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Martedì 12
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21
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Il
doppio
deficit la polpetta avvelenata per Bernanke
7 Novembre 2005 11:18 -
Roma (di Eugenio Occorsio)
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«Tutti e quattro i precedenti capi della
Federal Reserve, Arthur Burns, William Miller, Paul Volcker e Alan Greenspan,
sono stati subito, appena messo piede nell’ufficio, chiamati a misurarsi con
problemi per i quali non erano preparati. Burns si trovò con un’inflazione
impazzita, Miller dovette fronteggiare un crollo del dollaro, Volcker una
dura recessione e Greenspan la caduta delle azioni del 1987. Bene, io credo
che un destino analogo attenda Ben
Bernanke: dovrà fronteggiare un’emergenza per la quale non è preparato».
Stephen Roach, capo economista della Morgan Stanley, uno degli
analisti e dei Fed watchers più prestigiosi del mondo (tra l’altro alla Fed
ha anche lavorato), invita a temperare gli entusiasmi, e ci spiega quale
sarà quest’emergenza: «Bernanke
puntualizza è famoso per la sua conoscenza e la sua attenzione sui temi
dell’inflazione, ed è stato scelto da Bush proprio perché si pensa
che l’inflazione sarà il maggior problema dei prossimi anni. Io credo che la
realtà sarà molto diversa:
l’inflazione non è né sarà un problema, la vera questione che esploderà fra
le mani del prossimo presidente della Fed sarà la crisi dei conti pubblici
americani».
Bè, veramente Bernanke ha fama di solido
economista in senso lato, possibile che andrà nel panico per una questione
imprevista? «Senta, io sono 33 anni che seguo la Fed, e tutte le volte mi è
capitato di dover assistere con palpitazione alle difficoltà di un
presidente, prestigioso quanto si vuole, alle prese con un problema per cui
era impreparato. Poi, certo, se l’è cavata, ma le difficoltà per il paese
sono state molto forti. Ora, Bernanke arriva con le migliori credenziali. Il
suo pedigree è impeccabile, ha studiato e poi insegnato nelle migliori
università, i giornali accademici sono pieni dei suoi editoriali, è forse
l’economista più sofisticato oggi disponibile. Però ha scarsa esperienza sui
mercati ed è tutta da dimostrare la sua capacità di leadership
internazionale in circostanze eccezionali e, ripeto, impreviste».
Lei però è da tempo che ripete i
suoi allarmi sui conti pubblici, il deficit in effetti si aggrava di anno in
anno, però non succede niente...
«Proprio niente direi di no, dodici rialzi
consecutivi dei tassi le sembrano niente? Comunque, è vero, rischio di
ripetermi e di andare a finire come il ragazzo che gridava "al lupo, al
lupo". Per la precisione, sono quattro anni e mezzo che immancabilmente ad
ogni uscita pubblica mi sento ripetere: e allora?
Quando avremo questo drammatico
aggiustamento dovuto ai deficit americani e al loro finanziamento? Io resto
convinto che la situazione sia insostenibile. Anzi, quanto più a lungo si
tira avanti e il mondo deve sostenere un disequilibrio come l’attuale, e
tanto più aumentano i pericoli di una crisi globale e molto profonda.
Molti sono gli aspetti da tener presente: per esempio, in diversi paesi si
assiste ad una crescita economica interna, a partire dal Giappone ma anche
probabilmente in Germania, che finirà con l’assorbire risorse sottraendole
ad un mero investimento in attività denominate in dollari. E anche la Cina,
altra fondamentale ‘sostenitrice’, sarà sempre più orientata a stimolare i
consumi interni».
Per inciso, l’attuale situazione dei
prezzi petroliferi sta dando il suo contributo alle tensioni internazionali?
E quanto durerà? «Diciamo che sicuramente contribuisce all’inflazione, però
in misura contenuta e contenibile. Voglio dire che ha alzato di qualche
decimo di punto gli indici dei prezzi, ma assolutamente niente di
drammatico, e questo perché l’occidente è meno dipendente dal petrolio,
perché anche se costa caro ce n’è tantissimo, perché oggi l’industria non
dipende più dal manifatturiero ma dai servizi, e mille altri motivi. Per
tutto questo, dico che l’effetto maggiore è stato paradossalmente che ha
diffuso la paura, anzi il terrore, di un boom dell’inflazione. E questo è
ingiustificato. Per la seconda parte della sua domanda, quanto durerà il
rialzo, è veramente difficile da dire, dipende da mille fattori, dai
conflitti, dalle capacità di assorbimento dei paesi di nuova
industrializzazione, anche dal tempo che farà quest’inverno. In linea di
massima, potrei azzardare che il peggio è passato, e infatti i consumatori
americani hanno ricominciato subito a comprare appena i prezzi del petrolio
sono scesi un minimo, però è veramente difficile da dire. E poi il problema
per i consumatori americani non è che non comprano, è che pur di farlo
finiscono con l’indebitarsi oltre ogni ragione».
E qui veniamo al tema centrale.
Lei sostiene da anni che non è
possibile che l’America viva ‘a credito’, basandosi sul fronte dei conti
pubblici sul flusso di denaro che arriva dai grandi investitori stranieri,
soprattutto orientali, e sul fronte dei conti privati sui soldi che la gente
affannosamente prende in prestito. E’ sempre questo il problema?
«Certo, anzi come le dicevo è in
continuo peggioramento. Ma lo sa che il tasso di risparmio è arrivato
all’1,5 per cento del pil Usa, e che non è mai stato più basso? E che entro
l’anno prossimo, secondo i nostri calcoli, arriverà a zero? Ora, mi
dica se è sostenibile che un paese come l’America, il leader economico
mondiale, non riesca a risparmiare neanche un centesimo e che continui a
investire montagne di capitali presi a prestito dall’estero.
E le lascio solo immaginare cosa
accadrà se, come tutti gli economisti all'unanimità ormai indicano, il boom
immobiliare finirà fra poco e con esso si prosciugherà la possibilità per i
privati di rifinanziare continuamente il loro mutuo secondo il modello
diffusissimo in America. Ecco, su questo dovrebbero concentrarsi le
autorità monetarie, non su una paura dell’inflazione assolutamente
esagerata. Tutti si preparano alla battaglia come negli anni 70, quando si
andò a finire con la stagflazione, cioè recessione più inflazione, ma le
condizioni erano totalmente diverse».
Significa che Bernanke si prepara ad
affrontare battaglie nuove con metodi antichi? «Guardi, vuol dire
semplicemente che ci si dovrebbe concentrare su un problema preciso: qui sta
per scoppiare la madre di tutte le bolle speculative, quella dei conti
pubblici e privati insieme, perché c’è un mostruoso deficit dei pagamenti, e
lo scoppio sarà rafforzato dalla contemporanea crisi dei valori immobiliari.
E non bisogna fare errori come quelli che ha fatto Greenspan».
Greenspan? Il Maestro, come lo chiamano,
in italiano e con la maiuscola, i suoi connazionali?
«Sì, il Maestro. Ha di fatto
incoraggiato gli americani, tenendo i tassi incredibilmente bassi per un
periodo protratto di tempo, a non risparmiare più nulla, ed è come dicevo la
prima volta che il national savings rate finisce in negativo nella storia, o
almeno dal 1933 quando questi conteggi hanno cominciato ad essere fatti.
Parallelamente, con il deficit pubblico che è andato crescendo in modo
anch’esso incontrollato, la Fed ha dovuto fare equilibrismi finanziari per
attrarre capitali stranieri. Il capitolo finale di questa storia,
dell’America povera che vive da ricca, dev’essere ancora scritto, e lo sarà
sotto la nuova presidenza della Federal Reserve. La crescita economica del
paese, e con essa dell’occupazione, dello sviluppo, anche dei partner
occidentali, è appesa a questo filo sempre più sottile. Questa è la vera
sfida per Bernanke. Come se non bastasse, ora ci si è messa anche Katrina».
Katrina? L’uragano? «Guardi che i costi
della ricostruzione, anzi prima del cleaningup che è appena cominciato, sono
enormi. E anche pieni di incognite come il recupero della piena funzionalità
delle raffinerie petrolifere e dei terminal portuali. Abbiamo calcolato che
i costi finali, a carico per lo più delle amministrazioni federali e locali,
potrebbero costare fino a un punto di più nel rapporto deficitpil rispetto a
quanto oggi preventivato, si potrebbe cioè arrivare al 3,8% nel 2005».
Aumentano insomma le spese senza che a
questo corrispondano risorse interne adeguate. Fino a quando durerà? «Senta,
per non ricadere nella sindrome del richiamo "al lupo" le dico solo che il
deficit delle partite correnti, il più preoccupante fra i vari deficit di
cui stiamo parlando, nella prima metà del 2005 ha viaggiato sulla base di
una media annuale di 800 miliardi di dollari. Significa che attualmente
occorre che 3 miliardi di dollari per giorno lavorativo arrivino in America
dall’estero. Ora, visto anche le conseguenze di Katrina di cui parlavo, la
situazione è destinata a peggiorare. Per sostenere quest’afflusso serve una
solidissima fiducia nei confronti dell’America da parte del resto del mondo.
E tenere alta questa fiducia è il compito su cui dovrà concentrarsi Bernanke,
altro che l’inflazione. Altrimenti
ogni giorno rischiamo due cose: un crollo del dollaro, un crollo vero
intendo, e un correlato brusco rialzo dei tassi d’interesse, che a sua volta
ovviamente porterebbe ad una contrazione dell’economia. Mi pare evidente che
non possiamo continuare a fidarci solo della benevolenza degli stranieri».
Oltretutto, la benevolenza verso l’America non sembra un sentimento molto
diffuso nel mondo...
Fonte
- La Repubblica
USA: perchè la
locomotiva continua a correre
11
Novembre 2005 - Milano (di
Michele De Gaspari)
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Il temuto rallentamento
dell'economia mondiale a metà 2005 è stato più apparente che
effettivo, risultando da andamenti contrastanti tra le
maggiori aree geografiche e dai rischi legati al caro petrolio.
