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Mercati
finanziari: ma sono tutte
bolle?
01 Novembre 2009 01:18
MILANO - di Fabrizio Guidoni
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Qualcuno parla di «rally da post recessione», come
giustificazione dei grandi trend in corso nel campo
azionario, valutario e delle materie prime, partiti a scorso
marzo. Altri analisti sottolineano invece come i movimenti
abbiano raggiunto eccessi non sostenibili a livello di
fondamentali, rispolverando il concetto di «bolla» di fronte
alle violente correzioni registrate nelle ultime due
settimane.
Chi ha ragione? Difficile a dirsi, anche perché a seconda
delle asset class prese in considerazione gli indizi di
bolle sono più o meno palesi.
In ogni caso esiste un
denominatore comune alla base tutti i macro trend del 2009:
l’enorme liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali
per fermare la crisi e far ripartire l’economia. Gestire gli
investimenti in questa situazione non è certo facile.
Tuttavia ci si può aiutare con due strumenti di supporto: un
misuratore dell’intensità del rischio bolla per ognuna delle asset class, sintetizzato dai termometri nei box della
pagina a fronte, e una lista di controllo di eventi (mosse
Fed e Bce) e di valori grafici la cui rottura farebbe
lievitare la probabilità di scoppio di una bolla.
L’AZIONARIO. L’asset più caldo su cui si concentra
l’attenzione degli analisti è quello azionario. Basta dare
un’occhiata a un qualsiasi grafico di un indice di Borsa per
notare quanta strada rialzista è stata fatta dai minimi del
marzo scorso. Si va dal +60% circa di Wall Street al +160%
del listino di Mosca, passando dal quasi +100% del Ftse Mib.
In appena sette mesi. Di fronte a questi numeri la brusca
discesa delle Borse vista nelle ultime due settimane ha
ridestato gli spettri di una bolla pronta a scoppiare.
Per carità, che una correzione fosse nell’aria nessuno lo
nega. Tuttavia volumi e frenesia delle vendite hanno colto
di sorpresa. Soprattutto per come gli investitori
istituzionali più aggressivi come hedge fund e speculatori
di breve hanno approfittano dei primi segnali di incertezza
dei listini per prendere profitto. Meno male che a tamponare
la crescente emorragia del ribasso sono arrivati giovedì 29
i dati positivi del Pil americano, cresciuto del 3,5% annuo
nel terzo trimestre del 2009, che hanno ridato forza al
trend rialzista delle Borse europee.
Tuttavia, è troppo presto per parlare di scampato pericolo,
almeno secondo gli economisti:
per salire ancora ai listini
mancano il contributo di variabili chiave come i consumi,
già ben indirizzati, e soprattutto della disoccupazione.
Come dire, il dato del Pil non ha risolto lo scontro tra
pessimisti e ottimisti. Di certo, in pochi si aspettavano
ribassi così violenti con cali che in alcuni casi hanno
sfiorato il 10% dai massimi.
Una cosa va detta subito. I
supporti, per ora, hanno tenuto. Ma domani chissà. Una parte
sempre più ampia di analisti che hanno speso tempo a
guardare ai fondamentali post trimestrali segnalano che i
mercati risultano cari, sia in termini quantitativi, come i
valori dei multipli prezzo/utili sia in quelli qualitativi,
come la natura dei profitti delle banche. A cominciare da Wall Street.
Per l’economista Andrew Smithers, navigato osservatore delle
vicende delle Borse Usa, l’S&P500 è sopravvalutato del 40%
in termini di indicatori come il Q-ratio, che prende in
considerazione il costo di sostituzione degli asset delle
società, e come il multiplo price/earning aggiustato per per
il ciclo economico, elaborato dal professore Robert Shiller
della Yale University. Una situazione che rende il rialzo
fragile.
Non sono di questo avviso Barclays e Ing che stanno
incrementando gli acquisti di azioni sulle attese, per
alcuni bollate come speculative, che gli utili delle
corporate Usa continueranno a crescere alimentando la salita
del mercato e rendendo meno cari i multipli. Non bisogna poi
dimenticare gli amanti della statistica, che esibiscono
l’alta probabilità dello sviluppo del rally di fine anno. Un
fenomeno poco correlato ai fondamentali. Riassumendo,
secondo i dati storici esistono alcuni indizi di listini
azionari a rischio bolla, ma i multipli prospettici rendono
meno accentuato il pericolo. Ma poiché chi vive sperando e
senza stop loss, è esposto a perdite, risulta prudente
inserire alcuni campanelli d’allarme. Sullo S&P500 la zona
di attenzione è a 1.000/980, sul Dj Eurostoxx50 2.700/2.675
e a 21.900/21.530.
MAREA DI LIQUIDITÀ.
È forse la bolla più tesa in
circolazione. È quella della liquidità. La storia è nota. La
violenta crisi economica e finanziaria sviluppata dallo
scoppio della bolla dei mutui subprime dal lontano 2007 è
stata curata, e lo è tuttora, con abbondanti iniezioni di
denaro liquido. Ma sempre più analisti temono il rischio
overdose. Il tema, va detto, è delicatissimo.
Chiudere subito i rubinetti potrebbe soffocare i primi
vagiti di ripresa. Di sicuro le dimensioni della cura da
cavallo sono impressionanti: migliaia di miliardi di
dollari. L’allarme del rischio di scoppio di una nuova bolla
è stato lanciato da Nouriel Roubini, il primo tra gli
economisti a prevedere la crisi in cui si è avviluppata
l’economia americana: «Spesso una delle principali cause
delle bolle finanziarie è proprio il costo del denaro troppo
basso». E in questo momento il rischio è alto. Roubini ha
invitato la Federal Reserve a evitare distorsioni
finanziarie.
Il tema della liquidità coinvolge direttamente il mercato
obbligazionario. Da un lato chi ha avuto facile accesso alla
enorme liquidità a costo zero l’ha reinvestita senza troppi
sforzi sulle emissioni dei Paesi dalle economia matura.
Quelle che quindi hanno le spalle più grosse. E chi se non
gli Stati Uniti? Ma sui Treasury nelle ultime sedute hanno
cominiciato a emergere segnali di deterioramento dei prezzi.
Si è appena chiuso ad esempio il programma straordinario di
acquisto bond della Fed, con un’ultima tranche da 300
miliardi. Il programma aveva avuto avvio a marzo per
mantenere bassi i tassi d’interesse sul credito al consumo.
Ma scappare dai TBond così come dal porto poco generoso ma
sicuro dei Bund appare prematuro. I rischi di un crollo
delle quotazioni sono limitati fino a quando Ben Bernanke e
il collega Jean-Claude Trichet non avveranno le tanto citate
ma non ancora progettate «exit strategy».
LE ALTRE «BUBBLE».
Il rischio di essere di fronte a bolle,
più o meno grandi non si limita certo ad azioni, liquidità e
bond. Il primo esempio è la debolezza del dollaro, che si
riflette nella corsa rialzista di altre asset class,
a
cominciare dalle materie prime come petrolio e l’oro, alla
ripresa dei carry trade; gli investitori istituzionali, a
cominciare dagli hedge fund, si indebitano in dollari e
comprano valute ad altro rendimento come il dollaro
australiano e quello neozelandese le cui quotazioni volano.
È una strategia aggressiva che trova alimento da antichi vizi
come l’uso della leva finanziaria e la facilità di accedere
al debito. Insomma, è un altro effetto dell’eccesso di
liquidità in circolazione. Per l’intensità del movimento, il dollar index è caduto dagli 89 punti di marzo 2009 ai 74,9
del 21 ottobre scorso, c’è chi parla di bolla valutaria. Ma
è proprio così? Di sicuro esiste una distorsione, la citata
liquidità. Però il futuro del biglietto verde appare ancora
a tinte fosche. La pensano così gli analisti di Citigroup:
«Il dollaro è già sceso ma crediamo che esiste spazio per
altri indebolimenti». Nessuna sorpresa: le bolle, si sa,
sono tale perché i prezzi si espandono ben oltre il loro
fair value. Fino a dove non è dato sapere.
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Fonte -
Borsa&Finanza |
La settimana di Borsa
tutta colpa del dollaro
01 Novembre 2009 00:58 -
Miaeconomia ______________________________________________
La cosa brutta nel pesante
ribasso di ieri è l'apparente insensibilità di Wall Street
alla buona notizia di un Pil Usa cresciuto oltre le attese.
La cosa meno brutta è che questa ondata ribassista è
interamente guidata dall'apprezzamento del dollaro sulle
principali valute. E questo apprezzamento ha spiegazioni
essenzialmente tecniche: la chiusura delle posizioni di
carry trade con le quali gli investitori si finanziano in
una valuta a bassissimi tassi d'interesse (il dollaro) per
comprare attività a maggior rischio e a maggior ritorno,
come bond, materie prime e azioni. Si può osservare che
tutto il rialzo delle borse dopo i minimi di marzo, così
come quello delle principali commodity, sia stato scandito
passo passo da un comparabile ribasso della valuta
americana: segno che la speculazione ha avuto un ruolo
preponderante nei rialzi dei mercati finanziari. E del
resto, negli ultimi 8 mesi si sono viste altre 4 correzioni
a Wall Street: tra giugno e luglio (-7,1%), a metà agosto
(-3,3%), tra agosto e settembre (-3,5%) e a fine settembre
(-4,3%). Nell'attuale, l'S&P ha perso il 5,6% rispetto ai
massimi del 20 ottobre: massimi raggiunti sull'onda
dell'eccessivo ottimismo generato dalle trimestrali, senza
che dall'economia fossero arrivati segnali tali da
giustificare un rialzo che aveva superato il 60 per cento.
Nessuno può dire fino a che punto si spingerà questa
correzione (quota mille dell'indice S&P rispetto ai 1.036
punti di ieri, come suggerivano alcuni analisti tecnici,
oppure un livello ancora più basso?). Ma a parte una
minoranza di gestori e di economisti, che fin dall'inizio
hanno ritenuto il rialzo una «trappola dell'Orso»,
l'opinione prevalente è che le borse debbano semplicemente
correggere gli eccessi degli ultimi mesi. E non è un caso
che a guidare la discesa dei mercati siano stati, oltre al
comportamento del dollaro, alcuni allarmi lanciati dai
maggiori analisti sull'insostenibilità delle quotazioni
raggiunte dai titoli bancari, cresciuti mediamente fino al
182% negli Usa e al 167% in Europa.
Ma il più preoccupante tra gli eccessi è stato vedere come
le borse siano andate ben oltre le indicazioni che
provenivano dall'economia e abbiano scontato, contro ogni
evidenza, una ripresa a «V» che non sembra essere nelle
cose. Prendiamo il dato sul Pil Usa del terzo trimestre.
Quel 3,5% di crescita (3,2% nelle stime) è il risultato di
una spesa per investimenti residenziali cresciuta grazie
agli incentivi sull'acquisto della prima casa e a quelli per
la sostituzione di un'automobile. Senza questi il Pil
sarebbe rimasto a zero. E considerando che questi incentivi
sono temporanei, e che nell'ultimo mese sia la vendita di
case che quella di auto hanno subito una flessione,
l'economia Usa dovrà trovare altri puntelli di crescita nei
prossimi trimestri. Forse nell'attività manifatturiera,
visto che il 48% delle imprese sondate da
PriceWaterhouseCoopers (erano appena il 43% tre mesi fa) si
sono dette ottimiste sul futuro. Ma l'industria pesa ormai
poco nella formazione del Pil e quel che conta (oltre il
65%) sono i consumi: proprio quelli diminuiti a settembre
dello 0,5%, come hanno segnalato ieri i dati ufficiali.
Tuttavia anche la presente correzione dei mercati, per
quanto propiziata dalla discreta quantità di vendite allo
scoperto accumulatesi nelle passate settimane ed alimentata
dagli affondi ribassisti di questi giorni, non dovrebbe
protrarsi a lungo. Essenzialmente per due motivi. Primo,
perché la Fed (e pure le banche centrali europee) non sono
prossime a una stretta monetaria. Secondo perché gli utili
aziendali si stanno rivelando nettamente migliori delle
attese (l'81% delle società ha fatto meglio del consenso) al
punto che gli analisti stanno rivedendo al rialzo pure le
stime del quarto trimestre (+205%).
In settimana l'S&P ha perso il 4% (-5,1% il Nasdaq) e lo
Stoxx il 3,3% (-5,8% Milano, -5,7% Francoforte, -5,3%
Parigi, -3,8% Londra).
Fonte
- Miaeconomia
USA: FALLISCONO ALTRE 9
BANCHE, TOTALE 2009 SALE A 115
01 Novembre 2009 01:52 -
AGI ______________________________________________
Los Angeles, 31 ott. - Nove
banche Usa fallite in un solo giorno. Un record dall'inizio
della crisi finanziaria che fa salire a 115 il numero degli
istituti di credito americani che hanno dichiarato
bancarotta nel 2009. E tra le societa' finite sotto
controllo delle autorita' Usa c'e' anche la California
National Bank: con sette miliardi di asset, si tratta del
quarto maggiore crac di quest'anno in Usa, in una classifica
che vede ancora al vertice Washington Mutual, fallita nel
settembre 2008. Le nove banche (le altre otto sono BankUSA,
Citizens National Bank, Madisonville State Bank, North
Houston Bank, Pacific National Bank, Park National Bank, San
Diego National Bank, e Community Bank of Lemont),
sussidiarie del gruppo Fbop, sono state rilevate da Bancorp,
che ha cosi' messo le mani su 18,4 miliardi di dollari di
asset e depositi per 15,4 miliardi. Tutti gli sportelli
degli istituti falliti passeranno presto sotto il marchio
della U.S. Bank, la divisione di Bancorp che gestisce oltre
770 filiali tra Illinois, Arizona e California. Non si sa
ancora nulla delle ricadute occupazionali dell'operazione.
Gli analisti, intanto, scommettono su quali saranno le
prossime banche a portare i libri in tribunale. Quelle
ritenute piu' a rischio sono la Zions Bancorp di Salt Lake
City, la Columbus, la Synovus Financial Corp e la Comerica
di Dallas. -
Fonte
- AGI
Il sistema finanziario
è ancora malato
03-11-09 MILANO -
Valerio Baselli ______________________________________________
Lo scorso weekend sono falliti
altri nove istituti di credito statunitensi. Dal primo
gennaio ad oggi sono 115 le banche che hanno chiuso negli
Stati Uniti. Un numero impressionante, il più alto dal 1992,
quando ne collassarono 181 in dodici mesi. Ma non finisce
qui; il problema più grosso è che gli analisti ritengono che
l’emorragia sia destinata a prolungarsi, perchè molte banche
regionali sono fortemente esposte al mercato immobiliare ad
uso commerciale, il cui declino è tutt’altro che vicino al
termine.
Infatti, il Washington Post parla di dozzine, se non
centinaia, di altre banche che rimangono aperte nonostante
si trovino in situazioni di estrema emergenza. L’unica
soluzione sembra essere un recupero dell’economia reale, ma
se la crescita sarà lenta come sembra le banche più piccole
potrebbero trovarsi in una situazione ancora peggiore.
L’emergenza non interessa solo le banche di piccole
dimensioni. Una delle nove fallite la settimana scorsa è la
California National Bank, quarto maggior collasso bancario
dell’anno. Un altro pesante colpo basso arriva dalla
richiesta, da parte di Cit Group, della bancarotta pilotata.
Essa rappresenta il quinto maggior fallimento nell’intera
storia del Nuovo continente.
La bancarotta di Cit Group, oberato da debiti per 65
miliardi di dollari a fronte 71 miliardi di asset, era
nell’aria da tempo e la Casa Bianca aveva usato tutta la sua
influenza per cercare di evitare il fallimento di quello che
è considerato un attore di primo piano del mercato del
credito. Questo rappresenta il primo grande fallimento
dell’amministrazione Obama. Infatti, il Dipartimento del
Tesoro guidato da Timothy Geithner, ha investito 2,3
miliardi di dollari dei contribuenti nella società nel
tentativo di stabilizzarla. Dallo scorso anno il Tesoro ha
sborsato 400 miliardi di dollari per diverse aziende
americane in tutti i settori di attività: molte società,
come Goldman Sachs, hanno già provveduto a restituire i
fondi ottenuti.
La situazione finanziaria degli Stati Uniti, quindi, è
lontana dalla stabilizzazione. La ripresa avviata negli
ultimi mesi, come commenta anche Bill Gross di Pimco nel suo
ultimo Investment Outlook, è stata in gran parte finanziata
da investimenti statali e dall’enorme massa di liquidità
immessa dalle banche centrali che stanno contribuendo a
mantenere in moto i meccanismi dell’economia ma il motore
dei consumi privati, per il momento, non sembra aver
ingranato. E questo vale per la maggior parte delle economie
sviluppate.
Anche un recente studio pubblicato dalla BIS (Bank for
international settlements) conferma la poca efficacia dei
piani di salvataggio degli istituti di credito. L’analisi
conclude che fino ad ora i piani di aiuto non sono riusciti
a generare un qualche percepibile miglioramento dell’offerta
del credito bancario all’economia (che, infatti, continua a
peggiorare negli Usa, in Gran Bretagna e in Europa).
Inoltre, i piani di garanzia stessi hanno creato un notevole
rischio di rifinanziamento per gli anni dal 2010 al 2012.
Questo perchè, come suggeriscono i dati, i piani di garanzia
stanno aiutando le grandi e complesse banche d’investimento,
piuttosto che le banche che con maggiore probabilità
presterebbero capitali alle proprie economie locali. I
sussidi non stanno, quindi, raggiungendo i beneficiari che
si erano preposti.
