se teniamo
conto che gran parte delle attività che caratterizzano la vita
collettiva non sono organizzate in un certo modo semplicemente
perché quello è il modo più efficiente di farle, ma anche perché è
considerato il più appropriato dagli esperti dal ramo. In altre
parole, perché è giustificato e legittimato per ottenere certi
risultati.
Molti economisti hanno
derubricato la questione della crisi a errori tecnici e a carenze
dei regolatori. Ma non c'è bisogno di iscriversi al ristretto
club ideologico di quanti non vedono il ruolo positivo - e da
mantenere - della finanza nell'economia di mercato, per sostenere
che questa valutazione è troppo riduttiva. Gli economisti - quelli
appartenenti al grosso della disciplina (il mainstream), non importa
quanto informati di finanza - hanno delle responsabilità maggiori
per quello che è successo negli ultimi decenni.
Essi hanno infatti dato
legittimità a una grande trasformazione nell'ambito della quale
concreti interessi economici e politici hanno poi agito in certe
direzioni. Non solo. Nell'ambito di una crescente globalizzazione
culturale, si sono fatti paladini del modello del capitalismo
anglosassone, presentandolo come meta da raggiungere agli
anchilosati capitalismi europei e a quello giapponese. Anche
in Italia - e a volte anche da questo giornale - sono spesso venute
convinte e severe prediche in questa direzione. Ma perché tutto
questo è accaduto?
La risposta va cercata
nell'attaccamento della maggior parte degli economisti al paradigma
centrale e originario della disciplina, per il quale più ci si
avvicina al modello dei mercati autoregolati e maggiori sono i
vantaggi per il benessere collettivo. Com'è noto, il ritorno
all'egemonia forte di questo paradigma risale alla svolta
neoliberale di Ronald Reagan e Margaret Thatcher per far fronte alle
gravi difficoltà economiche dei rispettivi Paesi. Tale svolta era
stata sostenuta da alcune correnti affermatesi nel pensiero
economico, ma contribuì poi a rafforzare, a sua volta, l'influenza
di tali correnti più radicalmente "mercatiste" nel complesso delle
business schools, delle università e dei media specializzati. Da qui
quel processo di legittimazione crescente e di incoraggiamento
concreto di nuove pratiche nell'organizzare la finanza e le imprese
di produzione.
Quanto alla finanza, è
difficile credere che gli economisti non si rendessero conto di una
serie di rischi, molto più elevati del passato, che venivano assunti
dalle istituzioni finanziarie con la crescita della finanza
strutturata. Tuttavia, in perfetta buona fede ritenevano
probabilmente che valesse la pena di correrli perché in tal modo si
estendeva la possibilità di accesso al credito a chi ne aveva
bisogno, con conseguenze positive sullo sviluppo e sul benessere
collettivo. E inoltre potevano essere soddisfatte le esigenze di
assicurazione contro l'incertezza sui tassi di interesse e sulle
valute dei partecipanti a un commercio internazionale in crescita.
Ma c'è un secondo motivo più
astratto e forse più importante. Sin da Adam Smith, l'economia ha
guardato con sospetto all'interferenza delle relazioni sociali e
politiche, viste solo come fonte di collusione o di distorsione.
Da questo punto di vista i
nuovi strumenti finanziari sono apparsi come un modo di
spersonalizzare la valutazione del rischio di credito, liberandosi
dalla valutazione diretta degli agenti come persone, e quindi dalla
componente fiduciaria non meramente calcolabile probabilisticamente,
nella convinzione che i mercati mossi dall'incentivo dell'interesse
potessero calcolare meglio e con più precisione i rischi.
Specie, come ha più volte
notato Alan Greenspan, quanto meno fossero intralciati da
regolazioni che rischiavano di essere poco efficienti.
Si è poi visto che non è
così, con le conseguenze che ne sono derivate.
Nel frattempo, però, le
transazioni finanziarie erano aumentate molto più del commercio
internazionale e del Pil, segno che la finanza aveva creato
occasioni di profitto che drenavano capitali alla ricerca di alte
remunerazioni a breve. Insomma, il tentativo che attrae fatalmente
gli economisti di spersonalizzare e depoliticizzare le transazioni
economiche ha mostrato dei chiari effetti perversi su cui
occorrerebbe riflettere.
Tanto più che questi effetti
si aggiungono ad altri - non meno perversi - legati all'influenza
della finanza sulla governance delle imprese. Anche in questo caso,
l'idea della creazione di "valore per l'azionista" si giustifica -
in astratto - col fatto che il mercato può valutare meglio di
strumenti personalizzati (soggetti a distorsioni sociali) la
performance dei manager. La proprietà delle imprese deve
essere quindi pienamente contendibile sui mercati azionari, in modo
che i manager sentano il fiato sul collo degli azionisti e si
sforzino di creare valore a breve, anche con bonus e stock option
legate alla performance dell'impresa. Diversamente, l'impresa
perderà valore, e loro il posto.
Il risultato è che i manager
orientano la gestione a breve, trascurano l'innovazione a più lungo
termine, investono di più in acquisizioni e attività finanziarie,
non considerano i lavoratori e la loro qualificazione un asset
centrale delle imprese, si fanno meno problemi a licenziare e
incrementano le disuguaglianze sociali. L'impresa infatti
deve essere una "rete di contratti" e non una "comunità di interessi
diversi". Eppure, questo è apparso - ed è stato presentato - come un
modello più evoluto del vituperato e appesantito capitalismo
renano-nipponico, o dei sistemi locali di piccola impresa italiani,
troppo condizionati dalle famiglie e dalle comunità locali. I
risultati dell'industria manifatturiera americana, che vediamo anche
in questi giorni, non sembrano però confermare la sbandierata
efficienza del capitalismo anglosassone.
Insomma, forse gli economisti dovrebbero appassionarsi meno al
problema della loro capacità di previsione della crisi e dovrebbero
invece riflettere di più su come l'attaccamento a un paradigma
astratto - che vede l'economia tanto più efficiente quanto più si
spersonalizza e si separa dalla società - rischia di produrre
effetti contrastanti: un'economia subordinata alla finanza in cui
crescono le disuguaglianze invece del benessere collettivo.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Usa verso l'Apocalisse?
Assolutamente no
03 Giugno 2009 20:03 NEW YORK - di
Martin Wolf
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Gli Stati
Uniti, così come vari altri paesi ad alto reddito, si avviano verso
l'apocalisse finanziaria? Gli aumenti recenti dei tassi dei
loro titoli di stato (è successo anche in Italia all'ultima asta dei
BoT) dimostrano che gli investitori temono un disastro fiscale? La
mia risposta alle due domande è no, e ancora no.
I motivi di preoccupazione
ci sono, ma in questo momento ci sono anche potenti argomenti contro
gli irrigidimenti fiscali e ottime ragioni per accogliere con
soddisfazione gli ultimi movimenti dei mercati obbligazionari.
La settimana scorsa John Taylor, dell'università di Stanford, e lo
storico di Harvard Niall Ferguson hanno scritto che la politica
fiscale americana era insostenibile. Ferguson riferiva di un
dibattito a fine aprile con, tra gli altri, Paul Krugman, premio
Nobel ed editorialista del New York Times.
Su un punto tutti gli
analisti seri concordano: dev'esserci un limite all'aumento del
debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo. Per imbarcarsi
in uno stimolo fiscale a breve termine, bisogna essere credibili a
lungo termine. Qual è
il punto di disaccordo, allora? Il professor Ferguson faceva tre
considerazioni: la prima è che il recente aumento dei tassi delle
obbligazioni americane segnala lo "sbigottimento" del mercato
davanti alle gigantesche emissioni del governo; la seconda, che
enormi deficit fiscali sono sia inutili che controproducenti; la
terza è il rischio di inflazione.
Molti la pensano allo stesso
modo, hanno ragione? Il primo punto è ovviamente sbagliato: dopo un
panico, la risalita dei tassi è una normalizzazione auspicabile.
Gli investitori si erano precipitati sul dollaro e sui titoli di
stato, ora non più. Benvenuti nel mondo vertiginoso dei mercati
finanziari. A fine dicembre 2008, il rendimento dei buoni del Tesoro
americano a dieci anni era sceso a un livello spaventoso: al 2,1%
rispetto al 4% circa di ottobre. In parte per quella caduta, in
parte per un rialzo sorprendente dei titoli indicizzati
sull'inflazione (Tips), le aspettative implicite di inflazione erano
scese molto vicino allo zero, e la paura della deflazione era
diventata fin troppo tangibile.
Abbiamo assistito a un
improvviso ritorno alla normalità: dopo un po' di scompiglio,
la settimana scorsa il rendimento dei bond americani convenzionali
si è attestato al 3,5% mentre quello dei Tips scendeva all'1,9%.
L'inflazione prevista si allineava sull'obiettivo della Federal
Reserve che è attorno all'1,6%. È accaduta una cosa simile in Gran
Bretagna, con un aumento dell'inflazione prevista dall'1,3% in marzo
al 2,3% oggi.
La paura di una deflazione catastrofica non c'è più. Evviva! È vero
che la differenza tra i titoli americani convenzionali e quelli
emessi dagli altri maggiori paesi si è ridotta, ma durante la fase
di panico i rendimenti di quelli americani erano straordinariamente
depressi.
Torna la normalità. Se il
rischio di inflazione non deve preoccupare, per ora, che dire della
gigantesca emissione di titoli pubblici: toglierà spazio a quelle
dei privati? Se fosse così, assisteremmo a un aumento dei tassi
d'interesse reali. Di nuovo, la maggior parte dei dati va in senso
opposto. L'ultimo rendimento dei Tips è inferiore al 2%,
mentre quello dei titoli britannici indicizzati è prossimo all'1%.
Nel frattempo, mentre cresceva la fiducia, si è ridotta la
differenza tra le obbligazioni societarie e i vari buoni del Tesoro.
Si possono anche usare le aspettative di inflazione espresse nei
confronti dei titoli governativi per valutare i tassi d'interesse
reali di quelli societari, che hanno subito anch'essi una brusca
caduta. Quelli più rischiosi rendono più di due anni fa, ma molto
meno che alla fine del 2008. Anche questa è un'ottima notizia.
E veniamo ora alle misure
fiscali. I loro oppositori dicono che sono sempre inutili e
inefficaci, o come suggerisce il professor Ferguson,
ridondanti perché non siamo in una Grande Depressione. I monetaristi
sostengono che una politica fiscale è sempre inutile. I seguaci di
una "equivalenza ricardiana", mutuata da David Ricardo, economista
dell'Ottocento - sostengono che essa sia inefficace perché le
famiglie compenseranno qualunque maggior disavanzo governativo
risparmiando di più. Su questi punti, gli economisti dissentono
ferocemente. Io sono un "keynesiano": in momenti estremi, l'eccesso
dei risparmi desiderati rispetto agli investimenti cresce.
Di nuovo, la politica
monetaria, sebbene importante, diventa meno efficace quando i tassi
d'interesse scendono a zero. In quel momento conviene allacciare sia
la cintura monetaria che le bretelle fiscali: una profonda
recessione dimostra che c'è un enorme aumento dell'eccesso di
risparmi desiderati in presenza di piena occupazione, come
sostiene il professor Krugman. Pertanto oggi i deficit fiscali non
tagliano fuori il settore privato. Al contrario lo coinvolgono,
favorendo la domanda che a sua volta favorisce i posti di lavoro e i
profitti.
Il professor Ferguson dice che l'espansione fiscale era inutile
perché siamo soltanto in una lieve recessione. La questione tuttavia
è come mai, mentre i prodromi di una depressione c'erano tutti, la
recessione è invece lieve. La risposta, in parte, sta nelle
aggressive misure monetarie prese dalle banche centrali e nel
salvataggio del sistema finanziario. Ma è tutto qui? Che cosa
sarebbe successo se i governi avessero deciso di tagliare la spesa e
aumentare le tasse?
Si può discutere di quanto allentamento fiscale sia necessario. Ma
uno dei motivi principali per cui questa non è la Grande Depressione
è che abbiamo imparato una lezione da quell'esperienza e da quella
del Giappone degli anni Novanta: la politica di bilancio espansiva
non va frenata troppo presto. Inoltre, le economie con alle spalle
una storia di gestione avveduta sono certamente in grado di
tollerare, senza risentirne, un maggior livello di indebitamento
pubblico senza risentirne.
E questo ci porta all'ultimo punto:
la paura dell'inflazione.
La questione, in sostanza, è
come uscire dagli attuali provvedimenti estremi. La gente deve
credere che le politiche monetarie e fiscali straordinariamente
aggressive di oggi verranno ribaltate.
Se non ci crede, le
aspettative di inflazione potrebbero diventare travolgenti molto
prima che l'economia si sia ripresa. Se dovesse succedere, i
responsabili della politica economica saranno in difficoltà e il
mondo potrebbe sprofondare in una stagflazione simile a quella degli
anni Settanta.
I provvedimenti eccezionali
presi per affrontare circostanze estreme stanno funzionando. Ora ne
consegue che chi li ha decisi sta in equilibrio sul filo del rasoio:
da un lato, se li ribalta troppo presto, rischia il ritorno a una
profonda recessione; dall'altro ci sono le aspettative di inflazione
e di stagflazione. È da irresponsabili insistere per
provvedimenti immediati sia di disciplina fiscale sia di
allentamento persistente verso il quale sembrano andare gli Stati
Uniti e la Gran Bretagna. Ma i critici rischiano di cadere
nell'errore uguale e contrario. La risposta è insieme chiara e
delicata: servirà una decisa politica di bilancio restrittiva, ma
non adesso.
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Traduzione
- Sylvie Coyaud
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La
crisi passerà ma attenti alle
scorciatoie
05 Giugno 2009 19:48 NEW YORK - di
Harold James*
*L'autore è
professore di storia e affari internazionali alla
Princeton
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Ogni volta che
si parla di crisi economica, le analogie con la Grande Depressione
sono sempre in agguato. Nel suo ultimo World economic outlook, l'Fmi
esamina questa analogia in modo esplicito, in termini non soltanto
di tracollo della fiducia finanziaria, ma anche di rapido declino
degli scambi globali e dell'attività industriale. In
generale, la storia sembra più utile della teoria economica per
interpretare eventi straordinariamente sorprendenti e di per sé
imprevedibili.
Quasi immancabilmente, ogni volta che si ricorre all'analogia con la
Grande Depressione, come anno di riferimento si prende il 1929. Ma
nella Grande Depressione si manifestarono due patologie
diversissime, e ognuna delle due implicava diagnosi - e cure -
diverse.
La prima e più famosa di
queste due patologie fu il crack azionario dell'ottobre 1929 negli
Stati Uniti. Nessun altro paese conobbe un panico borsistico di
simili proporzioni, in buona parte perché nessun paese aveva vissuto
quell'euforica corsa al rialzo dei prezzi delle azioni che aveva
indotto tantissimi americani, delle estrazioni più varie, a
lanciarsi nella speculazione finanziaria.
La seconda patologia fu
l'evento decisivo che trasformò una brutta recessione nella Grande
Depressione. Una serie di crisi di panico del settore bancario
nell'estate del 1931 si propagò dall'Europa Centrale, diffondendo il
contagio finanziario prima alla Gran Bretagna, poi agli Stati Uniti
e alla Francia, e infine a tutto il mondo.
Il panico del 1929 ha sempre
avuto un ruolo preponderante nell'analisi della Grande Depressione
per due ragioni abbastanza peculiari.
Innanzitutto, nessuno è mai
stato in grado di fornire una spiegazione soddisfacente del crollo
della Borsa nell'ottobre del 1929, nel senso di una causa
razionale, con gli operatori di mercato che reagiscono a una notizia
specifica. Quel crack
borsistico dunque rappresenta un dilemma intellettuale e gli
economisti possono sperare di farsi una reputazione cercando di
trovare una spiegazione innovativa a quegli eventi.
Certi sono arrivati alla
conclusione che i mercati, semplicemente, sono irrazionali.
Altri si sforzano di realizzare complicati modelli, secondo cui gli
investitori forse erano riusciti a prevedere la Depressione, oppure
avevano valutato l'eventualità di misure protezionistiche in altri
paesi in risposta alla legge americana sui dazi doganali, anche se
quella legge non era ancora stata approvata.
