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Risparmio:
consumatori, in 20
anni persi 8000 mld per crac
30
Ottobre 2003 17:57
Roma (Ansa)
Più
che la giornata del risparmio, domani "si dovrebbe onorare la
giornata del debito", perché il risparmio italiano "é di
fatto morto e non resta che celebrarne il funerale". A lanciare la
provocazione è l'Intesa dei consumatori, secondo cui i crac finanziari
hanno coinvolto negli ultimi 20 anni 235.000 risparmiatori, con perdite
complessive di oltre 8.000 miliardi di euro.
Alla vigilia della giornata
mondiale del risparmio, le associazioni dell'Intesa denunciano gli
ultimi casi eclatanti, quelli di Cirio e dei bond argentini, collocati
complessivamente presso 485 mila risparmiatori. Le obbligazioni
argentine, ricordano i consumatori, sono state collocate per un valore
di 14,5 miliardi di euro presso 450 mila utenti.
In due anni, i mancati
introiti per la scadenza dei bond sono ammontati a 2,6 miliardi di euro.
Da qui le accuse rivolte ai grandi istituti di credito e la decisione di
celebrare domani "il funerale del risparmio". Molte
responsabilità ricadono, secondo l'Intesa, soprattutto sulla Banca
d'Italia che "non ha vigilato sull'operato delle banche".
L'Italia, afferma il presidente dell'Adusbef Elio Lannutti, "é
l'unico paese in cui l'autorità di vigilanza è in mano alle banche, e,
insieme alla Danimarca, è anche l'unico Stato europeo in cui la carica
di governatore è vitalizia". I consumatori tornano quindi a
denunciare anche l'impennata dei costi dei conti correnti, cresciuti del
13,1% rispetto al 2002, con un costo medio di circa 412 euro. (ANSA).
30
Ottobre 2003 17:57
Roma (Ansa)
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Bond
argentini: investitori rapinati del 95%
24
Ottobre 2003
13,30 Roma
(ANSA)
Il
valore nominale del debito sarà decurtato del 75% ma, secondo le stime della
Tfa, la task force italiana per l'Argentina la riduzione potrebbe arrivare anche
al 90-95%, con un conseguente rimborso agli obbligazionisti italiani solo del
5-10%.
Lo
ha detto Nicola Stock, capo della Tfa nel corso di una conferenza stampa.
Stock ha precisato che nell'incontro avvenuto con il sottosegretario argentino
all'Economia Gustavo Nielsen non gli é stato riferito nulla su questo taglio
del 90%, ma che Nielsen "ha confermato quanto mi avevano detto nei giorni
scorsi i miei omologhi tedeschi e giapponesi. Se prima il taglio del 75% era
inaccettabile, questa nuova soluzione che mi è stata confermata lo è ancora di
più.
La
presentazione effettuata da Nielsen a Roma era basata sulle slide presentate a
Dubai - ha detto Stock - quindi per noi non c'era nessuna novità. Dalla
Germania e dal Giappone ho però saputo il taglio avrebbe raggiunto il 90%. Ho
chiesto a Nielsen al riguardo e lui me lo ha confermato".
Alla
decurtazione del 90-95% - ha spiegato Stock - si arriva, con l'allungamento dei
termini ("i nuovi bond sarebbero a 43 anni con uno spread dell'1%"),
con taglio del valore nominale del 75% e con il mancato pagamento degli
interessi. "Questo 90-95%% - ha messo in evidenza Stock - sembrerebbe anche
includere gli interessi non pagati negli ultimi due anni".
La
task force italiana, alla luce della rigidità argentina, che non intende
toccare il limite del 75% annunciato a Dubai e che anzi potrebbe presentare una
proposta addirittura peggiorativa, intende adottare delle misure altrettanto
rigide.
"Se
l'Argentina non intende spostarsi dai propri dogmi - ha detto Stock - non ci
può essere più alcun dialogo. Stiamo valutando le opzioni da portare avanti ed
in particolare studiamo se e come bloccare la ristrutturazione del debito.
Abbiamo infatti avviato una due diligence sulle 98 emissioni di bond argentini
che interessano gli obbligazionisti italiani: in base alla legislazione di
ciascuna emissione stiamo valutando gli appigli legali per bloccare la
ristrutturazione".
Per
gli obbligazionisti italiani che hanno investito in Argentina l'ipotesi di
un'azione legale diventa reale anche se si sta cercando di evitarlo: alla fine
di novembre sarà infatti ultimata la due diligence sulle 98 emissioni argentine
che coinvolgono i risparmiatori italiani, poi "sapremo come muoverci, come
andare avanti con azioni vere".
Lo
ha detto Nicola Stock, capo della task force italiana per l'Argentina,
sottolineando però che "l'azione legale è l'ultima ratio, anche perché
l'Argentina non è il Burkina Faso e quindi se
vede che blocchiamo la ristrutturazione del debito non vorrà far fronte anche a
spese legali".
L'azione
legale, se ci sarà, coinvolgerà risparmiatori italiani, francesi, tedeschi e
giapponesi e sarà finanziata, per l'Italia, dalle banche, sponsor finanziario
della Tfa. "Al termine della due diligence, prevista a fine
novembre, sapremo come andare avanti ed informeremo i vari governi ed il Fondo
Monetario Internazionale su come intendiamo muoverci. Informeremo anche
l'Argentina al riguardo, ma solo se ci chiamerà: la loro posizione è rigida.
