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INDICE ARTICOLI

PARTE  2

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Borse - Sentiment e opinioni

Borsa: dal rimbalzo all'ennesima bolla

Finanza e Mercati - Strategie di investimento

Smart money: come investire in tempi di crisi

Finanza e Mercati - Strategie di investimento

Quel che volevate sapere sui mercati e non avevate il coraggio di ...

Borse - Sentiment e opinioni

Borsa: attenzione che arriva la frenata

Borse - Sentiment e opinioni

Borsa: è ancora toro, ma la ripresa sarà a W

Borse - Sentiment e opinioni

Borsa: la crisi non è affatto finita

Finanza - Criteri contabili e normative

Banche e fair value, brutte sorprese

Borse - Sentiment e opinioni

A Wall Street tornano gli «Orsi» se il sentiment è troppo positivo

   
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ANSA   +++   Ven. 07 Ago. 2009 - Ws: IL RALLY ESTIVO CONTINUA   +++   16 Agosto 2009 19:08 BERLINO - Weber: «E' troppo presto per dire che la crisi è finita»   +++   18 Agosto 2009 07:55 NEW YORK - Usa: Greenspan, crescita economica sostenuta a fine '09   +++   21 Agosto 2009 08:23 PECHINO - Cina: verso crescita economia 8,5% nel terzo trimestre 2009   +++   25 Agosto 2009 18:07 NEW YORK - STATI UNITI SPENDACCIONI: DEFICIT ENORME NEL 2009   +++   ANSA   +++
 
  Sabato 01 Agosto 2009   Mercoledì 05 Agosto 2009   Giovedì 06 Agosto 2009  
       
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  Borsa: dal rimbalzo all'ennesima bolla

04 Agosto 2009 00:12 LUGANO - di Alfonso Tuor

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Le borse volano grazie ad utili trimestrali superiori alle previsioni. Il rally dei mercati azionari si sta rivelando talmente prolungato e consistente da spingere alcuni a sostenere che la crisi sia finita e che sia prossima la ripresa dell’economia.
Ma stiamo veramente uscendo dalla crisi? Inoltre il «bear market» (la fase di mercato ribassista) è veramente finito, per cui i minimi dello scorso marzo non verranno più toccati? Indubbiamente stiamo assistendo ad una delle più lunghe e delle più forti fasi di rialzo delle borse. Questo movimento non deve comunque impressionare più di tanto. In primo luogo gli utili trimestrali, soprattutto quelli americani, sono migliori delle aspettative, ma non è tutto oro quello che luccica. Infatti, come ha sottolineato il quotidiano britannico «The Financial Times», la settimana scorsa la stima media degli analisti calcolata da Thomson Reuters prevedeva che gli utili delle 500 società che compongono l’indice Standard & Poor’s sarebbero scesi del 35,1%. I risultati resi noti questa settimana mettono in luce che il calo è solo del 31%. Quindi, i risultati sono migliori delle aspettative, ma sono pur sempre negativi.

Ancora più macroscopico è il contrasto con le previsioni degli analisti formulate all’inizio di quest’anno. Allora questi prevedevano un calo dell’11% degli utili nel secondo trimestre, invece, come scritto sopra, il calo è stato del 31%. Eppure l’indice S&P 500 è salito dall’inizio dell’anno di circa il 10%. Ma c’è di più. I ricavi sono diminuiti. Quindi gli utili sono calati meno delle aspettative, poiché le società hanno tagliato rapidamente i costi. Ciò vuol dire che hanno ridotto gli investimenti, molte spese e soprattutto hanno licenziato. Il conseguente forte aumento della disoccupazione non è però sicuramente un fattore che favorisce l’uscita dalla crisi. È quindi difficilmente comprensibile che le borse continuino a salire.

La seconda spiegazione di questo rally, che va per la maggiore, è che il mercato sale poiché le società hanno fornito indicazioni positive sulle prospettive dei loro affari. La realtà però non sostiene questa tesi. Molte società hanno segnalato che si aspettano un leggero miglioramento delle loro attività rispetto alla forte contrazione accusata tra la fine dell’anno scorso e l’inizio di questo. Altre hanno dichiarato di non vedere ancora la luce in fondo al tunnel. Queste previsioni sono assolutamente compatibili con lo scenario di una stabilizzazione a bassi livelli dell’attività economica dopo la forte contrazione degli ultimi mesi. Le previsioni dei manager non suffragano invece l’ipotesi di una ripresa dell’economia e quindi il prolungarsi ulteriore di questo rally borsistico.

Le ragioni sono probabilmente altre: un rimbalzo tecnico che ora rischia di trasformarsi in una bolla speculativa alimentata dalla liquidità iniettata dalle banche centrali. A Wall Street si dice che anche un gatto che cade da un grattacielo rimbalza. E infatti il rimbalzo è iniziato in marzo, quando si era diffusa la convinzione che le autorità politiche e monetarie avrebbero impedito un collasso del sistema bancario internazionale. A sostegno di questa tesi basta ricordare che il rimbalzo dei mercati è stato inizialmente trainato proprio dai titoli bancari.

Il rimbalzo delle borse era nelle carte. Infatti anche l’indice giapponese Nikkei, dopo un crollo all’inizio degli anni Novanta, rimbalzò di più del 50%. Altrettanto fece l’indice Dow Jones dopo il crollo del 1929. In ambedue i casi i minimi segnati nella prima fase di ribasso si rivelarono solo temporanei. Nel caso del Giappone il mercato azionario continua ad essere intrappolato in una fase ribassista di lungo periodo, per cui all’inizio di quest’anno ha registrato un nuovo minimo storico.

Ma ora il rialzo dei mercati sta trasformando questo rimbalzo in qualcos’altro. Stando all’analisi tecnica, sta «rompendo» livelli che segnerebbero l’uscita dalla «trappola ribassista» e anticiperebbero ulteriori rialzi. In questa sede non vogliamo formulare alcuna previsione, ma sostenere che un ulteriore rialzo dei mercati sarebbe da interpretare come la formazione di un’altra bolla speculativa, alimentata dalla enorme liquidità iniettata dalle banche centrali.

I dati dimostrano che le banche sia in Europa sia negli Stati Uniti stanno stringendo i cordoni del credito. E’ quindi ipotizzabile che il sistema bancario non stia usando questa enorme quantità di capitali per sostenere la ripresa economica, ma per investire in borsa. Il rialzo dei mercati azionari è ben visto da tutti: dalle banche centrali e dai Governi, poiché infonde ottimismo e allenta la crisi finanziaria; dalle grandi banche, poiché ha un effetto tonificante sui bilanci, dato che fa salire gli utili legati alle commissioni e alle attività di trading. Non è nemmeno escluso che negli Stati Uniti si punti alla formazione di una nuova bolla speculativa per superare la crisi attuale determinata proprio dallo scoppio della bolla del credito.

Sarebbe la ripetizione di quanto fece all’inizio di questo decennio la Federal Reserve, che per superare la crisi determinata dal crollo delle borse favorì la formazione di una bolla speculativa nel mercato immobiliare e un forte aumento dell’indebitamento degli americani. Questa ricetta può funzionare solo nel breve termine, poiché le bolle finanziarie hanno un esito certo: prima o poi scoppiano con gravi conseguenze anche per l’economia reale.

In conclusione, ulteriori rialzi dei listini azionari segnerebbero il formarsi di un’altra bolla speculativa. L’impennata delle borse non indicherebbe l’approssimarsi di una reale ripresa dell’economia, anche perché non avrebbe la forza di sanare i guai economici venuti alla luce con l’attuale crisi. Permetterebbe solo di guadagnare un po’ di tempo. Questo dimostra quanto sia difficile riportare l’economia mondiale su una via di crescita sana e duratura e quanto poco efficaci siano state finora le misure attuate dalle autorità politiche e monetarie.
 

Fonte - Corriere del Ticino

 

 

 

 

 

Banche Usa furbe ma da record

04-08-09 - Marco Caprotti
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I titoli finanziari stanno tornando decisamente di moda. L’indice Msci del comparto nell’ultimo mese (fino al 3 agosto e calcolato in euro) ha guadagnato il 10,2% portando la performance da inizio anno a +15,5%.
Il merito va soprattutto alle big bank americane
che, dai minimi di mercato toccati il 9 marzo (i peggiori degli ultimi 10 anni), hanno messo a segno una corsa impressionante, stracciando l’indice S&P500. Fino al 30 luglio Goldman Sachs ha guadagnato il 116,4%, Citigroup il 209% e JPMorgan Chase il 144%. A convincere gli investitori a far partire gli ordini d’acquisto, è stato l’andamento dei bilanci. Le prime tre grandi banche Usa, nel primo trimestre dell’anno hanno registrato guadagni per 80 miliardi di dollari. Una cifra record, soprattutto se si considera che sono uscite da un periodo nero come il 2008 in cui l’indice Msci del comparto, ha perso il 53,3%.
“Alcune previsioni parlano di una aumento del Pil dello 0,5% nell’ultimo trimestre dell’anno e dell’1,5% entro il 2010”, spiega una nota di Morningstar. “Se le stime dovessero trovare conferma nei fatti, i profitti esploderebbero”. Il merito di questa crescita dei guadagni va imputato anche alla crescita delle commissioni. Nonostante le rimostranze dei clienti e le pressioni che arrivano dal mondo politico (amministrazione Obama in testa), gli istituti di credito hanno alzato le spese sui conti e sulle operazioni dei correntisti. “Tutte le banche stanno cercando di spremere quello che possono da depositi, prestiti e transazioni di mercato”, conferma uno studio della società di consulenza Moebs Services (MS).
Alla base di questa situazione ci sono due esigenze contrapposte. Una è quella dei politici, che dopo aver salvato le banche americane si sentono in dovere di vigililare sui servizi e sui costi che vengono applicati ai clienti. L’altra è quella del top management degli istituti che ha bisogno di trasformare il salvataggio in profitti e in nuovo valore per gli azionisti. Altrimenti rischiano di sentire le loro poltrone diventare sempre più traballanti. “Evidentemente hanno deciso che per conservare il posto di lavoro vale la pena di sfidare il Congresso”, continua lo studio di MS. Bank of America nel secondo trimestre ha incassato, solo di commissioni, il 7,7% in più rispetto ai tre mesi precedenti. Wells Fargo, nello stesso periodo, ha visto questa voce di bilancio aumentare di quasi il 4%.