Insomma, quello che appare certo è che, a prescindere dal
rally che ha vissuto il mercato azionario, si potrà parlare
di ripresa quando il sistema creditizio tornerà a funzionare
a pieno regime, i privati aumenteranno i consumi e quando la
ripresà sarà in grado di creare posti di lavoro. Fonte
-
MorningStar
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Goldman
sachs, adesso stanno
esagerando
05 Novembre 2009 12:52
MILANO - di Mauro Bottarelli
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Nel corso dello scorso weekend, placidamente, sono fallite
altre nove banche regionali negli Usa: il computo totale per
quest'anno ha raggiunto quota 115. Non male davvero, deve
essere uno degli effetti collaterali della cosiddetta
ripresa sbandierata a destra e a manca dopo la comunicazione
del dato sul Pil Usa. Che, giova ricordarlo, depurato dagli
stimoli governativi, sarebbe al 2,4% e non al 3,5%.
Ma tant'è, per qualcuno è sufficiente. Ma c'è di peggio. E
molto. Come anticipato dieci giorni fa da ilsussidiario.net,
sempre negli Usa Cit Group, finanziatore importante per le
piccole e medie imprese, ha presentato istanza di bancarotta
domenica pomeriggio, «un processo che quasi certamente
spazzerà via gli investimenti per 2,3 miliardi dollari fatti
dal governo federale nella società. Cit è la prima azienda a
fallire dopo essere stata salvata dal governo».
A evidenziarlo era ieri il Washington Post che spiegava come
la compagnia speri comunque di «ridurre significativamente
il proprio debito in quello che è conosciuto come un piano
di riorganizzazione "preconfezionato", che le consentirebbe
di uscire dal periodo di protezione garantito dal Chapter 11
entro la fine dell'anno». Si tratta, proseguiva il
quotidiano americano, di uno dei più grandi casi di
fallimento nella storia degli Stati Uniti e, avverte,
«potrebbe avere estesi effetti a cascata».
L’azienda fornisce infatti prestiti a circa 1 milione di
aziende, tra cui molte già alle prese con la recessione
economica. Non è un'altra Lehman Brothers ma per "main sreet"
potrebbe essere anche peggio: insomma, con Cit tocchiamo
quota 116 fallimenti di istituti bancari e para-bancari
negli Usa.
Ma, tornando all'argomento iniziale, proprio di eccesso di
politica di stimolo e rischio iper-inflattivo quando questa
verrà giocoforza abbandonata - a meno che non si voglia
andare in default sul debito - si comincia a parlare sia a
New York che a Londra. In entrambi i casi con toni
decisamente preoccupati.
Per Roger Nightingale della Pointon York, si rischia «una
depressione simile a quella del 1930 se si abbandoneranno le
misure di stimolo troppo rapidamente», mentre Charles
Lemonides, chief investment officer alla Valueworks LLC,
avverte che «bisogna dare maggiore importanza ai dati macro
che giungono dall'economia e forse meno ai mercati. E i dati
che arrivano non ci dicono nulla di buono, i problemi non
sono affatto risolti. Basta guardare alla situazione del
1930 e avremo la fotocopia perfetta di quella odierna:
mercati forti ed economia debole».
Dio ce ne scampi. Il problema è che a spaventare non è la
Cina che nonostante la diversificazione e lo shopping di
riserve perde il 20% di export verso gli Usa o gli stessi
Stati Uniti alle prese con istituzioni finanziarie ancora
strapiene di titoli tossici e un deficit federale come mai
rima, bensì la seconda economia del mondo che rischia di
trasformarsi nella dinamo di una depressione globale.
Parliamo, ovviamente, del Giappone. Lo storico avvento al
governo dei Democratici - e delle loro fallimentari
impostazioni neo-keynesiane - aveva già spaventato i
mercati, preoccupati per questa messe di parvenu della
politica chiamati a gestire la peggior crisi finanziaria ed
economica del secondo dopoguerra.
Oggi ne abbiamo la conferma: i cds per assicurarsi dal
rischio di default del Giappone sono infatti schizzati a 63
punti base da 35 in due mesi, un impennata che ricorda
quella altrettanto preoccupante dell'indice Vix - quello che
misura la volatilità dei mercati e, di fatto, prezza i
derivati di copertura dal rischio - che venerdì è cresciuto
in un botto del 24%. Per capirci, la Germania è a 21, la
Francia e gli Usa a 22 e la Gran Bretagna a 47.
Certo, il blitz compiuto dai Democratici appena saliti al
governo per raggranellare 550 miliardi di dollari al fine di
finanziare il welfare e la "nuova politica sociale" non è
stato un buon viatico ma il peggio sembra ancora lì da
venire. La pensa così Simon Johnson, ex capo economista del
Fondo Monetario Internazionale, che di fronte al Congresso
Usa la scorsa settimana ha parlato chiaramente di «un serio
rischio di default per l'economia giapponese».
Le cifre, d'altro canto, parlano chiaro. Il Fondo Monetario
stima che il debito pubblico arriverà a quota 218% sul Pil
quest'anno, 227% l'anno prossimo e 246% nel 2014. Il
problema è che il mercato perde capacità di assorbire questo
debito, così come le parsimoniose famiglie giapponesi non
riescono più a mettere da parte denaro: il tasso di
risparmio è crollato dal 15% del 1990 al 2% attuale. E con
il calo demografico, è giunta anche la contrazione della
forza lavoro.
Non stupisce, con questi numeri, che il ministero delle
Finanze stia pubblicizzando i bond sui taxi di Tokyo: il
rischio che il tasso di interesse mandi in frantumi le
finanze pubbliche c'è eccome. Avverte Carl Weinberg della
High Frequency Economics: «La situazione del debito in
Giappone non è recuperabile. O, almeno, io non vedo alcuna
via d'uscita praticabile all'orizzonte. Lo Stato non sarà in
grado di finanziare il suo deficit, ci sarà una crisi
fiscale durissima, un taglio draconiano delle pensioni e una
serie di fallimenti bancari che scuoteranno il sistema in
tutto il mondo. È criminale la negligenza delle agenzie di
rating che non stanno lanciando l'allarme sui mercati».
Fosse la prima volta…
A questo va unita la decisione della Bank del Giappone di
sospendere a dicembre le operazioni - già non eccessive come
altrove - di quantitative easing, ovvero di stampare e
mettere in circolo moneta. «È incredibilmente pericoloso
quanto stanno per fare - avverte Russell Jones della RBC
Capital Markets -. Le cifre sono da incubo, le dinamiche del
debito orribili e così si rischia davvero una spirale al
ribasso».
Inoltre Tokyo ha follemente lasciato apprezzare lo yen
contro dollaro e yuan e i principali esportatori del paese
sono ben sotto i costi di break even: la politica di
quantitative easing è stata troppo blanda e troppo tardiva,
ecco quindi che i mercati e l'economia reale presentano il
salatissimo conto. Che, purtroppo, rischiamo di pagare
tutti. Alla faccia della ripresa dietro l'angolo e dei
brindisi borsistici per il dato del Pil statunitense.
Non appare un caso che ieri mattina l'indice Nikkei
chiudesse sotto del 2,31% mentre la Cina brindava a un
rotondo +2,7%: insomma, il Giappone potrebbe dare il colpo
di grazia alle residue speranze di ripartenza. Ma si sa che
più la crisi picchia duro, più i duri giocano volentieri. E
fanno soldi a palate.
Goldman Sachs è infatti in trattative per comprare milioni
di dollari di crediti fiscali dal gigante dei mutui
controllato dal governo Fannie Mae anche se l'operazione si
scontra con il potenziale semaforo rosso del Tesoro, almeno
stando alla cronaca del Wall Street Journal.
L'amministrazione Obama, infatti, teme gli effetti di un
accordo che in sostanza ridurrebbe il carico fiscale di
Goldman Sachs, alla luce della tensione che esiste tra molti
parlamentari e Wall Street e in particolare Goldman Sachs.
Inoltre è molto forte a Washington la preoccupazione di non
far percepire che Goldman venga trattata in modo
privilegiato sulle altre banche.
I dettagli ancora non sono chiari ma alcuni a Wall Street
ritengono che Goldman potrebbe comprare fino a un miliardo
di dollari di crediti fiscali da Fannie. Da quando ha
assunto il controllo di Fannie Mae, il dipartimento del
Tesoro ne ha acquistato 45,9 miliardi di dollari in azioni
privilegiate, dando quindi ai contribuenti una quota
sostanziale nella proprietà.
I crediti fiscali sono stati un incentivo federale per
incoraggiare gli investimenti per costruire abitazioni per
famiglie a basso reddito: questi crediti tendenzialmente
hanno una durata di 10 anni e sono attraenti per società che
sanno di poter produrre utili in quel lasso di tempo. Non
basta essere la controparte di tutti i bond sul debito che
gli Usa piazzano nel mondo, ora si punta anche allo scarico
fiscale: cambiamo tutto affinché nulla cambi.
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Fonte -
IlSussidiario.net |
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Domenica
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Buffett,
il mercato e l'eterna lotta
rialzisti contro ribassisti
05 Novembre 2009 23:59
NEW YORK - di Luciano Priori Friggi
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Ciò che sorprende in questi mesi di mercato borsistico al
rialzo e’ la sua capacità di trovare sempre nuovi spunti per
respingere gli attacchi dei ribassisti. La guerra tra
rialzisti e ribassisti non è tuttavia lineare, i soggetti
nell'una e nell'altra posizione cambiano di continuo, un
rialzista oggi può essere un ribassista domani, e ciò
dipende dalla diversità delle valutazioni sull'andamento
futuro dei corsi, sulle diverse strategie temporali di
investimento, e sulle diverse tecniche di portafoglio e di
rischio adottate.
Tuttavia ciò che detta il ritmo e la direzione dei mercati
alla fine sono le prospettive dell'economia nel medio-lungo
periodo. Ridurre – come spesso fanno alcuni macro economisti
– tutto a manovre della Banca centrale è un colossale
abbaglio e denota il limite di approcci ultra-settoriali.
Uno dei migliori esempi di come i mercati reagiscono alle
notizie lo si è avuto martedì quando si è venuto a sapere
che Warren Buffett aveva acquistato tramite il fondo
Berkshire Hathaway, da lui fondato e gestito, il 100% della
societa’ di trasporti ferroviari Burlington Northern Santa
Fe, le cui origini risalgono al 1849.
La quotazione in borsa del titolo ferroviario (NYSE: BNI) è
schizzata verso l'alto, passando dalla precedente chiusura
di 76.07 a 97.00 dollari con un guadagno di 20.93 dollari,
che in percentuale fa un sonoro +27.51%. Buffett, che aveva
già una partecipazione del 22,6% in BNSF, acquisirà
l'azienda ferroviaria pagando $100 per azione per una quota
del 77,4%, un premio di oltre il 30% sul prezzo di chiusura
del titolo di lunedì (da tutto questo se ne deduce anche, en
passant, che i piccoli azionisti non ci rimetteranno di
certo dall'operazione).
In una dichiarazione al Financial Times, Buffett ha tenuto a
sottolineare per prima cosa e in generale la sua fiducia in
una ripresa della crescita interna americana, e poi la sua
convinzione sul fatto che i vecchi business non siano poi
così male: "Si tratta di un business molto solido... Che
farà bene, se l'economia va bene e credo che l'economia farà
bene". C'è un filo conduttore nelle scelte di investimento
di Buffett? Sembrerebbe di sì, almeno stando a chi lo
conosce bene. Per Roger Altman l'operazione portata a
termine da Buffett, la più importante della sua storia, è il
linea con la sua metodologia di scelte "Più del 70 per cento
dei guadagni di Berkshire e’ nelle assicurazioni e
utilities. Cosa c'è di significativo a tale proposito?
Stabilità. Ciò che è significativo circa i guadagni BNSF?
Stabilità".
Nonostante la disoccupazione americana sia ancora a livelli
molto alti, e nonostante ancora alcuni dati macroeconomici
lascino nel dubbio gli analisti sulla solidità della
ripresa, il settore dei trasporti Usa ha vissuto una grande
giornata, ben sintetizzata dall'indice Dow Jones
Transportation Average, costruito sulla media delle
variazioni percentuali dei 20 più significativi titoli del
settore, con un eloquente +5.28%.
E così in un momento in cui sembrava voler prendere il
sopravvento un ritracciamento, per usare il linguaggio
dell'analisi tecnica, di discrete proporzioni è arrivata
l'operazione di Buffett che ha rimesso in discussione la
discesa. Certamente è prematuro affermare che il tema
dominante dei prossimi mesi sarà una corsa al "merger and
acquisitions ", tuttavia la liquidità non manca – la stessa
Berkshire di Buffett ha ancora 20 miliardi di dollari in
contanti per altre transazioni – e i prezzi delle aziende
quotate sono ancora molto appetibili. Se la guerra tra
ribassisti e rialzisti è ancora tutta da giocare, sarà bene
non sottovalutare tuttavia la forza dei rialzisti.
 |
Fonte -
borsaplus.com |
WALL STREET,
ANALISI SENTIMENT DEL MERCATO
05 Novembre 2009 00:23 BIELLA -
di Maurizio Milano ______________________________________________
Tentativi di stabilizzazione e
rimbalzo dei listini, dopo le forti vendite della scorsa
ottava. Come evidenziato nelle scorse settimane, il
raggiungimento degli obiettivi del bear market rally
iniziato a marzo 2009 (i livelli di fine settembre-inizio
ottobre 2008) ha provocato un crescente peggioramento del
profilo rischio-rendimento, che ha portato ad un veloce
movimento correttivo (-6/7% dai massimi). La discesa è stata
accompagnata, come previsto, da un tentativo di rimbalzo del
dollaro contro euro e da un balzo del Vix che si è spinto al
di sopra del Vxn ed oltre la soglia di guardia a quota 30.
Dai picchi a 10100 il Dow Jones Industrial è scivolato verso
9750 (marginalmente perforato). Sono possibili rimbalzi ma
il tono rimane molto debole finché l’indice staziona sotto
9970, col rischio di una successiva prosecuzione della
discesa (segnale sotto 9750) a testare il supporto critico a
9500. Chiusure sotto tale livello provocherebbero una veloce
discesa verso il forte supporto in area 9100/280, con
estensioni verso l’area 8700/800, dove comunque dovrebbero
esserci ordini in acquisto. Gli acquisti riprenderebbero
sopra 10100, con obiettivo 10350.
Dai massimi a 1100,15 lo S&P500 è
velocemente sceso a testare il forte supporto a 1040
(marginalmente perforato). Sono possibili rimbalzi ma il tono
rimane molto debole finché l’indice staziona sotto 1070, col
rischio di una prosecuzione della discesa (segnale sotto 1040) a
testare il forte supporto a 1015, la cui rottura provocherebbe
una veloce discesa a 995, con estensioni verso il supporto
critico a 975, dove comunque dovrebbero esserci ordini in
acquisto. Il tono migliorerebbe sopra 1075, ma gli acquisti
riprenderebbero solo su chiusura settimanale sopra 1100
(prematuro).
Dai massimi a ridosso della resistenza chiave a 2200 anche il
Nasdaq Composite è ripiegato velocemente, spingendosi al test
del forte supporto a 2040. Sono possibili rimbalzi ma il tono
rimane molto debole finché l’indice staziona sotto 2100, col
rischio di una successiva perforazione di 2040 ed una veloce
discesa con obiettivo 1965 ed estensioni verso il supporto
critico a 1925, dove dovrebbero comunque esserci ordini in
acquisto. Il tono migliorerebbe sopra 2100/50, ma gli acquisti
riprenderebbero solo su chiusure settimanali sopra 2200
(prematuro).
La tenuta dei minimi di inizio ottobre (i livelli in fase di
test) è essenziale: anche se una correzione marcata appare
improbabile, gli indici rimangono in una situazione di
vulnerabilità, e non si può escludere una "seconda gamba"
correttiva di ampiezza analoga a quella verificatasi la scorsa
settimana (solo il superamento delle resistenze sopra-indicate
minimizzerebbe tale rischio). In tal caso gli indici potrebbero
velocemente ridiscendere verso i minimi toccati a ridosso di
Ferragosto, dove sono comunque attesi ordini in acquisto. Un
segnale di forte nervosismo si avrebbe invece in caso di una
stabilizzazione del Vix sopra quota 30 e quindi col superamento
della resistenza critica in area 33-34,60 (al momento ancora
poco probabile). Un nuovo segnale distensivo si avrebbe invece
su discese sotto 24,75 (conferma sotto 22,85). In ottica
intermarket il quadro migliorerebbe in caso di risalite di
Euro/dollaro sopra 1,4900.
Pur non escludendo una ripresa del rimbalzo con nuovi massimi
entro fine anno (un 5-10% al di sopra dei picchi del 21
ottobre), le discese della scorsa settimana ci hanno dato
un’anticipazione di come siano veloci i realizzi rispetto ai
rialzi: poche sedute di vendite hanno riportato gli indici sui
livelli di inizio ottobre. Prudenza rimane quindi la parola
d’ordine anche per le prossime ottave, con priorità la difesa
degli utili accumulati negli ultimi 6-7 mesi.
Fonte
-
Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella
GM si tiene la
Opel
05/11/2009 -
Miaeconomia ______________________________________________
Non e' successo niente. Mesi di gare, discussioni con il
governo tedesco, con gli agguerriti sindacati, tutti alla
ricerca di garanzie. E poi niente. La cordata Magna-Sberbank
dopo avere fatto i salti mortali non potra' rilevare la
Opel, che lo scorso inverno la casa madre, l'american GM,
aveva messo sul mercato per affrontare il tracollo.
E questo per il semplice motivo che la GM sta meglio, e'
uscita dalle pastoie della legge fallimentare statunitense,
ha registrato una forte crescita delle vendite a ottobre e
ora ha le risorse per fare marcia indietro.
