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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Borse & Mercati

Un finale d'oro per l'anno dei fessi

Borse & Mercati

Borsa USA: un rialzo non sostenibile

FED

Tassi USA: tredicesimo e ultimo rialzo per Greenspan

Macro USA

La nuova età dell'oro

Materie Prime - Petrolio

Petrolio: Goldman lo vede a $105

   

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Sabato  3  dicembre  2005   Martedì  6  dicembre  2005   Martedì  27  dicembre  2005
   
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  Un finale d'oro per l'anno dei fessi

4 Dicembre 2005  23:58  MILANO

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Forse, ricorderemo il 2005 come l’anno dei «fessi»: l’anno in cui gli investitori hanno guadagnato praticamente su qualsiasi valore finanziario o reale abbiano puntato. Persino i fessi, appunto. Gli unici a rimanere a bocca asciutta sono stati i troppo prudenti. Coloro i quali hanno lasciato i propri denari in giacenza sui conti correnti. Per gli altri, il 2005 ha dispensato regali copiosi e a volte persino traboccanti. 

Il Nikkei giapponese è ormai in impennata, sforando questa settimana la soglia psicologica dei 15mila punti. L’Eurostoxx 50 veleggia sui massimi e non esiste piazza continentale dove i ritorni del 2005 siano stati inferiori al 10% (ma per molte si parla del 20-25%). Poi c’è l’America. Lì l’arricchimento nominale è meno spettacolare; tuttavia, se si tiene conto del dollaro forte, per un investitore dell’area euro il guadagno è a due cifre. A completare il quadro, ci sono poi gli immobili, i metalli preziosi, le materie prime e i titoli del debito (anche le obbligazioni Usa, in euro). Il saliscendi del petrolio non ha piegato i mercati. Ma ha fornito un prezioso punto di riferimento per la ripresa dell’oro contro tutte le valute, compreso il dollaro forte. Insomma, è andata meglio, molto meglio del previsto. E per il futuro? Le opportunità non mancano.

TUTTI PAZZI PER IL NIKKEI. Per 15 anni l’economia nipponica è stata piagata da ogni sorta di maledizione: debito da primato, demografia disperante, radicato pessimismo. Ma per anni le aziende hanno tirato la cinghia e poco a poco hanno ristrutturato e potato i rami secchi. Così appena si è materializzata la ripresa internazionale, i profitti sono esplosi. Dal 2000, le esportazioni verso la Cina registrano un incremento del 300%, e ora rendono conto per il 15% del commercio estero nazionale.

Ma a dare l’innesco all’ultima gamba rialzista della piazza di Tokyo ci ha pensato soprattutto la vittoria schiacciante del primo ministro Koizumi. Gli investitori esteri apprezzano le sue riforme radicali, a partire dal mandato a ristrutturare il sistema postale che porta in pancia 200mila miliardi di yen delle famiglie giapponesi, che languono in titoli governativi a basso rendimento. Quando gli operatori esteri hanno intuito i cambiamenti, si sono catapultati sul mercato azionario giapponese. A questo punto c’è da domandarsi se valga la pena di comprare, vendere o tenere le azioni del Sol Levante.

Borsa & Finanza ha girato la domanda al leggendario investitore newyorchese Jim Rogers, il quale, alcuni lustri addietro, fu tra i primi ad acquistare i titoli nipponici: «No, non ho liquidato le mie posizioni - confessa al giornale - C’è molta effervescenza, il che spesso preannuncia un consolidamento. Ma no, non sto vendendo». Le ragioni degli ottimisti sono presto spiegate: «Per la prima volta dal 1991, il prezzo degli immobili si è stabilizzato - spiega Louis Gavekal di Gavekal Research con sede a Hong Kong - Finalmente l’attività bancaria accelera, le aziende si avvantaggiano di manodopera straniera a buon mercato e le compagnie quotate restano leggermente sottovalutate». Piace anche la prospettiva di una risalita dell’inflazione, che renda i titoli del debito meno appetibili. Secondo gli analisti interpellati da Borsa & Finanza, il Nikkei potrebbe salire, nel medio termine, di un altro 30% (malgrado sia vulnerabile a una correzione).

TRICHET NON FA PAURA. La stretta di 25 punti base operata giovedì 1 dicembre da Jean-Claude Trichet, numero uno della Banca centrale europea, è coincisa con un’altra punta di acquisti a Piazza Affari (così come a Parigi e Francoforte). «In effetti la decisione era largamente preannunciata - commenta Patrick Schowitz, di Hsbc - e nessuno è stato colto di sorpresa». Semmai, la comunità degli uomini d’affari ne esce rinfrancata: l’approccio della Bce è tuttora accomodante, come ha enunciato lo stesso Trichet a lettere cubitali. Tant’è vero che la Borsa ha festeggiato mentre il cambio ripiegava all’indietro, cioè i frutti tipici di una politica espansiva. In effetti quando il governatore dichiara che «non esiste nessuna decisione ex ante per una sequenza di strette», delega le sue decisioni ai dati in arrivo nei prossimi mesi: si salirà solo se la ripresa si consoliderà (il che sarebbe comunque un’ottima notizia). A giudizio di Schowitz (l’analista di Hsbc) «un certo ottimismo è giustificato per i mesi venturi». Per lui, come per parecchi suoi colleghi, è possibile un aumento di valore nell’ordine del 10 per cento grazie a un mix di fattori: liquidità abbondante, boom degli utili, euro debole e le disponibilità dei risparmiatori individuali.

L’EFFETTO LIQUIDITÀ. Colpisce, in particolare, proprio l’enorme massa potenziale che i cittadini europei possono riversare sui fondi azionari, abbandonati proprio nel 2002, quando la ripresa muoveva i primi passi dopo il crollo del 2000-2001. Una condanna comune ai risparmiatori retail. Le famiglie americane fecero altrettanto negli anni ’70: l’emorragia di capitali da Wall Street toccò il massimo proprio quando il peggio era ormai passato e i titoli avevano ripreso a salire. Si andò avanti su questa linea fino al 1980. Dopodiché i piccoli tornarono a comprare, alimentando quel mercato Toro che, tra alti e bassi, ha raggiunto la sua vetta solo nel 2000.

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza

 

 

 

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IL TORO NON MOLLA

di Borsa & Finanza

 

11 Dicembre 2005  17:58  NEW YORK

Azioni, azioni e ancora azioni avevano consigliato i gestori nel corso del Forum organizzato da Bloomberg Borsa & Finanza lo scorso 16 luglio. E hanno avuto ragione perché in meno di cinque mesi i mercati mondiali hanno continuato a guadagnare terreno: la Borsa americana è cresciuta in euro più del 6%, l’Europa ha fatto ancora meglio con rendimenti superiori al 7% e i Paesi emergenti hanno restituito guadagni addirittura prossimi al 10 per cento.

Che cosa accadrà nei prossimi mesi? Quali le scommesse vincenti per il 2006? I gestori sembrano ancora convinti che le azioni siano da preferire alle obbligazioni, visto che il rischio che si corre acquistando bond è troppo alto se confrontato con i rendimenti che procurano. Ma sono meno entusiasti rispetto alla scorsa estate. «È naturale un rallentamento, perché è irrealistico pretendere tassi di crescita simili», dicono. Nonostante ciò, i mercati sembrano ancora stabili perché non ci sono ragioni che spingano al pessimismo.

«Le Borse non barcollano affatto», sottolineano, ma nello stesso tempo consigliano un pizzico di cautela. A preoccupare è il progressivo drenaggio di liquidità messo in atto dalle banche centrali. Dopo la Fed anche la Banca centrale europea ha deciso infatti di aumentare i tassi d’interesse, portando il costo del denaro nel Vecchio Continente al 2,25 percento. Una mossa, quest’ultima, largamente prevista dai mercati, visto che i tassi reali a breve termine sono negativi da mesi; nonostante ciò, i gestori temono un aumento eccessivo della volatilità delle Borse. Gli occhi sono quindi puntati sull’evoluzione di variabili macroeconomiche e sull’impatto che potranno avere le scelte di politica monetaria, con un’attenzione particolare alla curva dei tassi a lungo termine. Il timore è che il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, non riesca a mettere in atto quello stesso «atterraggio morbido» così ben riuscito al governatore della Fed, Alan Greenspan. Gli Stati Uniti hanno ritoccato i tassi a breve dall’1 al 4%, ma Wall Street ha continuato a crescere. Nell’area euro, con ogni probabilità, dopo l’aumento dello 0,25% di inizio dicembre non saranno necessari ritocchi di queste proporzioni. Ma i gestori si aspettano comunque nuovi aumenti per complessivi 0,75 punti base, da realizzare nei prossimi due anni. La Banca centrale europea, in realtà, già con questo primo intervento ha dimostrato di aver fatto enormi progressi nella comunicazione al mercato delle proprie intenzioni, per questo è plausibile attendersi una reazione contenuta delle Borse.