Il ritmo di crescita
annualizzato dei primi tre quarti del 2005 - di poco superiore al
3,5%, un dato vicino ai livelli potenziali - conferma, del resto, le
prospettive di espansione sempre sostenuta, trainata dai
consumi delle famiglie, che continuano a fornire il principale
contributo al processo di ripresa, peraltro più bilanciata da
qualche tempo tra le varie componenti della domanda. Un
significativo apporto viene anche dagli investimenti delle imprese
in macchinari e attrezzature, favoriti dalla buona performance dei
profitti aziendali e dagli incrementi di produttività. Segnali di
recupero si registrano, poi, nel settore manifatturiero, come
risulta dal discreto andamento della produzione industriale,
nonostante permanga un certo divario tra la capacità produttiva
utilizzata e quella potenziale.
Sul fronte dei conti con
l'estero, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti, attualmente
intorno al 6% del Pil nella parte corrente, non dà segni di rientro
e tende anzi a peggiorare, in contrasto con la fase ormai prolungata
di debolezza del dollaro. Il livello raggiunto in termini
assoluti e relativi, causato dal disavanzo della bilancia
commerciale, è senza dubbio poco sostenibile nel medio periodo; ma
una correzione del deficit, basata sugli effetti indotti dalle
variazioni del tasso di cambio, appare del tutto improbabile, perché
l'alto volume di importazioni è in gran parte dipendente dal forte
aumento delle delocalizzazioni di imprese manifatturiere. I flussi
in uscita di dollari per l'acquisto di beni prodotti all'estero
sono, infatti, molto superiori a quelli in entrata per la vendita
dei beni esportati (con un rapporto quasi di 2 a 1).
La situazione del mercato
del lavoro si conferma positiva nel suo complesso, nonostante la
relativa volatilità delle statistiche mensili e lo sfavorevole
impatto degli uragani Katrina e Rita. Sempre ai tre quarti di
quest'anno il tasso di disoccupazione si attesta al 5%, tornando sui
livelli più bassi degli ultimi quattro anni. Tra gennaio e ottobre
del 2005 sono stati creati, in particolare, circa un milione e mezzo
di nuovi posti di lavoro, a fronte dei 2,2 milioni nell'intero 2004,
con una dinamica sostanzialmente in linea a quella del Pil, pur
scontando un lieve rallentamento. I segnali di frenata messi in
evidenza dall'andamento dell'occupazione riguardano l'industria
manifatturiera più dei servizi e possono avere influito, inoltre,
sull'evoluzione del clima di fiducia delle famiglie, che ha
presentato di recente alcune incertezze, dopo una serie positiva
durata diversi mesi dall'inizio dello scorso anno alla metà del
2005.
La politica monetaria della
Federal Reserve sostiene uno scenario di questo tipo, con graduali
rialzi dei tassi d'interesse ufficiali, attualmente al 4,00%, al
fine di mantenere sotto controllo l'inflazione senza danneggiare la
crescita. Nell'arco di un anno e mezzo la Fed ha, dunque,
aumentato i tassi per dodici volte consecutive, ciascuna di un
quarto di punto, dal minimo storico dell'1% toccato nel giugno 2003
e confermato per un intero anno. Sensibili pressioni sui prezzi al
consumo (e alla produzione) si sono manifestate negli ultimi mesi,
ma esse vanno attribuite soprattutto ai rincari petroliferi, senza
seri rischi inflazionistici in prospettiva.
Un moderato raffreddamento
del ciclo congiunturale potrebbe indurre a una prossima interruzione
della manovra di rialzi in sequenza dei tassi d'interesse, condotta
dalla Fed nell'ultimo anno e mezzo e che dovrebbe portare il costo
del denaro verso il 4,5% entro il primo trimestre 2006, un
valore molto vicino al tasso d'interesse reale di lungo periodo. Le
ragioni di ulteriori interventi restrittivi sembrano destinate,
quindi, a venire meno ed è escluso che la manovra di politica
monetaria possa rincarare la dose, visto il livello dei tassi ormai
raggiunto.
Fonte -
Il Sole 24 Ore
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Club
dei gufi:
Stati Uniti a rischio recessione
18 Novembre 2005 -
Milano
(di Mariangela Tessa)
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Tira vento di
recessione negli Stati Uniti. Sebbene l’idea possa sembrare
strampalata, dopo che gli ultimi dati macroeconomici hanno mostrato
una crescita sostenuta con l’inflazione sotto controllo,
Joachim Fels, uno dei più
pessimisti tra gli esperti della banca d’affari americana Morgan
Staney, non esclude che l’economia americana possa registrare una
crescita negativa nel 2007.
Non solo. Le probabilità che
il Vecchio Continente possa seguirla a ruota sono altrettanto alte.
‘Gli economisti – scrive Fels – sono assai reticenti nel
prevedere la recessione. Uno, perché non esiste un’unanimità su
quali siano gli indicatori più attendibili nell’anticipare una
crescita negativa del Pil. Due, perché la recessione è un evento
assai raro. Negli ultimi 60 anni, l’economia americana è andata in
recessione solo nove volte”.
Secondo Fels l’indicatore
che più di ogni altro è in grado di anticipare la recessione è
l’inclinazione della curva dei rendimenti. "Il mercato dei bond Usa
sta già flirtando con questa idea" è scritto nel report dal titolo:
"la recessione del 2007". Le indicazioni arrivano dal progressivo
appiattimento delle curva dei rendimenti Usa che prelude
all'inversione della stessa (rendimenti a breve maggiori di
quelli a lunga), tipica situazione che anticipa la contrazione
economica". Questo vuol dire che l’anno prossimo in questo periodo o
al massimo agli inizi del 2007 potremmo vedere il Pil della
locomotiva Usa scivolare in territorio negativo. Inutile dire, che
se le previsioni sull’America dovessero rivelarsi giuste le
prospettive di ripresa per l’Europa svanirebbero immediatamente. Per
il gufo di Morgan Stanley, per quanto inferiori, le possibilità che
anche il Vecchio Continente segua il destino dell’economia a stelle
e strisce sono numerose. E potrebbero aumentare in una prospettiva
di inasprimento delle politiche fiscali in Germania e Italia nel
2007 e con l'aumento dei tassi di interesse da parte della Bce. A
quel punto - conclude l'economista - l'unica cosa saggia che il
nuovo governatore della Fed Ben Bernanke potrebbe fare è abbassare
nuovamente i tassi, che tra un anno saranno con molte probabilità al
4,75%.
Fonte - La Lettera Finanziaria per
WallStreetItalia.com
Giovedì 18
novembre 2005 |
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In fuga
dal Presidente
16 Novembre 2005 9:46
Washington (di Vittorio Zucconi)
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Resuscitati dall´elisir miracoloso dei sondaggi, che condannano Bush a una
impopolarità ormai plebiscitaria (65 per cento) e terrorizzati dal timore di
perdere il loro bene più prezioso, il seggio, anche i parlamentari, il
Congresso, cominciano a scuotersi, dopo i media già in via di risveglio, dal
coma morale e politico indotto dalla «guerra al terrore».
Mentre Bush vola lontano, in un´Asia che
gli rimprovera la fissazione ossessiva con l´Iraq e l´ignoranza del resto
del mondo, in rapida successione democratici e repubblicani approvano
insieme, fusi nella «bipartisanship» della paura del castigo elettorale per
chi sia visto come troppo allineato dietro Bush, una risoluzione per
chiedere alla Casa Bianca di presentarsi regolarmente a spiegare le proprie
azioni e i propri piani; domandando che il 2006 sia l´anno della «irachizzazione»
definitiva con chiare prospettive di ritiro delle truppe; e restituiscono
qualche diritto civile ai "desparecidos" di Guantanamo, vergognosamente
detenuti senza incriminazioni e ormai senza alcun valore di intelligence;
difendono l´emendamento anti-tortura voluto dal senatore repubblicano McCain
dalle minacce di veto della presidenza. E si prepara a lanciare la "fase 2"
di quella lacunosa inchiesta sulle armi di distruzione di massa che la "fase
1" chiuse in fretta, tra silenzi, omissis e rifiuti di documenti, lasciando,
dall´uranio nigerino agli smentiti legami con Bin Laden, più domande che
risposte.
La
spiegazione di questo tardivo ma ormai palpabile «cambio di stagione» a
Washington non va cercata nei casi più sensazionali, come l´incriminazione
dell´uomo dei neocon al fianco di Cheney, "Scooter" Libby, nella melma delle
patacche e delle menzogne diffuse per giustificare l´invasione,
nell´obbrobbio dei bombardamenti incendiari e neppure nel tassametro
implacabile dei caduti americani in Iraq che scatta ogni giorno.
La chiave per capire la visibile «presa di distanza» dal presidente fra i
democratici e i repubblicani più moderati sta nell´effetto cumulativo di
scandali, promesse vuote, confusione e dissimulazione che hanno ormai
portato la maggioranza del pubblico a giudicare Bush «non credibile».
Oggi, la vicinanza a Bush, la sua
investitura è vista dai politici come una liability, una passività e non un
asset, un attivo, appena 12 mesi dopo la sua chiara vittoria elettorale su
John Kerry e la conquista della maggioranza nei due rami del Parlamento. Le
sconfitte elettorali dei candidati repubblicani nelle elezioni di martedì
scorso, e soprattutto il disastro delle proposte che l´ex idolo delle folle,
Schwarzenegger, aveva sottoposto a referendum in California, erano scontate,
come lo era la rielezione del repubblicano Bloomberg a New York. Ma la frase
detta dal candidato repubblicano al governatore della Virginia, James
Kilgore, per spiegare la propria sconfitta, è suonata come un´abiura di Bush.
«Il fatto che il Presidente sia venuto a fare comizio con me la sera prima
del voto - ha detto questo Kilgore - è stato più un danno che un aiuto».
Normalmente, i candidati a elezioni locali
anelano ad avere una comparsata del presidente al proprio fianco e giudicare
un «danno» la sua visita pastorale misura bene la debolezza di un capo dello
Stato che sta visibilmente annaspando per ritrovare il passo della propria
popolarità sfumata.
Oggi, l´America, e i suoi pigri rappresentanti in Parlamento, non credono
più a Bush, che continua a rifiutare ogni responsabilità per errori e per
false informazioni dette, forse, anche in buona fede. «In effetti è
risultato che sulle armi di distruzione di massa ci eravamo sbagliati» ha
ammesso il primo consigliere per la sicurezza nazionale, un altro di quei
neo conservatori che avevano dominato la Casa Bianca nella preparazione alla
guerra, Stephen Hadley, «ma non abbiamo deliberatamente ingannato nessuno».