Sono loro che ci hanno detto il piano è questo e non si tocca. Il dialogo
quindi per ora si è chiuso. Non siamo stati noi a dire prendere o
lasciare".
Al
contrario, spiega Stock, "noi
abbiamo cercato il dialogo mentre loro hanno imposto dei dogmi. Se si
toglie il dogma tutto è discutibile". Il capo della task force si è poi
soffermato sull'altro dogma imposto dall'Argentina, oltre a quello del 75% di
riduzione del valore nominale (anche se ora, come ha ammesso il sottosegretario
argentino all'Economia, Gustavo Nielsen, la decurtazione reale potrebbe
raggiungere il 90%), e cioé "sull'uguaglianza di trattamento per
tutti".
"Così
almeno avevano detto - ha affermato Stock - anche se dalle voci che mi giungono
dall'Argentina i fondi pensione locali sembrerebbero fare pressione per ottenere
un taglio diverso. Ho dubbi sulla vere
volontà dell'Argentina". Dubbi, quelli di Stock, che riguardano anche le
cifre fornite dal Governo di Buenos Aires, ed in particolare il 3% di avanzo
primario. "E' difficile che un creditore prenda per veri dati
forniti da un debitore insolvente. Un debitore che se fosse stato un privato
vedrebbe ora il sole a scacchi, starebbe cioé già in prigione", ha
aggiunto Stock, sottolineando che la Tfa ha assunto una società internazionale
per elaborare stime e scenari relativi all'Argentina, e quindi fornire
all'associazione uno strumento in più per cercare soluzioni alternative al
taglio proposto.
"Nielsen
mi ha detto che con il 3% di avanzo primario che il Paese registrerà è
difficile pagare i creditori privati.
Noi abbiamo stimato che con un surplus sul pil del 6% potrebbero essere
rimborsato quasi l'80% dei debiti. Fra queste due ipotesi ce ne sono
delle altre - ha detto Stock - La società alla quale ci siamo affidati
elaborerà degli scenari, come ad esempio cosa potrebbe fare l'Argentina con un
surplus del 3%".
Il
capo della Task Force italiana, che rappresenta 450.000 risparmiatori per
un'esposizione complessiva di 13,5 miliardi di euro, ha poi velatamente
sollecitato un intervento dei vari governi interessati ed anche del Fondo
Monetario Internazionale, "il cui accordo con l'Argentina di basa anche sul
raggiungimento di un'intesa equa fra Argentina e creditori esteri: su questo
punto - ha precisato - c'é stato però un fallimento completo.
L'Argentina
è nella watch list dell'Fmi. Io mi sono sentito con il Fondo, che si è detto
preoccupato per la situazione creatasi, che rappresenta uno dei punti base della
ristrutturazione argentina con lo stesso Fmi". Stock, in una precedente
riunione, aveva sollecitato il Governo italiano a sollevare il tema dei bond
argentini in qualità di presidente dell'Unione europea: "credo che la
nostra richiesta sia stata recepita, si stanno muovendo. Il Governo italiano,
però, ha detto delle cose che non condivido". Interpellato sulla proposta
del vice segretario agli Esteri Baccini, che ha avanzato l'ipotesi di un'azione
Governo-banche per arginare le perdite dei bondholder, Stock ha risposto:
"E' una soluzione inefficace, inutile a farsi".
24
Ottobre 2003
13,30 Roma
(ANSA)
Banche:
Altroconsumo,
non
aumenta trasparenza bancaria
21
Ottobre 2003 17:20
Roma (Ansa)
Non
aumenta la trasparenza bancaria. Un test condotto da Altroconsumo su
alcuni istituti di credito rivela infatti che le nuove norme sulla
trasparenza in vigore dal primo ottobre sono poco applicate. In 4 banche
su 7 non era affisso in bacheca l' avviso sulle nuove norme a tutela dei
consumatori, mentre in 3 banche su 7 non è stato consegnato al cliente
alcun contratto come invece prevede la normativa.
"E' sconfortante
constatare che a ridosso dell' attuazione delle nuove norme la
trasparenza bancaria non sia ancora di casa", ha commentato
Vincenzo Somma, responsabile dell' ufficio studi di Altroconsumo. L'
associazione di consumatori ricorda gli obblighi di trasparenza delle
banche: i contratti devono essere sempre scritti e riportare tutti i
costi a carico del cliente. Inoltre, la banca deve fornire un'
informativa in 5 tempi: 3 prima ella firma del contratto e 2 in corso di
rapporto.(ANSA).
21
Ottobre 2003 17:20
Roma (Ansa)
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Merril
Lynch: deficit di bilancio a 600 mld dlr
nel 2004
14
Ottobre 2003
15:33 Roma
(ANSA-BLOOMBERG)
Il
deficit di bilancio Usa raggiungerà la cifra record di 600 miliardi di dollari
nel
2004, a
causa dell'aumento delle spese per l'Iraq e la proposta caldeggiata da ambo gli
schieramenti per le imminenti presidenziali di maggiori sgravi alle spese
sanitarie.
Lo
scenario di un buco delle finanze pubbliche che supera di 125 miliardi le
attuali previsioni dell'amministrazione Bush viene da Merrill Lynch e altre
banche d'affari cui compete la vendita dei titoli di stato. Il grido d'allarme
sulla voragine del deficit già è stato levato al Congresso da esponenti di
entrambi gli schieramenti: si punta il dito sull'allentamento della
disciplina fiscale e sull'aumento della spesa. "Quando si devono affrontare
gli argomenti del budget e della spesa, il Congresso pensa più o meno in questa
maniera: non metterò mai il bikini, così posso mangiare un altro pezzo di
torta" - osserva Christopher Cox, presidente della Republican House Policy
Committee.