 

 

America latina, maneggiare con cura

04-08-09 - Marco Caprotti
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l Sud America va maneggiato con cura. L’allarme è stato lanciato dall’Eclac, la Commissione dell’Onu che segue lo sviluppo dell’America latina e dei Caraibi. Nell’ultimo rapporto sull’andamento economico dell’area ha evidenziato che la crisi dei mercati internazionali sulla zona inizierà presto a farsi sentire.
Per questo, aggiunge, è meglio non farsi prendere da facili entusiasmi per l’andamento dei listini. L’indice Msci della regione nell’ultimo mese (fino al 3 agosto e calcolato in euro) ha guadagnato il 7,5% portando a +52,3% la performance da inizio anno. Ma più che a una reale fiducia nelle possibilità del Sudamerica, per la maggior parte questi rialzi sono legati a un ritrovato appetito per il rischio degli investitori che hanno deciso di tornare a sbilanciarsi su una zona emergente tipicamente considerata pericolosa.
Il momento critico del Sud America, sottolinea il rapporto, è iniziato nell’ultimo trimestre del 2008 con una contrazione (la prima in sei anni) di quasi il 2% rispetto ai tre mesi precedenti. La situazione è peggiorata all’inizio di quest’anno, quando (da gennaio a marzo) c’è stata una frenata del 2,4%. “I motori della crescita dell’America latina – esportazione, turismo e investimenti internazionali – stanno gradatamente subendo i guasti della recessione internazionale”, dice lo studio Eclac. “Nel corso dell’anno le economie principali della zona – Brasile, Messico e Cile – subiranno una frenata che non sarà compensata a sufficienza dalla crescita di Perù, Argentina e Colombia”.
Le conseguenze sarebbero soprattutto di tipo sociale con un riflesso negli investimenti che, inevitabilmente, diminuirebbero in una zona a rischio. “Sei anni di crescita continua hanno portato una riduzione drastica del tasso di povertà della regione che adesso si aggira al 34%”, spiega uno studio di Oxford Analytica (OA). “Tuttavia resta una percentuale molto alta e, con la crisi, potrebbe peggiorare”. Secondo le previsioni dell’Eclac, il tasso di disoccupazione potrebbe arrivare all’8,5%, contro il 7,9% dell’anno scorso, toccando punte del 9%.
Preoccupa anche la situazione delle materie prime. “Il calo del prezzo delle commodity si traduce in minori entrate fiscali per molti Paesi della zona”, continua OA. “Se questa situazione dovesse continuare, alcuni stati potrebbero trovarsi in difficoltà sia per i pagamenti all’estero, sia per la creazione di nuovi piani di stimolo economico”.
 

Fonte - MorningStar.it

 

 

 

 

 

  Smart money: come investire in tempi di crisi

06 Agosto 2009 04:51 NEW YORK - di Marc Faber

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Negli ultimi due report ho rilevato che i mercati finanziari, sia quelli azionari che delle commodity, sono attraversati da ricorrenti aspettative inflazionistiche seguite da ondate deflative. E ho fatto presente di temere, in particolare, l’emergere di nuove paure deflazionistiche.
Nel report di giugno ho scritto che, sull’onda di attese deflative, «mi aspetto un rimbalzo del dollaro e dei T-bond di vecchia data, in parallelo con una correzione del mercato azionario nelle prossime settimane». Ho anche rilevato la relazione tra i diversi asset: azioni e commodity si muovono nello stesso modo (guidate dalle attese di crescita e di inflazione) mentre bond e dollaro si muovono all’ingiù. Ma, quando sale la «febbre deflazione», si rafforzano dollaro e bond mentre commodity ed azioni scendono. Perciò, concludevo che a fronte della ripresa delle quotazioni dei bond (a fronte di un calo dei tassi) e del dollaro, azioni e commodity (e le valute agganciate alle materie prime) potrebbero correggere i loro rialzi.

Quel che è notevole è che sia l’S&P500 sia l’indice Crb hanno toccato un massimo l’11 giugno per poi andare da allora sotto pressione (-8% l’S&P e -13% il Crb dai picchi di giugno all’inizio di luglio). A conferma della tesi, il 10 giugno i bond hanno toccato il minimo. Al pari, il 13 giugno il dollaro australiano e quello canadese hanno fatto il massimo sulla moneta Usa. E lo stesso vale per l’oro (990 dollari l’oncia il 3 giugno). Quel che è rilevante è che questi trend, pur riguardando categorie di asset diverse, sono scattati con un’impressionante sincronia, come non mi era mai capitato di vedere in precedenza.

A questo punto, è doveroso porsi un paio di domande. La prima: quale evento può spezzare questo fenomeno? È evidente che, prima o poi, azioni e bond torneranno a muoversi in sintonia (vi faccio notare che corporate bond e azioni si muovono nella stessa direzione solo dal 2008).

La seconda domanda, più facile, è invece: quanto tempo ci vorrà per spezzare l’abbinata? Non voglio tediare il mio pubblico con la solita alternativa deflazione/inflazione. Ma se i sostenitori della deflazione hanno ragione (cosa che potrebbe esser vera nel breve) allora saliranno bond e dollaro, mentre azioni, immobili, materie prime e corporate di rating basso finiranno sotto pressione.

Ma sono anche abbastanza sicuro che, in caso di deflazione, verremmo sommersi da una pioggia di stimoli monetari per correggere la rotta. Ed è ovvio che questo diluvio monetario inciderà sulla salute finanziaria degli Usa. Perciò, l’onda deflativa può prevalere nel breve, ma sarà poi sommersa da una reazione di segno opposto che scuoterà la fiducia nella stabilità del dollaro a stelle e strisce e del debito pubblico americano.

Che fare a quel punto? Innanzitutto, puntare sull’oro e sui titoli monetari. Inoltre, approfittando delle fasi di debolezza, accumulerei titoli di multinazionali di qualità (Johnson&Johnson, Merck, Procter&Gamble, Coca-Cola, Chevron e così via) che, nell’arco di dieci anni, batteranno i rendimenti dei titoli governativi. Inoltre, approfitterei delle fasi di ripiegamento per incrementare il portafoglio di titoli asiatici.

Fin qui ho affrontato il tema dello scenario deflazione. Ma nella seconda parte dell’anno assisteremo a un rimbalzo dell’economia dai livelli infimi in cui era precipitata. I rendimenti dei bond scenderanno così verso lo zero, mentre le azioni saliranno più del previsto.

Torniamo ora alla domanda: quando si romperà questa correlazione. Penso che sia ovvio che la sintonia durerà finché la terapia consisterà di deficit fiscali combinati con l’espansione monetaria. Ma io non credo che questa ricetta possa garantire una ripresa durevole e diffusa alla maggioranza dei cittadini. Al limite, si può riprodurre un trend drogato come quello del 2002/07, ma a rischio di una frattura politica e sociale.

Da un punto di vista economico, una crisi ha un valore ben preciso: ripulire la scena dagli eccessi accumulati nelle fasi di euforia, facendo giustizia degli imbrogli, delle pratiche equivoche e della corruzione che accompagna ogni fase di boom azionario. Purtroppo, stavolta, non è avvenuto nulla del genere. Anzi, la corruzione, la mancanza di trasparenza e le truffe sono oggi più diffuse che mai. La prossima crisi che di sicuro arriverà tra pochi anni sarà così grave che la classe politica non ce la farà a evitare un vero cambiamento.

