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Macro mondo - settore immobiliare

La stangata dei bond, inflazione e debito

 

ANSA +++ segnali discordanti dagli indicatori macroeconomici USA  +++  ANSA

venerdì 1 agosto 2003   martedì 12 agosto 2003   giovedì 14 agosto 2003   domenica 24 agosto 2003
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  La stangata dei bond, inflazione e debito

21 Agosto 2003  Milano (di *Alessandro Fugnoli)

Consigliamo ai cultori di strategia di portafoglio, agli appassionati di bond e anche a chi non lo è di interrompere qui la lettura e di entrare nel sito di Pimco (il più prestigioso gestore americano di reddito fisso e grande opinion leader del settore) e gustarsi i due ultimi interventi di Bill Gross e Paul McCulley. Il tasso di stimoli per pagina è molto alto ed è quindi un peccato che le pagine siano così poche.

Per chi fosse in questo momento troppo lontano da un computer oppure avesse una terribile fretta diamo un breve riassunto delle due note seguito da qualche nostra considerazione. Bill Gross, che spesso citiamo, è probabilmente il più pagato bond manager di tutti i tempi ed è uno che ama spararle grosse. Pochi mesi fa, ad esempio, quando era un acceso deflazionista, aveva scritto un pezzo intitolato “Dow 5000” in cui sosteneva che 5000, per l’appunto, era il fair value del Dow Jones. Ora è diventato inflazionista e sostiene tesi molto dolorose per chiunque possegga cash o bond. Poichè la coerenza è vizio e non virtù (nella vita e nei mercati) la cosa non deve necessariamente scandalizzare, anzi. E per di più è irrilevante.

Venendo al punto, Gross sostiene che, dal momento che la Fed si è gettata a testa bassa nella battaglia per la reflazione, reflazione sarà. E reflazione, per la Fed , significa tenere i tassi a breve più bassi dell’inflazione e mettere un tetto ai rendimenti dei bond. Chi ha cash, dunque, (o T-Bill o Bot, è lo stesso) continuerà a diventare sempre più povero, anno dopo anno, così come è stato in passato in periodi normali. Chi oggi si tiene il cosiddetto risk-free è perchè negli ultimi vent’anni ne ha avuto un ritorno positivo e pensa che quella sia la regola. In realtà nei periodi di disinflazione e deflazione i tassi a breve sono effettivamente positivi, ma quei periodi sono un’eccezione e da qualche mese siamo entrati in una fase storica completamente diversa.

Quanto ai bond, man mano l’inflazione sale il loro rendimento reale scende fino a diventare a un certo punto esso stesso negativo. Confiscando i possessori di bond (e di dollari) di una parte crescente della loro ricchezza la Fed e il governo degli Stati Uniti finanzieranno la ripresa e risolveranno il problema del debito pubblico. C’è però per fortuna un rimedio straordinariamente efficace, dice Gross, ovvero i titoli del tesoro a tasso reale.

Con il 2.70 per cento reale sui trentennali (Tips e Oat) i governi reflazionino pure quanto vogliono che comunque il potere d’acquisto del bond, alla fine dei trent’anni sarà comunque raddoppiato senza fare nessuna fatica. Con in più l’ipotesi di un capital gain del 10-15 per cento nel breve-medio termine nel probabilissimo caso in cui il mercato scopra questi prodotti e spinga il tasso reale verso un livello, storicamente più normale, del 2 per cento. Il secondo intervanto, dicevamo, è di Paul McCulley, economista keynesiano nonchè secondo gestore di Pimco.