Le
stime degli economisti delle 22 banche d'affari che trattano i titoli di stato
non sono mai riuscite quest'anno a risultare in sintonia con quelle del governo:
a maggio avevano previsto un deficit di 373 miliardi di dollari per il 2003
contro i 304 miliardi stimati dalla Casa Bianca. A luglio, invece, gli
economisti avevano osservato che le stime di un disavanzo 2003 di 455 miliardi
di dollari da parte dell'amministrazione Bush erano eccessive, almeno di 20
miliardi di dollari. "Un maggiore
costo del capitale significa meno investimenti, minor produzione e minore
produttività, l'economia è destinata a soffrire nel lungo termine se questo
genere di deficit (anche quello commerciale) persiste", osserva Ian Morris,
capoeconomista di Hsbc che arriva da parte sua a stimare un deficit di
630 miliardi di dollari nel 2004. Per Morris, lo
scenario prossimo è inoltre quello di un rialzo dei tassi di intesse. Il
rosso che affligge le casse Usa potrebbe migliorare attraverso una sostanziale
riduzione della spesa, "ma sembra una cosa molto difficile da
raggiungere", osserva l'economista di Merrill Lynch, David Rosenberg.
Un
deficit di 600 miliardi di dollari, che come cifra rappresenterebbe un record,
equivarrebbe a circa il 5,3% del pil, sotto comunque il record del 6% raggiunto
nel 1983. "I deficit generalmente sono un ostacolo all'economia quando
persistono oltre il limite del 3% del pil", osserva
Morris Giusto un anno fa, l'amministrazione Bush aveva detto che gli Usa
sarebbero tornati al surplus per il 2005. Ora, invece, il governo pensa a
tagliare metà del deficit entro il 2008. Nel settembre 2002, nessun
economista riteneva che ciò sarebbe stato possibile e alcuni dissero che le
casse non sarebbero tornare in nero prima del 2010. E c'é chi sostiene, ora,
che un ritorno al surplus è un'impresa impossibile. Per le banche che vendono
titoli di stato, la previsione media relativa al prossimo anno è ora di un
deficit di 524 miliardi di dollari, il che rappresenta una crescita dell'11%
rispetto alla stima di 471 miliardi di luglio. Solo
Banc of America Securities non ha rialzato la sua stima, tenendola ferma a 510
miliardi di dollari, ritenendo che la ripresa economica darà slancio al gettito
fiscale.

14 Ottobre 2003
15:33 Roma
(ANSA-BLOOMBERG)
mercoledì 01
ottobre 2003
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giovedì 02
ottobre 2003
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Il
commento
dello
Studio C.F.A.
A nostro avviso la valuta USA è entrata in una crisi strutturale in
parte voluta dall'amministrazione Bush e in parte indesiderata. Siamo
convinti che alterare in questo modo artificioso il valore di una moneta
sia un'azione scellerata che in futuro presenterà un conto salato.
o |
Rimini
01 Ottobre 2003...
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Dollaro debole fine di
un era
11
Ottobre 2003
17:12
Lugano
(di
Alfonso Tuor)
Molti
ritengono che la debolezza del dollaro sia unicamente un fenomeno temporaneo
proprio di ogni moneta che alterna sui mercati dei cambi, per svariati motivi,
periodi di forza a periodi di debolezza. Questa chiave di
interpretazione, oggi sicuramente predominante, addebita l’attuale calo del
valore del dollaro ad una politica
deliberatamente voluta da Washington con l’obiettivo, da un canto, di
rafforzare la ripresa statunitense e, dall’altro, di ridurre il preoccupante
disavanzo commerciale che ormai supera il 5% dell’intero Pil statunitense.
Quindi,
la caduta del dollaro, per quanto dolorosa possa essere, non è che un sintomo
di una fase congiunturale dell’economia mondiale, durante la quale gli
Stati Uniti fanno pagare al resto del mondo il costo di aver vissuto negli
ultimi anni al di sopra dei loro mezzi in base al principio, caro a Washington,
secondo cui «il dollaro è la nostra valuta, ma è il vostro problema».
E in effetti il calo del valore del
dollaro si traduce in un deprezzamento del valore dei crediti concessi dagli
stranieri a Washington e, quindi, in un trasferimento dei costi a carico di
coloro che comprando obbligazioni, azioni americane o investendo negli Stati
Uniti hanno di fatto finanziato il disavanzo americano.
Secondo
alcuni, il problema non esiste neppure, poiché se la ripresa americana si
confermerà forte, riprenderanno ad affluire negli Stati Uniti enormi quantità
di capitali stranieri, che permetteranno di continuare a finanziare il
disavanzo commerciale statunitense producendo addirittura il risultato di far
salire il valore del biglietto verde. Insomma in soldoni, nulla di nuovo sotto
il sole.
Questa
chiave di lettura rischia di trascurare alcuni fenomeni strutturali che fanno
ritenere che, al di là degli aspetti congiunturali, stiamo molto probabilmente
assistendo al progressivo sgretolamento di un sistema monetario internazionale
fondato sul dollaro. Molti
fattori inducono a ritenere che non stiamo solo assistendo al calo del valore
del dollaro, ma al declino dell’egemonia della valuta statunitense.