Non solo, la casa america fara' da sola, ha gia' pronto un
piano di ristrutturazione della sua Opel da 3 miliardi di
euro. I vertici americani fanno sapere quindi che presto
"presenteranno il proprio piano di ristrutturazione al
governo tedesco e alle altre autorita' pubbliche
interessate, sperando in un loro parere favorevole".
Ieri GM ha annunciato per ottobre una crescita del 4,7% - su
base annua - nella vendita di auto negli Usa, mostrando
decisi segnali di ripresa e lanciando per i prossimi mesi
previsioni ottimiste.
Negli scorsi mesi il gruppo Gm si era trovato nelle sabbie
mobili della tremenda recessione mondiale e - come altre
case Usa - si e' trovata di colpo in una devastante crisi
che l'aveva costretta alla legge fallimentare. In un
contesto cosi' duro la controllata Opel era stata messa sul
mercato, in un primo momento anche Fiat - gia' entrata in
Chrysler - aveva mostrato segnali di interesse.
Alla fine, dopo un lunghissimo e accidentato percorso, era
rimasta sul piatto la sola offerta della cordata formata dal
colosso industriale canadese Magna e dalla banca russa
Sberbank.
Fonte
- Miaeconomia
Eventi rari
05 November, 2009 at 20:06 -
by phastidio ______________________________________________
Nel terzo trimestre, il trading
di Goldman Sachs ha registrato un solo giorno di perdite,
peraltro non superiori a 25 milioni di dollari, e ben 36
giorni di utili superiori a 100 milioni di dollari.
Chiamatelo stato di grazia, se vi difetta la fantasia o non
siete dei cospirazionisti.
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Daily Trading Net
Revenuens |
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Fonte
- Macromonitor
PORTAFOGLIO:
BOND CORPORATE, SOVRAPPESARE
05 Novembre 2009 01:32 MILANO -
di Legg Mason ______________________________________________
Le condizioni del credito
continueranno a migliorare dato che la liquidità messa da
parte durante la crisi sta tornando ai mercati finanziari.
Le stime continuano a implicare livelli più elevati di
default rispetto a quelli che si materializzeranno.
*Questo documento e' stato preparato da Legg Mason ed e'
rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero
ad operatori qualificati, così come definiti nell'art. 31
del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e
successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui
pubblicate non implicano responsabilita' alcuna per Wall
Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita'
di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo
informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il
disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) - Western Asset Management, società del gruppo Legg
Mason, ritiene che le condizioni del credito continueranno a
migliorare nei prossimi mesi, sebbene ad un passo più lento.
Un costante miglioramento delle condizioni economiche ha
sostenuto i settori più a rischio del mercato
obbligazionario mondiale negli ultimi mesi. I corporate bond
ad alto rendimento e quelli investment grade hanno generato
rendimenti positivi nelle regioni più importanti. Anche i
mercati dei bond governativi sono migliorati, dato che gli
investitori sono diventati meno preoccupati sull’inflazione.
Western Asset Management ha confermato l’opinione che
l’immissione di liquidità da parte delle principali banche
centrali sarebbe stata sufficiente a spezzare il ciclo tra
la mancanza di credito disponibile per il settore privato e
il deteriorarsi delle condizioni economiche.
Mike Zelouf, Director of International Business presso
Western Asset Management, spiega: "La crisi finanziaria ha
visto i mercati prezzare in uno scenario altamente
pessimista relativamente ai default che poi non si sono
materializzati. Negli ultimi 12 mesi un’esposizione a
settori di bond non governativi, in particolare le emissioni
finanziarie investment grade e i corporate bond ad alto
rendimento, si è rivelata una strategia vincente".
"I mercati del credito hanno avuto un rally improvviso
dall’inizio dell’anno e crediamo che gran parte della
ripresa prevista in questi mercati si sia già verificata.
Tuttavia, i mercati del credito continueranno a rafforzarsi,
sebbene ad un passo più lento, dato che la liquidità che è
stata messa da parte durante la crisi sta tornando ai
mercati finanziari".
"Continuiamo a sovrappesare il settore corporate e stiamo
migliorando selettivamente i rating e la struttura di
capitale all’interno della nostra allocazione al settore
finanziario. Le stime continuano a implicare livelli più
elevati di default rispetto a quelli che crediamo si
materializzeranno".
Fonte
- Legg
Mason
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LA BOLLA
NASCOSTA
05 Novembre 2009 12:29 MILANO -
di Giuseppe Turani ______________________________________________
L'altalena mozzafiato delle borse
può indicare molte cose. La prima é l'isterismo ormai
diffuso tra gli operatori, in tutto il mondo. Isterismo che
ha portato la maggior parte dei golden boys della finanza,
da Londra a New York, a passare dalla massima esaltazione di
quindici giorni fa, quando ogni residuo di crisi sembrava
evaporato, alla depressione di queste ultime ore, dopo un
numero di sedute negative che nessuno si aspettava. E chi
già intravedeva bonus in arrivo e conseguenti spese folli,
adesso si preoccupa di poter essere licenziato. Con la
sindrome degli scatoloni della Lehman che aleggia sempre su
tutto e su tutti.
La seconda é la difficoltà di interpretare i dati, perché se
un giorno il Pil al 3,5 per cento esalta i mercati e fa
gridare all'uscita dal tunnel, il giorno dopo i consumi che
cedono neanche più di tanto, semina terrore e panico. La
terza é che tutti sappiamo che l'economia reale continua ad
avere una dinamica diversa da quella delle Borse, ma gli
utili delle grandi aziende battono regolarmente le attese. E
sarà anche merito dei licenziamenti, ma la produttività
macina record su record. In questo quadro, ben più confuso
di quanto si potesse immaginare solo pochi giorni fa, le
principali banche già stimano i tempi del rialzo dei tassi e
ad esempio Morgan Stanley e Citigroup sostengono che nel
secondo trimestre 2010 la Federal Reserve inizierà a
muoversi.
E la Bce lo farà il trimestre dopo. E qui viene qualche
dubbio. Con un'economia che non si sta riprendendo in modo
deciso, tranne che in Cina, in India o in Brasile, chi può
correre il rischio di rallentare la ripresa attraverso
manovre sul costo del denaro? Probabil¬mente tante banche
d'affari stanno sbagliando e, vista la lentezza dello
sviluppo previsto nel 2010, forse solo verso la fine
dell'anno si vedrà qualche tasso salire. E di pochissimo,
più per dare un mini segnale di svolta che per provare ad
incidere.
Intanto le banche stesse macinano utili record con il
trading di titoli e, invece di iniziare a selezionare le
imprese a cui prestare il denaro necessario per riprendersi,
speculano ancor più di prima con operazioni a leva sui
titoli obbligazionari che consentono profitti incredibili.
E, non contente, talvolta inventano operazioni senza alcun
senso economico solo per rincorrere qualche decimo di punto
sul Tier (un parametro che misura la loro solidità).
Francesco Micheli ha sostenuto nei giorni scorsi che la vera
bolla finanziaria deve ancora scoppiare. Giulio Tremonti non
perde occasione per bacchettare i banchieri accusandoli di
fare sempre troppa finanza e di dare poco aiuto alle
aziende.
Ma è possibile che la crisi più forte degli ultimi decenni
non abbia proprio insegnato nulla a nessuno? La forza del
denaro facile é proprio come un'onda che travolge tutto, uno
tsunami che nessuna logica, nessun regolatore é in grado di
arrestare? Ancora oggi le banche centrali osservano passive
comportamenti che dovrebbero censurare e analisti che fino a
qualche settimana fa erano fortemente critici su
spericolatezze e leve, già sembrano di nuovo affascinati da
crescite di valore con una fragilità sottostan¬te da far
paura.
Tutto, a ben guardare, fa paura. Dai carry trader, già
tornati alla ribalta, ai corporate bonds che vanno a ruba e
sono piazzati sul mercato retail come se le quotazioni di
inizio anno non fossero mai esistite. Questa macchina
infernale dei mercati finanziari riuscirà in qualche modo a
far chiudere l'anno con le borse sui massimi, ma a parte la
soddisfazione di un po' di gestori - specie i più disinvolti
- ed i profitti vacui quanto ingenti delle banche più
aggressive, si resterà in molti con la sensazione della
grande roulette. Di un grande gioco - forse più una giostra
che un'altalena - in cui sono in pochi a vincere e tanti a
perdere. E tra chi perde, ancora una volta, troviamo le
imprese e i lavoratori: tutta gente che continua ad andare
sempre poco di moda.
Fonte
- La
Repubblica
ROGERS BUCA LA BOLLA
ADDITATA DA ROUBINI
05 Novembre 2009 16:40 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Che tra Nouriel Roubini e Jim
Rogers ci sia un diverso approccio all'economia è
comprensibile. Il primo è professore alla New York
University e il secondo è investitore di professione, anzi
uno dei più leggendari avendo fondato nel 1960 il Quantun
Fund assieme a George Soros. Ma è piuttosto sorprendente che
tra i due vi sia anche della ruggine, dato che le loro
vedute sulla crisi del credito e la recessione non
differivano un gran che.
C'è una cosa che li differenzia: le bolle. Roubini le vede
dappertutto: nei prezzi del petrolio, dell'oro e nel carry
trade sul dollaro. Rogers, invece, è allergico alla parola
stessa. «Ma che bolla», ha risposto indispettito a Bloomberg
Tv: «È chiaro che il signor Roubini non ha fatto anche
questa volta i compiti». Per Rogers, che fin dal 1999
predisse (e cavalcò) la corsa delle materie prime, è normale
che il petrolio possa salire anche fino a 100 quest'anno e
l'oro anche a 2.000$ tra una decina d'anni. (W.R.)
Fonte
- WallStreetItalia
SCANDALO INFLUENZA
SUINA: A WALL STREET VACCINO DISTRIBUITO IN ANTICIPO
05 Novembre 2009 23:15 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
In Italia WSI riporta come primo
organo di informazione che il vaccino per combattere
l'influenza suina H1N1 e' stato distribuito ad alcune banche
e finanziarie di Wall Street molto prima che sia disponibile
al grande pubblico. Un'associazione privata di attivisti, il
Citizens for Responsibility and Ethics in Washington (CREW)
sta facendo chiasso dopo aver inviato una lettera al
ministro della Sanita' di Barack Obama (Health and Human
Service) Kathleen Sebelius, chiedendo che investighi sul
perche' il Center for Disease Control (CDC) abbia approvato
la distribuzione del vaccino ad almeno 13 grandi banche e
aziende di Wall Street, tra cui Citigroup, Goldman Sachs, JP
Morgan Chase e Time Warner. Tutte di New York, il che
potrebbe far pensare alla preoccupazione per una pandemia
nella Grande Mela.
La CDC insomma distribuendo il ricercatissimo vaccino alle
grandi banche di Wall Street, nonostante la pesante penuria
di dosi su base nazionale. Il 4 novembre il direttore del
CDC, Thomas Frieden, ha informato il Congresso Usa che
soltanto 32.3 milioni di dosi sono disponibili, molto meno
rispetto ai 159 milioni di cui ci sarebbe bisogno per
coprire le esigenze delle fasce maggiormente a rischio. Data
la scarsita', la CDC ha inviato direttive secondo cui il
vaccino deve essere dato soltanto a chi e' a rischio: donne
incinte, neonati e bambini, giovani fino ai 24 anni, chi
lavora a stretto contatto con i bambini, personale di
emergenza negli ospedali e nei servizi di emergenza, infine
adulti con il sistema immunitario compromesso o con problemi
di salute cronici.
Melanie Sloan, executive director di CREW, ha fatto sapere
in un comunicato che "nonostante CREW non sia stato in grado
di scoprire la composizione demografica di Goldman Sachs,
Citigroup e JP Morgan Chase, sembrerebbe scontato assumere
che la grande maggioranza dei loro dipendenti non sono donne
incinte, neonati e bambini, giovani fino ai 24 anni, chi
lavora a stretto contatto con i bambini, personale di
emergenza negli ospedali e nei servizi di emergenza, o
adulti con il sistema immunitario compromesso o con problemi
di salute cronici".
Sloan ha affermato: "In quale mondo viviamo, se Wall Street
deve avere la precedenza su tutti gli altri?
Sfortunatamente, per migliaia di americani che sono respinti
dagli ospedali e cliniche di tutta l'America, la CDC ha
deciso di dare priorita' ai milionari rispetto alle masse.
Il pubblico ha il diritto di sapere come e perche' cio' e'
accaduto, e quando finira'. Prima, il salvataggio durante la
crisi, poi i bonus, adesso il vaccino. Quando Washington
comincera' a mettere le esigenze di Main Street prima di
quelle di Wall Street?".
Secondo alcune fonti, Goldman Sachs ha richiesto 5.300 dosi
di vaccino. Soltanto le due sedi di Manhattan sono pero'
contemplate per la distribuzione, perche' gli altri uffici
regionali di Goldman non hanno attrezzature sufficienti per
l'operazione. Per adesso soltanto la sede storica di 85
Broad Street (a due passi dal New York Stock Exchange) ha
ricevuto il vaccino. Una portavoce della banca dice che per
ora non si ha notizia di nessun dipendente colpito
dall'influenza suina, "ma ovviamente dobbiamo essere
preparati".
Fonte
- WallStreetItalia
Derivati, una bomba
da 203mila miliardi
07 Novembre 2009 19:36 –
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
La grande paura è passata.
Nessuna implosione del sistema finanziario mondiale. Ma chi
bisogna ringraziare per lo scampato pericolo? Sicuramente i
Governi che hanno preso sulle spalle (con aiuti pubblici) il
fardello delle banche pericolanti; le autorità monetarie che
hanno inondato di liquidità il sistema. E quei mercati
(dalle Borse ai bond) che si sono messi a correre all'insù.
Dalle banche, quelle di Wall Street in particolare, ben poco
è arrivato.
Almeno in termini di comportamenti. Già dai primi mesi del
2009 il vecchio vizio di fare della speculazione un'arte è
riemerso più forte di prima. Lo dicono i bilanci delle big
bank americane che hanno ricominciato ad accumulare rischi
come niente fosse. Un dato su tutti è quello dell'attività
in derivati che, come ha sottolineato Giulio Tremonti nei
giorni scorsi, sono in continua crescita. Come se nulla
fosse accaduto. Non era proprio la finanza strutturata e la
sua inarrestabile ascesa ad aver causato il pericolo del
crack sistemico? Evidentemente a Wall Street hanno la
memoria corta. Come spiegare altrimenti che per le prime 25
banche Usa il valore nozionale in derivati è salito nella
prima parte del 2009 di altri 1.500 miliardi, portando il
totale alla stratosferica cifra di 203mila milardi di
dollari.
Una cifra quasi impronunciabile: 30mila miliardi in più
della stagione pre-crisi Lehman, il doppio del 2006 e dieci
volte tanto il valore di questi strumenti solo una decina
d'anni fa. Ma non è il valore in sé a preoccupare. È il
rapporto con le attività delle banche a far tremare i polsi.
Quella montagna di strumenti speculativi siede su un attivo
complessivo di appena 7.600 miliardi con un rapporto di 26
dollari in derivati per ogni dollaro di attività. E questo è
il dato medio. Poi ci sono le reginette del rischio estremo:
come Goldman Sachs che ha un rapporto di 300 volte o Jp
Morgan che per ogni dollaro di attivo ha in pancia 48
dollari in derivati.
Ma non è solo il continuo ricorso a quelle che Warren Buffet
ha definito «armi di distruzione di massa» a gettare una
luce inquietante. È la modalità con cui i grandi gruppi
bancari sono tornati a macinare utili che dovrebbe far
riflettere. Come se niente fosse accaduto le Goldman e le Jp
Morgan sono tornate a speculare su tassi, valute, cambi con
i mercati al rialzo, con ancora molto capitale preso a
prestito. Dalla divisione del trading sul reddito fisso la
sola Goldman Sachs dovrebbe realizzare oltre 20 miliardi di
ricavi contro i 3,7 del 2008. E che dire di Jp Morgan? La
divisione banca d'investimento è tornata a far da motore a
tutto il gruppo con 6,6 miliardi di utili operativi attesi
per il 2009, oltre la metà del totale dei profitti
operativi.
Ma il rituffarsi nella finanza speculativa ha il rovescio
della medaglia: secondo i dati raccolti dalla Federal
Reserve è in atto uno swap potente tra l'attività
tradizionale di prestito e quella d'investimento. Ebbene
mentre prestiti e attivi declinano, aumentano di controcanto
l'investimento in prodotti finanziari. Buona cosa (finché
dura) per i profitti delle banche di Wall Street, meno bene
per Mean Street, l'economia reale abbandonata dalla banche.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
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Record
del prezzo dell'oro: «il rialzo durerà a
lungo»
12 Novembre 2009 14:11 MILANO –
Il Sole 24 Ore
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La corsa all'oro continua. Certo, questa non ha né il
"fascino" né la "durezza" della caccia al metallo giallo nel
Klondike in fine 1800. Adesso comandano migliaia e migliaia
di algidi ordini via computer , o di acquisti alle grida,
che fanno balzare i future sul lingotto. Ma è indubbio che i
prezzi, di giorno in giorno, continuano a lievitare. Nell'intraday,
a Londra, il contratto spot è salito a 1.123,38 dollari
l'oncia mentre il future a scadenza dicembre è balzato fino
a 1.123, 40 dollari. Poi, sulle scontate prese di beneficio,
la quotazione ha ritracciato. Dall'altra parte
dell'Atlantico, a New York il contratto a scadenza su
dicembre è sceso a quota 1.113,50 dollari. Nonostate questi
vuoti d'aria, però, l'impostazione al rialzo è
inequivocabile. Solo a metà settembre si dubitava che la
quotazioni potessero sfondare quota 1.000 dollari e adesso
c'è chi, addirittura, guarda all'obiettivo dei 1.300 dollari
.