La premessa, ben diversa da quella di Gross, non è che sia in arrivo l’inflazione in grande stile bensì che la si voglia semplicemente riportare al 2 per cento e lì tenerla (lasciata a sè stessa l’inflazione americana, secondo Bernanke, scenderà allo 0.7 per cento a fine 2004). McCulley cucina insieme l’ultimo intervento di Bernanke, la Taylor ’s Rule (modificata) e la legge di Okun per arrivare, attraverso una serie di calcoli (piuttosto lunghi ma semplici) alla conclusione che il livello di equilibrio dei Fed Funds è dell’1.3 per cento (non così lontano dall’1 per cento attuale). Nel caso l’inflazione risalisse sul serio al 2 per cento e lì stesse, il livello di equilibrio del bond decennale (in questo istante al 4.40 per cento) sarebbe, udite udite, il 4.40 per cento.

La modifica alla regola di Taylor (utilizzata ufficiosamente da Fed e Bce) necessaria per arrivare a queste conclusioni è semplice e (a nostro parere) ragionevole e consiste nell’azzerare il tasso reale d’equilibrio di breve. Taylor lo ha ipotizzato al 2 per cento, McCulley lo abbassa a zero. Et voilà, tutto torna. Fin qui il riassunto. Da qui in avanti le nostre considerazioni. Cominciando da Gross, la significatività del suo intervento è nell’interpretare il malessere e, in un certo senso, la disperazione del mercato dei bond di fronte all’ipotesi che definiremmo della “stangata”.

Ovvero l’idea di un’inflazione che non arriva dal petrolio o da un qualsiasi shock esogeno o da un surriscaldamento spontaneo della domanda ma è pianificata a tavolino con un atto di volontà politico. Che possono fare i bond se non sprofondare quando i governi dicono che “deficit è bello” e la Fed proclama ufficialmente la dottrina della reflazione e, implicitamente, dei tassi reali di breve negativi? La nostra ipotesi di partenza è che non è prudente scartare a priori l’ipotesi della stangata se non altro perchè la storia è ricca di esempi di governi pienamente democratici e sicuramente rispettabili che, a un certo punto, hanno imboccato questa strada senza nemmeno incontrare una seria opposizione interna.

Restringendo l’analisi agli Stati Uniti, ci sono state stangate (intese genericamente come un mix di uso fiscale dell’inflazione, adozione di un cap forzoso sui rendimenti dei bond e svalutazione) alla fine della guerra di secessione, durante e (soprattutto) immediatamente dopo le due guerre mondiali e in concomitanza con l’inizio della fase più buia della guerra in Vietnam (con la svalutazione di Nixon nel 1971).

Come si vede il comune denominatore di queste situazioni è l’accumulo di debito per le spese militari prima e le necessità della ricostruzione dopo. Da un punto di vista politico, che è quello che conta di più, sono generalmente fasi di forte mobilitazione collettiva e di consenso nazionale ritrovato. E’ questo che legittima la stangata e la rende patriottica. L’eccezione è il Vietnam e infatti in quel caso la stangata è morbida e opaca (una svalutazione che causa nel tempo inflazione) e non secca e trasparente come l’imposizione di tassi reali ampiamente negativi alle banche e al pubblico alla fine e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Dal 2001 a oggi il clima interno degli Stati Uniti ha assunto alcuni connotati che in Italia definiremmo emergenziali. La guerra al terrorismo, l’Afghanistan e l’Irak si sono saldati alla guerra economica al nuovo nemico, la deflazione e hanno legittimato, quanto meno agli occhi dell’amministrazione Bush e dei mercati, il ricorso a disavanzi pubblici crescenti con complessi di colpa decrescenti. Nei mesi scorsi il professor Mankiw ha rischiato di non essere nominato capo dei consiglieri economici della Casa Bianca per avere sostenuto nei suoi manuali che hanno riempito negli anni scorsi le università d’America che i disavanzi fanno salire i tassi.