Innanzitutto, il calo del dollaro non è un fenomeno degli ultimi mesi, ma degli
ultimi trent’anni.
Infatti,
dall’inizio degli anni Settanta, quando la dichiarazione di Nixon di
inconvertibilità del dollaro in oro ci ha fatto entrare nell’era dei cambi
flessibili, il dollaro si è mosso in un’unica direzione, ossia al ribasso,
all’interno di un canale discendente, in cui ha stabilito massimi e minimi
sempre decrescenti. La debolezza del dollaro è dunque un fenomeno strutturale
che periodicamente viene oscurato da rimbalzi del biglietto verde, che comunque
non hanno mai avuto la forza di far salire il valore della moneta americana al
di sopra del livello massimo raggiunto nella precedente fase di ascesa.
In
secondo luogo, il declino dell’egemonia del dollaro è dovuto alla perdita di
peso relativo dell’economia statunitense a causa della crescita
dell’economia europea e al crescente peso di quelle asiatiche. Quindi,
il dollaro è passato da una situazione di incontrastata egemonia ad una realtà
in cui deve fare i conti con la
concorrenza di almeno un’altra moneta (l’euro) e mezzo (ossia lo yuan
cinese). E questo
cambiamento comincia a pesare, poiché molti paesi arabi si sono messi ad usare
l’euro quale strumento di pagamento e perché ora anche
la Russia
di Putin sembra intenzionata a definire in euro il prezzo del petrolio, ossia
della principale materia prima del mondo.
Il
terzo motivo è che è andato in frantumi il paradigma economico e politico su
cui gli Stati Uniti hanno cercato nell’era dei cambi flessibili di ridefinire
la loro leadership economica e finanziaria. Esso consisteva nel fare degli Stati
Uniti, e in particolare di Wall Street, il centro nevralgico del sistema
finanziario internazionale capace di attrarre i capitali di tutto il mondo e,
quindi, in grado di finanziare il disavanzo americano e nel contempo di dirigere
i flussi internazionali dei capitali. In contropartita dell’afflusso di
una buona parte dei risparmi del resto del mondo, gli Stati Uniti si erano
assunti il ruolo del «consumatore di ultima istanza dell’economia mondiale»
con il risultato di diventare l’unica vera locomotiva dell’economia mondiale
(secondo l’FMI, il contributo americano alla crescita mondiale è stato negli
ultimi anni superiore al 75%).
Il
crollo delle borse ha inferto un duro colpo a questo modello di sviluppo «americanocentrico»
e ha riportato all’ordine del giorno la questione del dollaro. Infatti,
l’inaridirsi degli afflussi di capitali stranieri non si è tradotto in una
rovinosa caduta del valore del dollaro, poiché è stato per il momento
parzialmente compensato dagli acquisti di dollari da parte delle banche centrali
dei paesi asiatici, ma questi interventi non sono bastati per far diminuire le
preoccupazioni sulla sostenibilità del deficit commerciale americano e del suo
crescente debito estero.
Sui
mercati dei cambi si stanno giocando contemporaneamente due partite tra loro
strettamente intrecciate. La prima consiste nello stabilire quali paesi e in che
misura dovranno pagare il risanamento degli squilibri americani. La seconda
partita è se il riassorbimento di questi squilibri potrà essere concordato
oppure, come sembra, sarà il frutto di forti strappi e, quindi, se la crisi del
modello su cui si è fondata l’economia negli ultimi anni sarà superata
attraverso uno sforzo congiunto dei Grandi del mondo oppure se sfocerà, come
sembra oggi molto probabile, in una nuova forma di protezionismo attraverso la
formazione di grandi blocchi economici e commerciali regionali.
Per
questi motivi le convulsioni attuali del dollaro devono essere viste come
l’espressione di una crisi del paradigma economico e politico dominante negli
anni Novanta e anche come la dimostrazione che non è ancora finita l’opera di
pulizia dei mercati finanziari iniziata nel marzo del 2000. All’appello
manca ancora lo scoppio della bolla del dollaro, che era parte integrante e
fondamentale di quell’euforia.

Corriere del Ticino
PIL USA
FORTISSIMO QUASI
ASIATICO
America
cresce a tassi di sviluppo cinesi. E il mercato finanziario tira un
sospiro di sollievo. Il Prodotto Interno Lordo Usa - un dato che
rappresenta il valore totale di tutti i beni e servizi prodotti nella
nazione - relativo al terzo trimestre del
2003 ha
registrato un aumento del 7,2%. Si
tratta della piu' forte crescita dell'economia americana dal primo
trimestre 1984, ed e' di gran lunga superiore alle aspettative del
consensus.
New
York 30/10/2003 14:30
(WSI)
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venerdì
31 ottobre 2003
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o |
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|
Il
commento
dello
Studio C.F.A.
Nell'ultimo
triennio la crescita USA si è attestata intorno al 3% annuo; Come
mai adesso viaggia al 7,2% ? Stando a questo sorprendente dato sembra
che la cura da "cavallo" somministrata all'economia da
Greenspan e Bush stia ottenendo gli effetti sperati. Secondo noi
un cavallo "dopato" prima o poi viene squalificato o collassa.
