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Sabato 3 dicembre 2005 |
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Martedì 6 dicembre 2005 |
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Martedì 27 dicembre 2005 |
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Un finale d'oro per l'anno dei
fessi
4 Dicembre 2005 23:58 MILANO
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Forse,
ricorderemo il 2005 come l’anno dei «fessi»: l’anno in cui gli investitori hanno
guadagnato praticamente su qualsiasi valore finanziario o reale abbiano
puntato. Persino i fessi, appunto. Gli unici a rimanere a bocca asciutta
sono stati i troppo prudenti. Coloro i quali hanno lasciato i propri denari in
giacenza sui conti correnti. Per gli altri, il 2005 ha dispensato regali copiosi
e a volte persino traboccanti.
Il Nikkei
giapponese è ormai in impennata, sforando questa settimana la soglia psicologica
dei 15mila punti. L’Eurostoxx 50 veleggia sui massimi e non esiste piazza
continentale dove i ritorni del 2005 siano stati inferiori al 10% (ma per molte
si parla del 20-25%). Poi c’è l’America. Lì l’arricchimento nominale è meno
spettacolare; tuttavia, se si tiene conto del dollaro forte, per un
investitore dell’area euro il guadagno è a due cifre. A completare il quadro, ci sono poi gli
immobili, i metalli preziosi, le materie prime e i titoli del debito
(anche le obbligazioni Usa, in euro). Il saliscendi del petrolio non ha piegato
i mercati. Ma ha fornito un prezioso punto di riferimento per la ripresa
dell’oro contro tutte le valute, compreso il dollaro forte. Insomma, è andata
meglio, molto meglio del previsto. E per il futuro? Le opportunità non mancano.
TUTTI PAZZI
PER IL NIKKEI. Per 15 anni l’economia nipponica è stata piagata da ogni
sorta di maledizione: debito da primato, demografia disperante, radicato
pessimismo. Ma per anni le aziende hanno tirato la cinghia e poco a poco hanno
ristrutturato e potato i rami secchi. Così appena si è materializzata la ripresa
internazionale, i profitti sono esplosi. Dal 2000, le esportazioni verso la Cina
registrano un incremento del 300%, e ora rendono conto per il 15% del commercio
estero nazionale.
Ma a dare l’innesco all’ultima gamba rialzista della
piazza di Tokyo ci ha pensato soprattutto la vittoria schiacciante del primo ministro
Koizumi. Gli investitori esteri apprezzano le sue riforme radicali, a
partire dal mandato a ristrutturare il sistema postale che porta in pancia
200mila miliardi di yen delle famiglie giapponesi, che languono in titoli
governativi a basso rendimento. Quando gli operatori esteri hanno intuito i
cambiamenti, si sono catapultati sul mercato azionario giapponese. A questo
punto c’è da domandarsi se valga la pena di comprare, vendere o tenere le azioni
del Sol Levante.
Borsa & Finanza ha girato la domanda al
leggendario investitore newyorchese Jim Rogers, il quale, alcuni lustri
addietro, fu tra i primi ad acquistare i titoli nipponici: «No, non ho liquidato
le mie posizioni - confessa al giornale - C’è molta effervescenza, il che spesso
preannuncia un consolidamento. Ma no, non sto vendendo». Le ragioni degli
ottimisti sono presto spiegate: «Per la prima volta dal 1991, il prezzo degli
immobili si è stabilizzato - spiega Louis Gavekal di Gavekal Research con sede a
Hong Kong - Finalmente l’attività bancaria accelera, le aziende si avvantaggiano
di manodopera straniera a buon mercato e le compagnie quotate restano
leggermente sottovalutate». Piace anche la prospettiva di una risalita
dell’inflazione, che renda i titoli del debito meno appetibili. Secondo gli analisti interpellati da Borsa
& Finanza, il Nikkei potrebbe salire, nel medio termine, di un altro 30%
(malgrado sia vulnerabile a una correzione).
TRICHET NON
FA PAURA. La stretta di 25 punti base operata giovedì 1 dicembre da
Jean-Claude Trichet, numero uno della Banca centrale europea, è coincisa con
un’altra punta di acquisti a Piazza Affari (così come a Parigi e Francoforte).
«In effetti la decisione era largamente preannunciata - commenta Patrick
Schowitz, di Hsbc - e nessuno è stato colto di sorpresa». Semmai, la comunità
degli uomini d’affari ne esce rinfrancata: l’approccio della Bce è tuttora
accomodante, come ha enunciato lo stesso Trichet a lettere cubitali. Tant’è vero che la Borsa ha festeggiato mentre
il cambio ripiegava all’indietro, cioè i frutti tipici di una politica
espansiva. In effetti quando il governatore dichiara che «non esiste
nessuna decisione ex ante per una sequenza di strette», delega le sue decisioni
ai dati in arrivo nei prossimi mesi: si salirà solo se la ripresa si consoliderà
(il che sarebbe comunque un’ottima notizia). A giudizio di Schowitz (l’analista
di Hsbc) «un certo ottimismo è giustificato per i mesi venturi». Per lui, come
per parecchi suoi colleghi, è possibile un aumento di valore nell’ordine del 10
per cento grazie a un mix di fattori: liquidità abbondante, boom degli utili,
euro debole e le disponibilità dei risparmiatori individuali.
L’EFFETTO LIQUIDITÀ. Colpisce, in particolare,
proprio l’enorme massa potenziale che i cittadini europei possono riversare sui
fondi azionari, abbandonati proprio nel 2002, quando la ripresa muoveva i primi
passi dopo il crollo del 2000-2001. Una condanna comune ai risparmiatori retail.
Le famiglie americane fecero altrettanto negli anni ’70: l’emorragia di capitali
da Wall Street toccò il massimo proprio quando il peggio era ormai passato e i
titoli avevano ripreso a salire. Si andò avanti su questa linea fino al 1980.
Dopodiché i piccoli tornarono a comprare, alimentando quel mercato Toro che, tra
alti e bassi, ha raggiunto la sua vetta solo nel 2000.

Fonte - Bloomberg - Borsa &
Finanza
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Sabato 3 dicembre 2005 |
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Venerdì 16 dicembre 2005 |
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Sabato 24 dicembre 2005 |
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IL TORO NON MOLLA
di Borsa &
Finanza
11 Dicembre 2005
17:58 NEW YORK
Azioni, azioni e ancora azioni
avevano consigliato i gestori nel corso del Forum organizzato da Bloomberg
Borsa & Finanza lo scorso 16 luglio. E hanno avuto ragione perché in
meno di cinque mesi i mercati mondiali hanno continuato a guadagnare
terreno: la Borsa americana è cresciuta in euro più del 6%, l’Europa ha
fatto ancora meglio con rendimenti superiori al 7% e i Paesi emergenti
hanno restituito guadagni addirittura prossimi al 10 per cento.
Che cosa accadrà nei prossimi
mesi? Quali le scommesse vincenti per il 2006? I gestori sembrano ancora
convinti che le azioni siano da preferire alle obbligazioni, visto che il
rischio che si corre acquistando bond è troppo alto se confrontato con i
rendimenti che procurano. Ma sono meno entusiasti rispetto alla scorsa
estate. «È naturale un rallentamento, perché è irrealistico pretendere
tassi di crescita simili», dicono. Nonostante ciò, i mercati sembrano
ancora stabili perché non ci sono ragioni che spingano al pessimismo.
«Le Borse non barcollano
affatto», sottolineano, ma nello stesso tempo consigliano un pizzico di
cautela. A preoccupare è il progressivo drenaggio di liquidità messo in
atto dalle banche centrali. Dopo la Fed anche la Banca centrale europea ha
deciso infatti di aumentare i tassi d’interesse, portando il costo del
denaro nel Vecchio Continente al 2,25 percento. Una mossa, quest’ultima,
largamente prevista dai mercati, visto che i tassi reali a breve termine
sono negativi da mesi; nonostante ciò, i gestori temono un aumento
eccessivo della volatilità delle Borse. Gli occhi sono quindi puntati
sull’evoluzione di variabili macroeconomiche e sull’impatto che potranno
avere le scelte di politica monetaria, con un’attenzione particolare alla
curva dei tassi a lungo termine. Il timore è che il presidente della Bce,
Jean Claude Trichet, non riesca a mettere in atto quello stesso
«atterraggio morbido» così ben riuscito al governatore della Fed, Alan
Greenspan. Gli Stati Uniti hanno ritoccato i tassi a breve dall’1 al 4%,
ma Wall Street ha continuato a crescere. Nell’area euro, con ogni
probabilità, dopo l’aumento dello 0,25% di inizio dicembre non saranno
necessari ritocchi di queste proporzioni. Ma i gestori si aspettano
comunque nuovi aumenti per complessivi 0,75 punti base, da realizzare nei
prossimi due anni. La Banca centrale europea, in realtà, già con questo
primo intervento ha dimostrato di aver fatto enormi progressi nella
comunicazione al mercato delle proprie intenzioni, per questo è plausibile
attendersi una reazione contenuta delle Borse.
