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Macro mondo - settore immobiliare |
La
stangata dei bond, inflazione e
debito
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La stangata dei bond, inflazione e debito
21
Agosto 2003 Milano
(di *Alessandro Fugnoli)
Consigliamo
ai cultori di strategia di portafoglio, agli appassionati di bond e anche a chi
non lo è di interrompere
qui la lettura e di entrare nel sito di Pimco (il più prestigioso gestore
americano di reddito fisso e grande opinion leader del settore) e gustarsi i due
ultimi interventi di Bill Gross e Paul McCulley. Il tasso di stimoli per pagina
è molto alto ed è quindi un peccato che le pagine siano così poche.
Per
chi fosse in questo momento troppo lontano da un computer oppure avesse una
terribile fretta diamo un breve riassunto delle due note seguito da qualche
nostra considerazione. Bill Gross, che spesso citiamo, è probabilmente il più
pagato bond manager di tutti i tempi ed è uno che ama spararle grosse. Pochi
mesi fa, ad esempio, quando era un acceso deflazionista, aveva scritto un pezzo
intitolato “Dow
5000”
in cui sosteneva che 5000, per l’appunto,
era il fair value del Dow Jones. Ora è diventato inflazionista e sostiene tesi
molto dolorose per chiunque possegga cash o bond. Poichè la coerenza è vizio e
non virtù (nella vita e nei mercati) la cosa non deve necessariamente
scandalizzare, anzi. E per di più è irrilevante.
Venendo
al punto, Gross sostiene che, dal momento che
la Fed
si è gettata a testa bassa nella battaglia
per la reflazione, reflazione sarà. E reflazione, per
la Fed
, significa tenere i tassi a breve più bassi
dell’inflazione e mettere un tetto ai rendimenti dei bond. Chi ha cash,
dunque, (o T-Bill o Bot, è lo stesso) continuerà a diventare sempre più
povero, anno dopo anno, così come è stato in passato in periodi normali. Chi
oggi si tiene il cosiddetto risk-free è perchè negli ultimi vent’anni ne ha
avuto un ritorno positivo e pensa che quella sia la regola. In realtà nei
periodi di disinflazione e deflazione i tassi a breve sono effettivamente
positivi, ma quei periodi sono un’eccezione e da qualche mese siamo entrati in
una fase storica completamente diversa.
Quanto
ai bond, man mano l’inflazione sale il loro rendimento reale scende fino a
diventare a un certo punto esso stesso negativo. Confiscando i possessori di
bond (e di dollari) di una parte crescente della loro ricchezza
la Fed
e il governo degli Stati Uniti finanzieranno
la ripresa e risolveranno il problema del debito pubblico. C’è però per
fortuna un rimedio straordinariamente efficace, dice Gross, ovvero i titoli del
tesoro a tasso reale.
Con
il 2.70 per cento reale sui trentennali (Tips e Oat) i governi reflazionino pure
quanto vogliono che comunque il potere d’acquisto del bond, alla fine dei
trent’anni sarà comunque raddoppiato senza fare nessuna fatica. Con in più
l’ipotesi di un capital gain del 10-15 per cento nel breve-medio termine nel
probabilissimo caso in cui il mercato scopra questi prodotti e spinga il tasso
reale verso un livello, storicamente più normale, del 2 per cento. Il secondo
intervanto, dicevamo, è di Paul McCulley, economista keynesiano nonchè secondo
gestore di Pimco.
La
premessa, ben diversa da quella di Gross, non è che sia in arrivo
l’inflazione in grande stile bensì che la si voglia semplicemente riportare
al 2 per cento e lì tenerla (lasciata a sè stessa l’inflazione americana,
secondo Bernanke, scenderà allo 0.7 per cento a fine 2004). McCulley cucina
insieme l’ultimo intervento di Bernanke,
la Taylor
’s Rule (modificata) e la legge di Okun per
arrivare, attraverso una serie di calcoli (piuttosto lunghi ma semplici) alla
conclusione che il livello di equilibrio dei Fed Funds è dell’1.3 per cento
(non così lontano dall’1 per cento attuale). Nel caso l’inflazione
risalisse sul serio al 2 per cento e lì stesse, il livello di equilibrio del
bond decennale (in questo istante al 4.40 per cento) sarebbe, udite udite, il
4.40 per cento.