Speriamo che questo non accada anche a livello economico perchè se ciò
accadesse ne subiremmo tutti le conseguenze.
|
Bolla
Bush
14
Ottobre 2003
17,44
NEW YORK
(di
Paolo Pontoriere)
Tassi
calanti e Borse in ripresa stanno tonificando l´economia americana e ridando
smalto alla comunità finanziaria. Il mercato delle fusioni e acquisizioni si
risveglia. Gli investitori che si erano rifugiati nei Treasury bond ricominciano
a dare la caccia alle buone occasioni dei listini. Gli executive delle grandi
società riaprono il capitolo degli investimenti futuri.
Dopo
tante false partenze, è insomma arrivato il momento della svolta? Abbiamo
raccolto il parere di Felix G. Rohatyn, che fa parte del consiglio d´amministrazione
del Center for Strategic and International Studies, è analista del Council on
Foreign Relations e dell´American Academy of Arts and Sciences.
Soprattutto,
questo viennese nato nel 1928 è famoso per aver guidato la banca Lazard a New
York tra gli anni Settanta e Ottanta e aver risanato, come amministratore
delegato delle municipalizzate di New York, il bilancio della metropoli. L´ex
presidente Bill Clinton lo inviò come ambasciatore a Parigi. Oggi dirige
la Rohatyn Associates
, con la quale continua a esercitare la sua
consulenza in campo internazionale.
Alcuni
economisti ritengono che la ripresa è dietro l´angolo. Lei cosa ne pensa: è
tempo di stappare lo champagne?
"Starei
attento a farmi prendere dall´entusiasmo. Ogni mese un nuovo oracolo ci
dice che l´economia si sta riprendendo dal suo collasso, ma la previsione
puntualmente non si realizza. È come se
l´economia stesse girando in folle, e Wall Street rischia di fare il passo più
lungo della gamba. Ma se si osservano i dati relativi alla
disoccupazione, non sono per niente incoraggianti. È vero che si tende ad
accreditare l´idea che la ripresa dell´occupazione saltuaria preannunci quella
delle assunzioni stabili. Ma in questo caso, con una disoccupazione ai massimi
degli ultimi nove anni (in alcune aree raggiunge il 7 per cento), ci vuole ben
altro che qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro a termine. Poi,
questa ripresa degli investimenti io non l´ho ancora vista: se c´è, è
abbastanza anemica. Tutto sommato
resto del parere che l´economia è in un preoccupante stato di fluidità".
Alcuni
fenomeni in atto, come per esempio la decisione della Microsoft di porre fine
alla pratica di distribuire stock option ai dirigenti o anche quello di
rafforzare le regole di controllo per la compilazione dei bilanci, segnalano che
il clima aziendale in America è cambiato. È un messaggio che il capitalismo
americano è pronto a girare pagina: non crede che questo si rifletterà
positivamente sull´andamento dell´economia?
"Si
tratta certo di iniziative positive. Io ho sempre sostenuto che le aziende
dovessero assegnare azioni agli impiegati piuttosto che stock option. Quanto
alla questione della governance aziendale e della trasparenza dei conti, è bene
che venga esaminata con maggiore attenzione, visto che esistono ancora problemi,
basta guardare il crack delle assicurazioni HealthSouth in Alabama. L´emergenza
non è finita. E come dimostra l´andamento del mercato, la gente è
ancora preoccupata dagli abusi fatti compilando i bilanci. Ma
non c´è solo il versante aziendale: lo stato di crisi degli enti locali, Stati
e Comuni, è un altro fattore di indebolimento dell´economia. Il deficit degli
enti locali quest´anno supererà i 100 miliardi di dollari. L´effetto di
questo buco non si fa sentire solo sulle dinamiche economiche ma anche su quelle
sociali".
E
questo non rischia di annullare i benefici potenziali del taglio delle tasse
deciso da Bush?
"Sì.
Prenda New York: sono stati appena approvati tre aumenti delle tasse e tagliato
il finanziamento dell´assistenza pubblica. E la situazione di New York non è
unica.
La
California
ha un disavanzo di oltre trenta miliardi di dollari. Questo, checché se ne
dica, è un forte fattore di rallentamento dell´economia".
Ci
sono però tipi d´investimento come quello degli hedge fund e delle
obbligazioni a tasso fisso, come quelle del Tesoro e degli enti locali, che
registrano una forte crescita. Presentano dei rischi? Dobbiamo aspettarci
lo scoppio di qualche altra forma di bolla?
"Gli
hedge fund vanno affrontati con cautela. Non solo per l´investitore singolo,
che può guadagnare molto ma anche perdere tutto e facilmente, ma soprattutto
per l´andamento dell´economia in generale. Il crollo di alcuni di questi fondi
potrebbe, come è già accaduto in passato, mettere in difficoltà l´intera
economia nazionale. Il mercato delle obbligazioni riflette invece la
politica dei tassi di interesse della Fed. Se i tassi restano bassi i buoni del
Tesoro si comportano bene. Se l´interesse sale, è ovvio che le obbligazioni ne
soffrono. Per adesso la situazione sembra giocare a loro favore. Domani, chissà.
La maggioranza degli economisti è così
confusa che non sa se aspettarsi la crescita dell´inflazione o l´arrivo della
deflazione. Siamo in presenza d´una situazione economica tra le più complesse
della storia, almeno di quella che ho vissuto io".
Non
crede che il governo dovrebbe prendere il timone dell´economia e dirigerla
verso la ripresa con una politica di investimenti pubblici? L´amministrazione
Bush preferisce invece adottare misure economiche che dirottano i fondi pubblici
nelle mani della grande industria privata. È una strategia che paga?