I responsabili dei fondi
continuano però a riporre le attese più ottimistiche nei mercati
emergenti, che potrebbero offrire ancora buone opportunità non solo nel
comparto azionario, ma anche in quello obbligazionario. Per sfruttare
queste chance serve tuttavia coraggio da parte di un’industria del
risparmio gestito spesso troppo ancorata ai benchmark presi a riferimento
nei propri fondi. Se si replicano semplicemente gli indici si rischia
infatti di deludere i risparmiatori. Ma gli investitori, avvertono i money
manager, restano spesso scottati anche con i migliori prodotti, perché
vendono e riscattano i fondi spinti dall’emotività. E a sostegno della
loro tesi snocciolano i numeri: in venti anni, dall’85 al 2004, i fondi
hanno reso in media il 380%, ma nelle tasche dei sottoscrittori è andato
solo il 160 per cento. Colpa di un gap tra performance e sottoscrizioni. I
clienti acquistano cioè fondi quando i mercati sono cresciuti e continuano
a riscattare anche con le Borse in ripresa. Un fenomeno che si sta
ripetendo anche in questi mesi con i fondi liquidità - utili nelle fasi di
attesa come quella attuale - che da gennaio hanno registrato un deflusso
netto di capitali di quasi 10 miliardi.
Questo il quadro generale dei
tanti temi affrontati nel corso dell’ultimo Forum organizzato da Bloomberg
Borsa & Finanza, mercoledì 30 novembre, al quale hanno partecipato:
Corrado Caironi (Merrill Lynch Investment Managers), Giordano Martinelli
(Anima Sgr), Andrea Favaloro (Fortis Investments), Emilio Franco (Sanpaolo
Imi Asset Mangement Sgr), Carlo Alberto Bruno (Schroders), Francesco Fonzi
(Credit Suisse Italy), Giorgio Giovannini (Henderson Global Investors),
Claudio Tosato (Monte Paschi Asset Management Sgr), Enrico Biglino (Dws
Investments Italy Sgr).
1 Procediamo con ordine, tornando
a parlare di mercati e partendo ovviamente dalle previsioni sui possibili
effetti del primo rialzo dei tassi d’interesse realizzato nell’area euro
dopo tre anni.
Caironi: L’Europa aveva bisogno
di questa sterzata perché i tassi a breve devono tornare in un’area reale
positiva. Anche se ci sono Paesi, come Francia e Spagna, che avrebbero
avuto bisogno da tempo di un rialzo. E altri, come per esempio la
Germania, che faranno invece più fatica a digerire l’incremento. L’aumento
dei tassi, a ogni modo, porta in genere un incremento della volatilità. Ma
la vera rivoluzione potrebbe essere il rialzo dei tassi in Giappone dove
l’effetto deflattivo potrebbe essere terminato. Una variabile che finora
avevamo escluso nei nostri modelli.
Franco: Ho l’impressione che la
Banca centrale europea si stia muovendo con gradualità verso un obiettivo
che non conosce ancora. La Fed quando decide i suoi interventi considera
sia la crescita sia l’inflazione. Mentre il governatore Trichet finora si
muove solo considerando il livello dei prezzi, seguendo le indicazioni
della Banca centrale francese.
Martinelli: Stiamo dando troppa
importanza ai tassi d’interesse. Spesso si finisce per attribuire ai saggi
un valore quasi magico che in realtà non hanno. Ciò che conta è la fiducia
degli operatori nel mercato. L’esempio arriva proprio dagli Stati Uniti,
dove il mercato è continuato a salire nonostante i ripetuti aumenti dei
tassi. Poi spesso si fa riferimento ai tassi a breve, ma quelli che
contano veramente sono i tassi a lungo, sui quali finora non ci sono stati
grandi movimenti.
Giovannini: Sono d’accordo con
Caironi. Continuiamo a parlare di Bce, ma la novità economica del 2006
sarà probabilmente la Banca centrale giapponese.
2 Ma il rialzo dei tassi
nell’area euro non rischia di avere effetti consistenti tra i
risparmiatori che in questi anni, approfittando del basso costo del
denaro, hanno aumentato il loro livello d’indebitamento, a cominciare dai
mutui per il settore immobiliare?
Fonzi: È un rischio che va
attentamente monitorato. Ci troviamo in una situazione anomala in cui le
aziende, dopo le ristrutturazioni, hanno molta liquidità a disposizione;
mentre i privati sono molto indebitati e agire sulla leva dei tassi
potrebbe essere pericoloso.
Franco: In effetti quello del
reddito in mano alle famiglie è uno dei temi più delicati. Per quanto
riguarda il settore immobiliare, l’evoluzione in Eurolandia dipenderà da
vari fattori. In particolare, dalla percentuale di debito a tasso
variabile sul totale dello stock di finanziamenti immobiliari, ma anche
dalle dinamiche demografiche alla base della domanda di immobili e
l’evoluzione dell’offerta. Il quadro è estremamente complesso, ma è
possibile che anche in Europa accada quanto sta succedendo in Usa e Regno
Unito, ovvero un soft landing delle quotazioni del mattone, con prezzi
nominali piatti ed erosione del valore reale degli immobili.
Fonzi: Io vorrei aggiungere che
tutto sommato non prevediamo un impatto significativo del rialzo dei tassi
sull’immobiliare. In Europa i mercati che potrebbero risentirne sono
quelli finora più effervescenti come Spagna e Irlanda: è probabile che si
registri un assestamento, con un calo soprattutto delle transazioni e un
lento, ma prolungato consolidamento dei prezzi. Come è accaduto nei
mercati dove la politica restrittiva è a un ciclo più avanzato: in Gran
Bretagna, dove la crescita dei prezzi delle case è passata da un ritmo del
25% annuo della primavera 2003 all’attuale 2,5%; o in Australia, dove
negli ultimi due anni siamo passati dal 19% annuo alla crescita zero. Più
a rischio il mercato immobiliare americano, ma solo se la Fed dovesse
passare da una politica neutrale a una più dichiaratamente restrittiva.
Martinelli: Sono d’accordo. In
linea generale un aumento dei tassi incide negativamente sul mercato
immobiliare, ma ciò che conta non sono i tassi a breve, bensì quelli a
lungo termine. Negli Stati Uniti nell’ultimo anno abbiamo assistito a una
crescita piuttosto rapida dei tassi ufficiali, ma i rendimenti dei titoli
decennali non si sono mossi in modo analogo. E il mercato immobiliare per
ora ha tenuto. Vorrei poi sottolineare che non esiste una relazione
automatica, una catena di trasmissione, tra il livello dei tassi e prezzi
degli immobili, o quelli delle altre attività finanziarie.
Tosato: La
politica di rialzi graduali si sposa, tra l’altro, con la necessità di
calmierare il boom del settore immobiliare evitandone tuttavia tracolli.
Ma in Europa l’impatto sulla ricchezza disponibile delle famiglie risulta
connesso al maggior onere legato alla quota d’interessi e all’eventuale
minor valore di mercato dell’immobile in sede di trasferimento. A
differenza del caso americano, non esistono infatti possibilità di
«estrazione» di liquidità
dall’incremento di prezzo delle
abitazioni: vi sono criteri più stringenti per la concessione del mutuo e
si registra un minore ricorso a forme atipiche di concessione creditizia.
Bruno: In effetti se il tasso di
apprezzamento degli immobili scendesse al di sotto del tasso dei mutui, il
rimborso del debito immobiliare richiederebbe un ulteriore forte aumento
della necessità di risparmio. Il rischio di un significativo effetto
deflattivo sul ciclo economico, da circolo virtuoso a circolo vizioso, è
molto alto, in particolare negli Stati Uniti. Ma da lì, possiamo
scommettere, si diffonderebbe a tutta la crescita globale.
3 In questo contesto, come
dovrebbero muoversi gli investitori? Quali sono le asset class che
andrebbero preferite, tra azioni e obbligazioni?