I responsabili dei fondi continuano però a riporre le attese più ottimistiche nei mercati emergenti, che potrebbero offrire ancora buone opportunità non solo nel comparto azionario, ma anche in quello obbligazionario. Per sfruttare queste chance serve tuttavia coraggio da parte di un’industria del risparmio gestito spesso troppo ancorata ai benchmark presi a riferimento nei propri fondi. Se si replicano semplicemente gli indici si rischia infatti di deludere i risparmiatori. Ma gli investitori, avvertono i money manager, restano spesso scottati anche con i migliori prodotti, perché vendono e riscattano i fondi spinti dall’emotività. E a sostegno della loro tesi snocciolano i numeri: in venti anni, dall’85 al 2004, i fondi hanno reso in media il 380%, ma nelle tasche dei sottoscrittori è andato solo il 160 per cento. Colpa di un gap tra performance e sottoscrizioni. I clienti acquistano cioè fondi quando i mercati sono cresciuti e continuano a riscattare anche con le Borse in ripresa. Un fenomeno che si sta ripetendo anche in questi mesi con i fondi liquidità - utili nelle fasi di attesa come quella attuale - che da gennaio hanno registrato un deflusso netto di capitali di quasi 10 miliardi.

Questo il quadro generale dei tanti temi affrontati nel corso dell’ultimo Forum organizzato da Bloomberg Borsa & Finanza, mercoledì 30 novembre, al quale hanno partecipato: Corrado Caironi (Merrill Lynch Investment Managers), Giordano Martinelli (Anima Sgr), Andrea Favaloro (Fortis Investments), Emilio Franco (Sanpaolo Imi Asset Mangement Sgr), Carlo Alberto Bruno (Schroders), Francesco Fonzi (Credit Suisse Italy), Giorgio Giovannini (Henderson Global Investors), Claudio Tosato (Monte Paschi Asset Management Sgr), Enrico Biglino (Dws Investments Italy Sgr).

1 Procediamo con ordine, tornando a parlare di mercati e partendo ovviamente dalle previsioni sui possibili effetti del primo rialzo dei tassi d’interesse realizzato nell’area euro dopo tre anni.

Caironi: L’Europa aveva bisogno di questa sterzata perché i tassi a breve devono tornare in un’area reale positiva. Anche se ci sono Paesi, come Francia e Spagna, che avrebbero avuto bisogno da tempo di un rialzo. E altri, come per esempio la Germania, che faranno invece più fatica a digerire l’incremento. L’aumento dei tassi, a ogni modo, porta in genere un incremento della volatilità. Ma la vera rivoluzione potrebbe essere il rialzo dei tassi in Giappone dove l’effetto deflattivo potrebbe essere terminato. Una variabile che finora avevamo escluso nei nostri modelli.

Franco: Ho l’impressione che la Banca centrale europea si stia muovendo con gradualità verso un obiettivo che non conosce ancora. La Fed quando decide i suoi interventi considera sia la crescita sia l’inflazione. Mentre il governatore Trichet finora si muove solo considerando il livello dei prezzi, seguendo le indicazioni della Banca centrale francese.

Martinelli: Stiamo dando troppa importanza ai tassi d’interesse. Spesso si finisce per attribuire ai saggi un valore quasi magico che in realtà non hanno. Ciò che conta è la fiducia degli operatori nel mercato. L’esempio arriva proprio dagli Stati Uniti, dove il mercato è continuato a salire nonostante i ripetuti aumenti dei tassi. Poi spesso si fa riferimento ai tassi a breve, ma quelli che contano veramente sono i tassi a lungo, sui quali finora non ci sono stati grandi movimenti.

Giovannini: Sono d’accordo con Caironi. Continuiamo a parlare di Bce, ma la novità economica del 2006 sarà probabilmente la Banca centrale giapponese.

2 Ma il rialzo dei tassi nell’area euro non rischia di avere effetti consistenti tra i risparmiatori che in questi anni, approfittando del basso costo del denaro, hanno aumentato il loro livello d’indebitamento, a cominciare dai mutui per il settore immobiliare?

Fonzi: È un rischio che va attentamente monitorato. Ci troviamo in una situazione anomala in cui le aziende, dopo le ristrutturazioni, hanno molta liquidità a disposizione; mentre i privati sono molto indebitati e agire sulla leva dei tassi potrebbe essere pericoloso.

Franco: In effetti quello del reddito in mano alle famiglie è uno dei temi più delicati. Per quanto riguarda il settore immobiliare, l’evoluzione in Eurolandia dipenderà da vari fattori. In particolare, dalla percentuale di debito a tasso variabile sul totale dello stock di finanziamenti immobiliari, ma anche dalle dinamiche demografiche alla base della domanda di immobili e l’evoluzione dell’offerta. Il quadro è estremamente complesso, ma è possibile che anche in Europa accada quanto sta succedendo in Usa e Regno Unito, ovvero un soft landing delle quotazioni del mattone, con prezzi nominali piatti ed erosione del valore reale degli immobili.

Fonzi: Io vorrei aggiungere che tutto sommato non prevediamo un impatto significativo del rialzo dei tassi sull’immobiliare. In Europa i mercati che potrebbero risentirne sono quelli finora più effervescenti come Spagna e Irlanda: è probabile che si registri un assestamento, con un calo soprattutto delle transazioni e un lento, ma prolungato consolidamento dei prezzi. Come è accaduto nei mercati dove la politica restrittiva è a un ciclo più avanzato: in Gran Bretagna, dove la crescita dei prezzi delle case è passata da un ritmo del 25% annuo della primavera 2003 all’attuale 2,5%; o in Australia, dove negli ultimi due anni siamo passati dal 19% annuo alla crescita zero. Più a rischio il mercato immobiliare americano, ma solo se la Fed dovesse passare da una politica neutrale a una più dichiaratamente restrittiva.

Martinelli: Sono d’accordo. In linea generale un aumento dei tassi incide negativamente sul mercato immobiliare, ma ciò che conta non sono i tassi a breve, bensì quelli a lungo termine. Negli Stati Uniti nell’ultimo anno abbiamo assistito a una crescita piuttosto rapida dei tassi ufficiali, ma i rendimenti dei titoli decennali non si sono mossi in modo analogo. E il mercato immobiliare per ora ha tenuto. Vorrei poi sottolineare che non esiste una relazione automatica, una catena di trasmissione, tra il livello dei tassi e prezzi degli immobili, o quelli delle altre attività finanziarie.

Tosato: La politica di rialzi graduali si sposa, tra l’altro, con la necessità di calmierare il boom del settore immobiliare evitandone tuttavia tracolli. Ma in Europa l’impatto sulla ricchezza disponibile delle famiglie risulta connesso al maggior onere legato alla quota d’interessi e all’eventuale minor valore di mercato dell’immobile in sede di trasferimento. A differenza del caso americano, non esistono infatti possibilità di «estrazione» di liquidità

dall’incremento di prezzo delle abitazioni: vi sono criteri più stringenti per la concessione del mutuo e si registra un minore ricorso a forme atipiche di concessione creditizia.

Bruno: In effetti se il tasso di apprezzamento degli immobili scendesse al di sotto del tasso dei mutui, il rimborso del debito immobiliare richiederebbe un ulteriore forte aumento della necessità di risparmio. Il rischio di un significativo effetto deflattivo sul ciclo economico, da circolo virtuoso a circolo vizioso, è molto alto, in particolare negli Stati Uniti. Ma da lì, possiamo scommettere, si diffonderebbe a tutta la crescita globale.

3 In questo contesto, come dovrebbero muoversi gli investitori? Quali sono le asset class che andrebbero preferite, tra azioni e obbligazioni?