"Questa
amministrazione non fa nessun mistero di credere che la via della ripresa passa
esclusivamente attraverso riduzioni fiscali che avvantaggiano solo i più ricchi
del paese. Che si tratti di riduzioni del carico fiscale sui redditi o di
eliminazione delle tasse sui dividendi, o di eliminare la tassa di successione
sulle eredità, la ricetta è sempre la stessa: prendere il denaro pubblico e
metterlo nelle tasche dei più ricchi. Personalmente
non credo che si tratti di una strategia che pagherà e fino a ora i risultati
sono stati molto deboli. Il governo federale farebbe meglio ad aiutare
gli enti locali a risolvere i loro problemi economici lanciando casomai anche
programmi di investimento pubblico per la creazione di nuove infrastrutture e
partnership con le aziende private".
Dobbiamo
allora desumere che lei è contrario all´idea di investire i fondi della
previdenza sociale nel mercato azionario, come vuole invece fare Bush, e all´ipotesi
di costringere i programmi pubblici d´assistenza medica a competere con le
assicurazioni private?
"Non
c´è alcun dubbio che il settore privato debba predominare nell´economia, ma
questo non significa che deve diventare l´unico settore sovvenzionato dall´investimento
governativo. La nostra economia sta
diventando pericolosamente squilibrata e il governo sta assumendo un rischio
enorme sul nostro bilancio perché può creare in prospettiva un aumento dell´inflazione
che sarà difficile gestire. E che può ripercuotersi negativamente anche sulla
libertà degli scambi".
In
che senso?
"Si
parla sempre più spesso di deflazione, negli Stati Uniti e in Europa. Se questa
è la strada su cui si avvia l´economia, bisogna domandarsi come reagiranno i
vari governi alla crescente quantità di prodotti cinesi e indiani che si
riversano sul nostro mercato e su quello europeo. Dal momento che la
disoccupazione continua a crescere, la questione aperta dall´arrivo di prodotti
da questi paesi diventa più pressante".
Intende
dire che qualcuno invocherà presto politiche protezioniste?
"Intendo
dire che diventerà una questione politica alle prossime presidenziali. L´altro
giorno
la Walmart
ha realizzato una svendita di apparecchi
televisivi: in un giorno solo ha venduto un miliardo di dollari di televisori
cinesi. I costruttori statunitensi ovviamente sono andati su tutte le furie, si
domandano come sia possibile che si perdano tanti posti di lavoro in favore dei
cinesi".
Ma
non è questo lo spirito della libera impresa capitalistica?
"C´è
concorrenza e concorrenza. Nel caso cinese bisogna prendere in esame la politica
monetaria di quel paese. Mantenere lo yuan forzatamente basso rispetto al
dollaro è nei fatti una forma di sovvenzione che il governo cinese dà ai
propri prodotti nazionali. E visto che le sovvenzioni per gli stessi
prodotti in America è stata eliminata, mi pare alquanto scorretto. Mi pare di
capire che il cancelliere tedesco Gerhard Schröder stia spingendo
la Banca
centrale europea a riesaminare i tassi di
cambio euro-dollaro".
Lei
vede all´orizzonte guerre monetarie?
"L´amministrazione
Bush sull´andamento del dollaro parla con lingua biforcuta. Il
presidente dice di volere un dollaro forte e il ministro del Tesoro fa di tutto
per tenerlo debole. Nel breve periodo può
anche sembrare una strategia produttiva, perché i prodotti americani diventano
più competitivi. Io penso che sia una scelta miope. Non è possibile essere un
paese forte e avere una moneta debole, soprattutto alla luce del fatto che gli
Stati Uniti per finanziare la loro bilancia dei pagamenti hanno bisogno ogni
giorno di un afflusso dall´estero di un miliardo e mezzo di dollari".
Crede
che la decisione della Microsoft di di-stribuire dividendi segnali la fine della
politica del rafforzamento dell'azienda e l'inizio d'una stagione di spesa?
"
La Microsoft
ha una tale liquidità che dieci miliardi di
dollari spesi in dividendi non fanno nessuna differenza. Quello che mi pare
importante è invece la decisione di politica aziendale presa dalla Microsoft:
un segnale chiaro che la distribuzione dei dividendi diventerà abituale e che
questo non impedirà di promuovere acquisti futuri che siano basati sull'emissione
di nuove azioni o sullo scambio di pacchetti azionari".
Crede
che altri seguiranno l'esempio di Bill Gates?
"Visto
lo sgravio fiscale dei dividendi, mi pare che la cosa diventi più attraente sia
per la società, perché il suo titolo aumenta di valore, che per il
beneficiario".
Quanto
all'affidabilità dei bilanci aziendali: è cambiato qualcosa?
"Mi
pare che i consigli di amministrazione prestino adesso più attenzione agli
affari dell'impresa. Hanno tutti insediato un comitato di controllori dei conti,
si preoccupano della loro indipendenza e dei rapporti con gli analisti delle
banche di investimento. Dei cambiamenti
sono in corso. Se questo non avvenisse, la stessa sopravvivenza del capitalismo
verrebbe messa in discussione. Non si tratta di buona volontà aziendale ma di
una inevitabile necessità".