Fonzi: La nostra attuale asset
allocation prevede, da diversi mesi ormai, una preferenza per i mercati
azionari rispetto ai mercati obbligazionari. Con il nuovo anno è
ipotizzabile un upgrade del reddito fisso e un contestuale
ridimensionamento del sovrappeso sui listini. Ma tra le azioni, il
Giappone potrà continuare a recitare un ruolo da protagonista, per effetto
di cambiamenti strutturali a livello macro e micro. Più sfumata la
differenza tra Europa e Usa: dopo una prolungata sottoperformance (dal
marzo 2003), Wall Street potrebbe recuperare in termini relativi fino al
momento del picco dei tassi in Europa. Le aziende europee continuano a
farsi apprezzare per una conduzione manageriale più attenta ai costi e
all’efficienza complessiva, ma le valutazioni hanno visto ridursi il
premio a favore degli Stati Uniti e il quadro macro appare ancora poco
favorevole.
Biglino: Anch’io credo ci siano
delle buone condizioni per investire in azioni: i prezzi dell’equity non
sono mai stati così attraenti rispetto a quelli dei bond come negli ultimi
trent’anni. Anche il rapporto prezzo/utili di molte società è basso.
Ritengo poi che Brasile, Russia, India e Cina siano i Paesi emergenti da
sovrappesare. In Europa la nostra attenzione è rivolta soprattutto alla
Germania, dove ci sono molte aziende interessanti, come per esempio
Siemens e Allianz, il cui fatturato dipende sempre meno dal mercato
interno.
Favaloro: Credo non vi siano dei
chiari segnali che spingano a preferire un posizionamento più forte sui
mercati azionari Usa rispetto a quelli europei. L’outlook sui profitti al
momento sembra più promettente negli Stati Uniti e gli analisti stanno
addirittura alzando le previsioni per le società americane per fine 2005 e
per il 2006. Tuttavia, in breve tempo le società europee trarranno
beneficio dall’euro debole e dal miglioramento dei profitti. Per questo
Fortis considera più attraente i mercati europei rispetto all’America,
anche se la sottoperformance dell’azionario americano sta riducendo il
divario nelle valutazioni. Ma tendiamo comunque a preferire l’Europa agli
Usa.
Franco: Io invece preferisco
sovrappesare la Borsa di New York, visto che da inizio anno è in ritardo
rispetto agli altri listini. Inoltre il ciclo di rialzo dei tassi è in
fase più avanzata che altrove. Mi piace anche Tokyo, sottovalutata e
sostenuta da fondamentali ciclici e strutturali in miglioramento. Infine,
anche i mercati emergenti hanno buoni fondamentali sia a livello di ciclo
che di valutazione.
Martinelli: Sono d’accordo con i
miei colleghi. È il Giappone il mercato che ha le maggiori probabilità di
crescita in assoluto nei prossimi 12 mesi e che presenta il miglior
rapporto rischio-rendimento in un’ottica di medio-lungo periodo.
Giovaninni: Senza dubbio, è ormai
imprescindibile essere sovrappesati sull’Oriente e sui Paesi emergenti.
Crediamo poco nei settori e molto sulle singole scelte azionarie. Ma senza
titoli favoriti, bensì scelte di fondo e grande flessibilità operativa:
non essere isterici ma neanche duri a resistere per non ammettere i propri
errori di valutazione. Il mercato premia e paga il gestore attivo,
altrimenti l’Etf è sempre pronto a subentrare.
Tosato: In uno scenario di
crescita sostenibile e di diffuso miglioramento dei fondamentali aziendali
rimane l’impostazione strategica favorevole all’asset class azionaria. In
una prospettiva di più breve respiro, si rinvengono tuttavia elementi di
cautela connessi al progressivo drenaggio della liquidità da parte delle
Banche centrali, alla riduzione della propensione al rischio degli
investitori e alla conseguente minore appetibilità dell’investimento
azionario.
Bruno: Rispetto ai miei colleghi,
preferisco mantenere un moderato sottopeso sia sul comparto azionario sia
su quello obbligazionario, a fronte di un aumento della componente di
liquidità. Per quanto riguarda l’asset allocation geografica anch’io vedo
favorito il mercato americano, sia per gli investimenti azionari sia per
quelli obbligazionari, rispetto all’Europa. I mercati emergenti, poi,
rimangono ancora attraenti e il Giappone ha ottime prospettive, ma
potrebbe essere soggetto a temporanee correzioni.
Caironi: Io parlerei di Borse a
due velocità. Fino alla prima metà del 2006, ritengo che i mercati
azionari possano essere ancora positivi, mentre i bond potrebbero
ritrovare nuovi assestamenti. Le variabili della crescita economica, la
tenuta dei consumi e i tassi d’interesse saranno determinanti per valutare
un possibile aumento della volatilità sulle Borse.
4 Più in dettaglio, quali settori
o titoli costituiranno le scelte premianti del futuro?
Biglino: Credo che la domanda
elevata di materie prime, insieme a una capacità produttiva ben utilizzata
e a un significativo investimento in infrastrutture nei mercati emergenti,
consentiranno sia alle società petrolifere sia al settore dei beni
capitali e delle utility di generare sostanziali profitti. Tra le società
che trarranno benefici dalla globalizzazione, includo anche quelle
appartenenti al settore della logistica. In Giappone, dove l’economia è in
crescita, sovrappeso i titoli finanziari e immobiliari. I settori
difensivi come, per esempio, quello farmaceutico rimangono tra i miei
favoriti per il 2006. Mantengo invece un sottopeso verso il settore dei
beni di consumo, tra cui il retail e l’industria automobilistica.
Fonzi: Sono sostanzialmente
d’accordo sui petroliferi. Esaurita la fase attuale di correzione,
potrebbero recuperare nuovo terreno. In particolare i nostri investimenti
sono focalizzati su Ensco negli Stati Uniti, Encana in Canada. Anche la
tecnologia, però, avrà un ruolo da protagonista, in America soprattutto
nei primi mesi dell’anno. Più in generale, i settori difensivi saranno
favoriti dalle prospettive di rallentamento nella seconda metà del 2006,
soprattutto negli States dove hanno sofferto e sono passibili di
re-rating: pensiamo a esempio a Procter & Gamble. Anche i finanziari
come Jp Morgan e Citigroup negli States, Nomura e Sumitomo Trust Bank in
Giappone, potrebbero recuperare in termini relativi. Bene anche i
farmaceutici, soprattutto gli europei Roche e Sanofi. Tra gli industriali
privilegiamo Siemens in Germania e Matsushita Electric Industry in
Giappone.
Franco: Sono sostanzialmente
d’accordo: i settori da privilegiare sono i finanziari, soprattutto nel
Regno Unito per le valutazioni attraenti, la tecnologia, quella Usa in
particolare, oltre che per le valutazioni, per la crescita degli utili e
per il ciclo di nuovi prodotti. Infine meglio l’healthcare Usa rispetto a
quello europeo.
Favaloro: Sì, anche a mio
giudizio le banche e le assicurazioni hanno valutazioni ancora
interessanti e quindi sono da sovrappesare. Oltre ai finanziari,
opportunità interessanti arriveranno dalla grande distribuzione. Mentre è
meglio stare alla larga dai titoli dei comparti alimentare, immobiliare e
commodity.
Martinelli: Troviamo valore,
ancorché meno che in passato, nei titoli tecnologici e in certa misura nei
telefonici. Ci sembra che i petroliferi, nonostante la correzione del
recente passato, incorporino per contro ancora livelli di prezzo del
petrolio poco sostenibili nel lungo termine.
5 Diamo un’occhiata a casa
nostra. Come si muoverà Piazza Affari il prossimo anno?
Fonzi: Fanalino di coda tra i
principali mercati europei nel 2005, Piazza Affari ha rovesciato
simmetricamente il vantaggio accumulato con la sovraperformance relativa
dell’anno precedente. Anche nel 2006 dovremmo assistere a una dicotomia
tra le dinamiche macro (crescita sempre insufficiente) e quelle micro (le
società hanno migliorato in modo significativo efficienza e redditività).
La Borsa italiana dovrebbe registrare un comportamento più in linea con i
mercati europei. A livello settoriale preferiamo i finanziari, favoriti
dalla prospettiva di un aumento dei tassi d’interesse: in particolare
Banca Intesa e Unicredito tra i bancari e Generali e FondiariaSai tra gli
assicurativi. Credo, infine, che utility e telecomunicazioni possano
continuare a sottoperformare, anche se in misura minore che nel 2005.
Franco: Rispetto all’Europa mantengo una moderata preferenza per il
mercato italiano, alla luce del rilevante peso del settore finanziario sul
nostro listino e dei possibili catalyst positivi sulle banche in
particolare; e alla luce della tradizionale correlazione positiva fra
utili e tassi a breve, nonché delle aspettative di un ravvivato
consolidamento del settore dopo le elezioni politiche.
Biglino: Anch’io sono ottimista
sui finanziari. Tra i miei titoli preferiti ci sono Unicredito e Fineco.
All’interno del comparto dei petroliferi mi piace soprattutto Saipem.