Fonzi: La nostra attuale asset allocation prevede, da diversi mesi ormai, una preferenza per i mercati azionari rispetto ai mercati obbligazionari. Con il nuovo anno è ipotizzabile un upgrade del reddito fisso e un contestuale ridimensionamento del sovrappeso sui listini. Ma tra le azioni, il Giappone potrà continuare a recitare un ruolo da protagonista, per effetto di cambiamenti strutturali a livello macro e micro. Più sfumata la differenza tra Europa e Usa: dopo una prolungata sottoperformance (dal marzo 2003), Wall Street potrebbe recuperare in termini relativi fino al momento del picco dei tassi in Europa. Le aziende europee continuano a farsi apprezzare per una conduzione manageriale più attenta ai costi e all’efficienza complessiva, ma le valutazioni hanno visto ridursi il premio a favore degli Stati Uniti e il quadro macro appare ancora poco favorevole.

Biglino: Anch’io credo ci siano delle buone condizioni per investire in azioni: i prezzi dell’equity non sono mai stati così attraenti rispetto a quelli dei bond come negli ultimi trent’anni. Anche il rapporto prezzo/utili di molte società è basso. Ritengo poi che Brasile, Russia, India e Cina siano i Paesi emergenti da sovrappesare. In Europa la nostra attenzione è rivolta soprattutto alla Germania, dove ci sono molte aziende interessanti, come per esempio Siemens e Allianz, il cui fatturato dipende sempre meno dal mercato interno.

Favaloro: Credo non vi siano dei chiari segnali che spingano a preferire un posizionamento più forte sui mercati azionari Usa rispetto a quelli europei. L’outlook sui profitti al momento sembra più promettente negli Stati Uniti e gli analisti stanno addirittura alzando le previsioni per le società americane per fine 2005 e per il 2006. Tuttavia, in breve tempo le società europee trarranno beneficio dall’euro debole e dal miglioramento dei profitti. Per questo Fortis considera più attraente i mercati europei rispetto all’America, anche se la sottoperformance dell’azionario americano sta riducendo il divario nelle valutazioni. Ma tendiamo comunque a preferire l’Europa agli Usa.

Franco: Io invece preferisco sovrappesare la Borsa di New York, visto che da inizio anno è in ritardo rispetto agli altri listini. Inoltre il ciclo di rialzo dei tassi è in fase più avanzata che altrove. Mi piace anche Tokyo, sottovalutata e sostenuta da fondamentali ciclici e strutturali in miglioramento. Infine, anche i mercati emergenti hanno buoni fondamentali sia a livello di ciclo che di valutazione.

Martinelli: Sono d’accordo con i miei colleghi. È il Giappone il mercato che ha le maggiori probabilità di crescita in assoluto nei prossimi 12 mesi e che presenta il miglior rapporto rischio-rendimento in un’ottica di medio-lungo periodo.

Giovaninni: Senza dubbio, è ormai imprescindibile essere sovrappesati sull’Oriente e sui Paesi emergenti. Crediamo poco nei settori e molto sulle singole scelte azionarie. Ma senza titoli favoriti, bensì scelte di fondo e grande flessibilità operativa: non essere isterici ma neanche duri a resistere per non ammettere i propri errori di valutazione. Il mercato premia e paga il gestore attivo, altrimenti l’Etf è sempre pronto a subentrare.

Tosato: In uno scenario di crescita sostenibile e di diffuso miglioramento dei fondamentali aziendali rimane l’impostazione strategica favorevole all’asset class azionaria. In una prospettiva di più breve respiro, si rinvengono tuttavia elementi di cautela connessi al progressivo drenaggio della liquidità da parte delle Banche centrali, alla riduzione della propensione al rischio degli investitori e alla conseguente minore appetibilità dell’investimento azionario.

Bruno: Rispetto ai miei colleghi, preferisco mantenere un moderato sottopeso sia sul comparto azionario sia su quello obbligazionario, a fronte di un aumento della componente di liquidità. Per quanto riguarda l’asset allocation geografica anch’io vedo favorito il mercato americano, sia per gli investimenti azionari sia per quelli obbligazionari, rispetto all’Europa. I mercati emergenti, poi, rimangono ancora attraenti e il Giappone ha ottime prospettive, ma potrebbe essere soggetto a temporanee correzioni.

Caironi: Io parlerei di Borse a due velocità. Fino alla prima metà del 2006, ritengo che i mercati azionari possano essere ancora positivi, mentre i bond potrebbero ritrovare nuovi assestamenti. Le variabili della crescita economica, la tenuta dei consumi e i tassi d’interesse saranno determinanti per valutare un possibile aumento della volatilità sulle Borse.

4 Più in dettaglio, quali settori o titoli costituiranno le scelte premianti del futuro?

Biglino: Credo che la domanda elevata di materie prime, insieme a una capacità produttiva ben utilizzata e a un significativo investimento in infrastrutture nei mercati emergenti, consentiranno sia alle società petrolifere sia al settore dei beni capitali e delle utility di generare sostanziali profitti. Tra le società che trarranno benefici dalla globalizzazione, includo anche quelle appartenenti al settore della logistica. In Giappone, dove l’economia è in crescita, sovrappeso i titoli finanziari e immobiliari. I settori difensivi come, per esempio, quello farmaceutico rimangono tra i miei favoriti per il 2006. Mantengo invece un sottopeso verso il settore dei beni di consumo, tra cui il retail e l’industria automobilistica.

Fonzi: Sono sostanzialmente d’accordo sui petroliferi. Esaurita la fase attuale di correzione, potrebbero recuperare nuovo terreno. In particolare i nostri investimenti sono focalizzati su Ensco negli Stati Uniti, Encana in Canada. Anche la tecnologia, però, avrà un ruolo da protagonista, in America soprattutto nei primi mesi dell’anno. Più in generale, i settori difensivi saranno favoriti dalle prospettive di rallentamento nella seconda metà del 2006, soprattutto negli States dove hanno sofferto e sono passibili di re-rating: pensiamo a esempio a Procter & Gamble. Anche i finanziari come Jp Morgan e Citigroup negli States, Nomura e Sumitomo Trust Bank in Giappone, potrebbero recuperare in termini relativi. Bene anche i farmaceutici, soprattutto gli europei Roche e Sanofi. Tra gli industriali privilegiamo Siemens in Germania e Matsushita Electric Industry in Giappone.

Franco: Sono sostanzialmente d’accordo: i settori da privilegiare sono i finanziari, soprattutto nel Regno Unito per le valutazioni attraenti, la tecnologia, quella Usa in particolare, oltre che per le valutazioni, per la crescita degli utili e per il ciclo di nuovi prodotti. Infine meglio l’healthcare Usa rispetto a quello europeo.

Favaloro: Sì, anche a mio giudizio le banche e le assicurazioni hanno valutazioni ancora interessanti e quindi sono da sovrappesare. Oltre ai finanziari, opportunità interessanti arriveranno dalla grande distribuzione. Mentre è meglio stare alla larga dai titoli dei comparti alimentare, immobiliare e commodity.

Martinelli: Troviamo valore, ancorché meno che in passato, nei titoli tecnologici e in certa misura nei telefonici. Ci sembra che i petroliferi, nonostante la correzione del recente passato, incorporino per contro ancora livelli di prezzo del petrolio poco sostenibili nel lungo termine.

5 Diamo un’occhiata a casa nostra. Come si muoverà Piazza Affari il prossimo anno?

Fonzi: Fanalino di coda tra i principali mercati europei nel 2005, Piazza Affari ha rovesciato simmetricamente il vantaggio accumulato con la sovraperformance relativa dell’anno precedente. Anche nel 2006 dovremmo assistere a una dicotomia tra le dinamiche macro (crescita sempre insufficiente) e quelle micro (le società hanno migliorato in modo significativo efficienza e redditività). La Borsa italiana dovrebbe registrare un comportamento più in linea con i mercati europei. A livello settoriale preferiamo i finanziari, favoriti dalla prospettiva di un aumento dei tassi d’interesse: in particolare Banca Intesa e Unicredito tra i bancari e Generali e FondiariaSai tra gli assicurativi. Credo, infine, che utility e telecomunicazioni possano continuare a sottoperformare, anche se in misura minore che nel 2005. Franco: Rispetto all’Europa mantengo una moderata preferenza per il mercato italiano, alla luce del rilevante peso del settore finanziario sul nostro listino e dei possibili catalyst positivi sulle banche in particolare; e alla luce della tradizionale correlazione positiva fra utili e tassi a breve, nonché delle aspettative di un ravvivato consolidamento del settore dopo le elezioni politiche.