La
modifica alla regola di Taylor (utilizzata ufficiosamente da Fed e Bce)
necessaria per arrivare a queste conclusioni è semplice e (a nostro parere)
ragionevole e consiste nell’azzerare il tasso reale d’equilibrio di breve.
Taylor lo ha ipotizzato al 2 per cento, McCulley lo abbassa a zero. Et voilà,
tutto torna. Fin qui il riassunto. Da qui in avanti le nostre considerazioni.
Cominciando da Gross, la significatività del suo intervento è
nell’interpretare il malessere e, in un certo senso, la disperazione del
mercato dei bond di fronte all’ipotesi che definiremmo della “stangata”.
Ovvero
l’idea di un’inflazione che non arriva dal petrolio o da un qualsiasi shock
esogeno o da un surriscaldamento spontaneo della domanda ma è pianificata a
tavolino con un atto di volontà politico. Che possono fare i bond se non
sprofondare quando i governi dicono che “deficit è bello” e
la Fed
proclama ufficialmente la dottrina della
reflazione e, implicitamente, dei tassi reali di breve negativi? La nostra
ipotesi di partenza è che non è prudente scartare a priori l’ipotesi della
stangata se non altro perchè la storia è ricca di esempi di governi pienamente
democratici e sicuramente rispettabili che, a un certo punto, hanno imboccato
questa strada senza nemmeno incontrare una seria opposizione interna.
Restringendo
l’analisi agli Stati Uniti, ci sono state stangate (intese genericamente come
un mix di uso fiscale dell’inflazione, adozione di un cap forzoso sui
rendimenti dei bond e svalutazione) alla fine della guerra di secessione,
durante e (soprattutto) immediatamente dopo le due guerre mondiali e in
concomitanza con l’inizio della fase più buia della guerra in Vietnam (con la
svalutazione di Nixon nel 1971).
Come
si vede il comune denominatore di queste situazioni è l’accumulo di debito
per le spese militari prima e le necessità della ricostruzione dopo. Da un
punto di vista politico, che è quello che conta di più, sono generalmente fasi
di forte mobilitazione collettiva e di consenso nazionale ritrovato. E’ questo
che legittima la stangata e la rende patriottica. L’eccezione è il Vietnam e
infatti in quel caso la stangata è morbida e opaca (una svalutazione che causa
nel tempo inflazione) e non secca e trasparente come l’imposizione di tassi
reali ampiamente negativi alle banche e al pubblico alla fine e subito dopo
la Seconda Guerra
Mondiale.
Dal
2001 a
oggi il clima interno degli Stati Uniti ha
assunto alcuni connotati che in Italia definiremmo emergenziali. La guerra al
terrorismo, l’Afghanistan e l’Irak si sono saldati alla guerra economica al
nuovo nemico, la deflazione e hanno legittimato, quanto meno agli occhi
dell’amministrazione Bush e dei mercati, il ricorso a disavanzi pubblici
crescenti con complessi di colpa decrescenti. Nei mesi scorsi il professor
Mankiw ha rischiato di non essere nominato capo dei consiglieri economici della
Casa Bianca per avere sostenuto nei suoi manuali che hanno riempito negli anni
scorsi le università d’America che i disavanzi fanno salire i tassi.
Qui
non si tratta solo di reaganismo o lafferismo di ritorno. Qui siamo anche al
clima e alla psicologia di guerra, al disavanzo patriottico. Detto questo,
tuttavia, si tratta di avere il senso della misura e delle proporzioni. Andare
in una direzione non significa essere già arrivati nè significa che si arriverà.