Ma le soluzioni adottate dalla presidenza Obama comporteranno inevitabilmente, nel giro di pochi anni, lo scoppio di una crisi ancor più pesante: non ho idea di come reagiranno i mercati. Ma penso che la tendenza a speculare, favorita dalla politica della Fed a vantaggio di lobbies ben precise, e l’intero mercato dei derivati siano destinati a sparire.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

  Sabato 08 Agosto 2009   Lunedì 10 Agosto 2009   Giovedì 13 Agosto 2009  
       
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I derivati Lehman nei portafogli di 70 big italiani

06 Agosto 2009 08:21 MILANO - di Laura Serafini – Il Sole 24 Ore
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Ci sono quasi tutte le maggiori società italiane, quotate e non, private ma soprattutto a capitale pubblico, e una rappresentanza istituzionale, tra regioni e ministero dell'Economia, tra le controparti che hanno stipulato contratti derivati con Lehman Brothers Holdings (Lbhi) e controllate, il gruppo finito in Chapter 11 nel settembre scorso. Per la prima volta Lbhi ha fornito un elenco diffuso e dettagliato dei suoi potenziali creditori, tra cui circa 70 italiani, su strumenti finanziari più complessi rispetto alle obbligazioni, che invece sono finite nella mani dei piccoli risparmiatori italiani. L'amministratore della società americana, Alvarez&Marsal, non ha indicato il valore nozionale dei contratti, tantomeno ha specificato se e quanto è dovuto alle controparti ma, per il momento, si limita a informare i propri interlocutori che quello è l'elenco dei crediti di terzi riconosciuti nello stato patrimoniale del gruppo.
I derivati in questione sono stati stipulati con una società controllata da Lbhi, la Lehman Brothers Special Financing, che secondo le prime stime di A&M ha posizioni debitorie su quei contratti per circa 12 miliardi di dollari (su 16 miliardi complessivi di tutto il gruppo). Ci sono molti nomi illustri di società italiane sinora rimaste nell'ombra. Tra i grandi gruppi a capitale pubblico ci sono tutti i maggiori: Eni, Enel, Terna, Poste Italiane, ma anche Finmeccanica e Rai. Queste ultime due, per la verità, erano già uscite allo scoperto nel gennaio scorso, quando avevano fatto richiesta di registrazione dei crediti: la prima per 479 mila dollari, la seconda per 526 mila. Ampia anche la rappresentanza dei gruppi privati o privatizzati: Telecom Italia e nomi emersi solo ora come Seat Pagine Gialle, Wind, Mediaset, Italmobiliare, Barilla, Ferrero, Candy, De Longhi. Tra le banche spuntano per la prima volta i nomi di Mediobanca, Mps, Bnl insieme ai già noti Intesa Sanpaolo e Italease. Vasta è la rappresentanza delle banche popolari (tra cui Banco Popolare) e del credito cooperativo, tra cui l'Iccrea, e poi Meliorbanca, Fineco, Interbanca e poi Generali e Fondiaria. C'è persino il Fondo pensione per il personale della Banca di Roma. E ancora, ex municipalizzate come la società bolognese Hera e la concessionaria dei giochi Sisal. Nella lunga lista figurano anche due contratti derivati intestati al ministero per l'Economia e uno intestato alla Cassa depositi e prestiti. E ancora: risultano contratti a nome della Regione Marche, Regione Lazio e Regione Sicilia seppure quest'ultima sia iscritta sotto la voce "United States" invece che "Italy". Per quanto riguarda le Regioni, era nota l'esposizione delle prime due: si era parlato di contratti in the money per circa due milioni di euro. La posizione del ministero dell'Economia è più complessa: all'indomani del default di Lehman, fonti del ministero avevano precisato che in essere con il gruppo c'erano contratti di swap del valore nozionale di 35 miliardi di euro, ma che la valutazione del contratto al 15 settembre faceva emergere una posizione debitoria del ministero per 2 miliardi. Da quanto emerso in quei giorni, però, sembrava che la gran parte della posizione del dicastero fosse verso le società londinesi del gruppo, che ricadono oggi sotto un'altra procedura fallimentare. La posizione verso il gruppo Usa, dunque, potrebbe invece essere creditoria, ma allo stato attuale questo non viene specificato, tantomeno è noto l'ammontare del credito, che potrebbe anche essere contenuto. Entro metà agosto A&M dovrebbe fornire una valutazione precisa dell'ammontare dei debiti che ha verso le controparti sui contratti derivati: per ora le stime sono di 16 miliardi di dollari da pagare contro circa 21 miliardi da ricevere, in particolare da interlocutori come Jp Morgan.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore
 

 

 

Ibbotson, Buffet e i bond dalla forza apparente

06-08-09 - Morningstar.it
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Meglio investire in bond o in azioni? Alla luce della scarsa performance dell’equity nell’ultimo decennio, negli ambienti finanziari si discute molto intorno a questa domanda. Qualcuno arriva anche a dire che gli investitori dovrebbero puntare esclusivamente sulle obbligazioni: non solo perché sono più sicuri, ma anche perché, nel lungo termine, faranno meglio delle azioni. In altre parole: se i bond danno rendimenti migliori con meno rischio, perché avventurarsi sull’equity?
“A prima vista, guardando i guadagni delle obbligazioni negli ultimi 40 anni l’argomento sembra valido”, spiega uno studio firmato da Roger Ibbotson e Peng Chen, rispettivamente consulente e presidente di Ibbotson (gruppo Morningstar). “Se si osservano meglio i dati, tuttavia, nasce qualche perplessità”. Studiando gli andamenti dell’indice S&P500 negli ultimi 20, 30 e 40 anni, ad esempio, si nota che l’equity ha fatto abbastanza bene guadagnando rispettivamente il 7,42%, il 10,3% e il 9% (dati annualizzati). “Se si utilizza un orizzonte temporale più ampio, scopriamo due cose. Prima: Le azioni hanno fatto meglio dei bond. Seconda: i rendimenti dell’equity sono molto più volatili di quelli delle obbligazioni, per cui non sorprende che in alcuni periodi le seconde abbiano fatto meglio del primo”, continua il report.
C’è poi da considerare lo scenario dei tassi di interesse. Negli anni ‘70, ad esempio, erano decisamente molto più alti di adesso e questo giocava a favore delle obbligazioni. “Questo scenario è difficile che si ripeta in futuro, visto il livello raggiunto dal costo del denaro che, in alcuni Paesi come gli Stati Uniti è vicino allo zero”, spiegano Ibbotson e Chen. “I bond quindi nel lungo periodo possono fare bene, ma bisogna avere un tempismo perfetto per entrare e uscire da questo tipo di investimento per poterne approfittare”.
Qual è allora la giusta strategia di investimento? “Noi crediamo che ci voglia una asset allocation estremamente disciplinata che prenda in considerazione i rischi e i benefici di una diversificazione dei due strumenti”, rispondono i due analisti. Anche perché e bene ricordare quello che ha scritto Warren Buffett nella sua ultima lettera agli azionisti: “Quando sarà scritta la storia finanziaria di questo decennio, si parlerà sicuramente della bolla di Internet della fine degli anni ’90 e di quella immobiliare alla quale abbiamo assistito di recente. Ma la bolla dei T-bond della fine del 2008, sarà considerata ugualmente straordinaria”.

 

Fonte - Morningstar.it

 

 

BOND DEL CRACK LEHMAN BROTHERS, PASSI AVANTI

09 Agosto 2009 19:40 MILANO - di Laura Serafini
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Il conto alla rovescia per la registrazione dei crediti presso Lehman Brothers Holdindgs (Lbhi), la casa madre americana che ha garantito la gran parte delle obbligazioni emesse in Europa, è cominciato. Le banche italiane, con il supporto dell'Abi e dello studio legale Allen&Overy, stanno cominciando a mettere a punto la strategia per agire in conto proprio e per conto dei loro clienti. Anche se non tutte intendono prendersi l'onere di registrare anche i crediti della clientela.

Una riunione tra i gli esponenti degli istituti bancari coinvolti nel crack Lehman potrebbe tenersi a inizio settembre per mettere nero su bianco le differenti linee di azione. Per ora di certo e irrevocabile c'è il termine, fissato al 2 novembre, per registrare i crediti degli obbligazionisti verso Lbhi: è un passaggio fondamentale perchè, seppure i bond italiani siano stati emessi dalla società olandese Lehman Brothers Treasury Co., quest'ultima è solo una società veicolo praticamente priva di asset che dovrà dipendere da eventuali accordi con gli Usa per poter liquidare i suoi creditori.

Il curatore olandese ha infatti dichiarato di volersi insinuare anch'esso nella procedura di Lbhi, verso la quale ha crediti per 32 miliardi di dollari (a fronte di altrettanti debiti verso gli obbligazionisti europei), e aspettare che questa si concluda prima di soddisfare i propri creditori. Ma se, in estrema ratio, Lbhi decidesse di accollarsi direttamente la liquidazione dei bond europei, che essa ha comunque garantito, senza la registrazione del credito negli Usa ogni speranza di rimborso svanirebbe.

Nei giorni scorsi sono state pubblicate da Lbhi le istruzioni per l'insinuazione al passivo, attraverso la proof of claim, ovvero prova del credito, chiarite e codificate in una recente circolare dell'Abi ma anche nelle informative ai clienti di uno degli studi più attivi in Italia su Lehman, lo Studio Giuridico Economico (Sge). La procedura semplificata decisa dall'amministratore Usa, Alvarez&Marsal, consente alle banche di non chiedere ai clienti un mandato e dunque di avvalersi del silenzio-assenso: gli istituti di credito che decideranno di iscrivere i propri clienti a settembre invieranno lettere in cui annunceranno l'intenzione di procedere in questo senso salvo decisione contraria, da mettere per iscritto, da parte del cliente. Da quel momento in poi per Lbhi la controparte da pagare non sarà più l'obbligazionista, ma la banca che poi procederà a rimborsare il titolare del bond.

Alcune banche (ai primi di settembre sapremo quali saranno), invece, si limiteranno a informare i clienti della scadenza per la registrazione del credito e a fornire tutto il supporto informativo per procedere all'operazione. Le informazioni per chi si vuole muovere in prima persona sono fornite all'indirizzo internet http://www.lehman-docket.com, alla voce Lehman Program Securities. In quella sezione va dapprima verificata la presenza del proprio titolo nella lista delle obbligazioni emesse in Europa (Euro Medium Term Note Program, German Note Issuance Program e Swiss Certificates Program) utilizzando l'Isin code del titolo.

