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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Macro & Mercati - Opinioni

Mercati finanziari: ma sono tutte bolle?

Crisi credito e Banche USA - Opinioni

Goldman sachs, adesso stanno esagerando

Mercati azionari - Bull and Bear

Buffett, il mercato e l'eterna lotta rialzisti contro ribassisti

Oro - Situazione e Previsioni

Record del prezzo dell'oro: «il rialzo durerà a lungo»

Mercati azionari - Sentiment gestori

I gestori preferiscono l’Asia

Macro, Tassi e mercati - Opinioni

Rialzo dei tassi in vista? Tanto meglio il rally è appena iniziato

Mercati azionari - Opinioni

Nuovo rischio di bolla sui mercati finanziari

Crisi credito e Oro - Opinioni

Oro nuova assicurazione contro il fallimento del sistema finanziario

Crisi credito - Emirati Arabi/Dubai - Cronologia e prime news

Dubai, rischio default per colossi statali, balzano cds

Crisi credito - Emirati Arabi/Dubai - Opinioni

Sukuk ristrutturato? ecco i danni collaterali del crack in Dubai

   
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+++   ANSA   +++   01 Novembre 2009 00:52 NEW YORK  -  USA: FALLISCONO ALTRE 9 BANCHE, TOTALE 2009 SALE A 115  +++   02 novembre 2009 08:02 NEW YORK - Fmi: la disoccupazione salirà per tutto il 2010   +++   Fallisce Cit group, è la quinta maggior bancarotta di sempre   +++   07 Novembre 2009 23:10 NEW YORK - DISOCCUPATI IN AMERICA: LA CIFRA VERA E' 17.5%   +++   17 novembre 2009 17:35 NEW YORK - Buffett scommette sulla ripresa dei mercati   +++   26 novembre 2009 12:04 DUBAI - Crisi: Annuncio Shock Dal Golfo, Dubai World Sospende Pagamento Debiti   +++   ANSA   +++
 
  Domenica 01 Novembre 2009   Mercoledì 04 Novembre 2009   Giovedì 05 Novembre 2009  
       
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  Mercati finanziari: ma sono tutte bolle?

01 Novembre 2009 01:18 MILANO - di Fabrizio Guidoni

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Qualcuno parla di «rally da post recessione», come giustificazione dei grandi trend in corso nel campo azionario, valutario e delle materie prime, partiti a scorso marzo. Altri analisti sottolineano invece come i movimenti abbiano raggiunto eccessi non sostenibili a livello di fondamentali, rispolverando il concetto di «bolla» di fronte alle violente correzioni registrate nelle ultime due settimane.

Chi ha ragione? Difficile a dirsi, anche perché a seconda delle asset class prese in considerazione gli indizi di bolle sono più o meno palesi. In ogni caso esiste un denominatore comune alla base tutti i macro trend del 2009: l’enorme liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali per fermare la crisi e far ripartire l’economia. Gestire gli investimenti in questa situazione non è certo facile. Tuttavia ci si può aiutare con due strumenti di supporto: un misuratore dell’intensità del rischio bolla per ognuna delle asset class, sintetizzato dai termometri nei box della pagina a fronte, e una lista di controllo di eventi (mosse Fed e Bce) e di valori grafici la cui rottura farebbe lievitare la probabilità di scoppio di una bolla.

L’AZIONARIO. L’asset più caldo su cui si concentra l’attenzione degli analisti è quello azionario. Basta dare un’occhiata a un qualsiasi grafico di un indice di Borsa per notare quanta strada rialzista è stata fatta dai minimi del marzo scorso. Si va dal +60% circa di Wall Street al +160% del listino di Mosca, passando dal quasi +100% del Ftse Mib. In appena sette mesi. Di fronte a questi numeri la brusca discesa delle Borse vista nelle ultime due settimane ha ridestato gli spettri di una bolla pronta a scoppiare.

Per carità, che una correzione fosse nell’aria nessuno lo nega. Tuttavia volumi e frenesia delle vendite hanno colto di sorpresa. Soprattutto per come gli investitori istituzionali più aggressivi come hedge fund e speculatori di breve hanno approfittano dei primi segnali di incertezza dei listini per prendere profitto. Meno male che a tamponare la crescente emorragia del ribasso sono arrivati giovedì 29 i dati positivi del Pil americano, cresciuto del 3,5% annuo nel terzo trimestre del 2009, che hanno ridato forza al trend rialzista delle Borse europee.

Tuttavia, è troppo presto per parlare di scampato pericolo, almeno secondo gli economisti: per salire ancora ai listini mancano il contributo di variabili chiave come i consumi, già ben indirizzati, e soprattutto della disoccupazione. Come dire, il dato del Pil non ha risolto lo scontro tra pessimisti e ottimisti. Di certo, in pochi si aspettavano ribassi così violenti con cali che in alcuni casi hanno sfiorato il 10% dai massimi. Una cosa va detta subito. I supporti, per ora, hanno tenuto. Ma domani chissà. Una parte sempre più ampia di analisti che hanno speso tempo a guardare ai fondamentali post trimestrali segnalano che i mercati risultano cari, sia in termini quantitativi, come i valori dei multipli prezzo/utili sia in quelli qualitativi, come la natura dei profitti delle banche. A cominciare da Wall Street.

Per l’economista Andrew Smithers, navigato osservatore delle vicende delle Borse Usa, l’S&P500 è sopravvalutato del 40% in termini di indicatori come il Q-ratio, che prende in considerazione il costo di sostituzione degli asset delle società, e come il multiplo price/earning aggiustato per per il ciclo economico, elaborato dal professore Robert Shiller della Yale University. Una situazione che rende il rialzo fragile.

Non sono di questo avviso Barclays e Ing che stanno incrementando gli acquisti di azioni sulle attese, per alcuni bollate come speculative, che gli utili delle corporate Usa continueranno a crescere alimentando la salita del mercato e rendendo meno cari i multipli. Non bisogna poi dimenticare gli amanti della statistica, che esibiscono l’alta probabilità dello sviluppo del rally di fine anno. Un fenomeno poco correlato ai fondamentali. Riassumendo, secondo i dati storici esistono alcuni indizi di listini azionari a rischio bolla, ma i multipli prospettici rendono meno accentuato il pericolo. Ma poiché chi vive sperando e senza stop loss, è esposto a perdite, risulta prudente inserire alcuni campanelli d’allarme. Sullo S&P500 la zona di attenzione è a 1.000/980, sul Dj Eurostoxx50 2.700/2.675 e a 21.900/21.530.

MAREA DI LIQUIDITÀ. È forse la bolla più tesa in circolazione. È quella della liquidità. La storia è nota. La violenta crisi economica e finanziaria sviluppata dallo scoppio della bolla dei mutui subprime dal lontano 2007 è stata curata, e lo è tuttora, con abbondanti iniezioni di denaro liquido. Ma sempre più analisti temono il rischio overdose. Il tema, va detto, è delicatissimo.

Chiudere subito i rubinetti potrebbe soffocare i primi vagiti di ripresa. Di sicuro le dimensioni della cura da cavallo sono impressionanti: migliaia di miliardi di dollari. L’allarme del rischio di scoppio di una nuova bolla è stato lanciato da Nouriel Roubini, il primo tra gli economisti a prevedere la crisi in cui si è avviluppata l’economia americana: «Spesso una delle principali cause delle bolle finanziarie è proprio il costo del denaro troppo basso». E in questo momento il rischio è alto. Roubini ha invitato la Federal Reserve a evitare distorsioni finanziarie.

Il tema della liquidità coinvolge direttamente il mercato obbligazionario. Da un lato chi ha avuto facile accesso alla enorme liquidità a costo zero l’ha reinvestita senza troppi sforzi sulle emissioni dei Paesi dalle economia matura. Quelle che quindi hanno le spalle più grosse. E chi se non gli Stati Uniti? Ma sui Treasury nelle ultime sedute hanno cominiciato a emergere segnali di deterioramento dei prezzi. Si è appena chiuso ad esempio il programma straordinario di acquisto bond della Fed, con un’ultima tranche da 300 miliardi. Il programma aveva avuto avvio a marzo per mantenere bassi i tassi d’interesse sul credito al consumo.

Ma scappare dai TBond così come dal porto poco generoso ma sicuro dei Bund appare prematuro. I rischi di un crollo delle quotazioni sono limitati fino a quando Ben Bernanke e il collega Jean-Claude Trichet non avveranno le tanto citate ma non ancora progettate «exit strategy».

LE ALTRE «BUBBLE». Il rischio di essere di fronte a bolle, più o meno grandi non si limita certo ad azioni, liquidità e bond. Il primo esempio è la debolezza del dollaro, che si riflette nella corsa rialzista di altre asset class, a cominciare dalle materie prime come petrolio e l’oro, alla ripresa dei carry trade; gli investitori istituzionali, a cominciare dagli hedge fund, si indebitano in dollari e comprano valute ad altro rendimento come il dollaro australiano e quello neozelandese le cui quotazioni volano.

È una strategia aggressiva che trova alimento da antichi vizi come l’uso della leva finanziaria e la facilità di accedere al debito. Insomma, è un altro effetto dell’eccesso di liquidità in circolazione. Per l’intensità del movimento, il dollar index è caduto dagli 89 punti di marzo 2009 ai 74,9 del 21 ottobre scorso, c’è chi parla di bolla valutaria. Ma è proprio così? Di sicuro esiste una distorsione, la citata liquidità. Però il futuro del biglietto verde appare ancora a tinte fosche. La pensano così gli analisti di Citigroup: «Il dollaro è già sceso ma crediamo che esiste spazio per altri indebolimenti». Nessuna sorpresa: le bolle, si sa, sono tale perché i prezzi si espandono ben oltre il loro fair value. Fino a dove non è dato sapere.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

La settimana di Borsa tutta colpa del dollaro

01 Novembre 2009 00:58 - Miaeconomia
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La cosa brutta nel pesante ribasso di ieri è l'apparente insensibilità di Wall Street alla buona notizia di un Pil Usa cresciuto oltre le attese. La cosa meno brutta è che questa ondata ribassista è interamente guidata dall'apprezzamento del dollaro sulle principali valute. E questo apprezzamento ha spiegazioni essenzialmente tecniche: la chiusura delle posizioni di carry trade con le quali gli investitori si finanziano in una valuta a bassissimi tassi d'interesse (il dollaro) per comprare attività a maggior rischio e a maggior ritorno, come bond, materie prime e azioni. Si può osservare che tutto il rialzo delle borse dopo i minimi di marzo, così come quello delle principali commodity, sia stato scandito passo passo da un comparabile ribasso della valuta americana: segno che la speculazione ha avuto un ruolo preponderante nei rialzi dei mercati finanziari. E del resto, negli ultimi 8 mesi si sono viste altre 4 correzioni a Wall Street: tra giugno e luglio (-7,1%), a metà agosto (-3,3%), tra agosto e settembre (-3,5%) e a fine settembre (-4,3%). Nell'attuale, l'S&P ha perso il 5,6% rispetto ai massimi del 20 ottobre: massimi raggiunti sull'onda dell'eccessivo ottimismo generato dalle trimestrali, senza che dall'economia fossero arrivati segnali tali da giustificare un rialzo che aveva superato il 60 per cento.
Nessuno può dire fino a che punto si spingerà questa correzione (quota mille dell'indice S&P rispetto ai 1.036 punti di ieri, come suggerivano alcuni analisti tecnici, oppure un livello ancora più basso?). Ma a parte una minoranza di gestori e di economisti, che fin dall'inizio hanno ritenuto il rialzo una «trappola dell'Orso», l'opinione prevalente è che le borse debbano semplicemente correggere gli eccessi degli ultimi mesi. E non è un caso che a guidare la discesa dei mercati siano stati, oltre al comportamento del dollaro, alcuni allarmi lanciati dai maggiori analisti sull'insostenibilità delle quotazioni raggiunte dai titoli bancari, cresciuti mediamente fino al 182% negli Usa e al 167% in Europa.
Ma il più preoccupante tra gli eccessi è stato vedere come le borse siano andate ben oltre le indicazioni che provenivano dall'economia e abbiano scontato, contro ogni evidenza, una ripresa a «V» che non sembra essere nelle cose. Prendiamo il dato sul Pil Usa del terzo trimestre. Quel 3,5% di crescita (3,2% nelle stime) è il risultato di una spesa per investimenti residenziali cresciuta grazie agli incentivi sull'acquisto della prima casa e a quelli per la sostituzione di un'automobile. Senza questi il Pil sarebbe rimasto a zero. E considerando che questi incentivi sono temporanei, e che nell'ultimo mese sia la vendita di case che quella di auto hanno subito una flessione, l'economia Usa dovrà trovare altri puntelli di crescita nei prossimi trimestri. Forse nell'attività manifatturiera, visto che il 48% delle imprese sondate da PriceWaterhouseCoopers (erano appena il 43% tre mesi fa) si sono dette ottimiste sul futuro. Ma l'industria pesa ormai poco nella formazione del Pil e quel che conta (oltre il 65%) sono i consumi: proprio quelli diminuiti a settembre dello 0,5%, come hanno segnalato ieri i dati ufficiali.
Tuttavia anche la presente correzione dei mercati, per quanto propiziata dalla discreta quantità di vendite allo scoperto accumulatesi nelle passate settimane ed alimentata dagli affondi ribassisti di questi giorni, non dovrebbe protrarsi a lungo. Essenzialmente per due motivi. Primo, perché la Fed (e pure le banche centrali europee) non sono prossime a una stretta monetaria. Secondo perché gli utili aziendali si stanno rivelando nettamente migliori delle attese (l'81% delle società ha fatto meglio del consenso) al punto che gli analisti stanno rivedendo al rialzo pure le stime del quarto trimestre (+205%).
In settimana l'S&P ha perso il 4% (-5,1% il Nasdaq) e lo Stoxx il 3,3% (-5,8% Milano, -5,7% Francoforte, -5,3% Parigi, -3,8% Londra).
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

USA: FALLISCONO ALTRE 9 BANCHE, TOTALE 2009 SALE A 115

01 Novembre 2009 01:52 - AGI
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Los Angeles, 31 ott. - Nove banche Usa fallite in un solo giorno. Un record dall'inizio della crisi finanziaria che fa salire a 115 il numero degli istituti di credito americani che hanno dichiarato bancarotta nel 2009. E tra le societa' finite sotto controllo delle autorita' Usa c'e' anche la California National Bank: con sette miliardi di asset, si tratta del quarto maggiore crac di quest'anno in Usa, in una classifica che vede ancora al vertice Washington Mutual, fallita nel settembre 2008. Le nove banche (le altre otto sono BankUSA, Citizens National Bank, Madisonville State Bank, North Houston Bank, Pacific National Bank, Park National Bank, San Diego National Bank, e Community Bank of Lemont), sussidiarie del gruppo Fbop, sono state rilevate da Bancorp, che ha cosi' messo le mani su 18,4 miliardi di dollari di asset e depositi per 15,4 miliardi. Tutti gli sportelli degli istituti falliti passeranno presto sotto il marchio della U.S. Bank, la divisione di Bancorp che gestisce oltre 770 filiali tra Illinois, Arizona e California. Non si sa ancora nulla delle ricadute occupazionali dell'operazione. Gli analisti, intanto, scommettono su quali saranno le prossime banche a portare i libri in tribunale. Quelle ritenute piu' a rischio sono la Zions Bancorp di Salt Lake City, la Columbus, la Synovus Financial Corp e la Comerica di Dallas. -
 

Fonte - AGI

 

 

Il sistema finanziario è ancora malato

03-11-09 MILANO - Valerio Baselli
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Lo scorso weekend sono falliti altri nove istituti di credito statunitensi. Dal primo gennaio ad oggi sono 115 le banche che hanno chiuso negli Stati Uniti. Un numero impressionante, il più alto dal 1992, quando ne collassarono 181 in dodici mesi. Ma non finisce qui; il problema più grosso è che gli analisti ritengono che l’emorragia sia destinata a prolungarsi, perchè molte banche regionali sono fortemente esposte al mercato immobiliare ad uso commerciale, il cui declino è tutt’altro che vicino al termine.
Infatti, il Washington Post parla di dozzine, se non centinaia, di altre banche che rimangono aperte nonostante si trovino in situazioni di estrema emergenza. L’unica soluzione sembra essere un recupero dell’economia reale, ma se la crescita sarà lenta come sembra le banche più piccole potrebbero trovarsi in una situazione ancora peggiore.
L’emergenza non interessa solo le banche di piccole dimensioni. Una delle nove fallite la settimana scorsa è la California National Bank, quarto maggior collasso bancario dell’anno. Un altro pesante colpo basso arriva dalla richiesta, da parte di Cit Group, della bancarotta pilotata. Essa rappresenta il quinto maggior fallimento nell’intera storia del Nuovo continente.
La bancarotta di Cit Group, oberato da debiti per 65 miliardi di dollari a fronte 71 miliardi di asset, era nell’aria da tempo e la Casa Bianca aveva usato tutta la sua influenza per cercare di evitare il fallimento di quello che è considerato un attore di primo piano del mercato del credito. Questo rappresenta il primo grande fallimento dell’amministrazione Obama. Infatti, il Dipartimento del Tesoro guidato da Timothy Geithner, ha investito 2,3 miliardi di dollari dei contribuenti nella società nel tentativo di stabilizzarla. Dallo scorso anno il Tesoro ha sborsato 400 miliardi di dollari per diverse aziende americane in tutti i settori di attività: molte società, come Goldman Sachs, hanno già provveduto a restituire i fondi ottenuti.
La situazione finanziaria degli Stati Uniti, quindi, è lontana dalla stabilizzazione. La ripresa avviata negli ultimi mesi, come commenta anche Bill Gross di Pimco nel suo ultimo Investment Outlook, è stata in gran parte finanziata da investimenti statali e dall’enorme massa di liquidità immessa dalle banche centrali che stanno contribuendo a mantenere in moto i meccanismi dell’economia ma il motore dei consumi privati, per il momento, non sembra aver ingranato. E questo vale per la maggior parte delle economie sviluppate.
Anche un recente studio pubblicato dalla BIS (Bank for international settlements) conferma la poca efficacia dei piani di salvataggio degli istituti di credito. L’analisi conclude che fino ad ora i piani di aiuto non sono riusciti a generare un qualche percepibile miglioramento dell’offerta del credito bancario all’economia (che, infatti, continua a peggiorare negli Usa, in Gran Bretagna e in Europa). Inoltre, i piani di garanzia stessi hanno creato un notevole rischio di rifinanziamento per gli anni dal 2010 al 2012.
Questo perchè, come suggeriscono i dati, i piani di garanzia stanno aiutando le grandi e complesse banche d’investimento, piuttosto che le banche che con maggiore probabilità presterebbero capitali alle proprie economie locali. I sussidi non stanno, quindi, raggiungendo i beneficiari che si erano preposti.
Insomma, quello che appare certo è che, a prescindere dal rally che ha vissuto il mercato azionario, si potrà parlare di ripresa quando il sistema creditizio tornerà a funzionare a pieno regime, i privati aumenteranno i consumi e quando la ripresà sarà in grado di creare posti di lavoro.