Ci siamo ingannati da soli, insomma, sembra paradossalmente voler dire
Hadley, ma neppure questo Bush osa ammettere, come se confessare anche un
solo elemento potesse demolire l´intero edificio della sua «dottrina».
Preferisce continuare ad arroccarsi dietro
la retorica del «tutto va meglio», a non liberarsi di quei collaboratori e
consiglieri, come invece seppe fare Reagan, che ormai costituiscono più una
zavorra che un motore nel suo secondo mandato, mentre Washington ronza di
voci che indicano una crescente freddezza fra lui e la sua ex baby sitter
politica, il vice presidente Cheney, toccato da vicino dalla scandalo
Ciagate. Bush non cambia, forse non
può cambiare, perché è prigioniero della propria immagine di uomo «che tira
diritto». Per rispondere, preferisce accusare l´opposizione di avere votato
con lui e per lui, al momento della guerra, avendo visto gli stessi
documenti e le stesse prove su Saddam, ignorando il fatto che, se le prove
erano fasulle, anche le conclusioni non potevano che esserne falsate.
Ha addirittura riesumato lo zombie del 2004, John Kerry, per scaricare su di
lui le proprie colpe. Una curiosa tattica, questa, che ha prodotto un
delizioso cartoon sul Washington Post, nel quale mamma papera, con il volto
di Bush, si volta irritata verso i paperini impantanati per dire loro:
«Colpa vostra, se mi siete venuti dietro».
Fonte -
La Repubblica
Come investire:
greggio Nikkei titoli
dell'oro
20 Novembre 2005 17:11 Milano
(di Vincenzo Sciarretta)
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TEMI CALDI PER GLI INVESTITORI
Tre eventi hanno agitato la
settimana finanziaria: il nuovo massimo della Borsa nipponica; la
vetta toccata dalle azioni aurifere; l’andamento ballerino del
petrolio che tiene col fiato sospeso gli operatori. Ma
andiamo con ordine. Dal minimo del 2003, il Nikkei è salito di circa
l’85% accelerando negli ultimi mesi. Secondo il sondaggio mensile di
Merrill Lynch fra 290 gestori internazionali, la Borsa di Tokyo è
quella con le migliori prospettive di crescita in termini di utili,
la più sottovalutata rispetto ai fondamentali e quella sulla quale
gli operatori professionali desiderano avere la massima esposizione.
Dato il grande ottimismo sul Sol
Levante, c’è da domandarsi se tutti abbiano già comprato e convenga
quindi prendere beneficio, o se al contrario sia opportuno mantenere
le posizioni. «A mio giudizio, siamo solo all’inizio di un ampio
movimento - spiega Richard Davidson, del fondo Lansdowne Partners -
Certo, il denaro è fluito copioso dall’estero, ma i giapponesi sono
rimasti alla finestra. Rifiutano di mettere azioni in portafoglio.
Quando si accorgeranno che le obbligazioni nazionali rendono meno di
niente e il Nikkei corre a briglie sciolte, cambieranno idea
alimentando una nuova corsa agli acquisti».
La considerazione di
Davidson non è da poco, in quanto circa il 75% della Borsa nipponica
è in mano agli investitori domestici, che non si sono ancora mossi.
Anzi. Secondo i dati raccolti dal gestore inglese, i giapponesi
hanno venduto titoli nel 2003, 2004 e 2005. Insomma, le società
quotate ripartivano dal minimo degli ultimi 20 anni e loro
scaricavano. «In verità - chiarisce Davidson - si tratta di un
comportamento storicamente frequente: per esempio, quando il Dow
Jones in America toccò il fondo nel 1974, il rimbalzo fu accolto con
scetticismo. Ci vollero quattro anni prima che la raccolta dei fondi
tornasse positiva. Lo stesso si è verificato in Italia negli anni
’80. Perciò, se i giapponesi seguiranno questa falsariga, c’è buona
probabilità che tornino sul mercato nel 2006. E potrebbero innescare
la seconda gamba rialzista».
A conforto degli ottimisti,
quasi ogni settimana arrivano notizie positive: fra le altre, il
valore dei terreni nella capitale si sta apprezzando per la prima
volta da 14 anni; gli uffici vuoti sono al minimo dal 2002 e i
prestiti bancari hanno svoltato in positivo dopo tempo immemore;
la spinta all’export favorita dal basso yen. Il basso livello dei
tassi, infine, sta convincendo le famiglie a svuotare i depositi
presso le Poste (di gran lunga la banca più ricca per depositi del
pianeta) per riprendere la strada del Kabuto cho, la Borsa
abbandonata ormai da dieci anni e più. Davidson parla con entusiasmo
anche delle valutazioni, soprattutto di un rapporto p/u tra i più
bassi del mondo industrializzato: «Il multiplo sugli utili è circa 9
volte i profitti previsti per il 2006, la metà rispetto agli Usa e
inferiore al dato europeo».
Commenta Paul Kasriel, capo
economista della Northern Bank di Chicago: «Il fatto che l’oro tenga
la soglia record di 480-490 dollari l’oncia, nonostante euro, yen e
sterlina siano franate rispetto al dollaro, conferma il malessere
che accomuna le valute. Sicché l’oro veste i panni del
trionfatore». Dello stesso parere anche David Watt, che guida dalla
Malaysia un hedge fund specializzato in azioni aurifere: «In passato
il mercato toro dei metalli preziosi rifletteva semplicemente la
debolezza del dollaro; stavolta l’apprezzamento è a trecentosessanta
gradi». A beneficiarne sono state le aziende aurifere, scattate in
settimana sui massimi, e ancora di più se ragioniamo in euro. Su
cosa puntare? «Quando si parla di società estrattive - risponde Watt
- occorre sempre ricordare la battuta di Marc Twain, secondo cui una
miniera non è altro che un buco in terra con un bugiardo che gli sta
davanti.
Insomma, grande prudenza e
diversificazione. Mai giocare su un singolo titolo. Al momento le
small cap - continua Watt - sono scambiate a sconto rispetto alle
società a larga capitalizzazione. Ma queste ultime offrono una
solidità superiore. Le mie preferite sono Goldfields e Newmont,
perché il management non vende a termine la produzione (e si
avvantaggia degli aumenti di prezzo dell’oro, ndr)».
In settimana si è registrata
anche la ripresa dei petroliferi. Qui c’è poco da tergiversare. A
qualunque analista si chieda, la risposta è univoca: le quotazioni
delle varie Eni, Total, Exxon e via dicendo risultano appetibili ai
livelli attuali del barile. Il pericolo ruota attorno a un eventuale
crollo dei prezzi dell’energia. «Crollo che non ci sarà»,
secondo Narimann Behravesh, stratega del prestigioso centro di
ricerche Global Insight. «Meglio puntualizzare - asserisce - Né le
Nazioni esportatrici né i colossi del settore hanno accresciuto
sensibilmente l’attività di ricerca ed esplorazione. Le cifre sono
incontrovertibili su questo punto. E senza nuove riserve, negli anni
a venire la domanda schiaccerà l’offerta».
Altri osservatori spiegano
poi che la correzione dai 70 dollari al barile toccati l’estate
scorsa è stata indotta da fattori eccezionali. «Penso allo
scioglimento temporaneo delle restrizioni ambientali - spiega
David Kotok, di Cumberland Advisors - Una decisione mirata ad
abbassare il costo dei prodotti distillati. Oppure alla sospensione
del Jones Act, in base al quale il trasporto delle benzine può aver
luogo esclusivamente attraverso vettori di bandiera. Oppure, penso
alla messa in commercio delle riserve strategiche. Si tratta sempre
di operazioni una tantum e non strutturali. E ciònonostante il
greggio continua a veleggiare alto».
Fonte -
Bloomberg - Borsa &
Finanza
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Quando il crack
di Pechino diventa
globale
22 Novembre 2005 6:11 Pechino
(di Federico Rampini)
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Il Centro Statale di Regolazione
delle Scorte fino a una settimana fa era una sigla sconosciuta, uno
dei residuati della burocrazia che una volta serviva a "pianificare"
l´economia cinese. Ora quel nome è sulle prime pagine della stampa
finanziaria internazionale. Fa tremare una delle maggiori Borse
merci mondiali, il London Metal Exchange dove si scambiano i
contratti sulle materie prime minerarie.
Da quando
un oscuro funzionario di
quell´agenzia statale cinese è scappato senza lasciare tracce, otto
importanti broker londinesi sono sull´orlo del precipizio. Il
prezzo mondiale del rame è balzato al rialzo mettendo in difficoltà
le industrie (energia elettrica, telecomunicazioni, edilizia) che
usano quel metallo. Il crac del rame, ricco di retroscena ancora
misteriosi, non è uno scandalo qualunque.
E´ l´ultima prova di quanto
la Cina sia diventata la protagonista dell´economia globale: vorace
consumatrice di materie prime, ha il potere di condizionare le
quotazioni del petrolio e dell´alluminio, del carbone e
dell´acciaio, del legname e delle navi per trasportarlo. Può anche
precipitare il mondo nella penuria improvvisa di materiali
essenziali, come teoricamente si rischia nel caso del rame.
E´ dalla settimana scorsa
che si sono perse le tracce di Liu Qibing, 39 anni. Un uomo
dal profilo basso, ma rispettato fra i trader delle materie prime e
considerato molto competente. Un nome sconosciuto nel mondo
dell´alta finanza, eppure una vera potenza. Come direttore del
Centro Statale di Regolazione delle Scorte, Liu Qibing gestiva i
grandi acquisti di metalli compiuti sui mercati internazionali dal
governo cinese. In altri termini, rappresentava il principale
cliente del mondo per buona parte delle materie prime. Con una vita
da pendolare intercontinentale, tre uffici a Pechino Shanghai e
Londra tra i quali divideva il suo tempo, Liu Qibing si era
costruito un´esperienza di dieci anni nella professione di trader di
metalli. Nel Natale scorso aveva passato perfino l´esame della
Financial Services Authority di Londra per poter esercitare
direttamente come trader sulle Borse britanniche.
Come accade a volte a chi
diventa troppo bravo, aveva anche acquistato il gusto del rischio.
Sapeva fiutare la direzione del mercato, scommettere, e vincere
molto. Due anni fa fu il primo a prevedere la lunga ondata
rialzista delle materie prime - trainate per l´appunto dal boom
dell´economia cinese - e aveva fatto le puntate giuste. I guadagni
erano stati immensi, si dice, ma Liu Qibing li aveva saggiamente
ripartiti un po´ per sé un po´ per il suo datore di lavoro,
l´agenzia statale cinese. Non si era montato la testa, continuava a
timbrare il cartellino ogni giorno, col completo grigio dello
statale di Pechino. Se l´era montata in un altro senso, però:
illudendosi di essere infallibile.