Poi si può scaricare il documento per la proof of claim che va compilato in inglese e spedito via posta o corriere (non via mail) agli indirizzi indicati nella sezione "Notice of deadlines for filing proofs of claim". Per compilare il modulo è indispensabile disporre di informazioni sul titolo obbligazionario. Innanzi tutto l'Isin code, in genere noto all'obbligazionista, e il valore dell'obbligazione che va espresso in dollari americani alla quotazione del 15 settembre 2008.

Ci sono poi due passaggi importanti per i quali è richiesta la collaborazione della banca che ha venduto il bond: la procedura richiede un blocking number, o numero di blocco, del titolo presso il depositario di ultima istanza (Clearstream o Euroclear). Questa procedura di blocco, che va richiesta alla banca, deve essere effettuata dall'istituto entro e non oltre il 23 ottobre 2009: quando la banca avrà eseguito la procedura, dovrà fornire il numero di blocco che va inserito nel modulo. È necessario, inoltre, il numero conto clienti che la banca ha accesso presso il depositario di ultima istanza: anche questo dato va richiesto al proprio istituto di credito.

«Già all'indomani del provvedimento del tribunale di New York del 2 luglio - spiegano Raffaele Romano e Angelo D'Alessandro dello studio Sge - ci siamo mossi, per i nostri clienti, chiedendo alle banche di attivarsi per fornire i blocking number dei titoli. Ancora prima, avevamo ottenuto i numeri dei conti clienti aperti dalle banche presso i depositari ultimi dei titoli».
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

 

 

  Quel che volevate sapere sui mercati e non avevate il coraggio di chiedere

10 Agosto 2009 00:46 MILANO - *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank

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Cominciamo con due questioni che a un certo punto erano diventate quasi ossessive e che sono quasi scomparse dall’orizzonte. Che ne è della deflazione? Che ne è dell’iperinflazione? Sono scomparse tutte e due insieme, come fonti di angoscia, perché ci troviamo nella tipica situazione d’inizio ciclo, quando la crescita riprende e l’inflazione continua comunque a calare per un anno o due. La ripresa calma le ansie di quanti temevano la deflazione, mentre l’inflazione che scende mese dopo mese toglie spazio al tema dell’esplosione inflazionistica prossima ventura.

In generale, la questione dei prezzi rimarrà sullo sfondo per tutto quest’anno e, scommettiamo, per tutto l’anno prossimo. Possiamo comunque stare certi che i due temi, deflazione e iperinflazione, torneranno di moda più e più volte nel corso degli anni Dieci.

Che faranno i bond con un’inflazione in discesa e una ripresa del ciclo economico? I governativi lunghi continueranno a oscillare senza una direzione precisa, nevroticamente negli Stati Uniti e più compostamente in Europa. Continueranno quindi a prestarsi molto bene al trading, anche attraverso opzioni. Dato il forte carry di curva sarà preferibile mantenersi tendenzialmente lunghi, piuttosto che corti, ancora per qualche mese. I corporate bond, dal canto loro, continueranno ad apprezzarsi anche perché le imprese, avendo tagliato i programmi d’investimento, non metteranno in giro carta nuova ma si limiteranno a rinnovare quella in scadenza.

Sui corporate di qualità scadente, saliti moltissimo nelle ultime settimane, si moltiplicano invece i segnali d’allarme. Si tratta però di un problema molto più americano che europeo. Da noi i debitori di bassa qualità si riforniscono dalle banche e non direttamente sul mercato obbligazionario.

Perché l’oro è sui massimi se l’inflazione scende?

Solo per la debolezza del dollaro. L’oro ha molte identità e molte ragioni d’essere e ce ne sarà sempre qualcuna che riuscirà a sostenerlo. Per ognuna di queste identità ci sarà però qualche altro strumento che renderà di più.
Per quella industriale sarà meglio il platino. Per la difesa contro la debolezza del dollaro sarà meglio comprare valute di paesi produttori di materie prime finanziandosi per l’appunto in dollari. Per giocare il tema della ripresa economica sarà meglio il petrolio o comunque un basket di materie prime.

Per la difesa dai rischi di iperinflazione ci sono le obbligazioni governative indicizzate. L’oro avrà un momento veramente suo se e quando non solo l’inflazione apparirà fuori controllo ma la stessa solvibilità dei debitori sovrani apparirà di nuovo in discussione.

Si parla molto di ripresa, ma finora solo la Cina ha mostrato segnali concreti.
Che dire però dei grattacieli nuovi fiammanti di Shanghai e Pechino che rimangono desolatamente vuoti? Non sono il segno di una ripresa effimera e drogata dal credito facile? Tutta l’imponente ripresa cinese è stata accompagnata da scetticismo. Prima si è detto che le statistiche erano gonfiate, ora si dice che c’è una bolla immobiliare che si tradurrà presto in fallimenti e in un pesante deterioramento dell’attivo delle banche. In realtà la Cina ha già dato prova molte volte, negli ultimi decenni, di sapere crescere da sola. Questa volta, oltretutto, ha a disposizione, per farlo, una ricchezza finanziaria senza precedenti sotto forma di riserve valutarie.

Si parla molto dei grattacieli trasparenti (in quanto disabitati) perché colpiscono l’immaginazione. Certo, qualche immobiliarista fallirà, qualche banca pubblica dovrà svalutare l’attivo e lo stato, come ha sempre fatto, la ricapitalizzerà. Se invece di grattacieli si fossero costruiti carri armati per l’Esercito Popolare di Liberazione nessuno avrebbe detto niente. Nessuno sarebbe fallito e nessuna banca avrebbe svalutato l’attivo. Sarebbe stata comunque spesa pubblica ed è meglio che sia finita in grattacieli vuoti, che prima o poi si riempiranno, piuttosto che in carri armati.

Si dice però che anche in Europa e Stati Uniti la ripresa sarà effimera e drogata. Che succederà quando finiranno gli incentivi per le auto? Si parla molto di fiammata da zuccheri e di crescita rubata al futuro. Il singolo, unico, piccolo, modestissimo miliardo per il Cash for Clunkers (il programma americano per la rottamazione anticipata delle auto) sta creando scandalo e dibattito come i 700 del Tarp, i 780 del pacchetto fiscale di febbraio o i 1000 del Talf perché in effetti sta avendo un successo, sul piano psicologico, paragonabile a quello dei suoi costosissimi predecessori.

Sul piano farmacologico, incentivi di questo tipo non vanno considerati come sostanze tossiche (si dice zuccheri educatamente, ma si pensa a qualcosa di peggio), ma come ricostituenti. Certo, fanno salire la domanda di auto, ma questa resta pur sempre sotto il livello tendenziale. Viene leggermente smussata la crescita futura, tutto qui. La questione di quello che succederà dopo è posta male, perché gli incentivi, tanto in Europa quanto in America, proseguiranno fino a quando la domanda non sarà in grado di crescere da sola.
Alla fine di quanta crescita stiamo parlando?

Goldman Sachs ha alzato le stime per il secondo semestre americano al tre per cento annualizzato. C’è un tre per cento di stimolo fiscale e un due di ricostituzione di scorte. Se non ci fossero lo stimolo e le scorte la crescita sarebbe dunque a meno due. Però ci sono. Smetteranno di esserci? Sì, certo, ma non sappiamo ancora esattamente quando. Per Feldstein già a fine anno, per Goldman Sachs nella seconda metà del 2010. Nei prossimi tre mesi avremo comunque un flusso incessante di dati positivi, dal Pmi del Portogallo alle vendite al dettaglio del Manitoba, dalla produzione industriale bavarese alle case unifamiliari della Costa Pacifica.

Se consideriamo che all’inizio di quest’anno il Fondo Monetario aveva ipotizzato una ripresa solo per il 2010 non possiamo lamentarci troppo. Con un rialzo del 50 per cento dai minimi le borse non hanno già prezzato ogni possibile ripresa? Nel suo libro Predictably Irrational, Dan Ariely racconta, esperimenti alla mano, come gli esseri umani facciano molta fatica a stabilire il valore assoluto di qualsiasi cosa, ma siano invece bravissimi a notarne il valore relativo, a fare cioè i confronti con cose simili.

Oggi per le borse non è facile trovare un multiplo corretto ed è forse ancora più difficile prevedere il livello degli utili. Quello che però si capisce molto bene è che in giugno la situazione era già molto migliore che in marzo e oggi in agosto è molto meglio che in giugno. E’ stato così anche quando si scendeva, naturalmente. Insomma, se nei prossimi tre mesi il flusso di notizie si manterrà positivo è quasi impossibile che si riveda un bear market. E’ probabile che si continui a salire, magari molto piano, magari valorizzando molto i pochi dati negativi in modo da rallentare la salita.

C’erano una volta le esogene in perenne agguato. Sono sparite anche loro?

David Rosenberg, un coerente pessimista, ne cita tre. La prima è lo scoppio della bolla cinese. La seconda è il possibile precipitare della tensione tra Iran e Israele. La terza è l’influenza suina. Della Cina si è detto. Sull’Iran è difficile valutare se la fluida situazione interna avvicini o allontani un possibile scontro. Quanto all’influenza, c’è effettivamente da stare attenti.

Le stime ufficiali parlano insistentemente della possibilità che il virus colpisca due miliardi di persone. Più persone sono colpite più possibilità ha il virus di mutare e diventare più pericoloso. Sono state già scoperte varianti resistenti ai farmaci. Da un punto di vista meramente economico una pandemia può fare un danno diretto limitato (le fatalità, le giornate di lavoro perdute) ma un danno indiretto enorme se produce panico e se induce la gente a chiudersi in casa.