 

Fonte - MorningStar

 

 

 

 

 

 

  Goldman sachs, adesso stanno esagerando

05 Novembre 2009 12:52 MILANO - di Mauro Bottarelli

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Nel corso dello scorso weekend, placidamente, sono fallite altre nove banche regionali negli Usa: il computo totale per quest'anno ha raggiunto quota 115. Non male davvero, deve essere uno degli effetti collaterali della cosiddetta ripresa sbandierata a destra e a manca dopo la comunicazione del dato sul Pil Usa. Che, giova ricordarlo, depurato dagli stimoli governativi, sarebbe al 2,4% e non al 3,5%.

Ma tant'è, per qualcuno è sufficiente. Ma c'è di peggio. E molto. Come anticipato dieci giorni fa da ilsussidiario.net, sempre negli Usa Cit Group, finanziatore importante per le piccole e medie imprese, ha presentato istanza di bancarotta domenica pomeriggio, «un processo che quasi certamente spazzerà via gli investimenti per 2,3 miliardi dollari fatti dal governo federale nella società. Cit è la prima azienda a fallire dopo essere stata salvata dal governo».

A evidenziarlo era ieri il Washington Post che spiegava come la compagnia speri comunque di «ridurre significativamente il proprio debito in quello che è conosciuto come un piano di riorganizzazione "preconfezionato", che le consentirebbe di uscire dal periodo di protezione garantito dal Chapter 11 entro la fine dell'anno». Si tratta, proseguiva il quotidiano americano, di uno dei più grandi casi di fallimento nella storia degli Stati Uniti e, avverte, «potrebbe avere estesi effetti a cascata».

L’azienda fornisce infatti prestiti a circa 1 milione di aziende, tra cui molte già alle prese con la recessione economica. Non è un'altra Lehman Brothers ma per "main sreet" potrebbe essere anche peggio: insomma, con Cit tocchiamo quota 116 fallimenti di istituti bancari e para-bancari negli Usa.

Ma, tornando all'argomento iniziale, proprio di eccesso di politica di stimolo e rischio iper-inflattivo quando questa verrà giocoforza abbandonata - a meno che non si voglia andare in default sul debito - si comincia a parlare sia a New York che a Londra. In entrambi i casi con toni decisamente preoccupati.

Per Roger Nightingale della Pointon York, si rischia «una depressione simile a quella del 1930 se si abbandoneranno le misure di stimolo troppo rapidamente», mentre Charles Lemonides, chief investment officer alla Valueworks LLC, avverte che «bisogna dare maggiore importanza ai dati macro che giungono dall'economia e forse meno ai mercati. E i dati che arrivano non ci dicono nulla di buono, i problemi non sono affatto risolti. Basta guardare alla situazione del 1930 e avremo la fotocopia perfetta di quella odierna: mercati forti ed economia debole».

Dio ce ne scampi. Il problema è che a spaventare non è la Cina che nonostante la diversificazione e lo shopping di riserve perde il 20% di export verso gli Usa o gli stessi Stati Uniti alle prese con istituzioni finanziarie ancora strapiene di titoli tossici e un deficit federale come mai rima, bensì la seconda economia del mondo che rischia di trasformarsi nella dinamo di una depressione globale.

Parliamo, ovviamente, del Giappone. Lo storico avvento al governo dei Democratici - e delle loro fallimentari impostazioni neo-keynesiane - aveva già spaventato i mercati, preoccupati per questa messe di parvenu della politica chiamati a gestire la peggior crisi finanziaria ed economica del secondo dopoguerra.

Oggi ne abbiamo la conferma: i cds per assicurarsi dal rischio di default del Giappone sono infatti schizzati a 63 punti base da 35 in due mesi, un impennata che ricorda quella altrettanto preoccupante dell'indice Vix - quello che misura la volatilità dei mercati e, di fatto, prezza i derivati di copertura dal rischio - che venerdì è cresciuto in un botto del 24%. Per capirci, la Germania è a 21, la Francia e gli Usa a 22 e la Gran Bretagna a 47.

Certo, il blitz compiuto dai Democratici appena saliti al governo per raggranellare 550 miliardi di dollari al fine di finanziare il welfare e la "nuova politica sociale" non è stato un buon viatico ma il peggio sembra ancora lì da venire. La pensa così Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, che di fronte al Congresso Usa la scorsa settimana ha parlato chiaramente di «un serio rischio di default per l'economia giapponese».

Le cifre, d'altro canto, parlano chiaro. Il Fondo Monetario stima che il debito pubblico arriverà a quota 218% sul Pil quest'anno, 227% l'anno prossimo e 246% nel 2014. Il problema è che il mercato perde capacità di assorbire questo debito, così come le parsimoniose famiglie giapponesi non riescono più a mettere da parte denaro: il tasso di risparmio è crollato dal 15% del 1990 al 2% attuale. E con il calo demografico, è giunta anche la contrazione della forza lavoro.

Non stupisce, con questi numeri, che il ministero delle Finanze stia pubblicizzando i bond sui taxi di Tokyo: il rischio che il tasso di interesse mandi in frantumi le finanze pubbliche c'è eccome. Avverte Carl Weinberg della High Frequency Economics: «La situazione del debito in Giappone non è recuperabile. O, almeno, io non vedo alcuna via d'uscita praticabile all'orizzonte. Lo Stato non sarà in grado di finanziare il suo deficit, ci sarà una crisi fiscale durissima, un taglio draconiano delle pensioni e una serie di fallimenti bancari che scuoteranno il sistema in tutto il mondo. È criminale la negligenza delle agenzie di rating che non stanno lanciando l'allarme sui mercati». Fosse la prima volta…

A questo va unita la decisione della Bank del Giappone di sospendere a dicembre le operazioni - già non eccessive come altrove - di quantitative easing, ovvero di stampare e mettere in circolo moneta. «È incredibilmente pericoloso quanto stanno per fare - avverte Russell Jones della RBC Capital Markets -. Le cifre sono da incubo, le dinamiche del debito orribili e così si rischia davvero una spirale al ribasso».

Inoltre Tokyo ha follemente lasciato apprezzare lo yen contro dollaro e yuan e i principali esportatori del paese sono ben sotto i costi di break even: la politica di quantitative easing è stata troppo blanda e troppo tardiva, ecco quindi che i mercati e l'economia reale presentano il salatissimo conto. Che, purtroppo, rischiamo di pagare tutti. Alla faccia della ripresa dietro l'angolo e dei brindisi borsistici per il dato del Pil statunitense.

Non appare un caso che ieri mattina l'indice Nikkei chiudesse sotto del 2,31% mentre la Cina brindava a un rotondo +2,7%: insomma, il Giappone potrebbe dare il colpo di grazia alle residue speranze di ripartenza. Ma si sa che più la crisi picchia duro, più i duri giocano volentieri. E fanno soldi a palate.

Goldman Sachs è infatti in trattative per comprare milioni di dollari di crediti fiscali dal gigante dei mutui controllato dal governo Fannie Mae anche se l'operazione si scontra con il potenziale semaforo rosso del Tesoro, almeno stando alla cronaca del Wall Street Journal.

L'amministrazione Obama, infatti, teme gli effetti di un accordo che in sostanza ridurrebbe il carico fiscale di Goldman Sachs, alla luce della tensione che esiste tra molti parlamentari e Wall Street e in particolare Goldman Sachs. Inoltre è molto forte a Washington la preoccupazione di non far percepire che Goldman venga trattata in modo privilegiato sulle altre banche.

I dettagli ancora non sono chiari ma alcuni a Wall Street ritengono che Goldman potrebbe comprare fino a un miliardo di dollari di crediti fiscali da Fannie. Da quando ha assunto il controllo di Fannie Mae, il dipartimento del Tesoro ne ha acquistato 45,9 miliardi di dollari in azioni privilegiate, dando quindi ai contribuenti una quota sostanziale nella proprietà.

I crediti fiscali sono stati un incentivo federale per incoraggiare gli investimenti per costruire abitazioni per famiglie a basso reddito: questi crediti tendenzialmente hanno una durata di 10 anni e sono attraenti per società che sanno di poter produrre utili in quel lasso di tempo. Non basta essere la controparte di tutti i bond sul debito che gli Usa piazzano nel mondo, ora si punta anche allo scarico fiscale: cambiamo tutto affinché nulla cambi.
 

Fonte - IlSussidiario.net

 

 

 

 

  Venerdì 06 Novembre 2009   Sabato 07 Novembre 2009   Domenica 08 Novembre 2009  
       
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  Buffett, il mercato e l'eterna lotta rialzisti contro ribassisti

05 Novembre 2009 23:59 NEW YORK - di Luciano Priori Friggi

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Ciò che sorprende in questi mesi di mercato borsistico al rialzo e’ la sua capacità di trovare sempre nuovi spunti per respingere gli attacchi dei ribassisti. La guerra tra rialzisti e ribassisti non è tuttavia lineare, i soggetti nell'una e nell'altra posizione cambiano di continuo, un rialzista oggi può essere un ribassista domani, e ciò dipende dalla diversità delle valutazioni sull'andamento futuro dei corsi, sulle diverse strategie temporali di investimento, e sulle diverse tecniche di portafoglio e di rischio adottate.

Tuttavia ciò che detta il ritmo e la direzione dei mercati alla fine sono le prospettive dell'economia nel medio-lungo periodo. Ridurre – come spesso fanno alcuni macro economisti – tutto a manovre della Banca centrale è un colossale abbaglio e denota il limite di approcci ultra-settoriali.

Uno dei migliori esempi di come i mercati reagiscono alle notizie lo si è avuto martedì quando si è venuto a sapere che Warren Buffett aveva acquistato tramite il fondo Berkshire Hathaway, da lui fondato e gestito, il 100% della societa’ di trasporti ferroviari Burlington Northern Santa Fe, le cui origini risalgono al 1849.

La quotazione in borsa del titolo ferroviario (NYSE: BNI) è schizzata verso l'alto, passando dalla precedente chiusura di 76.07 a 97.00 dollari con un guadagno di 20.93 dollari, che in percentuale fa un sonoro +27.51%. Buffett, che aveva già una partecipazione del 22,6% in BNSF, acquisirà l'azienda ferroviaria pagando $100 per azione per una quota del 77,4%, un premio di oltre il 30% sul prezzo di chiusura del titolo di lunedì (da tutto questo se ne deduce anche, en passant, che i piccoli azionisti non ci rimetteranno di certo dall'operazione).

In una dichiarazione al Financial Times, Buffett ha tenuto a sottolineare per prima cosa e in generale la sua fiducia in una ripresa della crescita interna americana, e poi la sua convinzione sul fatto che i vecchi business non siano poi così male: "Si tratta di un business molto solido... Che farà bene, se l'economia va bene e credo che l'economia farà bene". C'è un filo conduttore nelle scelte di investimento di Buffett? Sembrerebbe di sì, almeno stando a chi lo conosce bene. Per Roger Altman l'operazione portata a termine da Buffett, la più importante della sua storia, è il linea con la sua metodologia di scelte "Più del 70 per cento dei guadagni di Berkshire e’ nelle assicurazioni e utilities. Cosa c'è di significativo a tale proposito? Stabilità. Ciò che è significativo circa i guadagni BNSF? Stabilità".

Nonostante la disoccupazione americana sia ancora a livelli molto alti, e nonostante ancora alcuni dati macroeconomici lascino nel dubbio gli analisti sulla solidità della ripresa, il settore dei trasporti Usa ha vissuto una grande giornata, ben sintetizzata dall'indice Dow Jones Transportation Average, costruito sulla media delle variazioni percentuali dei 20 più significativi titoli del settore, con un eloquente +5.28%.

E così in un momento in cui sembrava voler prendere il sopravvento un ritracciamento, per usare il linguaggio dell'analisi tecnica, di discrete proporzioni è arrivata l'operazione di Buffett che ha rimesso in discussione la discesa. Certamente è prematuro affermare che il tema dominante dei prossimi mesi sarà una corsa al "merger and acquisitions ", tuttavia la liquidità non manca – la stessa Berkshire di Buffett ha ancora 20 miliardi di dollari in contanti per altre transazioni – e i prezzi delle aziende quotate sono ancora molto appetibili. Se la guerra tra ribassisti e rialzisti è ancora tutta da giocare, sarà bene non sottovalutare tuttavia la forza dei rialzisti.
 

Fonte - borsaplus.com

 

 

 

 

 

WALL STREET, ANALISI SENTIMENT DEL MERCATO

05 Novembre 2009 00:23 BIELLA - di Maurizio Milano
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Tentativi di stabilizzazione e rimbalzo dei listini, dopo le forti vendite della scorsa ottava. Come evidenziato nelle scorse settimane, il raggiungimento degli obiettivi del bear market rally iniziato a marzo 2009 (i livelli di fine settembre-inizio ottobre 2008) ha provocato un crescente peggioramento del profilo rischio-rendimento, che ha portato ad un veloce movimento correttivo (-6/7% dai massimi). La discesa è stata accompagnata, come previsto, da un tentativo di rimbalzo del dollaro contro euro e da un balzo del Vix che si è spinto al di sopra del Vxn ed oltre la soglia di guardia a quota 30.

Dai picchi a 10100 il Dow Jones Industrial è scivolato verso 9750 (marginalmente perforato). Sono possibili rimbalzi ma il tono rimane molto debole finché l’indice staziona sotto 9970, col rischio di una successiva prosecuzione della discesa (segnale sotto 9750) a testare il supporto critico a 9500. Chiusure sotto tale livello provocherebbero una veloce discesa verso il forte supporto in area 9100/280, con estensioni verso l’area 8700/800, dove comunque dovrebbero esserci ordini in acquisto. Gli acquisti riprenderebbero sopra 10100, con obiettivo 10350.

Dai massimi a 1100,15 lo S&P500 è velocemente sceso a testare il forte supporto a 1040 (marginalmente perforato). Sono possibili rimbalzi ma il tono rimane molto debole finché l’indice staziona sotto 1070, col rischio di una prosecuzione della discesa (segnale sotto 1040) a testare il forte supporto a 1015, la cui rottura provocherebbe una veloce discesa a 995, con estensioni verso il supporto critico a 975, dove comunque dovrebbero esserci ordini in acquisto. Il tono migliorerebbe sopra 1075, ma gli acquisti riprenderebbero solo su chiusura settimanale sopra 1100 (prematuro).

Dai massimi a ridosso della resistenza chiave a 2200 anche il Nasdaq Composite è ripiegato velocemente, spingendosi al test del forte supporto a 2040. Sono possibili rimbalzi ma il tono rimane molto debole finché l’indice staziona sotto 2100, col rischio di una successiva perforazione di 2040 ed una veloce discesa con obiettivo 1965 ed estensioni verso il supporto critico a 1925, dove dovrebbero comunque esserci ordini in acquisto. Il tono migliorerebbe sopra 2100/50, ma gli acquisti riprenderebbero solo su chiusure settimanali sopra 2200 (prematuro).

La tenuta dei minimi di inizio ottobre (i livelli in fase di test) è essenziale: anche se una correzione marcata appare improbabile, gli indici rimangono in una situazione di vulnerabilità, e non si può escludere una "seconda gamba" correttiva di ampiezza analoga a quella verificatasi la scorsa settimana (solo il superamento delle resistenze sopra-indicate minimizzerebbe tale rischio). In tal caso gli indici potrebbero velocemente ridiscendere verso i minimi toccati a ridosso di Ferragosto, dove sono comunque attesi ordini in acquisto. Un segnale di forte nervosismo si avrebbe invece in caso di una stabilizzazione del Vix sopra quota 30 e quindi col superamento della resistenza critica in area 33-34,60 (al momento ancora poco probabile). Un nuovo segnale distensivo si avrebbe invece su discese sotto 24,75 (conferma sotto 22,85). In ottica intermarket il quadro migliorerebbe in caso di risalite di Euro/dollaro sopra 1,4900.