La domanda dagli investitori
Al di là dei target, che lasciano il tempo che trovano, è
indubbio che l'enorme liquidità in circolazione è in cerca
di un investimento remunerativo nel breve periodo. Con i
tassi a breve negli Usa pari allo zero, gli investitori
denominati in dollari preferiscono puntare sul metallo
prezioso. Uno dei punti cruciali è che l'oro non è più, o
almeno non solo, considerato una commodity ad uso e consumo
dell'industria e delle gioiellerie. Tutt'altro: è una vera e
propria asset class, in particolare un asset monetario. «La
forza della domanda nell'ultimo anno - afferma al
Sole24Ore.com Rozanna Wozniak, investment research manager
di World Gold Council -, è stata la crescita di acquisti da
parte degli investitori. Quest'ultimi hanno controbilanciato
la debolezza dei classici settori (industrie e jewellery,
ndr) che subiscono la recessione economica». Insomma, non è
solo una questione di metallo giallo ma, un po' come nel
mondo del petrolio, di lingotti di carta. «Non chiamiamola,
però, speculazione - sottolinea immediatamente la Wozniak -.
Gli investitori sono in cerca di un porto sicuro. È spesso
un'attività di copertura e di diversificazione del proprio
portafoglio», in un periodo in cui non si è sicuri del rally
delle Borse e della ripresa dell'economia mondiale.
Che la corsa all'oro abbia una "genesi finanziaria" lo
dicono anche i numeri. «Nel secondo trimestre 2009 - spiega
l'esperta di World Gold Council - la domanda proveniente
dalle gioiellerie pesava per il 56% del totale e quella
industriale il 13 per cento. Gli investitori, invece,
avevano una rilevanza del 31% sul totale». Certo, una
percentuale ancora inferiore rispetto alle altre categorie
«ma in forte crescita. Nello stesso periodo del 2008,
infatti, l'investment demand valeva solo il 19 per cento».
Il trend di fondo è al rialzo
Al di là dei perché della crescita delle quotazioni, la
Wozniak rimane convinta «che nel lungo periodo i
fondamentali sono impostati a favore di una crescita delle
quotazioni. Sul lato dell'offerta, mentre lo scorso anno la
produzione delle miniere è cresciuta, il futuro resta
incerto. Le società di esplorazione trovano difficoltà
nell'ottenere finanziamenti; ci sono poche scoperte di nuovi
filoni interessanti e passa sempre più tempo tra il
ritrovamento e lo sfruttamento della miniera». Di più:
«l'offerta dalle Banche centrali - dice la ricercatrice -
sta diminuendo: le loro vendite di oro scendono».
Il dollaro debole
Un'altra spinta alla crescita dell'oro, si dice, arriva dal
dollaro debole. In realtà affermare, quasi ci fosse una
relazione di causa-effetto, che più la divisa americana
scende più l'oro sale ha poco senso. Certo: essendo l'oro
prezzato nella divisa americana, la debolezza di
quest'ultima rende meno costoso il suo acquisto. Ciò vale,
però, per gli investitori europei. Non certo per quelli
denominati in dollari. Di più: si può dire che le banche
centrali, a fronte di riserve in dollari che perdono valore
nominale, vanno in cerca di una diversificazione del loro
portafoglio, aumentando la domanda di oro. Ma quello che va
ricordato è che la correlazione tra dollaro e oro è di
carattere statistico. «Le serie storiche - sottolinea la Wozniak - indicano che esiste questa relazione inversa. Un
trend che, ultimante, è stato molto forte. Tuttavia, non
mancano periodi storici in cui questa relationship è venuta
meno».
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Fonte -
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Domenica
15
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I
gestori preferiscono l’Asia
12 Novembre 2009 14:11 MILANO -
di Sara Silano
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Tra ottobre 2007 e marzo 2009, i mercati mondiali hanno
bruciato 29 mila miliardi di dollari, pari a circa il 50%
del Prodotto interno lordo mondiale. In primavera è
cominciato un forte rally, che, però, in ottobre, ha subito
una nuova battuta d’arresto. Ora i gestori guardano con
cauto ottimismo al mercato azionario, in attesa di conferme
dall’economia e dal fronte degli utili aziendali.
Pausa per l’Europa
Nel Vecchio continente, la fase di ribasso ha penalizzato i
settori che avevano corso di più durante il rally cominciato
a marzo, ossia i bancari, le aziende più indebitate e i
ciclici (questi ultimi scontavano una ripresa dei consumi
più rapida). Il settore delle materie prime, invece, ha
continuato a beneficiare della domanda dei mercati in via di
sviluppo. Nonostante ad ottobre l’indice Msci Europe abbia
perso oltre il 2%, i gestori confermano le previsioni
espresse a settembre. Il 50% si attende un apprezzamento
degli indici azionari e il 40% è convinto che non si
discosteranno dagli attuali livelli.
A Wall Street non bastano le
trimestrali
Negli Stati Uniti, il Prodotto interno lordo è cresciuto del
3,5% nel terzo trimestre, ma dietro questo dato si nasconde
un quadro economico ancora debole, con la disoccupazione
salita al 10,2% e le vendite al dettaglio in calo. Un
contesto che non favorisce la ripresa dei consumi. Dal punto
di vista dei conti aziendali, la maggior parte delle imprese
ha battuto le aspettative, ma la ragione principale è il
taglio dei costi. Il fatturato, infatti, indica che la
crescita è ancora debole. A ottobre, i gestori si sono
mostrati un po’ più ottimisti sull’andamento di Wall Street,
con il 45% convinto che salirà contro il 35% di ottobre.
Tuttavia, sono raddoppiati i pessimisti (20%).
Tokyo, deflazione cronica
Ad ottobre, l’indice Msci Giappone ha perso il 3,4% (in
euro), risentendo più dei mercati mondiali della fine del
rally cominciato a marzo. E’ sempre più evidente che i
problemi strutturali del Paese non si potranno risolvere in
tempi brevi. Il Sol Levante deve fare i conti con
l’invecchiamento della popolazione, la diminuzione dei
risparmi delle famiglie e la deflazione. In questo contesto,
l’elevato indebitamento può rappresentare un nodo critico,
qualora dovessero aumentare i tassi. La Borsa di Tokyo
rimane quella con il più alto numero di gestori pessimisti
(25%). Gli ottimisti, invece, sono il 40%.
Asia ancora il pole position
Le Borse dell’Asia-Pacifico hanno perso meno di quelle
europee e statunitensi nell’ultimo mese (-1,28%) e rimangono
le preferite dai gestori. Il 65% degli intervistati si
aspetta un apprezzamento perché la situazione economica dei
Paesi asiatici è migliore di quella occidentale e il loro
ruolo nel panorama internazionale è in crescita. Alcuni,
però, mettono in guardia sulle valutazioni dei titoli, in
quanto molto delle migliori prospettive future dovrebbe già
essere inglobato nei prezzi.
Titoli di Stato poco attraenti
I gestori prevedono che i tassi di interesse rimangano bassi
per molto tempo, ad eccezione delle scadenze lunghe. La
ripresa è ancora debole e l’inflazione non rappresenta un
problema. Di conseguenza, la maggior parte dei fund manager
si attende una stabilità dei prezzi nei prossimi sei mesi e
guarda ad altri strumenti del mercato obbligazionario come
le emissioni societarie (investment grade e high yield) e
quelle emergenti.
Il dollaro non riparte
Il 35% dei gestori prevede che il rapporto di cambio tra il
biglietto verde e l’euro rimanga attorno agli attuali
livelli, contro il 30% che si attende un apprezzamento della
divisa comunitaria e un’analoga percentuale che considera
possibile la rivalutazione del dollaro. La moneta americana
sta perdendo lentamente lo status di riserva internazionale,
tuttavia in termini di parità di potere di acquisto l’euro
risulta sopravvalutato.
Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 4 e l’11
novembre, 20 delle principali società di diritto italiano ed
estero operanti sul territorio, che contano per circa l’85%
degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle,
Allianz Global Investors Italia, Anima Sgr, Banca Finnat-New
Millenium sicav, Banca Ifigest, Banca Profilo, Bnp Paribas
Am Sgr, Eurizon Capital, Fideuram Investimenti, Henderson
Global Investors, Ing Asset Management BV-Milano,
Investitori Sgr, M&G Investments, Pioneer Im, Prima Sgr,
Prometeia Advisor Sim, Soprarno Sgr, Swiss&Global AM Sgr,
Threadneedle, Vontobel.
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Fonte -
MorningStar.it
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Bond giù per
troppa offerta
12 Novembre 2009 14:11 MILANO -
di Marco Caprotti ______________________________________________
Troppa offerta, qualche sussulto
del mercato azionario e le speranze di ripresa della
congiuntura mondiale hanno fatto scendere i prezzi delle
obbligazioni. E’ questo, in sintesi, il quadro del mercato
dei bond. L’indice Citi Wgbi del comparto nell’ultimo mese
(fino al 9 novembre e calcolato in euro) ha perso quasi
l’1,5%. Questo andamento ha pesato anche sui fondi di
settore. Quelli raccolti nella categoria Morningstar
obbligazionari internazionali (venduti in Italia), ad
esempio, sempre negli ultimi 30 giorni hanno lasciato sul
terreno lo 0,85%.
Una parte della fotografia di quanto sta succedendo sul
mercato obbligazionario internazionale è messa bene a fuoco
dagli Stati Uniti. Nell’ultima settimana di ottobre il
governo Usa ha messo all’asta titoli di debito per un totale
di 123 milioni di dollari. La richiesta da parte delle
banche centrali e degli investitori è stata fortissima: le
offerte sono arrivate a totalizzare 372 miliardi di dollari.
“Questo elemento, da solo, avrebbe dovuto far salire i
prezzi delle obbligazioni statali”, spiega una nota di
Morningstar. “Il problema è che la forte domanda sta creando
altre richieste”. Nei prossimi giorni l’America metterà in
vendita Tbond con scadenze a tre, 10 e 30 anni per un totale
di 81 miliardi. Anche in questo caso si prevede il tutto
esaurito.
“Si sta arrivando a una situazione che confermerebbe la
legge elaborata nell’800 dall’economista francese
Jean-Baptiste Say, secondo cui l’offerta di un prodotto (in
questo caso i bond) alla fine crea la propria domanda”.
Insomma, fra le due forze principali del mercato si arriva
ad un bilanciamento. La conferma a questo assunto potrebbe
arrivare nei prossimi mesi ed anni. La Camera Usa ha appena
approvato il piano di riforma del sistema sanitario del
Paese. In caso di via libera anche da parte del Senato, ci
sarebbe il definitivo semaforo rosso a un progetto che alle
casse dello Stato potrebbe costare mille miliardi di dollari
nei prossimi 10 anni. Soldi che la Casa bianca conta di
raccogliere attraverso l’emissione di altri titoli di
debito.
Prezzi in discesa, anche se per differenti motivi, in
Europa. Sul bund, obbligazione government tedesca e metro di
riferimento per il comparto nel Vecchio continente, pesano
le ultime dichiarazioni del presidente della Banca centrale
europea Jean-Claude Trichet. “L’ammontare delle misure
economiche utilizzate negli ultimi mesi non sarà necessario
in futuro”, ha spiegato il numero uno dell’autorità
monetaria europea, mentre annunciava la decisione di
lasciare invariati all’1% i tassi di interesse di Eurolandia.
Un segnale chiaro, hanno spiegato gli economisti, di una
ripresa dell’economia che rende inutile (o meno urgente)
rivolgersi ad asset di protezione quali sono considerati
solitamente i bond.
L’insieme delle cause americane ed europee, sta pesando in
Asia sull’andamento dei government giapponesi. Anche nel Sol
levante si registrano prezzi in discesa e rendimenti in
salita. Il movimento è stato dettato prima di tutto dalle
notizie sugli scenari congiunturali delle altre due
macroregioni che (se confermati) avvantaggeranno le imprese
nipponiche tradizionalmente votate all’export. Poi è
arrivata la decisione del Ministero delle finanze di mettere
in vendita, nelle prossime settimane, bond con scadenza a
cinque e a 40 anni per un totale di oltre 2mila miliardi di
yen (15,5 miliardi di euro) che porterà alla cifra record di
132mila miliardi l’ammontare delle emissioni in programma
per l’anno fiscale in corso. Fonte
-
MorningStar.it
TORO SCATENATO:
L'INDICE S&P500 SALIRA' SOPRA QUOTA 1300 ENTRO FEBBRAIO
12 Novembre 2009 16:00 NEW YORK
-
di WSI ______________________________________________
L'economia continua a migliorare.
La fase rialzista e' una reazione naturale all'eccessivo
pessimismo che l'ha preceduta. Ne e' convinto il finanziere
miliardario Kenneth Fisher, secondo cui il benchmark
guadagnera' il 25% in 3 mesi.
Kenneth Fisher
Lo Standard & Poor’s 500 superera' probabilmente la soglia
dei 1.300 punti entro febbraio, perche' l'economia
continuera' a recuperare terreno, risollevandosi dalla
recessione piu' grave dagli anni '30.
A dirlo e' l'imprenditore americano miliardario Kenneth
Fisher, che in un'intervista a Forbes, riportata da
Bloomberg, ha spiegato che si tratta di "una semplice
reazione al pessimismo eccessivo che l'ha preceduta". Fisher
(classificato da Forbes come il 289esimo uomo piu' ricco
degli Stati Uniti) ha aggiunto che "assisteremo ancora ad
una fase di mercato rialzista prolungata, proprio perche'
prima abbiamo assistito a ribassi enormi".
Il paniere allargato della Borsa statunitense ha fatto un
balzo del 62% arrivando a toccare quota 1.093,08 dopo essere
sprofondato sui minimi di 12 anni a inizio marzo. Secondo il
58enne presidente di Fisher Invesments Inc, nei prossimi tre
mesi il benchmark e' destinato ad accumulare altri guadagni,
pari al +25% rispetto al valore della chiusura della
settimana scorsa.
"L'economia non sta affatto recuperando ad un passo lento.
L'America e' molto piu' veloce di quanto si pensi. Gli
ultimi numeri sul Pil del terzo trimestre lo dimostrano" ha
concluso Fisher.
Fonte
- WallStreetItalia.com
Mediobanca: il
trading tampona le falle nei conti delle banche
12 Novembre 2009 17:01 MILANO –
Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Le grandi banche europee, e tra
loro anche le italiane, stanno proseguendo con forza le
attività di trading, che nel primo semestre del 2009 hanno
segnato un utile di 28 miliardi di euro (dopo il rosso di
-59,7 nella seconda metà del 2008 e -17,3 nella prima),
contro una perdita di 61 miliardi accusata sui crediti
(+138% annuo). È quanto emerge da uno studio di R&S
Mediobanca sui principali 20 istituti di credito del Vecchio
Continente.
La ricerca, secondo la quale si sta confermando lo stesso
trend anche nella seconda metà dell'anno, ricorda come tra
gennaio e giugno Unicredit abbia accusato una perdita su
crediti di 4 miliardi di euro e un utile da attività di
trading di 864 milioni, Intesa San Paolo un rosso sui crediti
di 1,8 miliardi e un guadagno dall'intermediazione di 546
milioni.
Se il trend del primo semestre si confermerà, come sembra
dai dati disponibili sul terzo trimestre, il risultato di
negoziazione dei big bancari europei nel 2009 sarà
ampiamente superiore anche ai 36,6 miliardi segnati nel
2007, ovvero l'anno prima della crisi. Per l'utile netto,
invece, le distanze sono incolmabili rispetto ai 97,4
miliardi del 2007. Ad incidere sono le perdite sui crediti,
che appaiono destinate a registrare livelli nettamente
superiori agli anni passati, dopo avere totalizzato 62
miliardi nel gennaio-giugno 2009, contro gli 86 miliardi
dell'intero 2008 (59,8 miliardi nella seconda metà) e i 37,6
miliardi del 2007 ed essere ora pari al 28% dei ricavi
totali dal 25% del 2008 e dal 9,5% del 2007.
Passata l'emergenza finanziaria, le banche sono ora dunque
confrontate, trimestre dopo trimestre, con l'impatto
crescente della crisi dell'economia reale che colpisce
famiglie ed aziende. Di rilievo, peraltro, nel primo
semestre la crescita del margine di interesse, salito a
121,3 miliardi dai 112 miliardi di un anno prima, pur in un
contesto di tassi calanti. La sua incidenza sul margine di
intermediazione é tuttavia calato al 55% dal 60% della prima
metà del 2008 per effetto dell'espansione dei ricavi da
trading. A livello patrimoniale, dallo studio di R&S
Mediobanca emerge una complessiva riduzione rispetto al 2008
del volume dell'attivo a 21.178 miliardi (-12%), che resta
tuttavia superiore al 2007 (20.808 miliardi). Il
dimagrimento é ascrivibile alla voce 'altre attivita" (5,28
miliardi a fine giugno da 7,6 miliardi a fine dicembre
2008), il coacervo in cui rientrano gli strumenti derivati.
Sul fronte della raccolta é in lieve flessione quella della
clientela (-1%), mentre cala vistosamente l'interbancaria
(-17%).
In forte aumento i crediti dubbi, che ormai rappresentano
quasi il 28% dei mezzi propri contro il 24,5% a fine 2008 e
sono pari all'1,9% dei crediti totali verso la clientela
contro l'1,5% di sei mesi prima. Per le banche italiane
(oltre alle due big sono conteggiate anche Mps, Bpm,
Mediobanca, Ubi Banca, Banco Popolare e la Popolare
dell'Emilia Romagna) le incidenze sono ancora più elevate,
essendo rispettivamente pari al 68% del patrimonio netto
tangibile (dal 54,9%) e al 4,5% dei crediti totali (dal
3,3%), a causa della minore politica di copertura dei
crediti dubbi rispetto alla media europea (45% contro 54%).