La seconda ragione della
popolarità del 1929 tra studiosi e commentatori politici è che
fornisce un motivo chiaro per intraprendere misure specifiche.
I keynesiani sono riusciti a
dimostrare che le misure di stimolo sono in grado di stabilizzare le
aspettative del mercato, garantendo in questo modo un quadro di
fiducia generale. I monetaristi raccontano una storia diversa
ma parallela, e cioè che una crescita monetaria stabile previene
perturbazioni drammatiche.
Il crack del 1929 non ebbe
nessuna causa evidente, ma due soluzioni molto plausibili. Il
disastro bancario europeo del 1931 fu esattamente il contrario.
Nessun economista può sperare di costruire la sua carriera
accademica trovando una spiegazione innovativa delle sue cause: il
tracollo fu il risultato della debolezza finanziaria di paesi
vittime, a causa di politiche sbagliate, di un'iperinflazione che
aveva messo in ginocchio i bilanci delle banche. La vulnerabilità
intrinseca accresceva il rischio di traumi politici, e le diatribe
su un'unione doganale dell'Europa Centrale e sulle riparazioni di
guerra bastarono a far crollare il castello di carte.
Ma riparare i danni non era semplice. A differenza del 1929, non
esistevano (e non esistono oggi) risposte macroeconomiche evidenti
ai problemi finanziari.
Alcuni macroeconomisti
famosi, tra cui Larry Summers, che attualmente è il capo dei
cervelli economici a disposizione dell'amministrazione Obama, hanno
cercato di sminuire il ruolo dell'instabilità del settore
finanziario come causa delle depressioni. Le risposte, se
esistono, risiedono in un lento e sofferto repulisti dei bilanci e
nella ristrutturazione microeconomica, che non può semplicemente
essere imposta dall'alto per mano di un pianificatore onnisciente,
ma esige un cambiamento di mentalità e di comportamento da parte di
molte imprese e individui. Migliorare il sistema di regolamentazione
e supervisione è una buona idea, ma serve più a evitare crisi future
che a gestire le conseguenze di una catastrofe già avvenuta.
La conseguenza della lunga
discussione accademica e popolare sulla crisi del 1929 è che la
gente col tempo si è convinta che risposte facili esistono. Ma il
crollo della Lehman Brothers nel settembre del 2008 è stato un
evento simile al 1931, un evento che ricorda da vicino il mondo
della Grande Depressione.
I fallimenti delle banche
austriache e tedesche non avrebbero trascinato il mondo intero dalla
recessione alla depressione se quei Paesi non fossero stati altro
che economie isolate o autosufficienti. Ma nella seconda metà degli
anni 20 quei Paesi avevano costruito le loro economie su denaro
preso in prestito (prevalentemente dall'America).
Quella dipendenza presenta
diverse analogie con ciò che si è verificato negli Stati Uniti in
questo decennio, con l'afflusso di denaro dalle economie emergenti,
soprattutto asiatiche: un apparente miracolo economico che si basava
in realtà sulla disponibilità dei cinesi a prestare soldi
all'America. I fallimenti bancari del 1931, e del settembre 2008,
hanno scosso la fiducia del creditore internazionale: allora gli
Stati Uniti, oggi la Cina.
Entrambe le lezioni - quella
sulla lentezza e la difficoltà della ricostruzione del settore
bancario e quella sulla dipendenza da un grande fornitore esterno di
capitali - sono sgradevoli. Per lungo tempo è stato molto più
facile ripetere il mantra rassicurante di una comunità mondiale che
aveva imparato, nel suo insieme, come evitare un tracollo in stile
1929, e che le Banche centrali di tutto il mondo lo avevano
chiaramente dimostrato in occasione di crisi come quella del 1987 o
quella del 2001.
I governi indubbiamente meritano elogi per aver stabilizzato le
aspettative, e dunque per aver impedito che la crisi si aggravasse.
Ma quando i governanti spacciano proposte politiche semplici, se non
proprio semplicistiche, come fondamento della speranza di poter
evitare un lungo periodo di difficili aggiustamenti economici,
questo è fuorviante.
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Fonte
estera
- Project Syndicate
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Traduzione
- Fabio Galimberti
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Obama in Medio Oriente
tende la mano ai musulmani
03 Giugno 2009 09:20 MILANO
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di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Barack Obama in Medio Oriente e
in Europa. Il presidente degli Stati Uniti è appena arrivato in
Arabia Saudita dove è stato accolto dal Re Abdullah Bin Abdul
Azizha. Dopo l'Arabia Saudita, Obama si recherà, in Egitto e si
sposterà quindi in Europa, dove visiterà il campo di
concentramento nazista di Buchenwald, in Germania, prima di
concludere il suo viaggio in Francia partecipando al 65.mo
anniversario dello sbarco alleato in Normandia. Ma il punto
centrale del suo viaggio sarà la visita in Egitto e il discorso
che giovedì pronuncerà all'Università del Cairo. Un discorso
annunciato per cercare di migliorare i rapporti con il mondo
musulmano e per chiedere il rispetto dei principi democratici ai
Paesi arabi. La missione di Obama sarà anche un'occasione per
ribadire a Israele la posizione della Casa Bianca sui nuovi
insediamenti dei coloni e sulla creazione dello Stato
palestinese.
Gli Stati Uniti sono «uno dei più grandi paesi musulmani del
pianeta» ha sottolineato ieri sulla rete televisiva francese
Canal+ il presidente Usa che domani, giovedì, al Cairo
pronuncerà un importante discorso di riconciliazione con il
mondo musulmano.
«Gli Stati Uniti e il mondo occidentale devono imparare a
conoscere meglio l'Islam; d'altro canto, se si conta il numero
di americani musulmani, si vede che gli Stati Uniti sono uno dei
più grandi paesi musulmani del pianeta» ha detto Obama. «Quel
che cerco di fare, è di creare un miglior dialogo perché il
mondo musulmano possa meglio comprendere come gli Stati Uniti,
ma più generalmente il mondo occidentale, concepiscono alcuni
difficili problemi, quali il terrorismo o la democrazia» ha
aggiunto
A Israele Obama, prima di partire, si è fatto precedere da un
messaggio «da amico onesto»: la piega che ha preso il tema degli
insediamenti ebraici in Cisgiordania è negativa e richiede un
cambio di rotta. «Essere onesti è parte dell'essere buoni
amici», ha detto Obama, parlando delle relazioni Usa-Israele in
un'intervista alla radio Npr. «Ci sono stati momenti nei quali
non siamo stati onesti come avremmo dovuto - ha aggiunto -
riguardo al fatto che la direzione attuale, la traiettoria nella
regione è profondamente negativa, non solo per gli interessi di
Israele ma anche per quelli degli Stati Uniti. E questo fa parte
del nuovo tipo di dialogo che cercherò di incoraggiare». Obama,
e poi il suo portavoce Robert Gibbs, hanno ribadito che quello
dell'espansione degli insediamenti dei coloni ebraici resta il
nervo scoperto della discussione, assieme all'insistenza sulla
«soluzione dei due stati». Il nuovo governo di Benyamin
Netanyahu è al potere da poco, ha detto il presidente americano,
quindi occorrerà del tempo: «Avremo una serie di conversazioni,
quel che è certo è che strategicamente lo status quo è
insostenibile quando si tratta della sicurezza di Israele. In
assenza di pace con i palestinesi - ha aggiunto Obama - Israele
continuerà a essere minacciato militarmente e avrà enormi
problemi ai propri confini».
Parole accolte con malumore a Tel Aviv, e sulle quali il governo
israeliano cerca di far fare un cambio di rotta
all'amministrazione Obama. Il ministro della Difesa Ehud Barak è
sbarcato a questo scopo a Washington, poco prima della partenza
del presidente per il Medio Oriente, per recarsi alla Casa
Bianca a chiedere al consigliere per la sicurezza nazionale,
James Jones, una maggiore flessibilità sugli insediamenti.
Obama arriva oggi a Riad per incontrare il re saudita Abdullah
II, per poi spostarsi in Egitto per un incontro giovedì con il
presidente Hosni Mubarak - assieme al segretario di Stato
Hillary Clinton - e per il discorso all'Università del Cairo
(che sarà trasmesso in diretta anche da Radio 24 - Il Sole 24
Ore) . La situazione del processo di pace mediorientale sarà
ovviamente al centro dei colloqui, ma l'intervento di Obama
nella capitale egiziana avrà un respiro più ampio. Lo stesso
presidente ne ha anticipato lo scopo in un'intervista alla Bbc,
spiegando di voler proporre un dialogo al mondo musulmano nel
quale le proposte di democrazia e libertà possano venir
abbracciate anche da paesi fondati sulle leggi islamiche.
«Il messaggio che spero di portare - ha detto Obama - è che
democrazia, stato di diritto, libertà d'espressione e libertà
religiosa non sono semplicemente principi dell'occidente da
trasferire in questi paesi. Io credo invece che siano principi
universali che possono abbracciare come parte della loro
identità nazionale».
Obama userà la propria biografia come cuneo, ricordando di avere
familiari musulmani, di essere cresciuto in Indonesia (il più
popoloso paese musulmano del mondo), e di aver giurato da
presidente usando anche il proprio secondo nome, 'Hussein'. La
decisione di chiudere Guantanamo è un'altra arma nelle mani del
presidente, e Obama la utilizzerà nel tentativo di «cambiare la
conversazione dell'America con l'Islam», come ha sintetizzato
Denis McDonough, uno dei consiglieri di Obama per la sicurezza
nazionale.
Lo staff delle comunicazioni alla Casa Bianca si prepara a dare
la massima enfasi al discorso del Cairo, utilizzando anche i
siti 'sociali' del web. «Non sto dicendo che lo trasmetteremo un
pezzo alla volta su Twitter, ma puntiamo a diffondere il
discorso oltre i giornali e le Tv», ha detto il portavoce Gibbs,
ricordando che la Casa Bianca dispone di un proprio blog ed è
presente su Facebook, MySpace, YouTube e Flickr.
Bin Laden accusa:
Obama segue le orme di Bush
03 Giugno 2009 15:00 MILANO
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
«Obama segue la linea di chi lo
ha preceduto nel disprezzo e nello spirito di vendetta che cova
nei confronti dei musulmani». È quanto ha affermato la voce
attribuita al leader di al-Qaeda, Osama Bin Laden, nel corso di
una nuova registrazione audio trasmessa poco fa dalla tv araba 'al-Jazeera'.
Il messaggio del terrorista saudita viene trasmesso proprio in
occasione dell'avvio del tour del capo di stato americano in
Medio Oriente, che lo vede oggi a Riad e domani al Cairo.
«Egli ha seguito i passi del predecessore nell'inimicarsi i
musulmani e nel porre le premesse di lunghe guerre - insiste il
leader di al-Qaeda -. Obama e la sua amministrazione hanno
seminato nuovi semi dell'odio contro l'America». Aggiunge,
puntando l'indice sull'appoggio statunitense al regime
pachistano nella sua battaglia contro le milizie talebane nella
valle dello Swat.
Secondo Bin Laden la politica dell'amministrazione Obama in
Pakistan ha finito col favorire l'applicazione della sharia, la
legge coranica, nel paese. «Obama e la sua amministrazione hanno
spinto (il presidente pachistano Asif Ali) Zardari ad applicare
la sharia con i bombardamenti e le distruzioni che hanno
provocato 2000 morti musulmani nella valle dello Swat». Bin
Laden mette dunque in guardia gli americani dal rischio di un
allargarsi del conflitto bellico a causa delle politiche delle
due diverse amministrazioni Usa: «Gli americani si preparino a
raccogliere le messi di quello che i leader della Casa Bianca
piantano negli anni e nei decenni».
Immediata la replica del governo saudita, che aveva appena
accolto l'arrivo del presidente Usa: «È un atto di disperazione
- ha tagliato corto un alto esponente del regime -. Fanno ancora
i loro proclami dal fondo della caverna in cui sono nascosti».
Si tratta di una vecchia registrazione
La dichiarazione registrata di Osama bin Laden «non è nuova e
non ha nulla a che fare con la visita di Barack Obama in Egitto.
È una vecchia registrazione sulla situazione in Pakistan». Lo ha
affermato l'esperto egiziano di terrorismo Dia Rashwan,
vicepresidente del Centro di Studi Politici e Strategici Al
Ahram. La dichiarazione di Rashwan è stata mandata in onda dalla
tv satellitare al-Jazeera subito dopo la trasmissione dei brani
del capo di Al Qaida, durati in totale circa tre minuti.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Lunedì 08
Giugno
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Mercoledì 10
Giugno
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Domenica 14
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Dollaro,
preparatevi a un formidabile rialzo
08 Giugno 2009 15:41 MILANO - di
Francesco Arcucci
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Sui mercati finanziari si scambia del denaro contro
delle promesse. Due tipi di promesse: nel caso delle azioni si
tratta di denaro contro un flusso di dividendi futuri, senza che sia
previsto un rimborso di capitale. Nel caso delle obbligazioni o dei
debiti in genere si scambia denaro contro interessi periodici e
rimborso del capitale a scadenza.
Anche le condizioni affinché il sistema finanziario possa esistere
sono due: da un lato, che i valori sottostanti quelle promesse siano
attendibili per quanto riguarda le risorse, gli impieghi, i ricavi,
i costi, le rimanenze e quindi i conti economici e i bilanci,
dall’altro, che il sistema sia imparziale cioè non favorisca né i
debitori (con l’inflazione), né i creditori (con la deflazione).
Creditori e debitori a loro volta vanno distinti a seconda che ci si
riferisca all’interno di un Paese oppure ci si riferisca a Paesi
creditori e Paesi debitori. Nel primo caso si parlerà di sistema
monetario interno e nel secondo di sistema monetario internazionale,
quantunque si debba riconoscere che fra i due vi sono numerosi
intrecci.
Nel sistema monetario
nazionale l’ente che sovrintende il fatto che né i debitori né i
creditori siano favoriti è la banca centrale. Poiché essa crea
moneta dal nulla, a costo sostanzialmente zero e senza vincoli di
convertibilità, rimane comunque il sospetto che il sistema favorisca
i debitori con l’inflazione. Per contrastare questo sospetto le
banche centrali tendono ad autolimitare la loro creazione di moneta
con degli obiettivi calcolati sulla quantità di moneta prodotta
(target monetari) o sulla quantità di inflazione generata (target di
inflazione).
Nel sistema monetario
internazionale il delicato rapporto tra Paesi creditori e Paesi
debitori attualmente non è affidato a qualcosa di esterno che
assicuri l’imparzialità fra i Paesi creditori che vogliono
proteggere il valore dei loro crediti sull’estero e quelli debitori
che vogliono ridurlo. Un tempo questo ente esterno esisteva ed era
l’oro nel contesto del gold standard. Poi si è passati, dal 1944 al
1971, al dollaro in quanto convertibile in oro (gold exchange
standard). Dal 1971
il sistema monetario internazionale si è fondato sul dollaro
inconvertibile (dollar standard) emesso dagli Usa e cioè non da
un’ancora esterna e fidata, ma da un Paese debitore e che per sua
natura tende a favorire i debitori rispetto ai Paesi creditori.
E se è vero che sul piano
interno i debitori si favoriscono con l’inflazione, sul piano
internazionale i Paesi debitori si favoriscono riducendo il valore
dei loro debiti e cioè svalutando il tasso di cambio della loro
moneta.
La debolezza del dollaro
contro le monete dei Paesi creditori negli ultimi quarant’anni era
il modo in cui il centro del sistema si finanziava a basso costo
presso la periferia. Ma questo periodo sta volgendo al termine.
Così come era facile
prevedere a partire dagli anni Settanta un indebolimento strutturale
del cambio del dollaro contro marco, yen e franco svizzero che
avrebbe favorito gli interessi dei Paesi debitori, e in particolare
degli Stati Uniti, ora ritengo che la fase di danneggiamento degli
interessi dei Paesi creditori sia finita.
Saranno, quindi, i Paesi
creditori a sperimentare con compiacimento l’aumento del valore dei
loro crediti attraverso un netto ulteriore rialzo del cambio del
dollaro.