Biglino: Anch’io sono ottimista sui finanziari. Tra i miei titoli preferiti ci sono Unicredito e Fineco. All’interno del comparto dei petroliferi mi piace soprattutto Saipem. Credo, però, che nel 2006 Piazza Affari possa performare meno in termini relativi rispetto alle Borse europee. Innanzitutto perché molte società quotate sull’S&P/Mib saranno penalizzate dall’aumento dei tassi d’interesse. Inoltre, su Piazza Affari peseranno le incertezze riguardanti lo scenario politico, visto l’avvicinarsi delle prossime elezioni.

6 Parliamo ora di valute. Da inizio anno il dollaro ha riguadagnato prepotentemente terreno sull’euro, con il cambio che è scivolato fino a 1,16. La corsa è destinata a proseguire? Tosato: Il recente rafforzamento della valuta americana appare coerente con quanto espresso dai fondamentali economici. Il concomitante assorbimento della sottovalutazione e il restringimento dei differenziali dei tassi di crescita economica e dei tassi d’interesse che la giustificavano suggerisce che

probabilmente i massimi sono stati raggiunti o non sono lontani. Non va quindi escluso un possibile indebolimento, non certo travolgente, in prossimità della conclusione del ciclo di restrizione della Federal Reserve, con un ritorno di attenzione sulla tematica del deficit pubblico (anche in virtù della migliore conoscenza degli stanziamenti necessari all’attività di ricostruzione dopo le devastazioni provocate dagli uragani in serie).

Franco: Anch’io ritengo che l’euro non abbia significativi spazi di ulteriore indebolimento rispetto al dollaro dalle quotazioni attuali. La moneta americana, infatti, continua a presentare significative debolezze di natura strutturale (deficit commerciale in continuo aumento). Però l’euro potrebbe continuare a indebolirsi rispetto alle valute asiatiche, a causa della debolezza relativa dei fondamentali ciclici e strutturali, per esempio l’incerto assetto istituzionale.

Giovannini: È interesse di tutti tenere il dollaro nella fascia 1,15-1,25 ma se dobbiamo esprimere una previsione, preferiamo azzardare 1,30 piuttosto che 1,00.

Fonzi: Io, invece, credo che il dollaro abbia ancora alcune chance di rafforzamento, ma nel breve periodo. Sono più cauto sul medio termine. Nel 2005 infatti il biglietto verde ha tratto grande beneficio dall’ampliamento del differenziale dei tassi a favore degli Stati Uniti, dalla maggiore dinamicità dell’economia americana e dall’Homeland Investment Act che ha portato al rimpatrio per motivi fiscali di circa 200 miliardi di dollari di profitti societari. Questi elementi favorevoli non sono ripetibili nel 2006, anno in cui il mercato valutario dovrebbe tornare a concentrarsi sui fondamentali, caratterizzati da un ulteriore peggioramento del deficit delle partite correnti e da un nuovo ampliamento del deficit federale. I flussi ancora molto sostenuti a favore del dollaro provenienti dall’Asia e, in misura crescente, dai Paesi di riferimento dell’Opec, potrebbero comunque rallentare la correzione della moneta americana.

Bruno: Credo anch’io che nel trend a lungo termine il dollaro patirà il deficit strutturale degli Stati Uniti e la necessità di finanziare e rimborsare l’elevato stock del debito estero. Martinelli: Non sappiamo se la corsa sia destinata a proseguire, ma certo oggi manteniamo un livello di copertura sul dollaro molto più elevato che in passato, il 70% circa rispetto al 38% di fine 2004.

7 Parlando invece dell’industria del risparmio, con la riforma della Banca d’Italia il settore ha cambiato volto. Come cambierà adesso l’offerta?

Biglino: In Italia Dws Investments è stata la prima Sgr ad adottare il nuovo regolamento della Banca d’Italia. Sono convinto che le nuove direttive offrano concrete opportunità per rendere ancora più dinamici i fondi comuni d’investimento.

Favaloro: Ci sarà una maggiore flessibilità operativa e uno stimolo allo sviluppo di nuovi strumenti d’investimento. È probabile che i prodotti a rendimento assoluto e a basso rischio continueranno a mantenere nel 2006 la stessa importanza avuta quest’anno. Nelle condizioni attuali il premio offerto dalla classi di attivo rischiose come le azioni, non compensa infatti adeguatamente gli investitori. Per questo motivo le soluzioni a rendimento assoluto offrono un miglior trade off rischio-rendimento e risultano più attraenti rispetto ai portafogli tradizionali.

Franco: Anche noi siamo convinti che la preferenza dei risparmiatori per i prodotti a rendimento assoluto sia destinata a caratterizzare ancora il prossimo futuro. Per questo Sanpaolo Imi ha costituito nel 2005 un team per la gestione di prodotti absolute return, con base in Lussemburgo che saranno commercializzati presso la clientela istituzionale e retail nel 2006. E abbiamo ambiziosi obiettivi di raccolta per il prossimo triennio.

Giovannini: Penso però che si debba uscire dalla moda del prodotto o dello stile di gestione per concentrarsi piuttosto sul rapporto tra performance e rischio dell’investitore. Un buon gestore è colui che riesce a dare adeguati rendimenti stabili nel tempo. Il benchmark non è da buttare, ma bisogna stare attenti a non pagare eccessivamente un prodotto a indice spacciato per attivo. E noi sappia che su questo fronte qualcuno ci marcia.

Tosato: In ogni caso, credo che le nuove regole della Banca d’Italia, recependo la direttiva Ucits III, saranno utili a risvegliare l’industria e superare questi ostacoli. Con tutte i loro limiti, si tratta di regole che vanno in direzione di un’ulteriore apertura del mercato con conseguente aumento delle pressioni competitive, su prezzi e raccolta, a opera di player esteri. Contemporaneamente, l’innalzamento degli standard qualitativi richiesto sul fronte del sistema dei controlli, della trasparenza e della gestione dei conflitti d’interesse, esercita una spinta verso l’alto sui costi portando a una continua erosione dei margini di redditività delle società di gestione italiane.

Franco: Aggiungerei che la spinta a migliorare arriva anche dalla crescita che le società estere stanno realizzando in Italia. Grazie alle enormi masse in gestione, imprese come Fidelity riescono a investire molto sui processi e a mettere in piedi metodologie vincenti, guadagnando nuove quote di mercato anche nel nostro Paese.

Favaloro: È vero, ma non c’è bisogno di capitali enormi per realizzare strutture competitive. Tra noi oggi c’è per esempio un rappresentante di Anima sgr, una società che nonostante sia di dimensioni ridotte è riuscita a distinguersi in Italia. Serve coraggio da parte dei gestori. Non si può aspettare che siano i clienti a chiederci di aumentare il peso degli investimenti in Paesi emergenti. Servono delle soluzioni di rottura rispetto alle asset allocation tradizionali. Ma non tutti i gestori sono disposti a correre rischi tali per paura di sbagliare.

Bruno: Con la riforma della Banca d’Italia e la normativa comunitaria l’attenzione si è spostata dal prodotto al servizio. Ora occorre però essere in grado di offrire soluzioni diverse a domande e bisogni che non sono solo differenziati tra i soggetti, ma che mutano nella vita di ciascun soggetto stesso, sia privato sia istituzionale.

8 Intanto però le società estere continuano a crescere in Italia. Nel terzo trimestre 2005 è stata registrata la raccolta più alta di sempre, superiore a 8 miliardi, portando il saldo da inizio anno a 19 miliardi. Come dobbiamo giudicare questo nuovo fenomeno?

Giovannini: Nell’industria del risparmio gestito si parla di global player o di boutique. Fino a quando i gestori italiani rimarranno indecisi tra i due ruoli, gli stranieri potranno tranquillamente aumentare la loro quota di mercato. Credo però che sia Anima nel 2004 sia Pioneer nel 2005 rappresentino storie agli antipodi ma entrambe vincenti e quindi meritevoli di approfondimento.

Fonzi: Personalmente credo che il trend di espansione delle società estere in Italia proseguirà. La tendenza del risparmio gestito sembra orientare gli operatori a una sempre maggiore specializzazione e ciò favorisce gli stranieri per il know how che hanno accumulato.