Per i mercati azionari, magari saliti ulteriormente da qui a fine anno, il riaccendersi dei timori di pandemia fornirebbe un eccellente pretesto per una marcata correzione, tanto più forte quanto più si sarà saliti nel frattempo. Detto questo, ricordiamo che le esogene potenziali non devono mai essere considerate per fare (o per evitare) scommesse direzionali, ma devono sempre essere tenute presenti in termini di gestione del rischio. In questa prossima fase, in altri termini, si potrà restare sovrapesati, ma si dovrà destinare una parte degli utili all’acquisto di protezione e si dovranno operare frequenti stress test sulle posizioni.

Perché il dollaro scende con un’economia americana in miglioramento? Perché il dollaro, con i tassi a zero, è un’ottima valuta di finanziamento per operazioni di carry. Se voglio puntare su un rialzo del real brasiliano è molto più facile farlo finanziandomi in dollari piuttosto che in yen o franchi. I mercati, dunque, non stanno scommettendo sulla debolezza dell’America, ma sulla forza del Brasile, del petrolio, delle borse o di qualsiasi cosa sia acquistabile al mondo. Alla stessa conclusione si arriva per un’altra via. L’indebolimento del dollaro, per l’Europa e per l’Asia, è molto più sopportabile quando l’economia volge al bello e il dollaro debole, a sua volta, accelera la ripresa globale perche’ induce il resto del mondo ad adottare o a mantenere politiche espansive. In assenza di inflazione questo gioco può continuare.

L’America, nel frattempo, recupera competitività’ e può continuare a sorprendere positivamente in termini di crescita, compensando con le esportazioni la nuova frugalità dei suoi consumatori e la diffidenza a investire delle sue imprese.
 

Fonte - Il Rosso e il Nero - Abaxbank

 

 

 

  Borsa: attenzione che arriva la frenata

11 Agosto 2009 00:40 BIELLA - *Maurizio Milano

*Questo documento e' stato preparato da Maurizio Milano, resp. Analisi Tecnica Gruppo Banca Sella

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Dopo il test dei minimi di metà maggio avvenuto nelle sedute dell’8-13 luglio, il mercato azionario ha oramai messo a segno 4 settimane di marcati rialzi (dal +16% dell’S&P500 al +20% del FtseMib), confermando così la vitalità del bear market rally in essere da inizio marzo. I recuperi dai minimi di marzo – successivi ad uno dei ribassi più impressionanti della storia borsistica, da fine 2007 ad inizio marzo 2009 – sono generalmente superiori al 50% (per il Nasdaq composite +59% e per il FTSE/Mib addirittura +73,9%, senza contare i dividendi), e sono stati trainati dal settore automobilistico, bancario e dalla tecnologia-software.
Tutti gli indici sono in territorio ampiamente positivo da inizio anno: +6,4% per il Dow Jones; +10% circa per il DJEurostoxx50 ed il FtseMib; +11,4% per l’S&P500; +19% per il Nikkei225 ed addirittura +27% per il Nasdaq. Non male, viene da dire. Anche se sugli indici principali (fa eccezione il Nasdaq) siamo ancora un 15% circa al di sotto dei livelli di fine settembre-inizio ottobre 2008; da inizio 2008 rimaniamo poi ovunque in rosso, con perdite che vanno dal -24% del Nasdaq (l’indice più performante) ad un -29/31% di Dow, S&P500 e Nikkei225, ad un pesante -38% per il DJEurostoxx50, con un record negativo di -43% per il Ftse/Mib. Siccome l’euro/dollaro è grosso modo sugli stessi livelli di inizio 2008, le dinamiche di Usa ed Europa solo valide anche prendendo in considerazione l’effetto cambio.

Al di là di possibili prese di beneficio di breve, che si preannunciano comunque contenute (ammesso che ci siano), confermiamo ancora una volta che i livelli degli indici azionari di fine settembre-inizio ottobre 2008 rappresentano l’obiettivo "naturale" del bear market rally in corso: 1100-1200 per lo S&P500; 2200 per il Nasdaq; 10350-11000 per il Dow Jones Industrial; 3000 per il DJEurostoxx50; 25000-26500 per il FtseMib; 11000/750 per il Nikkei225. Il bear market rally entra nella fase di maturità, per così dire, ed il progressivo avvicinarsi degli obiettivi renderà sempre meno attraente il profilo di rischio-rendimento.

In ottica tattica si conferma quindi di continuare a "cavalcare" la salita, senza farsi prendere però da un eccessivo ottimismo sulla sostenibilità del trend in atto. Ipotizzare di essere già dentro un mercato Toro rimane prematuro, e probabilmente i rialzi marcati di questi 5 mesi – con l’appendice dell’ultima gamba rialzista che ci attende – dovranno essere seguiti da una correzione e da una lunga fase di riaccumulazione.

Quando finirà la festa, quindi? Potremmo ipotizzare, paradossalmente ed in ottica cinicamente contrarian:

quando anche i più restii, i catastrofisti di ieri, si risveglieranno ottimisti

quando i centri studi inizieranno a fare a gara a chi di loro è più positivo

quando tornerà l’ottimismo e si preannunceranno riprese imminenti e sostenute

quando le paure dei mesi passati appariranno solo più come un brutto sogno

quando fioccheranno previsioni di bull market stabili all’orizzonte

quando i media generalisti si saranno accorti che la Borsa sta salendo
quando anche gli Orsi più impenitenti inizieranno finalmente a cedere alle lusinghe del Toro ed inizieranno ad acquistare...

...Bene, proprio allora sarà forse giunto il momento di vendere, monetizzare gli utili, e mettersi alla finestra tornando liquidi. Se poi la correzione che seguirà – verosimilmente – al raggiungimento degli obiettivi indicati non sarà superiore al 15-20%, potremo concludere che il bear market sarà davvero terminato e che inizierà probabilmente una fase laterale di riaccumulazione, che si preannuncia comunque piuttosto lunga. Si potranno allora ipotizzare portafogli più "strategici", dando un peso crescente ad aree geografiche caratterizzate da elevata crescita demografica – e quindi economica – come la Cina, l’India, il Brasile, la Russia.

Sul fronte petrolio/commodities, prosegue la forte correlazione col mercato azionario. Il movimento correttivo si è esaurito il 13 luglio, in corrispondenza col minimo dell’azionario, e sono tornati gli acquisti che hanno riportato le quotazioni sui massimi di periodo. In linea con le possibilità di prosecuzione del bear market rally azionario (verso i livelli di fine settembre-inizio ottobre 2008), sembra quindi debba proseguire anche il rialzo di petrolio e commodities: anch’esso, tuttavia, è un bear market rally, un rialzo di natura ciclica e non strutturale, destinato quindi a sgonfiarsi quando arriveranno le prese di beneficio sull’azionario.

Per l’Oro (ticker Bloomberg GOLDS, PC gold spot 945) è probabile prosegua la fase moderatamente positiva all’interno dell’intervallo 905 – 990. Il trend rialzista dominante riprenderebbe solo col superamento dei massimi in area 1006/33 (poco probabile, presupporrebbe una "caduta libera" del dollaro).

L’obbligazionario (Bund e Treasury) dovrebbe difendere le posizioni ma non sono ipotizzabili rialzi sopra i massimi di periodo.

Per quanto riguarda il dollaro, il trend macro sembra quello di un dollaro debole/laterale, tra due estremi:

1) dollaro in caduta libera, che non sarebbe però funzionale agli interessi Usa anche per le ripercussioni negative sui Treasury (e conseguente nervosismo della Cina);

2) dollaro in forte apprezzamento, che non sembra verosimile finché la Fed prosegue con le politiche di quantitative easing.

La risultante dovrebbe quindi essere un dollaro debole ma non debolissimo: ciò aiuterebbe il mercato azionario e favorirebbe la bilancia commerciale senza creare paure di "fuga dal dollaro", contribuendo così a creare uno scenario di relativa stabilità. Un lento deprezzamento del dollaro aiuterebbe ad uscire prima dalla crisi economico-finanziaria in atto, ma deve essere molto lento perché sia condiviso dagli altri Paesi. La prima resistenza contro euro è a 1,4500; sopra lì (prematuro) si salirebbe verso 1,4720, e poi a testare la resistenza critica a ridosso di 1,5000 (assai improbabile che sia superata nei prossimi mesi). Al di là dei livelli, considerati in modo statico, è quindi fondamentale la "velocità" di deprezzamento del dollaro...magari tra 2 anni saremo anche ad 1,6000 ma un cambio così adesso sarebbe assolutamente destabilizzante. Un primo segnale di rimbalzo per il dollaro si avrebbe sotto 1,4000, con conferma (prematuro) sotto 1,3730.
 

Fonte - Gruppo Banca Sella

 

 

 

  Venerdì 14 Agosto 2009   Sabato 15 Agosto 2009   Martedì 18 Agosto 2009  
       
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Leggere i fondi del caffè

11 August, 2009 at 23:39 - by phastidio
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La storia sta per ripetersi?

 

  Comparazione grafica analogie punti di rottura  
     
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Fonte - Macromonitor

 

 

Per l'est Europa meglio usare le molle

11-08-09 - Morningstar.it
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L’est Europa sta dividendo il mercato. Da una parte ci sono molti operatori che, con un ritrovato appetito per il rischio, nell’ultimo mese (fino all’11 agosto) hanno fatto salire l’indice Msci della regione (calcolato in euro) del 20,5%, portando la performance da inizio anno a +46%. Dall’altra ci sono quegli investitori che, ancora scottati dall’andamento dell’anno scorso (-70%), preferiscono procedere con i piedi di piombo. Anche perché si tratta di un’area che mostra ancora molti problemi, sia dal punto di vista della stabilità politica, sia da quello della sicurezza finanziaria.