Infatti non lo pretendono
più solo la piccola Germania e il modesto Giappone. Ora lo pretende
la Cina, una nazione creditrice che ha intenzione di fissare nuove
regole del sistema monetario internazionale in modo che ad essere
avvantaggiati non siano più, come è avvenuto fino a poco tempo fa, i
Paesi debitori. Se il nuovo ordine monetario internazionale
non sarà più fatto a Bretton Woods come nel 1944 e neanche a
Washington nel 1971, ma sempre di più a Pechino, il dollaro
americano non potrà che apprezzarsi moltissimo.
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Fonte
- La Repubblica
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«Il
sogno di una moneta mondiale»
10 Giugno 2009 08:44 MILANO - di
Padoa-Schioppa
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Regole e moneta. Da ex banchiere centrale Tommaso
Padoa-Schioppa tiene uno sguardo "lungo" su entrambi questi
capisaldi, i fondamenti dell'economia di mercato. "Lungo" giacché -
come sostiene nel libro scritto con Beda Romano La veduta corta - è
proprio la limitatezza dell'orizzonte - dei mercati, dei decisori
politici, dei consumatori, degli azionisti - ad aver portato la
situazione dov'è ora.
Cominciamo dall'euro. Con lo sguardo lungo
dove lo vede?
Se la crisi portasse a un
massiccio spostamento di composizione delle riserve e a un forte
indebolimento del dollaro, l'euro si apprezzerebbe in misura
eccessiva; per l'Europa sarebbe allora un problema, un grande
problema.
Quindi la "lezione per il futuro" è una nuova
moneta unica come chiedono i cinesi?
Non lo chiedono solo i
cinesi. Ne parlano da tempo una delle menti economiche più acute
della nostra epoca come Robert Mundell e un autorevolissimo ex
banchiere centrale americano come Paul Volcker.
Sono convinto che la Cina
abbia sollevato un tema ormai maturo. Se poi lo ha fatto per
interesse - come dice Paul Krugman - cioè perché ha accumulato
troppi dollari, può essere. In ogni caso è una motivazione
legittima, visto che non si può chiedere a Pechino di essere
altruista quando tutti agiscono per interesse.
Il punto, semmai, è
comprendere quale sia la coincidenza tra ragion di stato cinese e
interesse generale globale. In ogni caso, da ex banchiere
centrale penso che quando si parla di standard globali, prima ancora
che a quelli legali si debba guardare a quello monetario, che è un
fatto economico funzionale, seppure vincolato a un substrato legale.
Insomma, credo proprio che
questa crisi ponga il problema di un nuovo standard monetario
internazionale. La sua assenza e l'assenza della disciplina che esso
imporrebbe sono una delle cause profonde della crisi attuale.
Prima c'era l'aggancio della
moneta all'oro...
Se ci fosse
stato ancora quell'aggancio, negli ultimi anni i paesi
che accumulavano ingenti disavanzi esterni - come gli
Stati Uniti - avrebbero dovuto convertirne una parte
proprio in oro; la conseguente scarsità di riserve auree
li avrebbe obbligati a correggere la rotta.
O a denunciare l'accordo, come fecero gli Usa che
sganciarono il dollaro dal metallo giallo.
È vero, nel '71 gli Usa si sottrassero all'impegno.
Per anni
l'"aereo" del dollaro ha continuato a volare spinto
dalla forza politica ed economica degli Stati Uniti. Ma
non penso che, se si guarda al mondo di domani, quando
ci saranno 4-5 o 6 colossi mondiali, questi potranno
accettare che la moneta di uno solo di essi sia la
moneta di tutti.
Anche se il tema
non è ancora iscritto all'ordine del giorno, quando si
parla di standard internazionali penso si debba
riflettere sulla moneta mondiale.
Ma come sarebbe il mondo con una
sola moneta?
Non lo so, è un
progetto su cui è urgente lavorare e pensare a fondo, e
dubito che la soluzione sia una sola moneta. È
diverso immaginare un oggetto che vola e inventare
l'aeroplano. Oggi ne sappiamo abbastanza per dire che
abbiamo bisogno di un oggetto che vola, di una misura
comune che imponga disciplina al sistema monetario
mondiale. Su
scala mondiale non mi pare praticabile una soluzione
tipo euro, fondata sul modello della moneta unica - un "globus"
ad esempio - e della banca centrale unica. Vedo
piuttosto una costruzione a due livelli: uno standard
globale governato in comune e monete regionali con cambi
non più interamente lasciati al mercato.
Chi ha ragione tra Krugman, che
chiede più debito per uscire dalla crisi, e Ferguson,
che mette in guardia dai pericoli dell'eccesso di debito
che mina la stabilità dei governi?
Entrambi e, quando si danno torto l'un l'altro, nessuno
dei due. Il fatto è che i rimedi - monetari e di
bilancio - per combattere l'emergenza e quelli per
impedire il ripetersi della crisi hanno segno opposto:
espansivi gli uni, restrittivi gli altri. Come quando si
somministra metadone a un tossicodipendente in cura.
Al G-8 l'Italia intende
abbozzare i nuovi global legal standard per i mercati
finanziari. Sarà - nelle intenzioni del Governo - un
primo strumento per uscire dalla crisi e per evitarne
altre.
Le determinanti
profonde della crisi sono tre: l'illusione che i mercati
si possano autoregolare; la contraddizione tra mercati
globali e politiche rimaste nazionali; la veduta corta
come criterio per le scelte, pubbliche e private.
I global legal
standard abbracciano i primi due temi e nascono
dall'idea che il mercato abbia bisogno di regole e che
le regole debbano essere internazionali. Ma il problema
non finisce qui, qui incomincia: chi decide le regole? E
che strumenti ha per farle rispettare? Si pone l'ardua
questione di un potere di politica economica superiore.
Oggi quel potere non c'è.
No e sì.
L'intero universo della cooperazione internazionale si è
spostato negli anni verso azioni volontarie e non
vincolanti, soprattutto da quando si è abbandonato il
sistema di Bretton Woods che è un - sia pur debole -
potere sovranazionale. Prima il G-5, poi il G-7 e il G-8
ora il G-20: sigle dietro cui non c'è alcuna realtà
istituzionale, non trattati, non sistemi giuridici.
Parlare in
queste sedi di global legal standard significa fare
menzione di qualcosa che per adesso manca di ogni
infrastruttura giuridico-istituzionale.
In attesa di avere un modello
diverso di governance globale, qual è la sede migliore
dove ridisegnare le regole?
Una forte
convergenza politica in seno al G-20 è un passaggio
necessario ma non sufficiente per arrivare ai nuovi
standard di cui parla il governo italiano. Quel
passaggio deve portare a mutamenti sul piano del diritto
e della distribuzione tra poteri nazionali e potere
internazionale, mutamenti che sono impossibili al di
fuori di una chiara architettura istituzionale e senza
una base posta da trattati internazionali.
A proposito di
nuove regole vorrei però osservare che a mio parere non
è stato un virus sconosciuto a provocare la crisi. Più
spesso è stato un mancato rispetto di regole esistenti,
sicché un'ordinaria profilassi sarebbe bastata a evitare
le vicende più nefaste. Questo, i regolamentatori non lo
ammettono volentieri.
Intanto se ne parlerà al G-8 di
Lecce.
Sarà un primo esame. Sono stato nel G-20 fin dalla sua
riunione costitutiva. Hai davvero la sensazione di
vedere seduto al tavolo tutto il mondo, in una riunione
sufficientemente ristretta per consentire un'efficace
interazione tra i partecipanti. Le altre riunioni, con
200 paesi rappresentati, sono assemblee dove si fanno
solo dichiarazioni e non c'è alcuna interazione tra
partecipanti. E poi, grazie alla sua composizione, il
G-20 tratta anche dei temi del commercio, che sono parte
essenziale della cooperazione internazionale; il G-8 non
lo poteva utilmente fare perché in questa materia gli
interlocutori devono essere soprattutto i paesi
emergenti o quelli a basso reddito. Infine, è positivo
il fatto che al G-20 siedano ora i capi di stato o di
governo, perché solo a quel livello è possibile una
sintesi politica; i ministri delle finanze non hanno
delega sufficiente.
Anche le decisioni del G-20 sono senza infrastruttura
giuridica. Poi contano Fondo monetario, Banca mondiale e
Wto.
Il G-20 dovrebbe
trovare una forma di confluenza nelle istituzioni che
ancora oggi costituiscono i pilastri della cooperazione
internazionale multilaterale: Fmi, Banca mondiale, Wto e
le stesse Nazioni Unite. Sono quanto di meglio ci abbia
lasciato - dagli anni 40 - l'esperienza storica del XX
secolo.
Quando il cancelliere Angela Merkel propone un Consiglio
di sicurezza dell'economia esprime proprio l'esigenza di
far confluire le decisioni politiche del G-20 in
istituzioni dotate di un'infrastruttura giuridica più
solida dell'occasionale concorso di volontà che, in una
sede di cooperazione volontaria, può sempre venire meno.
Com'è noto, gli accordi del G-20 sono reversibili e
vanno raggiunti con il benestare di tutti i
partecipanti.
Torniamo alle regole. Quanto hanno
influito sulla crisi i conflitti d'interessi tra
regolatori e regolati, tra controllori e controllati?
Moltissimo. In
questo caso le regole o non c'erano o erano troppo
blande perché scritte da coloro ai quali si applicavano.
Se i modelli interni su cui è basata la valutazione non
sono rigorosi e l'autorità pubblica che li deve validare
si fida troppo di come sono fatti o non li capisce,
allora c'è un problema. Se a loro volta quei modelli
sono appoggiati sulla valutazione (rating) di agenzie
pagate da coloro stessi che emettono i titoli che esse
devono giudicare, allora c'è un problema. Se le regole
sui compensi dei manager sono fatte dagli stessi manager
o approvate da comitati che non prendono le distanze dai
soggetti di cui determinano i compensi, allora c'è un
problema. Insomma, così tutto il sistema non ha timone.
Ed è qui che entra il tema dello
sguardo corto?
Sì, tutte le anomalie descritte finora sono
riconducibili alla tematica dell'accorciamento degli
orizzonti temporali: le agenzie di rating invece di
guardare avanti guardano al momentaneo umore del
mercato; i compensi sono legati ai risultati ottenuti
nel breve periodo; le politiche economiche sono
agganciate alle scadenze elettorali che obbligano a
tenere l'economia sempre in effervescenza.
Se ci fosse
qualcosa che semplicemente obbligasse, pur usando gli
stessi parametri decisionali, a passare dalla lunghezza
d'onda trimestrale a quella di uno o due lustri, tutto
potrebbe rimanere uguale, ma tutto cambierebbe in
meglio.
Oggi appare impossibile.
Me ne rendo ben
conto. Eppure una presidenza come quella di Barack Obama
è impegnata proprio in questa difficile arte di
persuadere una nazione di quanto sia necessario
allungare i tempi per uscire dalla crisi e per avere
risultati durevoli. I sondaggi per ora lo confortano.
Il voto di domenica sembra dimostrare che in Europa
ritrovano forza i gruppi nazionalistici o addirittura
anti-europei. C'è il rischio di arroccamenti o di nuovi
nazionalismi.
Purtroppo l'arroccamento è già in atto. Se è vero che
l'ipocrisia è l'omaggio che il vizio rende alla virtù,
il fatto che ne vediamo molta in questi giorni nelle
partite che riguardano banche e auto, i due settori
finora più colpiti dalla crisi, ci dà la misura del
vizio sottostante. Più si moltiplicano le dichiarazioni
retoriche sulla cooperazione europea, meno c'è coesione
europea.
Dunque un'Europa più piccola?
Credo che l'Europa sia su un crinale. È tirata da due
forze opposte: quelle che vogliono aumentare la dose di
unione e quelle che puntano alla rinazionalizzazione
delle economie e delle politiche. La partita è aperta,
anche se ora prevalgono le spinte disgregatrici. Sono
convinto che la crisi porterà a un'Europa diversa da
com'è ora, perché essa è troppo forte per lo stato
attuale di semi-integrazione.
E l'Europa politica?
Quello che si
poteva fare per l'unificazione che non fosse politico è
stato fatto: ma fare un'Europa politica avrebbe un
effetto economico formidabile e certo aiuterebbe anche
ad uscire dalla crisi, perché consentirebbe di governare
la politica economica in modo congiunto nuovo e
unitario.
Basterebbe
riconoscere in un bilancio comune ciò che già è europeo
(alcune infrastrutture, parte dell'energia, parte della
difesa). In fin dei conti, il bilancio federale Usa
all'inizio del XX secolo, cento anni dopo la nascita
della Federazione americana, era pari a circa il 5% del
Pil Usa. Bisognerebbe che anche i poteri nazionali
accettassero la logica espressa in questi giorni da John
Elkann, azionista di maggioranza della Fiat: accettare
di diventare più piccoli in una realtà più grande.
L'Europa che immagino è esattamente questo.
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Intervista a cura di
- Alberto Orioli
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Per intenditori: la
mappa del rischio sovrano
Wednesday, 10 June, 2009 at 13:09
- by John
Christian Falkenberg ______________________________________________
Quotazioni dei CDS su nazioni
sovrane : marginalmente meglio di ieri, ma nessuna attività. La
convergenza fra i premi richiesti per proteggersi dal rischio di
fallimento di una nazione sviluppata e quelli per proteggersi
dal fallimento di una singola azienda è sempre in atto.
La ragione risiede nella percezione che i paesi sovrani stiano
tamponando l’emorragia indebitandosi e spendendo, a favore di
banche e grandi aziende. Per fare un esempio, l’assicurazione
contro il fallimento di un’azienda come ENI costa meno che
assicurarsi sulla Repubblica italiana, la Spagna o il
Portogallo. Nazione 5anni 10anni GERMANY 34/35 36/38
USA 40/45 40/45
NETHERLANDS 49/53 49/53
FINLAND 35/40 35/42
SPAIN 93/95 94/97
UK 85/88 85/89
BELGIUM 61/63 62/65
ITALY 104/105 106/108
GREECE 152/156 154/159
DENMARK 47/54 47/57
IRELAND 215/222 206/214
NORWAY 25/30 25/30
ICELAND 650/690 -
SWEDEN 68/70 69/72
AUSTRIA 110/114 110/114
FRANCE 38/40 39/42
PORTUGAL 72/75 73/77
Flop Federali: la
Federal Reserve cornuta e mazziata sui mutui
Thursday, 11 June, 2009 at 20:25
- by John Christian Falkenberg ______________________________________________
Il programma di acquisti di
cartolarizzazioni di mutui e di titoli di Stato a lungo termine
della Fed sembra essere andato incontro ad un flop spettacolare.
Per chi se lo fosse dimenticato, la Fed non ha cercato soltanto
di mantenere alti i livelli di credito e bassi i tassi
d’interesse azzerando i tassi di sconto: ha anche cominciato ad
acquistare direttamente titoli garantiti da mutui, pagando con
moneta stampata di fresco, nella speranza di ridurre i tassi per
i mutui erogati ed attutire l’inevitabile aggiustamento della
bolla speculativa. Ci si era rassegnati a vedere un aumento del
rischio d’inflazione e un possibile indebolimento del dollaro,
come conseguenza del tentativo, ma in pochi nutrivano dubbi sul
risultato della manovra. Che, invece, non ha ottenuto gli
effetti sperati.
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Fed MBS Purchases:
Spectacular Flop |
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Andamento dei tassi MBS. La linea gialla rappresenta l'inizio
del programma di acquisti della Federal Reserve. Fonte : Alea
Blog
Sfortunatamente, il progetto della Fed non sembra avere avuto
troppo successo. I minimi dei tassi – ed i massimi dei prezzi –
degli MBS sono stati toccati appena dopo l’intervento della
banca Centrale . Come si può osservare dal grafico, gli acquisti
fatti sono stati fatti ai massimi di un mercato che era già
salito molto grazie alle fughe di notizie ed alle anticipazioni
sul programma federale, un mercato che ha ricominciato a
peggiorare quasi immediatamente. La Fed ha procurato quindi
sostanziosi utili a trader e banche d’affari con buoni canali di
comunicazione conl’Amministrazione, ma non ha frenato il ritorno
dei tassi ai livelli vicini alle prime fughe di notizie sul
programma i tassi sui mutui e in generali i tassi d’interesse a
lungo termine continuano a salire, nonostante i miliardi pompati
dalla Banca Centrale.