Credo, però, che nel 2006 Piazza Affari possa performare meno in termini
relativi rispetto alle Borse europee. Innanzitutto perché molte società
quotate sull’S&P/Mib saranno penalizzate dall’aumento dei tassi
d’interesse. Inoltre, su Piazza Affari peseranno le incertezze riguardanti
lo scenario politico, visto l’avvicinarsi delle prossime elezioni.
6 Parliamo
ora di valute. Da inizio anno il dollaro ha riguadagnato prepotentemente
terreno sull’euro, con il cambio che è scivolato fino a 1,16. La corsa è
destinata a proseguire? Tosato: Il recente rafforzamento della valuta
americana appare coerente con quanto espresso dai fondamentali economici.
Il concomitante assorbimento della sottovalutazione e il restringimento
dei differenziali dei tassi di crescita economica e dei tassi d’interesse
che la giustificavano suggerisce che
probabilmente i massimi sono
stati raggiunti o non sono lontani. Non va quindi escluso un possibile
indebolimento, non certo travolgente, in prossimità della conclusione del
ciclo di restrizione della Federal Reserve, con un ritorno di attenzione
sulla tematica del deficit pubblico (anche in virtù della migliore
conoscenza degli stanziamenti necessari all’attività di ricostruzione dopo
le devastazioni provocate dagli uragani in serie).
Franco: Anch’io ritengo che
l’euro non abbia significativi spazi di ulteriore indebolimento rispetto
al dollaro dalle quotazioni attuali. La moneta americana, infatti,
continua a presentare significative debolezze di natura strutturale
(deficit commerciale in continuo aumento). Però l’euro potrebbe continuare
a indebolirsi rispetto alle valute asiatiche, a causa della debolezza
relativa dei fondamentali ciclici e strutturali, per esempio l’incerto
assetto istituzionale.
Giovannini: È interesse di tutti
tenere il dollaro nella fascia 1,15-1,25 ma se dobbiamo esprimere una
previsione, preferiamo azzardare 1,30 piuttosto che 1,00.
Fonzi: Io, invece, credo che il
dollaro abbia ancora alcune chance di rafforzamento, ma nel breve periodo.
Sono più cauto sul medio termine. Nel 2005 infatti il biglietto verde ha
tratto grande beneficio dall’ampliamento del differenziale dei tassi a
favore degli Stati Uniti, dalla maggiore dinamicità dell’economia
americana e dall’Homeland Investment Act che ha portato al rimpatrio per
motivi fiscali di circa 200 miliardi di dollari di profitti societari.
Questi elementi favorevoli non sono ripetibili nel 2006, anno in cui il
mercato valutario dovrebbe tornare a concentrarsi sui fondamentali,
caratterizzati da un ulteriore peggioramento del deficit delle partite
correnti e da un nuovo ampliamento del deficit federale. I flussi ancora
molto sostenuti a favore del dollaro provenienti dall’Asia e, in misura
crescente, dai Paesi di riferimento dell’Opec, potrebbero comunque
rallentare la correzione della moneta americana.
Bruno: Credo anch’io che nel
trend a lungo termine il dollaro patirà il deficit strutturale degli Stati
Uniti e la necessità di finanziare e rimborsare l’elevato stock del debito
estero. Martinelli: Non sappiamo se la corsa sia destinata a proseguire,
ma certo oggi manteniamo un livello di copertura sul dollaro molto più
elevato che in passato, il 70% circa rispetto al 38% di fine 2004.
7 Parlando invece dell’industria
del risparmio, con la riforma della Banca d’Italia il settore ha cambiato
volto. Come cambierà adesso l’offerta?
Biglino: In Italia Dws
Investments è stata la prima Sgr ad adottare il nuovo regolamento della
Banca d’Italia. Sono convinto che le nuove direttive offrano concrete
opportunità per rendere ancora più dinamici i fondi comuni d’investimento.
Favaloro: Ci sarà una maggiore
flessibilità operativa e uno stimolo allo sviluppo di nuovi strumenti
d’investimento. È probabile che i prodotti a rendimento assoluto e a basso
rischio continueranno a mantenere nel 2006 la stessa importanza avuta
quest’anno. Nelle condizioni attuali il premio offerto dalla classi di
attivo rischiose come le azioni, non compensa infatti adeguatamente gli
investitori. Per questo motivo le soluzioni a rendimento assoluto offrono
un miglior trade off rischio-rendimento e risultano più attraenti rispetto
ai portafogli tradizionali.
Franco: Anche noi siamo convinti
che la preferenza dei risparmiatori per i prodotti a rendimento assoluto
sia destinata a caratterizzare ancora il prossimo futuro. Per questo
Sanpaolo Imi ha costituito nel 2005 un team per la gestione di prodotti
absolute return, con base in Lussemburgo che saranno commercializzati
presso la clientela istituzionale e retail nel 2006. E abbiamo ambiziosi
obiettivi di raccolta per il prossimo triennio.
Giovannini: Penso però che si
debba uscire dalla moda del prodotto o dello stile di gestione per
concentrarsi piuttosto sul rapporto tra performance e rischio
dell’investitore. Un buon gestore è colui che riesce a dare adeguati
rendimenti stabili nel tempo. Il benchmark non è da buttare, ma bisogna
stare attenti a non pagare eccessivamente un prodotto a indice spacciato
per attivo. E noi sappia che su questo fronte qualcuno ci marcia.
Tosato: In ogni caso, credo che
le nuove regole della Banca d’Italia, recependo la direttiva Ucits III,
saranno utili a risvegliare l’industria e superare questi ostacoli. Con
tutte i loro limiti, si tratta di regole che vanno in direzione di
un’ulteriore apertura del mercato con conseguente aumento delle pressioni
competitive, su prezzi e raccolta, a opera di player esteri.
Contemporaneamente, l’innalzamento degli standard qualitativi richiesto
sul fronte del sistema dei controlli, della trasparenza e della gestione
dei conflitti d’interesse, esercita una spinta verso l’alto sui costi
portando a una continua erosione dei margini di redditività delle società
di gestione italiane.
Franco: Aggiungerei che la spinta
a migliorare arriva anche dalla crescita che le società estere stanno
realizzando in Italia. Grazie alle enormi masse in gestione, imprese come
Fidelity riescono a investire molto sui processi e a mettere in piedi
metodologie vincenti, guadagnando nuove quote di mercato anche nel nostro
Paese.
Favaloro: È vero, ma non c’è
bisogno di capitali enormi per realizzare strutture competitive. Tra noi
oggi c’è per esempio un rappresentante di Anima sgr, una società che
nonostante sia di dimensioni ridotte è riuscita a distinguersi in Italia.
Serve coraggio da parte dei gestori. Non si può aspettare che siano i
clienti a chiederci di aumentare il peso degli investimenti in Paesi
emergenti. Servono delle soluzioni di rottura rispetto alle asset
allocation tradizionali. Ma non tutti i gestori sono disposti a correre
rischi tali per paura di sbagliare.
Bruno: Con la riforma della Banca
d’Italia e la normativa comunitaria l’attenzione si è spostata dal
prodotto al servizio. Ora occorre però essere in grado di offrire
soluzioni diverse a domande e bisogni che non sono solo differenziati tra
i soggetti, ma che mutano nella vita di ciascun soggetto stesso, sia
privato sia istituzionale.
8 Intanto però le società estere
continuano a crescere in Italia. Nel terzo trimestre 2005 è stata
registrata la raccolta più alta di sempre, superiore a 8 miliardi,
portando il saldo da inizio anno a 19 miliardi. Come dobbiamo giudicare
questo nuovo fenomeno?
Giovannini: Nell’industria del
risparmio gestito si parla di global player o di boutique. Fino a quando i
gestori italiani rimarranno indecisi tra i due ruoli, gli stranieri
potranno tranquillamente aumentare la loro quota di mercato. Credo però
che sia Anima nel 2004 sia Pioneer nel 2005 rappresentino storie agli
antipodi ma entrambe vincenti e quindi meritevoli di approfondimento.
Fonzi: Personalmente credo che il
trend di espansione delle società estere in Italia proseguirà. La tendenza
del risparmio gestito sembra orientare gli operatori a una sempre maggiore
specializzazione e ciò favorisce gli stranieri per il know how che hanno
accumulato.
Tosato: Anch’io prevedo un
proseguimento di questo trend per l’effetto combinato di due fattori. In
primo luogo per la progressiva apertura del sistema a prodotti non solo
della casa. E poi perché le società estere beneficiano della maggiore
apertura del mercato domestico grazie al recepimento della direttiva Ue
relativa a società e prodotti armonizzati, il cosiddetto passaporto
europeo. Ma l’apertura purtroppo non vale per le case italiane a causa
della tassazione gravante sui prodotti nazionali, un problema che andrebbe
risolto rapidamente se non si vuole pregiudicare la crescita futura.