Fra gli ottimisti si può a buon diritto inserire la Banca mondiale. Nel suo ultimo rapporto dedicato all’area ha preso in esame sei elementi: libertà di espressione, stabilità politica, abilità dei governi, qualità dei controlli, forze di polizia, corruzione. L’istituto si è concentrato su quei Paesi che hanno mostrato miglioramenti nel decennio 1998-2008, indicandoli anche come posti nei quali si può investire con maggiore tranquillità.
In prima posizione è finita la Serbia, che ha mostrato di aver lavorato bene su cinque dei sei punti presi in esame (a parte la qualità dei controlli). Seguono l’Albania e l’Estonia, che hanno fatto progressi nel controllo della corruzione e delle forze di polizia. “C’è da precisare che la maggior parte di queste nazioni partivano da un livello molto basso”, recita lo studio della World Bank. “Per questo è difficile giudicare se i miglioramenti rappresentano un progresso che avrà seguito o se si tratta soltanto di episodi isolati. Ad esempio, all’inizio delle nostre rilevazioni, la Serbia era un Paese controllato da un governo militare”.
Quanto sia fragile l’equilibrio della regione lo dimostra anche la cronaca di questi giorni con le rinnovate tensioni fra Russia e Ucraina che, per quanto riguarda le Borse, ha mandato sopra i 70 dollari al barile il prezzo del petrolio. Resta poi in vigore l’allarme lanciato nelle settimane scorse dal Fondo monetario internazionale sulla Lettonia. Il Paese, ha spiegato nelle settimane scorse l’Fmi è a un passo dal default e potrebbe dare il via a un crisi che contagerebbe l’intera regione.
Un invito alla cautela, almeno nel breve termine, arriva anche da Giles Worthingto, gestore del fondo M&G Pan European. “Prima della crisi economica gli Stati baltici hanno attraversato una fase di rapido sviluppo stimolata da un’eccezionale crescita del credito, da bassi tassi di interesse e da una forte espansione internazionale”, spiega il money manager in una nota. “Ora i mercati immobiliari sono collassati, il Pil si è contratto brutalmente e si prevede che quest’anno l’economia della sola Lettonia subirà una contrazione del 18%”.
 

Fonte - Morningstar.it

 

 

INDICI EUROPEI A SCONTO, PAROLA DI GOLDMAN SACHS

12 Agosto 2009 01:56 MILANO - Borsa&Finanza
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Un p/e di 10 volte non può far paura. Nemmeno se si viene da un rialzo del 40% in 5 mesi. Le borse UE trattano a multipli molto contenuti: 1,5 volte il patrimonio netto, vale a dire ai minimi della forchetta di oscillazione degli ultimi 20 anni e...
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Un p/e di 10 volte non può far paura. Nemmeno se si viene da un rialzo del 40% in soli cinque mesi. Di questo ne sono convinti gli strategist di Goldman Sachs.
Nonostante tutto, infatti, i listini europei - è il loro ragionamento - trattano a multipli molto contenuti: 1,5 volte il patrimonio netto, vale a dire ai minimi della forchetta di oscillazione degli ultimi 20 anni, e 12 volte gli utili trailing (vale a dire la somma degli eps dei quattro più recenti trimestri), contro una media storica di circa 16 volte. Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che le condizioni di 20 anni fa, dal punto di vista dell’inflazione, sono ben diverse da quelle attuali, ora che l’aumento dei prezzi al consumo è prossimo allo zero.

Vero, rispondono da Goldman, ma anche un p/e modificato (al ratio si aggiunge proprio il tasso di inflazione) evidenzia (si veda il secondo grafico accanto in pagina) come la sua media storica non si discosti mai in genere dal valore di 20; dal 1973, poi, è pari a 18,1 volte, ma ora siamo a quota 12,1 volte, quindi ancora una volta a valori veramente contenuti.

Certo, in effetti nessuna misura di valutazione basata sui multipli è perfetta, e il focus degli investitori, specie dopo un’ascesa delle quotazioni così rapida, è tornato a puntarsi sulla possibile nuova caduta dei profitti aziendali - un fatto che amplierebbe nuovamente i ratio borsistici - ma gli analisti di Goldman ribattono mostrando come, rispetto alle previsioni di un -38% in termini di utile netto per le società dello Stoxx 600, ora le stime possano fermarsi a un -19%, quindi la metà, mentre per il prossimo anno si parla già di un +34%, invece di un +19% stimato solo pochi mesi fa.

E a trainare i conti, dopo averli falcidiati negli ultimi due anni, sarebbero ancora una volta i finanziari, con un +14% quest’anno e +65% il prossimo. Ma anche in termini di rendimento del dividendo il mercato azionario europeo rimane decisamente interessante. Il dividend yield dell’EuroStoxx50, infatti, è vicino ai massimi degli ultimi 25 anni al 4,3%, pur dopo i molteplici tagli delle cedole da parte delle grandi corporation europee. Mentre le attese per il prossimo anno sono di un rendimento della cedola che si dovrebbe attestare al 3,5% circa.

Infine, quali settori sono da privilegiare? I ciclici, da alcuni considerati ormai troppo costosi, sono invece ancora interessanti, ribattono da Goldman, dato che la loro crescita seguirà il trend macroeconomico. Inoltre appaiono cari con i multipli sugli utili solo perché i downgrade hanno affossato in modo eccessivo il settore, mentre, per esempio, non lo sono sul ratio prezzo su mezzi propri.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

 

  Borsa: è ancora toro, ma la ripresa sarà a W

12 Agosto 2009 01:45 MILANO - di Claudio Kaufmann

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La Borsa italiana ha recuperato il 70% in meno di cinque mesi. Una performance enorme, che nel secondo dopoguerra trova paragoni solo nelle fasi finali dei due grandi bull market degli anni ’80. Questo dato va tuttavia analizzato adeguatamente, poiché arriva dopo un un calo del 69% dai massimi, una percentuale che richiede un rialzo del 221% per essere pareggiata. Le due domande principali che dopo questi mesi si pongono gli investitori sono: siamo di fronte a un Toro, a un più modesto Torello o a un semplice bear market rally? E come inquadrare lo scenario di medio-lungo termine?
Francesco Caruso è condirettore di Gestioni Lombarda Suisse (Gruppo Ubi), nonché unico italiano ad avere ottenuto il riconoscimento dell’Mfta. E gli va dato atto di aver sostenuto, fin dal marzo scorso, che vi erano le premesse tecniche per un minimo importante delle Borse mondiali.

Cos’era successo?

Basavo questa convinzione su un insieme di fattori statistici e ciclici che, come quasi sempre accade sui mercati, sfuggono o vengono sottovalutati nei momenti di estrema emotività.

E adesso?

Dal punto di vista macro, le Borse stanno anticipando una ripresa che arriverà gradualmente con i classici sei-nove mesi di ritardo, quindi a fine anno, e il cui segnale finale sarà l’aumento dell’occupazione. Ma non va dimenticato che è in atto una forzata revisione totale di molti settori, in primis di quello finanziario. È improbabile, quindi, che gli enormi stimoli messi in campo da governi e banche centrali possano sanare in un anno gli errori di lungo periodo. Probabilimente assisteremo a un movimento a W dell’economia, fino alla prima metà del prossimo decennio.

Questo perciò era e resta, a mio avviso, un bull market ciclico, a sua volta inserito nel bear market secolare iniziato nel 2000. Lo si può immaginare come un prolungato periodo di bel tempo in pieno inverno, c’è il sole, ma l’aria è sempre fredda. Dopo questa fase di ripresa, la costante erosione di fondo del valore reale delle Borse e del loro potere di acquisto continuerà per alcuni anni. Ma attenzione: questo non è essere pessimisti, ma solamente realisti nell’applicare una disciplina logica e statistica. Qualunque analisi di scenario, ovviamente, non può prescindere dagli indici americani.

Cosa aspettarsi da qui a fine anno per l’S&P 500 e, di conseguenza, per la Borsa italiana?

Vi sono diversi fattori positivi che si possono elencare: 1) l’assenza di cattive notizie sistemiche; 2) la ferma volontà politica di intervento, per evitare ogni focolaio di crisi e stimolare l’economia; 3) la ripresa della fiducia dei consumatori; 4) le enormi riserve di cash degli investitori; 5) il sottopeso dell’equity da parte di privati e istituzionali; 6) la politica di tassi vicini allo zero; 7) il riconoscimento «ufficiale» da parte di molti commentatori della rottura al rialzo degli indici azionari (testa e spalle, Dow Theory, ecc.). In sostanza, i mercati stanno passando dalla fase Uno del rialzo, cioè di recupero dal culmine di pessimismo totale, ma assenza di segnali tecnici e economici chiari, alla fase Due, caratterizzata dal riconoscimento graduale del nuovo trend e dal supporto di dati e notizie più favorevoli. I fattori di segno negativo, al momento, sono piuttosto limitati.

Può indicare quali sono?

Direi tre: la ripresa economica è solo agli albori e non si concretizzerà fino a un segnale di ripresa dell’occupazione; inoltre c’è ancora una visibilità bassa sui futuri utili aziendali; infine, sul breve termine, le Borse stanno entrando in zona di ipercomprato.