Immobiliare non
residenziale: repetita non iuvant
Friday, 12 June, 2009 at 16:45
- by phastidio ______________________________________________
Dopo la devastazione
sull’immobiliare residenziale causata dai mutui ninja (no income,
no jobs and asset, cioè senza garanzie di alcun tipo), la
prossima “scarpa che cade” è quella del Commercial Real Estate (CRE),
dove le dinamiche sono state sinistramente simili. Come segnala
Bloomberg, gli investitori in obbligazioni in cui sono stati
“impacchettati” 62 miliardi di dollari di debito per uffici,
hotel e centri commerciali si preparano a subire un forte
incremento delle insolvenze nel corso del 2010, a causa di un
aumento dei costi di interesse per i proprietari, che gli
analisti di Bank of America Merrill Lynch stimano potrebbe
raggiungere e superare il 20 per cento.
Ciò si verificherà a causa della grande diffusione, anche
nell’ambito del CRE, dei prestiti interest-only, quelli dove il
debitore paga solo l’interesse (molto spesso ad un tasso-civetta
d’ingresso irrealisticamente basso), mentre il rimborso del
capitale inizia solo dopo alcuni anni, al momento del reset del
tasso. Tra il 2005 ed il 2007 circa 179 miliardi di dollari di
tali prestiti sono stati accesi e successivamente inseriti in
obbligazioni. Un dato appare particolarmente illuminante: circa
l’87 per cento dei mutui cartolarizzati nel 2007 consentivano di
rinviare il rimborso del capitale di parecchi anni o addirittura
fino a scadenza del prestito, contro il 48 per cento del 2004.
In termini di similitudini inquietanti con la Grande
Depressione, è utile ricordare che a quel tempo i mutui avevano
tipicamente durate brevi, ed erano balloon, cioè senza
ammortamento del capitale sino a scadenza. Un po’ come gli
attuali interest only. Non si inventa nulla, a quanto pare.
Fonte
-
Macromonitor
Dove vanno i tassi
Usa
12/06/2009 MILANO
-
di Miaeconomia ______________________________________________
Una cosa sembra essere acquisita
da parte degli investitori, nel contesto attuale di incertezza
del mercato: la prossima mossa della Fed sui tassi di interesse
a breve termine sarà al rialzo.
Ma va anche detto che gli investitori puntano su scommesse che
scadono entro la fine dell'anno, perché nel frattempo la banca
centrale americana potrà agire solo dopo avere avuto conferme da
alcuni dati, come quello sul mercato del lavoro di venerdì
scorso, che ha indicato una emorragia di posti in netto
rallentamento e comunque molto migliore delle previsioni.
Per ora i prezzi dei contratti a termine sui tassi della Fed
indicano, in teoria, un tasso di interesse dello 0,5% a fine
anno e dell'1% nel mese di marzo 2010, a fronte di una forchetta
attuale compresa tra 0% e 0,25%, in pratica una politica da
tassi zero. Inoltre il rendimento del debito degli Stati Uniti a
due anni è risalito dallo 0,95% di giovedì di settimana scorsa
contro l'1,41% di inizio di questa settimana.
Comprensibile anche che le borse siano in crescita e gli spread
sul credito siano in calo, in quanto gli investitori fanno loro
una ipotesi di un'economia in via di stabilizzazione, le borse
sono aumentati e si sono ridotte spread di credito. I prezzi
delle obbligazioni statunitensi a lungo termine emesse del
Tesoro hanno registrato un calo, a causa di un forte afflusso di
offerte e dopo avere troppo bruscamente visto una risalita
durante la crisi. Tutti questi fattori danno un
senso a un possibile aumento dei tassi di escursione, anche se
l'entità di una simile mossa è ancora al centro del dibattito
economico e finanziario. Per quanto riguarda l'inflazione, la
banca centrale statunitense ritiene, giustamente, che ci sono
molteplici fattori che permetteranno di contenere i prezzi a
breve termine, per cui i tassi potranno rimanere ancora a
livelli molto bassi.
A conti fatti sarà improbabile assistere a un aumento dei tassi
di riferimento Usa, senza la certezza che l'economia sia più
forte e la disoccupazione e che la curva invertita della
disoccupazione non abbia invertito la marcia, visto che il suo
tasso dei senza lavoro è attualmente pari al 9,4% e continua a
crescere.
Inoltre, è probabile che la Fed azioni altre leve a favore
dell'economia prima di tornare a una politica monetaria più
convenzionale. Una di queste leve potrebbe essere quella di
porre fine al programma di riacquisto di obbligazioni del Tesoro
e di altri titoli supportati da carta ipotecaria. Quindi, nel
brevissimo termine, a meno che non ci sia una miracolosa ripresa
dell'economia nei prossimi trimestri, la Fed dovrebbe mantenere
un po 'lo status quo. Ma bisogna stare attenti, la ripartenza
dei tassi è sempre dietro l'angolo.
Fonte
- Miaeconomia
|
L'inflazione?
Non è il male peggiore
12 Giugno 2009 08:26 MILANO - di
Carlo De Benedetti*
*L'articolo
pubblicato è il testo dell'intervento che Carlo De
Benedetti terrà oggi a Zurigo alla Camera di commercio
italiana per la Svizzera
________________________________________
«Un po'
d'inflazione controllata in questa fase sarebbe più che utile». Lo
ha detto Jacques Delors qualche settimana fa presentando il suo
ultimo libro Investir dans le social, dove emerge un ruolo nuovo
dello stato in economia, concentrato soprattutto nel
rafforzare quelle che Amartya Sen definirebbe capabilities
dell'individuo, sin dall'infanzia.
Mi ha colpito la sua
insistenza sul tema dell'inflazione come strumento utile ad uscire
dalla crisi e sulla necessità di una relazione più stretta, che
anch'io da tempo sostengo, tra politiche monetarie ed economiche.
Qualche settimana fa il New York Times citava un cantante country
western americano, Merle Hazard, come colui che meglio di chiunque
altro ha evidenziato, in questi mesi, il dilemma che abbiamo
davanti: «Inflation or deflation - canticchia Merle - tell me if you
can: will we become Zimbabwe or will we be Japan?». Esiste davvero
questo Merle. Lo sono andato a scovare su YouTube. Basta mettere il
suo nome su Google. Un personaggio stralunato, con tanto di
cappellone da cowboy, e accompagnato da un certo Bretton Wood. Va
avanti per due minuti e mezzo, rivolgendosi a un certo punto anche a
John Maynard Keynes: «Dimmi John, i dollari nel mio taschino
compreranno di più o di meno il prossimo anno?». Straordinario.
Secondo me dietro quel tipo si nasconde un economista raffinato.
Perché è proprio intorno a quest'ultima domanda che oggi ci
giochiamo l'uscita dalla crisi.
Per alcuni la
crisi ha indubbiamente determinato una riduzione del
reddito disponibile. Sono coloro che hanno subìto in
famiglia licenziamenti o che hanno comunque dovuto
affrontare un taglio della retribuzione. Ma per molti
altri i salari hanno mantenuto una dinamica
assolutamente normale. Anzi, la contrazione in taluni
prezzi ha di fatto aumentato il loro potere d'acquisto.
Perché allora queste persone non comprano come
potrebbero? La risposta è nel gioco cruciale delle
aspettative. Per l'appunto in quel dilemma:
«Dimmi John, i dollari nel mio taschino compreranno di
più o di meno il prossimo anno?». Ebbene,
fino a quando
l'aspettativa sarà che quei dollari compreranno di più,
perché i prezzi caleranno, l'avvitamento della crisi
nella deflazione farà peggiorare la situazione giorno
dopo giorno. Più le persone rinvieranno gli acquisti,
più i prezzi caleranno, più i debiti contratti -
soprattutto nell'acquisto delle case - peseranno sui
potenziali consumatori.
È una realtà che
le autorità monetarie, preoccupate per decenni
soprattutto dell'inflazione, non comprendono in tutta la
reale portata. Certo, soprattutto in America, Regno
Unito, Giappone e Svizzera le banche centrali hanno
abbassato i tassi d'interesse a breve vicino allo zero.
Ma non c'è ancora quel messaggio chiaro ed esplicito che
aiuterebbe a invertire le aspettative: la deflazione -
ecco il messaggio da far passare - è il nostro nemico e
per combatterlo siamo pronti a quello che gli americani
chiamano un reflationary shock.
Ce lo insegnano
le grandi crisi del passato, e le strategie attuate per
il loro superamento. Ci insegnano quanto la deflazione
possa essere dannosa e quanto serva uno shock
inflazionistico per porre fine alle aspettative
deflattive e rilanciare la crescita.
Dal '29 al '33
i prezzi, a causa della deflazione, calarono del 27 per
cento. Poi un contributo decisivo per superare la Grande
Depressione venne dalla decisione dell'amministrazione
Roosevelt di aumentare tra il '33 e il '34 il prezzo
dell'oro fino a 35 dollari per oncia. Questa mossa portò
a una svalutazione della moneta americana e a un aumento
dei prezzi di tutti i generi - in particolare quelli
agricoli - che diede una spinta straordinaria per
rendere i debiti meno onerosi e far riprendere
l'economia. Qualcosa di analogo è avvenuto nel caso
della depressione svedese del '92, quando un
deprezzamento della moneta mise fine a un anno di
pericoloso declino. Al contrario il Giappone, negli anni
90, ha trascinato la sua spirale depressiva anche perché
la Banca nipponica, pur portando i tassi a zero, si è
mossa con tale prudenza e riluttanza da non invertire le
aspettative.
Qualche
settimana fa l'economista americano Allan Meltzer,
dicendosi preoccupato per l'inflazione, notava che
«nessun paese, affrontando enormi disavanzi di bilancio,
la rapida crescita dell'offerta monetaria e la
prospettiva di una costante svalutazione, ha mai
sperimentato la deflazione. Questi fattori -
concludeva - sono messaggeri d'inflazione».
Il Nobel Paul
Krugman gli ha risposto con un semplice grafico sulla
"decade perduta" del Giappone, che appunto evidenziava
la tendenza deflazionistica in quelle condizioni.
Lezioni dalla storia, appunto. Una lezione che dobbiamo
saper ascoltare oggi che abbiamo di nuovo davanti quel
dilemma: "inflazione o deflazione?".
L'errore
compiuto allora dalle autorità monetarie giapponesi, lo
ricordo bene, fu denunciato dai maggiori policy makers
americani di oggi, a cominciare dal presidente della Fed
Ben Bernanke e dal capo del Consiglio economico di Obama,
Lawrence Summers. Eppure questi stessi uomini, oggi, non
sembrano avere la necessaria determinazione nell'evitare
quell'errore, trasmettendo all'economia la scossa
inflazionistica che non è rinviabile.
Quello shock
permetterà di ridurre il peso dei debiti, che le
tendenze deflazionistiche tendono invece ad accentuare
con conseguenze perverse su tutto il sistema
finanziario. E in secondo luogo invertirà il meccanismo
delle aspettative dei consumatori, oggi paralizzati
nelle loro scelte d'acquisto nella ragionevole attesa
d'una ulteriore riduzione dei prezzi.
Capisco che chi, dagli anni 70, si è esercitato nella
lotta all'inflazione, oggi abbia difficoltà a prendere
le giuste misure a questa nuova realtà. E capisco che,
quando si sono conosciuti i disastri dell'inflazione a
due cifre, ci sia una grande prudenza nell'usare leve
inflattive. Ma
davanti allo scenario della deflazione, il rischio
d'attivare un processo inflazionistico che possa
sfuggire di mano è davvero un piccolo rischio che vale
la pena correre.
La Fed e la Bce,
perciò, e non solo loro, devono operare con
determinazione per uscire dall'incertezza di chi si
domanda "deflation or inflation" e assicurare con
chiarezza che il prossimo anno il livello dei prezzi
sarà ben più alto di quello di quest'anno.
Serve una
politica - anche della comunicazione - trasparente,
attiva e sistematica in questa direzione. Va fissato un
target per un livello d'inflazione tra il 2 e il 3% e va
annunciato che non si permetterà che il tasso scenda
sotto quella soglia.
Solo sapendo che i prezzi saliranno nell'ordine del 2-3%
chi oggi è indebitato - soprattutto i proprietari di
casa - potrà avere una ragionevole attesa che il peso di
quell'onere possa in futuro diminuire (o almeno non
aumentare) e nessuno avrà più interesse a rinviare i
consumi, per il semplice fatto che l'aspettativa sarà di
un prezzo più alto e non più basso. Questa è la
priorità. I risparmiatori devono smetterla d'usare -
come è stato detto - i propri soldi solo come uno
sgabello per sedersi.
So bene che
quest'approccio è esattamente quello che temono
economisti come Meltzer. Loro credono che questo zelo
anti-deflattivo renderà poi impossibile tenere sotto
controllo l'inflazione. Ma, come ha osservato l'Economist,
l'indicazione che ci viene dalle crisi del Novecento è
che è più facile tenere sotto controllo l'inflazione che
la deflazione. E comunque la prima fa meno danni
della seconda. Non faremo la fine né del Giappone né
dello Zimbabwe. Non la faremo perché il secolo scorso ci
ha insegnato come fronteggiare la deflazione e perché
quello stesso secolo ci ha insegnato come tenere sotto
controllo l'inflazione. Il passato è la nostra salvezza.
L'importante è saperne ascoltare la lezione.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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La minaccia inflazione?
Una pura invenzione
15 Giugno 2009 04:49 NEW YORK - di
WSI
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Inflazione? Dimenticatevi questa parola. Con i segnali
di recessione che sono ormai alle spalle e i prestiti concessi al
governo che sembrano non avere piu' fine, i falchi dell'inflazione
hanno iniziato a circolare sui cieli dei mercati.
Ma alla fine resteranno solo a guardare, stando al parere degli
analisti piu' scettici riguardo alle ipotesi che dipingono uno
scenario dominato dall'inflazione.
"Penso che le paure legate
all'inflazione siano completamente sproporzionate", sostiene
l'economista David Jones di DMJ Advisors. "L'inflazione restera' su
livelli piu' bassi delle attese ancora per un po' di tempo", dice
Ram Bhagavatula, managing director del fondo hedge Combinatorics
Capital, secondo quanto riportato da sito della Cnbc.
A differenza dei precedenti
periodi di ripresa economica, in questo caso l'inflazione
difficilmente fara' sentire i suoi aguzzi. Passeranno degli anni
prima che torni a rappresentare una minaccia legittima per
l'economia.
Perche'? Ecco la risposta
degli economisti. "Penso che la debolezza della domanda sia il
fattore principale nell'equazione", dice Chris Rupkey, economista
della Banca di Tokyo-Mitsubishi.
Ma Rupkey non e' il solo a
pensarla in questo modo. "La domanda restera' debole perche' i
consumatori preferiscono risparmiare anzi che lasciarsi andare a
spese folli. E' la prima volta in 25 anni che succede", osserva Gary
Schilling, che gestisce la sua propria societa' di consulenza.
Da mesi le spese al consumo, segnalano sempre gli economisti, sono
in calo nonostante il reddito a loro disposizione stia iniziando ad
aumentare, in parte grazie al piano di tagli fiscali varato
dall'amministrazione Obama.
"E' stupido preoccuparsi
dell'inflazione quando siamo ancora alle prese con questioni
critiche, la piu' grave delle quali riguarda la perdita di benessere
delle famiglie", aggiunge Bhagavatula.
Anche i dati demografici
giocheranno un ruolo importante, perche', sottolinea Maria Fiorini
Ramirez della societa' di consulenza MFR, la generazione del Baby
Boom sta iniziando a invecchiare. "Di solito quando le persone vanno
in pensione tendono a spendere meno".
Ma non e' il solo fattore
che continuera' a compromettere le spese al consumo. Per la prima
volta da decenni, infatti, alcune aziende hanno iniziato a tagliare
gli stipendi.
"Gli stipendi rappresentano il 70% dei costi di produzione", afferma
Jones, sottolineando che questo limitera', se non ostacolera'
completamente, un incremento dei prezzi a livello di produttori,
anche se le societa' sono spesso tentate dal non curarsi del rincaro
delle materie prime.
Schilling ha inoltre
segnalato un eccesso di scorte. Questo perche' "i produttori si sono
trovati impreparati" quando nell'autunno dello scorso anno
l'economia ha iniziato la sua caduta libera dopo il collasso di
Lehman Brothers.