Pur non escludendo una ripresa del rimbalzo con nuovi massimi entro fine anno (un 5-10% al di sopra dei picchi del 21 ottobre), le discese della scorsa settimana ci hanno dato un’anticipazione di come siano veloci i realizzi rispetto ai rialzi: poche sedute di vendite hanno riportato gli indici sui livelli di inizio ottobre. Prudenza rimane quindi la parola d’ordine anche per le prossime ottave, con priorità la difesa degli utili accumulati negli ultimi 6-7 mesi.
 

Fonte - Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

 

 

GM si tiene la Opel

05/11/2009 - Miaeconomia
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Non e' successo niente. Mesi di gare, discussioni con il governo tedesco, con gli agguerriti sindacati, tutti alla ricerca di garanzie. E poi niente. La cordata Magna-Sberbank dopo avere fatto i salti mortali non potra' rilevare la Opel, che lo scorso inverno la casa madre, l'american GM, aveva messo sul mercato per affrontare il tracollo.
E questo per il semplice motivo che la GM sta meglio, e' uscita dalle pastoie della legge fallimentare statunitense, ha registrato una forte crescita delle vendite a ottobre e ora ha le risorse per fare marcia indietro.
Non solo, la casa america fara' da sola, ha gia' pronto un piano di ristrutturazione della sua Opel da 3 miliardi di euro. I vertici americani fanno sapere quindi che presto "presenteranno il proprio piano di ristrutturazione al governo tedesco e alle altre autorita' pubbliche interessate, sperando in un loro parere favorevole".
Ieri GM ha annunciato per ottobre una crescita del 4,7% - su base annua - nella vendita di auto negli Usa, mostrando decisi segnali di ripresa e lanciando per i prossimi mesi previsioni ottimiste.
Negli scorsi mesi il gruppo Gm si era trovato nelle sabbie mobili della tremenda recessione mondiale e - come altre case Usa - si e' trovata di colpo in una devastante crisi che l'aveva costretta alla legge fallimentare. In un contesto cosi' duro la controllata Opel era stata messa sul mercato, in un primo momento anche Fiat - gia' entrata in Chrysler - aveva mostrato segnali di interesse.
Alla fine, dopo un lunghissimo e accidentato percorso, era rimasta sul piatto la sola offerta della cordata formata dal colosso industriale canadese Magna e dalla banca russa Sberbank.

 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

Eventi rari

05 November, 2009 at 20:06 - by phastidio
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Nel terzo trimestre, il trading di Goldman Sachs ha registrato un solo giorno di perdite, peraltro non superiori a 25 milioni di dollari, e ben 36 giorni di utili superiori a 100 milioni di dollari. Chiamatelo stato di grazia, se vi difetta la fantasia o non siete dei cospirazionisti.

 

  Daily Trading Net Revenuens  
     
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Fonte - Macromonitor

 

 

PORTAFOGLIO: BOND CORPORATE, SOVRAPPESARE

05 Novembre 2009 01:32 MILANO - di Legg Mason
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Le condizioni del credito continueranno a migliorare dato che la liquidità messa da parte durante la crisi sta tornando ai mercati finanziari. Le stime continuano a implicare livelli più elevati di default rispetto a quelli che si materializzeranno.
*Questo documento e' stato preparato da Legg Mason ed e' rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell'art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita' alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita' di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.
(WSI) - Western Asset Management, società del gruppo Legg Mason, ritiene che le condizioni del credito continueranno a migliorare nei prossimi mesi, sebbene ad un passo più lento.

Un costante miglioramento delle condizioni economiche ha sostenuto i settori più a rischio del mercato obbligazionario mondiale negli ultimi mesi. I corporate bond ad alto rendimento e quelli investment grade hanno generato rendimenti positivi nelle regioni più importanti. Anche i mercati dei bond governativi sono migliorati, dato che gli investitori sono diventati meno preoccupati sull’inflazione.

Western Asset Management ha confermato l’opinione che l’immissione di liquidità da parte delle principali banche centrali sarebbe stata sufficiente a spezzare il ciclo tra la mancanza di credito disponibile per il settore privato e il deteriorarsi delle condizioni economiche.

Mike Zelouf, Director of International Business presso Western Asset Management, spiega: "La crisi finanziaria ha visto i mercati prezzare in uno scenario altamente pessimista relativamente ai default che poi non si sono materializzati. Negli ultimi 12 mesi un’esposizione a settori di bond non governativi, in particolare le emissioni finanziarie investment grade e i corporate bond ad alto rendimento, si è rivelata una strategia vincente".

"I mercati del credito hanno avuto un rally improvviso dall’inizio dell’anno e crediamo che gran parte della ripresa prevista in questi mercati si sia già verificata. Tuttavia, i mercati del credito continueranno a rafforzarsi, sebbene ad un passo più lento, dato che la liquidità che è stata messa da parte durante la crisi sta tornando ai mercati finanziari".

"Continuiamo a sovrappesare il settore corporate e stiamo migliorando selettivamente i rating e la struttura di capitale all’interno della nostra allocazione al settore finanziario. Le stime continuano a implicare livelli più elevati di default rispetto a quelli che crediamo si materializzeranno".

 

Fonte - Legg Mason

 

 

 

 

 

 

  Martedì 10 Novembre 2009   Giovedì 12 Novembre 2009   Venerdì 13 Novembre 2009  
       
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LA BOLLA NASCOSTA

05 Novembre 2009 12:29 MILANO - di Giuseppe Turani
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L'altalena mozzafiato delle borse può indicare molte cose. La prima é l'isterismo ormai diffuso tra gli operatori, in tutto il mondo. Isterismo che ha portato la maggior parte dei golden boys della finanza, da Londra a New York, a passare dalla massima esaltazione di quindici giorni fa, quando ogni residuo di crisi sembrava evaporato, alla depressione di queste ultime ore, dopo un numero di sedute negative che nessuno si aspettava. E chi già intravedeva bonus in arrivo e conseguenti spese folli, adesso si preoccupa di poter essere licenziato. Con la sindrome degli scatoloni della Lehman che aleggia sempre su tutto e su tutti.

La seconda é la difficoltà di interpretare i dati, perché se un giorno il Pil al 3,5 per cento esalta i mercati e fa gridare all'uscita dal tunnel, il giorno dopo i consumi che cedono neanche più di tanto, semina terrore e panico. La terza é che tutti sappiamo che l'economia reale continua ad avere una dinamica diversa da quella delle Borse, ma gli utili delle grandi aziende battono regolarmente le attese. E sarà anche merito dei licenziamenti, ma la produttività macina record su record. In questo quadro, ben più confuso di quanto si potesse immaginare solo pochi giorni fa, le principali banche già stimano i tempi del rialzo dei tassi e ad esempio Morgan Stanley e Citigroup sostengono che nel secondo trimestre 2010 la Federal Reserve inizierà a muoversi.

E la Bce lo farà il trimestre dopo. E qui viene qualche dubbio. Con un'economia che non si sta riprendendo in modo deciso, tranne che in Cina, in India o in Brasile, chi può correre il rischio di rallentare la ripresa attraverso manovre sul costo del denaro? Probabil¬mente tante banche d'affari stanno sbagliando e, vista la lentezza dello sviluppo previsto nel 2010, forse solo verso la fine dell'anno si vedrà qualche tasso salire. E di pochissimo, più per dare un mini segnale di svolta che per provare ad incidere.

Intanto le banche stesse macinano utili record con il trading di titoli e, invece di iniziare a selezionare le imprese a cui prestare il denaro necessario per riprendersi, speculano ancor più di prima con operazioni a leva sui titoli obbligazionari che consentono profitti incredibili. E, non contente, talvolta inventano operazioni senza alcun senso economico solo per rincorrere qualche decimo di punto sul Tier (un parametro che misura la loro solidità). Francesco Micheli ha sostenuto nei giorni scorsi che la vera bolla finanziaria deve ancora scoppiare. Giulio Tremonti non perde occasione per bacchettare i banchieri accusandoli di fare sempre troppa finanza e di dare poco aiuto alle aziende.

Ma è possibile che la crisi più forte degli ultimi decenni non abbia proprio insegnato nulla a nessuno? La forza del denaro facile é proprio come un'onda che travolge tutto, uno tsunami che nessuna logica, nessun regolatore é in grado di arrestare? Ancora oggi le banche centrali osservano passive comportamenti che dovrebbero censurare e analisti che fino a qualche settimana fa erano fortemente critici su spericolatezze e leve, già sembrano di nuovo affascinati da crescite di valore con una fragilità sottostan¬te da far paura.

Tutto, a ben guardare, fa paura. Dai carry trader, già tornati alla ribalta, ai corporate bonds che vanno a ruba e sono piazzati sul mercato retail come se le quotazioni di inizio anno non fossero mai esistite. Questa macchina infernale dei mercati finanziari riuscirà in qualche modo a far chiudere l'anno con le borse sui massimi, ma a parte la soddisfazione di un po' di gestori - specie i più disinvolti - ed i profitti vacui quanto ingenti delle banche più aggressive, si resterà in molti con la sensazione della grande roulette. Di un grande gioco - forse più una giostra che un'altalena - in cui sono in pochi a vincere e tanti a perdere. E tra chi perde, ancora una volta, troviamo le imprese e i lavoratori: tutta gente che continua ad andare sempre poco di moda.
 

Fonte - La Repubblica

 

 

ROGERS BUCA LA BOLLA ADDITATA DA ROUBINI

05 Novembre 2009 16:40 NEW YORK - WSI
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Che tra Nouriel Roubini e Jim Rogers ci sia un diverso approccio all'economia è comprensibile. Il primo è professore alla New York University e il secondo è investitore di professione, anzi uno dei più leggendari avendo fondato nel 1960 il Quantun Fund assieme a George Soros. Ma è piuttosto sorprendente che tra i due vi sia anche della ruggine, dato che le loro vedute sulla crisi del credito e la recessione non differivano un gran che.

C'è una cosa che li differenzia: le bolle. Roubini le vede dappertutto: nei prezzi del petrolio, dell'oro e nel carry trade sul dollaro. Rogers, invece, è allergico alla parola stessa. «Ma che bolla», ha risposto indispettito a Bloomberg Tv: «È chiaro che il signor Roubini non ha fatto anche questa volta i compiti». Per Rogers, che fin dal 1999 predisse (e cavalcò) la corsa delle materie prime, è normale che il petrolio possa salire anche fino a 100 quest'anno e l'oro anche a 2.000$ tra una decina d'anni. (W.R.)
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

SCANDALO INFLUENZA SUINA: A WALL STREET VACCINO DISTRIBUITO IN ANTICIPO

05 Novembre 2009 23:15 NEW YORK - WSI
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In Italia WSI riporta come primo organo di informazione che il vaccino per combattere l'influenza suina H1N1 e' stato distribuito ad alcune banche e finanziarie di Wall Street molto prima che sia disponibile al grande pubblico. Un'associazione privata di attivisti, il Citizens for Responsibility and Ethics in Washington (CREW) sta facendo chiasso dopo aver inviato una lettera al ministro della Sanita' di Barack Obama (Health and Human Service) Kathleen Sebelius, chiedendo che investighi sul perche' il Center for Disease Control (CDC) abbia approvato la distribuzione del vaccino ad almeno 13 grandi banche e aziende di Wall Street, tra cui Citigroup, Goldman Sachs, JP Morgan Chase e Time Warner. Tutte di New York, il che potrebbe far pensare alla preoccupazione per una pandemia nella Grande Mela.

La CDC insomma distribuendo il ricercatissimo vaccino alle grandi banche di Wall Street, nonostante la pesante penuria di dosi su base nazionale. Il 4 novembre il direttore del CDC, Thomas Frieden, ha informato il Congresso Usa che soltanto 32.3 milioni di dosi sono disponibili, molto meno rispetto ai 159 milioni di cui ci sarebbe bisogno per coprire le esigenze delle fasce maggiormente a rischio. Data la scarsita', la CDC ha inviato direttive secondo cui il vaccino deve essere dato soltanto a chi e' a rischio: donne incinte, neonati e bambini, giovani fino ai 24 anni, chi lavora a stretto contatto con i bambini, personale di emergenza negli ospedali e nei servizi di emergenza, infine adulti con il sistema immunitario compromesso o con problemi di salute cronici.

Melanie Sloan, executive director di CREW, ha fatto sapere in un comunicato che "nonostante CREW non sia stato in grado di scoprire la composizione demografica di Goldman Sachs, Citigroup e JP Morgan Chase, sembrerebbe scontato assumere che la grande maggioranza dei loro dipendenti non sono donne incinte, neonati e bambini, giovani fino ai 24 anni, chi lavora a stretto contatto con i bambini, personale di emergenza negli ospedali e nei servizi di emergenza, o adulti con il sistema immunitario compromesso o con problemi di salute cronici".

Sloan ha affermato: "In quale mondo viviamo, se Wall Street deve avere la precedenza su tutti gli altri? Sfortunatamente, per migliaia di americani che sono respinti dagli ospedali e cliniche di tutta l'America, la CDC ha deciso di dare priorita' ai milionari rispetto alle masse. Il pubblico ha il diritto di sapere come e perche' cio' e' accaduto, e quando finira'. Prima, il salvataggio durante la crisi, poi i bonus, adesso il vaccino. Quando Washington comincera' a mettere le esigenze di Main Street prima di quelle di Wall Street?".

Secondo alcune fonti, Goldman Sachs ha richiesto 5.300 dosi di vaccino. Soltanto le due sedi di Manhattan sono pero' contemplate per la distribuzione, perche' gli altri uffici regionali di Goldman non hanno attrezzature sufficienti per l'operazione. Per adesso soltanto la sede storica di 85 Broad Street (a due passi dal New York Stock Exchange) ha ricevuto il vaccino. Una portavoce della banca dice che per ora non si ha notizia di nessun dipendente colpito dall'influenza suina, "ma ovviamente dobbiamo essere preparati".
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

Derivati, una bomba da 203mila miliardi

07 Novembre 2009 19:36 – Il Sole 24 Ore
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La grande paura è passata. Nessuna implosione del sistema finanziario mondiale. Ma chi bisogna ringraziare per lo scampato pericolo? Sicuramente i Governi che hanno preso sulle spalle (con aiuti pubblici) il fardello delle banche pericolanti; le autorità monetarie che hanno inondato di liquidità il sistema. E quei mercati (dalle Borse ai bond) che si sono messi a correre all'insù. Dalle banche, quelle di Wall Street in particolare, ben poco è arrivato.
Almeno in termini di comportamenti. Già dai primi mesi del 2009 il vecchio vizio di fare della speculazione un'arte è riemerso più forte di prima. Lo dicono i bilanci delle big bank americane che hanno ricominciato ad accumulare rischi come niente fosse. Un dato su tutti è quello dell'attività in derivati che, come ha sottolineato Giulio Tremonti nei giorni scorsi, sono in continua crescita. Come se nulla fosse accaduto. Non era proprio la finanza strutturata e la sua inarrestabile ascesa ad aver causato il pericolo del crack sistemico? Evidentemente a Wall Street hanno la memoria corta. Come spiegare altrimenti che per le prime 25 banche Usa il valore nozionale in derivati è salito nella prima parte del 2009 di altri 1.500 miliardi, portando il totale alla stratosferica cifra di 203mila milardi di dollari.
Una cifra quasi impronunciabile: 30mila miliardi in più della stagione pre-crisi Lehman, il doppio del 2006 e dieci volte tanto il valore di questi strumenti solo una decina d'anni fa. Ma non è il valore in sé a preoccupare. È il rapporto con le attività delle banche a far tremare i polsi. Quella montagna di strumenti speculativi siede su un attivo complessivo di appena 7.600 miliardi con un rapporto di 26 dollari in derivati per ogni dollaro di attività. E questo è il dato medio. Poi ci sono le reginette del rischio estremo: come Goldman Sachs che ha un rapporto di 300 volte o Jp Morgan che per ogni dollaro di attivo ha in pancia 48 dollari in derivati.
Ma non è solo il continuo ricorso a quelle che Warren Buffet ha definito «armi di distruzione di massa» a gettare una luce inquietante. È la modalità con cui i grandi gruppi bancari sono tornati a macinare utili che dovrebbe far riflettere. Come se niente fosse accaduto le Goldman e le Jp Morgan sono tornate a speculare su tassi, valute, cambi con i mercati al rialzo, con ancora molto capitale preso a prestito. Dalla divisione del trading sul reddito fisso la sola Goldman Sachs dovrebbe realizzare oltre 20 miliardi di ricavi contro i 3,7 del 2008. E che dire di Jp Morgan? La divisione banca d'investimento è tornata a far da motore a tutto il gruppo con 6,6 miliardi di utili operativi attesi per il 2009, oltre la metà del totale dei profitti operativi.
Ma il rituffarsi nella finanza speculativa ha il rovescio della medaglia: secondo i dati raccolti dalla Federal Reserve è in atto uno swap potente tra l'attività tradizionale di prestito e quella d'investimento. Ebbene mentre prestiti e attivi declinano, aumentano di controcanto l'investimento in prodotti finanziari. Buona cosa (finché dura) per i profitti delle banche di Wall Street, meno bene per Mean Street, l'economia reale abbandonata dalla banche.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Record del prezzo dell'oro: «il rialzo durerà a lungo»

12 Novembre 2009 14:11 MILANO – Il Sole 24 Ore

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La corsa all'oro continua. Certo, questa non ha né il "fascino" né la "durezza" della caccia al metallo giallo nel Klondike in fine 1800. Adesso comandano migliaia e migliaia di algidi ordini via computer , o di acquisti alle grida, che fanno balzare i future sul lingotto. Ma è indubbio che i prezzi, di giorno in giorno, continuano a lievitare. Nell'intraday, a Londra, il contratto spot è salito a 1.123,38 dollari l'oncia mentre il future a scadenza dicembre è balzato fino a 1.123, 40 dollari. Poi, sulle scontate prese di beneficio, la quotazione ha ritracciato. Dall'altra parte dell'Atlantico, a New York il contratto a scadenza su dicembre è sceso a quota 1.113,50 dollari. Nonostate questi vuoti d'aria, però, l'impostazione al rialzo è inequivocabile. Solo a metà settembre si dubitava che la quotazioni potessero sfondare quota 1.000 dollari e adesso c'è chi, addirittura, guarda all'obiettivo dei 1.300 dollari .