L´ultima scommessa gli è
stata fatale. Tra luglio e agosto di quest´anno Liu Qibing ha
preparato una puntata colossale. Ha deciso che i prezzi dei metalli
erano ai massimi e presto sarebbero crollati, magari aiutati da un
lieve assestamento della crescita cinese. Ha costruito una posizione
"corta" sul rame, tra le 100.000 e le 200.000 tonnellate (l´imprecisione
di questi dati è la misura della segretezza che circonda lo
scandalo). Ha cioè accumulato contratti di vendita di rame che non
possedeva. Una tipica manovra ribassista ma di dimensioni enormi, se
si pensa che le riserve mondiali disponibili di rame non superano le
140.000 tonnellate.
Al confronto i giochi d´azzardo di
Raul Gardini sulla soya a Chicago negli anni Ottanta, o del trader
Nick Leeson che mandò in crisi la banca Barings, erano modesti. Ma
Liu Qibing aveva dietro di sé la Cina. Era sicuro di poter spingere
le quotazioni mondiali al ribasso, quindi ricomprare il rame a
prezzi stracciati per "coprirsi" e onorare i suoi contratti di
vendita con margini di profitto favolosi.
Questa volta il fiuto lo ha
tradito. Sorretto anche dal boom inarrestabile dell´industria
cinese, il rame che lui aveva venduto allo scoperto a 3.100 dollari
a tonnellata è continuato a salire fino a 4.100 dollari, per poi
toccare un massimo a 4.200 alla notizia della fuga. I primi
contratti firmati da Liu Qibing vengono a scadenza fra meno di un
mese, il 21 dicembre. Intanto di lui si è persa ogni traccia. C´è
chi dice che si nasconde per timore di essere assassinato, perché il
danno che ha fatto ai suoi capi (centinaia di milioni di dollari di
perdite) può provocare reazioni estreme. Ma anche se finisse solo
davanti a un tribunale, la giustizia di Pechino può avere la mano
pesante.
I dirigenti dello Stato sono in
tale imbarazzo che le hanno provate tutte. Dapprima il governo di
Pechino ha cercato di sostenere che Liu Qibing agiva in proprio
senza coinvolgere l´agenzia per cui lavorava. Ma per il London Metal
Exchange sarebbe drammatico se la Cina dovesse rifiutarsi di onorare
quei contratti. Poi su alcuni mass media cinesi è filtrata la
notizia che Liu Qibing non esiste, sarebbe un personaggio fittizio.
Difficile da sostenere di fronte
ai numerosi trader e analisti britannici che lo hanno frequentato
per anni. Infine Pechino ha tentato di placare il panico dei mercati
annunciando l´esistenza di 1,3 milioni di tonnellate di scorte di
rame, una cifra dieci volte più alta delle stime finora conosciute.
Intanto il governo cinese ha inaugurato delle vendite all´asta del
suo rame, per calmierare i prezzi. Non è la prima volta che uno
scandalo cinese provoca onde che arrivano lontano. Un´avvisaglia si
era avuta un anno fa con il "buco" di 550 milioni di dollari nel
bilancio della China Aviation Oil dopo una speculazione andata male
sui derivati del petrolio.
E´ il
sintomo di un problema serio. In pochi anni la Cina è arrivata a
consumare il 20% di tutto l´acciaio, alluminio, rame e nickel del
pianeta. Con un simile appetito di materie prime, è diventata
anch´essa vulnerabile alle fluttuazioni dei prezzi.
Fonte -
La Repubblica
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Oro:
c'è chi lo vede a 1000 dollari
27 Novembre 2005 15:14 ROMA
(ANSA)
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E' tornata la
febbre dell' oro sul mercato dei metalli preziosi, in quanto appena due
giorni fa il prezzo del metallo pregiato per eccellenza ha toccato i nuovi
massimi dal dicembre del 1987, a 497,02 dollari l' oncia, e appare a questo
punto probabile che fra poco tempo raggiunga quota 500.
Ma c'é chi vede
le quotazioni dell' oro addirittura a mille dollari nel giro di cinque-sette
anni, ed è il caso del presidente di Newmont Mining, il maggiore produttore
aurifero mondiale. In un' intervista alla tv australiana, infatti,
Pierre Lassonde, numero uno della società, ha sostenuto che
il prezzo arriverà a questi livelli
come conseguenza della forte crescita della domanda sopratutto da parte dei
Paesi asiatici. Il mercato dell' oro - ha sottolineato Lassonde - "é
caldo e sta diventando ancora più rovente", al punto che all' inizio dell'
anno prossimo i prezzi dovrebbero toccare i 525 dollari l' oncia.
Al momento attuale, la salita delle quotazioni è da
mettere in relazione con l' esigenza di alcuni investitori di proteggersi
dall' inflazione e con l' aumento delle scorte da parte dei gioiellieri in
Asia ed in Europa. Secondo alcuni
analisti, nei prossimi tre anni il prezzo è destinato a salire fino a 873
dollari, per via del fatto che l' inflazione statunitense è destinata ad
accelerare, a causa della forte ripresa economica in atto in Cina ed in
India. A questi livelli, si tornerebbe indietro nel tempo, in quanto
il valore di 873 dollari venne già raggiunto nel 1980, quando i prezzi al
consumo negli Stati Uniti registrarono una crescita di oltre il 12%.
Quanto al
livello di 500 dollari, l' ultima volta che l' oro è stato trattato sopra
questo valore è stato l' 11 dicembre del 1987. Ad alimentare tensioni
sul prezzo è anche il fatto che la produzione mondiale di oro lo scorso anno
ha registrato il declino più consistente da 39 anni a questa parte. A sua
volta i consumi da parte dell' India, che è il Paese maggiore acquirente di
oro, sono cresciuti del 47% mentre la Cina ha segnato un +14%, sempre
secondo quanto riferito da Newmont Mining. Nel 1999 il prezzo dell' oro
aveva d' altra parte registrato una vistosa caduta, ad un minimo da 20 anni,
a 253,2 dollari l' oncia.
In seguito si è avuta però una risalita, anche perché le
15 banche centrali europee hanno raggiunto un accordo per limitare le
vendite di oro annuali fino ad un massimo di 400 tonnellate. In base ad una
successiva intesa, intervenuta lo scorso anno, questo stesso tetto è passato
a 500 tonnellate. Le banche centrali, sopratutto negli Usa ed in Europa,
hanno circa un quinto delle proprie riserve espresse in oro.
Nonostante il rialzo delle quotazioni, gli analisti
osservano peraltro che in rapporto ad altre tipologie di investimento, in
particolare quello in azioni, l' oro ha reso negli ultimi anni di meno. E'
quanto rileva fra l' altro un editoriale del New York Times, secondo cui dal
settembre 2002 l' indice S&P 500 (il più rappresentativo della Borsa
statunitense) è cresciuto del 56% mentre il prezzo dell' oro è aumentato del
52%.

L'Opec
all'Europa: tagliate le tasse sul petrolio
28 Novembre 2005 2:22 New York
(di Agence France Presse)
________________________________________
I maggiori produttori di energia del
mondo, pressati dalla necessità di adeguare l’offerta alla domanda
globale, hanno richiesto ai principali stati consumatori, per lo più
europei, di tagliare le tasse sul petrolio per calmierare gli
aumenti nei prezzi.
L’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries),
che fornisce più del 40% del petrolio mondiale, e il suo membro più
imponente, l’Arabia Saudita, hanno avanzato la richiesta in
occasione dell’inaugurazione del tavolo permanente dell’International
Energy Forum a Riyadh, la capitale
dell’Arabia Saudita. Il re saudita Abdullah, il cui paese possiede
la più grande riserva petrolifera del Golfo, si è impegnato a
continuare a fornire sufficienti rifornimenti, ma ha richiesto agli
stati che più consumano di tagliare le tasse sui prodotti
petroliferi.
“La politica del regno ha come obiettivo basilare
quello di raggiungere un ragionevole ed equo prezzo per il petrolio
e quello di fornire sufficienti quantità a tutti i consumatori”, ha
dichiarato Abdullah all’apertura del Forum,
inaugurato da un convegno sull’industria energetica.
“Ma tutti gli
sforzi delle nazioni produttrici non daranno frutto se non
proseguiranno parallelamente ad una presa di posizione positiva da
parte dei principali paesi consumatori”, ha aggiunto. “Questi stati
dovrebbero alleviare la difficoltà dei loro cittadini tagliando le
tasse sui prezzi del petrolio ogni volta che i prezzi salgono”.
Il presidente dell’OPEC e
ministro dell’energia, lo sceicco Ahmad Fahd al Sabah, ha ribadito:
“Ci saranno diversi incontri, cercheremo di fare tagliare le tasse
ai paesi consumatori”. “Questa è una questione finanziaria di
competenza delle singole nazioni, ma tutti dovrebbero sapere che in
Europa l’80% del prezzo del petrolio è costituito da tasse.
Loro ci
chiedono un aumento della produzione, e noi chiediamo un taglio
delle tasse… che sono tra le cause principali degli aumenti dei
prezzi”, ha aggiunto al Sabah.
Il ministro dell’economia e delle finanze francese
Thierry Breton ha reclamato che lo sciupio petrolifero
caratteristico delle nazioni industrializzate è la conseguenza degli
alti prezzi piuttosto che delle forme di tassazione.
“Non è un problema di tassazione. Non vogliamo dare l’impressione di
facilitare il consumo da una parte o dall’altra. Dovremmo invece
limitare gli sprechi”, ha dichiarato Breton. Il forum è stato il
primo incontro tra consumatori e produttori mondiali di energia dopo
il picco del prezzo del petrolio di 70,82 dollari al barile
raggiunto il 30 agosto scorso, prima di ritornare ai circa 57
dollari attuali.
Il ministro dell’energia del Qatar Abdullah bin Amad
al Attiyah ha affermato che il mercato dell’energia potrebbe
trovarsi di fronte ad una maggiore offerta petrolifera nel secondo
quarto del 2006, il che potrebbe abbassare i prezzi.