Caironi: Penso che la strada dell’open architecture abbia evidenziato la
possibilità di una maggiore efficienza nella costruzione dei portafogli.
La diversificazione di stili e specializzazioni, la varietà di capacità
dei gestori e la ricerca di fondi sempre più capaci di creare valore nei
portafogli è un passo avanti per l’attività di servizio che tutte le reti
di consulenza e distributive hanno riconosciuto.
9 Ma le stesse reti distributive
hanno mostrato delle contraddizioni. Non riescono infatti a evitare che il
risparmiatore sia vittima dell’emotività ed entri in Borsa quando i
mercati sono già saliti e riscatti quando sarebbe invece il caso di tenere
duro...
Tosato: È vero, questo problema
c’è ed è tutt’altro che marginale. Abbiamo calcolato che il sistema fondi
negli ultimi venti anni ha guadagnato il 380%, ma i risparmiatori a causa
di ingressi e riscatti sbagliati hanno ottenuto rendimenti medi solo del
160 per cento. Con una perdita secca della differenza. Giovannini: Il
problema si sta riproponendo anche in questi mesi con i pesanti riscatti
registrati dai fondi liquidità nonostante questo sia invece il momento di
stare alla finestra.
Martinelli: La stessa cosa è
avvenuta con il nostro prodotto di punta, il fondo Trading. Mentre il
gestore ha reso in media l’11% l’anno, abbiamo scoperto che a causa dei
movimenti sbagliati la metà dei nostri clienti ha perduto denaro. L’ultima
cosa che il risparmiatore dovrebbe fare quando decide i suoi investimenti
è tentare di capire dove vanno i mercati. In questo modo eviterebbe di
distruggere valore con il market timing. Deve invece continuare a
rispettare la sua asset allocation creata specificamente in base alle
caratteristiche personali. Giovannini: Vorrei concludere però con una nota
positiva. Il lag temporale tra l’andamento dei mercati e gli investimenti
dei risparmiatori si è ridotto. Il problema della trasmissione corretta
delle aspettative c’è ancora. Ma almeno i clienti ne hanno ridotto i
danni.
Fonte
- Bloomberg - Borsa & Finanza
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Borsa USA: un rialzo non
sostenibile
2 Dicembre 2005 16:13 NEW
YORK (di Charlie Minter)
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Secondo noi l’attuale
rialzo è alimentato dal timore di perdere un rally di fine anno ampiamente
pubblicizzato e in anticipazione della fine della manovra restrittiva da parte
della Fed dopo un ulteriore aumento di 25 punti base. Ecco perché il mercato di
recente è sceso su notizie economiche negative e macro positivi.
Sicché
abbiamo raggiunto un punto in cui le notizie economiche favorevoli sono
percepite come negative, perché implicano tassi più elevati, mentre le cattive
notizie fanno bene alla borsa perché accrescono le probabilità di una fine
prematura della fase restrittiva da parte della Fed. Tuttavia, come
dimostreremo qui sotto, non crediamo che la fine del rialzo dei tassi possa
essere salutata con favore.
Per una
serie di motivi, crediamo che il rialzo della borsa non sia sostenibile.
Anzitutto, il rally di fine anno è stato così ampiamente reclamizzato che con
ogni probabilità è in buona parte alle nostre spalle. In secondo luogo, ci sono già chiare indicazioni che gli
elementi a sostegno dell’economia stanno venendo meno e si deterioreranno
ulteriormente nei prossimi mesi. Sebbene ciò condurrà alla fine della
politica restrittiva da parte della Fed, il rallentamento dell’economia o la recessione
che seguirà non è stata scontata dal mercato azionario. Infine, il mercato
rimane altamente sopravvalutato e il sentiment prossimo agli estremi.
Dal nostro
punto di vista l’economia sta già mostrando segni di rallentamento. Il settore
immobiliare si sta indebolendo. Le accensioni di mutui rilevate dalla MBA
stanno scendendo e il rifinanziamento dei mutui sta precipitando. Il livello
delle case invendute è sui livelli più elevati degli ultimi 19 anni. L’indice
che misura la possibilità di permettersi un’abitazione è sui livelli più bassi
degli ultimi 14 anni. Mentre le nuove case sono in crescita del 13% rispetto al
mese precedente, il numero è talmente anomalo rispetto agli altri dati che anche
il capo economista della National Home Builders Association lo ha definito
“bizzarro”. Dal momento che la compravendita di abitazioni insieme al
rifinanziamento dei mutui ha fornito ai consumatori un immenso potere
d’acquisto, la fine del boom immobiliare sarebbe gravemente negativo per la
capacità di spesa futura.
Nonostante
un’evidenza contraria, la spesa dei consumatori sta già flettendo. La
spesa reale è scesa dello 0.9% ad agosto, dello 0.4% a settembre e, in base agli
ultimi dati, è salita appena dello 0.1% ad ottobre. Alla luce di questa
traiettoria, l’incremento della spesa deve essere in media dello 0.5% a novembre
e dicembre per evitare di scendere sotto lo zero nel quarto trimestre.
Molti
osservatori stanno comparando questo periodo con quello iniziato alla fine del
1994, quando allo stesso modo la Fed stava terminando la politica di aumento dei
tassi di interesse. Essi amano ricordare che allora la borsa si inserì in
un ciclo ascendente terminato solamente cinque anni dopo. Ci sono però alcune
rilevanti differenze. Alla fine del 1994
gli investitori erano decisamente negativi circa le prospettive del mercato,
mentre oggi sono molto ottimisti nonostante una serie di problematiche
irrisolte. Alla fine del 1994 il sondaggio di Investors Intelligence mostrava
soltanto il 32% di rialzisti e il 50% di ribassisti, rispetto all’attuale 54% di
rialzisti e 23% di ribassisti. Inoltre
allora la liquidità rappresentava l’8% dell’attivo, rispetto al 3.9% di
oggi. Il tasso di risparmio delle
famiglie era pari all’8% allora, mentre è oggi negativo. Sia il deficit
commerciale che il debito dei residenti era allora una esigua frazione dei
livelli raggiunti oggi.
Per quanto
concerne le valutazioni oggi lo S&P500 quota 19 volte gli utili, contro le
15 volte di allora. Da quel punto
il mercato è salito fino a quotare 37 volte gli utili all’inizio del
2000. Quella valutazione coincise con il culmine della bolla azionaria, e
rappresentò un valore superiore del 76% a tutte le rilevazioni del P/E per i
precedenti cento anni. Nel 1994 eravamo all’inizio di un bull market di lungo
periodo, mentre oggi siamo in un mercato ribassista di lungo periodo con il
picco di quest’anno che è ancora di un buon 20% inferiore ai livelli raggiunti
cinque anni e mezzo fa.
Da quando la
Fed ha iniziato ad operare nel 1913 la maggior parte delle fasi restrittive
hanno condotto a recessioni economiche e a ribassi di borsa. I quali non sono
terminati fino a quando la Fed ha iniziato ad allentare, e a buon motivo.
Quando la Fed smette di perseguire una politica restrittiva, il mercato di
solito reagisce negativamente a notizie che diventano via via sempre più
deludenti per quanto concerne l’economia e gli utili aziendali. L’esperienza
contraria del 1994-1995 fu l’eccezione piuttosto che la regola. Continuiamo a credere che gli indicatori
monetari, economici e il sentiment puntino ad un accresciuto rischio di mercato,
giunti a questo punto.

Fonte -
SmartTrading
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Venerdì 2 dicembre 2005 |
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Venerdì 2 dicembre 2005 |
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Martedì 14 dicembre 2005 |
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Tassi USA:
tredicesimo e ultimo rialzo per Greenspan
12 Dicembre 2005 23:58
MILANO (di FtaOnline)
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La BCE ha
deciso (finalmente per alcuni, avventatamente per altri) di mettere mano alla
leva dei tassi di interesse, decretandone un rialzo, probabilmente il primo di
una serie. Il comportamento della Federal Reverse e le dichiarazioni che
accompagnano gli interventi della Banca Centrale Usa lasciano invece pensare che
l'era dei rialzi volga ormai al termine, anche se appare molto probabile
che oggi 13 dicembre il Presidente uscente della Federal Reserve, Alan
Greenspan, possa, salvo colpi di scena dell'ultima ora, rialzare il costo del
denaro di 25 punti base.