Tra l'altro - segnala lo studio -gli accantonamenti sono
saliti nel semestre allo scorso giugno del 15%, meno
dell'aumento dei crediti dubbi (+25%) e contro le medie
europee di +18,5% e +22% rispettivamente.
Fonte
- Il Sole 24 Ore
La crisi ha
svegliato i buyback
12 Novembre 2009 17:01 MILANO –
Marco
Caprotti ______________________________________________
Ritiro, totale o parziale, di
alcune categorie di azioni (di risparmio o privilegiate);
predisposizione di un portafoglio di azioni da scambiare per
realizzare alleanze; sfruttamento di un prezzo di mercato
ritenuto basso per poi rivendere i titoli durante un rally;
difesa da possibili Opa ostili. Sono diversi i motivi che
spingono un’azienda a effettuare il riacquisto di azioni
proprie (in gergo buyback).
Il fenomeno del buyback, grazie alla crisi dei mercati che
ha depresso i corsi azionari, sembra aver trovato nuovo
vigore. Secondo i dati di Morningstar, dall’inizio di
novembre, a livello globale, sono stati lanciati 40 piani di
riacquisto di azioni proprie. Se a questi si aggiungono
quelli in corso dal 2008, il numero sfiora il migliaio. Il
risultato comunque, dal punto di vista operativo è uno solo:
un aumento dei volumi di scambio delle azioni in questione e
la spinta delle quotazioni verso l’alto, per la gioia degli
azionisti che rimangono investiti. L’indice Share Buyback
Achievers elaborato da Invesco (che include tutte le società
trattate negli Stati Uniti che negli ultimi 12 mesi abbiano
riacquistato almeno il 5% dei propri titoli), per esempio,
da inizio anno ha guadagnato circa il 26,5%. Nello stesso
periodo il paniere Msci North America (calcolato in dollari)
ha segnato +24%.
L’operazione riduce il numero dei titoli in circolazione
dando ai rimanenti azionisti la proprietà di una percentuale
maggiore della società. “E’ un fenomeno che va a beneficio
di tutti i soci”, conferma uno studio firmato da Paul Larson,
analista azionario di Morningstar. “Diminuendo il numero
assoluto di azioni in circolazione, cresce il peso
percentuale nel controllo della società da parte di chi
conserva lo stesso numero di azioni di prima”. Inoltre,
l’operazione si traduce in un miglioramento del rapporto tra
utili ed azioni, dal momento che il profitto complessivo
della società viene distribuito su un numero inferiore di
azionisti. “In questo modo, i consigli di amministrazione
riescono a migliorare la voce ’utili per azione’ in una fase
in cui la crescita dei profitti e le comparazioni con i
risultati dell’anno precedente si fanno più difficoltosi”,
dice il report.
Normalmente viene anche considerato un segnale di ottimismo
da parte degli amministratori, che acquistano azioni ad un
prezzo che essi, che hanno una visione dall’interno
dell’andamento dell’impresa, ritengono sottovalutato.
“Questa indicazione, tuttavia, va presa con le molle”,
precisa l’analista di Morningstar. “In generale, il buyback
non segnala un reale mutamento delle prospettive di reddito
dell’impresa e la variazione iniziale dei prezzi è frutto
dell’emotività del mercato”.
Quello che il riacquisto di azioni proprie può fare, invece,
è dare indicazioni sulle strategie di un’azienda e sul loro
mutamento. Uno degli esempi più recenti è stato il programma
di buyback di Nestlé. Il colosso alimentare nei giorni
scorsi ha annunciato di voler dare un nuovo impulso
all’operazione grazie ai fondi raccolti con la cessione di
una partecipazione in una società del pharma (Alcon)
ritenuta non strategica. Dal mercato l’annuncio è stato
letto anche come l’intenzione da parte del gruppo svizzero
di non interferire nell’Opa ostile (da 16,7 miliardi di
dollari) lanciata dall’americana Kraft sul gruppo inglese
Cadbury (cioccolato). “Un intervento che molti davano per
scontato, soprattutto dopo la cessione di Alcon che si
pensava essere stata fatta per preparare le munizioni per
una guerra fatta di offerte e di rilanci per conquistare il
gruppo britannico”, commenta Larson. “A questo punto,
bisogna cambiare tutti i ragionamenti fatti fino ad ora su
Nestlé. Il mercato, adesso, non si aspetta acquisizioni da
parte degli svizzeri. Almeno fino alla fine del 2010”. Fonte
- Morningstar.it
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Rialzo
dei tassi in vista? Tanto
meglio il rally è appena iniziato
15 Novembre 2009 20:05
NEW YORK -
WSI
________________________________________
L'economia Usa sta crescendo abbastanza da assicurare che il
mercato estenda il rialzo anche a fronte di un costo del
denaro piu' alto. La Fed alzera' i tassi 0.5% nel giugno
2010. Buy: in scenari simili (in passato) ha pagato nel 92%
dei casi.
Le Borse di tutto il mondo sono ad un punto cruciale, dopo 7
mesi di crescita (S&P500 +60% dai minimi di marzo) con i
listini che potrebbero essere frenati dalle preocuppazioni
secondo cui le Banche Centrali inizieranno presto ad alzare
i tassi guida dei rispettivi Paesi.
Tali paure potrebbero compromettere i rally borsistici piu'
poderosi degli ultimi trent'anni. Gli indici di riferimento
da New York a Tokyo, passando per Londra e Francoforte, a
volte strappano e a volte salgono, ma hanno smesso di salire
ininterrottamente come nel secondo e terzo trimestre, sulle
speculazioni che gli istituti centrali annunceranno presto
una via d'uscita dai piani di rilancio economico, prima del
consolidamento della ripresa dell'economia globale.
Ma la storia ci insegna che nei sei mesi precedenti
all'innalzamento del costo del denaro, i listini si sono
resi protagonisti di un rialzo, in ben il 92% dei casi.
Gli analisti di Federated Investors, Renaissance Financial e
Citigroup concordano nel sostenere che gli operatori
potrebbero perdere ulteriori opportunita' di guadagno se non
volessero salire sul treno ora, dopo che i governi di tutto
il mondo hanno investito $12.000 miliardi in aiuti e
prestiti che hanno spinto il paniere globale MSCI World
Index in progresso del 65% dal 9 marzo.
Di solito, sottolinea Linda Duessel, equity strategist di
Federated, il mercato tende ad avanzare prima che le banche
centrali annuncino la decisione di alzare i tassi di
interesse, perche' i mercati prevedono un'espansione
dell'economia.
Per questo il consiglio e' quello "di comprare titoli ora.
Sta prendendo piede l'idea che le misure di stimolo stanno
per essere fatte svanire e che i tassi di interesse saranno
alzati. Ma e' facile, tuttavia, che il rally del mercato
prosegua anche dopo un evento del genere".
L'S&P 500 ha guadagnato l'8.4% nei sei mesi precedenti alle
ultime cinque volte in cui la Fed ha deciso di alzare i
tassi per i prestiti interbancari overnight e ha accumulato
rialzi pari ad un ulteriore 8.2% nella fase rialzista che ne
e' seguita. Secondo dati raccolti da Bloomberg, dal 1988 il
benchmark tedesco DAX ha fatto un balzo del 9% nei sei mesi
precedenti la decisione della Banca Centrale del Paese,
mentre il Nikkei 225 giapponese e' dal 1973 che in media
registra un progresso dell'8.3%.
Stando al valore dei futures sui Fed funds, il presidente
della Federal Reserve Ben Bernanke e i suoi colleghi
dovrebbero decidere di alzare il costo del denaro nel giugno
2010. C'e' una possibilita' del 51% che l'incremento deciso
nell'incontro del comitato di politica monetaria del FOMC
del prossimo 25 giugno, sia di almeno lo 0.5%, ovvero quando
l'economia americana avra' registrato il quarto trimestre
consecutivo di espansione, s stime.
Secondo quanto spiegato ai microfoni di Bloomberg TV da
Douglas Ciocca, managing director di Renaissance che
consiglio' di comprare le obbligazioni societarie a novembre
del 2008, ossia prima che guadagnassero il 30%, "se io fossi
un investitore e vedessi che ci stiamo avvicinando
all'annuncio dei piani di exit strategy, questo non farebbe
che confermare che l'economia si e' stabilizzata e questa
non puo' che essere una notizia positiva".
Secondo Michala Marcussen, capo della divisione di ricerche
economiche e strategiche di Societe Generale Asset
Management, i segnali giunti di recente suggeriscono che
l'economia sta crescendo in maniera abbastanza sostenuta da
assicurare che i tassi di interesse piu' alti non
compromettano, anzi estendano, il rally del 60% messo a
segno dall'S&P 500 dai minimi di 12 anni. Nelle ultime sei
riunioni di politica monetaria, la Fed ha promesso di
mantenere lo status quo sui tassi vicino allo zero ancora
per un "periodo prolungato".
"Quello che la Fed ci sta dicendo, preferendo non cambiare
la sua retorica e': Siamo ancora preoccupati per lo stato di
salute del credito", sottolinea Marcussen, aggiungendo:
"abbiamo visto un rally molto solido e ora cosa ci spingera'
in rialzo? Forse quello che aspettano i mercati e' proprio
la decisione della Fed".
In una nota ai clienti datata 28 ottobre, lo strategist di
Citi Tobias Levkovich ha suggerito agli investori di
comprare titoli azionari ora, prima che i tassi vengano
alzati. Dal 1915 a oggi l'S&P 500 ha guadagnato terreno in
25 anni su 38 in previsione di un rialzo del costo del
denaro. In particolare a registrare performance superiori
alla media sono stati energetici, industriali, titoli legati
alle materie prime e di societa' attive nell'information
technology (IT).
Secondo le previsioni degli economisti i Fed funds verranno
alzati allo 0.5% nel secondo trimestre del 2010. Il tasso
verra' aumentato di un altro quarto di punto in ogni
trimestre successivo fino ai primi tre mesi del 2011.
"Sembra che ci sia una percezione sbagliata tra gli
investitori secondo cui quando i tassi di interesse
crescono, i prezzi dell'azionario sono destinati a scivolare
per forza", ha scritto Levkovich nella nota. "Noi non la
pensiamo cosi', non pensiamo infatti che un incremento dei
tassi sui Fed funds sia per forza un evento negativo per i
mercati azionari".
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Fonte -
WallStreetItalia |
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Mercoledì 25
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Nuovo
rischio di bolla sui mercati
finanziari
18/11/2009 MILANO -
Miaeconomia
________________________________________
Poco piu’ di un anno fa, di questi tempi, il mercato
finanziario era sull’orlo del tracollo e l’economia reale
mondiale, con qualche eccezione come Cina, India e Brasile e
altri stati emergenti specialmente del sud est Asia, era
alle soglie di una depressione per proporzione simile a
quella che colpi’ nel 1929 le economie di allora, Usa in
testa.
Per evitare una catastrofe le banche centrali di tutto il
mondo hanno abbassato i tassi di interesse a livelli
storici. Quasi a zero in Usa e Giappone, prima e seconda
economia per dimensioni del Pil, della terra, all’1% in
Eurolandia. E i Governi nazionali hanno inondato i mercati
con un flusso di denaro spaventoso, in parte finito nelle
casse delle banche, da cui ha originato la crisi. Tanto per
dare una dimensione degli interventi il solo Tesoro Usa ha
messo a disposizione del sistema quasi 800 miliardi di
dollari, circa un terzo del Pil Italiano, pari a 1.500
miliardi di euro.
A distanza di un anno che fine ha fatto quella massa di
denaro? Che uso ne hanno fatto le banche sull’orlo del
tracollo?
A guardare le Borse l’economia sembra in grande forma. I
mercati finanziari stanno correndo da marzo, con rialzi di
oltre il 50%. Addirittura rispetto a un anno fa, New York e’
sopra del 20% rispetto ai valori di inizio novembre, con i
mercati in discesa libera. Londra del 27%, la Borsa di Tokio
del 18%, quella di Francoforte del 22%. Piazza Affari
rispetto a un anno fa sale del 13% e del 20% rispetto a 6
mesi fa.
E le banche? Godono di ottima forma. Trimestrale super per
Intesa Sanpaolo, ottima per Unicredit, bene per Mps, tanto
per citare tre big nostrani. E in Usa, culla della crisi?
Impennata degli utili per Jp Morgan Chase del 500% rispetto
a un anno fa, del 270% Per Goldman Sachs, del 60% per Wells
Fargo, solo per citare i casi piu’ eclatanti.
Ma se le banche vanno bene, le Borse corrono, il petrolio
torna a 80 dollari allora la crisi e’ superata? Finita la
recessione? A guardare i numeri del Pil non c’e’ un paese
industrializzato che abbia un prodotto positivo rispetto a
12 mesi prima. Quello degli Usa scende del 4% quello
dell’Eurozona piu’ o meno dello stesso livello. Il Regno
Unito e’ al sesto trimestre in recessione.
E allora come sta veramente la situazione?
Semplice, basta andare a guardare nel bilancio delle banche
per capire come gli utili derivino nuovamente da attivita’
di trading, speculazione. Negli Usa nei bilanci delle prime
25 banche il valore nozionale dei derivati, gli strumenti
tipici del trading, e’ salito nei primi 6 mesi del 2009 di
1.500 miliardi per un valore totale di circa 200mila
miliardi di dollari di posizioni in derivati. Ma il valore
di per se non significa nulla se non e’ paragonato agli
attivi bancari. In totale il sistema bancario statunitense
poggia su 7.600 miliardi di attivi contro 200mila di titoli
derivati, per un rapporto di un dollaro attivo ogni 26 in
attivita’ speculativa. Due esempi su tutti. Goldman Sachs,
che ha visto gli utili incrementati del 270% ha un rapporto
attivi/derivati di 300 volte; Jp Morgan, 580% di incremento
degli utili, di quasi 50 volte.
In pratica le banche sono tornate a speculare su azioni,
tassi, valute, materie prime, e con i soldi munificamente
elargiti dai governi. Invece di tornare a fare prestiti alle
aziende, rimettere i capitali in circolo, di fare ripartire
l’economia, insomma di dedicarsi al loro business
tradizionale, le banche hanno ripreso a speculare
esattamente come prima dello scoppio della crisi. Ecco
spiegato il motivo della corsa delle Borse, della debolezza
del dollaro a causa del Carry Trade, ovvero spculazione sui
tassi delle valute, dell’oro sui massimi storici a oltre
1.130 dollari l’oncia, del petrolio tornato a 80 dollari dai
40 di circa sei mesi fa. Finche’ non scoppiera’ la nuova
bolla. Alcuni analisti indicano anche una data: 2012. Le
scommesse sono aperte.
 |
Fonte -
Miaeconomia |
Meredith Whitney:
meglio prendere profitto sulle grandi banche Usa
mercoledì, 18 novembre 2009 - 10:54
NEW YORK - di
BlueTG.it ______________________________________________
E’ tempo di tirare le reti in barca secondo l’analista
americana Meredith Whitney, ex manager di Oppenheimer & Co.
poi messasi in proprio, diventata famosa, come ricordano
stamane gli analisti di UniCredit, per avere correttamente
preannunciato molti degli errori compiuti negli ultimi anni
delle banche.
La Whitney ieri ha affermato che il settore creditizio è
ormai ben capitalizzato ed è giunto il tempo di ridurre il
peso in portafoglio dei titoli delle banche a larga
capitalizzazione. La Whitney ha anche aggiunto di non
credere che il rally di Wall Street si basi sui fondamentali
e si è confermata scettica, come è stata finora,
sull’andamento dei mercati nel prossimo futuro. (l.s.) Fonte
- BlueTG.it
E IL MERCATO MIGLIORA
E BERNANKE ATTIVA I PRIMI PASSI DELLA EXIT
18 Novembre 2009 10:00 SIENA -
di Carmela Pace ______________________________________________
La Fed ieri ha annunciato che, a partire dal 14 gennaio
2010, ridurrà la durata della discount window a 28 giorni
dagli attuali 90 sulla linea di credito primaria (Primary
Credit) per i prestiti diretti alle banche, disponibile
solamente ad un numero limitato di istituzioni. Si tratta di
un tentativo di cominciare lentamente a rimuovere alcune
misure di emergenza dopo i miglioramenti nelle condizioni
del mercato finanziario. Anche la giornata odierna è ricca
di dati macro, tra i quali segnaliamo i prezzi al consumo ed
i dati immobiliari di ottobre relativi all’apertura di nuovi
cantieri. Sul decennale governativo il supporto si colloca
al 3,30%.
Fonte
- MPS Capital Services
DIFFIDARE DELLA FED:
ALERT RISCHIO BOLLE
18 Novembre 2009 00:30 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Dalla Banca Centrale continuano a piovere parole
rassicuranti circa le decisioni di politica monetaria. Ma
cosi' facendo l'effetto che ottiene e' esattamente il
contrario. La migliore strategia? Mantenere un approccio
"aggressivamente neutrale".
La Federal Reserve ha cercato di confortare il mondo
finanziario, assicurando che non c'e' il rischio di nessuna
bolla. Ma con il dollaro in caduta libera, l'oro che
continua a stabilire nuovi record e i prezzi del petrolio in
impennata, le parole della Banca Centrale vanno interpretate
proprio come un rischio di un rigonfiamento della bolla
inflativa.
Secondo quanto riferito ieri da Ben Bernanke, numero uno
della Banca Centrale americana, l'istituto sta monitorando
da vicino l'andamento dei mercati valutari, perche' il suo
obiettivo e' quello di alimentare sia la creazione di posti
di lavoro che la stabilita' dei prezzi.