“Ci sarà più petrolio in circolazione. Ciò potrebbe rappresentare un
problema. Dobbiamo affrontarlo con molta cautela”, ha riferito
Ayatollah ai giornalisti presenti. E ha aggiunto: “Fino a oggi,
abbiamo potuto mantenere i prezzi a questo livello. Ma cosa
succederà nel secondo quarto dell'anno considerando che la domanda
nell’emisfero settentrionale di solito diminuisce alla fine della
stagione invernale”? Attiyah ha detto che l’OPEC – che si incontrerà
in Kuwait il 12 dicembre – dovrà prendere in esame questioni
importanti, in particolare quella della domanda d’energia mondiale.
“Dobbiamo affrontare alcune criticità; non dobbiamo essere presi
alla sprovvista”, ha commentato.
Il ministro del petrolio saudita Ali al Nuiami ha
dichiarato che attualmente l’offerta petrolifera eccede la domanda e
che non c’è bisogno di ‘misure extra’”. “L’OPEC a settembre ha
offerto due milioni di barili in più, ma nessuno ha risposto”, ha
ricordato incolpando di nuovo le raffinerie mondiali per non essere
state capaci di soddisfare i bisogni dei consumatori.
Il Forum, svoltosi in una giornata e ideato per
smussare la volatilità del mercato assicurando prezzi stabili, ha
ospitato circa 20 ministri dell’economia e del petrolio dei
principali paesi produttori e consumatori, così come i quadri
esecutivi delle compagnie petrolifere multinazionali. Tra strette
misure di sicurezza, il Forum ha accolto i ministri dell’economia e
dell’energia di Usa, Francia, Gran Bretagna, Germania, Iraq, Iran e
Emirati Arabi Uniti. Creato nel 1991, l’IEF [International Energy
Forum, NdT] funge da mediatore per il dialogo tra i produttori e i
consumatori di petrolio e gas su questioni di fondamentale
importanza come i prezzi energetici, la sicurezza e l’offerta
energetica, così come su questioni tecnologiche e ambientali.
Il Segretario Usa per l’energia Samuel
Bodman, attualmente in visita a Riyahd in un tour che lo vedrà
visitare quattro nazioni della ricca regione del Golfo, venerdì ha
affermato che ci vorranno almeno due anni perché venga fornita la
quantità di petrolio necessaria a risolvere gli squilibri del
mercato mondiale.
Fonte:
http://www.dailystar.com.lb/article.asp?edition_id=10&categ_id=3&article_id=20183
Tradotto da
Alesssandro Siclari per Nuovi Mondi Media
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Borsa USA:
non tutti sono rialzisti
23 Novembre 2005 1:53 New
York (di Charlie Minter)
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Negli ultimi dodici mesi lo S&P500 si è mosso in un range ristretto compreso
fra un massimo di 1245 e un minimo di 1136 punti, e ancora una volta abbiamo
raggiunto l’estremo superiore di questo rettangolo, che ha già agito più
volte da resistenza. Dal punto di vista tecnico, appare probabile che
la formazione di un nuovo massimo su volumi consistenti conduca ad una
estensione del rally fino alla fine dell’anno.
Ma
d’altro canto, un calo del mercato sotto i minimi a 1136 punti probabilmente
segnalerebbe un ripristino del bear market iniziato ai primi del 2000.
Nonostante l’attuale rialzo, crediamo che il mercato Orso presto riprenderà,
e ciò sia per motivazioni tecniche che fondamentali.
Secondo noi, gli aspetti tecnici del rialzo sono quantomeno sospetti in
termini di ampiezza, volume e numero di nuovi massimi e minimi giornalieri.
In generale, l’ampiezza è stata molto più debole degli stessi indici,
laddiove gli scambi non sono cresciuti unitamente alle azioni. Allo stesso
tempo il numero dei nuovi minimi annuali rilevato giornalmente continua ad
eccedere il numero dei nuovi massimi, anche oggi che lo S&P ha raggiunto
l’estremo superiore del trading range. Il VIX è sceso a 11.25 punti, in
prossimità dei minimi degli ultimi dieci anni.
Il sentiment è tornato nuovamente
ottimistico con i rialzisti monitorati da Investors Intelligence che battono
53 a 23 (percento) i ribassisti. L’ottimismo dei gestori di fondi azionari è
riflesso dal fatto che la liquidità in percentuale del patrimonio netto è
scesa al 3.8%, il livello più basso degli ultimi 40 anni. Le attese di un
rally di fine anno sono state ampiamente dibattute e anticipate, il che
rende probabile che la liquidità sia già stata impiegata.
Il
quadro deprimente dal punto di vista tecnico è esasperato da un
rallentamento del mercato delle abitazioni, il tasso di risparmio negativo
delle famiglie, il debito a livelli record, una spesa per consumi tiepida,
la manovra restrittiva della Fed, il restringimento della curva dei
rendimenti e per finire prezzi dell’energia ancora elevati. Senza
l’effetto ricchezza generato dal rialzo dei prezzi degli immobili, le
famiglie saranno costrette ad aumentare il tasso di risparmio, e ciò indurrà
un rallentamento della spesa.
Dal momento in cui la spesa per consumi
generalmente anticipa la produzione industriale di un intervallo variabile
fra tre e nove mesi, e la spesa in conto capitale di 6-12 mesi, qualsiasi
debolezza sul fronte dei consumi è probabile che si diffonda all’economia
nel suo complesso. Ciò dovrebbe risultare altamente negativo per un mercato
azionario ancora sopravvalutato che sta scontando una crescita ulteriore
dell’economia.

Fonte
- SmarTrading per Wall Street Italia
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Martedì 8
novembre 2005 |
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Sabato 12
novembre
2005 |
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Venerdì 18
novembre
2005 |
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Perchè i
mercati credono ancora nel dollaro?
22 Novembre 2005 Milano
- (di Marcello De Cecco)
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Il primo dicembre il consiglio direttivo
della Banca Centrale Europea si riunirà a Francoforte. La domanda che
attraversa la mente di cambisti, economisti e uomini politici da almeno un
mese è se in quella occasione la Banca guidata da
Jean Claude Trichet deciderà di
aumentare di un quarto di punto percentuale il proprio tasso di riferimento,
mettendo così termine a una lunga stagione di espansione monetaria.
Essa coincide, appunto, con il passaggio di testimone tra Duisenberg e
Trichet. Il primo, ombra lunga della Bundesbank, frenò l’espansione della
massa monetaria europea proprio quando alla Fed Greenspan faceva il
contrario, inondando i mercati di liquidità per contrastare il
disordine e poi la deflazione innescati dall’attacco alle Torri dell’undici
settembre 2001. Trichet, visto il risultato della politica di Greenspan,
l’ha imitata, iniziando una vigorosa espansione monetaria proprio quando
alla Fed decidevano di invertire, pur se con estrema gradualità, la marcia.
Ha ottenuto il permanere di bassi tassi a breve e a lunga in Europa, mentre
quelli americani risalivano.
Quando il differenziale tra i tassi a breve della BCE e della Fed ha
raggiunto il 2%, i mercati hanno deciso di ricominciare a scommettere contro
l’Euro e a favore del Dollaro. Così, in meno di un anno, il dollaro è
risalito da oltre 1.30 agli attuali livelli, verso l’Euro e si appresta a
fare lo stesso nei confronti dello Yen.
Forse la politica di Trichet sta
cominciando a dare i suoi frutti sull’economia reale europea, a stare almeno
agli ultimi dati appena comunicati. Ma anche appena un anno fa sembrò che
sorgesse un’alba rosea per le economie della nostra area monetaria. Essa è
tramontata, purtroppo, nei mesi successivi. Con qualche scetticismo i
mercati ne hanno accolto l’apparente replica, appena annunciata.
Quel che è certo è che l’espansione
monetaria ha portato in Europa una bolla immobiliare paragonabile a quella
americana, che ha risparmiato solo la Germania, dove essa era
iniziata e finita dopo la riunificazione.
I mercati finanziari, dunque, non mostrano
finora di credere alla nuova alba europea: le posizioni speculative contro
l’euro e a favore del dollaro sono al momento assolutamente prevalenti,
tanto da indurre qualche banca a consigliare i suoi clienti a spostare le
vendite sullo Yen giapponese, che non è ancora sceso quanto l’euro perché i
venditori non hanno ancora massicciamente prevalso sui compratori.
Gli operatori in cambi non sono gli unici a scommettere su un altro
sostanzioso ciclo positivo per il dollaro. Mostrano di farlo anche coloro
che comprano attività industriali, immobiliari o finanziarie. Essi hanno
dato luogo a un massiccio flusso di denaro verso gli Stati Uniti,
come provano i dati appena forniti dal Tesoro americano. Dagli stessi dati
si evince che tale flusso è ora dominato dal settore privato, mentre le
autorità monetarie sembrano aver diminuito i propri acquisti di carta del
Tesoro americano e degli enti paragovernativi. A comprare attività reali e
finanziarie negli Stati Uniti sono i soliti noti: investitori europei pieni
di liquidità presa a prestito su un mercato, come s’è detto, reso agevole
dalla politica di Trichet e dal risparmio in surplus; magnati del petrolio
in Medio Oriente e delle altre materie prime altrove, beneficiati dal boom
dei prezzi e incapaci di investirne i proventi a casa propria.
Alla massa degli scommettitori sul rialzo del dollaro si è altresì aggiunto
il flusso dei profitti da investimenti americani all’estero, ai quali il
presidente Bush ha concesso una vacanza fiscale se tornano negli Stati
Uniti. Il termine di scadenza di essa è la fine dell’anno, quindi proprio in
questi mesi se ne vedono gli effetti più marcati sul corso del dollaro.
Gli operatori in cambi hanno infine guardato alla situazione di politica
economica negli Stati Uniti. Sulla politica monetaria, il passaggio delle
consegne tra Greenspan e Bernanke, che avrà luogo alla fine di
gennaio, aveva creato qualche timore e incertezza, relative al supposto "keynesismo"
del nuovo Presidente della Fed, fondato sullo studio della sua ventennale
produzione scientifica. Ma Bernanke, nella sua deposizione di fronte al
comitato parlamentare che dovrà confermare la sua nomina, si è professato
nemico dell’inflazione, accennando anche alla possibilità di dotare la Fed
di un obiettivo dichiarato antiinflazionistico, come hanno fatto molte altre
banche centrali, inclusa la Bce.