Sarebbe questo l'ottavo incremento nel solo 2005,
forse il penultimo della serie iniziata a metà 2004 quando il saggio sui Fed
Funds era all'1 per cento. I successivi, se ci saranno, verranno attuati sotto
la guida del nuovo Presidente, Ben Bernanke. Valutando, forse in modo
semplicistico, le diverse tempistiche di intervento delle due Banche Centrali, è
possibile ipotizzare che gli Usa siano circa 18/24 mesi avanti rispetto ai paesi
dell'area Euro lungo la curva del ciclo economico. Immaginando di rappresentare
l'evoluzione del ciclo come un circolo diviso in quattro quadranti, ciascuno
della durata di 18 mesi circa, con il primo quadrante che rappresenta l'avvio
dell'espansione, il secondo la fase matura della ripresa, il terzo l'avvio della
recessione ed il quarto la recessione piena, è possibile immaginare che gli Usa
stiano iniziando adesso a percorrere il secondo quadrante, mentre gli stati
dell'area Euro si stiano incamminando adesso sul primo.
Il Giappone
è probabilmente in una posizione intermedia rispetto agli altri due blocchi
citati, mentre i paesi a più alto tasso di crescita, come Cina ed India stanno
percorrendo una circonferenza diversa, quindi non confrontabile con quella delle
economie più mature. Per Europa,
Giappone e Stati Uniti si prospetta quindi ancora un periodo di crescita che va
dai due ai tre anni e mezzo prima che si verifichi una nuova fase di recessione.
In base a queste osservazioni quale potrebbe essere la giusta strategia di
investimento nei prossimi mesi? Per rispondere a questa domanda è
necessario fare riferimento alle teorie dell'analisi intermarket. Durante la
fase di espansione economica, come quella attuale (matura negli USA ed ancora in
fase di decollo in Europa) l'inflazione ed i tassi di interesse reali in
crescita fanno calare i prezzi dei bond ed il mercato delle commodities si avvia
a toccare i suoi massimi (le voci, anche autorevoli, di un petrolio stabile tra
i 50 ed i 70 dollari nel prossimo futuro si sprecano, non sono più in molti a
scommettere su di una ulteriore crescita delle quotazioni del greggio).
In una
seconda fase i tassi alti e, spesso, l'intervento restrittivo delle autorità
monetarie (già molto avanzato negli Usa e forse prossimo alla fine, appena
iniziato in Europa) colpiscono negativamente le azioni. A questo punto
(ma presumibilmente prima di raggiungerlo dovrebbero passare 1/2 anni) l'economia entra in una fase di
recessione: la domanda si riduce e con essa la produzione e quindi la
domanda (ed i prezzi) delle materie prime. La ridotta domanda di beni si traduce quindi
in una ridotta domanda di moneta con conseguente calo degli interessi. Questo
comporta il rally dei titoli a reddito fisso e, successivamente, quello dei
titoli azionari. A questo punto riparte la crescita dell'economia reale
seguita dalla crescita di interessi ed inflazione. E il ciclo si ripete. Dal punto di vista operativo nella prima fase
dell'espansione dell'economia, quella dove si trova l'economia mondiale adesso,
è meglio posizionarsi sul mercato dell'oro, delle materie prime e dei relativi
futures per profittare al massimo del loro apprezzamento, mentre conviene
alleggerire le posizioni in obbligazioni, almeno quelle a vita residua più
lunga. In questi periodi, per
quanto il mercato azionario complessivamente sia ancora in crescita, sarebbe
meglio passare da titoli azionari interest sensitive (finanziari, TMT, ciclici,
utilities con forte leverage) a titoli che performano meglio in contesti
inflattivi (materie prime, miniere, chimici, farmaceutici, titoli petroliferi ed
energetici).
Nella
seconda fase dell'espansione, si assiste al top degli interessi e del CRB
index, mentre i bond sono ai minimi ed inizia il calo sui mercati azionari (uno
scenario che potrebbe essere di attualità tra un anno circa): in questo contesto
"cash is king". Mentre l'economia entra
nella fase di recessione, con oro, inflazione e materie prime in calo,
bisognerebbe iniziare a ritornare sui mercati obbligazionari. Con il
bottom del ciclo economico reale, i tassi sono ai minimi e i prezzi dei titoli
tendono a raggiungere i massimi (mentre il CRB index è prossimo ai minimi). Uno
scenario di questo tipo è forse troppo lontano da quello attuale per essere di
attualità, ma è sempre meglio avere presente il quadro completo e non solo i
dettagli per evitare di prendere decisioni di investimento con il timing errato.
In sintesi quindi il 2006 potrebbe
portare listini azionari ancora al rialzo, ma forse più in Europa ed in Giappone
che negli Usa, obbligazioni in calo, soprattutto quelle a più lunga scadenza, e
materie prime stabili, con forse l'eccezione dell'oro, in crescita a
causa di dinamiche nuove sul fronte della domanda, e del carbone, il cui prezzo
potrebbe aumentare per effetto del tentativo di sostituire questo combustibile
al petrolio dove possibile per la produzione di energia.
Fonte -
FtaOnline per Wall Street Italia
I TASSI AMERICANI VERSO IL
4,5%
11
Dicembre 2005 19:07 MILANO (di Cheo Condina)
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BANCHE
CENTRALI Paul Kasriel è capoeconomista e vicepresidente della Northern
Trust Bank di Chicago. E alla vigilia della riunione della Federal Reserve
(prevista per martedì 13 dicembre) ha le idee chiare sul prossimo futuro:
«Sarà il penultimo rialzo dei tassi, l’ultimo arriverà nel meeting del 31
gennaio, con l’addio di Alan Greenspan e l’insediamento di Ben Bernanke al
vertice della Banca centrale».
E poi
che cosa accadrà? La Fed fermerà la stretta per un po’ di tempo. Per
diversi motivi: innanzitutto l’economia americana, nonostante le
apparenze, rallenta. I consumi si stanno indebolendo: ve ne accorgerete
col dato sul pil del quarto trimestre. In secondo luogo lo spettro
dell’inflazione si sta allontanando: le aspettative sui prezzi sono calate
e il mercato del lavoro non contribuisce a riscaldare il carovita. Infine
c’è il problema dell’eccessivo appiattimento della curva dei rendimenti,
che spesso annuncia la recessione.
Greenspan però ha detto il contrario: che l’appiattimento della
curva non lo preoccupa. Infatti in questo momento le sue preoccupazioni
sono altre. In primis come cambiare il comunicato della Fed, già dalla
prossima riunione, senza creare scossoni sui mercati.
Questo
l’ha confermato la settimana scorsa Janet Yellen, presidente della Fed di
San Francisco. Come potrebbe cambiare il comunicato? Potrebbe essere
cancellata la promessa più importante di Greenspan: che la politica
monetaria accomodante sarà rimossa a un ritmo misurato. Il che, in parole
povere, significa che è stato raggiunto il livello neutrale dei tassi.
Almeno fino a quando il dollaro non crollerà nuovamente contro l’euro.
Si
tratta di uno scenario plausibile? Assolutamente sì. Se quest’anno il
biglietto verde ha fatto meglio di euro e yen, è semplicemente per il
fatto che i tassi nel Vecchio Continente e in Giappone sono ai minimi
storici. Ma adesso che la Bce ha iniziato a sua volta la stretta monetaria
e l’economia europea ha ripreso a marciare, la musica cambierà nuovamente.
E sul dollaro tornerà a pesare l’enorme deficit di bilancio americano.
Credo che i nodi verranno al pettine già nel prossimo autunno.
E per
Bernanke l’unica possibilità sarà alzare i tassi... Certo, per attirare
nuovi capitali negli Stati Uniti e finanziare il disavanzo. Questo però
non gioverà alla congiuntura americana: normalmente, dopo un rialzo simile
a quello realizzato dalla Fed, il costo del denaro non cresce ancora,
resta fermo per un po’, e poi la banca centrale torna a ridurlo.
Bernanke, però, potrebbe avere un’arma in più: il target
d’inflazione. Non cambierà nulla, la Fed ha una credibilità tale che non
ha bisogno di questo strumento. E l’attuale trasparenza della nostra banca
centrale è sufficiente. Troppa - come ha sottolineato Greenspan - rischia
di indebolirla.
Fonte - Borsa & Finanza
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WALL STREET
ARRETRA, PAURA DEI BOND
27
Dicembre 2005 22:00 NEW YORK (ANSA)
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E'
pesantemente negativa la prima seduta di Wall Street dopo lo stop
natalizio. Il Dow Jones ha perso lo 0,97% a 10.777,77 punti, il Nasdaq
Composite e' arretrato dell'1,00% a 2.226,89 punti e lo S&P 500 è
calato dello 0,96% a 1.256,54 punti. Per il Dow Jones la perdita di 105
punti e' la peggiore dalla fine di ottobre.