Qui non si tratta solo di reaganismo o lafferismo di ritorno. Qui siamo anche al clima e alla psicologia di guerra, al disavanzo patriottico. Detto questo, tuttavia, si tratta di avere il senso della misura e delle proporzioni. Andare in una direzione non significa essere già arrivati nè significa che si arriverà. Le spese per la difesa, sotto Rumsfeld, sono aumentate di poco e sono, su Pil, molto più basse che ai tempi del Vietnam o del riarmo reaganiano. Lo stock di debito pubblico americano, 3.5 trilioni, è il 34 per cento del Pil . Dieci anni fa era al 50, nel 1946 era arrivato al 108. La virtuosa Germania è sopra il 60 di Maastricht. Sommando il debito privato si arriva a poco meno di due volte il Pil, un livello simile a quello di molti altri paesi industrializzati.

Certo, l’amministrazione Bush vive benissimo con un disavanzo di 400 miliardi l’anno e i democratici, se per caso dovessero vincere le elezioni del 2004, non faranno niente per ridurlo. Tuttavia, per come si presentano le cose oggi, nessuno ha intenzione di andare troppo oltre questo livello (che potrebbe perfino ridursi leggermente in caso di ripresa prolungata). A meno che non ci si mettano Osama e i suoi compari, naturalmente. Sono loro, e in generale l’andamento della guerra al terrorismo, che decideranno alla fine il livello di sopportabilità politica del disavanzo e dell’inflazione. Quanto alla seconda guerra, quella alla deflazione, non diciamo assolutamente che è già vinta, ma sicuramente, con la ripresa ormai visibile e in via di consolidamento, si è vinta una battaglia molto importante e si sono conquistati probabilmente due anni di tregua.

Al momento, dunque, con gli elementi a disposizione è corretto supporre che l’inflazione (forse già nel 2005) risalirà al 2 per cento e che magari, per sicurezza ulteriore, la si tollererà al 2.5. Andare oltre vuol dire speculare su ipotesi straordinarie, come un altro 11 settembre, che comunque, almeno inizialmente, avrebbero un impatto deflazionistico, non inflazionistico. Fin qui per quanto riguarda la volontà di reflazione. Non va però dimenticato l’aspetto della possibilità di reflazione. Che esiste, ovviamente, ma che è destinata a incontrare ostacoli formidabili capaci comunque di rallentarla. La domanda sta aumentando in tutto il mondo, ma l’offerta non è da meno.

La capacità produttiva cinese continua a crescere a livelli impressionanti e, per quanto il paese sia in pieno boom, il governo esita ad approfittarne per chiudere le imprese statali che, pur producendo in perdita, impiegano decine di milioni di persone e sono ancora l’unico datore di lavoro nell’ovest del paese. E’ difficile pensare a un’acciaieria di Chongquing che si mette ad alzare i prezzi e i prezzi interni cinesi determinano ormai da tempo i prezzi internazionali, non viceversa. Venendo a McCulley, l’ipotesi di azzerare il livello dei tassi reali di breve nella regola di Taylor, peraltro già dibattuta in letteratura, non è un’esercitazione accademica per il solo fatto che è già sotto i nostri occhi da tempo. I tassi reali a breve, come abbiamo visto sopra, resteranno anzi negativi per un lungo periodo.

Al livello attuale, dunque, i bond già accomodano una risalita dell’inflazioneal 2 per cento che è ancora tutta da venire. Inoltre il rialzo del rendimento del T-Bond dal 3.10 al 4.40 già comincia a mordere. Le emissioni corporate sono quasi sparite. I rifinanziamenti di mutui sono in calo vistoso. Gli acquisti stessi con mutuo, dato di oggi, hanno iniziato a scendere. Se i tassi rimangono a questo livello il processo di rivalutazione delle case potrebbe arrestarsi. La nostra ipotesi è che la prima gamba di bear market per i bond sia conclusa. Se ce ne sarà una seconda dipenderà non dal resto del 2003 ma dal permanere nel 2004 di ritmi di crescita superiori al 4 per cento. Per il momento i bond possono respirare.

*Alessandro Fugnoli e' strategist di Abaxbank

21 Agosto 2003  Milano (WSI) Fonte Wall Street Italia.com

 

 

 

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