Le spese per la difesa, sotto Rumsfeld, sono aumentate di poco e sono, su Pil,
molto più basse che ai tempi del Vietnam o del riarmo reaganiano. Lo stock di
debito pubblico americano, 3.5 trilioni, è il 34 per cento del Pil . Dieci anni
fa era al 50, nel 1946 era arrivato al 108. La virtuosa Germania è sopra il 60
di Maastricht. Sommando il debito privato si arriva a poco meno di due volte il
Pil, un livello simile a quello di molti altri paesi industrializzati.
Certo,
l’amministrazione Bush vive benissimo con un disavanzo di 400 miliardi
l’anno e i democratici, se per caso dovessero vincere le elezioni del 2004,
non faranno niente per ridurlo. Tuttavia, per come si presentano le cose oggi,
nessuno ha intenzione di andare troppo oltre questo livello (che potrebbe
perfino ridursi leggermente in caso di ripresa prolungata). A meno che non ci si
mettano Osama e i suoi compari, naturalmente. Sono loro, e in generale
l’andamento della guerra al terrorismo, che decideranno alla fine il livello
di sopportabilità politica del disavanzo e dell’inflazione. Quanto alla
seconda guerra, quella alla deflazione, non diciamo assolutamente che è già
vinta, ma sicuramente, con la ripresa ormai visibile e in via di consolidamento,
si è vinta una battaglia molto importante e si sono conquistati probabilmente
due anni di tregua.
Al
momento, dunque, con gli elementi a disposizione è corretto supporre che
l’inflazione (forse già nel 2005) risalirà al 2 per cento e che magari, per
sicurezza ulteriore, la si tollererà al 2.5. Andare oltre vuol dire speculare
su ipotesi straordinarie, come un altro 11 settembre, che comunque, almeno
inizialmente, avrebbero un impatto deflazionistico, non inflazionistico. Fin qui
per quanto riguarda la volontà di reflazione. Non va però dimenticato
l’aspetto della possibilità di reflazione. Che esiste, ovviamente, ma che è
destinata a incontrare ostacoli formidabili capaci comunque di rallentarla. La
domanda sta aumentando in tutto il mondo, ma l’offerta non è da meno.
La
capacità produttiva cinese continua a crescere a livelli impressionanti e, per
quanto il paese sia in pieno boom, il governo esita ad approfittarne per
chiudere le imprese statali che, pur producendo in perdita, impiegano decine di
milioni di persone e sono ancora l’unico datore di lavoro nell’ovest del
paese. E’ difficile pensare a un’acciaieria di Chongquing che si mette ad
alzare i prezzi e i prezzi interni cinesi determinano ormai da tempo i prezzi
internazionali, non viceversa. Venendo a McCulley, l’ipotesi di azzerare il
livello dei tassi reali di breve nella regola di Taylor, peraltro già dibattuta
in letteratura, non è un’esercitazione accademica per il solo fatto che è già
sotto i nostri occhi da tempo. I tassi reali a breve, come abbiamo visto sopra,
resteranno anzi negativi per un lungo periodo.
Al
livello attuale, dunque, i bond già accomodano una risalita dell’inflazioneal
2 per cento che è ancora tutta da venire. Inoltre il rialzo del rendimento del
T-Bond dal 3.10 al 4.40 già comincia a mordere. Le emissioni corporate sono
quasi sparite. I rifinanziamenti di mutui sono in calo vistoso. Gli acquisti
stessi con mutuo, dato di oggi, hanno iniziato a scendere. Se i tassi rimangono
a questo livello il processo di rivalutazione delle case potrebbe arrestarsi. La
nostra ipotesi è che la prima gamba di bear market per i bond sia conclusa. Se
ce ne sarà una seconda dipenderà non dal resto del 2003 ma dal permanere nel
2004 di ritmi di crescita superiori al 4 per cento. Per il momento i bond
possono respirare.
*Alessandro
Fugnoli e' strategist di Abaxbank
21
Agosto 2003 Milano
(WSI) Fonte
Wall Street Italia.com
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