Tuttavia Art Cashin, direttore delle operazioni finanziarie
di UBS Financial Services, ritiene che dietro le parole di
Bernanke si nasconda un tranello. "Non solo ha detto che non
scoppiera' nessuna bolla, ma ieri sera il vice presidente
della Fed Donald Kohn e' arrivato ad affermare con decisione
che non si sta gonfiando nessuna bolla, aggiungendo che
parte dell'obiettivo delle politiche della Fed e' quello di
spingere la gente a investire negli asset piu' rischiosi",
ha dichiarato Cashin ai microfoni dell'emittente televisiva
Usa CNBC.
Quindi sono arrivate le parole pronunciate da Hong Kong dal
presidente della Federal Reserve di San Francisco, Janet
Yellen, secondo cui "non c'e' nessuna bolla". A questo punto
"la sensazione che si ha e' che sia proprio il contrario,
proprio perche' tutti i membri della Fed stanno continuando
a tranquillizzare i mercati con una insolita frequenza e
ostinazione, dicendo di non preoccuparsi per le decisioni
prese dalla Fed in materia di politica monetaria".
Non sarebbe la prima volta che le decisioni della Banca
Centrale si rivelano deleterie. Mantenendo i tassi guida su
livelli molto bassi per un periodo prolungato, l'ex
presidente della Fed, Alan Greenspan, ha provocato lo
scoppio di una bolla. Cashin teme che una situazione simile
si ripeta, con i tassi di interesse ancora fermi in una
forchetta compresa tra lo 0 e lo 0.25% dove secondo le
previsioni degli analisti rimarranno ancora per altri
trimestri.
"Sembra che si stia gonfiando piu' di una bolla sui
mercati", ha continuato Ashin, riferendosi al tracollo del
dollaro e alla contemporanea impennata delle quotazioni del
metallo prezioso. "E' per questo che la Fed sente la
necessita' impellente di continuare a negarlo".
"Se il dollaro continua a indebolirsi potrebbe esercitare
una pressione inflativa sempre maggiore e sembra che la Fed
si occupera' di risolvere il problema rappresentato da
quelle pressioni, piuttosto che intervenire direttamente sul
dollaro", ha detto l'analista, rispondendo ad una domanda
circa eventuali cambiamenti nelle politiche volte a
sostenere il biglietto verde.
Fonte
- WallStreetItalia
La Bce avvia l'exit strategy
con una prima stretta sulle Abs
20 Novembre 2009 18:54 MILANO -
di Il Sole 24 Ore ______________________________________________
Seppure con circospezione, l'exit
strategy muove i primi passi. La Banca centrale europea ha
deciso di avviare la graduale riduzione delle misure
straordinarie di stimolo al sistema finanziario adottate a
partire dall'inizio della crisi due anni fa. In particolare
le banche ora sanno che la fase della liquidità facile
imbocca una strada diversa.
L'istituto centrale di Francoforte ha reso noto, infatti,
che le cartolarizzazioni garantite da asset-backed
securities (Abs) che verranno emesse a partire dal prossimo
1 marzo 2010 potranno essere accettate dall'Eurotower solo
se provviste del rating di almeno due diverse agenzie e per
la loro utilizzabilità ai fini dei prestiti conterà il
rating più basso. Questa medesima regola verrà poi estesa a
tutte le cartolarizzazioni - indipendentemente da quando
sono state emesse - a partire dal 1 marzo 2011.
L'attuale livello dei tassi di interesse, in ogni caso, è e
resterà «molto basso», ma la Bce è determinata a riassorbire
la liquidità per garantire la stabilità dei prezzi, ha
commentato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, nel
corso di una conferenza a Francoforte. Il numero uno dell'Eurotower
ha spiegato che «non tutte le misure per rafforzare la
liquidità saranno necessarie come in passato» e che «ogni
misura straordinaria che dovesse minacciare la stabilità dei
prezzi deve essere eliminata tempestivamente e
inequivocabilmente».
Da Parigi Lorenzo Bini Smaghi, membro del consiglio
direttivo dell'Eurotower ha precisato che «visto che
l'uscita sarà graduale e comporterà due dimensioni, cioè le
misure non standard attuate dalle banche centrali e il
livello dei tassi di interesse, vi è il rischio che gli
operatori di mercato interpretino una decisione relativa a
una parte di questa exit strategy come propedeutica a misure
anche dall'altra part»". Bini Smaghi ha aggiunto che è
troppo presto pensare ora a preparare nei dettagli un
percorso di uscita perché ci sono ancora molti elementi di
incertezza nell'economia e non ci si può di conseguenza
impegnare ora a una particolare sequenza di provvedimenti di
ritiro degli stimoli.
Tornando a Trichet, il presidente della Bce, ha poi rivolto
un nuovo deciso appello alle banche affinché utilizzino gran
parte degli aiuti ricevuti per erogare credito alle famiglie
e alle imprese anziché per finanziare nuovi maxi-bonus. «I
benefici devono essere utilizzati in via prioritaria per
rafforzare capitali e riserve piuttosto che per pagare
dividendi o indennità non meritate», ha dichiarato Trichet
nel suo intervento di fronte a un'assemblea di banchieri.
«Le misure di sostegno a favore delle banche - ha aggiunto -
sono state adottate in ragione del loro ruolo nell'economia
e non per il beneficio della banche stesse». Per questo, ha
aggiunto il governatore, «le indennità e i bonus devono
essere contenuti». Trichet ha concluso esortando i banchieri
a «comprendere le inquietudini delle nostre democrazie per
quanto concerne indennità e bonus» e ha sottolineato
l'urgenza di «eliminare gli incentivi a prendere rischi
assurdi».
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Grecia
sull'orlo della bancarotta
20 Novembre 2009 19:49 MILANO -
di Vittorio Da Rold ______________________________________________
I titoli di stato greci stanno
perdendo terreno da una settimana portando il differenziale
con i bund tedeschi ai massimi da luglio e facendo salire il
timore che gli investitori stranieri possano decidere di
portare i loro soldi in luoghi più sicuri.
Il termometro della febbre di Atene, l'anello debole di
Eurolandia, è uno spread arrivato a ben 170 punti base, il
punto più elevato dallo scorso 14 luglio: ieri il
differenziale è salito di altri 13 punti raggiungendo il
tasso del 4,98%, rispetto al 3,27 dei bund tedeschi, una
nuova voragine per il Tesoro greco costretto così a pagare
un sovrapprezzo per non rischiare di avere le aste deserte.
Il problema è che il deficit per il 2009 è salito al 12,7%,
il più elevato dell'Unione europea dopo quello irlandese,
mentre il governo del socialista George Papandreou, appena
nominato, ha annunciato di volerlo ridurre al 9,8% l'anno
prossimo. L'Ocse però avverte che nel 2011 il disavanzo
tornerà al 10% perché le misure annunciate dall'esecutivo
sono una tantum.
«Inutile negare che i nodi stanno venendo al pettine»,
ammette un analista locale. Le previsioni di deficit del
budget iniziali erano al 3,7% e in pochi mesi sono schizzate
oltre il 12,7 per cento. La Commissione europea, sempre più
impaziente, la settimana scorsa ha aperto una procedura di
deficit eccessivo e ha chiesto al Consiglio di mandare un
monito ad Atene usando l'articolo 104.8 del Trattato di
Maastricht (che prevede di rendere pubbliche le
raccomandazioni della Commissione come forma di pressione),
una procedura usata solo due volte in passato: nel 2006 per
la Germania e nel 2004 per la stessa Grecia. Il Consiglio
vuole evitare di applicare sanzioni ma è molto preoccupato.
Senza contare che l'esposizione delle banche di Francia,
Germania e Italia nei confronti della Grecia ammontava a
giugno, secondo dati della Bri, a 122 miliardi di dollari.
Anche l'Ocse ha lanciato l'allarme sulla tenuta dei conti
pubblici mentre l'ufficio statistico greco ha annunciato il
calo del Pil dello 0,3% nel terzo trimestre, un segnale in
controtendenza rispetto a quasi tutti gli altri paesi che
cautamente stanno risalendo la china.
In un contesto di politica monetaria dove la Bce è
intenzionata a ridurre la liquidità in circolazione la
situazione greca pesa anche sulle banche locali, che hanno
perso terreno in borsa sull'onda di indiscrezioni secondo le
quali sarebbero state invitate a ridurre la loro esposione
in bond per favorire i prestiti alle imprese.
Ora il nuovo Governo si trova a un bivio: da un lato deve,
come promesso in campagna elettorale, rilanciare l'economia
aumentando la spesa pubblica mentre dall'altro deve ridurre
il deficit di bilancio per ridare fiducia agli investitori.
Così il governo socialista greco, alle prese con la
Finanziaria che verrà discussa a giorni in parlamento, si
appresta a congelare salari, pensioni e assunzioni per far
fronte all'emergenza economica. Con la nuova legge di
bilancio saranno bloccati salari e pensioni al di sopra di
duemila euro lordi mensili: un provvedimento che
riguarderebbe 500mila impiegati e 400mila pensionati su una
popolazione di 11 milioni di persone. Gli altri avranno
aumenti appena sopra il tasso di inflazione. Inoltre saranno
bloccate per il 2010 tutte le assunzioni pubbliche, salvo i
settori chiave di sanità, scuola e sicurezza. Naturalmente
questi annunci hanno fatto salire la tensione sociale già
elevata. L'organo del partito comunista, Rizospastis,
denuncia «un attacco frontale» contro i lavoratori e ha
convocato una mobilitazione di piazza per il 24 novembre.
Secondo il quotidiano di destra Adesmeftos Typos «Papandreou
si è rimangiato le promesse elettorali» di continuare ad
aumentare salari e pensioni al di sopra dell'inflazione. La
stampa socialista ha annunciato le misure parlando di un
«piano di austerità» ma anche di «un'iniezione di liquidità»
e investimenti nell'economia per 10 miliardi di euro grazie
e fondi nazionali ed europei, senza però chiarire da dove
arrivino le risorse. Per il conservatore Kathimerini si
tratta però di «timide misure» senza riforme strutturali.
Papandreou ha avvertito che il Paese rischia la bancarotta,
lamentando di essersi trovato una situazione finanziaria
molto peggiore di quella che era stata annunciata dal
precedente esecutivo.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
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Oro
nuova assicurazione contro il
fallimento del sistema finanziario
22 Novembre 2009 11:12
MESSINA -
di Leon Zingales*
*Leon Zingales,
PhD in Fisica, Dipartimento di Matematica all'Università di
Messina e collaboratore di WSI e' anche il curatore del bel
blog Il cigno nero.
________________________________________
Due eventi possono
accadere ed anche susseguirsi, pur se apparentemente
opposti: una lunga deflazione o una elevata inflazione. Tali
accadimenti possono sembrare antitetici, ma in realtà, per
chi è consapevole della caoticità intrinseca nei processi
economici, rappresentano due facce della medesima medaglia.
Come un'onda anomala è preceduta e seguita da un poderoso
ritiro delle acque, cosi' stagflazione e deflazione sono
eventi che nella storia si sono sovente alternati.
Il Giappone, negli
anni 90, fu caratterizzato un eccesso di capacità produttiva
contemporaneamente ad un crollo dei consumi. Il tasso
ufficiale di sconto fu diminuito fino a quando raggiunse lo
0,5% nel settembre del 1995 e successivamente, dopo 3 anni
di valore costante, nel settembre del 1998 fu ulteriormente
diminuito fino a raggiungere la soglia dello 0,25%. Ma i
bassi tassi non riuscirono a far resuscitare il mercato
(già Keynes aveva compreso durante la Depressione del 1929
che in caso di deflazione la politica monetaria è
praticamente inutile).
Il Debito Pubblico
Giapponese volò in pochi anni fino a raggiungere quasi il
200% e tutto per puntellare il sistema di banche in tremende
difficoltà. Gli americani, in scala molto più grande e con
l?aggravio di una disoccupazione a due cifre, stanno
ripetendo gli stessi errori giapponesi, primo fra i quali
continuare la distruzione delle risorse pubbliche onde
fornire energia monetaria al sistema finanziario.
Bisogna sfatare il
mito che il Quantitative Easing (ossia creazione di
moneta da parte delle Banche Centrali con conseguente
allargamento della base monetaria) debba determinare
obbligatoriamente inflazione. Recenti dati (fonte il noto
sito www.mathinvestdecisions.com) rivelano che attualmente
la base monetaria degli Stati Uniti è del 50% superiore
rispetto alla media estrapolata (attualmente è vicino a 2000
miliardi di dollari) mentre la M2, ossia la moneta totale è
del 2% inferiore rispetto alla media estrapolata del trend.
Inoltre dagli ultimi dati disponibili anche ha una
inflazione anno su anno negativa tanto nell'Eurozona (-0.1%
ad Ottobre) che in Usa (-1.3% a Settembre) e Giappone (-2.2%
a Settembre).
In parole povere non
c'e' alcuna traccia di inflazione perché l'aumento della
base monetaria è servito soltanto a cercare di tamponare le
falle del sistema bancario, è stato il tappo che per ora è
riuscito ad evitare il crollo del sistema finanziario.
Infatti il denaro stampato non entra in circolo e quindi non
determina inflazione, sta semplicemente servendo a
neutralizzare i rifiuti tossici che sono in possesso del
sistema finanziario.
Allo stato attuale
(naturalmente non mi sento di escludere che in un prossimo
futuro verremo investiti dallo tsunami della stagflazione)
è probabile una deflazione, piuttosto che un'elevata
inflazione come è anche rivelato dal mercato dei Treasury
Bonds che misura un'inflazione media degli USA molto bassa
anche per i prossimi anni (si deduce indirettamente dal
rendimento dei inflation-linked Bonds, ossia dei Bonds
collegati all'inflazione).
Ed allora, con
inflazione prevista a livelli molto bassi (se non
addirittura negativi), perché l'oro aumenta? Dopo
l'abbandono da parte dell'Amministrazione Nixon nell'Agosto
del 1971 della convertibilità tra oro e Dollaro ed il
conseguente distacco tra l'economia reale e finanziaria (si
creò un Dollaro monetarista strettamente associato alla
speculazione finanziaria), l'oro ha assunto tradizionalmente
il ruolo di assicurazione contro l'inflazione.
Ma nell'attuale
crisi, tale spiegazione non può essere accettata. Credo che
l'attuale repentino aumento dell'oro assuma il significato
di un'assicurazione contro il fallimento dell'intero sistema
finanziario, rappresenti un altro modo per andare
short sul Dollaro, ossia per scommettere sull'inevitabilità
di una progressiva svalutazione della moneta americana. Non
è l'oro che sta aumentando di valore, ma è l'intero sistema
valutario che si sta indebolendo trascinato nel baratro dal
Dollaro e dai debiti pubblici in esponenziale aumento.
 |
Fonte -
WallStreetItalia |
Banche, Abi:
sofferenze in crescita in prima parte 2010
lunedì, 23 novembre 2009 - 13:24 -
di Giselda Vagnoni ______________________________________________
Le sofferenze delle banche
italiane dovrebbero continuare ad aumentare per tutti i
primi sei mesi del 2010 in conseguenza del ritardo con cui
tali poste si manifestano rispetto all'andamento
dell'economia.
Lo ha detto il direttore generale dell'Associazione bancaria
italiana (Abi), Giovanni Sabatini, in un incontro con i
giornalisti durante il weekend in cui ha anche delineato i
rischi del dopo crisi per gli istituti di credito italiani
provenienti dalla politica fiscale e dalle nuove
regolamentazioni internazionali.
Secondo le stime dell'Abi a fine anno le perdite sui crediti
del sistema bancario in Italia non saranno lontane dai 20
miliardi di euro. A fine settembre le sofferenze lorde erano
pari a 55 miliardi in crescita del 25,4% su anno e le
sofferenze nette erano il 10,83% del patrimonio di
vigilanza, nuovo massimo dal marzo 2005.
"Non credo che il picco delle sofferenze sarà raggiunto a
fine anno", ha detto Sabatini.
"Le criticità vengono registrate con almeno 3 mesi di
ritardo. Penso che peggioreranno anche nella prima parte del
2010 e poi forse si comincerà a risalire".
Al contrario di altri Paesi, in Italia non è stato
necessario alcun salvataggio pubblico delle banche a fronte
della crisi di liquidità innescata dal settore dei mutui
subprime americani.
La ragione, secondo gli economisti, è legata al fatto che
gli istituti di credito italiani fanno meno finanza e sono
più concentrati nell'attività tradizionale di prestiti a
imprese e famiglie rispetto ai concorrenti esteri.
La crisi economica ha comunque aggredito con forza i
risultati delle banche della penisola.
Le ultime stime Abi sui conti economici delle banche vedono
una contrazione del margine d'interesse nel 2009 pari al 7%
e una tenue ripresa nel 2010 con una crescita dello 0,2%.
Il risultato lordo di gestione è previsto calare nell'ordine
del 13% e l'utile netto nell'ordine del 45%.
La recessione senza precedenti nella storia più recente
costringe da un lato le banche italiane a essere molto
selettive nell'erogazione del credito per non ritrovarsi con
una voragine di crediti incagliati o inesigibili, dall'altra
a fronteggiare le richieste-minacce del governo di non
ritirare i finanziamenti alle imprese in questo momento
critico per l'economia del Paese.
Ma Sabatini ritiene che in Italia "non ci sia una situazione
di credit crunch".
"Il trend degli impieghi è ancora positivo da noi mentre il
trend europeo è -0,3%. Anche l'indicatore sull'intensità
creditizia (stock del credito in rapporto al Pil) ha subito
una decelerazione ma non è mai sceso", ha ricordato.
CAMPO DI GIOCO LIVELLATO
Secondo uno studio presentato dal centro studi dell'Abi nel
biennio della crisi trim3 del 2007-trim2 del 2009, lo stock
effettivo dei prestiti si è mantenuto ben al di sopra del
livello teorico previsto sulla base delle relazioni
funzionali stimate prima della crisi con un delta, una sorta
di "extracredito", stimabile in sopra gli 80 miliardi di
euro.