Dopo
un avvio positivo, gli indici hanno virato in rosso scontando la
performance negativa dei titoli energetici e tecnologici, con vendite in
accelerazione proprio negli ultimi 20 minuti. Va detto che i volumi sono
comunque molto bassi per via del lungo periodo festivo. Secondo i trader
del Nyse, sono mancati soprattutto i buy ad arginare le vendite.
Tutti
e 10 i principali settori hano chiuso in rosso: Financials (-0.78%), Tech
(-0.91%), Health Care (-0.84%), Consumer Staples (-0.68%), Consumer
Discretionary (-0.79%), Industrials (-0.93%), Energy (-2.63%), Telecom
(-0.09%), Materials (-0.69%) e Utilities (-0.41%).
In
realta' i sell sono scattati quando sul mercato obbligazionario si e'
creata una situazione particolare, che non si ripeteva da 5 anni, dal
2001. E' successo che i rendimenti del titolo del Tesoro americano a lungo
termine, cioe' i Bot Usa a 10 anni (lo yield e' calato martedi' al 4.33% e
il prezzo e' salito + 09/32) sono risultati esattamente uguali ai
rendimenti del Titolo del Tesoro a 2 anni. Questo fenomeno, molto raro,
che si chiama appiattimento o "inversione" della curva dei rendimenti, ha
messo in allarme le banche d'affari di New York e provocato il ribasso in
borsa, perche' segnala un rallentamento dell'economia degli Stati Uniti e
nei casi peggiori, una recessione. E di conseguenza - secondo alcuni
analisti - prelude a un possibile futuro taglio dei tassi da parte della
Federal Reserve.
Secondo alcuni analisti interpellati dall'agenzia Bloomberg,
sarebbe stato principalmente l'appiattimento della curva dei rendimenti
evidenziato dal mercato dei Treasury e che segnalerebbe la possibilità di
un rallentamento della crescita economica. In particolare - come gia'
detto - si è verificata una inversione della curva dei tassi
obbligazionari, con i rendimenti a breve termine superiori a quelli a
lungo termine: un fenomeno che ha preceduto ognuna delle fasi di
recessione vissute dagli Usa.
L'ultima volta risale a dicembre 2000: prima, quindi, della
recessione del 2001. Per Stephen Massocca, di Pacific Growth Equities a
San Francisco, in giorni di trading molto ridotto l'attenzione degli
investitori si è concentrata su un "potenziale movimento del mercato dei
bond nel timore che possa segnalare una recessione a breve termine".
Sul
listino, la frenata dei prezzi del greggio, scesi sotto la soglia dei 58
dollari al barile, ha appesantito il comparto petrolifero che ha
registrato un forte calo, mentre il comparto tecnologico ha sconta le
perdite registrate dai 'negozi' online Amazon e EBay. Quanto ai singoli
titoli, spiccano le perdite dei petroliferi con Valero Energy e di Exxon
Mobil. In generale tutto il comparto retail e' andato male, oltre ad
Amazon e Ebay, con arretramenti per Wal-Mart e Best Buy.
Al
termine delle contrattazioni sul mercato valutario di New York, l'euro ha
chiuso in ribasso a 1,1833 contro il dollaro, a fronte di 1,1865 di
venerdì scorso.
Fonte - Ansa
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La
nuova età dell'oro
02 dicembre 2005 - MILANO (Maria Grazia Briganti)
________________________________________
Le
quotazioni sfondano i 500 dollari l'oncia, toccando i livelli del 1983.
Ma questa volta vi è un fatto nuovo. Alla base dei rialzi non c’è la crisi di
fiducia nell’investimento finanziario e nell’economia. Lo scenario mondiale è
cambiato, a partire dai Paesi emergenti che entrano sul mercato, come nuovi,
ricchi, acquirenti.
Dopo una pausa di riflessione di due giorni, il
prezzo dell’oro ha sfondato la soglia psicologica dei 500 dollari l’oncia
(31,1035 grammi). A spingere verso l’alto le quotazioni, che nell’ultimo mese
sono salite del 6% ed è di circa il 17% il rialzo da inizio anno, vi sono i
massicci acquisti degli investitori che, oltre alla classica necessità di
diversificare i portafogli, stanno prendendo posizioni su un bene la cui domanda
mondiale è vista crescere esponenzialmente. Non solo perché le banche centrali asiatiche stanno
convertendo le loro riserve da dollari a oro, ma perché -fattore nuovo rispetto
al passato- le economie emergenti, più ricche e solide, si stanno affacciando
sullo scenario internazionale come nuovi, aggressivi
acquirenti.
L’oro di
solito costituisce un investimento sicuro in tempi di alta inflazione o di crisi
economiche a livello globale. La sua caratteristica di bene rifugio
dipende anche dal fatto che è un metallo poco utilizzato nell’industria,
diversamente dalle altre materie prime e minerali i cui prezzi tendono a
muoversi in linea con la crescita economica a causa del loro più o meno intenso
utilizzo nel settore industriale. Ma attualmente non vi sono segnali di crisi
economiche. Trascurando i tassi di
crescita vicini alle due cifre dei paesi asiatici, il prodotto statunitense e'
salito del 4,3%: è il decimo trimestre consecutivo in cui l'economia
statunitense è aumentata più del 3%. Anche in Europa, le attese sono per una
crescita che si attesterà intorno al 2% per il 2006.
Dal punto di vista dell’inflazione, essa è
sotto l’occhio vigile delle banche centrali, americana ed europea, che sono già
intervenute sui tassi, mentre la prima causa di surriscaldamento dei prezzi, il
petrolio, è oggi stabile attorno a 55 dollari al barile. Ma l’oro è utilizzato come strumento di
copertura contro movimenti al ribasso dei prezzi nei mercati finanziari, perché
quando gli investimenti scendono e cala la fiducia nei titoli mobiliari,
solitamente aumenta la necessita di detenere asset fisici, come i lingotti d’oro
o le proprietà immobiliari. Storicamente, le valutazioni più alte si sono
raggiunte nel 1980, a quota 873 dollari l’oncia. Nel ventennio successivo, fino
alla fine degli anni ’90 le condizioni generali del mondo sono migliorate:
l’inflazione è stata combattuta, la democrazia è arrivata in molti Paesi
emergenti, le barriere al movimento di capitali sono state abbattute. Con i
mercati in ripresa, gli investitori hanno accantonato l’investimento in
lingotti. Fino allo scoppio della bolla speculativa, quando le valutazioni
gonfiate del 2000 hanno reso l’acquisto di oro di nuovo conveniente. I corsi
auriferi sono saliti, ma anche i mercati finanziari hanno pian piano smaltito
gli eccessi e stanno per archiviare il loro secondo anno consecutivo in
crescita. E le previsioni restano positive anche per il 2006.
I tempi sono
cambiati, dunque, perchè al momento l’inflazione non è una vera minaccia, né vi
sono crisi economiche in atto. Al contrario. Perchè è proprio la maggiore
ricchezza economica dei paesi emergenti, India e Cina in testa, a sostenere la
domanda e non solo in vista della stagione dei matrimoni e delle
festività asiatiche di fine anno. Secondo il World gold Council, l’India, primo
consumatore mondiale, quest’anno dovrebbe incrementare i suoi acquisti del 40%,
superando le 850 tonnellate.

Fonte -
Miaeconomia.it
LA
CINA SORPASSA L' ITALIA
21 Dicembre 2005 6:59
PECHINO (di Federico Rampini)
________________________________________
E´ un sorpasso che segna
un´epoca. La Cina ha ufficialmente scavalcato l´Italia nella classifica
delle nazioni industrializzate, relegandoci al settimo posto. L´exploit
cinese è avvenuto un anno fa ma è stato rivelato solo ieri dalla revisione
delle statistiche sul Prodotto interno lordo: l´equivalente dell´Istat di
Pechino ha ritoccato a 1.930 miliardi di dollari il Pil cinese del 2004,
contro i 1.670 miliardi dell´Italia. La Cina più di noi, quindi, dovrebbe
avere voce nel G-7, il Gruppo dei sette grandi, di cui invece ancora non
fa parte.
Lo scossone nella classifica
delle potenze industriali è il risultato di due fattori. Il primo è il
divario tra una Cina in irresistibile ascesa e un´Italia inchiodata al suo
declino: è da un decennio che Pechino mette a segno regolarmente una
crescita del Pil del 9% all´anno, mentre nello stesso periodo l´Italia è
affondata nella stagnazione. L´altra novità è la revisione delle
statistiche di contabilità nazionale, con cui la Cina ha misurato più
accuratamente le dimensioni della sua economia: in un colpo solo il suo
Pil è cresciuto di 300 miliardi di dollari, +17%, grazie all´ultimo
censimento economico nazionale che ha rilevato un´ampiezza inattesa del
settore dei servizi. Si è anche scoperto che la crescita cinese non è solo
trainata dalle esportazioni, perché i consumi interni sono più alti di
quanto si credeva: un segnale positivo anche per chi guarda al gigante di
1,3 miliardi di abitanti come a un mercato.