Ha reiterato, naturalmente, che la
missione statutaria della Fed è quella di guardare anche allo sviluppo del
reddito e della occupazione, e non solo all’inflazione, come si ritiene
debba fare la Bce, ma l’impressione
generale è che la politica di Greenspan, realizzata con una catena di
aumenti del tasso sui Federal Funds, non si esaurirà con l’uscita di scena
del vecchio "maestro", la cui
gloria si è di recente appannata solo perché la sua devozione alla causa
repubblicana lo ha portato, secondo osservatori non sospetti come il Wall
Street Journal, a ritardare la fine della grande abbuffata monetaria,
scatenando una bolla immobiliare che non sembra ancora sotto controllo e
permettendo ai "deficit gemelli", questa costante della politica economica
americana per gran parte degli ultimi decenni, di risalire dalle profondità
nelle quali li aveva fatti precipitare la spericolata e fortunata politica
economica di Bill Clinton e Robert Rubin.
Anche sulla impossibilità pratica di
mettere sotto controllo questi due mostri nel breve periodo si basa
l’euforia dei mercati a favore del dollaro. Gli Stati Uniti hanno, e
continueranno ad avere, bisogno di denaro straniero per tamponare almeno
precariamente i propri conti pubblici e la propria bilancia dei pagamenti.
Non potranno dunque permettersi di remunerarlo poco. I tassi a breve –
scommettono i mercati – dovranno perciò continuare a salire, e questo
diventerà ancora più vero se anche Europa e Giappone torneranno a crescere a
tassi meno modesti di quanto hanno fatto finora e se gli Stati Uniti non
riusciranno a districarsi dall’impegno in Irak nel quale si sono
volontariamente cacciati.
Nel decennio di Clinton, l’economia
americana aveva mostrato, dopo vent’anni di relativo declino, di saper
guidare il mondo intero sulla via della terza rivoluzione industriale. Oggi
sembra, nelle mani della classe dirigente repubblicana, di voler tornare a
risolvere i propri problemi con metodi e strumenti finanziari, anziché
industriali, e con una politica estera fortemente aggressiva. Nel frattempo,
però, a Oriente, proprio la rivoluzione industriale dell’età di Clinton ha
indotto un grandioso movimento socio economico e politico, che ha portato al
risveglio di giganti come India e Cina.
E’ di moda soffermare l’attenzione
sul risveglio della Cina. Qui basterà quindi dire che esso è anche dovuto ad
una politica cambiaria che ha stabilmente collegato il valore dello yuan a
quello del dollaro, ormai da dieci anni. La lunga discesa del dollaro ha
avuto effetti esilaranti sulla crescita delle esportazioni cinesi,
che hanno però goduto soprattutto dell’epocale ingresso della Cina nel Wto.
E, oltre alle esportazioni, anche le importazioni cinesi sono cresciute, per
effetto della decisa politica di apertura internazionale voluta dalla
dirigenza di Beijing. Così come sono volate in alto le importazioni di
capitali esteri nell’Impero di mezzo.
Ora i mercati e l’intero mondo attendono con ansia di vedere se lo yuan
seguirà il dollaro nella sua risalita, così come lo ha seguito nella discesa
rispetto alle altre valute. In Europa e negli Usa abbiamo subito le
conseguenze del balzo delle esportazioni cinesi. Esso è stato tanto
eclatante da farci trascurare il fatto, pure importante, che esse hanno
sostituito le esportazioni degli altri paesi orientali. La quota dell’Asia
sulle importazioni dei principali mercati è infatti rimasta quasi immutata.
Le grandi multinazionali giapponesi e coreane hanno infatti spostato la
propria attività di esportazione equipaggiando le loro filiali cinesi e
generando quindi un grandioso mercato di semilavorati e beni di
investimento. Di quest’ultimo è stato capace di avvantaggiarsi anche il
produttore per eccellenza di beni di investimento, la Germania: quel po’ di
crescita che in quel paese ha avuto luogo negli ultimi anni è dovuta
esclusivamente alle esportazioni, verso i paesi della moneta unica e la loro
periferia, e verso la nuova Asia del risveglio dei colossi.
Un
eccessiva concentrazione sul cambio dello yuan è pericolosa. Essa induce
speranze fuori luogo sull’effetto taumaturgico di una rivalutazione cinese.
Questo sarebbe vero solo se lo yuan si apprezzasse del cinquanta per cento
l’anno per un buon numero di anni, nei confronti del dollaro e delle altre
monete, abbandonando quindi il rapporto fisso con la moneta americana. Ma se
l’exploit delle esportazioni cinesi fosse dovuto anche all’apertura della
economia di quel paese, che l’ha condotta ad un rapporto commercio estero/Pil
del 40% in pochissimi anni, partendo da una base quasi insignificante,
bisognerebbe moderare le speranze sugli effetti di una rivalutazione cinese,
anche robusta. E’ assai più probabile che, giunto a rappresentare il 15%
delle esportazioni mondiali, il gigante asiatico debba fare i conti con la
sostenibilità di questa posizione, in termini di equilibri interni.
Ciò non impedirà, tuttavia,
nell’immediato, alle vittime industriali occidentali del successo cinese di
levare al cielo proteste sempre più rumorose.
L’arrivo sulla scena mondiale di un
nuovo gigante non è mai avvenuto senza traumi, come insegnano i casi della
Germania, degli Stati Uniti e del Giappone. La vecchia Europa sembra avere
imparato dai suoi tremendi errori passati a far buon viso ai nuovi arrivati.
Ma assai minor fiducia si deve nutrire nelle capacità di paesi come Giappone
e Stati Uniti di evitare reazioni fuori misura. Per via della loro
peculiare geografia elettorale, gli Stati Uniti, in particolare, hanno in
passato ceduto, all’improvviso e drammaticamente, alle istanze del
mercantilismo che vengono dal loro cuore industriale e agricolo.
Una rivalutazione del dollaro cade, ad esempio, come il contrario della
manna dal cielo sull’industria americana dell’auto e dei suoi componenti,
che si trova già sul limitare dell’insolvenza al cambio attuale. Alle
elezioni per il parziale rinnovo del Congresso, che avranno luogo tra un
anno, la rivalutazione probabilmente giocherà un ruolo assai più esplicito
dell’ombra di Banquo, inducendo il governo a introdurre misure mercantiliste
ancor più smaccate di quell’incentivo fiscale ai rimpatri di profitti delle
imprese americane di cui abbiamo fatto cenno. Specie se i tassi a lunga,
ancora anormalmente bassi, faranno un balzo in avanti, mettendo in
difficoltà tutti i debitori americani, specie i titolari di mutui
immobiliari. Sarà dunque una volta ancora la politica, aizzata dai traumi
del mercato del reddito fisso, a dettare la fine del dollaro alto.
Fonte -
La Repubblica / Affari &
Finanza
Denaro
a basso costo? Dimenticatevelo!
3 Novembre 2005 10:43
Lugano (di *Alfonso Tuor)
________________________________________
*Alfonso Tuor e' il direttore del
Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua
italiana.
L’epoca del basso costo del denaro sta
giungendo (almeno temporanamente) alla conclusione. In pratica,
sta finendo il lungo periodo in cui
il mondo è stato inondato da un’enorme quantità di liquidità messa a
disposizione dalle banche centrali per superare la crisi determinata
dallo scoppio della bolla speculativa formatasi nei mercati finanziari negli
anni Novanta.
Il
cambiamento di clima lo si avverte sia al di qua sia al di là dell’Atlantico
ed è alimentato dalla «resurrezione» della paura dell’inflazione causata
dall’impennata del prezzo del petrolio. Lunedi' scorso la banca
centrale americana, come era ampiamente previsto, ha deciso di alzare al 4%
i tassi a breve statunitensi e soprattutto ha chiaramente ribadito che
continuerà ad alzarli poiché ritiene prevalenti i pericoli sul fronte della
stabilità dei prezzi. Oggi, ci si aspetta che la Banca centrale europea
ponga le premesse per un rialzo dei tassi in Eurolandia in dicembre, che
porrebbe fine al lungo periodo in cui i tassi europei sono rimasti fermi al
2%.
L’eventuale decisione della Bce di
stringere i cordoni monetari verrebbe seguita immediatamente anche dalla
Banca Nazionale Svizzera, che ha più volte sottolineato il desiderio di
ritornare al più presto ad una politica monetaria neutrale e che è
confortata in questo suo proposito dai dati positivi che provengono
dall’economia elvetica. Persino in Giappone si comincia ad ipotizzare
l’abbandono della politica monetaria espansiva seguita finora.
I
segnali di questo cambiamento di clima non erano stati fino a poco tempo fa
presi molto sul serio dal mercato dei capitali. Addirittura negli Stati
Uniti i successivi rialzi dei tassi da parte della Federal Reserve erano
coincisi con un calo dei tassi a lungo termine. Nelle ultime
settimane la realtà è però cambiata. I rendimenti sui titoli di stato
decennali americani sono saliti al 4,6%, mentre quelli sui titoli tedeschi
sono saliti in una settimana dal 3,24% a oltre il 3,4%. Questa tendenza al
rialzo del costo del denaro non è sorprendente e soprattutto è ancora di
entità limitata, ma è probabilmente destinata ad essere di maggiori
proporzioni di quanto fossero le aspettative dei mercati almeno fino a poco
tempo fa. Questi movimenti sono dovuti alla paura che l’inflazione possa
rialzare la testa. E in effetti
l’impennata del prezzo del petrolio ha spinto in settembre al 4,7%
l’inflazione annua negli Stati Uniti e al 2,5% in Eurolandia. Anche in
Svizzera l’indice dei prezzi al consumo è salito e ha raggiunto in settembre
l’1,4%.
In
base a questi dati la conclusione sembra scontata: «è ritornata
l’inflazione». La questione non è però così semplice. Infatti questo
rincaro, che è quello che conta per i portamonete delle famiglie, rischia di
essere un fenomeno temporaneo dovuto al petrolio e non l’avvio di un
processo di rincorsa tra prezzi e salari, che è la caratteristica principale
dell’inflazione. In altri termini, l’indice dei prezzi al consumo
potrebbe ripiegare non appena superato l’impatto del caro-petrolio, come del
resto suggerisce il tasso di inflazione depurato dall’andamento dei prezzi
dei prodotti energetici ed alimentari, che negli Stati Uniti è fermo al 2% e
in Eurolandia all’1,3%. Infatti non si sono segnali che indichino tensioni
sul fronte salariale che potrebbero innescare una spirale inflazionistica.