La domanda dagli investitori
Al di là dei target, che lasciano il tempo che trovano, è indubbio che l'enorme liquidità in circolazione è in cerca di un investimento remunerativo nel breve periodo. Con i tassi a breve negli Usa pari allo zero, gli investitori denominati in dollari preferiscono puntare sul metallo prezioso. Uno dei punti cruciali è che l'oro non è più, o almeno non solo, considerato una commodity ad uso e consumo dell'industria e delle gioiellerie. Tutt'altro: è una vera e propria asset class, in particolare un asset monetario. «La forza della domanda nell'ultimo anno - afferma al Sole24Ore.com Rozanna Wozniak, investment research manager di World Gold Council -, è stata la crescita di acquisti da parte degli investitori. Quest'ultimi hanno controbilanciato la debolezza dei classici settori (industrie e jewellery, ndr) che subiscono la recessione economica». Insomma, non è solo una questione di metallo giallo ma, un po' come nel mondo del petrolio, di lingotti di carta. «Non chiamiamola, però, speculazione - sottolinea immediatamente la Wozniak -. Gli investitori sono in cerca di un porto sicuro. È spesso un'attività di copertura e di diversificazione del proprio portafoglio», in un periodo in cui non si è sicuri del rally delle Borse e della ripresa dell'economia mondiale.

Che la corsa all'oro abbia una "genesi finanziaria" lo dicono anche i numeri. «Nel secondo trimestre 2009 - spiega l'esperta di World Gold Council - la domanda proveniente dalle gioiellerie pesava per il 56% del totale e quella industriale il 13 per cento. Gli investitori, invece, avevano una rilevanza del 31% sul totale». Certo, una percentuale ancora inferiore rispetto alle altre categorie «ma in forte crescita. Nello stesso periodo del 2008, infatti, l'investment demand valeva solo il 19 per cento».

Il trend di fondo è al rialzo
Al di là dei perché della crescita delle quotazioni, la Wozniak rimane convinta «che nel lungo periodo i fondamentali sono impostati a favore di una crescita delle quotazioni. Sul lato dell'offerta, mentre lo scorso anno la produzione delle miniere è cresciuta, il futuro resta incerto. Le società di esplorazione trovano difficoltà nell'ottenere finanziamenti; ci sono poche scoperte di nuovi filoni interessanti e passa sempre più tempo tra il ritrovamento e lo sfruttamento della miniera». Di più: «l'offerta dalle Banche centrali - dice la ricercatrice - sta diminuendo: le loro vendite di oro scendono».

Il dollaro debole
Un'altra spinta alla crescita dell'oro, si dice, arriva dal dollaro debole. In realtà affermare, quasi ci fosse una relazione di causa-effetto, che più la divisa americana scende più l'oro sale ha poco senso. Certo: essendo l'oro prezzato nella divisa americana, la debolezza di quest'ultima rende meno costoso il suo acquisto. Ciò vale, però, per gli investitori europei. Non certo per quelli denominati in dollari. Di più: si può dire che le banche centrali, a fronte di riserve in dollari che perdono valore nominale, vanno in cerca di una diversificazione del loro portafoglio, aumentando la domanda di oro. Ma quello che va ricordato è che la correlazione tra dollaro e oro è di carattere statistico. «Le serie storiche - sottolinea la Wozniak - indicano che esiste questa relazione inversa. Un trend che, ultimante, è stato molto forte. Tuttavia, non mancano periodi storici in cui questa relationship è venuta meno».
 
 

Fonte - xxx

 

 

 

 

  Domenica 15 Novembre 2009   Martedì 17 Novembre 2009   Giovedì 19 Novembre 2009  
       
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  I gestori preferiscono l’Asia

12 Novembre 2009 14:11 MILANO - di Sara Silano

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Tra ottobre 2007 e marzo 2009, i mercati mondiali hanno bruciato 29 mila miliardi di dollari, pari a circa il 50% del Prodotto interno lordo mondiale. In primavera è cominciato un forte rally, che, però, in ottobre, ha subito una nuova battuta d’arresto. Ora i gestori guardano con cauto ottimismo al mercato azionario, in attesa di conferme dall’economia e dal fronte degli utili aziendali.

Pausa per l’Europa
Nel Vecchio continente, la fase di ribasso ha penalizzato i settori che avevano corso di più durante il rally cominciato a marzo, ossia i bancari, le aziende più indebitate e i ciclici (questi ultimi scontavano una ripresa dei consumi più rapida). Il settore delle materie prime, invece, ha continuato a beneficiare della domanda dei mercati in via di sviluppo. Nonostante ad ottobre l’indice Msci Europe abbia perso oltre il 2%, i gestori confermano le previsioni espresse a settembre. Il 50% si attende un apprezzamento degli indici azionari e il 40% è convinto che non si discosteranno dagli attuali livelli.

A Wall Street non bastano le trimestrali
Negli Stati Uniti, il Prodotto interno lordo è cresciuto del 3,5% nel terzo trimestre, ma dietro questo dato si nasconde un quadro economico ancora debole, con la disoccupazione salita al 10,2% e le vendite al dettaglio in calo. Un contesto che non favorisce la ripresa dei consumi. Dal punto di vista dei conti aziendali, la maggior parte delle imprese ha battuto le aspettative, ma la ragione principale è il taglio dei costi. Il fatturato, infatti, indica che la crescita è ancora debole. A ottobre, i gestori si sono mostrati un po’ più ottimisti sull’andamento di Wall Street, con il 45% convinto che salirà contro il 35% di ottobre. Tuttavia, sono raddoppiati i pessimisti (20%).

Tokyo, deflazione cronica
Ad ottobre, l’indice Msci Giappone ha perso il 3,4% (in euro), risentendo più dei mercati mondiali della fine del rally cominciato a marzo. E’ sempre più evidente che i problemi strutturali del Paese non si potranno risolvere in tempi brevi. Il Sol Levante deve fare i conti con l’invecchiamento della popolazione, la diminuzione dei risparmi delle famiglie e la deflazione. In questo contesto, l’elevato indebitamento può rappresentare un nodo critico, qualora dovessero aumentare i tassi. La Borsa di Tokyo rimane quella con il più alto numero di gestori pessimisti (25%). Gli ottimisti, invece, sono il 40%.

Asia ancora il pole position
Le Borse dell’Asia-Pacifico hanno perso meno di quelle europee e statunitensi nell’ultimo mese (-1,28%) e rimangono le preferite dai gestori. Il 65% degli intervistati si aspetta un apprezzamento perché la situazione economica dei Paesi asiatici è migliore di quella occidentale e il loro ruolo nel panorama internazionale è in crescita. Alcuni, però, mettono in guardia sulle valutazioni dei titoli, in quanto molto delle migliori prospettive future dovrebbe già essere inglobato nei prezzi.

Titoli di Stato poco attraenti
I gestori prevedono che i tassi di interesse rimangano bassi per molto tempo, ad eccezione delle scadenze lunghe. La ripresa è ancora debole e l’inflazione non rappresenta un problema. Di conseguenza, la maggior parte dei fund manager si attende una stabilità dei prezzi nei prossimi sei mesi e guarda ad altri strumenti del mercato obbligazionario come le emissioni societarie (investment grade e high yield) e quelle emergenti.

Il dollaro non riparte
Il 35% dei gestori prevede che il rapporto di cambio tra il biglietto verde e l’euro rimanga attorno agli attuali livelli, contro il 30% che si attende un apprezzamento della divisa comunitaria e un’analoga percentuale che considera possibile la rivalutazione del dollaro. La moneta americana sta perdendo lentamente lo status di riserva internazionale, tuttavia in termini di parità di potere di acquisto l’euro risulta sopravvalutato.
 

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 4 e l’11 novembre, 20 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’85% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, Allianz Global Investors Italia, Anima Sgr, Banca Finnat-New Millenium sicav, Banca Ifigest, Banca Profilo, Bnp Paribas Am Sgr, Eurizon Capital, Fideuram Investimenti, Henderson Global Investors, Ing Asset Management BV-Milano, Investitori Sgr, M&G Investments, Pioneer Im, Prima Sgr, Prometeia Advisor Sim, Soprarno Sgr, Swiss&Global AM Sgr, Threadneedle, Vontobel. 
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

Bond giù per troppa offerta

12 Novembre 2009 14:11 MILANO - di Marco Caprotti
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Troppa offerta, qualche sussulto del mercato azionario e le speranze di ripresa della congiuntura mondiale hanno fatto scendere i prezzi delle obbligazioni. E’ questo, in sintesi, il quadro del mercato dei bond. L’indice Citi Wgbi del comparto nell’ultimo mese (fino al 9 novembre e calcolato in euro) ha perso quasi l’1,5%. Questo andamento ha pesato anche sui fondi di settore. Quelli raccolti nella categoria Morningstar obbligazionari internazionali (venduti in Italia), ad esempio, sempre negli ultimi 30 giorni hanno lasciato sul terreno lo 0,85%.
Una parte della fotografia di quanto sta succedendo sul mercato obbligazionario internazionale è messa bene a fuoco dagli Stati Uniti. Nell’ultima settimana di ottobre il governo Usa ha messo all’asta titoli di debito per un totale di 123 milioni di dollari. La richiesta da parte delle banche centrali e degli investitori è stata fortissima: le offerte sono arrivate a totalizzare 372 miliardi di dollari. “Questo elemento, da solo, avrebbe dovuto far salire i prezzi delle obbligazioni statali”, spiega una nota di Morningstar. “Il problema è che la forte domanda sta creando altre richieste”. Nei prossimi giorni l’America metterà in vendita Tbond con scadenze a tre, 10 e 30 anni per un totale di 81 miliardi. Anche in questo caso si prevede il tutto esaurito.
“Si sta arrivando a una situazione che confermerebbe la legge elaborata nell’800 dall’economista francese Jean-Baptiste Say, secondo cui l’offerta di un prodotto (in questo caso i bond) alla fine crea la propria domanda”. Insomma, fra le due forze principali del mercato si arriva ad un bilanciamento. La conferma a questo assunto potrebbe arrivare nei prossimi mesi ed anni. La Camera Usa ha appena approvato il piano di riforma del sistema sanitario del Paese. In caso di via libera anche da parte del Senato, ci sarebbe il definitivo semaforo rosso a un progetto che alle casse dello Stato potrebbe costare mille miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Soldi che la Casa bianca conta di raccogliere attraverso l’emissione di altri titoli di debito.
Prezzi in discesa, anche se per differenti motivi, in Europa. Sul bund, obbligazione government tedesca e metro di riferimento per il comparto nel Vecchio continente, pesano le ultime dichiarazioni del presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet. “L’ammontare delle misure economiche utilizzate negli ultimi mesi non sarà necessario in futuro”, ha spiegato il numero uno dell’autorità monetaria europea, mentre annunciava la decisione di lasciare invariati all’1% i tassi di interesse di Eurolandia. Un segnale chiaro, hanno spiegato gli economisti, di una ripresa dell’economia che rende inutile (o meno urgente) rivolgersi ad asset di protezione quali sono considerati solitamente i bond.
L’insieme delle cause americane ed europee, sta pesando in Asia sull’andamento dei government giapponesi. Anche nel Sol levante si registrano prezzi in discesa e rendimenti in salita. Il movimento è stato dettato prima di tutto dalle notizie sugli scenari congiunturali delle altre due macroregioni che (se confermati) avvantaggeranno le imprese nipponiche tradizionalmente votate all’export. Poi è arrivata la decisione del Ministero delle finanze di mettere in vendita, nelle prossime settimane, bond con scadenza a cinque e a 40 anni per un totale di oltre 2mila miliardi di yen (15,5 miliardi di euro) che porterà alla cifra record di 132mila miliardi l’ammontare delle emissioni in programma per l’anno fiscale in corso.

 

Fonte - MorningStar.it

 

 

TORO SCATENATO: L'INDICE S&P500 SALIRA' SOPRA QUOTA 1300 ENTRO FEBBRAIO

12 Novembre 2009 16:00 NEW YORK  - di WSI
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L'economia continua a migliorare. La fase rialzista e' una reazione naturale all'eccessivo pessimismo che l'ha preceduta. Ne e' convinto il finanziere miliardario Kenneth Fisher, secondo cui il benchmark guadagnera' il 25% in 3 mesi.
Kenneth Fisher
Lo Standard & Poor’s 500 superera' probabilmente la soglia dei 1.300 punti entro febbraio, perche' l'economia continuera' a recuperare terreno, risollevandosi dalla recessione piu' grave dagli anni '30.
A dirlo e' l'imprenditore americano miliardario Kenneth Fisher, che in un'intervista a Forbes, riportata da Bloomberg, ha spiegato che si tratta di "una semplice reazione al pessimismo eccessivo che l'ha preceduta". Fisher (classificato da Forbes come il 289esimo uomo piu' ricco degli Stati Uniti) ha aggiunto che "assisteremo ancora ad una fase di mercato rialzista prolungata, proprio perche' prima abbiamo assistito a ribassi enormi".
Il paniere allargato della Borsa statunitense ha fatto un balzo del 62% arrivando a toccare quota 1.093,08 dopo essere sprofondato sui minimi di 12 anni a inizio marzo. Secondo il 58enne presidente di Fisher Invesments Inc, nei prossimi tre mesi il benchmark e' destinato ad accumulare altri guadagni, pari al +25% rispetto al valore della chiusura della settimana scorsa.
"L'economia non sta affatto recuperando ad un passo lento. L'America e' molto piu' veloce di quanto si pensi. Gli ultimi numeri sul Pil del terzo trimestre lo dimostrano" ha concluso Fisher.
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

Mediobanca: il trading tampona le falle nei conti delle banche

12 Novembre 2009 17:01 MILANO – Il Sole 24 Ore
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Le grandi banche europee, e tra loro anche le italiane, stanno proseguendo con forza le attività di trading, che nel primo semestre del 2009 hanno segnato un utile di 28 miliardi di euro (dopo il rosso di -59,7 nella seconda metà del 2008 e -17,3 nella prima), contro una perdita di 61 miliardi accusata sui crediti (+138% annuo). È quanto emerge da uno studio di R&S Mediobanca sui principali 20 istituti di credito del Vecchio Continente.

La ricerca, secondo la quale si sta confermando lo stesso trend anche nella seconda metà dell'anno, ricorda come tra gennaio e giugno Unicredit abbia accusato una perdita su crediti di 4 miliardi di euro e un utile da attività di trading di 864 milioni, Intesa San Paolo un rosso sui crediti di 1,8 miliardi e un guadagno dall'intermediazione di 546 milioni.

Se il trend del primo semestre si confermerà, come sembra dai dati disponibili sul terzo trimestre, il risultato di negoziazione dei big bancari europei nel 2009 sarà ampiamente superiore anche ai 36,6 miliardi segnati nel 2007, ovvero l'anno prima della crisi. Per l'utile netto, invece, le distanze sono incolmabili rispetto ai 97,4 miliardi del 2007. Ad incidere sono le perdite sui crediti, che appaiono destinate a registrare livelli nettamente superiori agli anni passati, dopo avere totalizzato 62 miliardi nel gennaio-giugno 2009, contro gli 86 miliardi dell'intero 2008 (59,8 miliardi nella seconda metà) e i 37,6 miliardi del 2007 ed essere ora pari al 28% dei ricavi totali dal 25% del 2008 e dal 9,5% del 2007.

Passata l'emergenza finanziaria, le banche sono ora dunque confrontate, trimestre dopo trimestre, con l'impatto crescente della crisi dell'economia reale che colpisce famiglie ed aziende. Di rilievo, peraltro, nel primo semestre la crescita del margine di interesse, salito a 121,3 miliardi dai 112 miliardi di un anno prima, pur in un contesto di tassi calanti. La sua incidenza sul margine di intermediazione é tuttavia calato al 55% dal 60% della prima metà del 2008 per effetto dell'espansione dei ricavi da trading. A livello patrimoniale, dallo studio di R&S Mediobanca emerge una complessiva riduzione rispetto al 2008 del volume dell'attivo a 21.178 miliardi (-12%), che resta tuttavia superiore al 2007 (20.808 miliardi). Il dimagrimento é ascrivibile alla voce 'altre attivita" (5,28 miliardi a fine giugno da 7,6 miliardi a fine dicembre 2008), il coacervo in cui rientrano gli strumenti derivati. Sul fronte della raccolta é in lieve flessione quella della clientela (-1%), mentre cala vistosamente l'interbancaria (-17%).