In realtà il ritocco al rialzo
del Pil di Pechino dovrebbe essere molto superiore. Il peso reale
dell´economia cinese è ancora più elevato di quanto non dica il sorpasso
sull´Italia. Il valore di 1.930 miliardi di dollari infatti utilizza i
prezzi correnti, e li converte usando la parità fra la moneta locale
(renminbi o yuan) e il dollaro. E´ quindi un valore ancora inesatto per
due ragioni: da un lato perché la moneta cinese è sottovalutata (gli
americani sostengono che dovrebbe valere un 20-25% in più), d´altro lato
perché il Pil nominale non tiene conto che il livello dei prezzi in Cina è
molto inferiore. A parità di reddito il potere d´acquisto è molto più alto
a Shanghai e Canton che a Roma e Milano (o New York).
Il vero Pil è quello che viene
misurato dalla Banca mondiale applicando il metodo della «parità di potere
d´acquisto»: la ricchezza reale di ogni paese viene calcolata in
proporzione al costo della vita locale. Secondo quel metodo la Cina non ha
sorpassato solo l´Italia ma anche la Francia, l´Inghilterra e la Germania,
e insidia il Giappone nel ruolo di seconda economia mondiale dietro gli
Stati Uniti. E´ usando quello stesso metodo che la Cia, la centrale di
intelligence di Washington, prevede che entro quarant´anni avverrà il
sorpasso dei sorpassi: quello della Cina sugli Stati Uniti. Già la
settimana scorsa gli americani hanno avuto un assaggio della sfida in
atto.
L´Ocse ha rivelato che il made in
China ha rubato agli Stati Uniti il ruolo di leader nelle esportazioni di
prodotti hi-tech. Dopo un decennio di crescita-record della sua industria
elettronica la Cina ha superato per la prima volta l´America come maggiore
fornitore mondiale di tutti i prodotti dell´Information Technology:
l´insieme delle sue vendite di personal computer, laptop, telefonini e
videocamere digitali ha raggiunto i 180 miliardi di dollari contro i 149
miliardi delle esportazioni americane.
Il sorpasso sull´Italia, se è
assai meno importante della sfida Cina-Usa, è però un segnale d´allarme
per il nostro paese. Coincide con la notizia che nella classifica di
Business Week delle 500 multinazionali più grandi del mondo sono scomparse
due italiane e hanno fatto il loro ingresso 18 grandi imprese cinesi.
L´Italia è il paese che soffre di più per l´irruzione del made in China
sui mercati mondiali, perché il nostro modello di sviluppo è il più
vulnerabile a questo tipo di sfida. Abbiamo coltivato specializzazioni in
settori come il tessile-abbigliamento e il calzaturiero, dove la
disponibilità di un immenso bacino di manodopera a buon mercato dà alla
Cina un vantaggio competitivo inesauribile.
Abbiamo tentato di spostarci su
fasce a più alto valore aggiunto - puntando sulla qualità e il lusso - ma
rapidamente si affacciano sulla scena dei designer asiatici che hanno
l´ambizione di gareggiare anche a quei livelli. Si prepara lo sbarco delle
auto cinesi in Europa, un altro choc nel settore delle utilitarie come lo
fu l´arrivo delle giapponesi e poi delle coreane. Altri paesi
industrializzati riescono a compensare almeno in parte gli squilibri
commerciali grazie alle multinazionali e alla ricerca scientifica: i
francesi vendono alla Cina centrali nucleari, i tedeschi treni ad alta
velocità, gli americani i Boeing. Sono tutti settori dai quali l´industria
italiana si è ritirata ormai da tempo.
Fonte -
La
Repubblica
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LA CINA IMPLODERA'
29 Dicembre 2005 16:49 MILANO
(di Carlo Pelanda)
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Gli scenari profetizzano la
migrazione del centro dell’economia globale dall’Atlantico al Pacifico.
Alla fine degli anni 50 ci fu una situazione simile: le previsioni
segnalavano che l’Urss avrebbe presto superato gli Stati Uniti per potenza
economica e militare. Lo Standford Research Institute confezionò una serie
di scenari preoccupati che contribuirono non poco a rendere più attivo il
“contenimento” americano del potere sovietico da parte
dell’Amministrazione Kennedy e successive.
I più anziani nel think tank
occidentalista che questa rubrica frequenta ricordano ai più giovani tale
esempio per suscitare in loro una riflessione: talvolta uno scenario
sbagliato può essere più utile di uno azzeccato. Il problema è nato dalla
diversità nei risultati che esiste tra la scenaristica specializzata e
quella generica. La seconda, appunto, prevede l’ineluttabile emergere del
potere cinese e le sue conseguenze globali. E passa sui media e nelle
analisi di mercato. La prima, invece, si basa su scenari a “matrice” e non
lineari che tengono conto delle criticità, ma visibili solo a pochi dato
il loro costo. Da questi emerge che la Cina cresce senza adeguare il
proprio modello interno. Quindi prima o poi salterà perché la varietà dei
problemi di stabilità sociale e consenso, oltre che di architettura
tecnica, sarà superiore a quella delle soluzioni. Tali analisi stanno
modificando lo scenario elaborato nel 1994 dal Pentagono che individuava
nel 2024 il raggiungimento del primato assoluto mondiale della Cina, gli
Stati Uniti “minorizzati”.
Infatti è più probabile che il
sistema cinese imploda in tre date: 2010, 2014, 2022. E ciò pone il
problema: conviene spaventare l’occidente sventolando la minaccia cinese o
segnalare che questa è, in realtà, di carta e che comincia a essere
prioritario costruire gli argini per assorbire le conseguenze depressive
di una crisi interna che già si intravede? I vecchi premono per la prima
soluzione allo scopo di suscitare una reazione utile a ripristinare il
potere occidentale planetario.
Ma i giovani scenaristi,
intelligentemente, hanno notato che per l’errore di Clinton nel 1995 –
l’inclusione della Cina nel sistema globale senza condizioni – non si
potrà fare “contenimento” esterno perché il business occidentale,
diversamente dal caso sovietico, è tutto ingaggiato in Cina. Pertanto la
soluzione è quella di attuare una strategia di democratizzazione come
unico modo per combinare i due obiettivi: stabilizzare la Cina e allo
stesso tempo ridurne l’aggressività e la potenza strategica. Rimarchevole,
in clima natalizio, notare che una volta tanto interesse strategico e
morale coincidano.
Fonte -
Il Foglio
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Petrolio:
Goldman lo vede a
$105
15 Dicembre 2005 18:20
MILANO (di La Lettera Finanziaria)
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Goldman
Sachs torna con la sua previsione "catastrofista" sul prezzo del greggio. Gli
analisti vedono a 105 dollari al barile con una "super-impennata" che forse
durerà fino al 2009, a causa della scarsità dell'offerta rispetto alla domanda.
Già lo scorso marzo Goldman stimò che il greggio, quotato attualmente poco sopra
i 61 dollari al barile, potrebbe raggiungere 105 dollari al barile nel
futuro. Oggi la banca americana compie un passo avanti: ribadisce la stima e le
assegna un'indicazione temporale, entro la quale l'impennata potrebbe
verificarsi.
Nella
"migliore delle ipotesi," gli analisti di goldman, fra cui Arjun Murti, stimano
che il prezzo medio del greggio sarà di 68 dollari al barile nel 2006.
"Non siamo d'accordo con l'opinione prevalente che le quotazioni del greggio
abbiano raggiunto i massimi nel 2005," hanno scritto gli analisti in un rapporto
inviato ieri ai clienti.
Mercantile Exchange sono balzati del 50 percento
negli ultimi 12 mesi, spinti dalla "perdurante domanda energetica, dalla fiacca
crescita dell'offerta e dalla inesistente capacità inutilizzata," hanno indicato
gli analisti. Il loro rapporto cita "l'ostacolo apparentemente insormontabile" di
aumentare la capacità petrolifera in maniera tempestiva da parte
dell'organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, come motivo che "ci rende
così certi di essere in una fase di 'super-impennata' del mercato
energetico". Le azioni del settore petrolifero e del gas potrebbero
offrire rendimenti del 60 percento, via via che i prezzi delle materie prime
salgono verso i loro massimi, ha scritto murti. I titoli azionari consigliati da
goldman includono quelli di Exxon Mobil Corp., Murphy Oil corp., Suncor Energy
inc. e Encana corp.
Fonte - La
Lettera Finanziaria
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