Fatte tutte queste
considerazioni, Schilling e' tra quegli economisti che ritengono
"molto piu' probabile" che si verifichi una deflazione piuttosto che
un'inflazione.
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Fonte
- WallStreetItalia.com
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USA: ARRIVA LA SUPER
FEDERAL RESERVE
17 Giugno 2009 18:41 NEW YORK
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
L'amministrazione di Washington
ha definito le proposte per le nuove regole dei mercati. La
Banca Centrale americana acquista notevoli poteri. Gli hedge
fund dovranno registrasi presso al Sec, la Consob statunitense.
Barack Obama lancia la sua riforma dei mercati finanziari
statunitensi, e non solo. In un documento di 85 pagine,
l'amministrazione di Washington vuole dare un segnale forte per
ridisegnare le regole con l'obiettivo primario di far tornare la
fiducia nella finanza. «Dobbiamo agire immediatamente. I danni
all'economia reale e per le tasche delle famiglie ci spingono a
muoverci con urgenza» si legge nel documento
dell'amministrazione anticipato dal Wall Street Journal. Quel
documento che Obama nel tardo pomeriggio di oggi presenterà ai
mercati.
Gli interventi
Ma quali sono i punti fondamentali di questo New Deal
finanziario? I dettagli non sono ancora noti. Ma le linee guida
si posso cogliere. In primis, Barack Obama vuole che le big bank,
le grandi istituzioni finanziarie siano soggette al controllo di
un unico supervisore. Questo, però, solo per quei soggetti il
cui fallimento potrebbe mettere in crisi il sistema economico.
«Per ciò che riguarda le banche più piccole, le banche locali,
la Fdic (l'agenzia federale di garanzia dei depositi bancari,
ndr) - ha detto Obama - ha fatto un buon lavoro. E abbiamo
fiducia in essa per continuare».
Di più. Verrà dato alla Federal reserve maggiore potere riguardo
ai sistemi di pagamento e di settlement nei mercati finanziari.
Sempre alla Banca centrale americana sarà dato un penetrante
potere di sorveglianza su quasi tutte le "financial company",
comprese le filiali dei gruppi stranieri. Su questo fronte,
peraltro, dovrebbe essere prevista la chiusura dell'Office of
Thrift Supervision, una delle unità del dipartimento del Tesoro,
a cui spetta la vigilanza in materia di risparmio Mentre le
grandi società, sempre finanziarie, che il governo vuole
prendere sotto il suo controllo dovrebbero finire sotto
l'ombrello del ministero del Tesoro e gestite dalla Fidc. Il
tutto, ovviamente, a determinate e precise condizioni che ancora
non sono state rivelate.
Ancora. Gli hedge fund, sulla falsariga delle proposte che
arrivano dall'Europa, dovranno essere sottoposti ad una
registrazione presso la Security Exchange Commission (Sec), la
Consob americana. E sarà richiesto a centinaia di istituzioni
finanziarie di aumentare il capitale a riserva per avere una
maggiore protezione rispetto a perdite inaspettate.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Obama riforma la finanza
Più poteri alla Federal reserve e regole rigide sui derivati
17 Giugno 2009 20:16 MILANO
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Il presidente degli Stati Uniti,
Barack Obama, ha varato il suo piano per la riforma della
finanza. Una riforma che sarà, a suo dire, la più imponente mai
realizzata dal periodo della Grande Depressione e che ha come
obiettivo quello di modernizzare e proteggere l'integrità del
sistema finanziario nord americano per evitare nuove crisi
finanziarie. Il tutto con la premessa, ha spiegato Obama, che
«il libero mercato è la forza generatrice della prosperità»,
tuttavia questo «non deve essere un alibi per ignorare le
conseguenze delle nostre azioni».
Una visione, ha aggiunto Obama a mo' di richiamo, «che deve
essere chiara da Wall Street fino a Main Street», cioè dalla
sede della Borsa statunitense fino al Governo, naturalmente
passando attraverso l'economia reale e i semplici cittadini. In
questa ottica, il presidente Usa ha proposto che la Federal
Reserve «garantisca questo processo attraverso un potenziamento
della sua autorità e delle sue responsabilità», in modo da
regolare gli enti finanziari del paese e le grandi imprese.
«Così da evitare ulteriori rischi in caso di crac
dell'economia».
L'obiettivo principale della riforma presentata da Obama è
aumentare il livello di supervisione sulle grandi istituzioni
finanziarie. Non è prevista l'unificazione della Sec, l'autorità
di controllo sulla borsa Usa, con il Cftc, la Commodity Futures
Trading Commission, a causa dei problemi politici che
sorgerebbero. Le proposte della Casa Bianca, allo studio da sei
mesi, prevedono l'inserimento tra le competenze della Fed della
vigilanza sulle grandi banche e le istituzioni finanziarie per i
pericoli derivanti dall'eccessiva assunzione di rischio. Su
questo punto, la Fed sarà affiancata da un nuovo Consiglio per
la vigilanza finanziaria, con rappresentanti da tutte le
autorità del settore e presieduto da un rappresentante del
Tesoro. Sono queste le stesse linee sulle quali si stanno
muovendo l'Unione Europea e la Bce, con tempi, per alcuni
aspetti, anche già più avanzati rispetto agli Stati Uniti.
Nuovi poteri alla Federal Reserve
In futuro, la Fed avrà maggiori poteri di vigilanza sui sistemi
di regolamento e di pagamento, e potrà monitorare tutte le
istituzioni finanziarie attive negli Usa, comprese le filiali di
gruppi esteri nonché le società commerciali che svolgono
attività bancarie. Il piano Obama, una novantina di pagine in
tutto, prevede «standard più rigorosi e prudenti» a livello di
requisiti patrimoniali, liquidità e gestione dei rischi per
tutte le entità sottoposte alla nuova vigilanza.
I poteri della Fed si estenderanno anche su quei comparti finora
scoperti, come i derivati Cds (Credit Default Swaps) e altri
tipi di titoli di finanza strutturata che sono stati alla base
della crisi finanziaria globale. Saranno, inoltre, inasprite le
regole per la vendita di questo tipo di prodotti al grande
pubblico. Gli advisor degli hedge fund attivi a Wall Street, ma
non gli hedge fund stessi, avranno l'obbligo di registrazione
presso la Sec come consulenti all'investimento. Previsto anche
lo smantellamento dell'Office of Thrift Supervision, un'unità
del Dipartimento del Tesoro con compiti di vigilanza bancaria.
In passato, le autorità di controllo chiamate a vigilare sul
sistema finanziario degli Stati Uniti «avevano guardato ai
singoli alberi e non all'intera foresta. Nessuno, (inoltre), era
responsabile della tutela dell'intero sistema», ha spiegato
Obama. Ora, «le autorità di controllo guarderanno alla stabilità
del sistema finanziario come a un tutto» e il governo «chiederà
alle istituzioni finanziarie di presentare maggiori standard di
capitale e di liquidità». Nell'intento di snellire l'intera rete
dei controlli, inoltre, «smantelleremo l'Office of Thrift
Supervision», ovvero l'agenzia che controlla l'attività delle
casse di risparmio e delle associazioni dei prestiti.
Protezione ai consumatori
Non è tutto. Obama ha riferito anche di voler creare una Agenzia
per la protezione finanziaria dei consumatori per permettere
loro di avere sempre «informazioni semplici, trasparenti e
precise» sui prodotti finanziari. Insomma, ha concluso il
presidente, basta con questi «ridicoli contratti composti da una
infinità di pagine scritte piccolissime e che nessuno comprende
e che hanno portanto alla rovina tantissimi cittadini americani.
Vogliamo «un mercato in cui siano presenti l'innovazione e la
responsabilità, e in cui manchino invece le azioni sconsiderate
e l'avidità». La riforma di Obama che ridisegna l'architettura
del sistema di controllo sul settore finanziario ora andrà
all'esame del Congresso. (Riccardo Barlaam)
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Obama premia i responsabili
della Caporetto finanziaria
17 Giugno 2009 09:05 MILANO
-
di Luigi Zingales ______________________________________________
Obama premia i responsabili della
Caporetto finanziaria
Dopo la sconfitta di Caporetto il generale Badoglio, principale
responsabile dello sfondamento delle nostre linee, fu promosso
vicecapo di stato maggiore dell'esercito italiano. Il nuovo
piano di Obama per «ricostruire la regolamentazione e
supervisione del settore finanziario» sembra seguire lo stesso
principio: premiare i maggiori responsabili della crisi con
maggiori poteri e favorire le banche a spese degli hedge fund,
come se la crisi fosse nata da questi ultimi e non dal settore
bancario.
Alla Federal Reserve, che non ha certo dato buona prova come
supervisore, viene assegnato il compito di vigilare su tutte le
imprese finanziarie che comportino rischi sistemici. Non solo
banche commerciali, quindi, ma anche assicurazioni, hedge fund,
ecc. L'estensione di questa autorità a istituzioni finanziarie
non bancarie e la sua centralizzazione sotto uno stesso tetto
sono decisioni giuste e ampiamente scontate.
Che questo ente debba essere la Fed è meno ovvio. Da un lato,
sarebbe stato logico creare un nuovo ente che radunasse sia la
capacità di supervisione che i nuovi poteri di intervento
(adesso affidati alla Fdic). Dall'altro, sarebbe stato
preferibile dividere tra due diverse organizzazioni la gestione
della politica monetaria (in cui si guarda alla liquidità del
sistema) e quella di protezione della stabilità sistemica (con
l'autorità di effettuare salvataggi con pesanti ripercussioni
fiscali). Mescolare le due funzioni rischia di compromettere
l'obiettivo primario della politica monetaria: la stabilità dei
prezzi.
Ha vinto invece la lobby bancaria che voleva a tutti i costi che
questa autorità fosse affidata alla Fed, sia per evitare di
avere due diversi regolatori sia perché sa di potersi fidare
della Fed in quanto completamente catturata dal settore
bancario. A farne le spese saranno le assicurazioni e gli hedge
fund, che si troveranno a essere regolati da un'entità amica
delle banche e a loro ostile.
Gli hedge fund sono minacciati anche dall'introduzione di una
forma di liquidazione coatta delle imprese sistemiche in crisi,
sul modello dell'autorità che oggi ha la Fdic nei confronti
delle banche commerciali. Secondo molti fu la mancanza di tale
autorità a forzare il Tesoro americano a salvare Aig, Citigroup
e Bank of America per paura delle conseguenze che un loro
fallimento avrebbe comportato. Introdurre un meccanismo di
liquidazione controllata è necessario. Ma la proposta attuale è
troppo generica. Non specifica nell'interesse di chi tale
liquidazione deve avvenire. Nel caso di una banca l'obiettivo
primario è la salvaguardia dei depositi. Ma quale sarà
l'obiettivo primario nel caso di un hedge fund? Con quale
sequenza verranno allocate le perdite? Non è chiaro neppure
quando questa autorità potrà essere invocata. Nel caso delle
banche l'ente regolatore deve dichiarare che i depositi sono a
rischio. Ma nel caso di un hedge fund, cosa farà scattare questa
liquidazione? E quali sono le protezioni contro un uso politico
di questo meccanismo?
Obama non ha neppure il coraggio di consolidare tutti i
supervisori. Non si era forse detto che una delle cause della
crisi era la frammentazione delle autorità di regolamentazione?
Nonostante alcuni passi avanti in questa direzione, il nuovo
piano non elimina questa frammentazione. Anzi crea un'altra
agenzia con il compito di proteggere i consumatori.
L'unico ente che sembra pagare giustamente per le sue colpe è
l'Office of Thrift Supervision. Era il principale supervisore
delle imprese peggiori: Aig, Countrywide, IndyMac, Washington
Mutual. Ma è troppo presto per celebrare vittoria. Questo ente
fu abolito già da Bush padre, ma risuscitò sotto altro nome il
giorno dopo essere stato ufficialmente chiuso.
La novità più interessante, in un piano per lo più scontato, è
la creazione di un consiglio di supervisione dei servizi
finanziari composto da tutti i principali regolatori e dotato di
uno staff permanente. Una delle tristi sorprese di questa crisi
è stata la carenza di capitale umano nel ministero dell'Economia
più potente del mondo. La maggior parte dello staff è di nomina
politica e alla fine dell'amministrazione Bush i migliori se ne
erano già andati e all'inizio dell'amministrazione Obama ci sono
voluto molti mesi per completare l'organigramma del Tesoro e
metterlo in grado di funzionare. Ma anche in questo caso si
finisce per premiare chi non ha dato buona prova. Visto che gli
economisti sono stati così bravi a prevedere la crisi, il piano
di Obama vede bene di... assumerne tanti altri.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Economie
drogate. E il G8 inietta altra
liquidità
17 Giugno 2009 14:13 LUGANO - di
Alfonso Tuor
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«Il peggio è
passato, ma l’economia mondiale non ha ancora raggiunto il punto in
cui si possa dire di avere una ripresa in corso». Questo è il
messaggio principale del vertice del G8 tenutosi a Lecce. Gli
otto Grandi riconoscono in sostanza che la situazione rimane molto
incerta e che i segnali di stabilizzazione non possono essere ancora
letti come l’avvio di un rilancio dell’attività economica.
Per questo motivo non
verranno cambiate le politiche di stimolo monetarie e fiscali
adottate dai diversi Paesi, poiché, come ha dichiarato il direttore
del Fondo monetario internazionale, «prima si deve uscire dalla
crisi». La soddisfazione per essere riusciti a ridurne la
pericolosità è stata mitigata dalle divergenze tra i Grandi sui
problemi che si stagliano
all’orizzonte.
Essi sono essenzialmente
due: i modi e i tempi di correzione delle misure eccezionali di
politica monetaria e fiscale adottate per affrontare l’emergenza e
le nuove regolamentazioni del sistema finanziario per evitare
il ripetersi dei comportamenti che hanno prodotto la crisi attuale.
Non si tratta di questioni
di poco conto. Infatti oggi l’economia mondiale appare simile a
quella di un paziente in camera di rianimazione, che non ha
dato ancora alcun segnale chiaro di poter fare a meno delle cure
speciali. Nel frattempo queste cure eccezionali hanno però
cominciato a produrre effetti negativi.
Infatti, il forte aumento
dei disavanzi pubblici ha fatto risalire i tassi di interesse e
l’enorme quantità di nuova moneta stampata, soprattutto dalla Banca
centrale americana, non sta solo facendo crescere le aspettative di
un ritorno dell’inflazione, ma sta anche producendo effetti perversi
come il ritorno di quel genere di speculazione finanziaria che è
stato all’origine dell’attuale crisi.
Infatti la liquidità
iniettata nel sistema, come ha denunciato a Lecce il ministro
italiano Giulio Tremonti, «invece di andare a finanziare l’economia
reale, ha fatto tornare la speculazione finanziaria». La
denuncia di Giulio Tremonti è condivisibile: sui mercati finanziari
si stanno producendo fenomeni, come il forte rialzo delle materie
prime e il ritorno in auge di forme di finanziamento caratteristiche
del periodo della bolla del credito, che fanno ritenere che i
segnali di miglioramento economico siano solo il frutto delle enormi
quantità di liquidità iniettata nel sistema finanziario e non di un
reale miglioramento della situazione.
E un’economia drogata non
può vivere senza droga.
D’altro canto, vi sono
limiti anche alla concessione di nuova droga che vengono dagli
avvertimenti sempre più pressanti rivolti agli Stati Uniti da molti
Paesi. I primi ad
essersi preoccupati per la politica di Washington sono stati i
cinesi che temono di dover subire perdite negli enormi investimenti
in titoli statali americani attraverso cui finanziano il debito
estero degli Stati Uniti.
Timori analoghi sono stati
espressi anche dalla Germania. Il cancelliere tedesco, Angela Merkel,
ha infatti ammonito la Banca centrale europea a non seguire la
politica monetaria americana, poiché l’impressionante ricorso della
Federal Reserve alla stampa di nuova moneta potrebbe condurre ad
alti tassi di inflazione e ad una forte svalutazione del dollaro.
Insomma cresce la
preoccupazione sui possibili effetti perversi delle scelte americane
e implicitamente si pone sul tappeto la questione di una riforma del
sistema monetario che non ruoti più attorno a un dollaro
americano espressione di un Paese in crisi economica e fortemente
indebitato.