In forte aumento i crediti dubbi, che ormai rappresentano quasi il 28% dei mezzi propri contro il 24,5% a fine 2008 e sono pari all'1,9% dei crediti totali verso la clientela contro l'1,5% di sei mesi prima. Per le banche italiane (oltre alle due big sono conteggiate anche Mps, Bpm, Mediobanca, Ubi Banca, Banco Popolare e la Popolare dell'Emilia Romagna) le incidenze sono ancora più elevate, essendo rispettivamente pari al 68% del patrimonio netto tangibile (dal 54,9%) e al 4,5% dei crediti totali (dal 3,3%), a causa della minore politica di copertura dei crediti dubbi rispetto alla media europea (45% contro 54%). Tra l'altro - segnala lo studio -gli accantonamenti sono saliti nel semestre allo scorso giugno del 15%, meno dell'aumento dei crediti dubbi (+25%) e contro le medie europee di +18,5% e +22% rispettivamente.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

La crisi ha svegliato i buyback

12 Novembre 2009 17:01 MILANO – Marco Caprotti
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Ritiro, totale o parziale, di alcune categorie di azioni (di risparmio o privilegiate); predisposizione di un portafoglio di azioni da scambiare per realizzare alleanze; sfruttamento di un prezzo di mercato ritenuto basso per poi rivendere i titoli durante un rally; difesa da possibili Opa ostili. Sono diversi i motivi che spingono un’azienda a effettuare il riacquisto di azioni proprie (in gergo buyback).
Il fenomeno del buyback, grazie alla crisi dei mercati che ha depresso i corsi azionari, sembra aver trovato nuovo vigore. Secondo i dati di Morningstar, dall’inizio di novembre, a livello globale, sono stati lanciati 40 piani di riacquisto di azioni proprie. Se a questi si aggiungono quelli in corso dal 2008, il numero sfiora il migliaio. Il risultato comunque, dal punto di vista operativo è uno solo: un aumento dei volumi di scambio delle azioni in questione e la spinta delle quotazioni verso l’alto, per la gioia degli azionisti che rimangono investiti. L’indice Share Buyback Achievers elaborato da Invesco (che include tutte le società trattate negli Stati Uniti che negli ultimi 12 mesi abbiano riacquistato almeno il 5% dei propri titoli), per esempio, da inizio anno ha guadagnato circa il 26,5%. Nello stesso periodo il paniere Msci North America (calcolato in dollari) ha segnato +24%.
L’operazione riduce il numero dei titoli in circolazione dando ai rimanenti azionisti la proprietà di una percentuale maggiore della società. “E’ un fenomeno che va a beneficio di tutti i soci”, conferma uno studio firmato da Paul Larson, analista azionario di Morningstar. “Diminuendo il numero assoluto di azioni in circolazione, cresce il peso percentuale nel controllo della società da parte di chi conserva lo stesso numero di azioni di prima”. Inoltre, l’operazione si traduce in un miglioramento del rapporto tra utili ed azioni, dal momento che il profitto complessivo della società viene distribuito su un numero inferiore di azionisti. “In questo modo, i consigli di amministrazione riescono a migliorare la voce ’utili per azione’ in una fase in cui la crescita dei profitti e le comparazioni con i risultati dell’anno precedente si fanno più difficoltosi”, dice il report.
Normalmente viene anche considerato un segnale di ottimismo da parte degli amministratori, che acquistano azioni ad un prezzo che essi, che hanno una visione dall’interno dell’andamento dell’impresa, ritengono sottovalutato. “Questa indicazione, tuttavia, va presa con le molle”, precisa l’analista di Morningstar. “In generale, il buyback non segnala un reale mutamento delle prospettive di reddito dell’impresa e la variazione iniziale dei prezzi è frutto dell’emotività del mercato”.
Quello che il riacquisto di azioni proprie può fare, invece, è dare indicazioni sulle strategie di un’azienda e sul loro mutamento. Uno degli esempi più recenti è stato il programma di buyback di Nestlé. Il colosso alimentare nei giorni scorsi ha annunciato di voler dare un nuovo impulso all’operazione grazie ai fondi raccolti con la cessione di una partecipazione in una società del pharma (Alcon) ritenuta non strategica. Dal mercato l’annuncio è stato letto anche come l’intenzione da parte del gruppo svizzero di non interferire nell’Opa ostile (da 16,7 miliardi di dollari) lanciata dall’americana Kraft sul gruppo inglese Cadbury (cioccolato). “Un intervento che molti davano per scontato, soprattutto dopo la cessione di Alcon che si pensava essere stata fatta per preparare le munizioni per una guerra fatta di offerte e di rilanci per conquistare il gruppo britannico”, commenta Larson. “A questo punto, bisogna cambiare tutti i ragionamenti fatti fino ad ora su Nestlé. Il mercato, adesso, non si aspetta acquisizioni da parte degli svizzeri. Almeno fino alla fine del 2010”.

 

Fonte - Morningstar.it

 

 

 

 

 

 

  Rialzo dei tassi in vista? Tanto meglio il rally è appena iniziato

15 Novembre 2009 20:05 NEW YORK - WSI

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L'economia Usa sta crescendo abbastanza da assicurare che il mercato estenda il rialzo anche a fronte di un costo del denaro piu' alto. La Fed alzera' i tassi 0.5% nel giugno 2010. Buy: in scenari simili (in passato) ha pagato nel 92% dei casi.
Le Borse di tutto il mondo sono ad un punto cruciale, dopo 7 mesi di crescita (S&P500 +60% dai minimi di marzo) con i listini che potrebbero essere frenati dalle preocuppazioni secondo cui le Banche Centrali inizieranno presto ad alzare i tassi guida dei rispettivi Paesi.

Tali paure potrebbero compromettere i rally borsistici piu' poderosi degli ultimi trent'anni. Gli indici di riferimento da New York a Tokyo, passando per Londra e Francoforte, a volte strappano e a volte salgono, ma hanno smesso di salire ininterrottamente come nel secondo e terzo trimestre, sulle speculazioni che gli istituti centrali annunceranno presto una via d'uscita dai piani di rilancio economico, prima del consolidamento della ripresa dell'economia globale.

Ma la storia ci insegna che nei sei mesi precedenti all'innalzamento del costo del denaro, i listini si sono resi protagonisti di un rialzo, in ben il 92% dei casi.
Gli analisti di Federated Investors, Renaissance Financial e Citigroup concordano nel sostenere che gli operatori potrebbero perdere ulteriori opportunita' di guadagno se non volessero salire sul treno ora, dopo che i governi di tutto il mondo hanno investito $12.000 miliardi in aiuti e prestiti che hanno spinto il paniere globale MSCI World Index in progresso del 65% dal 9 marzo.

Di solito, sottolinea Linda Duessel, equity strategist di Federated, il mercato tende ad avanzare prima che le banche centrali annuncino la decisione di alzare i tassi di interesse, perche' i mercati prevedono un'espansione dell'economia.

Per questo il consiglio e' quello "di comprare titoli ora. Sta prendendo piede l'idea che le misure di stimolo stanno per essere fatte svanire e che i tassi di interesse saranno alzati. Ma e' facile, tuttavia, che il rally del mercato prosegua anche dopo un evento del genere".

L'S&P 500 ha guadagnato l'8.4% nei sei mesi precedenti alle ultime cinque volte in cui la Fed ha deciso di alzare i tassi per i prestiti interbancari overnight e ha accumulato rialzi pari ad un ulteriore 8.2% nella fase rialzista che ne e' seguita. Secondo dati raccolti da Bloomberg, dal 1988 il benchmark tedesco DAX ha fatto un balzo del 9% nei sei mesi precedenti la decisione della Banca Centrale del Paese, mentre il Nikkei 225 giapponese e' dal 1973 che in media registra un progresso dell'8.3%.

Stando al valore dei futures sui Fed funds, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke e i suoi colleghi dovrebbero decidere di alzare il costo del denaro nel giugno 2010. C'e' una possibilita' del 51% che l'incremento deciso nell'incontro del comitato di politica monetaria del FOMC del prossimo 25 giugno, sia di almeno lo 0.5%, ovvero quando l'economia americana avra' registrato il quarto trimestre consecutivo di espansione, s stime.

Secondo quanto spiegato ai microfoni di Bloomberg TV da Douglas Ciocca, managing director di Renaissance che consiglio' di comprare le obbligazioni societarie a novembre del 2008, ossia prima che guadagnassero il 30%, "se io fossi un investitore e vedessi che ci stiamo avvicinando all'annuncio dei piani di exit strategy, questo non farebbe che confermare che l'economia si e' stabilizzata e questa non puo' che essere una notizia positiva".

Secondo Michala Marcussen, capo della divisione di ricerche economiche e strategiche di Societe Generale Asset Management, i segnali giunti di recente suggeriscono che l'economia sta crescendo in maniera abbastanza sostenuta da assicurare che i tassi di interesse piu' alti non compromettano, anzi estendano, il rally del 60% messo a segno dall'S&P 500 dai minimi di 12 anni. Nelle ultime sei riunioni di politica monetaria, la Fed ha promesso di mantenere lo status quo sui tassi vicino allo zero ancora per un "periodo prolungato".

"Quello che la Fed ci sta dicendo, preferendo non cambiare la sua retorica e': Siamo ancora preoccupati per lo stato di salute del credito", sottolinea Marcussen, aggiungendo: "abbiamo visto un rally molto solido e ora cosa ci spingera' in rialzo? Forse quello che aspettano i mercati e' proprio la decisione della Fed".

In una nota ai clienti datata 28 ottobre, lo strategist di Citi Tobias Levkovich ha suggerito agli investori di comprare titoli azionari ora, prima che i tassi vengano alzati. Dal 1915 a oggi l'S&P 500 ha guadagnato terreno in 25 anni su 38 in previsione di un rialzo del costo del denaro. In particolare a registrare performance superiori alla media sono stati energetici, industriali, titoli legati alle materie prime e di societa' attive nell'information technology (IT).

Secondo le previsioni degli economisti i Fed funds verranno alzati allo 0.5% nel secondo trimestre del 2010. Il tasso verra' aumentato di un altro quarto di punto in ogni trimestre successivo fino ai primi tre mesi del 2011.

"Sembra che ci sia una percezione sbagliata tra gli investitori secondo cui quando i tassi di interesse crescono, i prezzi dell'azionario sono destinati a scivolare per forza", ha scritto Levkovich nella nota. "Noi non la pensiamo cosi', non pensiamo infatti che un incremento dei tassi sui Fed funds sia per forza un evento negativo per i mercati azionari".
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

  Sabato 21 Novembre 2009   Martedì 24 Novembre 2009   Mercoledì 25 Novembre 2009  
       
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  Nuovo rischio di bolla sui mercati finanziari

18/11/2009 MILANO - Miaeconomia

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Poco piu’ di un anno fa, di questi tempi, il mercato finanziario era sull’orlo del tracollo e l’economia reale mondiale, con qualche eccezione come Cina, India e Brasile e altri stati emergenti specialmente del sud est Asia, era alle soglie di una depressione per proporzione simile a quella che colpi’ nel 1929 le economie di allora, Usa in testa.
Per evitare una catastrofe le banche centrali di tutto il mondo hanno abbassato i tassi di interesse a livelli storici. Quasi a zero in Usa e Giappone, prima e seconda economia per dimensioni del Pil, della terra, all’1% in Eurolandia. E i Governi nazionali hanno inondato i mercati con un flusso di denaro spaventoso, in parte finito nelle casse delle banche, da cui ha originato la crisi. Tanto per dare una dimensione degli interventi il solo Tesoro Usa ha messo a disposizione del sistema quasi 800 miliardi di dollari, circa un terzo del Pil Italiano, pari a 1.500 miliardi di euro.
A distanza di un anno che fine ha fatto quella massa di denaro? Che uso ne hanno fatto le banche sull’orlo del tracollo?
A guardare le Borse l’economia sembra in grande forma. I mercati finanziari stanno correndo da marzo, con rialzi di oltre il 50%. Addirittura rispetto a un anno fa, New York e’ sopra del 20% rispetto ai valori di inizio novembre, con i mercati in discesa libera. Londra del 27%, la Borsa di Tokio del 18%, quella di Francoforte del 22%. Piazza Affari rispetto a un anno fa sale del 13% e del 20% rispetto a 6 mesi fa.

E le banche? Godono di ottima forma. Trimestrale super per Intesa Sanpaolo, ottima per Unicredit, bene per Mps, tanto per citare tre big nostrani. E in Usa, culla della crisi? Impennata degli utili per Jp Morgan Chase del 500% rispetto a un anno fa, del 270% Per Goldman Sachs, del 60% per Wells Fargo, solo per citare i casi piu’ eclatanti.

Ma se le banche vanno bene, le Borse corrono, il petrolio torna a 80 dollari allora la crisi e’ superata? Finita la recessione? A guardare i numeri del Pil non c’e’ un paese industrializzato che abbia un prodotto positivo rispetto a 12 mesi prima. Quello degli Usa scende del 4% quello dell’Eurozona piu’ o meno dello stesso livello. Il Regno Unito e’ al sesto trimestre in recessione.
E allora come sta veramente la situazione?
Semplice, basta andare a guardare nel bilancio delle banche per capire come gli utili derivino nuovamente da attivita’ di trading, speculazione. Negli Usa nei bilanci delle prime 25 banche il valore nozionale dei derivati, gli strumenti tipici del trading, e’ salito nei primi 6 mesi del 2009 di 1.500 miliardi per un valore totale di circa 200mila miliardi di dollari di posizioni in derivati. Ma il valore di per se non significa nulla se non e’ paragonato agli attivi bancari. In totale il sistema bancario statunitense poggia su 7.600 miliardi di attivi contro 200mila di titoli derivati, per un rapporto di un dollaro attivo ogni 26 in attivita’ speculativa. Due esempi su tutti. Goldman Sachs, che ha visto gli utili incrementati del 270% ha un rapporto attivi/derivati di 300 volte; Jp Morgan, 580% di incremento degli utili, di quasi 50 volte.
In pratica le banche sono tornate a speculare su azioni, tassi, valute, materie prime, e con i soldi munificamente elargiti dai governi. Invece di tornare a fare prestiti alle aziende, rimettere i capitali in circolo, di fare ripartire l’economia, insomma di dedicarsi al loro business tradizionale, le banche hanno ripreso a speculare esattamente come prima dello scoppio della crisi. Ecco spiegato il motivo della corsa delle Borse, della debolezza del dollaro a causa del Carry Trade, ovvero spculazione sui tassi delle valute, dell’oro sui massimi storici a oltre 1.130 dollari l’oncia, del petrolio tornato a 80 dollari dai 40 di circa sei mesi fa. Finche’ non scoppiera’ la nuova bolla. Alcuni analisti indicano anche una data: 2012. Le scommesse sono aperte.
 

Fonte - Miaeconomia

 

 

 

 

 

 

Meredith Whitney: meglio prendere profitto sulle grandi banche Usa

 mercoledì, 18 novembre 2009 - 10:54 NEW YORK - di BlueTG.it
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E’ tempo di tirare le reti in barca secondo l’analista americana Meredith Whitney, ex manager di Oppenheimer & Co. poi messasi in proprio, diventata famosa, come ricordano stamane gli analisti di UniCredit, per avere correttamente preannunciato molti degli errori compiuti negli ultimi anni delle banche.
La Whitney ieri ha affermato che il settore creditizio è ormai ben capitalizzato ed è giunto il tempo di ridurre il peso in portafoglio dei titoli delle banche a larga capitalizzazione. La Whitney ha anche aggiunto di non credere che il rally di Wall Street si basi sui fondamentali e si è confermata scettica, come è stata finora, sull’andamento dei mercati nel prossimo futuro. (l.s.)

 

Fonte - BlueTG.it

 

 

 

E IL MERCATO MIGLIORA E BERNANKE ATTIVA I PRIMI PASSI DELLA EXIT

18 Novembre 2009 10:00 SIENA - di Carmela Pace
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La Fed ieri ha annunciato che, a partire dal 14 gennaio 2010, ridurrà la durata della discount window a 28 giorni dagli attuali 90 sulla linea di credito primaria (Primary Credit) per i prestiti diretti alle banche, disponibile solamente ad un numero limitato di istituzioni. Si tratta di un tentativo di cominciare lentamente a rimuovere alcune misure di emergenza dopo i miglioramenti nelle condizioni del mercato finanziario. Anche la giornata odierna è ricca di dati macro, tra i quali segnaliamo i prezzi al consumo ed i dati immobiliari di ottobre relativi all’apertura di nuovi cantieri. Sul decennale governativo il supporto si colloca al 3,30%.
 

 

Fonte - MPS Capital Services

 

 

DIFFIDARE DELLA FED: ALERT RISCHIO BOLLE

18 Novembre 2009 00:30 NEW YORK - WSI
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Dalla Banca Centrale continuano a piovere parole rassicuranti circa le decisioni di politica monetaria. Ma cosi' facendo l'effetto che ottiene e' esattamente il contrario. La migliore strategia? Mantenere un approccio "aggressivamente neutrale".
La Federal Reserve ha cercato di confortare il mondo finanziario, assicurando che non c'e' il rischio di nessuna bolla. Ma con il dollaro in caduta libera, l'oro che continua a stabilire nuovi record e i prezzi del petrolio in impennata, le parole della Banca Centrale vanno interpretate proprio come un rischio di un rigonfiamento della bolla inflativa.