Non c’è altro?

Sì, c’è un alert importante che arriva dall’osservazione statistica di lungo termine. Attualmente, dal minimo di marzo di 666 punti, l’indice S&P 500 ha già messo a segno un rally del 50%. Anche estendendo l’analisi al Dj Industrials, si arriva a un range estremo, tra massimo e minimo dell’anno del 65%. Questo significa che, assumendo come stabilito il minimo di 666, il top del 2009 dell’S&P 500 non dovrebbe eccedere l’area 1.050-1.100. Ora siamo a 1.000 e mancano cinque mesi a fine anno. Una conferma arriva restringendo questa analisi alla variazione massimo-minimo di un range di nove mesi. Come si evince dalla storia di Borsa vi sono stati solo due casi, nel 1975 e nel 1983, in cui ci sono stati rally marginalmente più estesi di quello di adesso, ed entrambi furono seguiti da correzioni non particolarmente forti, ma fastidiose.

Cosa fare allora? Comperare, aspettare o vendere?

Con questi tassi a breve, che tra l’altro in Europa resteranno bassi più a lungo che negli Usa, non si può che tentare la strada delle azioni. In ottica di 9-12 mesi la situazione resta positiva, in quanto il Toro può senz’altro correre fino a metà 2010, con un target nell’area 1.200-1.300 dell’S&P 500. Per quanto riguarda l’Italia, mi aspetto di vedere nel 2010 un picco a 26.000-30.000 punti di Ftse Mib. Più sul breve, suggerisco di mantenere o acquistare, ma solo su correzione, alzando il punto di controllo (stop strategico) a 940 di S&P 500 e a 19.500-19.000 di Ftse Mib.

Al di sotto di questi livelli lo scenario rialzista sarebbe messo sotto pressione. Suggerisco anche di attuare una strategia graduale di presa di profitto, ma solo in cao le Borse strappino ancora al rialzo fino a raggiungere già in estate l’area di resistenza e target 2009 di 1.040-1.100 di S&P 500, grosso modo corrispondente a quota 23.000-24.500 dell’Ftse Mib. Se queste aree venissero raggiunte a breve, sarebbe altamente probabile una correzione autunnale di circa il 10% dai massimi.

I settori su cui puntare?

Le migliori carte restano ancora alcune banche, la tecnologia, i ciclici e i mercati emergenti. Ed è difficile ipotizzare una rotazione di leadership a questo punto del ciclo.
 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

 

Banche Usa, i fallimenti non sono finiti: ecco Colonial

15 Agosto 2009 15:40 MILANO - Il Sole 24 Ore
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Colonial Bank viene chiusa dalla Federal Deposit Insurance Corp (Fdic), l'agenzia federale di assicurazione sui depositi, e diventa la maggiore banca americana a essere fallita nel 2009, la quinta nella storia americana. Nel chiudere l'istituto, la Fdic ha raggiunto un accordo con BB&T, in base al quale quest'ultima rileva i depositi, gli sportelli e parte degli asset della seconda banca dell'Alabama. L'accordo raggiunto prevede anche una divisione delle perdite di Colonial fra la Fdic e BB&T su 15 dei 22 miliardi rientranti nell'accordo.
Che Colonial Bank fosse in profonda difficoltà non è una novità: la stessa banca il mese scorso ha messo in dubbio la propria capacità di continuare a operare in seguito ai problemi incontrati nel raccogliere capitali. Constatando che l'istituto è «sull'orlo del collasso», il giudice distrettuale Adalberto Jordan ha accolto giovendì la richiesta di Bank of America di congelare un miliardo di dollari di asset di Colonial al fine di tutelare le proprie rivendicazioni nei confronti dei finanziamenti Colonial.
Colonial ha 355 filiali in cinque stati americani e, al 30 giugno, contava su asset per 25 miliardi di dollari. La banca ha chiuso il secondo trimestre con una perdita di 606 milioni di dollari, registrando il quinto trimestre consecutivo in rosso. Fondata nel 1981 a Montgomery, Alabama, Colonial si è ampliata sotto la guida del fondatore e amministratore delegato Bobby Lowder in Florida, Georgia, Nevada e Texas. È l'espansione in Florida, e nel suo mercato immobiliare, ad aver creato problemi e spinto sull'orlo del fallimento l'istituto.
Se l'accordo con la Fdic andrà in porto, BB&T guadagnerà l'accesso al mercato del Texas, il più attraente per l'industria bancaria: il Texas, spinto dal settore energetico, vanta un'economia solida, e sicuramente più in salute di molti altri stati americani. nel corso della crisi BB&T si è comportata molto meglio di molte delle banche regionali sue rivali: BB&T è uno dei 19 istituti su cui la Fed ha effettuato gli stress test, che hanno rivelato che la banca non aveva bisogno di raccogliere ulteriori capitali.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

«La Borsa cinese è come un gigantesco schema Ponzi»

17 Agosto 2009 15:57 MILANO - Il Sole 24 Ore
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L'Asia sarà la locomotiva della ripresa globale? Il tonfo delle borse asiatiche in avvio di settimana (il peggiore da cinque mesi a questa parte per l'indice MSCI Asia Pacific) ha forse riportato con i piedi per terra quanti in questi mesi avevano scommesso sul Far East. «An astonishing rebound» (Un rimbalzo sorprendente) titola l'ultimo numero dell'Economist. La ripresa dell'economia globale - questa la tesi - sarà trainata dalle economie di Cina, Indonesia, Corea del Sud e Singapore. Nell'articolo di compertina, a supporto della tesi, vengono citati i brillanti risultati raggiunti in questi ultimi mesi dalle economie delle tigri asiatiche. Anche il Giappone (che ha registrato il primo aumento del Pil degli ultimi cinque trimestri, anche se minore del previsto) viene citato come una delle economie che prima di altre uscirà dalla recessione.

La frenata delle Borse asiatiche, con le sue conseguenze sui mercati globali, ha freddato gli entusiasmi. La più colpita è stata soprattutto la Borsa cinese, che ha perso il 5,79 per cento. Lo Shanghai composite index ha fatto registrare il peggior calo dal 18 novembre del 2008 (anche se mantiene un rialzo del 58% dall'inizio dell'anno). Cosa ha contribuito a questo brusco risveglio? Tanti fattori, a partire dalle perdite riportate nel primo semestre dal gigante dell'industria metallurgica Yunnan Copper (terzo produttore di rame del Paese). Ma soprattutto ha inciso il crollo degli investimenti stranieri di luglio (-35,7% a luglio e -20,3% nei primi sette mesi dell'anno). Tutti elementi che hanno rafforzato la convinzione, condivisa da molti analisti, che dietro il rally di Shanghai (salita in un anno di quasi il 100%) non ci sia altro che una bolla speculativa e non una solida ripresa dell'economia reale.

Il timore è quello che i bassi tassi d'interesse e le forti iniezioni di liquidità della Banca centrale cinese abbiano incoraggiato la speculazione (nel mercato azionario e in quello immobiliare) più che un sano impegno nel credito alle imprese. Tra i maggiori sostenitori di questa tesi c'è Andy Xie, ex capo-economista per l'area Asia Pacifico di Morgan Stanley, oggi indipendente. «Nella prima parte dell'anno la liquidità immesa nel sistema bancario è aumentata del 24% - si legge in un suo report pubblicato dal blog di Barry Ritholtz (uno dei guru della finanza più ascoltati negli Usa) - ma il loan deposit ratio (rapporto tra prestiti e depositi) è rimasto pressoché stabile al 66%». Questo significa che la liquidità è stata utilizzata, più che per finanziare le imprese, per investimenti a leva nel mercato azionario e nella speculazione immobiliare.

L'eccesso di liquidi in circolazione, sostiene Xie, ha dato origine a una bolla definita metaforicamente «un gigantesco schema Ponzi» (lo stesso meccanismo adottato dal finanziere-triffatore Bernie Madoff). Il mercato azionario cinese è quindi drogato e il valore delle azioni, secondo l'economista, sono sopravvalutate del 50-100%. Quando scoppierà la bolla? Secondo Xie ci sarà un'importante correzione di rotta a partire dal quarto trimestre dell'anno. Staremo a vedere se il tonfo di Shanghai è solo un temporale estivo, oppure è l'annuncio di una più grave tempesta.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Chi visse sperando…

Monday, 17 August, 2009 at 16:07 - by John Christian Falkenberg
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Per chi si chiedesse le ragioni della debolezza imperante sui mercati negli ultimi giorni.
Il grafico sottostante riporta il rapporto prezzo/utili nel tempo per l’indice americano S&P 500, ossia quanti anni di utili sarebbero necessari perché il prezzo pagato oggi per un’azione venga ripagato con gli utili prodotti dall’azienda per ogni azione, ipotizzando che tali utili non cambino.


 

  USA - Rapporto prezzo/utili per S&P500  
     
... Spxpe814 ...
     