Tosato: Anch’io prevedo un proseguimento di questo trend per l’effetto combinato di due fattori. In primo luogo per la progressiva apertura del sistema a prodotti non solo della casa. E poi perché le società estere beneficiano della maggiore apertura del mercato domestico grazie al recepimento della direttiva Ue relativa a società e prodotti armonizzati, il cosiddetto passaporto europeo. Ma l’apertura purtroppo non vale per le case italiane a causa della tassazione gravante sui prodotti nazionali, un problema che andrebbe risolto rapidamente se non si vuole pregiudicare la crescita futura. Caironi: Penso che la strada dell’open architecture abbia evidenziato la possibilità di una maggiore efficienza nella costruzione dei portafogli. La diversificazione di stili e specializzazioni, la varietà di capacità dei gestori e la ricerca di fondi sempre più capaci di creare valore nei portafogli è un passo avanti per l’attività di servizio che tutte le reti di consulenza e distributive hanno riconosciuto.

9 Ma le stesse reti distributive hanno mostrato delle contraddizioni. Non riescono infatti a evitare che il risparmiatore sia vittima dell’emotività ed entri in Borsa quando i mercati sono già saliti e riscatti quando sarebbe invece il caso di tenere duro...

Tosato: È vero, questo problema c’è ed è tutt’altro che marginale. Abbiamo calcolato che il sistema fondi negli ultimi venti anni ha guadagnato il 380%, ma i risparmiatori a causa di ingressi e riscatti sbagliati hanno ottenuto rendimenti medi solo del 160 per cento. Con una perdita secca della differenza. Giovannini: Il problema si sta riproponendo anche in questi mesi con i pesanti riscatti registrati dai fondi liquidità nonostante questo sia invece il momento di stare alla finestra.

Martinelli: La stessa cosa è avvenuta con il nostro prodotto di punta, il fondo Trading. Mentre il gestore ha reso in media l’11% l’anno, abbiamo scoperto che a causa dei movimenti sbagliati la metà dei nostri clienti ha perduto denaro. L’ultima cosa che il risparmiatore dovrebbe fare quando decide i suoi investimenti è tentare di capire dove vanno i mercati. In questo modo eviterebbe di distruggere valore con il market timing. Deve invece continuare a rispettare la sua asset allocation creata specificamente in base alle caratteristiche personali. Giovannini: Vorrei concludere però con una nota positiva. Il lag temporale tra l’andamento dei mercati e gli investimenti dei risparmiatori si è ridotto. Il problema della trasmissione corretta delle aspettative c’è ancora. Ma almeno i clienti ne hanno ridotto i danni.

 

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza

 

 

 

 

 

 

  Borsa USA: un rialzo non sostenibile

2 Dicembre 2005  16:13  NEW YORK (di Charlie Minter)

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Secondo noi l’attuale rialzo è alimentato dal timore di perdere un rally di fine anno ampiamente pubblicizzato e in anticipazione della fine della manovra restrittiva da parte della Fed dopo un ulteriore aumento di 25 punti base. Ecco perché il mercato di recente è sceso su notizie economiche negative e macro positivi.

Sicché abbiamo raggiunto un punto in cui le notizie economiche favorevoli sono percepite come negative, perché implicano tassi più elevati, mentre le cattive notizie fanno bene alla borsa perché accrescono le probabilità di una fine prematura della fase restrittiva da parte della Fed. Tuttavia, come dimostreremo qui sotto, non crediamo che la fine del rialzo dei tassi possa essere salutata con favore.

Per una serie di motivi, crediamo che il rialzo della borsa non sia sostenibile. Anzitutto, il rally di fine anno è stato così ampiamente reclamizzato che con ogni probabilità è in buona parte alle nostre spalle. In secondo luogo, ci sono già chiare indicazioni che gli elementi a sostegno dell’economia stanno venendo meno e si deterioreranno ulteriormente nei prossimi mesi. Sebbene ciò condurrà alla fine della politica restrittiva da parte della Fed, il rallentamento dell’economia o la recessione che seguirà non è stata scontata dal mercato azionario. Infine, il mercato rimane altamente sopravvalutato e il sentiment prossimo agli estremi.

Dal nostro punto di vista l’economia sta già mostrando segni di rallentamento. Il settore immobiliare si sta indebolendo. Le accensioni di mutui rilevate dalla MBA stanno scendendo e il rifinanziamento dei mutui sta precipitando. Il livello delle case invendute è sui livelli più elevati degli ultimi 19 anni. L’indice che misura la possibilità di permettersi un’abitazione è sui livelli più bassi degli ultimi 14 anni. Mentre le nuove case sono in crescita del 13% rispetto al mese precedente, il numero è talmente anomalo rispetto agli altri dati che anche il capo economista della National Home Builders Association lo ha definito “bizzarro”. Dal momento che la compravendita di abitazioni insieme al rifinanziamento dei mutui ha fornito ai consumatori un immenso potere d’acquisto, la fine del boom immobiliare sarebbe gravemente negativo per la capacità di spesa futura.

Nonostante un’evidenza contraria, la spesa dei consumatori sta già flettendo. La spesa reale è scesa dello 0.9% ad agosto, dello 0.4% a settembre e, in base agli ultimi dati, è salita appena dello 0.1% ad ottobre. Alla luce di questa traiettoria, l’incremento della spesa deve essere in media dello 0.5% a novembre e dicembre per evitare di scendere sotto lo zero nel quarto trimestre.

Molti osservatori stanno comparando questo periodo con quello iniziato alla fine del 1994, quando allo stesso modo la Fed stava terminando la politica di aumento dei tassi di interesse. Essi amano ricordare che allora la borsa si inserì in un ciclo ascendente terminato solamente cinque anni dopo. Ci sono però alcune rilevanti differenze. Alla fine del 1994 gli investitori erano decisamente negativi circa le prospettive del mercato, mentre oggi sono molto ottimisti nonostante una serie di problematiche irrisolte. Alla fine del 1994 il sondaggio di Investors Intelligence mostrava soltanto il 32% di rialzisti e il 50% di ribassisti, rispetto all’attuale 54% di rialzisti e 23% di ribassisti. Inoltre allora la liquidità rappresentava l’8% dell’attivo, rispetto al 3.9% di oggi. Il tasso di risparmio delle famiglie era pari all’8% allora, mentre è oggi negativo. Sia il deficit commerciale che il debito dei residenti era allora una esigua frazione dei livelli raggiunti oggi.

Per quanto concerne le valutazioni oggi lo S&P500 quota 19 volte gli utili, contro le 15 volte di allora. Da quel punto il mercato è salito fino a quotare 37 volte gli utili all’inizio del 2000. Quella valutazione coincise con il culmine della bolla azionaria, e rappresentò un valore superiore del 76% a tutte le rilevazioni del P/E per i precedenti cento anni. Nel 1994 eravamo all’inizio di un bull market di lungo periodo, mentre oggi siamo in un mercato ribassista di lungo periodo con il picco di quest’anno che è ancora di un buon 20% inferiore ai livelli raggiunti cinque anni e mezzo fa.

Da quando la Fed ha iniziato ad operare nel 1913 la maggior parte delle fasi restrittive hanno condotto a recessioni economiche e a ribassi di borsa. I quali non sono terminati fino a quando la Fed ha iniziato ad allentare, e a buon motivo. Quando la Fed smette di perseguire una politica restrittiva, il mercato di solito reagisce negativamente a notizie che diventano via via sempre più deludenti per quanto concerne l’economia e gli utili aziendali. L’esperienza contraria del 1994-1995 fu l’eccezione piuttosto che la regola. Continuiamo a credere che gli indicatori monetari, economici e il sentiment puntino ad un accresciuto rischio di mercato, giunti a questo punto.

Fonte - SmartTrading

 

 

 

 

  Venerdì  2  dicembre  2005   Venerdì  2  dicembre  2005   Martedì  14  dicembre  2005  
       
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  Tassi USA: tredicesimo e ultimo rialzo per Greenspan

12 Dicembre 2005  23:58  MILANO (di FtaOnline)

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La BCE ha deciso (finalmente per alcuni, avventatamente per altri) di mettere mano alla leva dei tassi di interesse, decretandone un rialzo, probabilmente il primo di una serie. Il comportamento della Federal Reverse e le dichiarazioni che accompagnano gli interventi della Banca Centrale Usa lasciano invece pensare che l'era dei rialzi volga ormai al termine, anche se appare molto probabile che oggi 13 dicembre il Presidente uscente della Federal Reserve, Alan Greenspan, possa, salvo colpi di scena dell'ultima ora, rialzare il costo del denaro di 25 punti base. 