Secondo quanto riferito ieri da Ben Bernanke, numero uno della Banca Centrale americana, l'istituto sta monitorando da vicino l'andamento dei mercati valutari, perche' il suo obiettivo e' quello di alimentare sia la creazione di posti di lavoro che la stabilita' dei prezzi.

Tuttavia Art Cashin, direttore delle operazioni finanziarie di UBS Financial Services, ritiene che dietro le parole di Bernanke si nasconda un tranello. "Non solo ha detto che non scoppiera' nessuna bolla, ma ieri sera il vice presidente della Fed Donald Kohn e' arrivato ad affermare con decisione che non si sta gonfiando nessuna bolla, aggiungendo che parte dell'obiettivo delle politiche della Fed e' quello di spingere la gente a investire negli asset piu' rischiosi", ha dichiarato Cashin ai microfoni dell'emittente televisiva Usa CNBC.
Quindi sono arrivate le parole pronunciate da Hong Kong dal presidente della Federal Reserve di San Francisco, Janet Yellen, secondo cui "non c'e' nessuna bolla". A questo punto "la sensazione che si ha e' che sia proprio il contrario, proprio perche' tutti i membri della Fed stanno continuando a tranquillizzare i mercati con una insolita frequenza e ostinazione, dicendo di non preoccuparsi per le decisioni prese dalla Fed in materia di politica monetaria".

Non sarebbe la prima volta che le decisioni della Banca Centrale si rivelano deleterie. Mantenendo i tassi guida su livelli molto bassi per un periodo prolungato, l'ex presidente della Fed, Alan Greenspan, ha provocato lo scoppio di una bolla. Cashin teme che una situazione simile si ripeta, con i tassi di interesse ancora fermi in una forchetta compresa tra lo 0 e lo 0.25% dove secondo le previsioni degli analisti rimarranno ancora per altri trimestri.

"Sembra che si stia gonfiando piu' di una bolla sui mercati", ha continuato Ashin, riferendosi al tracollo del dollaro e alla contemporanea impennata delle quotazioni del metallo prezioso. "E' per questo che la Fed sente la necessita' impellente di continuare a negarlo".

"Se il dollaro continua a indebolirsi potrebbe esercitare una pressione inflativa sempre maggiore e sembra che la Fed si occupera' di risolvere il problema rappresentato da quelle pressioni, piuttosto che intervenire direttamente sul dollaro", ha detto l'analista, rispondendo ad una domanda circa eventuali cambiamenti nelle politiche volte a sostenere il biglietto verde.
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

La Bce avvia l'exit strategy con una prima stretta sulle Abs

20 Novembre 2009 18:54 MILANO - di Il Sole 24 Ore
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Seppure con circospezione, l'exit strategy muove i primi passi. La Banca centrale europea ha deciso di avviare la graduale riduzione delle misure straordinarie di stimolo al sistema finanziario adottate a partire dall'inizio della crisi due anni fa. In particolare le banche ora sanno che la fase della liquidità facile imbocca una strada diversa.

L'istituto centrale di Francoforte ha reso noto, infatti, che le cartolarizzazioni garantite da asset-backed securities (Abs) che verranno emesse a partire dal prossimo 1 marzo 2010 potranno essere accettate dall'Eurotower solo se provviste del rating di almeno due diverse agenzie e per la loro utilizzabilità ai fini dei prestiti conterà il rating più basso. Questa medesima regola verrà poi estesa a tutte le cartolarizzazioni - indipendentemente da quando sono state emesse - a partire dal 1 marzo 2011.
L'attuale livello dei tassi di interesse, in ogni caso, è e resterà «molto basso», ma la Bce è determinata a riassorbire la liquidità per garantire la stabilità dei prezzi, ha commentato il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, nel corso di una conferenza a Francoforte. Il numero uno dell'Eurotower ha spiegato che «non tutte le misure per rafforzare la liquidità saranno necessarie come in passato» e che «ogni misura straordinaria che dovesse minacciare la stabilità dei prezzi deve essere eliminata tempestivamente e inequivocabilmente».
Da Parigi Lorenzo Bini Smaghi, membro del consiglio direttivo dell'Eurotower ha precisato che «visto che l'uscita sarà graduale e comporterà due dimensioni, cioè le misure non standard attuate dalle banche centrali e il livello dei tassi di interesse, vi è il rischio che gli operatori di mercato interpretino una decisione relativa a una parte di questa exit strategy come propedeutica a misure anche dall'altra part»". Bini Smaghi ha aggiunto che è troppo presto pensare ora a preparare nei dettagli un percorso di uscita perché ci sono ancora molti elementi di incertezza nell'economia e non ci si può di conseguenza impegnare ora a una particolare sequenza di provvedimenti di ritiro degli stimoli.
Tornando a Trichet, il presidente della Bce, ha poi rivolto un nuovo deciso appello alle banche affinché utilizzino gran parte degli aiuti ricevuti per erogare credito alle famiglie e alle imprese anziché per finanziare nuovi maxi-bonus. «I benefici devono essere utilizzati in via prioritaria per rafforzare capitali e riserve piuttosto che per pagare dividendi o indennità non meritate», ha dichiarato Trichet nel suo intervento di fronte a un'assemblea di banchieri.
«Le misure di sostegno a favore delle banche - ha aggiunto - sono state adottate in ragione del loro ruolo nell'economia e non per il beneficio della banche stesse». Per questo, ha aggiunto il governatore, «le indennità e i bonus devono essere contenuti». Trichet ha concluso esortando i banchieri a «comprendere le inquietudini delle nostre democrazie per quanto concerne indennità e bonus» e ha sottolineato l'urgenza di «eliminare gli incentivi a prendere rischi assurdi».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Grecia sull'orlo della bancarotta

20 Novembre 2009 19:49 MILANO - di Vittorio Da Rold
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I titoli di stato greci stanno perdendo terreno da una settimana portando il differenziale con i bund tedeschi ai massimi da luglio e facendo salire il timore che gli investitori stranieri possano decidere di portare i loro soldi in luoghi più sicuri.
Il termometro della febbre di Atene, l'anello debole di Eurolandia, è uno spread arrivato a ben 170 punti base, il punto più elevato dallo scorso 14 luglio: ieri il differenziale è salito di altri 13 punti raggiungendo il tasso del 4,98%, rispetto al 3,27 dei bund tedeschi, una nuova voragine per il Tesoro greco costretto così a pagare un sovrapprezzo per non rischiare di avere le aste deserte.
Il problema è che il deficit per il 2009 è salito al 12,7%, il più elevato dell'Unione europea dopo quello irlandese, mentre il governo del socialista George Papandreou, appena nominato, ha annunciato di volerlo ridurre al 9,8% l'anno prossimo. L'Ocse però avverte che nel 2011 il disavanzo tornerà al 10% perché le misure annunciate dall'esecutivo sono una tantum.
«Inutile negare che i nodi stanno venendo al pettine», ammette un analista locale. Le previsioni di deficit del budget iniziali erano al 3,7% e in pochi mesi sono schizzate oltre il 12,7 per cento. La Commissione europea, sempre più impaziente, la settimana scorsa ha aperto una procedura di deficit eccessivo e ha chiesto al Consiglio di mandare un monito ad Atene usando l'articolo 104.8 del Trattato di Maastricht (che prevede di rendere pubbliche le raccomandazioni della Commissione come forma di pressione), una procedura usata solo due volte in passato: nel 2006 per la Germania e nel 2004 per la stessa Grecia. Il Consiglio vuole evitare di applicare sanzioni ma è molto preoccupato. Senza contare che l'esposizione delle banche di Francia, Germania e Italia nei confronti della Grecia ammontava a giugno, secondo dati della Bri, a 122 miliardi di dollari.
Anche l'Ocse ha lanciato l'allarme sulla tenuta dei conti pubblici mentre l'ufficio statistico greco ha annunciato il calo del Pil dello 0,3% nel terzo trimestre, un segnale in controtendenza rispetto a quasi tutti gli altri paesi che cautamente stanno risalendo la china.
In un contesto di politica monetaria dove la Bce è intenzionata a ridurre la liquidità in circolazione la situazione greca pesa anche sulle banche locali, che hanno perso terreno in borsa sull'onda di indiscrezioni secondo le quali sarebbero state invitate a ridurre la loro esposione in bond per favorire i prestiti alle imprese.
Ora il nuovo Governo si trova a un bivio: da un lato deve, come promesso in campagna elettorale, rilanciare l'economia aumentando la spesa pubblica mentre dall'altro deve ridurre il deficit di bilancio per ridare fiducia agli investitori.
Così il governo socialista greco, alle prese con la Finanziaria che verrà discussa a giorni in parlamento, si appresta a congelare salari, pensioni e assunzioni per far fronte all'emergenza economica. Con la nuova legge di bilancio saranno bloccati salari e pensioni al di sopra di duemila euro lordi mensili: un provvedimento che riguarderebbe 500mila impiegati e 400mila pensionati su una popolazione di 11 milioni di persone. Gli altri avranno aumenti appena sopra il tasso di inflazione. Inoltre saranno bloccate per il 2010 tutte le assunzioni pubbliche, salvo i settori chiave di sanità, scuola e sicurezza. Naturalmente questi annunci hanno fatto salire la tensione sociale già elevata. L'organo del partito comunista, Rizospastis, denuncia «un attacco frontale» contro i lavoratori e ha convocato una mobilitazione di piazza per il 24 novembre.
Secondo il quotidiano di destra Adesmeftos Typos «Papandreou si è rimangiato le promesse elettorali» di continuare ad aumentare salari e pensioni al di sopra dell'inflazione. La stampa socialista ha annunciato le misure parlando di un «piano di austerità» ma anche di «un'iniezione di liquidità» e investimenti nell'economia per 10 miliardi di euro grazie e fondi nazionali ed europei, senza però chiarire da dove arrivino le risorse. Per il conservatore Kathimerini si tratta però di «timide misure» senza riforme strutturali. Papandreou ha avvertito che il Paese rischia la bancarotta, lamentando di essersi trovato una situazione finanziaria molto peggiore di quella che era stata annunciata dal precedente esecutivo.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

 

  Oro nuova assicurazione contro il fallimento del sistema finanziario

22 Novembre 2009 11:12 MESSINA - di Leon Zingales*

*Leon Zingales, PhD in Fisica, Dipartimento di Matematica all'Università di Messina e collaboratore di WSI e' anche il curatore del bel blog Il cigno nero.

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Due eventi possono accadere ed anche susseguirsi, pur se apparentemente
opposti: una lunga deflazione o una elevata inflazione. Tali accadimenti possono sembrare antitetici, ma in realtà, per chi è consapevole della caoticità intrinseca nei processi economici, rappresentano due facce della medesima medaglia.
Come un'onda anomala è preceduta e seguita da un poderoso ritiro delle acque, cosi' stagflazione e deflazione sono eventi che nella storia si sono sovente alternati.

Il Giappone, negli anni 90, fu caratterizzato un eccesso di capacità produttiva contemporaneamente ad un crollo dei consumi. Il tasso ufficiale di sconto fu diminuito fino a quando raggiunse lo 0,5% nel settembre del 1995 e successivamente, dopo 3 anni di valore costante, nel settembre del 1998 fu ulteriormente diminuito fino a raggiungere la soglia dello 0,25%. Ma i bassi tassi non riuscirono a far resuscitare il mercato (già Keynes aveva compreso durante la Depressione del 1929 che in caso di deflazione la politica monetaria è praticamente inutile).

Il Debito Pubblico Giapponese volò in pochi anni fino a raggiungere quasi il 200% e tutto per puntellare il sistema di banche in tremende difficoltà. Gli americani, in scala molto più grande e con l?aggravio di una disoccupazione a due cifre, stanno ripetendo gli stessi errori giapponesi, primo fra i quali continuare la distruzione delle risorse pubbliche onde fornire energia monetaria al sistema finanziario.

Bisogna sfatare il mito che il Quantitative Easing (ossia creazione di moneta da parte delle Banche Centrali con conseguente allargamento della base monetaria) debba determinare obbligatoriamente inflazione. Recenti dati (fonte il noto sito www.mathinvestdecisions.com) rivelano che attualmente la base monetaria degli Stati Uniti è del 50% superiore rispetto alla media estrapolata (attualmente è vicino a 2000 miliardi di dollari) mentre la M2, ossia la moneta totale è del 2% inferiore rispetto alla media estrapolata del trend. Inoltre dagli ultimi dati disponibili anche ha una inflazione anno su anno negativa tanto nell'Eurozona (-0.1% ad Ottobre) che in Usa (-1.3% a Settembre) e Giappone (-2.2% a Settembre).

In parole povere non c'e' alcuna traccia di inflazione perché l'aumento della base monetaria è servito soltanto a cercare di tamponare le falle del sistema bancario, è stato il tappo che per ora è riuscito ad evitare il crollo del sistema finanziario. Infatti il denaro stampato non entra in circolo e quindi non determina inflazione, sta semplicemente servendo a neutralizzare i rifiuti tossici che sono in possesso del sistema finanziario.

Allo stato attuale (naturalmente non mi sento di escludere che in un prossimo futuro verremo investiti dallo tsunami della stagflazione) è probabile una deflazione, piuttosto che un'elevata inflazione come è anche rivelato dal mercato dei Treasury Bonds che misura un'inflazione media degli USA molto bassa anche per i prossimi anni (si deduce indirettamente dal rendimento dei inflation-linked Bonds, ossia dei Bonds collegati all'inflazione).

Ed allora, con inflazione prevista a livelli molto bassi (se non addirittura negativi), perché l'oro aumenta? Dopo l'abbandono da parte dell'Amministrazione Nixon nell'Agosto del 1971 della convertibilità tra oro e Dollaro ed il conseguente distacco tra l'economia reale e finanziaria (si creò un Dollaro monetarista strettamente associato alla speculazione finanziaria), l'oro ha assunto tradizionalmente il ruolo di assicurazione contro l'inflazione.

Ma nell'attuale crisi, tale spiegazione non può essere accettata. Credo che l'attuale repentino aumento dell'oro assuma il significato di un'assicurazione contro il fallimento dell'intero sistema finanziario, rappresenti un altro modo per andare short sul Dollaro, ossia per scommettere sull'inevitabilità di una progressiva svalutazione della moneta americana. Non è l'oro che sta aumentando di valore, ma è l'intero sistema valutario che si sta indebolendo trascinato nel baratro dal Dollaro e dai debiti pubblici in esponenziale aumento.  
 

Fonte - WallStreetItalia

 

 

 

 

 

 

Banche, Abi: sofferenze in crescita in prima parte 2010

lunedì, 23 novembre 2009 - 13:24 - di Giselda Vagnoni
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Le sofferenze delle banche italiane dovrebbero continuare ad aumentare per tutti i primi sei mesi del 2010 in conseguenza del ritardo con cui tali poste si manifestano rispetto all'andamento dell'economia.
Lo ha detto il direttore generale dell'Associazione bancaria italiana (Abi), Giovanni Sabatini, in un incontro con i giornalisti durante il weekend in cui ha anche delineato i rischi del dopo crisi per gli istituti di credito italiani provenienti dalla politica fiscale e dalle nuove regolamentazioni internazionali.
Secondo le stime dell'Abi a fine anno le perdite sui crediti del sistema bancario in Italia non saranno lontane dai 20 miliardi di euro. A fine settembre le sofferenze lorde erano pari a 55 miliardi in crescita del 25,4% su anno e le sofferenze nette erano il 10,83% del patrimonio di vigilanza, nuovo massimo dal marzo 2005.
"Non credo che il picco delle sofferenze sarà raggiunto a fine anno", ha detto Sabatini.
"Le criticità vengono registrate con almeno 3 mesi di ritardo. Penso che peggioreranno anche nella prima parte del 2010 e poi forse si comincerà a risalire".
Al contrario di altri Paesi, in Italia non è stato necessario alcun salvataggio pubblico delle banche a fronte della crisi di liquidità innescata dal settore dei mutui subprime americani.
La ragione, secondo gli economisti, è legata al fatto che gli istituti di credito italiani fanno meno finanza e sono più concentrati nell'attività tradizionale di prestiti a imprese e famiglie rispetto ai concorrenti esteri.
La crisi economica ha comunque aggredito con forza i risultati delle banche della penisola.
Le ultime stime Abi sui conti economici delle banche vedono una contrazione del margine d'interesse nel 2009 pari al 7% e una tenue ripresa nel 2010 con una crescita dello 0,2%.
Il risultato lordo di gestione è previsto calare nell'ordine del 13% e l'utile netto nell'ordine del 45%.
La recessione senza precedenti nella storia più recente costringe da un lato le banche italiane a essere molto selettive nell'erogazione del credito per non ritrovarsi con una voragine di crediti incagliati o inesigibili, dall'altra a fronteggiare le richieste-minacce del governo di non ritirare i finanziamenti alle imprese in questo momento critico per l'economia del Paese.
Ma Sabatini ritiene che in Italia "non ci sia una situazione di credit crunch".
"Il trend degli impieghi è ancora positivo da noi mentre il trend europeo è -0,3%. Anche l'indicatore sull'intensità creditizia (stock del credito in rapporto al Pil) ha subito una decelerazione ma non è mai sceso", ha ricordato.