Lei
ha detto che gli operatori di Borsa stanno mettendo il carro davanti ai buoi e
che i titoli azionari sono sopravvalutati. Ma a guardare la
biotecnologia, la farmaceutica e in generale i titoli quotati al Nasdaq, bisogna
riconoscere che ci sono settori che vivono una situazione euforica. Si sta
preparando un´altra bolla o si tratta di valori reali?
"Sebbene
abbiano perso un sacco di soldi nell´ultima bolla, gli investitori sono
convinti che ci sarà un nuovo boom e non vogliono perdere l´occasione,
soprattutto in settori ad alto rendimento come la tecnologia. È a questo che si
deve l´entusiasmo borsistico delle ultime settimane. Consideri che una quantità
enorme di denaro è rimasta bloccata in veicoli finanziari che producono poco più
dell´un per cento annuo. Gli investitori stanno mordendo il freno da un annetto
e non vedono l´ora di far fruttare queste risorse. Penso però che abbiano
anticipato i tempi".
Si
dice che in periodo elettorale se l´economia si comporta bene, il presidente in
carica viene rieletto, se va male perde le elezioni. Alla luce di quello che sta
accadendo all´economia americana, come se la caverà Bush nel 2004?
"Nel
caso di Bush credo che sarà più importante quello che succederà in Iraq. Ciò
detto, il denaro che il governo ha pompato nelle tasche dei privati finirà col
produrre un´impressione di crescita economica e i suoi segni più evidenti si
manifesteranno proprio a ridosso delle elezioni. In quella fase i tagli
delle tasse, la svalutazione del dollaro e la riduzione dei tassi di interesse
determineranno una situazione di liquidità diffusa nel paese. Non
durerà a lungo però, perché quello che manca sono le iniziative strutturali,
quelle che nel lungo periodo producono occupazione e crescita economica
duratura. Si tratterà di un fuoco di paglia. A cui seguirà un´ulteriore
contrazione della crescita del paese".

L'Espresso
Borsa, il lungo rialzo
deve fermarsi
21
Ottobre 2003
14:19
MILANO (di Giuseppe Turani)
Spiace
per quei lettori che scrivono e che vorrebbero buone notizie. Nel senso che
vorrebbero che qui gli si spiegasse come e perché i listini possono salire
ancora del 20-30 per cento o anche di più. Ma la situazione di questi ultimi
giorni sembra andare nella direzione opposta. Anche
i più ottimisti, ormai, si riferiscono a questo mercato con l'espressione che
"il meglio del meglio del meglio lo abbiamo già visto". Insomma,
abbiamo visto innescarsi una potente ripresa economica americana, abbiamo
visto aziende che ci eravamo abituati a considerare in crisi da anni rialzare
finalmente la testa e annunciare nuovi utili e, in qualche caso, anche aumenti
di fatturato. Abbiamo visto, soprattutto, un aumento impressionante dei listini
(il Nasdaq dai minimi ha fatto intorno al 60 per cento in più in un paio di
trimestri). Che cosa altro si può volere? Una ripetizione della stagione
1999-2000
? Magari anche con relativo crack finale?
E
infatti anche gli operatori più
ottimisti, a questo punto, si augurano che i mercati facciano quello che ogni
tanto mostrano di voler fare: e cioè calmarsi e retrocedere. D'altra
parte, questa retrocessione, questa correzione, limatura o arretramento, era
atteso già ai primi di agosto. Ma il Toro, nonostante il caldo, decise di
correre comunque e di sorprendere tutti. Allora, al ritorno dalle vacanze, tutti
dissero: ci siamo, adesso si va in correzione, insomma si arretra. Ma anche
settembre mandò delusi quelli che ritenevano saggia e utile una pausa, una fase
di stop, un momento di riflessione. Adesso
siamo a metà ottobre e la pausa di ripensamento non l'ha ancora vista nessuno.
Deve dicono analisi grafici e broker con la testa sulle spalle deve
assolutamente arrivare nella seconda metà di ottobre, cioè a partire da oggi.
Ma, mentre lo dicono, sanno anche che la probabilità di essere smentiti è
molto elevata. D'altra parte, se il Toro ha continuato a correre in agosto, in
settembre e in ottobre contro il parere di tutti, perché dovrebbe fermarsi
nella seconda metà di ottobre? Dove sta scritto?
Eppure
le ragioni per questa frenata, a partire da oggi, da subito, non mancherebbero.
1-
La prima è di carattere psico-fisico.
Dopo una corsa molto sostenuta che è cominciata a marzo, uno stop per farsi una
birretta o una tavola di cioccolata verrebbe in mente a chiunque. Perché
non dovrebbe decidere in questo senso anche questo Toro?
2-
Le altre due sono molto più serie. La
prima è di carattere molto congiunturale. Nel terzo trimestre di quest'anno
l'economia americana ha fatto una gran corsa (ha avuto anche lei il suo Toro),
grazie a una concentrazione di fattori forse irripetibili. E' andata su di quasi
il 6 per cento, ma nessuno si illude che l'evento possa ripetersi. Il potenziale
di crescita dell'economia americana è intorno al 4 per cento. E
è lì che nei prossimi mesi si assesterà, dicono tutti. Quindi tanto i
consumatori quanto le imprese dovranno darsi una calmata.