Per questi motivi la
definizione di una strategia per correggere queste politiche di
emergenza sta diventando una questione di primaria importanza sia a
livello di politica internazionale sia per milioni di persone che
temono che uno sbocco inflazionistico della crisi possa falcidiare i
loro risparmi.
Questa problematica è quindi strettamente connessa con quella delle
nuove regolamentazioni del sistema finanziario. Sebbene i ministri
delle Finanze e dell’Economia del G8 vogliano tenerle separate, la
crisi e paradossalmente ancor più le successive politiche di
emergenza hanno messo in luce che non basterà il cambiamento di
qualche regola, come sperano gli americani, ma che è necessaria una
rifondazione dell’intero sistema monetario e finanziario, oggi
costruito attorno al ruolo egemone del dollaro.
Occorre una nuova Bretton
Woods, come sosteneva alcuni mesi fa anche il ministro Tremonti.
Questa tesi, avanzata inizialmente dalla Cina, è già stata
abbracciata dalla Russia e da molti Paesi del Sud-Est asiatico, ma
non ancora dagli otto Grandi,
i quali a Lecce hanno dovuto
però ammettere i limiti del loro potere sostenendo che stanno
preparando delle proposte di regolamentazione dei mercati finanziari
che saranno sottoposte al G20 in programma negli Stati Uniti in
settembre.
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Fonte
- Corriere del Ticino
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Più stato?
No, sia solo un partner
17 Giugno 2009 09:06 MILANO - di
Mario Margiocco
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«La stagione
di Milton Friedman sta finendo», diceva tre anni fa Mordecai Kurz,
74 anni, da oltre 40 professore di economia a Stanford, San
Francisco, l'università che del pensiero neoliberista friedmaniano è
stata con Chicago una delle roccaforti. «Addio Milton Friedman -
dice ora Kurz -. Partita chiusa.
Incomincia una nuova era di
responsabilità per lo Stato, ma deve essere precisa e limitata:
regolare bene alcuni mercati che non possono essere affidati... al
mercato: banche e assicurazioni».
Kurz è fra i maggiori
esperti dell'economia dell'incertezza, autore di studi importanti
sui nodi cruciali del sistema pensionistico americano. È stato con
il Nobel Kenneth Arrow autore di un libro famoso fra gli economisti,
Public investment. The Rate of Return and Optimal fiscal policy,
(1970), sul rapporto tra rischi pubblici e rischi privati.
Si tratta di un tema
centrale nel dibattito in corso su come uscire dalla Grande
Recessione del 2008-2009 e sulle nuove regole finanziarie.
Sopravviverà il mondo dei derivati? Sì, deve, ma saranno
attentamente regolati, costeranno di più e ve ne saranno di meno. E
resisteranno i cds, credit default swaps, causa forse dei disastri
peggiori, assicurazioni vendute a ruota libera, senza collaterale?
No, così come gestiti finora devono sparire.
Nei giorni scorsi George
Soros ha avanzato l'ipotesi di mettere i cds, potenzialmente i più
pericolosi fra i prodotti della finanza innovativa, fuori legge. Si
tratta infatti di una forma d'assicurazione finanziaria che, se non
regolata con chiarezza, è potenzialmente esplosiva. E lo
diventa quando assume una logica autoreferenziale, sempre più
lontana dal sottostante al quale è collegata, e si trasforma da
assicurazione sulla solvibilità di un bond o di un qualsiasi
prodotto finanziario in una scommessa.
Kurz non è altrettanto
drastico, ma ha ben presente sia l'utilità dei cds, sia la loro
pericolosità potenziale. E indica alcune soluzioni. Ormai le
grandi linee delle nuove regole finanziarie sono state messe a punto
e nel corso dell'estate sia gli Stati Uniti che l'Europa
annunceranno piani precisi, da coordinare definitivamente nel corso
del G-20 di Pittsburgh, a settembre. Le posizioni non sono del tutto
in linea, per ora, con Washington, Wall Street, Londra, più
sensibili ai desiderata dei mercati e dei grandi player che la crisi
ha lasciato con sempre meno concorrenti sul mercato, e l'Europa più
interessata a regole incisive. Ma il livello d'una classe dirigente
si valuta anche dall'accortezza e dal coraggio con cui salva da un
lato la libertà dei mercati, ma neutralizza dall'altro il più
possibile i rischi di un mercato che, il 2008 insegna, trova nelle
logiche dell'autoregolamentazione chiari limiti.
Kurz era recentemente a
Milano per una serie di lezioni e una conferenza all'Università
Cattolica.
Come saranno i mercati dopo il 2007-2008?
Liberi. Ma c'è un ritorno
generazionale a principi che sembravano superati. E viene cassata
l'idea che lo stato non è mai la soluzione, ma il problema, l'idea
del tandem Friedman-Reagan.
Ora, vi sono due mercati che
non possono funzionare nella libertà e per essi lo Stato è un
indispensabile partner. Si tratta del credito e delle assicurazioni.
Consideriamo o no immorale che uno possa ottenere un milione di
dollari dalla banca per poi giocarseli alla roulette? È normale o no
chiedere garanzie? Le garanzie si chiamano collaterale, oltre che
fiducia generica. Quindi occorrono regole chiare, e controllate, su
come si deve fare credito.
E le assicurazioni?
Le assicurazioni hanno un
senso se chi vende il servizio è credibile come riserve, come suo
collaterale, nella fornitura effettive del servizio, se il caso si
verifica. Ora i cds,
che hanno messo in ginocchio Aig, erano, e sono, una vendita di
assicurazioni, su tutto, senza però, come si è visto, l'effettiva
capacità di onorare l'impegno. Si è arrivati così a un monte
cds complessivo di 2.300 miliardi nozionali. Calcolando un tasso di
default pari allo 0,5% del totale, la capacità di far fronte
restava. Ma con un tasso eccezionalmente pesante del 7% restava solo
la bancarotta, o lo stato.
Lei quindi è per abolire i cds?
No, sono per impedire a
qualsiasi istituzione di vendere cds in contratti privati come
faceva Aig da Londra, perché per loro natura convogliano le perdite
su un unico punto, come un imbuto, non le distribuiscono.
Quindi i cds possono
continuare a esistere, ma emessi, venduti e trattati in un mercato
regolato, alla luce del sole, dove sia quantificabile subito il
livello di rischio che si accumula.
Come giudica la risposta di Washington alla
crisi?
Nel complesso bene. Bernanke
soprattutto è stato di un coraggio e di una temerarietà eccezionali.
Direi che ha salvato la
situazione. E posto le basi di una ripresa che credo sia piuttosto
vicina. Anche il team
Obama sta facendo bene, ma vedo qualche rischio.
Dove?
Nella gestione della crisi dell'auto, ad esempio, credo non sia la
cosa migliore per il presidente decidere se cacciare o no il numero
uno di General Motors. Sarebbe meglio affidarsi alle collaudate
regole dell'amministrazione controllata e della bancarotta. C'è il
rischio di politicizzare il processo regolatorio, procedendo così. E
poi affidare la gestione di una grande impresa, anche
temporaneamente, a un comitato di burocrati non mi piace. Ma occorre
dare atto che stanno affrontando una situazione eccezionale, che può
richiedere a volte mezzi eccezionali. E i mezzi eccezionali nel caso
della crisi di Detroit sono stati adottati. Se i risultati saranno
buoni giustificheranno il metodo, in un certo senso.
Che cosa occorre fare ora?
Regolare tre mercati:
credito, assicurazioni, derivati. È un problema che Keynes non si è
mai posto. Keynes
pensava alla spesa pubblica. I principi chiave sono due: assicurare
i depositanti, valutare la solvibilità di quelli che ricevono
credito. E poi disinnescare tutti i possibili raggiri, ad esempio la
massa di mortgage backed securities, che le grandi banche tenevano
sotto l'ala della holding, per non farsi controllare.
E l'investment banking di Wall Street?
È finito, così come
l'abbiamo avuto per molto tempo. Quel business consiste nell'abilità
di usare la propria credibilità nell'intermediazione del capitale
tra acquirenti e venditori. Ma così facendo si crea anche credito, e
le cose non saranno più come prima. Servono regole.
C'è, come per tutti i
derivati, la necessità sociale di limitare il rischio. Il governo
non è né il problema né la soluzione. È un partner, che non deve
strafare. Educare e non manipolare.
E chi pagherà questi anni di...
spensieratezza?
Tutti, il mio stipendio e il suo, la mia pensione e la sua,
l'America, l'Europa, il mondo.
 |
Fonte
- Il Sole 24 Ore
|
La
stabilità finanziaria nel contesto mondiale:
lezioni dalla crisi del mercato
17 Giugno 2009 09:12 MILANO - di
Mario Draghi
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Lo scorso anno
emerse un ampio consenso a favore del rafforzamento del contesto
istituzionale del Financial Stability Forum (FSF), al fine di
migliorarne l’efficacia come meccanismo per le autorità nazionali,
gli organismi di fissazione degli standard (standard setting bodies)
e le istituzioni finanziarie internazionali per affrontare le
vulnerabilità e sviluppare e attuare efficaci politiche
regolamentari, di vigilanza e di altro genere, nell’interesse della
stabilità finanziaria. Un rafforzato assetto istituzionale
renderà l’FSB più efficace nella formulazione delle azioni da
intraprendere a livello globale in risposta alla crisi attuale,
mantenendo mercati finanziari integrati a livello mondiale.
Quindi, nessun nuovo ente
globale di regolamentazione, ma un forte punto di riferimento per
una regolamentazione basata su due pilastri:
- mantenere la parità concorrenziale
- puntare alla convergenza degli standard.
Poiché molte
delle lezioni che stiamo apprendendo dalla crisi
dipendono dalla nostra opinione circa le sue origini,
desidero dire quanto segue.
Ritengo che le
radici della crisi siano essenzialmente riconducibili
alle gravi carenze della regolamentazione.
Vi fornirò ora
tre esempi di tali carenze con un evidente potenziale di
determinare rischi sistemici, e la lista non è affatto
esaustiva:
-
gli incentivi forniti dai requisiti
di capitale e dagli standard contabili per
l’attività di cartolarizzazione fuori bilancio;
-
la rimozione
nel 2004 del limite sul leverage per le banche di
investimento;
-
la possibilità per gli enti con
rating a tripla A di sottoscrivere Credit Default
Swap senza costituire alcun collaterale.
Ma vi erano
anche altri fattori che contribuivano a nascondere
queste fragilità e la debolezza dei mercati finanziari.
Gli straordinari
squilibri di conto corrente hanno fatto sì che una
quantità senza precedenti di liquidità si riversasse nei
principali centri finanziari con il risultato che i
premi al rischio, i tassi di interesse reali e la
volatilità raggiungessero livelli molto bassi, e gli
standard creditizi e la gestione del rischio da parte
dei principali istituti si deteriorassero rapidamente.
Infine, il fatto
che le banche centrali non avessero nel proprio
patrimonio concettuale o nel mandato il mantenimento
della stabilità finanziaria, ha contribuito al rapido
aumento dei volumi delle attività finanziarie e di
leverage.
Ci troviamo
ora nel mezzo di una strategia disegnata come risposta
alla crisi. Si tratta di una strategia fondata su tre
pilastri.
-
Una risposta
strutturale e regolamentare che mira a ricostruire
un sistema finanziario più robusto e meno
soggetto al rischio sistemico, sul quale mi
soffermerò tra breve.
-
Il secondo
pilastro è costituito dalle varie politiche, a
livello macro e micro, che i governi nazionali hanno
intrapreso per far fronte alle diverse emergenze.
L’aumento dei deficit di bilancio, le politiche
monetarie marcatamente espansionistiche in tutto il
mondo hanno fatto fronte all’emergenza di segno
macro. Dovremmo anche considerare le numerose azioni
intraprese dai governi a sostegno degli istituti in
difficoltà, dalle ricapitalizzazioni alle garanzie,
alle “bad banks” ecc.
-
Ma c’è un
terzo pilastro che dovremmo cominciare a
considerare, le strategie di uscita.
L’uscita da
politiche di bilancio eccessivamente
espansionistiche per gestire la riduzione del debito
pubblico e l’uscita dall’attuale orientamento delle
politiche monetarie per mantenere l’ancoraggio delle
aspettative di inflazione sono essenziali,
sia per la stabilità dei prezzi, sia per la
stabilità finanziaria. E infine l’uscita dalle
micro-politiche a sostegno delle banche. Anche se i
tempi non sono ancora maturi per l’immediata
attuazione di tali strategie di uscita, lo sono per
cominciare a progettarle e per riflettere sulle
condizioni necessarie alla loro attuazione.
Una lezione
importante di questa crisi è che il sistema l’ha
affrontata con un capitale particolarmente contenuto,
buffer di liquidità estremamente ridotti e un regime di
capitale e valutazione con significative conseguenze
pro-cicliche. Per affrontare tali tematiche, molti
lavori sono in corso sul capitale e sulla liquidità
bancaria.
Anche l’FSF e i
suoi membri hanno elaborato una serie di raccomandazioni
per mitigare la pro-ciclicità, che prevedono:
-
requisiti
patrimoniali regolamentari per accrescere la qualità
e il livello di capitale nel sistema finanziario in
condizioni di buon andamento economico, in
modo tale che possano essere resi meno stringenti
durante i periodi di tensioni economiche e
finanziarie;
-
una revisione
della struttura del rischio di mercato di Basilea II
per ridurre l’affidamento alle stime cicliche basate
sul Value-at-Risk;
-
l’integrazione
dei requisiti patrimoniali basati sul rischio con
l’obbligo di un rapporto debito/patrimonio netto per
contenere la crescita del grado di indebitamento del
sistema bancario.
Una seconda
importante area nell’attuazione di un approccio
sistemico riguarda l’assicurare che le tutte le
istituzioni, mercati e attività, di rilievo a livello
sistemico, siano assoggettati ad una adeguata
sorveglianza, ad appropriati requisiti di trasparenza e,
ove necessario, a meccanismi di risoluzione. In
pratica, ciò significa che lo scopo della
regolamentazione sarà esteso e che gli strumenti e gli
standard prudenziali, al pari del livello di
sorveglianza, saranno ricalibrati per riflettere meglio
il modello sistemico di istituzioni e attività.
Un argomento di
rilievo su cui volgere l’attenzione in futuro sarà
quello relativo al come affrontare istituzioni
too-big-to-fail e i connessi problemi di moral hazard.
Bisogna creare
un’infrastruttura di mercato, includendo appropriati
meccanismi di risoluzione, per affrontare i problemi di
interconnessione e opacità nel sistema finanziario.
Un’area a cui i
politici, l’opinione pubblica e le autorità di vigilanza
rivolgeranno un’attenzione particolare riguarda i
cambiamenti nei sistemi di remunerazione nelle
istituzioni finanziarie. I Principi che abbiamo
sviluppato coprono “l’efficace governance dei sistemi di
remunerazione”, “l’efficace correlazione tra
remunerazione e prudente assunzione del rischio”,
“l’efficace sorveglianza” e la trasparenza nei confronti
degli azionisti”. Tali principi saranno rafforzati
attraverso un’azione di vigilanza condotta a livello
nazionale, così pure tramite requisiti di trasparenza.
Ci attendiamo che le autorità nazionali e le società
attuino le parti più significative di tali principi per
la fine del 2009.
Vorrei
concludere ricordando una serie di principi alla base
della nostra azione di riforma:
-
In primo
luogo, il nostro lavoro si basa sul ripristino di un
sistema finanziario che operi con meno debito, sia
più immune dal set di non corretti incentivi alla
base di questa crisi, dove la trasparenza consenta
una migliore identificazione e gestione dei rischi,
la
sorveglianza prudenziale e regolamentare risulti
rafforzata e il sistema sia in grado di lasciar
fallire le istituzioni non correttamente gestite.
-
In secondo
luogo, la chiarezza. Siamo impegnati a
costituire delle precise aspettative sul futuro
contesto di regolamentazione. Costituire aspettative
stabili circa il futuro assetto consentirà agli
operatori di poter assumere decisioni strategiche
con maggiore fiducia.
-
In terzo
luogo, mentre la direzione è chiara, i cambiamenti
da apportare dovranno essere graduali. Alcuni
elementi del nuovo sistema (ad esempio un maggior
livello di capitale) dovranno essere introdotti
passo dopo passo, in linea con il miglioramento del
contesto di riferimento.