È quanto sembrano pensare anche i
mercati dei capitali, dato che, ad esempio, in America l’attuale livello del
costo del denaro rimane inferiore all’inflazione. In altri termini, i tassi
reali sono negativi.
Diversa è la situazione in Europa e in Svizzera, dove i tassi a lunga
restano positivi e quindi proteggono ancora i risparmiatori dall’erosione
del valore della moneta causato dall’inflazione. Resta comunque il
fatto che le banche centrali mostrano chiaramente l’intenzione di voler
prevenire piuttosto di voler curar il male. Vi è quindi il rischio che una
loro azione preventiva eccessiva possa stroncare non solo l’inflazione, ma
anche la crescita economica, che soprattutto in Europa e in Svizzera appare
ancora modesta e soprattutto fragile. In tal caso la fase di rialzo del
costo del denaro durerebbe veramente poco.
Fonte -
Corriere del Ticino
Nessuna
sorpresa da Greenspan
02 Novembre 2005 -
Milano
Con un occhio
all'inflazione ed uno alla crescita, il presidente della Federal
Reserve ha rialzato di altri 25 punti base i tassi d'interesse
americani portandoli al 4%, proseguendo così nella politica della
stretta monetaria a "passo misurato" grazie al 12esimo rialzo
consecutivo, tutti dello 0,25%, dal 30
giugno dello scorso anno. Una scelta che porta a doppiare il
differenziale tra tassi Usa e quelli dell' area Euro fermi al 2%
La Federal Reserve
continua a mostrare preoccupazioni per le tensioni inflazionistiche
e la banca centrale statunitense mette in guardia anche da nuove e
possibili pressioni sui prezzi.
"Gli elevati
prezzi dell'energia e gli uragani - si legge nella consueta nota di
spiegazione delle decisioni del Fomc - hanno danneggiato l'economia
e l'occupazione solo in maniera temporanea, ma le spese per la
ricostruzione dovrebbero dare una spinta positiva alla congiuntura''.
Ad ogni modo, "la politica monetaria accomodante, insieme a una
robusta crescita della produttività, sta provvedendo a sostenere
l'attività economica che si prevede debba essere aumentata dalla
pianificata ricostruzione delle aree colpite dagli uragani".
L' effetto cumulato del caro-energia e di altri costi
ha il "potenziale di aggiungere ulteriori pressioni sui prezzi",
anche se l' inflazione 'core', quella al netto di petrolio e
alimenti, "si è mostrata relativamente bassa negli ultimi mesi e le
aspettative di lungo periodo sono contenute".
Per il resto, le
attese su possibili e nuove indicazioni di politica monetaria sono
andate deluse. La Fed ricorre alle tradizionali formule del "passo
misurato" e della necessita', in caso di variazioni dello scenario
macroeconomico, di apportare le necessarie modifiche alle linee
guida.
Sempre seguendo il
principio della "politica appropriata" capace di coniugare la
crescita al riparo dell' inflazione. La decisione del Fomc, che
porta a doppiare il differenziale tra tassi Usa e quelli dell' area
Euro (fermi al 2% e sui livelli più bassi dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale), porta ad un ulteriore aggravio finanziario per
milioni di americani che dovranno quindi pagare di più il costo del
denaro con il prime rate - quello riservato alla clientela migliore
- che viaggia intorno al 6,75%.
Sulla base
delle previsioni degli analisti e dell' attuale scenario, i tassi
dovrebbero portarsi almeno al 4,5% per fine gennaio,
con un doppio rialzo dello 0,25% sia in occasione della riunione del
board del 13 dicembre sia di quella del 31 gennaio, ultimo
appuntamento per Alan Greenspan, alla guida da 18 anni della Fed.
Subito dopo essere
stato designato da George W. Bush, Ben Bernanke ha detto di voler
proseguire il lavoro di Greenspan al timone della banca centrale,
nonostante alcune divergenze di vedute sulla lotta all'inflazione
espresse in passato. Bernanke, in particolare, si è detto favorevole
ad una tolleranza del tasso 'core' compresa tra l'1 ed il 2% ed
attende il giudizio di conferma da parte del Senato. E dovrà fare i
conti, ottenuto il via libera, con un'economia Usa che nel terzo
trimestre ha mostrato un solido rialzo del Pil pari al 3,8%, ben
oltre le più rosee previsioni.
Fonte -
Miaeconomia.it
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BCE
pronta a rialzo tassi
18 Novembre 2005 -
Roma
La Bce
esce finalmente allo scoperto sul fronte del rialzo dei tassi -
fermi al minimo storico del 2% da due anni e mezzo - e l'
euro schizza in alto, tornando in vista di quota 1,18. "Siamo pronti
a rialzare i tassi" - ha detto oggi senza veli il presidente della
Banca Centrale europea, Jean
Claude Trichet, sottolineando che l' Istituto di Francoforte intende
"ridurre in qualche modo il carattere accomodante della sua
strategia monetaria".
"Un annuncio
chiaro è esattamente quello che voleva il mercato
- osserva Ian Stannard, esperto di cambi di Bnp Paribas a Londra -.
A questo punto ci possiamo anche attendere una serie di rialzi e
questo scenario va tutto a sostegno della moneta unica".
L' annuncio
di Trichet ha portato l' euro che viaggiava debole intorno a 1,1679,
ovvero in vista dei minimi da due anni, a rimbalzare fino al massimo
di seduta di 1,1794.
In seguito,
peraltro, la corsa si è parzialmente arrestata, con un livello di
cambio poco sopra 1,17. Le odierne parole del numero uno della Bce
lasciano intendere che il rialzo dei tassi dovrebbe avvenire già
nella prossima riunione dell' Istituto, in programma il primo
dicembre prossimo e la maggior parte degli esperti ritiene che sarà
una stretta moderata, nell' ordine di 25 punti base. Un primo tonico
che, ancorché modesto, sarà benvenuto per gli asset continentali,
penalizzati da rendimenti di gran lunga inferiori rispetto ai
Treasury Usa.
I titoli di Stato
americani sono via via divenuti nell' ultimo anno e mezzo un
investimento sempre più vantaggioso a causa degli ininterrotti
rialzi del costo del denaro (dodici di fila da giugno 2004) operati
dalla Federal Reserve. Proprio il tema dei tassi e del differenziale
dei rendimenti sta fornendo supporto da inizio anno al dollaro, sia
contro euro che contro yen.
Per il
biglietto verde, oltretutto, la stagione rialzista non è affatto
finita, anzi sembra destinata a proseguire almeno nella prima metà
del prossimo anno, come lasciano intendere le recenti dichiarazioni
del successore di Greenspan alla guida della Federal Reserve, Ben
Bernanke e di altri autorevoli
esponenti della Banca centrale Usa. In questo contesto - che ha
premiato il dollaro anche nelle ultime tre settimane portandolo in
vista dei massimi da due anni contro euro - si spiega il fatto che
il rally dell' euro oggi, dopo le parole di Trichet, sia comunque
rimasto contenuto.
"Difatti il
differenziale dei tassi è ancora a favore del biglietto verde
- osserva Michael Klawitter, responsabile dei cambi a WestLB a
Duesseldorf - stante che la Fed non rallenterà il passo dei rialzi".
In ogni caso per l' euro si profilano ora momenti migliori,
ritengono la maggior parte degli esperti, secondo i quali la moneta
unica si risolleverà dai recenti minimi di oscillazione. La prossima
settimana - è l' indicazione che giunge dal mercato - dovremmo
vedere l' euro scambiato nel range di 1,1675-1,19 contro dollaro. L'
euro si apprezza oggi anche contro yen e sale sopra quota 140,
attestandosi a 140,20.
Fonte -
ANSA
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Tassi USA
su fino a Marzo poi di nuovo in calo
La storia
dimostra che otto mesi dopo l'ultimo rialzo, inizia la discesa. Lo dice il
capo economista della banca d'affari Friedman Billings e Ramsey. Vale la
pena leggere la sua opinione, per valutare come allocare il proprio
portafoglio.
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7 Novembre 2005 10:31
Milano (di M. Sab)
La sua sede di lavoro è a Washington. Ma
di solito passa in Italia e in Europa un paio di volte l'anno. Così,
approfittando di una delle trasferte di Steven East, il capo economista di
Fbr - la banca d'affari Friedman Billings e Ramsey fondata nel 1989 con un
investimento iniziale di un milione di dollari e oggi valutata oltre due
miliardi - cerchiamo di tastare il
polso dell'economia americana a pochi giorni dalla nomina a nuovo presidente
della Fed di Ben Shalom Bernanke.
«E’ stata probabilmente la miglior scelta
possibile nel momento in cui il leggendario Alan Greenspan sta per passare
la mano» - spiega East -. Bernanke è
un teorico, ma anche un uomo di decisioni concrete. E ha svolto un ruolo
cruciale nello scongiurare i rischi di deflazione che l'economia Usa ha
corso nel 2002 e 2003», afferma East.
Ma la grande esperienza
«antideflazionistica» di Bernanke, non rischia di rendere la Fed più
acquiescente di fronte all'attuale pericolo di un ritorno dell'inflazione?
«Non vedo questo rischio - sostiene ancora East - perché
Bernanke è uno strenuo fautore dei
livelli di inflazione programmata ed è pienamente consapevole dei danni
generati da una ripresa della corsa dei prezzi».
Del resto, secondo l'economista di Fbr,
l'inflazione americana, che oggi viaggia a un livello del 4,7% va valutata
secondo il criterio più restrittivo del «nocciolo duro», la «core inflation».
Ovvero quella depurata dai fattori congiunturali legati alla crescita dei
prezzi dell'energia e dei generi alimentari. «Sotto questo profilo più
restrittivo e più significativo, oggi il costo della vita negli Stati Uniti
sale di circa il 2% l'anno».
Sgombrato il campo dal retaggio di
fantasmi inflazionistici in stile anni Settanta, East si mostra piuttosto
tranquillo anche sul versante dell’aumento dei tassi.
«Saliranno ancora, e verso
febbraio-marzo 2006 i Fed Funds, i tassi a breve, raggiungeranno il 4,5%. Ma
gli ultimi 20 anni di storia economica dimostrano che in media otto mesi
dopo l'ultimo ritocco verso l'alto, i tassi ricominciano a scendere». Ecco
perché East si attende un costo del denaro al 4% entro fine 2006.