Sarebbe questo l'ottavo incremento nel solo 2005, forse il penultimo della serie iniziata a metà 2004 quando il saggio sui Fed Funds era all'1 per cento. I successivi, se ci saranno, verranno attuati sotto la guida del nuovo Presidente, Ben Bernanke. Valutando, forse in modo semplicistico, le diverse tempistiche di intervento delle due Banche Centrali, è possibile ipotizzare che gli Usa siano circa 18/24 mesi avanti rispetto ai paesi dell'area Euro lungo la curva del ciclo economico. Immaginando di rappresentare l'evoluzione del ciclo come un circolo diviso in quattro quadranti, ciascuno della durata di 18 mesi circa, con il primo quadrante che rappresenta l'avvio dell'espansione, il secondo la fase matura della ripresa, il terzo l'avvio della recessione ed il quarto la recessione piena, è possibile immaginare che gli Usa stiano iniziando adesso a percorrere il secondo quadrante, mentre gli stati dell'area Euro si stiano incamminando adesso sul primo.

Il Giappone è probabilmente in una posizione intermedia rispetto agli altri due blocchi citati, mentre i paesi a più alto tasso di crescita, come Cina ed India stanno percorrendo una circonferenza diversa, quindi non confrontabile con quella delle economie più mature. Per Europa, Giappone e Stati Uniti si prospetta quindi ancora un periodo di crescita che va dai due ai tre anni e mezzo prima che si verifichi una nuova fase di recessione. In base a queste osservazioni quale potrebbe essere la giusta strategia di investimento nei prossimi mesi? Per rispondere a questa domanda è necessario fare riferimento alle teorie dell'analisi intermarket. Durante la fase di espansione economica, come quella attuale (matura negli USA ed ancora in fase di decollo in Europa) l'inflazione ed i tassi di interesse reali in crescita fanno calare i prezzi dei bond ed il mercato delle commodities si avvia a toccare i suoi massimi (le voci, anche autorevoli, di un petrolio stabile tra i 50 ed i 70 dollari nel prossimo futuro si sprecano, non sono più in molti a scommettere su di una ulteriore crescita delle quotazioni del greggio).

In una seconda fase i tassi alti e, spesso, l'intervento restrittivo delle autorità monetarie (già molto avanzato negli Usa e forse prossimo alla fine, appena iniziato in Europa) colpiscono negativamente le azioni. A questo punto (ma presumibilmente prima di raggiungerlo dovrebbero passare 1/2 anni) l'economia entra in una fase di recessione: la domanda si riduce e con essa la produzione e quindi la domanda (ed i prezzi) delle materie prime. La ridotta domanda di beni si traduce quindi in una ridotta domanda di moneta con conseguente calo degli interessi. Questo comporta il rally dei titoli a reddito fisso e, successivamente, quello dei titoli azionari. A questo punto riparte la crescita dell'economia reale seguita dalla crescita di interessi ed inflazione. E il ciclo si ripete. Dal punto di vista operativo nella prima fase dell'espansione dell'economia, quella dove si trova l'economia mondiale adesso, è meglio posizionarsi sul mercato dell'oro, delle materie prime e dei relativi futures per profittare al massimo del loro apprezzamento, mentre conviene alleggerire le posizioni in obbligazioni, almeno quelle a vita residua più lunga. In questi periodi, per quanto il mercato azionario complessivamente sia ancora in crescita, sarebbe meglio passare da titoli azionari interest sensitive (finanziari, TMT, ciclici, utilities con forte leverage) a titoli che performano meglio in contesti inflattivi (materie prime, miniere, chimici, farmaceutici, titoli petroliferi ed energetici).

Nella seconda fase dell'espansione, si assiste al top degli interessi e del CRB index, mentre i bond sono ai minimi ed inizia il calo sui mercati azionari (uno scenario che potrebbe essere di attualità tra un anno circa): in questo contesto "cash is king". Mentre l'economia entra nella fase di recessione, con oro, inflazione e materie prime in calo, bisognerebbe iniziare a ritornare sui mercati obbligazionari. Con il bottom del ciclo economico reale, i tassi sono ai minimi e i prezzi dei titoli tendono a raggiungere i massimi (mentre il CRB index è prossimo ai minimi). Uno scenario di questo tipo è forse troppo lontano da quello attuale per essere di attualità, ma è sempre meglio avere presente il quadro completo e non solo i dettagli per evitare di prendere decisioni di investimento con il timing errato. In sintesi quindi il 2006 potrebbe portare listini azionari ancora al rialzo, ma forse più in Europa ed in Giappone che negli Usa, obbligazioni in calo, soprattutto quelle a più lunga scadenza, e materie prime stabili, con forse l'eccezione dell'oro, in crescita a causa di dinamiche nuove sul fronte della domanda, e del carbone, il cui prezzo potrebbe aumentare per effetto del tentativo di sostituire questo combustibile al petrolio dove possibile per la produzione di energia.

 

Fonte - FtaOnline per Wall Street Italia

 

 

 

 

 

 

I TASSI AMERICANI VERSO IL 4,5%

11 Dicembre 2005  19:07  MILANO (di Cheo Condina) 

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BANCHE CENTRALI Paul Kasriel è capoeconomista e vicepresidente della Northern Trust Bank di Chicago. E alla vigilia della riunione della Federal Reserve (prevista per martedì 13 dicembre) ha le idee chiare sul prossimo futuro: «Sarà il penultimo rialzo dei tassi, l’ultimo arriverà nel meeting del 31 gennaio, con l’addio di Alan Greenspan e l’insediamento di Ben Bernanke al vertice della Banca centrale».

E poi che cosa accadrà? La Fed fermerà la stretta per un po’ di tempo. Per diversi motivi: innanzitutto l’economia americana, nonostante le apparenze, rallenta. I consumi si stanno indebolendo: ve ne accorgerete col dato sul pil del quarto trimestre. In secondo luogo lo spettro dell’inflazione si sta allontanando: le aspettative sui prezzi sono calate e il mercato del lavoro non contribuisce a riscaldare il carovita. Infine c’è il problema dell’eccessivo appiattimento della curva dei rendimenti, che spesso annuncia la recessione.

Greenspan però ha detto il contrario: che l’appiattimento della curva non lo preoccupa. Infatti in questo momento le sue preoccupazioni sono altre. In primis come cambiare il comunicato della Fed, già dalla prossima riunione, senza creare scossoni sui mercati.

Questo l’ha confermato la settimana scorsa Janet Yellen, presidente della Fed di San Francisco. Come potrebbe cambiare il comunicato? Potrebbe essere cancellata la promessa più importante di Greenspan: che la politica monetaria accomodante sarà rimossa a un ritmo misurato. Il che, in parole povere, significa che è stato raggiunto il livello neutrale dei tassi. Almeno fino a quando il dollaro non crollerà nuovamente contro l’euro.

Si tratta di uno scenario plausibile? Assolutamente sì. Se quest’anno il biglietto verde ha fatto meglio di euro e yen, è semplicemente per il fatto che i tassi nel Vecchio Continente e in Giappone sono ai minimi storici. Ma adesso che la Bce ha iniziato a sua volta la stretta monetaria e l’economia europea ha ripreso a marciare, la musica cambierà nuovamente. E sul dollaro tornerà a pesare l’enorme deficit di bilancio americano. Credo che i nodi verranno al pettine già nel prossimo autunno.

E per Bernanke l’unica possibilità sarà alzare i tassi... Certo, per attirare nuovi capitali negli Stati Uniti e finanziare il disavanzo. Questo però non gioverà alla congiuntura americana: normalmente, dopo un rialzo simile a quello realizzato dalla Fed, il costo del denaro non cresce ancora, resta fermo per un po’, e poi la banca centrale torna a ridurlo.

Bernanke, però, potrebbe avere un’arma in più: il target d’inflazione. Non cambierà nulla, la Fed ha una credibilità tale che non ha bisogno di questo strumento. E l’attuale trasparenza della nostra banca centrale è sufficiente. Troppa - come ha sottolineato Greenspan - rischia di indebolirla.

 

Fonte - Borsa & Finanza

 

 

 

WALL STREET ARRETRA, PAURA DEI BOND

27 Dicembre 2005  22:00  NEW YORK (ANSA)

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E' pesantemente negativa la prima seduta di Wall Street dopo lo stop natalizio. Il Dow Jones ha perso lo 0,97% a 10.777,77 punti, il Nasdaq Composite e' arretrato dell'1,00% a 2.226,89 punti e lo S&P 500 è calato dello 0,96% a 1.256,54 punti. Per il Dow Jones la perdita di 105 punti e' la peggiore dalla fine di ottobre.