"Il problema è più di domanda di credito che non di
offerta", ha sintetizzato Sabatini.
"L'origine della domanda di credito avanzata dalle imprese è
concentrata sulla ristrutturazione del debito e non sugli
investimenti e sulla ricostruzione delle scorte. La domanda
di credito si riduce per effetto del ciclo economico e
quindi si riflette su un aumento delle sofferenze e sulle
perdite sui crediti".
Le banche in cambio del proprio impegno sul fronte
finanziamento alle imprese chiedono da tempo al governo un
trattamento fiscale più favorevole sulle perdite sui crediti
e mettono in guardia su nuovi standard di
patrimonializzazione che risultino penalizzanti per gli
istituti, come quelli italiani, la cui attività è
concentrata in modo massiccio nei prestiti a famiglie e
imprese.
"Vorremmo un piano di gioco livellato", ha spiegato Sabatini,
direttore generale Abi dallo scorso giugno dopo essere stato
dirigente Consob e capo del dipartimento del Tesoro (NYSE:
TSO - notizie) .
"Le banche italiane dopo la crisi potrebbero partire da una
situazione di svantaggio".
Le banche italiane lamentano di non poter dedurre
integralmente le perdite sui crediti ma solo lo 0,30%, il
resto in 18 anni.
Anche il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha
chiesto al governo di riconsiderare il trattamento fiscale
delle perdite su crediti che in Italia ha effetti prociclici
al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei.
Sul fronte interno desta preoccupazione anche la mancata
revisione della normativa penale sui fallimenti che espone
gli istituti di credito a rischi elevati proprio in una fase
in cui si chiede alle banche di stare più vicine alle
imprese in via di ristrutturazione.
Sul fronte internazionale, invece, le banche italiane
cercheranno di evitare che nel rivisitare la normativa di
Basilea con l'intento di rafforzare i requisiti patrimoniali
delle banche "non si distingua tra banche commerciali e
banche di investimento", ha detto ancora Sabatini.
Fonte
- Il
Sole 24 Ore
Questa volta
preoccupano le insolvenze di quelli per immobili
commerciali
23-11-09 -
di Marco Caprotti ______________________________________________
Lo spettro dei mutui torna a far
rizzare i capelli alle banche. Nell’ultimo mese (fino al 23
novembre e calcolato in euro) l’indice Msci del comparto ha
perso il 4,3% rendendo ancora più difficoltosa la strada per
recuperare il 53,3% che si era lasciato dietro nel 2008.
A preoccupare gli investitori, come nel 2007, è ancora il
numero delle insolvenze registrate negli Stati Uniti. Ma se
due anni fa il problema era legato all’immobiliare
residenziale, questa volta a far sudare freddo è il
commercial real estate. Secondo i dati di RBC Capital
Markets nel terzo trimestre il numero dei debiti che non
saranno ripagati è cresciuto del 20%, dopo il +28%
registrato nel periodo da aprile a giugno. “Ad avere
maggiori preoccupazioni sono soprattutto gli istituti di
piccole e medie dimensioni”, spiega uno studio di RBC.
“Quelli grandi, nel periodo più brutto della crisi hanno
ottenuto gli aiuti del governo. Gli altri, per far fronte
alle perdite della voce mutui, nella maggior parte dei casi
si sono dovuti affidare ad aumenti di capitale. Una nuova
scossa potrebbe metterli in seria difficoltà, anche perché
l’amministrazione Usa ha già detto di non avere intenzione
di correre al salvataggio un’altra volta”.
Questa situazione si inquadra in una fotografia
macroeconomica poco incoraggiante, alla quale le banche sono
molto sensibili. Secondo quanto indicato dal dipartimento
del Tesoro Usa, il debito pubblico ha superato la soglia dei
12 mila miliardi di dollari (circa l’80% del Pil Usa 2008).
Inoltre, risulta in forte calo anche il numero dei nuovi
cantieri, sprofondato inaspettatamente del 10,6% al livello
minimo degli ultimi sei mesi.
Una situazione per certi versi simile si sta registrando nel
Vecchio continente. In Inghilterra, che di solito registra
per prima i segnali che arrivano da Oltreoceano. Gli
istituti di credito si trovano a fare i conti con clienti
(in prevalenza aziende) che non intendono utilizzare
prestiti che erano già stati approvati. In pratica, per le
banche che li avevano accordati si tratta di soldi che non
daranno interessi. Secondo gli ultimi dati della Bank of
England i prestiti alle imprese sono scesi di 4,6 miliardi
di sterline, il dato peggiore dal 1999. La colpa, sottolinea
l’istituto centrale britannico, non è soltanto delle
maggiori garanzie richieste dalle banche, ma anche della
prudenza delle aziende che preferiscono non rischiare in un
periodo di grande incertezza.
In Asia, i radar degli investitori sono puntati su quello
che succede in Cina. Nel Paese del drago, infatti,
continuano a avvenire debutti in Borsa, soprattutto nel
comparto bancario. Nei prossimi giorni entrerà in
contrattazione ad Hong Kong il titolo China Minsheng
Banking. L’istituto, nel periodo del collocamento ha
raccolto 30,1 miliardi di dollari di Hong Kong (2,6 miliardi
di dollari) aggiudicandosi la palma di Ipo più ricca del
territorio dall’aprile 2007. Nel frattempo si attendono i
dettagli della quotazione di Industrial Bank. Il management
dell’istituto conta di poter raccogliere 18 miliardi di yuan
(1,7 miliardi di euro) grazie alla quotazione che avverrà
nel 2010.
Fonte
-
www.MorningStar.it
MEREDITH «MAI
STATA TANTO NEGATIVA IN UN ANNO»
24 Novembre 2009 00:25 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
L'analista preferisce "star
seduta" sul cash fino a quando "ci sara' un'altra gamba al
ribasso delle valutazioni". "Il rally azionario non e'
giustificato". "In questo momento e' tutto caro". E si
ricadra' in recessione.
In un'intervista alla rete TV Cnbc Meredith Whitney,
l'analista che ha previsto sia il crollo di Wall Street nel
2008 sia il forte recupero del mercato da marzo in poi,
fondato sui titoli bancari, ha detto di recente che "non e'
stata cosi' ribassista in un anno". La Whitney ha inoltre
previsto un secondo sprofondamento in recessione
dell'economia americana dopo la ripresa (cosidetto "double
dip") anche se la seconda gamba della W sara' meno severa
della prima.
1) Il settore bancario "oggi non e' adeguatamente
capitalizzato".
2) Ci sara' un'altra gamba al ribasso nei prezzi delle case,
quando i prezzi e i tassi dei mutui cominceranno a muoversi
in giu'. Il rischio e' ancora maggiore nel mercato
immobiliare residenziale piu' che in quello commerciale.
3) Questa borsa "non ha senso" e "non c'e' alcuna ragione
fondamentale che giustifichi il recente rally azionario".
4) Nel settore bancario la maggiore differenza tra il
mercato oggi e l'anno scorso e' che adesso non c'e' piu' il
"mark-to-market". "Le banche torneranno al book value
tangibile". I titoli bancari vanno venduti.
5) La Withney preferisce "star seduta" sul cash fino a
quando "ci sara' un'altra gamba al ribasso delle
valutazioni" e stima che "in questo momento e' tutto caro".
Fonte
-
www.wallstreetitalia.com
CINA: MASSICCIA
RACCOLTA FONDI PER LE BANCHE
24 Novembre 2009 16:54 NEW YORK -
APCOM ______________________________________________
I maggiori istituti bancari
cinesi si preparano ad un piano che prevede la raccolta di
quasi 30 miliardi di euro. Obiettivo: riallineare i livelli
di capitale ai requisiti regolamentari.
Le maggiori banche della Cina preparano massici piani di
raccolta di fondi, necessari a riallineare i loro livelli di
patrimonializzazione ai requisiti regolamentari, dopo che
nei mesi scorsi hanno innondato crediti nell'economia del
Dragone. Lo riporta il Financial Times, che nell'edizione
online cita le stime degli analisti di Bnp Paribas, secondo
cui le 11 maggiori banche quotate della Cina dovranno
raccogliere almeno 300 miliardi di yuan, o 29,3 miliardi di
euro.
Intanto oggi i mercati azionari cinesi sono stati depressi
proprio dalle attese di possibili strette regolamentari sui
livelli di patrimonializzazione delle banche. A breve si
svolge la riunione annuale del governo sulla pianificazione
economica e ieri le autorità cinesi hanno ordinato alle
banche di migliorare i controlli sull'erogazione di prestiti
e sulla gestione dei rischi.
Secondo l'Ft, a seguito delle precedenti istruzioni per
aumentare il credito all'economia, nei primi 10 mesi
dell'anno le banche cinesi hanno riversato oltre 8.900
miliardi di yuan nel sistema, a fronte di 5.260 miliardi di
prestiti dello stesso periodo di un anno prima. Oggi la
Borsa di Shanghai ha chiuso in calo del 3,5 per cento,
mentre la più piccola Shenzhen ha registrato un meno 4,3 per
cento.
Fonte
- APCOM
ECCO COME BILL GROSS
HA CAMBIATO IL PORTAFOGLIO
24 Novembre 2009 11:56 SIENA -
di Carmela Pace ______________________________________________
Bill Gross, gestore di Pimco, ad
ottobre ha incrementato la propria allocazione in Treausury
al 63% dal 48% di settembre, portandola ai massimi dal
luglio 2004. Contemporaneamente ha ridotto le posizioni
sugli asset con i mutui come collaterale portandole ai
minimi dal maggio 2004 (16%). Un articolo di Bloomberg News
segnala che, secondo fonti anonime, la Federal Reserve ha
richiesto alle nove banche Usa che hanno preso parte agli
stress test, di presentare dei piani nel quale indicare le
modalità ed i tempi per restituire il capitale del governo
ottenuto tramite il piano Tarp. Nel complesso le nove banche
hanno ricevuto 142Mld$ di fondi. Tra le principali che
devono ancora restituirli figurano Bank of America,
Citigroup e Wells Fargo.
Fonte
- MPS Capital Services
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Giovedì
26
Novembre
2009 |
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Venerdì
27
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Sabato
28
Novembre
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Fondi sovrani in
rotta sugli emergenti
24-11-09 -
di Valerio Baselli ______________________________________________
I mercati emergenti sono entrati
nel mirino dei fondi sovrani. Almeno questa sembra la
tendenza generale. I fondi sovrani, come molti altri
strumenti d’investimento, hanno dovuto subire i duri colpi
della crisi finanziaria. Ora che la tempesta sembra essere
passata, hanno innescato un processo di rinnovamento delle
proprie strategie e dei propri obiettivi.
Molto è cambiato. Se prima l’obiettivo prediletto erano le
grandi società occidentali, ora sono i mercati in via di
sviluppo. Se prima l’orizzonte era di breve termine, ora è
di lungo. Lo tsunami finanziario appena passato è stato una
vera e propria rivoluzione, che ha spazzato via alcune
convinzioni prima radicate. Alcuni investimenti in società
prima considerate infallibili sono letteralemte crollati. I
vecchi assiomi del tipo too big to fail non sembrano valere
più. E anche dal punto di vista geografico sono venute meno
molte sicurezze.
Temasek, uno dei due grandi fondi sovrani di Singapore, ha
deciso pochi mesi fa di incrementare la sua esposizione ai
mercati emergenti fino all’80%, e di conseguenza ridurre la
quota destinata ai Paesi Ocse. Cic, che sta per China
investment corporation, ovvero il fondo sovrano cinese, sta
puntando molto sull’Asia, in particolare sul sud-est
asiatico. Anche i fondi localizzati in Medio Oriente stanno
seguendo la scia.
Fino a un paio di anni fa, i Sovereign Wealth Funds erano al
centro di un importante dibattito internazionale, sfociato
poi nella firma (nel settembre 2008) dei “Principi di
Santiago”, ovvero un accordo su 24 principi guida
nell’utilizzo di questo tipo di strumenti. In particolare,
in passato i Paesi occidentali mostravano preoccupazione per
l’afflusso di ingenti capitali di provenienza asiatica o
medio-orientale nelle proprie imprese. Questi capitali,
controllati direttamente dai governi, apparivano sempre meno
come semplici creditori e sempre più come proprietari delle
società oggetto degli investimenti.
“Ad essere onesti”, commenta Stefano Gatti, direttore del
corso di laurea in Economia e finanza presso l’università
Bocconi di Milano, “Questo è un pericolo più potenziale che
reale. Almeno fino ad oggi”. Infatti, continua Gatti,
“l’evidenza dimostra come l’ingresso nel capitale azionario
non sia mai stato finora invasivo”. In altre parole, “le
scelte manageriali sono sempre rimaste indipendenti”.
Tutto bene dunque? Non proprio. Il problema vero sta nel
bassissimo grado di trasparenza della maggior parte dei
fondi sovrani. “Se questo tipo di fondi entra in
investimenti strategici per il Paese”, afferma il
professore, “pezzi di capitalismo storico passano in mano ai
governi esteri”. Il problema nasce quando l’investitore
estero non è trasparente nelle proprie strategie e finalità.
“In realtà”, prosegue Gatti, “allo stato attuale anche i
Principi di Santiago sono una dichiarazione puramente
formale. Sono ad adesione volontaria. Inoltre, anche per chi
aderisce non c’è un vero e proprio controllo che ne assicuri
il rispetto”.
Con lo scoppio della crisi, i fondi sovrani sono stati in
parte dimenticati. Anche perché, come molti investimenti
finanziari, hanno subito il pesante contraccolpo della
caduta dei mercati e il loro impatto sulle economie si è
piuttosto affievolito. Ora, con la risalita dei listini,
sembrano aver trovato nuova linfa vitale.
Ma cosa sono esattamente i fondi sovrani? Secondo la
definizione del Fondo monetario internazionale sono
“speciali fondi d’investimento creati o posseduti da Stati
sovrani al fine di detenere attività in valuta estera”.
Quindi sono fondi a controllo statale, creati da quei Paesi
che presentano un surplus fiscale o grandi riserve di
valuta; storicamente, Paesi esportatori di petrolio e altre
materie prime. Ad oggi i fondi sovrani esistenti sono circa
una quarantina e gestiscono 3 mila miliardi di dollari.
L’interesse che questi capitali stanno mostrando per i
mercati emergenti e il conseguente e progressivo
allontanamento dalle economie occidentali dovrebbe farci
riflettere. Anche se, come suggerisce il professor Gatti,
potrebbe essere una scelta dettata dalle disastrose
performance degli ultimi 18 mesi. Inoltre, l’afflusso di
questo denaro non porterà benefici solo ai Paesi prescelti,
ma anche alle società occiendentali che hanno interessi
economici in quelle aree.
Fonte
-
www.morningstar.it
Qualcosa ci
sfugge?
Tuesday, 24 November, 2009 at
12:23 -
by phastidio ______________________________________________
Da una decina di giorni, sui
mercati del debito sta verificandosi un fenomeno strano e
non immediatamente spiegabile. I rendimenti dei titoli di
stato nella parte lunga della curva sono in diminuzione, ed
anzi l’intera curva dei rendimenti mostra un movimento di
appiattimento (bull flattening) in cui i rendimenti a lungo
scendono più di quelli a breve.
Questo movimento, comune all’Area Euro come al Giappone ed
agli Stati Uniti, tende ad essere interpretato come
riduzione dei timori inflazionistici da parte del mercato.
Eppure, in parallelo ad esso, si osserva un allargamento dei
breakeven inflation rates impliciti nei titoli indicizzati
all’inflazione. Cioè questo mercato continua a scommettere
su un aumento dei prezzi. Il mercato dei nominals dice
quindi cose opposte a quello degli inflation linked.
Una spiegazione, per quanto banale, è da ricondurre al
generale movimento di carry trade in atto sui mercati. Ci si
indebita a breve a tassi prossimi allo zero, e si compra la
parte a lunga della curva dei rendimenti sui titoli di stato
per lucrare il differenziale, oppure si dà corpo alle
proprie visioni inflazionistiche comprando titoli legati
all’inflazione, ed auto-avverando la profezia
inflazionistica.
La leva finanziaria sta ormai inficiando ogni lettura in
chiave macroeconomica dei movimenti di mercato. Qualcosa di
cui le banche centrali dovrebbero tenere auspicabilmente
conto.
Fonte
- Macromonitor.it
|
Dubai,
rischio default per colossi statali, balzano cds
giovedì, 26 novembre
2009 - 17:58 -
REUTERS
________________________________________
(Reuters) - Arriva dal mondo arabo il nuovo terremoto per le
borse, spaventate dai problemi debitori del Dubai legati al
colosso statale Dubai World e alla controllata Nakheel.
In giornata i credit default swaps a cinque anni
dell'emirato del Golfo Persico, che esprimono il costo per
assicurare il debito sovrano, hanno toccato un picco a 580
punti base, dicono i trader, dai 300 pb anteriori
all'annuncio del piano di ristrutturazione. Servirebbero
quindi oltre 500.000 dollari per assicurare in cinque anni
10 milioni del debito nazionale.
Questo livello sarebbe adeguato a un paese con un rating sul
credito sovrano a 'B', mentre Dubai, come parte degli
Emirati Arabi Uniti avrebbe per Moody's un giudizio a 'Aa2'.
Dopo sei anni di frenetico boom delle costruzioni e
dell'attività economica, l'alto debito del Dubai aveva già
iniziato a preoccupare gli investitori. Ma ieri sera la
notizia che il governo ha chiesto una moratoria di sei mesi
per ripagare i prestiti della potente holding statale Dubai
World e di Nakheel, la controllata attiva nel settore
immobiliare, ha comunque colpito molto i mercati.
Il governo di Dubai ha intanto annunciato un piano di
ristrutturazione per far fronte all'emergenza.