Un
piccolo raffreddamento si potrà osservare sul fronte della crescita del Pil.
«Il valore della crescita reale, ovvero depurata dall'inflazione, del Pil è
dato dall'aumento della forza lavoro, che nel 2006 sarà dell'1% e
dall'aumento della produttività, che aumenterà del 2-2,5%», spiega East.
Secondo i ricercatori di Fbr, negli anni scorsi l'economia americana si è
sviluppata a tassi superiori al 3,5% perché ha attinto a riserve di capacità
inutilizzata che oggi sono state riassorbite interamente. «Da ora in avanti
il Pil crescerà ad un ritmo inferiore al 3% annuo». Un dato strutturale,
totalmente indipendente da qualsiasi rischio di recessione «un evento che
allo stato attuale non è neppure immaginabile».
Ma che cosa cambierà in futuro nella
struttura produttiva e in quali società e comparti dell'economia sarà più
opportuno investire? «Ci sarà un buon andamento del settore industriale e
manifatturiero, caratterizzato da un ritorno di interesse e di investimenti
in capacità produttiva verso le imprese della old economy, trainate dallo
sviluppo impetuoso dei paesi emergenti», spiega.
Ma questa tendenza implica un possibile
calo di interesse per l'hi tech? «Assolutamente no. I prodotti di consumo
tradizionali, auto, frigoriferi, lavatrici, saranno infarciti di
elettronica, di software e di chip. Si assisterà piuttosto a una maggiore
compenetrazione, a uno sfumare delle differenze, tra old e new economy».

Fonte
- Corriere della Sera
Tassi
BCE & FED: scegliete il vostro scenario
24 Novembre 2005 23:05
- Milano
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Sta molto probabilmente avvicinandosi il momento di
rivedere gli scenari economici che vanno per la maggiore. A
determinare questa necessità sono le due principali banche centrali
del mondo: la Federal Reserve statunitense e la Banca centrale
europea.
La pubblicazione di alcune note
del verbale della riunione del Comitato direttivo della Federal
Reserve ha infatti rimesso in discussione l’aspettativa dei mercati
finanziari che il movimento al rialzo dei tassi americani sarebbe
continuato anche dopo il prossimo mese di febbraio, quando alla
guida della Fed si insedierà il successore di Alan Greenspan, Ben
Bernanke. Dalle minute della riunione emerge che
alcuni membri
del Comitato direttivo della banca centrale americana cominciano a
temere che la stretta monetaria potrebbe frenare in modo
significativo la crescita economica.
È dunque meno credibile l’aspettativa dei mercati
finanziari secondo cui i tassi a breve statunitensi sarebbero stati
alzati fino al 4,75% o anche fino al 5%.
In pratica, ciò vuol dire che la Federal Reserve ritiene di essere
prossima alla fine della sua manovra di politica monetaria proprio
mentre la Bce ha preannunciato di voler alzare già il prossimo primo
dicembre i tassi a breve europei, che erano rimasti fermi al 2% dal
giugno del 2003. Dato che è impensabile che i propositi della Bce
siano solo di operare un rialzo «una tantum», è evidente che il
differenziale dei tassi a breve tra le due sponde dell’Atlantico non
è più destinato ad allargarsi come ci si attendeva fino a poco tempo
fa.
Anzi,
se si
ipotizza che la Bce si proponga di alzare i tassi europei al 3%
entro la fine dell’anno prossimo e che la Federal Reserve si fermi
dopo aver portato i tassi fino al 4,5%, si può facilmente concludere
che il differenziale tra i tassi americani e quelli europei è
destinato a restringersi.
La prima variabile a risentire di
questo cambiamento di aspettative è ovviamente il tasso di cambio
tra euro e dollaro. In altri termini,
perde peso il fattore (il
differenziale di tassi) che negli ultimi mesi (insieme con il
bisogno di comprare dollari per pagare gli acquisti di un petrolio
più caro) ha spinto al rialzo il dollaro ed è quindi
facilmente prevedibile una stabilizzazione attorno agli attuali
livelli del tasso di cambio tra dollaro e moneta unica europea o
anche una nuova fase di indebolimento del biglietto verde nei
confronti dell’euro. Ora, dato che i tassi di cambio sono
estremamente importanti non solo per i mercati finanziari, ma anche
per l’economia reale, è necessario riaggiustare tutte le previsioni.
Come avevamo già scritto,
la manovra restrittiva della
banca centrale europea rischia di strozzare sul nascere la ripresa
dell’economia di Eurolandia soprattutto se provoca, come è
probabile, un rafforzamento dell’euro. Infatti in Eurolandia, e
soprattutto in Germania, all’appuntamento con la ripresa mancano i
consumatori e il miglioramento congiunturale è essenzialmente dovuto
all’aumento delle esportazioni favorito dall’euro debole. In altri
paesi, come la Spagna, è in gran parte dovuto all’esuberanza del
mercato immobiliare che con la sua manovra restrittiva la Bce si
propone di raffreddare. La correzione del mercato immobiliare
inciderebbe negativamente sui consumi e quindi sulla crescita.
Dall’altra parte dell’Atlantico è proprio la paura
dello scoppio dell’enorme bolla formatasi nel mercato immobiliare
americano a spingere alcuni membri della Fed ad arrestare la marcia
al rialzo del costo del denaro. Infatti
negli Stati Uniti numerosi indici segnalano che l’inversione
dell’andamento dei prezzi degli immobili è già iniziata e quindi si
teme che lo sgonfiamento della bolla immobiliare, congiunto con
l’aumento del servizio degli ingenti debiti accumulati dalle
famiglie, provochi un calo dei consumi ed una frenata dell’economia,
come sta già avvenendo in Gran Bretagna e in Australia.
Nei prossimi mesi si potrà dunque
capire se la politica delle banche centrali dei principali paesi
industrializzati di «inondare» i mercati di capitali a basso costo
per uscire dalla grave crisi determinata dal crollo delle borse
all’inizio di questo decennio ha solo rinviato l’appuntamento con la
realtà oppure se ha creato le premesse per una crescita sostenibile
nel tempo.
I timori espressi da alcuni membri del Direttivo
della Fed indicano che anche la crescita americana è ancora molto
fragile e che lo scoppio delle nuove bolle (mercato immobiliare e
indebitamento delle famiglie) ci riporterebbe rapidamente nella
situazione di pericolo di una crisi deflazionistica dell’inizio di
questo decennio. Non è quindi da
escludere che la «forza» dei dati economici costringerà l’anno
prossimo le banche centrali ad abbassare di nuovo affannosamente i
tassi appena alzati. È quanto sembra prevedere anche il mercato dei
capitali americano, dove i tassi a lungo termine non sono saliti ed
anzi tendono a scendere.

Fonte -
Morningstar.it
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Martedì 8
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Sabato 12
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Venerdì 11
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Crack,
tutti i numeri dei rimborsi
24 Novembre 2005 2:55
Milano (di Andrea Greco)
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Quasi due anni, dal crac di Collecchio. Cosa rimane della più grande frode
di sempre, di quei 14 miliardi di euro "involati"? Sul fronte
interno, un´azienda che non ha mai smesso di produrre ed è tornata in Borsa.
All´esterno va peggio, con decine di migliaia di azionisti beffati, e
altrettanti titolari di bond. Qualcuno di loro - non troppi, per la verità,
appena un 4,5% - ha ottenuto risarcimenti dalle banche collocatrici.
I consumatori iniziano a fare i
primi bilanci (solo da poche settimane si sono chiusi gli ultimi dossier) e
uno lo presenta oggi Adiconsum a Roma, in un forum che analizza «l´accesso
alla giustizia dei risparmiatori».
L´associazione ha messo in fila tutte le procedure conciliative di Banca
Intesa, Capitalia, Unicredit e Mps, i principali istituti nazionali,
"rei" di avere venduto prodotti rischiosi o comunque inadatti per i clienti.
Le emissioni interessate sono Parmalat, Cirio, Giacomelli e My Way 4 You.
Ne emergono circa 300mila storie di
investimento finite male, per ragioni varie ma sempre afferenti la mendace
gestione in azienda, e la cattiva commercializzazione allo sportello. Circa
il 10% di queste storie (30.599 casi) è approdata alle conciliazioni con i
quattro istituti, e poco meno di metà delle istruttorie (13.320) s´è
conclusa con il rimborso. Di questi sono 3.720 i dossier integralmente
rimborsati, localizzati soprattutto in Lombardia. Gli altri 9.600 si sono
dovuti accontentare di somme tra il quinto e i quattro quinti del totale.
Pochissime, solo 15, le proposte di transazione contestate dai
risparmiatori.
Se 30.599 vi sembran pochi, aggiungete –
si fa per dire – un centinaio di casi finiti in tribunale, al costo di
pesanti parcelle anticipate agli avvocati ed esiti incerti. Il giudizio che
se ne trae è in chiaroscuro. «Sono numeri abbastanza rilevanti – dice Paolo
Landi, segretario generale di Adiconsum – a sconfortare è piuttosto la
scarsità delle cause legali, che peraltro hanno costi molto elevati». Alle
ragioni non è estranea la natura del sistema giudiziario italiano,
sclerotizzato e poco adatto a chi domanda giustizia finanziaria. Il ddl
risparmio, due anni dopo, è ancora impantanato nel palleggio parlamentare,
né si vede come l´inclusione della riforma di Bankitalia possa snellirne
l´iter. E non comprenderà, il ddl, la class action, azione collettiva che
riunisce le istanze dei risparmiatori e negli Stati Uniti ha messo in
ginocchio "furbetti" anche spallati.
Un altro aspetto da considerare è l´onere
dei legali. Nelle cause finanziarie americane gli avvocati sono pagati in
base a quanto fanno recuperare al cliente; tale meccanismo sfronda le
citazioni (solo i legali fiduciosi di vincere vanno in tribunale) e invoglia
i clienti alla battaglia giudiziaria. Potrebbe essere uno spunto per il
legislatore, quando prenderà corpo la riforma degli ordini professionali da
molti pulpiti reclamata.
E le banche? «Prima c´era chiusura totale,
ma aprendo i tavoli conciliativi hanno mostrato lungimiranza – dice Landi –
e dato vita a una dialettica che serve e continua». Ditelo al 95,5% che non
ha più visto un quattrino.
Fonte -
La Repubblica
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