Dopo un avvio positivo, gli indici hanno virato in rosso scontando la performance negativa dei titoli energetici e tecnologici, con vendite in accelerazione proprio negli ultimi 20 minuti. Va detto che i volumi sono comunque molto bassi per via del lungo periodo festivo. Secondo i trader del Nyse, sono mancati soprattutto i buy ad arginare le vendite.

Tutti e 10 i principali settori hano chiuso in rosso: Financials (-0.78%), Tech (-0.91%), Health Care (-0.84%), Consumer Staples (-0.68%), Consumer Discretionary (-0.79%), Industrials (-0.93%), Energy (-2.63%), Telecom (-0.09%), Materials (-0.69%) e Utilities (-0.41%).

In realta' i sell sono scattati quando sul mercato obbligazionario si e' creata una situazione particolare, che non si ripeteva da 5 anni, dal 2001. E' successo che i rendimenti del titolo del Tesoro americano a lungo termine, cioe' i Bot Usa a 10 anni (lo yield e' calato martedi' al 4.33% e il prezzo e' salito + 09/32) sono risultati esattamente uguali ai rendimenti del Titolo del Tesoro a 2 anni. Questo fenomeno, molto raro, che si chiama appiattimento o "inversione" della curva dei rendimenti, ha messo in allarme le banche d'affari di New York e provocato il ribasso in borsa, perche' segnala un rallentamento dell'economia degli Stati Uniti e nei casi peggiori, una recessione. E di conseguenza - secondo alcuni analisti - prelude a un possibile futuro taglio dei tassi da parte della Federal Reserve.

Secondo alcuni analisti interpellati dall'agenzia Bloomberg, sarebbe stato principalmente l'appiattimento della curva dei rendimenti evidenziato dal mercato dei Treasury e che segnalerebbe la possibilità di un rallentamento della crescita economica. In particolare - come gia' detto - si è verificata una inversione della curva dei tassi obbligazionari, con i rendimenti a breve termine superiori a quelli a lungo termine: un fenomeno che ha preceduto ognuna delle fasi di recessione vissute dagli Usa.

L'ultima volta risale a dicembre 2000: prima, quindi, della recessione del 2001. Per Stephen Massocca, di Pacific Growth Equities a San Francisco, in giorni di trading molto ridotto l'attenzione degli investitori si è concentrata su un "potenziale movimento del mercato dei bond nel timore che possa segnalare una recessione a breve termine".

Sul listino, la frenata dei prezzi del greggio, scesi sotto la soglia dei 58 dollari al barile, ha appesantito il comparto petrolifero che ha registrato un forte calo, mentre il comparto tecnologico ha sconta le perdite registrate dai 'negozi' online Amazon e EBay. Quanto ai singoli titoli, spiccano le perdite dei petroliferi con Valero Energy e di Exxon Mobil. In generale tutto il comparto retail e' andato male, oltre ad Amazon e Ebay, con arretramenti per Wal-Mart e Best Buy.

Al termine delle contrattazioni sul mercato valutario di New York, l'euro ha chiuso in ribasso a 1,1833 contro il dollaro, a fronte di 1,1865 di venerdì scorso.

 

Fonte - Ansa

 

 

 

 

 

  La nuova età dell'oro

02 dicembre 2005 - MILANO (Maria Grazia Briganti)

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Le quotazioni sfondano i 500 dollari l'oncia, toccando i livelli del 1983. Ma questa volta vi è un fatto nuovo. Alla base dei rialzi non c’è la crisi di fiducia nell’investimento finanziario e nell’economia. Lo scenario mondiale è cambiato, a partire dai Paesi emergenti che entrano sul mercato, come nuovi, ricchi, acquirenti.

Dopo una pausa di riflessione di due giorni, il prezzo dell’oro ha sfondato la soglia psicologica dei 500 dollari l’oncia (31,1035 grammi). A spingere verso l’alto le quotazioni, che nell’ultimo mese sono salite del 6% ed è di circa il 17% il rialzo da inizio anno, vi sono i massicci acquisti degli investitori che, oltre alla classica necessità di diversificare i portafogli, stanno prendendo posizioni su un bene la cui domanda mondiale è vista crescere esponenzialmente. Non solo perché le banche centrali asiatiche stanno convertendo le loro riserve da dollari a oro, ma perché -fattore nuovo rispetto al passato- le economie emergenti, più ricche e solide, si stanno affacciando sullo scenario internazionale come nuovi, aggressivi acquirenti.

L’oro di solito costituisce un investimento sicuro in tempi di alta inflazione o di crisi economiche a livello globale. La sua caratteristica di bene rifugio dipende anche dal fatto che è un metallo poco utilizzato nell’industria, diversamente dalle altre materie prime e minerali i cui prezzi tendono a muoversi in linea con la crescita economica a causa del loro più o meno intenso utilizzo nel settore industriale. Ma attualmente non vi sono segnali di crisi economiche. Trascurando i tassi di crescita vicini alle due cifre dei paesi asiatici, il prodotto statunitense e' salito del 4,3%: è il decimo trimestre consecutivo in cui l'economia statunitense è aumentata più del 3%. Anche in Europa, le attese sono per una crescita che si attesterà intorno al 2% per il 2006.

 Dal punto di vista dell’inflazione, essa è sotto l’occhio vigile delle banche centrali, americana ed europea, che sono già intervenute sui tassi, mentre la prima causa di surriscaldamento dei prezzi, il petrolio, è oggi stabile attorno a 55 dollari al barile. Ma l’oro è utilizzato come strumento di copertura contro movimenti al ribasso dei prezzi nei mercati finanziari, perché quando gli investimenti scendono e cala la fiducia nei titoli mobiliari, solitamente aumenta la necessita di detenere asset fisici, come i lingotti d’oro o le proprietà immobiliari. Storicamente, le valutazioni più alte si sono raggiunte nel 1980, a quota 873 dollari l’oncia. Nel ventennio successivo, fino alla fine degli anni ’90 le condizioni generali del mondo sono migliorate: l’inflazione è stata combattuta, la democrazia è arrivata in molti Paesi emergenti, le barriere al movimento di capitali sono state abbattute. Con i mercati in ripresa, gli investitori hanno accantonato l’investimento in lingotti. Fino allo scoppio della bolla speculativa, quando le valutazioni gonfiate del 2000 hanno reso l’acquisto di oro di nuovo conveniente. I corsi auriferi sono saliti, ma anche i mercati finanziari hanno pian piano smaltito gli eccessi e stanno per archiviare il loro secondo anno consecutivo in crescita. E le previsioni restano positive anche per il 2006.

I tempi sono cambiati, dunque, perchè al momento l’inflazione non è una vera minaccia, né vi sono crisi economiche in atto. Al contrario. Perchè è proprio la maggiore ricchezza economica dei paesi emergenti, India e Cina in testa, a sostenere la domanda e non solo in vista della stagione dei matrimoni e delle festività asiatiche di fine anno. Secondo il World gold Council, l’India, primo consumatore mondiale, quest’anno dovrebbe incrementare i suoi acquisti del 40%, superando le 850 tonnellate.

Fonte - Miaeconomia.it

 

 

 

 

 

LA CINA SORPASSA L' ITALIA

21 Dicembre 2005  6:59  PECHINO (di Federico Rampini)

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E´ un sorpasso che segna un´epoca. La Cina ha ufficialmente scavalcato l´Italia nella classifica delle nazioni industrializzate, relegandoci al settimo posto. L´exploit cinese è avvenuto un anno fa ma è stato rivelato solo ieri dalla revisione delle statistiche sul Prodotto interno lordo: l´equivalente dell´Istat di Pechino ha ritoccato a 1.930 miliardi di dollari il Pil cinese del 2004, contro i 1.670 miliardi dell´Italia. La Cina più di noi, quindi, dovrebbe avere voce nel G-7, il Gruppo dei sette grandi, di cui invece ancora non fa parte.

Lo scossone nella classifica delle potenze industriali è il risultato di due fattori. Il primo è il divario tra una Cina in irresistibile ascesa e un´Italia inchiodata al suo declino: è da un decennio che Pechino mette a segno regolarmente una crescita del Pil del 9% all´anno, mentre nello stesso periodo l´Italia è affondata nella stagnazione. L´altra novità è la revisione delle statistiche di contabilità nazionale, con cui la Cina ha misurato più accuratamente le dimensioni della sua economia: in un colpo solo il suo Pil è cresciuto di 300 miliardi di dollari, +17%, grazie all´ultimo censimento economico nazionale che ha rilevato un´ampiezza inattesa del settore dei servizi. Si è anche scoperto che la crescita cinese non è solo trainata dalle esportazioni, perché i consumi interni sono più alti di quanto si credeva: un segnale positivo anche per chi guarda al gigante di 1,3 miliardi di abitanti come a un mercato.