3-
La seconda ragione è più complessa e
meno ovvia da individuare e da valutare. Si tratta, per essere chiari, della
credibilità della ripresa americana. Se
qualche giorno fa erano stati gli economisti della Hsbc a dire che questa
ripresa è soltanto un momento particolare dentro un trend di recessione (che
dovrebbe quindi ritornare nel 2004), adesso anche il capo economista del Credit
Suisse First Boston, Alois Bischofberger, sostiene la stessa tesi. Nel
2003 si sono concentrati motivi particolari, ma
è evidente che l'economia americana soffre ancora di troppi squilibri e di
troppi problemi per andare davvero in ripresa in modo stabile e continuativo.
E, se le cose dovessero stare davvero
così, allora il rialzo di Borsa 2003 sarebbe stato una specie di rondine che
non fa primavera. Una bellissima rondine, peraltro. Ma destinata a
sparire nell'azzurro dei cieli per tornare chissà quando.

21
Ottobre 2003
14:19
MILANO (di Giuseppe Turani)
Mercati
azionari:
Warren
Buffet preferisce restare liquido
28
Ottobre 2003
08:00 ANSA
(di
Luca Spoldi)
Warren
Buffett vede poche occasioni di investimento al momento e preferisce mantenere
elevata la liquidità del fondo gestito dalla sua holding finanziaria Berkshire
Hathaway. Così il celebre gestore, intervistato la scorsa settimana dal
settimanale britannico Barron’s, spiega che egli non trova particolarmente
attraente, al momento attuale, né il mercato azionario, né quello
obbligazionario o dei debiti ad alto rischio.
“Abbiamo più liquidità che idee”
ammette il gestore, dall’alto dei suoi 24 miliardi di dollari di patrimonio
gestito. Il gestore, che è anche l’amministratore delegato della
Berkshire Hathaway, spiega a Barron’s che non trova particolarmente attraenti
i rendimenti ottenibili attualmente da investimenti in azioni, obbligazioni o
titoli ad elevato rischio di credito (i cosidetti “titoli spazzatura” o
“junk bond”).
Il problema, spiega il gestore, è cosa
fare a medio e lungo termine: dopo aver venduto titoli a lungo termine del
Tesoro americano per 9 miliardi di dollari in estate, non sarebbe infatti
particolarmente interessante ricomparli a questi livelli. Tra i rimpianti
del gestore, semmai, vi è quello di non aver provveduto a liquidare anche gli
investimenti in titoli azionari di grandi corporation a stelle e strisce come
Coca Cola o Gillette allorchè, sul finire degli anni ‘90, tali titoli erano
ai loro massimi storici.
Una vendita peraltro resa difficile dal fatto che, sedendo egli all’epoca nei
consigli di entrambe le società, avrebbe rischiato un “cartellino rosso”
per insider trading. Un altro peccato veniale, ammette Buffet, è stato non aver
acquisito, qualche anno fa, le azioni di Wal-Mart Stores , ritenendoli
sopravvalutati. Un errore di valutazione che ora Buffet stima in 8 miliardi di
dollari di mancati guadagni, dato che dall’epoca Wal-Mart si è ulteriormente
apprezzata in Borsa.
Quanto al prossimo futuro il gestore appare ancora fiducioso nei ritorni che
saranno in grado di generare le posizioni assunte in compagnie assicurative del
calibro di Geico e General Re, che costituiscono attualmente la parte
preponderante del portafoglio azionario della Berkshire Hathaway. Una fiducia
che non lo esime da fare i suoi complimenti ai concorrenti diretti delle sue
controllate, Progressive e Mercury General , per i risultati ottenuti in questi
ultimi trimestri.
28
Ottobre 2003
08:00 ANSA
(di
Luca Spoldi)
Buffett
pessimista su dollaro, compra altre valute
28
Ottobre 2003
13,35
(ANSA-BLOOMBERG)
Warren
Buffett, il guru della finanza statunitense cui fa capo la società finanziaria
Berkshire Hathaway, è pessimista sulle sorti del dollaro, al punto che da un
anno e mezzo a questa parte ha investito in altre valute, preoccupato sopratutto
dall' andamento del deficit commerciale Usa.
In
una lettera pubblicata sul sito Fortune.com, Buffett scrive infatti che "il
nostro disavanzo commerciale è fortemente peggiorato, al punto che il valore
netto del nostro Paese, per così dire, si sta adesso trasferendo all' estero,
in misura allarmante".
Buffett
peraltro ha evitato di precisare l' ammontare degli investimenti fatti in valute
diverse dal dollaro né le divise verso cui Berkshire si è indirizzato. Il
guru della finanza, in ogni caso, prima della primavera dello scorso anno non
aveva mai investito in monete diverse dal dollaro.
Nella
stessa comunicazione al sito Fortune.com, Buffett auspica anche il varo di un
piano tariffario in grado di contenere le importazioni e favorire l' export
dagli Stati Uniti. Il disavanzo commerciale statunitense nei primi otto mesi del
2003 è volato alla cifra-record di 324,4 miliardi di dollari, contro i 265,3
mld del corrispondente periodo del 2002.
Buffett
peraltro aggiunge: "sia come
americano che come investitore, oggi come oggi mi auguro che la nostra scelta si
riveli sbagliata". Infatti -
spiega - qualsiasi profitto che sia possibile ottenere da un investimento in
valute diverse dal dollaro, viene "controbilanciato dalle perdite della
nostra azienda e dei nostri azionisti, in altri aspetti della loro vita,
derivanti da un calo della quotazione" del biglietto verde.
28
Ottobre 2003
13,35
(ANSA-BLOOMBERG)
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