-
In quarto
luogo, dobbiamo mantenere i vantaggi di mercati
finanziari globali e integrati.
Partendo da
un sistema di istituzioni e mercati globali con
norme e pratiche di regolamentazione nazionali,
dobbiamo impegnarci per una coerenza internazionale
negli standard di regolamentazione che favorisca
parità di trattamento tra i diversi paesi.
Nello stesso tempo, se vogliamo mantenere mercati
aperti e globali, questi standards necessitano di
essere rafforzati per fornire adeguata protezione
agli “spettatori innocenti”, colpiti dalle
indiscriminate assunzioni di rischio che abbiamo
osservato.
-
Nello
sviluppare e applicare sistemi di supervisione e
regolamentazione più incisivi, funzionali a
contenere un eccessivo indebitamento e a
fronteggiare in modo adeguato fenomeni di market
failure, dobbiamo, nel contempo, evitare di imporre
eccessivi e soffocanti livelli di regolamentazione.
La regolamentazione non deve impedire l'innovazione,
necessaria per ampliare il processo di scelta dei
consumatori e un più ampio accesso al credito. Ma
dobbiamo assicurare che l'innovazione non
comprometta altri obiettivi, chiaramente
identificati, comprese la stabilità sistemica e la
tutela del consumatore.
La sfida che
si presenta ai regulators e agli operatori è, come
sempre, quella di trovare il giusto compromesso.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Sabato 21
Giugno
2009 |
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Martedì 23
Giugno
2009 |
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Venerdì 26
Giugno
2009 |
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Nuova vigilanza Ue:
sì con limiti
20 Giugno 2009 10:41 MILANO
-
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Decollerà nel 2010 il nuovo
sistema paneuropeo di vigilanza su mercati, banche e
assicurazioni, per aumentare il grado di allerta e minimizzare i
rischi di crisi finanziarie sistemiche e transnazionali. I 27
leader europei hanno posto il sigillo ieri a Bruxelles a una
soluzione di compromesso sulla riforma del sistema di
supervisione, in grado di ottenere il placet anche del premier
inglese Gordon Brown, restio a cedere poteri di vigilanza
nazionali all'Europa e ad affidare d'ufficio la poltrona più
importante al presidente della Bce.
Per ottenere anche lo "yes" di Londra, portabandiera della City,
le conclusioni finali del vertice Ue hanno specificato a chiare
lettere che le decisioni delle nuove Autorità europee di
supervisione «non dovranno interferire in alcun modo con le
responsabilità di bilancio degli Stati membri» (rispondendo a
una preoccupazione che era stata espressa in modo più blando
anche da Germania, Slovenia, Slovacchia e Romania). Inoltre, si
è stabilito che il presidente dell'organismo di livello più alto
sia eletto dal Consiglio generale della Bce che include i
Governatori di tutti i 27 Paesi – anche non apparteneti all'area
euro - e non vada d'ufficio al presidente della Bce. Una
soluzione che di fatto dovrebbe portare comunque l'eurogovernatore
ad essere nominato, ma senza quel criterio di automaticità
contestato da Brown e salvaguardando la pari dignità dei Paesi
fuori dall'euro.
Le nuove autorità Ue nascono sul modello a due livelli delineato
in febbraio dal rapporto dei saggi presieduti dall'ex direttore
generale dell'Fmi, Jacques De Larosière. Il sistema contempla un
organismo con competenze micro-prudenziali e di coordinamento
composto dai rappresentanti dei tre tipi di autorità nazionali
di vigilanza su banche, assicurazioni e Borsa dei 27 (Sistema
europeo dei supervisori finanziari); e un altro organo, guidato
dal prescelto dal Consiglio Bce, con compiti di sorveglianza
macro-prudenziale sui grandi istituti finanziari con attività
transnazionali (il Consiglio europeo dei rischi sistemici).
Al Sistema Ue dei supervisori è stata assegnata anche la
vigilanza sulle agenzie di rating, ma non sulle clearing houses
come era previsto dalla proposta originaria della Commissione
europea, ancora una volta per l'opposizione di Londra.
Importante, però, che il Sistema Ue dei supervisori nasca, in
base alle conclusione del summit, con poteri decisionali
«vincolanti e proporzionati in merito al rispetto da parte dei
supervisori di regole uniche, della legge comunitaria e nel caso
di disaccordi tra supervisori di un Paese d'origine e uno
ospite» di un istituto finanziario. È stato riconosciuto, in
sostanza, il potere della nuova Autorità di garantire il
rispetto di procedure omogenee e regole europee, oltre che di
svolgere arbitrati qualora vi siano divergenze di vedute tra due
organismi nazionali. A patto che le decisioni non abbiano
effetti sui bilanci nazionali: per esempio, i nuovi organismi
comunitari non potranno imporre la ricapitalizzazione di una
banca in difficoltà con fondi pubblici nazionali.
Come ogni compromesso, il risultato finale si è prestato a
valutazioni speculari e contrapposte. «Se nove mesi fa, avessi
detto che ci saremmo mesi d'accordo su un sistema paneuropeo di
supervisione con poteri vincolanti, nessuno di voi mi avrebbe
creduto» ha affermato un Nicholas Sarkozy raggiante ai
giornalsti, seppure ammettendo che avrebbe preferito una riforma
ancor più ambiziosa. «Ho assicurato che i contribuenti inglesi
fossero adeguatamente protetti» ha invece commentato Brown,
dimostrando di avere, alla fine dei conti, molto più a cuore i
destini di casa propria che il suo conclamato progetto di una
nuova Bretton Woods.
Resta ora da passare il banco di prova delle proposte
legislative dettagliate che la Commissione dovrà presentare a
Consiglio ed Europarlamento nell'autunno 2009, puntando
all'entrata in vigore nell'anno successivo. Sarà l'occasione per
comparare in concreto la portata della riforma europea della
vigilanza, rispetto a quella annunciata da Barak Obama, e di
appurare se il campo sia ora veramente del tutto sgombro dalle
resistenze inglesi.
Fonte
- xxx
La flat tax di
Schwarzenegger
June 22nd, 2009 MILANO
-
di Mario Seminerio ______________________________________________
Cresce il numero di stati
dell’Unione costretti a mettere le mani nelle tasche dei
contribuenti per tentare di frenare l’emorragia delle casse
pubbliche. Di fronte a buchi di bilancio che stanno diventando
voragini, dall’inizio dell’anno sono 23 gli stati che hanno
aumentato le tasse, ed altri 13 stanno considerando l’opzione in
vista dell’approvazione del bilancio 2009-2010. Nella maggior
parte dei casi questi inasprimenti d’imposta sono complementari
a tagli dei servizi pubblici. Gli aumenti interessano le imposte
sul reddito, sulle vendite e sulle imprese e prendono di mira un
po’ tutto, dalle slot machines alle targhe personalizzate delle
auto, ai pernottamenti in albergo (settore peraltro già in grave
crisi), ad alcolici e tabacco.
Ma questo potrebbe essere solo l’inizio, visto che è pressoché
certo che il deficit da colmare risulterà ben maggiore rispetto
alle stime: ben 37 stati, secondo un sondaggio del Wall Street
Journal, hanno visto cali del gettito fiscale superiori a quanto
preventivato nel primo trimestre del 2009. L’inasprimento
fiscale, che pare ineluttabile, finirà con il contrastare
l’effetto espansivo del pacchetto di stimolo federale, ed
aggraverà la recessione e la disoccupazione, che in molti stati
ha già raggiunto picchi storici.
Nel frattempo la California di Arnold Schwarzenegger rischia di
diventare uno stato-spazzatura, almeno per le agenzie di rating,
che minacciano un declassamento di più livelli del merito di
credito. Il governatore, dopo la bocciatura del suo recente
progetto di bilancio, trovandosi a lottare per colmare un
deficit di 24,3 miliardi di dollari solo sei mesi dopo aver
dovuto alzare le tasse per coprire un buco da 40 miliardi,
medita alcune misure drastiche, come tetti vincolanti alla
spesa, l’abituale lotta agli sprechi e soprattutto
l’introduzione di una sorta di flat tax statale che sostituisca
una molteplicità di tributi.
Schwarzenegger si è posto in modalità “read my lips, no new
taxes”, ed ha ammonito i Democratici che, senza tagli di spesa,
entro poche settimane l’amministrazione statale potrebbe
letteralmente chiudere per mancanza di risorse e finanziamenti.
I tagli sono previsti anche per ambiti finora intoccabili, come
educazione, Medicaid, pensioni, prigioni. In quest’ultimo caso i
contabili di Sacramento hanno scoperto che lo stato spende per
ogni detenuto 49.000 dollari, il 50 per cento in più della media
nazionale, e Schwarzenegger sta pertanto meditando la
privatizzazione delle carceri.
Tornando alla flat-tax, occorre premettere che la California è
uno degli Stati americani con la maggiore progressività fiscale,
con la seconda aliquota più elevata sui redditi personali, pari
al 10,55 per cento, dopo New York che è al 12,62 per cento.
Questa addizionale delle imposte federali sul reddito, oltre a
determinare forte volatilità del gettito d’imposta durante il
ciclo economico, sta inducendo molti californiani a trasferirsi
nel vicino Nevada e addirittura in Texas, dove l’Irpef statale è
assente. Una caratteristica del modello californiano di tax and
spend è dato dal fatto che durante le espansioni la struttura
molto ripida della curva d’imposta ed il pieno di tasse da essa
indotta spingono i legislatori a spendere a mani basse; quando
il ciclo rallenta, il gettito crolla ma non è possibile adottare
misure di reversibilità della spesa pubblica, a causa delle
insuperabili resistenze dei gruppi di pressione. Motivo per cui,
alla fine, si giunge ad aumenti di tassazione ed il ciclo
ricomincia. Ma questa volta siamo al capolinea.
Schwarzenegger ha nominato una commissione bipartisan per la
riforma fiscale incaricata di esplorare la fattibilità di
un’aliquota uniforme del 6 per cento su imprese e privati, con
drastica riduzione delle deduzioni. A questo livello di
aliquota, date le ipotesi di lavoro (che poggiano, vale la pena
ricordarlo, su un forte ampliamento di base imponibile), le
simulazioni indicano che lo stato sembra essere in grado di
raggiungere il pareggio di bilancio e smorzare la forte
volatilità di gettito durante le varie fasi del ciclo economico
e, cosa più importante, potrebbe tornare ad attrarre imprese.
Non sappiamo come finirà, ma la California ha davvero poco tempo
prima del collasso finale. Eventualità che, dato il peso
economico dello stato, avrebbe pesantissime ripercussioni su
tutti gli Stati Uniti.
Alcune considerazioni sulla proposta di Schwarzenegger. E’ utile
e saggia, visto il livello patologico raggiunto dalla ripidità
della curva statale dell’imposta sul reddito; avrebbe innegabili
effetti positivi dal lato dell’offerta, riducendo le
distorsioni; ridurrebbe evasione, erosione ed elusione fiscale,
oltre ad arrestare e forse invertire la tendenza alla
delocalizzazione di privati ed imprese; riuscirebbe anche a
preservare la sostanziale progressività del sistema fiscale
statale, perché riassorbirebbe in sé anche tributi, come la
sales tax e le accise, che sono per definizione regressivi.
Restano tuttavia irrisolti problemi politici, visto che per
ridurre significativamente le aliquote occorre allargare la base
imponibile tagliando le deduzioni, che sono saldamente
presidiate dai gruppi d’interesse.
Ma esiste anche una più generale obiezione di merito riguardo la
riduzione della volatilità di gettito che una flat tax causa. A
pochi viene da riflettere circa il fatto che, se in un paese
fosse in vigore esclusivamente una flat tax, gli stabilizzatori
automatici dal versante dell’imposta sul reddito semplicemente
non funzionerebbero, e non ci sarebbe quindi né stimolo
espansivo durante le recessioni né restrizione durante le
espansioni, lasciando il peso della correzione ciclica
interamente sulle spalle della politica monetaria. Come noto, in
assenza di fenomeni di fiscal drag, durante una recessione il
reddito nazionale si riduce. Per effetto della progressività
della curva delle aliquote, tuttavia, la il gettito fiscale si
riduce in proporzione al reddito nazionale, e ciò induce un
effetto espansivo. L’opposto accade durante le espansioni. Con
una flat tax questo ovviamente non avverrebbe, ed occorrerebbe
costituire quello che gli anglosassoni chiamano un “rainy day
fund”, cioè accantonare risorse fiscali da utilizzare per
sostenere il reddito durante le recessioni. Pur se non
infattibile, una simile soluzione finirebbe con l’essere rimessa
alla discrezionalità del legislatore, in merito al finanziamento
ed all’utilizzo del fondo di emergenza, introducendo elementi di
“volatilità” politica che è invece fondamentale evitare.
Fonte
- Libero - Mercato
TASSI USA: LA FED
CONFERMA IL TARGET 0.00%-0.25%
24 Giugno 2009 20:18 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
Come ampiamente atteso dal
mercato, la Banca Centrale Americana ha mantenuto invariata la
forchetta sui fed funds. Nessun significativo cambiamento nel
testo che ha accompagnato la decisione ne’ del programma di
riacquisto di Treasury.
La Federal Reserve ha lasciato invariati i tassi d’interesse ad
un range compreso tra lo 0.00% e lo 0.25%. La decisione segue la
conferme di gennaio, marzo e aprile, precedute dal taglio
drastico di dicembre, il nono della serie iniziata nell’ottobre
2007, che aveva portato i fed funds nell’attuale forchetta.
Nessun cambiamento significativo nel testo ufficiale che ha
accompagnato la decisione; confermato anche il programma di
riacquisto di Treasury fino a $300 miliardi entro l'autunno.
Per i lettori di Wall Street Italia ecco la traduzione in
italiano del documento ufficiale della Federal Reserve:
Le informazioni ricevute dall’incontro del FOMC svoltosi ad
aprile suggeriscono che il tasso di contrazione economica e’ in
rallentamento. Le condizioni all’interno dei mercati finanziari
sono generalemtne migliorate negli ultimi mesi. La spesa delle
famiglie ha mostrato ulteriori segnali di stabilizzazione ma
resta limitata dalla continua perdita di posti di lavoro, dal
calo del settore immobiliare e dal contenuto accesso al credito.
Le aziende stanno riducendo investimenti e personale ma sembra
stiano comunque facendo dei progressi nell’allineamento tra
scorte e vendite.Sebbene l’attivita’ economica restera’ molto
probabilmente debole ancora per diverso tempo, Il Comitato
continua a ritenere che le azioni mirate alla stabilizzazione
dei mercati e degli istituti finanziari, gli stimoli fiscali e
monetari e le forze di mercato contribuiranno ad una graduale
ripresa di una crescita economica sostenibile in un contesto di
stabilita’ dei prezzi.
I prezzi energetici e di altre commodities sono risultati in
rialzo nell’ultimo periodo. Tuttavia, la sostanziale mancanza di
risorse conterra’ le pressioni sui costi, ed il Comitato si
attende bassi livelli inflazionistici ancora per diverso tempo.
In tali circostanze, la Federal Reserve impieghera’ tutti gli
strumenti disponibili per promuovere il recupero economico e
mantenere la stabilita’ dei prezzi. Il Comitato manterra’ il
target sui fed funds nel range 0.00%-0.25% e continua ad
anticipare che le condizioni economiche probabilmente
contribuiranno a mantenere i tassi a livelli eccezionalmente
bassi per un lungo periodo. Come annunciato in precedenza, per
garantire supporto alla concessione dei prestiti ipotecari e al
mercato immobiliare, e per migliorare le condizioni generali del
mercato del credito privato, la Federal Reserve acquistera’ fino
a $1250 miliardi di asset MBS, e fino a $200 miliardi di
strumenti di debito societario entro la fine dell’anno. Inoltre,
la Federal Reserve acquistera’ Treasury fino ad un valore di
$300 miliardi entro l’autunno. Il Comitato continuera’ a
valutare la tempistica e l’ammontare generale degli acquisti
alla luce dello sviluppo dell’outlook economico e delle
condizioni dei mercati finanziari. La Federal Reserve sta
monitorando la dimensione e la composizione del proprio stato
patrimoniale ed apportera’ delle modifiche ai programmi di
credito e liquidita’ cosi’ come garantito.