In realtà il ritocco al rialzo del Pil di Pechino dovrebbe essere molto superiore. Il peso reale dell´economia cinese è ancora più elevato di quanto non dica il sorpasso sull´Italia. Il valore di 1.930 miliardi di dollari infatti utilizza i prezzi correnti, e li converte usando la parità fra la moneta locale (renminbi o yuan) e il dollaro. E´ quindi un valore ancora inesatto per due ragioni: da un lato perché la moneta cinese è sottovalutata (gli americani sostengono che dovrebbe valere un 20-25% in più), d´altro lato perché il Pil nominale non tiene conto che il livello dei prezzi in Cina è molto inferiore. A parità di reddito il potere d´acquisto è molto più alto a Shanghai e Canton che a Roma e Milano (o New York).

Il vero Pil è quello che viene misurato dalla Banca mondiale applicando il metodo della «parità di potere d´acquisto»: la ricchezza reale di ogni paese viene calcolata in proporzione al costo della vita locale. Secondo quel metodo la Cina non ha sorpassato solo l´Italia ma anche la Francia, l´Inghilterra e la Germania, e insidia il Giappone nel ruolo di seconda economia mondiale dietro gli Stati Uniti. E´ usando quello stesso metodo che la Cia, la centrale di intelligence di Washington, prevede che entro quarant´anni avverrà il sorpasso dei sorpassi: quello della Cina sugli Stati Uniti. Già la settimana scorsa gli americani hanno avuto un assaggio della sfida in atto.

L´Ocse ha rivelato che il made in China ha rubato agli Stati Uniti il ruolo di leader nelle esportazioni di prodotti hi-tech. Dopo un decennio di crescita-record della sua industria elettronica la Cina ha superato per la prima volta l´America come maggiore fornitore mondiale di tutti i prodotti dell´Information Technology: l´insieme delle sue vendite di personal computer, laptop, telefonini e videocamere digitali ha raggiunto i 180 miliardi di dollari contro i 149 miliardi delle esportazioni americane.

Il sorpasso sull´Italia, se è assai meno importante della sfida Cina-Usa, è però un segnale d´allarme per il nostro paese. Coincide con la notizia che nella classifica di Business Week delle 500 multinazionali più grandi del mondo sono scomparse due italiane e hanno fatto il loro ingresso 18 grandi imprese cinesi. L´Italia è il paese che soffre di più per l´irruzione del made in China sui mercati mondiali, perché il nostro modello di sviluppo è il più vulnerabile a questo tipo di sfida. Abbiamo coltivato specializzazioni in settori come il tessile-abbigliamento e il calzaturiero, dove la disponibilità di un immenso bacino di manodopera a buon mercato dà alla Cina un vantaggio competitivo inesauribile.

Abbiamo tentato di spostarci su fasce a più alto valore aggiunto - puntando sulla qualità e il lusso - ma rapidamente si affacciano sulla scena dei designer asiatici che hanno l´ambizione di gareggiare anche a quei livelli. Si prepara lo sbarco delle auto cinesi in Europa, un altro choc nel settore delle utilitarie come lo fu l´arrivo delle giapponesi e poi delle coreane. Altri paesi industrializzati riescono a compensare almeno in parte gli squilibri commerciali grazie alle multinazionali e alla ricerca scientifica: i francesi vendono alla Cina centrali nucleari, i tedeschi treni ad alta velocità, gli americani i Boeing. Sono tutti settori dai quali l´industria italiana si è ritirata ormai da tempo.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

LA CINA IMPLODERA'

29 Dicembre 2005 16:49 MILANO (di Carlo Pelanda)

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Gli scenari profetizzano la migrazione del centro dell’economia globale dall’Atlantico al Pacifico. Alla fine degli anni 50 ci fu una situazione simile: le previsioni segnalavano che l’Urss avrebbe presto superato gli Stati Uniti per potenza economica e militare. Lo Standford Research Institute confezionò una serie di scenari preoccupati che contribuirono non poco a rendere più attivo il “contenimento” americano del potere sovietico da parte dell’Amministrazione Kennedy e successive.

I più anziani nel think tank occidentalista che questa rubrica frequenta ricordano ai più giovani tale esempio per suscitare in loro una riflessione: talvolta uno scenario sbagliato può essere più utile di uno azzeccato. Il problema è nato dalla diversità nei risultati che esiste tra la scenaristica specializzata e quella generica. La seconda, appunto, prevede l’ineluttabile emergere del potere cinese e le sue conseguenze globali. E passa sui media e nelle analisi di mercato. La prima, invece, si basa su scenari a “matrice” e non lineari che tengono conto delle criticità, ma visibili solo a pochi dato il loro costo. Da questi emerge che la Cina cresce senza adeguare il proprio modello interno. Quindi prima o poi salterà perché la varietà dei problemi di stabilità sociale e consenso, oltre che di architettura tecnica, sarà superiore a quella delle soluzioni. Tali analisi stanno modificando lo scenario elaborato nel 1994 dal Pentagono che individuava nel 2024 il raggiungimento del primato assoluto mondiale della Cina, gli Stati Uniti “minorizzati”.

Infatti è più probabile che il sistema cinese imploda in tre date: 2010, 2014, 2022. E ciò pone il problema: conviene spaventare l’occidente sventolando la minaccia cinese o segnalare che questa è, in realtà, di carta e che comincia a essere prioritario costruire gli argini per assorbire le conseguenze depressive di una crisi interna che già si intravede? I vecchi premono per la prima soluzione allo scopo di suscitare una reazione utile a ripristinare il potere occidentale planetario.

Ma i giovani scenaristi, intelligentemente, hanno notato che per l’errore di Clinton nel 1995 – l’inclusione della Cina nel sistema globale senza condizioni – non si potrà fare “contenimento” esterno perché il business occidentale, diversamente dal caso sovietico, è tutto ingaggiato in Cina. Pertanto la soluzione è quella di attuare una strategia di democratizzazione come unico modo per combinare i due obiettivi: stabilizzare la Cina e allo stesso tempo ridurne l’aggressività e la potenza strategica. Rimarchevole, in clima natalizio, notare che una volta tanto interesse strategico e morale coincidano.

 

Fonte - Il Foglio

 

 

 

 

 

 

  Petrolio: Goldman lo vede a $105

15 Dicembre 2005  18:20  MILANO (di La Lettera Finanziaria)

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Goldman Sachs torna con la sua previsione "catastrofista" sul prezzo del greggio. Gli analisti vedono a 105 dollari al barile con una "super-impennata" che forse durerà fino al 2009, a causa della scarsità dell'offerta rispetto alla domanda. Già lo scorso marzo Goldman stimò che il greggio, quotato attualmente poco sopra i 61 dollari al barile, potrebbe raggiungere 105 dollari al barile nel futuro. Oggi la banca americana compie un passo avanti: ribadisce la stima e le assegna un'indicazione temporale, entro la quale l'impennata potrebbe verificarsi.

Nella "migliore delle ipotesi," gli analisti di goldman, fra cui Arjun Murti, stimano che il prezzo medio del greggio sarà di 68 dollari al barile nel 2006. "Non siamo d'accordo con l'opinione prevalente che le quotazioni del greggio abbiano raggiunto i massimi nel 2005," hanno scritto gli analisti in un rapporto inviato ieri ai clienti.

Mercantile Exchange sono balzati del 50 percento negli ultimi 12 mesi, spinti dalla "perdurante domanda energetica, dalla fiacca crescita dell'offerta e dalla inesistente capacità inutilizzata," hanno indicato gli analisti. Il loro rapporto cita "l'ostacolo apparentemente insormontabile" di aumentare la capacità petrolifera in maniera tempestiva da parte dell'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, come motivo che "ci rende così certi di essere in una fase di 'super-impennata' del mercato energetico". Le azioni del settore petrolifero e del gas potrebbero offrire rendimenti del 60 percento, via via che i prezzi delle materie prime salgono verso i loro massimi, ha scritto murti. I titoli azionari consigliati da goldman includono quelli di Exxon Mobil Corp., Murphy Oil corp., Suncor Energy inc. e Encana corp.

 

Fonte - La Lettera Finanziaria