CAMPO DI GIOCO LIVELLATO

Secondo uno studio presentato dal centro studi dell'Abi nel biennio della crisi trim3 del 2007-trim2 del 2009, lo stock effettivo dei prestiti si è mantenuto ben al di sopra del livello teorico previsto sulla base delle relazioni funzionali stimate prima della crisi con un delta, una sorta di "extracredito", stimabile in sopra gli 80 miliardi di euro.
"Il problema è più di domanda di credito che non di offerta", ha sintetizzato Sabatini.
"L'origine della domanda di credito avanzata dalle imprese è concentrata sulla ristrutturazione del debito e non sugli investimenti e sulla ricostruzione delle scorte. La domanda di credito si riduce per effetto del ciclo economico e quindi si riflette su un aumento delle sofferenze e sulle perdite sui crediti".
Le banche in cambio del proprio impegno sul fronte finanziamento alle imprese chiedono da tempo al governo un trattamento fiscale più favorevole sulle perdite sui crediti e mettono in guardia su nuovi standard di patrimonializzazione che risultino penalizzanti per gli istituti, come quelli italiani, la cui attività è concentrata in modo massiccio nei prestiti a famiglie e imprese.
"Vorremmo un piano di gioco livellato", ha spiegato Sabatini, direttore generale Abi dallo scorso giugno dopo essere stato dirigente Consob e capo del dipartimento del Tesoro (NYSE: TSO - notizie) .
"Le banche italiane dopo la crisi potrebbero partire da una situazione di svantaggio".
Le banche italiane lamentano di non poter dedurre integralmente le perdite sui crediti ma solo lo 0,30%, il resto in 18 anni.
Anche il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha chiesto al governo di riconsiderare il trattamento fiscale delle perdite su crediti che in Italia ha effetti prociclici al contrario di quanto avviene in altri Paesi europei.
Sul fronte interno desta preoccupazione anche la mancata revisione della normativa penale sui fallimenti che espone gli istituti di credito a rischi elevati proprio in una fase in cui si chiede alle banche di stare più vicine alle imprese in via di ristrutturazione.
Sul fronte internazionale, invece, le banche italiane cercheranno di evitare che nel rivisitare la normativa di Basilea con l'intento di rafforzare i requisiti patrimoniali delle banche "non si distingua tra banche commerciali e banche di investimento", ha detto ancora Sabatini.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

Questa volta preoccupano le insolvenze di quelli per immobili commerciali

23-11-09 - di Marco Caprotti
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Lo spettro dei mutui torna a far rizzare i capelli alle banche. Nell’ultimo mese (fino al 23 novembre e calcolato in euro) l’indice Msci del comparto ha perso il 4,3% rendendo ancora più difficoltosa la strada per recuperare il 53,3% che si era lasciato dietro nel 2008.

A preoccupare gli investitori, come nel 2007, è ancora il numero delle insolvenze registrate negli Stati Uniti. Ma se due anni fa il problema era legato all’immobiliare residenziale, questa volta a far sudare freddo è il commercial real estate. Secondo i dati di RBC Capital Markets nel terzo trimestre il numero dei debiti che non saranno ripagati è cresciuto del 20%, dopo il +28% registrato nel periodo da aprile a giugno. “Ad avere maggiori preoccupazioni sono soprattutto gli istituti di piccole e medie dimensioni”, spiega uno studio di RBC. “Quelli grandi, nel periodo più brutto della crisi hanno ottenuto gli aiuti del governo. Gli altri, per far fronte alle perdite della voce mutui, nella maggior parte dei casi si sono dovuti affidare ad aumenti di capitale. Una nuova scossa potrebbe metterli in seria difficoltà, anche perché l’amministrazione Usa ha già detto di non avere intenzione di correre al salvataggio un’altra volta”.

Questa situazione si inquadra in una fotografia macroeconomica poco incoraggiante, alla quale le banche sono molto sensibili. Secondo quanto indicato dal dipartimento del Tesoro Usa, il debito pubblico ha superato la soglia dei 12 mila miliardi di dollari (circa l’80% del Pil Usa 2008). Inoltre, risulta in forte calo anche il numero dei nuovi cantieri, sprofondato inaspettatamente del 10,6% al livello minimo degli ultimi sei mesi.

Una situazione per certi versi simile si sta registrando nel Vecchio continente. In Inghilterra, che di solito registra per prima i segnali che arrivano da Oltreoceano. Gli istituti di credito si trovano a fare i conti con clienti (in prevalenza aziende) che non intendono utilizzare prestiti che erano già stati approvati. In pratica, per le banche che li avevano accordati si tratta di soldi che non daranno interessi. Secondo gli ultimi dati della Bank of England i prestiti alle imprese sono scesi di 4,6 miliardi di sterline, il dato peggiore dal 1999. La colpa, sottolinea l’istituto centrale britannico, non è soltanto delle maggiori garanzie richieste dalle banche, ma anche della prudenza delle aziende che preferiscono non rischiare in un periodo di grande incertezza.

In Asia, i radar degli investitori sono puntati su quello che succede in Cina. Nel Paese del drago, infatti, continuano a avvenire debutti in Borsa, soprattutto nel comparto bancario. Nei prossimi giorni entrerà in contrattazione ad Hong Kong il titolo China Minsheng Banking. L’istituto, nel periodo del collocamento ha raccolto 30,1 miliardi di dollari di Hong Kong (2,6 miliardi di dollari) aggiudicandosi la palma di Ipo più ricca del territorio dall’aprile 2007. Nel frattempo si attendono i dettagli della quotazione di Industrial Bank. Il management dell’istituto conta di poter raccogliere 18 miliardi di yuan (1,7 miliardi di euro) grazie alla quotazione che avverrà nel 2010.
 

Fonte - www.MorningStar.it

 

 

MEREDITH «MAI STATA TANTO NEGATIVA IN UN ANNO»

24 Novembre 2009 00:25 NEW YORK - WSI
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L'analista preferisce "star seduta" sul cash fino a quando "ci sara' un'altra gamba al ribasso delle valutazioni". "Il rally azionario non e' giustificato". "In questo momento e' tutto caro". E si ricadra' in recessione.
In un'intervista alla rete TV Cnbc Meredith Whitney, l'analista che ha previsto sia il crollo di Wall Street nel 2008 sia il forte recupero del mercato da marzo in poi, fondato sui titoli bancari, ha detto di recente che "non e' stata cosi' ribassista in un anno". La Whitney ha inoltre previsto un secondo sprofondamento in recessione dell'economia americana dopo la ripresa (cosidetto "double dip") anche se la seconda gamba della W sara' meno severa della prima.
1) Il settore bancario "oggi non e' adeguatamente capitalizzato".
2) Ci sara' un'altra gamba al ribasso nei prezzi delle case, quando i prezzi e i tassi dei mutui cominceranno a muoversi in giu'. Il rischio e' ancora maggiore nel mercato immobiliare residenziale piu' che in quello commerciale.
3) Questa borsa "non ha senso" e "non c'e' alcuna ragione fondamentale che giustifichi il recente rally azionario".
4) Nel settore bancario la maggiore differenza tra il mercato oggi e l'anno scorso e' che adesso non c'e' piu' il "mark-to-market". "Le banche torneranno al book value tangibile". I titoli bancari vanno venduti.
5) La Withney preferisce "star seduta" sul cash fino a quando "ci sara' un'altra gamba al ribasso delle valutazioni" e stima che "in questo momento e' tutto caro".
 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

CINA: MASSICCIA RACCOLTA FONDI PER LE BANCHE

24 Novembre 2009 16:54 NEW YORK - APCOM
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I maggiori istituti bancari cinesi si preparano ad un piano che prevede la raccolta di quasi 30 miliardi di euro. Obiettivo: riallineare i livelli di capitale ai requisiti regolamentari.
Le maggiori banche della Cina preparano massici piani di raccolta di fondi, necessari a riallineare i loro livelli di patrimonializzazione ai requisiti regolamentari, dopo che nei mesi scorsi hanno innondato crediti nell'economia del Dragone. Lo riporta il Financial Times, che nell'edizione online cita le stime degli analisti di Bnp Paribas, secondo cui le 11 maggiori banche quotate della Cina dovranno raccogliere almeno 300 miliardi di yuan, o 29,3 miliardi di euro.

Intanto oggi i mercati azionari cinesi sono stati depressi proprio dalle attese di possibili strette regolamentari sui livelli di patrimonializzazione delle banche. A breve si svolge la riunione annuale del governo sulla pianificazione economica e ieri le autorità cinesi hanno ordinato alle banche di migliorare i controlli sull'erogazione di prestiti e sulla gestione dei rischi.

Secondo l'Ft, a seguito delle precedenti istruzioni per aumentare il credito all'economia, nei primi 10 mesi dell'anno le banche cinesi hanno riversato oltre 8.900 miliardi di yuan nel sistema, a fronte di 5.260 miliardi di prestiti dello stesso periodo di un anno prima. Oggi la Borsa di Shanghai ha chiuso in calo del 3,5 per cento, mentre la più piccola Shenzhen ha registrato un meno 4,3 per cento.
 

Fonte - APCOM

 

 

ECCO COME BILL GROSS HA CAMBIATO IL PORTAFOGLIO

24 Novembre 2009 11:56 SIENA - di Carmela Pace
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Bill Gross, gestore di Pimco, ad ottobre ha incrementato la propria allocazione in Treausury al 63% dal 48% di settembre, portandola ai massimi dal luglio 2004. Contemporaneamente ha ridotto le posizioni sugli asset con i mutui come collaterale portandole ai minimi dal maggio 2004 (16%). Un articolo di Bloomberg News segnala che, secondo fonti anonime, la Federal Reserve ha richiesto alle nove banche Usa che hanno preso parte agli stress test, di presentare dei piani nel quale indicare le modalità ed i tempi per restituire il capitale del governo ottenuto tramite il piano Tarp. Nel complesso le nove banche hanno ricevuto 142Mld$ di fondi. Tra le principali che devono ancora restituirli figurano Bank of America, Citigroup e Wells Fargo.
 

Fonte - MPS Capital Services

 

 

 

 

 

  Giovedì 26 Novembre 2009   Venerdì 27 Novembre 2009   Sabato 28 Novembre 2009  
       
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Fondi sovrani in rotta sugli emergenti

24-11-09 - di Valerio Baselli
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I mercati emergenti sono entrati nel mirino dei fondi sovrani. Almeno questa sembra la tendenza generale. I fondi sovrani, come molti altri strumenti d’investimento, hanno dovuto subire i duri colpi della crisi finanziaria. Ora che la tempesta sembra essere passata, hanno innescato un processo di rinnovamento delle proprie strategie e dei propri obiettivi.
Molto è cambiato. Se prima l’obiettivo prediletto erano le grandi società occidentali, ora sono i mercati in via di sviluppo. Se prima l’orizzonte era di breve termine, ora è di lungo. Lo tsunami finanziario appena passato è stato una vera e propria rivoluzione, che ha spazzato via alcune convinzioni prima radicate. Alcuni investimenti in società prima considerate infallibili sono letteralemte crollati. I vecchi assiomi del tipo too big to fail non sembrano valere più. E anche dal punto di vista geografico sono venute meno molte sicurezze.
Temasek, uno dei due grandi fondi sovrani di Singapore, ha deciso pochi mesi fa di incrementare la sua esposizione ai mercati emergenti fino all’80%, e di conseguenza ridurre la quota destinata ai Paesi Ocse. Cic, che sta per China investment corporation, ovvero il fondo sovrano cinese, sta puntando molto sull’Asia, in particolare sul sud-est asiatico. Anche i fondi localizzati in Medio Oriente stanno seguendo la scia.
Fino a un paio di anni fa, i Sovereign Wealth Funds erano al centro di un importante dibattito internazionale, sfociato poi nella firma (nel settembre 2008) dei “Principi di Santiago”, ovvero un accordo su 24 principi guida nell’utilizzo di questo tipo di strumenti. In particolare, in passato i Paesi occidentali mostravano preoccupazione per l’afflusso di ingenti capitali di provenienza asiatica o medio-orientale nelle proprie imprese. Questi capitali, controllati direttamente dai governi, apparivano sempre meno come semplici creditori e sempre più come proprietari delle società oggetto degli investimenti.
“Ad essere onesti”, commenta Stefano Gatti, direttore del corso di laurea in Economia e finanza presso l’università Bocconi di Milano, “Questo è un pericolo più potenziale che reale. Almeno fino ad oggi”. Infatti, continua Gatti, “l’evidenza dimostra come l’ingresso nel capitale azionario non sia mai stato finora invasivo”. In altre parole, “le scelte manageriali sono sempre rimaste indipendenti”.
Tutto bene dunque? Non proprio. Il problema vero sta nel bassissimo grado di trasparenza della maggior parte dei fondi sovrani. “Se questo tipo di fondi entra in investimenti strategici per il Paese”, afferma il professore, “pezzi di capitalismo storico passano in mano ai governi esteri”. Il problema nasce quando l’investitore estero non è trasparente nelle proprie strategie e finalità.
“In realtà”, prosegue Gatti, “allo stato attuale anche i Principi di Santiago sono una dichiarazione puramente formale. Sono ad adesione volontaria. Inoltre, anche per chi aderisce non c’è un vero e proprio controllo che ne assicuri il rispetto”.
Con lo scoppio della crisi, i fondi sovrani sono stati in parte dimenticati. Anche perché, come molti investimenti finanziari, hanno subito il pesante contraccolpo della caduta dei mercati e il loro impatto sulle economie si è piuttosto affievolito. Ora, con la risalita dei listini, sembrano aver trovato nuova linfa vitale.
Ma cosa sono esattamente i fondi sovrani? Secondo la definizione del Fondo monetario internazionale sono “speciali fondi d’investimento creati o posseduti da Stati sovrani al fine di detenere attività in valuta estera”. Quindi sono fondi a controllo statale, creati da quei Paesi che presentano un surplus fiscale o grandi riserve di valuta; storicamente, Paesi esportatori di petrolio e altre materie prime. Ad oggi i fondi sovrani esistenti sono circa una quarantina e gestiscono 3 mila miliardi di dollari.
L’interesse che questi capitali stanno mostrando per i mercati emergenti e il conseguente e progressivo allontanamento dalle economie occidentali dovrebbe farci riflettere. Anche se, come suggerisce il professor Gatti, potrebbe essere una scelta dettata dalle disastrose performance degli ultimi 18 mesi. Inoltre, l’afflusso di questo denaro non porterà benefici solo ai Paesi prescelti, ma anche alle società occiendentali che hanno interessi economici in quelle aree.
 

Fonte - www.morningstar.it

 

 

Qualcosa ci sfugge?

Tuesday, 24 November, 2009 at 12:23 - by phastidio
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Da una decina di giorni, sui mercati del debito sta verificandosi un fenomeno strano e non immediatamente spiegabile. I rendimenti dei titoli di stato nella parte lunga della curva sono in diminuzione, ed anzi l’intera curva dei rendimenti mostra un movimento di appiattimento (bull flattening) in cui i rendimenti a lungo scendono più di quelli a breve.
Questo movimento, comune all’Area Euro come al Giappone ed agli Stati Uniti, tende ad essere interpretato come riduzione dei timori inflazionistici da parte del mercato. Eppure, in parallelo ad esso, si osserva un allargamento dei breakeven inflation rates impliciti nei titoli indicizzati all’inflazione. Cioè questo mercato continua a scommettere su un aumento dei prezzi. Il mercato dei nominals dice quindi cose opposte a quello degli inflation linked.
Una spiegazione, per quanto banale, è da ricondurre al generale movimento di carry trade in atto sui mercati. Ci si indebita a breve a tassi prossimi allo zero, e si compra la parte a lunga della curva dei rendimenti sui titoli di stato per lucrare il differenziale, oppure si dà corpo alle proprie visioni inflazionistiche comprando titoli legati all’inflazione, ed auto-avverando la profezia inflazionistica.
La leva finanziaria sta ormai inficiando ogni lettura in chiave macroeconomica dei movimenti di mercato. Qualcosa di cui le banche centrali dovrebbero tenere auspicabilmente conto.

 

Fonte - Macromonitor.it

 

 

 

 

 

 

  Dubai, rischio default per colossi statali, balzano cds

giovedì, 26 novembre 2009 - 17:58 - REUTERS

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(Reuters) - Arriva dal mondo arabo il nuovo terremoto per le borse, spaventate dai problemi debitori del Dubai legati al colosso statale Dubai World e alla controllata Nakheel.
In giornata i credit default swaps a cinque anni dell'emirato del Golfo Persico, che esprimono il costo per assicurare il debito sovrano, hanno toccato un picco a 580 punti base, dicono i trader, dai 300 pb anteriori all'annuncio del piano di ristrutturazione. Servirebbero quindi oltre 500.000 dollari per assicurare in cinque anni 10 milioni del debito nazionale.
Questo livello sarebbe adeguato a un paese con un rating sul credito sovrano a 'B', mentre Dubai, come parte degli Emirati Arabi Uniti avrebbe per Moody's un giudizio a 'Aa2'.
Dopo sei anni di frenetico boom delle costruzioni e dell'attività economica, l'alto debito del Dubai aveva già iniziato a preoccupare gli investitori. Ma ieri sera la notizia che il governo ha chiesto una moratoria di sei mesi per ripagare i prestiti della potente holding statale Dubai World e di Nakheel, la controllata attiva nel settore immobiliare, ha comunque colpito molto i mercati.