Dubai World è un colosso statale attivo in quattro aree
strategiche di crescita: trasporto e logistica, settore
marittimo, sviluppo urbano, servizi finanziari e di
investimento. Al suo interno convivono molte società con
competenze nettamente differenziate. Tra di esse Dp World,
redditizia controllata attiva in campo portuale, non sarà
coinvolta nei piano di ristrutturazione, ha precisato il
governo.
"Per i nostri criteri si tratta di un default e rappresenta
il fallimento del governo di Dubai nel fornire supporto
finanziario a una società statale core", ha commentato ieri
l'agenzia di rating Standard & Poor's in una nota,
abbassando il rating su cinque società di Dubai a 'junk',
mentre Moody's ne ha declassate sei ad appena un livello
sopra il 'junk'.
"E' scioccante perché negli ultimi mesi le notizie che sono
state diffuse avevano confortato gli investitori sulle
possibilità di Dubai di far fronte al debito", commenta
Shakeel Sarwar, operatore di Sico Investment Bank.
UN DEBITO TROPPO ALTO
La mossa shock di Dubai ha reso evidente quello che si
respirava nell'aria già da mesi: l'emirato non ha fondi per
ripagare i suoi debiti, mentre dirompente è l'avvicinarsi
della scadenza del 14 dicembre per un bond islamico da 3,5
miliardi di dollari di Nakheel.
I creditori di Dubai World e della sua controllata hanno
così scoperto che non vedranno il proprio denaro almeno fino
al prossimo maggio, sempre che Aidan Birkett, ex direttore
di Deloitte chiamato ieri a gestire la ristrutturazione,
riesca nel suo incarico.
Il debito totale della società ammonta a 59 miliardi,
inclusi i finanziamenti della propria controllata Nakheel,
la costruttrice delle famose isole a forma di palma nel
cuore dell'emirato. Una cifra spropositata, pari al 70%
dell'intero debito di Dubai che sarebbe stimato attorno a 80
miliardi.
Dubai stava già cercando da tempo di ottenere fondi, ma
l'annuncio di ieri chiuderà con ogni probabilità ogni porta
ai finanziamenti, lasciando lo stato in balia della vicina
Abu Dhabi che ha già sborsato fino a 10 miliardi di dollari
per venire in suo aiuto.
Pare arrivata la fine del modello di crescita basato su
investimenti nell'immobiliare e su flussi in entrata di
capitale straniero. In una mossa a sorpresa nel fine
settimana l'emiro di Dubai, lo sceicco Mohammed bin Rashid
Al Maktoum ha già sostituito i leader di alcune delle
maggiori istituzioni del paese in nome di una svolta
conservatrice nella dirigenza.
Dubai è uno dei sette emirati degli Emirati arabi uniti, la
federazione nata nel dicembre del 1971 nella penisola
arabica. Secondo dati diffusi da enti del paese, il 75%
della sua popolazione, che ammonta a circa un milione di
persone, viene dall'estero. Rispetto ai suoi vicini ricava
soltanto una minoranza del proprio prodotto interno lordo
dal petrolio e ha sempre puntato sul turismo.
LE REAZIONI DEL MERCATO
"Tutto quello che è in mano agli arabi viene venduto",
commentava già questa mattina un operatore con sede a
Francoforte.
Protagonisti di oggi sono stati infatti gli acquisti
rifugio, in particolare sui titoli di stato e sulle valute
considerate più sicure, come yen e dollaro. Quest'ultimo,
dopo aver toccato un minimo record contro l'euro a 1,5141,
ha recuperato sulle notizie provenienti da Dubai, scambiando
intorno alle 17,45 su 1,4983/86 dollari. E' andata meno bene
alla sterlina, scesa ai minimi di un mese contro la moneta
unica a 91 pence, sulle preoccupazioni di possibili
esposizioni delle banche inglese al debito di Dubai. Proprio
le banche hanno vissuto una seduta nera. L'indice di settore
ha perso il 4,92%, mentre si rincorrevano le voci sulle
esposizioni degli istituti finanziari.
Tra gli altri Ubs (Virt-X: UBSN.VX - notizie) ha ammesso una
piccola esposizione e così Allianz, Lloyds, Dnb Nor (Oslo:
DNBNOR.OL - notizie) (per 300 milioni di dollari), Hannover
Re, Ing. Munich Re nel tardo pomeriggio dichiara che
l'esposizione al Dubai ha conseguenze trascurabili sulle sue
attività.
Il benchmark paneuropeo Stoxx600 ha lasciato sul terreno il
3,36%.
Ha chiuso a -5,05% la casa automobilistica tedesca Porsche (Xetra:
POR3.DE - notizie) in cui il Qatar detiene una quota del
10%.
 |
Fonte -
REUTERS |
Sukuk
ristrutturato? ecco i
danni collaterali del crack in Dubai
28 Novembre 2009 18:49
NEW YORK -
di WSI
________________________________________
I tecnici di
Deloitte, Rothschild e Alix Partners sono al lavoro sulla
ristrutturazione del debito di Dubai World. Varie le opzioni
allo studio. La holding potrebbe ripagare, entro il 14
dicembre, il 'sukuk' (bond islamico) da 3,52 miliardi
dollari emesso da Nakheel e riscadenziare il resto del
debito. Oppure potrebbe essere rimborsato l'80% del debito
ai detentori dei bond e alle banche. Oppure moratoria del
debito con congelamento dei pagamenti fino al 30 maggio
2010.
Sul fronte
bancario-finanziario, il New York Times nota come alcune
delle grandi banche inglesi con le piu' forti esposizioni
nei confronti degli Emirati Arabi Uniti hanno gia' seri
problemi in partenza. La Royal Bank of Scotland (RBS)
che dall'anno scorso e' controllata dal governo inglese (fu
salvata durante la crisi finanziaria del 2008) e' uno dei
creditori di Dubai World, con prestiti complessivi per $2.3
miliardi, stando a un rapporto di J.P. Morgan Chase.
Standard Chartered e Barclays sono nella lista delle banche
a rischio per aver prestato agli arabi in totale oltre $10
miliardi. HSBC, come abbiamo scritto fin dal primo momento,
ha un'esposizione di circa $17 miliardi negli Emirati Arabi
Uniti.
Ecco comunque la
lista dei paesi creditori degli United Arab Emirates, di cui
fa parte Dubai (fonte: Credit Suisse, che cita a sua volta
la BIS, Bank for International Settlements) -
l'Italia non c'e'!:
United Kingdom: $50.2 billion
France: $11.3 billion
Germany: $10.6 billion
United States: $10.6 billion
Japan: $9.0 billion
Switzerland: $4.6 billion
Netherlands: $4.5 billion
E questa e' la lista
delle banche creditrici degli United Arab Emirates (fonte:
Credit Suisse, che cita a sua volta Emirates Bank
Association):
HSBC Bank Middle East Limited: $17.0 billion
Standard Chartered Bank: $7.8 billion
Barclays Bank Plc: $3.6 billion
ABN-Amro (RBS): $2.1 billion
Arab Bank Plc: $2.1 billion
Citibank: $1.9 billion
Bank of Baroda: $1.8 billion
Bank Saderat Iran: $1.7 billion
BNP Paribas: $1.7 billion
Lloyds: $1.6 billion
Secondo il Wall Street Journal, anche se un default non
dovesse provocare una crisi bancaria, potrebbe pero' piu'
facilmente dare la stura a una piu' ampia crisi nella
fiducia degli investitori soprattutto sul fronte del debito
di paesi super-indebitati.
"Sul mercato dei
bond legati ai debiti sovrani governativi si notano chiari
segnali di stress - scrive il WSJ - con il costo dei CDS (credit
default swaps, cioe' il costo dell'assicurazione contro un
default) in paesi come Ungheria, Turchia, Bulgaria, Brasile,
Messico e Russia in rialzo, sulla scia dei timori che i
paesi emergenti potrebbero avere problemi nell'onorare i
loro debiti anche nello scenario di un'economia in
guarigione. La preoccupazione e' che i debiti sovrani
possano ora rappresentare un'altra scossa di assestamento
della crisi finanziaria globale".
Intanto si vanno definendo altri dettagli, alcuni sono
autorevoli voci ufficiose newyorkesi e altre sono news:
- Secondo UBS (da
che pulpito!) gli $80-90 miliardi di indebitamento del
governo di Dubai, che sono gia' oltre il 100% del GDP - ma
l'Italia e' ben al di sopra del 100% e i 90 miliardi - ma di
euro - li paga solo di interessi) sarebbero in realta'
sottostimati, per via di bel pacco di miliardi "fuori
bilancio" (ed ecco perche' la mossa disperata della
moratoria).
- altro alert: il
governo del Dubai e' in vacanza (Eid Al-Adha) fino al 6
dicembre.
- il famoso fondo
sovrano di Abu Dhabi Sovereign Wealth Fund, di cui si e'
sempre detto che e' pronto al salvataggio anche perche' ha
in cassa la bellezza di $500 miliardi, sarebbe (ma guarda!)
molto meno ricco rispetto alle stime fin qui circolate.
L'anno scorso per esempio a Wall Street giro' un rumor
insistente su perdite del fondo per $125 miliardi. Secondo
Bloomberg infine alcune fonti dicono che il patrimonio del
fondo che dovrebbe salvare i cugini sceicchi di Dubai
sarebbe soprastimato anche del 100%.
Su un altro fronte,
l'India sta esaminando le conseguenze del quasi-default in
Dubai in quanto paese col piu' alto ammontare di rimesse
degli emigrati dall'estero (circa $10 miliardi l'anno),
oltre che come terza potenza economica del continente
asiatico. Lo ha detto il governatore della banca
centrale dell'India Duvvuri Subbarao.
Circa 4.5 milioni di
indiani emigrati vivono e lavorano nella zona del Golfo
inviando ogni anno alle famiglie circa $10 miliardi, stando
a dati raccolti da Bloomberg. Il caos finanziario in Dubai
potrebbe influire negativamente sulle rimesse, ha detto
Thomas Issac, ministro delle finanze dello stato indiano di
Kerala, da cui provengono 1/4 degli emigrati indiani.
Infine si va chiarendo anche la mappa delle proprieta' di
Dubai World negli Stati Uniti. Oltre ad aver acquistato
attraverso il suo braccio d'investimento Istithmar World la
catena di abbigliamento di lusso Barneys New York nel 2007
per quasi 1 miliardo di dollari (ora e' in serie difficolta'
per la recessione nel settore) Dubai World ha rilevato 8 tra
palazzi per uffici e hotel, compresi a New York il Mandarin
Oriental e il W Hotel e a Miami Beach il 50% del
Fontainebleau Hotel (costato tra acquisto e ristrutturazione
oltre $1 miliardo).
Gli effetti
collaterali del crack in Dubai sono quindi vasti e hanno
molte ramificazioni, non solo sul sistema bancario, ma su
moltri altri business e sui consumatori. Non e' tanto
questione se le banche potranno assorbire le perdite (se
vivono e vegetano ancora con i "titoli tossici" e i subprime
in pancia a un anno dal collasso sono capaci di tutto; e poi
vengono comunque salvate...) quanto piuttosto il fatto che i
problemi dell'Emirato potrebbe portare a un prosciugamento
del credito nella zona del Golfo e altrove, rendendo piu'
complicata la capacita' delle aziende di finanziarsi,
stallando cosi' l'avvio verso la ripresa.
Alcuni analisti, citati dall'Associated Press, hanno infine
espresso preoccupazioni per il fatto che i guai del Dubai
possano frenare o addirittura rovesciare gli acquisti che
hanno alimentato il boom di assets (di solito mercato
immobiliare) in molti paesi emergenti, dell'Asia e
dell'America Latina, dove si erano indirizzati enormi
capitali di investitori per una crescita economica
entusiasmante rispetto alla pesante recessione in Europa e
negli Stati Uniti.
 |
Fonte -
WallStreetItalia.com |
Banche in sofferenza,
rischio di nuova crisi
28/11/2009 -
Miaeconomia.it ______________________________________________
La crisi in cui versa la holding
degli Emirati Arabi Dubai World, costretta a chiedere una
moratoria sul proprio debito da 59 miliardi per i prossimi
sei mesi, ha suonato la sveglia sui mercati finanziari. O
almeno si spera. Lo stress finanziario di Dubai World e’
solo un caso dei molti che si stanno verificando in questi
giorni sui mercati, specialmente nel settore bancario.
Tredici mesi fa eravamo a un passo dal crollo totale e le
banche erano in grave crisi. In America le piu’ piccole
cadevano come foglie dagli alberi in autunno, mentre le piu’
grandi venivano mantenute a galla con iniezioni di capitali
mai vista, dopo il fallimento di Lehman Brohers. Salvataggi
che hanno visto protagoniste anche le banche europee, in
particolare quelle inglesi, olandesi, tedesche e francesi.
Dopo 13 mesi sembra tutto dimenticato, la crisi superata, le
banche in piena salute. Dal 9 marzo a oggi l’indice
settoriale bancario italiano ha messo a segno una
performance del 180%. Simile la performance di quello
europeo.
Ma davvero il settore finanziario e’ stato risanato? Davvero
le banche scoppiano di salute? In America le banche piu’
piccole continuano a fallire. In Europa in questi giorni la
banca Lloyds Group, controllata al 43% dal tesoro Britannico
costretto un anno fa ad entrare nel capitale per salvare
l’istituto, ha lanciato un aumento di capitale da 13,5
miliardi di sterline, il maggiore della storia. Il mese
scorso in Francia era toccato a BnpParibas e Soc Gen. In
Italia quello di Unicredit appena approvato e’ di 4 miliardi
di euro. Per non parlare dell’intervento, sempre di questi
giorni, del Governo tedesco per salvare WestLB, la banca
pubblica del Nord Reno Westfalia. Un aiuto da 4 miliardi che
permettera’ di creare la prima Bad Bank in Germania, dove
l’istituto riversera’ 85 miliardi di euro di titoli tossici.
Senza l’intervento la banca sarebbe fallita. E questi sono
solo gli avvenimenti degli ultimi giorni.
Rischio anche in Spagna dove la banca centrale spagnola,
facendo eco al monito di Moody’s, ha richiamato il sistema
creditizio iberico alla prudenza, consigliando una
ripatrimonializzazione di almeno 57 miliardi di euro per
fare fronte al deprezzamento degli attivi in portafoglio
pari a 108 miliardi. E non basta. La stessa esigenza l’ha
manifesta l’autorita’ di controllo cinese del credito, la
Cbrc, che ha chiesto alle maggiori banche cinesi di
ricapitalizzare per aumentare i ratio patrimoniali. Una
richiesta che costera’ alle 11 banche maggiori del paese, 29
miliardi di euro, 300 miliardi di yuan. Notizia che la Borsa
di Shanghai ha accolto con un tonfo del 3,5%.
E tutto questo in un contesto economico dove banche e
governi stanno tuttora sostenendo l’economia, con tassi ai
minimi storici e interventi di politica fiscale. Ma che
accadra’ quando la festa finira’? Quando, prima o poi, la
strategia di sostegno cessera’ per iniziare l’exit strategy
dalla crisi e i Governi chiuderanno i cordoni della Borsa e
le Banche centrali rialzeranno il denaro? In questo ha
ragione il ministro dell’economia Tremonti, la crisi non e’
un party ma in banca non sembrano averlo capito. E il
rischio e’ che la festa si interrompi bruscamente
Fonte
-
www.Miaeconomia.it
CRACK DUBAI:
WALL STREET PRONTA A SOSPENDERE LE CONTRATTAZIONI
28 Novembre 2009 00:31 NEW YORK -
WSI ______________________________________________
Il NYSE vara in gran segreto un
raro provvedimento invocato quando eventi esterni possono
compromettere gli scambi azionari, tramite il blocco e la
sospensione delle contrattazioni. E lunedi' all'apertura di
New York...
Secondo quanto risulta a Wall Street Italia la borsa di New
York, il New York Stock Exchange (NYSE) gia' ieri mattina,
venerdi', era pronta a varare misure di emergenza dovute
alla possibile alta volatilita' dei mercati in conseguenza
del default in Dubai. Il NYSE lo fatto tramite
l'approvazione, assolutamente non pubblicizzata, della
cosiddetta "Rule 48", un raro provvedimento invocato solo
quando eventi esterni possono compromettere la normalita'
degli scambi azionari, consentendo il blocco e la
sospensione a tempo indeterminato delle contrattazioni. L'OK
e' arrivato alle 9:10 di mattina, venti minuti prima
dell'apertura.
Ieri la seduta a Wall Street e' stata accorciata a meta' per
via del lungo ponte di Thanksgiving e quindi i volumi sono
stati molto bassi per le assenze di numerosi trader. Poiche'
non e' ancora chiaro il significato preciso della norma sul
funziamento della Borsa Usa, si tratta di verificare (non ci
e' stato possibile farlo per la festivita') se la "Rule 48"
e' valida per un solo giorno (venerdi' 27) oppure se sara'
prolungata o riemessa anche lunedi' 30 novembre, sessione in
cui Wall Street tornera' a girare a pieno regime. In
apertura avremo il test autentico per verificare la tenuta
del mercato azionario americano in merito al default in
Dubai.
Il testo della "Rule 48" e' il seguente:
Rule 48 is intended to be invoked only in those situations
where the potential for extreme market volatility would
likely impair floor-wide operations at the exchange by
impeding the fair and orderly opening of securities.
Accordingly, the rule sets forth a number of factors to be
considered before declaring such a condition, including:
•Volatility during the previous day’s trading session;
•Trading in foreign markets before the open;
•Substantial activity in the futures market before the open;
•The volume of pre-opening indications of interest;
•Evidence of pre-opening significant order imbalances across
the market;
•Government announcements;
•News and corporate events; and,
•Any such other market conditions that could impact
floor-wide trading conditions.
Fonte
-
www.wallstreetitalia.com
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