A votare a favore dell’azione di politica monetaria del FOMC
sono stati: Ben S. Bernanke, Chairman; William C. Dudley, Vice
Chairman; Elizabeth A. Duke; Charles L. Evans; Donald L. Kohn;
Jeffrey M. Lacker; Dennis P. Lockart; Daniel K. Tarullo; Kevin
M. Warsh; e Janet L. Yellen.
Ed ecco il testo originale del documento che accompagna la
decisione della Federal Reserve di confermare il tasso
interbancario in un range di 0.0%-0.25%:
Information received since the Federal Open Market Committee met
in April suggests that the pace of economic contraction is
slowing. Conditions in financial markets have generally improved
in recent months. Household spending has shown further signs of
stabilizing but remains constrained by ongoing job losses, lower
housing wealth, and tight credit. Businesses are cutting back on
fixed investment and staffing but appear to be making progress
in bringing inventory stocks into better alignment with sales.
Although economic activity is likely to remain weak for a time,
the Committee continues to anticipate that policy actions to
stabilize financial markets and institutions, fiscal and
monetary stimulus, and market forces will contribute to a
gradual resumption of sustainable economic growth in a context
of price stability.
The prices of energy and other commodities have risen of late.
However, substantial resource slack is likely to dampen cost
pressures, and the Committee expects that inflation will remain
subdued for some time.
In these circumstances, the Federal Reserve will employ all
available tools to promote economic recovery and to preserve
price stability. The Committee will maintain the target range
for the federal funds rate at 0 to 1/4 percent and continues to
anticipate that economic conditions are likely to warrant
exceptionally low levels of the federal funds rate for an
extended period. As previously announced, to provide support to
mortgage lending and housing markets and to improve overall
conditions in private credit markets, the Federal Reserve will
purchase a total of up to $1.25 trillion of agency
mortgage-backed securities and up to $200 billion of agency debt
by the end of the year. In addition, the Federal Reserve will
buy up to $300 billion of Treasury securities by autumn. The
Committee will continue to evaluate the timing and overall
amounts of its purchases of securities in light of the evolving
economic outlook and conditions in financial markets. The
Federal Reserve is monitoring the size and composition of its
balance sheet and will make adjustments to its credit and
liquidity programs as warranted.
Voting for the FOMC monetary policy action were: Ben S. Bernanke,
Chairman; William C. Dudley, Vice Chairman; Elizabeth A. Duke;
Charles L. Evans; Donald L. Kohn; Jeffrey M. Lacker; Dennis P.
Lockhart; Daniel K. Tarullo; Kevin M. Warsh; and Janet L. Yellen. Fonte
- WallStreetItalia.com
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La
ripresa arriverà con gli
investimenti di lungo periodo
24 Giugno 2009 20:23 NEW YORK - di
*F.Bassanini, A.de Romanet, P.Maystadt, U.Schröder
________________________________________
Rilanciare la
crescita dell'economia mondiale ed evitare il ripetersi di crisi
finanziarie globali sono le due grandi sfide che i governi e le
autorità di regolamentazione hanno di fronte. Per vincerle è
necessario creare condizioni favorevoli per gli investimenti di
lungo termine.
Le misure annunciate nei diversi piani di salvataggio
e la prevista riforma delle regole dei mercati
finanziari e del commercio internazionale sono,
beninteso, del tutto necessarie: ma nessuno di questi
rimedi avrà successo se non si riuscirà, nel contempo,
ad aprire la
strada della finanza globale a prospettive e strategie
di lungo termine. Il crollo dei mercati ha infatti due
cause principali: l'ossessiva ricerca di profitti
elevati a breve termine e lo scollamento tra gli
strumenti finanziari e le esigenze dell'economia reale.
L'emergere di un
robusto gruppo d'investitori di lungo termine potrebbe
dunque rivelarsi - in un contesto regolamentare
appropriato - il migliore alleato dei policy maker
nell'azione di correzione delle distorsioni che hanno
prodotto la crisi, e dunque nelle politiche di
ripristino della stabilità economica a breve termine e
di creazione di valore per le generazioni future.
Una strategia di lungo termine è, del resto, imposta dai
rapidi cambiamenti in atto nella società. Per la prima
volta nella storia, più di metà della popolazione
mondiale vive in un contesto metropolitano. Per
fronteggiare i cambiamenti climatici occorre spostarsi
verso modelli di sviluppo caratterizzati da un basso
tasso di emissioni di carbonio.
Ma per adattarsi a una rapida urbanizzazione, per
ridurre drasticamente l'emissione di carbonio, e per far
fronte alla scarsità di risorse naturali sono necessari
grandi investimenti nel campo delle infrastrutture
urbane, delle innovazioni tecnologiche, delle energie
rinnovabili, delle reti idriche e delle infrastrutture
di telecomunicazione e trasporto. Nicholas Stern ha
stimato intorno al 2% del Pil mondiale i costi annui dei
soli investimenti necessari per affrontare la sfida del
climate change.
Il perseguimento di strategie di lungo termine per l'infrastrutturazione
urbana e per la lotta ai cambiamenti climatici è,
peraltro, anche un mezzo per rilanciare la ripresa
economica. Si tratta infatti d'investimenti capaci di
creare, anche a breve, crescita e posti di lavoro, di
stimolare innovazione tecnologica e investimenti
collegati e di generare elevati rendimenti, ancorché
spesso differiti nel tempo.
La necessità di tali investimenti nel futuro della
nostra società non è contestata.
Il problema è
capire chi può permettersi di finanziarli. Poiché le
finanze pubbliche nazionali saranno completamente
assorbite dai piani di salvataggio in corso, non rimane
altra alternativa che modificare la cornice delle regole
consentendo agli investitori a lungo termine di far
fronte a queste sfide.
Per individuare
i veri long term investors è necessario fare riferimento
alla struttura di bilancio dei grandi operatori.
Numerosi sono i soggetti in possesso delle
caratteristiche richieste: i cosiddetti fondi perpetui,
come i fondi sovrani e gli investitori istituzionali con
mandato pubblico specifico, i fondi pensione del settore
pubblico e alcune compagnie di assicurazioni con
passività a lungo termine vincolanti.
In condizioni
ideali di regolamentazione, questi investitori possono
assumere un ruolo complementare rispetto a quello svolto
dagli investitori di breve termine. La coesistenza
d'investitori di breve e di lungo termine può attenuare
l'impatto di nuovi shock finanziari, poiché gli
investitori di lungo termine hanno la capacità di
smussare l'oscillazione dei profitti e delle perdite nel
tempo, favorendo un approccio anticiclico. Inoltre,
l'impegno degli investitori di lungo termine, sia in
termini d'importo sia di durata dell'investimento,
consente investimenti in know how e capitale umano
complessi e costosi, attenuando i rischi di
penalizzazione connessi alla volatilità di breve
termine.
Ma i sistemi di
regolamentazione finanziaria nazionali e internazionale
non favoriscono oggi lo sviluppo di questa categoria
d'investitori. Il rapporto de Larosière mostra come le
attuali norme contabili e prudenziali, fedeli al
principio mark-to-market, siano sistematicamente
orientate alle performance a breve termine e incoraggino
quindi effetti pro-ciclici.
Nella riforma
dei sistemi di regolamentazione, è dunque auspicabile
che i policy maker operino una chiara distinzione tra
investitori di lungo termine, capaci di mantenere in
portafoglio i loro asset anche in periodo di crisi
finanziaria, e le banche e i fondi comuni, che devono
rendere conto in qualsiasi momento ai loro azionisti e
sottoscrittori e creare per essi valore a breve termine.
In particolare, le norme contabili e prudenziali
dovranno tenere conto del fatto che i capitali degli
investitori di lungo termine, e in particolare i loro
portafogli azionari, saranno di norma detenuti per
decenni. Gli
investitori di lungo termine dovranno sottostare a
regolamentazioni più rigide per quanto concerne i
requisiti di capitale e le responsabilità e obblighi nei
confronti degli azionisti, delle autorità pubbliche o di
altri stakeholder.
Impegnati a eliminare l'attuale volatilità dei mercati
finanziari, a contenere l'aumento incessante del debito
pubblico e a continuare a investire sulle infrastrutture
e sullo sviluppo necessari alla prosperità del futuro, i
nostri governi e i nostri legislatori hanno oggi compiti
e responsabilità straordinari. Meritano tutto l'aiuto
possibile. Un aiuto importante potranno trovarlo
nell'attività dei veri investitori di lungo termine, se
sapranno creare per loro un quadro regolamentare
favorevole, senza obbligarli a giocare con le stesse
regole dei protagonisti del breve termine.
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Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Krugman:
"temo la sindrome giapponese"
24 Giugno 2009 22:33 NEW YORK - di
B&F
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La crisi sta
per finire? Non la vede così il premio Nobel Paul Krugman, convinto
che il mondo sia ormai avvviato a una lunga stagnazione, stile
Giappone anni Novanta. È questo, in sintesi, il risultato di
una lunga conversazione con l’economista Will Hutton apparsa su The
Guardian, di cui riportiamo un ampio stralcio.
Will Hutton. Lei sostiene
che quel che è accaduto in Giappone potrebbe ripetersi in Usa e
Regno Unito o, forse, per l’intera economia mondiale. Ricordiamo che
il pil giapponese, quest’anno, sarà pari a quello del 1992: 17 anni
perduti, insomma.
Paul Krugman. Sì, non credo
che il pericolo si sia allontanato troppo. Certo si è ridotto
il pericolo di una Grande depressione. Ma nel primo anno la crisi è
stata assai peggiore che negli anni Novanta in Giappone.
W.H. Ma qual è la ragione di
tanto pessimismo? Uno potrebbe risponderle: caro Krugman, il
Giappone è un caso a parte. È un’economia votata all’export con una
moneta molto sopravvalutata. Soprattutto, la risposta dei politici è
sempre stata in ritardo, cosa che non è avvenuta a Londra o negli
Usa.
P.K. La realtà è che in Giappone si è fatto quel che si è soliti
fare di fronte a una recessione: tagliare i tassi fino a quota zero,
ma non è stato sufficiente a far ripartire l’economia. E da noi,
anche se siamo stati più tempestivi nel taglio, non è stato comunque
sufficiente. Questa è l’essenza del problema. Tutto il resto è
secondario. Ci sono situazioni in cui la politica monetaria
tradizionale perde efficacia. E noi sappiamo che ne stiamo
attraversando una.
W.H. Ma un ottimista potrebbe obiettare che ci sono quei segnali di
ripresa che lei si rifiuta di vedere. Le Borse hanno recuperato un
buon 25%. Il mercato immobiliare sembra aver toccato i fondo, la
fiducia delle imprese è in risalita.
P.K. Ci sono segnali di
assestamento, piuttosto che di ripresa. Le Borse, pochi mesi fa,
ipotizzavano l’Apocalisse. Ora il rischio sembra superato, e i
mercati azionari ne hanno preso atto. Ma non ci stanno segnalando
che l’economia viaggia verso la ripresa. Non vanno
confrontati i prezzi attuali con tre mesi fa. Se li paragoniamo a
quelli di due anni fa, abbiamo la misura dello stato attuale di
depressione.
W.H. Ci sono i problemi
dell’indebitamento degli Stati, ma anche quelli connessi alle
disponibilità economiche dei consumatori.
P.K. La crisi immobiliare e
la caduta delle azioni hanno senz’altro impoverito le famiglie. Ed è
probabile che i consumatori, carichi di debiti, incontrino
difficoltà a spendere. La realtà è che la teoria economica ha
studiato gli effetti del deficit nei Paesi del Terzo Mondo. Ma non
abbiamo mai preso in considerazione l’ipotesi che questo si potesse
verificare nei Paesi forti.
W.H. C’è un rischio Argentina o Malaysia fine anni Novanta...
P.K. Nel momento peggiore
abbiamo attraversato una fase di «giapponesizzazione» con un un
pizzico di «argentinizzazione». Ora abbiamo superato quel rischio.
Ma la «giapponesizzazione» rimane.
W.H. Qual è il cuore del problema Giappone, 17 anni dopo lo scoppio
della crisi?
P.K. È molto difficile
creare abbastanza domanda interna, e così riequilibrare i flussi
della bilancia commerciale, in un Paese con una realtà demografica
negativa.
W.H. Dunque, il problema della «giapponesizzazione» è un mix di
squilibri commerciali uniti all’invecchiamento.
P.K. Sì, ma non vale per gli Stati Uniti. Semmai è il caso di
Germania e Italia.
W.H. Confesso che la tesi della «giapponesizzazione» a livello
globale non mi convince granché. Ma credo che la tesi valga per la
Germania e, per questa via, cominci a contagiare l’intera economia
mondiale.
P.K. Il mercato interno
tedesco è del tutto inadeguato. Il benessere della Germania, nei
primi sette anni del secolo, è stato legata solo a un gigantesco
surplus della bilancia commerciale. Com’è possibile che la Germania,
che non ha subito la bolla immobiliare, abbia patito la peggior
discesa del pil tra le grandi economie? La risposta è che loro
esportavano in Paesi dove maturava la Bolla. Scoppiata questa, la
Germania ha perso i clienti. È Berlino il problema vero su scala
globale.
W.H. In cima al dossier c’è
poi una possibile, devastante, crisi bancaria. Il Fondo Monetario
teme che la Germania abbia almeno 500 miliardi di sofferenze non
emerse. Le banche tedesche hanno mille miliardi di dollari,
se non di più, investiti in cdo che possono essere assorbiti solo
congelando le perdite. Noi inglesi abbiamo avuto Rbs, voi Americani
Citigroup. La Germania ha perduto sei punti di pil senza che la
crisi bancaria abbia toccato il fondo.
P.K. Questo è il versante
finanziario della crisi. Certo, noi partiamo dall’ipotesi che la
crisi sia essenzialmente finanziaria. Ma non è detto che sia vero.
È vero che Lehman è stato il campanello d’allarme. Ma il crollo
dell’immobiliare era precedente.
La caduta del business è in
buona parte dovuta all’eccesso di capacità produttiva, a sua volta
provocato dal calo dei consumi e del crollo dell’immobiliare.
Ristabilire la fiducia nella finanza è una condizione necessaria. Ma
non sufficiente.
W.H. È un quadro desolante...
P.K. Sì, ed è anche per questo che sono così depresso.
W.H. Lei sostiene che siamo al 12esimo mese di una depressione
destinata a durare 36 mesi, sebbene in forma meno grave. È una
prospettiva scioccante.
P.K. Nella recessione del 2001 ci sono voluti 30 mesi prima che
ripartisse il mercato del lavoro.
W.H. È ancora convinto che la strategia migliore passi dagli stimoli
della politica fiscale?
P.K. Sì, è lo strumento migliore per frenare la recessione. È
opinione comune che gli investimenti giapponesi in infrastrutture
siano stati inefficaci. Io penso, al contrario, che hanno evitato il
collasso. Obama ha messo in cantiere uno stimolo di poco inferiore
al 5% del pil ma, in realtà, si tratta di un 4% spalmato in due anni
e mezzo. Basta? Sono convinto che presto arriverà una seconda
manovra di stimolo.
W.H. E poi?
P.K. Sotto con le regole della finanza. Bisogna imbrigliare il
mostro. L’eccessiva crescita della leva nel settore privato è quel
che ci ha resi così vulnerabili.
W.H. Più fisco, meno finanza. Così cambia la via americana al
capitalismo.
P.K. Non sono così cosmico. Ma è vero che Gordon Gekko è arrivato
tra noi grazie alla finanziarizzazione. Io penso che abbiamo bisogno
di un po’ di welfare in più e anche di un po’ di socialdemocrazia. E
di sindacato.
W.H. Chiudiamo con Obama.
Lei lo ha molto criticato in passato.
P.K. Sono sempre più
soddisfatto. Chiedevo uno stimolo fiscale più forte, penso che lo
farà. Chiedevo più aggressività verso le banche: vedremo se si dovrà
riprender la battaglia. Ma la riforma della sanità è buona, come la
battaglia sul clima. Io, che ero scettico, comincio a sperare nel
New Deal. Obama ha una grande personalità. Ed è un tale sollievo
avere finalmente alla Casa Bianca uno che merita il tuo rispetto.
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