Il governo di Dubai ha intanto annunciato un piano di ristrutturazione per far fronte all'emergenza.
Dubai World è un colosso statale attivo in quattro aree strategiche di crescita: trasporto e logistica, settore marittimo, sviluppo urbano, servizi finanziari e di investimento. Al suo interno convivono molte società con competenze nettamente differenziate. Tra di esse Dp World, redditizia controllata attiva in campo portuale, non sarà coinvolta nei piano di ristrutturazione, ha precisato il governo.
"Per i nostri criteri si tratta di un default e rappresenta il fallimento del governo di Dubai nel fornire supporto finanziario a una società statale core", ha commentato ieri l'agenzia di rating Standard & Poor's in una nota, abbassando il rating su cinque società di Dubai a 'junk', mentre Moody's ne ha declassate sei ad appena un livello sopra il 'junk'.
"E' scioccante perché negli ultimi mesi le notizie che sono state diffuse avevano confortato gli investitori sulle possibilità di Dubai di far fronte al debito", commenta Shakeel Sarwar, operatore di Sico Investment Bank.

UN DEBITO TROPPO ALTO
La mossa shock di Dubai ha reso evidente quello che si respirava nell'aria già da mesi: l'emirato non ha fondi per ripagare i suoi debiti, mentre dirompente è l'avvicinarsi della scadenza del 14 dicembre per un bond islamico da 3,5 miliardi di dollari di Nakheel.
I creditori di Dubai World e della sua controllata hanno così scoperto che non vedranno il proprio denaro almeno fino al prossimo maggio, sempre che Aidan Birkett, ex direttore di Deloitte chiamato ieri a gestire la ristrutturazione, riesca nel suo incarico.
Il debito totale della società ammonta a 59 miliardi, inclusi i finanziamenti della propria controllata Nakheel, la costruttrice delle famose isole a forma di palma nel cuore dell'emirato. Una cifra spropositata, pari al 70% dell'intero debito di Dubai che sarebbe stimato attorno a 80 miliardi.
Dubai stava già cercando da tempo di ottenere fondi, ma l'annuncio di ieri chiuderà con ogni probabilità ogni porta ai finanziamenti, lasciando lo stato in balia della vicina Abu Dhabi che ha già sborsato fino a 10 miliardi di dollari per venire in suo aiuto.

Pare arrivata la fine del modello di crescita basato su investimenti nell'immobiliare e su flussi in entrata di capitale straniero. In una mossa a sorpresa nel fine settimana l'emiro di Dubai, lo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum ha già sostituito i leader di alcune delle maggiori istituzioni del paese in nome di una svolta conservatrice nella dirigenza.
Dubai è uno dei sette emirati degli Emirati arabi uniti, la federazione nata nel dicembre del 1971 nella penisola arabica. Secondo dati diffusi da enti del paese, il 75% della sua popolazione, che ammonta a circa un milione di persone, viene dall'estero. Rispetto ai suoi vicini ricava soltanto una minoranza del proprio prodotto interno lordo dal petrolio e ha sempre puntato sul turismo.

LE REAZIONI DEL MERCATO
"Tutto quello che è in mano agli arabi viene venduto", commentava già questa mattina un operatore con sede a Francoforte.
Protagonisti di oggi sono stati infatti gli acquisti rifugio, in particolare sui titoli di stato e sulle valute considerate più sicure, come yen e dollaro. Quest'ultimo, dopo aver toccato un minimo record contro l'euro a 1,5141, ha recuperato sulle notizie provenienti da Dubai, scambiando intorno alle 17,45 su 1,4983/86 dollari. E' andata meno bene alla sterlina, scesa ai minimi di un mese contro la moneta unica a 91 pence, sulle preoccupazioni di possibili esposizioni delle banche inglese al debito di Dubai. Proprio le banche hanno vissuto una seduta nera. L'indice di settore ha perso il 4,92%, mentre si rincorrevano le voci sulle esposizioni degli istituti finanziari.
Tra gli altri Ubs (Virt-X: UBSN.VX - notizie) ha ammesso una piccola esposizione e così Allianz, Lloyds, Dnb Nor (Oslo: DNBNOR.OL - notizie) (per 300 milioni di dollari), Hannover Re, Ing. Munich Re nel tardo pomeriggio dichiara che l'esposizione al Dubai ha conseguenze trascurabili sulle sue attività.
Il benchmark paneuropeo Stoxx600 ha lasciato sul terreno il 3,36%.
Ha chiuso a -5,05% la casa automobilistica tedesca Porsche (Xetra: POR3.DE - notizie) in cui il Qatar detiene una quota del 10%. 
 

Fonte - REUTERS

 

 

 

 

  Sukuk ristrutturato? ecco i danni collaterali del crack in Dubai

28 Novembre 2009 18:49 NEW YORK - di WSI

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I tecnici di Deloitte, Rothschild e Alix Partners sono al lavoro sulla ristrutturazione del debito di Dubai World. Varie le opzioni allo studio. La holding potrebbe ripagare, entro il 14 dicembre, il 'sukuk' (bond islamico) da 3,52 miliardi dollari emesso da Nakheel e riscadenziare il resto del debito. Oppure potrebbe essere rimborsato l'80% del debito ai detentori dei bond e alle banche. Oppure moratoria del debito con congelamento dei pagamenti fino al 30 maggio 2010.

Sul fronte bancario-finanziario, il New York Times nota come alcune delle grandi banche inglesi con le piu' forti esposizioni nei confronti degli Emirati Arabi Uniti hanno gia' seri problemi in partenza. La Royal Bank of Scotland (RBS) che dall'anno scorso e' controllata dal governo inglese (fu salvata durante la crisi finanziaria del 2008) e' uno dei creditori di Dubai World, con prestiti complessivi per $2.3 miliardi, stando a un rapporto di J.P. Morgan Chase. Standard Chartered e Barclays sono nella lista delle banche a rischio per aver prestato agli arabi in totale oltre $10 miliardi. HSBC, come abbiamo scritto fin dal primo momento, ha un'esposizione di circa $17 miliardi negli Emirati Arabi Uniti.

Ecco comunque la lista dei paesi creditori degli United Arab Emirates, di cui fa parte Dubai (fonte: Credit Suisse, che cita a sua volta la BIS, Bank for International Settlements) - l'Italia non c'e'!:

United Kingdom: $50.2 billion
France: $11.3 billion
Germany: $10.6 billion
United States: $10.6 billion
Japan: $9.0 billion
Switzerland: $4.6 billion
Netherlands: $4.5 billion

E questa e' la lista delle banche creditrici degli United Arab Emirates (fonte: Credit Suisse, che cita a sua volta Emirates Bank Association):

HSBC Bank Middle East Limited: $17.0 billion
Standard Chartered Bank: $7.8 billion
Barclays Bank Plc: $3.6 billion
ABN-Amro (RBS): $2.1 billion
Arab Bank Plc: $2.1 billion
Citibank: $1.9 billion
Bank of Baroda: $1.8 billion
Bank Saderat Iran: $1.7 billion
BNP Paribas: $1.7 billion
Lloyds: $1.6 billion
Secondo il Wall Street Journal, anche se un default non dovesse provocare una crisi bancaria, potrebbe pero' piu' facilmente dare la stura a una piu' ampia crisi nella fiducia degli investitori soprattutto sul fronte del debito di paesi super-indebitati.

"Sul mercato dei bond legati ai debiti sovrani governativi si notano chiari segnali di stress - scrive il WSJ - con il costo dei CDS (credit default swaps, cioe' il costo dell'assicurazione contro un default) in paesi come Ungheria, Turchia, Bulgaria, Brasile, Messico e Russia in rialzo, sulla scia dei timori che i paesi emergenti potrebbero avere problemi nell'onorare i loro debiti anche nello scenario di un'economia in guarigione. La preoccupazione e' che i debiti sovrani possano ora rappresentare un'altra scossa di assestamento della crisi finanziaria globale".

Intanto si vanno definendo altri dettagli, alcuni sono autorevoli voci ufficiose newyorkesi e altre sono news:

- Secondo UBS (da che pulpito!) gli $80-90 miliardi di indebitamento del governo di Dubai, che sono gia' oltre il 100% del GDP - ma l'Italia e' ben al di sopra del 100% e i 90 miliardi - ma di euro - li paga solo di interessi) sarebbero in realta' sottostimati, per via di bel pacco di miliardi "fuori bilancio" (ed ecco perche' la mossa disperata della moratoria).

- altro alert: il governo del Dubai e' in vacanza (Eid Al-Adha) fino al 6 dicembre.

- il famoso fondo sovrano di Abu Dhabi Sovereign Wealth Fund, di cui si e' sempre detto che e' pronto al salvataggio anche perche' ha in cassa la bellezza di $500 miliardi, sarebbe (ma guarda!) molto meno ricco rispetto alle stime fin qui circolate. L'anno scorso per esempio a Wall Street giro' un rumor insistente su perdite del fondo per $125 miliardi. Secondo Bloomberg infine alcune fonti dicono che il patrimonio del fondo che dovrebbe salvare i cugini sceicchi di Dubai sarebbe soprastimato anche del 100%.

Su un altro fronte, l'India sta esaminando le conseguenze del quasi-default in Dubai in quanto paese col piu' alto ammontare di rimesse degli emigrati dall'estero (circa $10 miliardi l'anno), oltre che come terza potenza economica del continente asiatico. Lo ha detto il governatore della banca centrale dell'India Duvvuri Subbarao.

Circa 4.5 milioni di indiani emigrati vivono e lavorano nella zona del Golfo inviando ogni anno alle famiglie circa $10 miliardi, stando a dati raccolti da Bloomberg. Il caos finanziario in Dubai potrebbe influire negativamente sulle rimesse, ha detto Thomas Issac, ministro delle finanze dello stato indiano di Kerala, da cui provengono 1/4 degli emigrati indiani.

Infine si va chiarendo anche la mappa delle proprieta' di Dubai World negli Stati Uniti. Oltre ad aver acquistato attraverso il suo braccio d'investimento Istithmar World la catena di abbigliamento di lusso Barneys New York nel 2007 per quasi 1 miliardo di dollari (ora e' in serie difficolta' per la recessione nel settore) Dubai World ha rilevato 8 tra palazzi per uffici e hotel, compresi a New York il Mandarin Oriental e il W Hotel e a Miami Beach il 50% del Fontainebleau Hotel (costato tra acquisto e ristrutturazione oltre $1 miliardo).

Gli effetti collaterali del crack in Dubai sono quindi vasti e hanno molte ramificazioni, non solo sul sistema bancario, ma su moltri altri business e sui consumatori. Non e' tanto questione se le banche potranno assorbire le perdite (se vivono e vegetano ancora con i "titoli tossici" e i subprime in pancia a un anno dal collasso sono capaci di tutto; e poi vengono comunque salvate...) quanto piuttosto il fatto che i problemi dell'Emirato potrebbe portare a un prosciugamento del credito nella zona del Golfo e altrove, rendendo piu' complicata la capacita' delle aziende di finanziarsi, stallando cosi' l'avvio verso la ripresa.

Alcuni analisti, citati dall'Associated Press, hanno infine espresso preoccupazioni per il fatto che i guai del Dubai possano frenare o addirittura rovesciare gli acquisti che hanno alimentato il boom di assets (di solito mercato immobiliare) in molti paesi emergenti, dell'Asia e dell'America Latina, dove si erano indirizzati enormi capitali di investitori per una crescita economica entusiasmante rispetto alla pesante recessione in Europa e negli Stati Uniti. 
 

Fonte - WallStreetItalia.com

 

 

 

 

 

 

Banche in sofferenza, rischio di nuova crisi

28/11/2009 - Miaeconomia.it
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La crisi in cui versa la holding degli Emirati Arabi Dubai World, costretta a chiedere una moratoria sul proprio debito da 59 miliardi per i prossimi sei mesi, ha suonato la sveglia sui mercati finanziari. O almeno si spera. Lo stress finanziario di Dubai World e’ solo un caso dei molti che si stanno verificando in questi giorni sui mercati, specialmente nel settore bancario.

Tredici mesi fa eravamo a un passo dal crollo totale e le banche erano in grave crisi. In America le piu’ piccole cadevano come foglie dagli alberi in autunno, mentre le piu’ grandi venivano mantenute a galla con iniezioni di capitali mai vista, dopo il fallimento di Lehman Brohers. Salvataggi che hanno visto protagoniste anche le banche europee, in particolare quelle inglesi, olandesi, tedesche e francesi.
Dopo 13 mesi sembra tutto dimenticato, la crisi superata, le banche in piena salute. Dal 9 marzo a oggi l’indice settoriale bancario italiano ha messo a segno una performance del 180%. Simile la performance di quello europeo.

Ma davvero il settore finanziario e’ stato risanato? Davvero le banche scoppiano di salute? In America le banche piu’ piccole continuano a fallire. In Europa in questi giorni la banca Lloyds Group, controllata al 43% dal tesoro Britannico costretto un anno fa ad entrare nel capitale per salvare l’istituto, ha lanciato un aumento di capitale da 13,5 miliardi di sterline, il maggiore della storia. Il mese scorso in Francia era toccato a BnpParibas e Soc Gen. In Italia quello di Unicredit appena approvato e’ di 4 miliardi di euro. Per non parlare dell’intervento, sempre di questi giorni, del Governo tedesco per salvare WestLB, la banca pubblica del Nord Reno Westfalia. Un aiuto da 4 miliardi che permettera’ di creare la prima Bad Bank in Germania, dove l’istituto riversera’ 85 miliardi di euro di titoli tossici. Senza l’intervento la banca sarebbe fallita. E questi sono solo gli avvenimenti degli ultimi giorni.

Rischio anche in Spagna dove la banca centrale spagnola, facendo eco al monito di Moody’s, ha richiamato il sistema creditizio iberico alla prudenza, consigliando una ripatrimonializzazione di almeno 57 miliardi di euro per fare fronte al deprezzamento degli attivi in portafoglio pari a 108 miliardi. E non basta. La stessa esigenza l’ha manifesta l’autorita’ di controllo cinese del credito, la Cbrc, che ha chiesto alle maggiori banche cinesi di ricapitalizzare per aumentare i ratio patrimoniali. Una richiesta che costera’ alle 11 banche maggiori del paese, 29 miliardi di euro, 300 miliardi di yuan. Notizia che la Borsa di Shanghai ha accolto con un tonfo del 3,5%.

E tutto questo in un contesto economico dove banche e governi stanno tuttora sostenendo l’economia, con tassi ai minimi storici e interventi di politica fiscale. Ma che accadra’ quando la festa finira’? Quando, prima o poi, la strategia di sostegno cessera’ per iniziare l’exit strategy dalla crisi e i Governi chiuderanno i cordoni della Borsa e le Banche centrali rialzeranno il denaro? In questo ha ragione il ministro dell’economia Tremonti, la crisi non e’ un party ma in banca non sembrano averlo capito. E il rischio e’ che la festa si interrompi bruscamente
 

Fonte - www.Miaeconomia.it

 

 

 

CRACK DUBAI: WALL STREET PRONTA A SOSPENDERE LE CONTRATTAZIONI

28 Novembre 2009 00:31 NEW YORK - WSI
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Il NYSE vara in gran segreto un raro provvedimento invocato quando eventi esterni possono compromettere gli scambi azionari, tramite il blocco e la sospensione delle contrattazioni. E lunedi' all'apertura di New York...
Secondo quanto risulta a Wall Street Italia la borsa di New York, il New York Stock Exchange (NYSE) gia' ieri mattina, venerdi', era pronta a varare misure di emergenza dovute alla possibile alta volatilita' dei mercati in conseguenza del default in Dubai. Il NYSE lo fatto tramite l'approvazione, assolutamente non pubblicizzata, della cosiddetta "Rule 48", un raro provvedimento invocato solo quando eventi esterni possono compromettere la normalita' degli scambi azionari, consentendo il blocco e la sospensione a tempo indeterminato delle contrattazioni. L'OK e' arrivato alle 9:10 di mattina, venti minuti prima dell'apertura.
Ieri la seduta a Wall Street e' stata accorciata a meta' per via del lungo ponte di Thanksgiving e quindi i volumi sono stati molto bassi per le assenze di numerosi trader. Poiche' non e' ancora chiaro il significato preciso della norma sul funziamento della Borsa Usa, si tratta di verificare (non ci e' stato possibile farlo per la festivita') se la "Rule 48" e' valida per un solo giorno (venerdi' 27) oppure se sara' prolungata o riemessa anche lunedi' 30 novembre, sessione in cui Wall Street tornera' a girare a pieno regime. In apertura avremo il test autentico per verificare la tenuta del mercato azionario americano in merito al default in Dubai.

Il testo della "Rule 48" e' il seguente:

Rule 48 is intended to be invoked only in those situations where the potential for extreme market volatility would likely impair floor-wide operations at the exchange by impeding the fair and orderly opening of securities. Accordingly, the rule sets forth a number of factors to be considered before declaring such a condition, including:

•Volatility during the previous day’s trading session;
•Trading in foreign markets before the open;
•Substantial activity in the futures market before the open;
•The volume of pre-opening indications of interest;
•Evidence of pre-opening significant order imbalances across the market;
•Government announcements;
•News and corporate events; and,
•Any such other market conditions that could impact floor-wide trading conditions.

 

Fonte - www.wallstreetitalia.com

 

 

 

 

 
 

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