Come si può osservare, siamo tornati a livelli comparabili a quelli dell’euforia del 2004. Date le prospettive tutt’altro che rosee dell’economia, è ormai evidente che il mercato ormai non sta scambiando ai livelli di una ripresa dall’abisso dei mesi scorsi. Sta scommettendo sulla speranza di una robusta ripresa che ci riporti ai livelli dorati precedenti la crisi. Se siete convinti che la questo sia un risultato probabile nel corso delle prossime settimane, ho una fontana da vendervi. Quella di Trevi.
clipped from bespokeinvest.typepad.com

Fonte - Macromonitor

 

 

 

 

 

 

  Borsa: la crisi non è affatto finita

18 Agosto 2009 23:24 NEW YORK - Borsa&Finanza

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Rimane ancora pessimista sul mercato John Mauldin, gestore statunitense molto apprezzato di fondi di hedge fund. Già a ottobre 2007, con i listini azionari sui massimi storici, aveva messo in guardia i lettori di B&F dall’investire in equity, indicando come unici comparti interessanti l’energy e le materie di base; a luglio 2008 aveva poi consigliato di starsene alla larga da Wall Street e anche a novembre era negativo sull’azionario.
E come contraddirlo? È vero che da inizio anno l’S&P500 è salito del 10% e ha guadagnato il 47% dai minimi di marzo, ma questo lungo rally non ha fatto altro che riportare le quotazioni sui livelli dei primi di novembre 2008. Ora la sua view è ancora negativa, tanto da non trovare alcun appeal nell’investimento in titoli azionari. «Abbiamo assistito semplicemente a un bear market rally - spiega Mauldin - e, a mio giudizio, in questo mercato Orso ci rimarremo ancora a lungo. La crisi è tutt’altro che al termine e non vedo particolari motivi per tornare a essere ottimisti».

Quali sono i motivi che la rendono ancora così pessimista, mister Mauldin?

Sul mercato azionario siamo a un livello critico; è vero che il rally è stato potente, ma ora mi attendo una correzione. È l’economia reale, però, che preoccupa. Il recupero è solamente un fatto statistico: a una fase di destocking (la decisione delle imprese di consumare le scorte senza rinnovarle, ndr) ha fatto seguito un necessario periodo di ricostituzione delle giacenze e questo fatto ha permesso di mascherare parzialmente la gravità della situazione. Del resto basta guardare ai dati relativi al consumer spending.

Vale a dire?

L’indice mostra l’andamento del credito concesso agli individui con esclusione dei mutui. La caduta è stata verticale e ora è negativa. Gli americani stanno iniziando a risparmiare, un fatto quasi storico, ma che si ribalta negativamente su un prodotto interno lordo che storicamente si regge anche grazie ai consumi. Inoltre, sul fronte delle banche, tamponati i problemi per le grandi banche, ora le preoccupazioni sorgeranno per gli istituti di medie dimensioni, quelli regionali. Le racconto un episodio.

Dica…

Un banchiere di uno di questi istituti di taglia media, nel corso delle scorse settimane, mi diceva come loro non solo non stiano facendo pubblicità per raccogliere nuovi clienti, ma come, al contrario, li rifiutino. Un segno evidente di come la fiducia su cui si regge l’intero sistema sia veramente ai minimi termini. E con questi chiari di luna non mi sembra facile essere ottimisti.

Quindi i segnali che si leggono di fine della crisi sono ingannevoli? Penso per esempio alla disoccupazione o ai dati sull’immobiliare.

Distinguerei fra le due situazioni. Sul versante della disoccupazione mi sembra, ancora una volta, più un fatto statistico che un sintomo di ripresa. Se togliamo i disoccupati ormai scoraggiati e usciti dalle statistiche e le persone passate part-time per motivi aziendali, ecco che torniamo a numeri decisamente più elevati rispetto alle statistiche ufficiali.

E invece per l’immobiliare?

Qui la situazione è diversa. La lunga discesa sembra essersi ormai arrestata, ma aver toccato il fondo non significa necessariamente che vi sia una ripresa duratura, che prescinda dal rimbalzo cui stiamo assistendo ora e che mi appare fisiologico. E questa non è una bella notizia per l’economia, visto che il real estate ha sempre rappresentato una voce importante per il prodotto interno.

Come vede il dollaro?

In progressivo rafforzamento. L’ipervenduto è ormai eccessivo e visto che fino a qualche mese fa nessuno puntava sul greenback, ecco che ora la ripresa sarà più forte, dato che molti istituzionali dovranno ribaltare le proprie posizioni.

Fra azioni e obbligazioni, quindi, su cosa è meglio puntare?

Ripeto, starei lontano dalle azioni. Forse sono rimasto l’ultimo Orso ancora in circolazione - anche il mio amico Richard Russell, autore dal 1958 della famosa Dow Theory Letter, ha sostituito il simbolo dell’Orso con il Toro nella sua newsletter - ma personalmente preferisco perdere una parte del movimento del mercato piuttosto che vedermelo andare contro. Quindi punterei su bond governativi e obbligazioni corporate di buona qualità.

Infine, qualche considerazione sugli Emergenti e sull’Asia.

Vedo bene il Brasile, male il Giappone e sarei molto cauto sulla Cina. Per quest’ultima, i tassi di crescita degli ultimi anni non potranno ripetersi ancora per molto. Inoltre il Paese mi pare sopravvalutato: in fin dei conti vale il 7% del Pil mondiale e anche se crescesse dell’8% apporterebbe uno 0,5% all’economia globale, attesa in calo del 2,7% nel 2009.

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

 

  Venerdì 21 Agosto 2009   Sabato 22 Agosto 2009   Venerdì 28 Agosto 2009  
       
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  Banche e fair value, brutte sorprese

18 Agosto 2009 23:27 NEW YORK - di Jonathan Weil

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È sorprendente che cosa può fare un piccolo raggio di sole. Analizzando le note a piè di pagina contenute nella trimestrale della banca regionale statunitense Regions Financial Corp., emergono alcuni interessanti particolari. Nel documento, in una tabella, si legge che i prestiti del suo portafoglio, al 30 giugno, valevano 22,8 miliardi di dollari in meno rispetto a quanto scritto all’interno del bilancio. A conti fatti, se non si considerassero i crediti «gonfiati», la patrimonializzazione della banca sarebbe inferiore a zero. Eppure, il governo continua a classificare le banche regionali come «ben capitalizzate».
Se pur rivelazioni di questo tipo, numerose, non sono nuove, lo è la loro frequenza. Con i risultati trimestrali estivi, per la prima volta le società statunitensi sono state obbligate a pubblicare il valore delle proprie partecipazioni finanziarie al fair value e su base trimestrale. In precedenza, tali disclosure erano richieste solo una volta all’anno, secondo quanto prescritto dal Financial Accounting Standards Board. La tempistica di queste rivelazioni è inquietante.

Il mese scorso, con una decisione che ha fatto infuriare la lobby bancaria Usa, la Fasb ha detto che avrebbe proceduto con un piano per espandere l’uso della valutazione a fair value per la contabilità degli strumenti finanziari. In breve, la maggior parte delle attività e delle passività finanziarie dovranno essere contabilizzate a fair value ogni trimestre, anche se non tutte le modifiche (che ne conseguirebbero) del loro valore andranno a incidere sul risultato netto. Un documento formale a questo proposito dovrebbe essere rilasciato entro la fine dell’anno.

Le nuove regole avranno l’impatto maggiore sulla contabilità dei prestiti. Le attuali regole della Fasb permettono ai creditori di valutare la maggior parte dei capitali prestati ai costi storici, «etichettandoli» in qualità di held to maturity o held for investment (crediti che la società ha intenzione di detenere fino alla scadenza). Questo significa che le perdite su quei crediti vengono riconosciute solo quando il management le ritiene probabili. Il che potrebbe avvenire con molto ritardo rispetto al momento in cui tali perdite sono state effettivamente diagnosticate. L’utilizzo del fair value, insomma, renderebbe più rapida la ricognizione delle perdite su crediti, che risulterebbero così all’interno del bilancio.

È vero che le banche regionali rappresentano un esempio estremo del meccanismo dei crediti gonfiati, ma non sono il solo caso. Bank of America ha comunicato che i suoi crediti al 30 giugno erano 64,4 miliardi di dollari in meno di quanto dichiarato all’interno del bilancio. La differenza rappresenta il 58% del Tier 1 Common Equity, una grandezza del capitale utilizzato dai regolatori e che esclude, rispetto all’indicatore Tier 1, le azioni privilegiate e gli asset intangibili come gli avviamenti pagati per acquisire altre società. Wells Fargo & Co. ha dichiarato che il fair value dei suoi crediti era 34,3 miliardi di dollari in meno rispetto ai valori di libro al 30 giugno. Il Tier 1 Common Equity era di 47,1 miliardi.

La differenza tra i due valori è cresciuta con il procedere dell’anno. A fine 2008 il gap, per Bank of America, era di 44,6 miliardi di dollari. Per Wells Fargo era di «appena» 14,2 miliardi, meno della metà di quanto avrebbe registrato sei mesi dopo. Tra i creditori con ampie divergenze sui valori dei loro crediti c’è SunTrusts Banks Inc., che ha mostrato un gap di 13,6 miliardi al 30 giugno, maggiore dello stesso Tier 1 Common Equity pari a 11,1 miliardi di euro. Per KeyCorp il valore dei propri crediti era 8,6 miliardi di dollari in meno rispetto ai valori di libro; il suo Tier 1 Common Equity era pari a 7,1 miliardi di dollari.

In generale, quando il valore di mercato di un credito scende, il creditore può reagire aumentando i costi sul prestito. Quindi osservatori esterni potrebbero percepire un rischio maggiore di default rispetto al management oppure ipotizzare che i collateral a garanzia del prestito si siano svalutati, anche se il debitore non ha mancato una sola rata. Il trend dei crediti bancari non è uniforme. Dodici delle 24 compagnie dell’indice Kbw, inclusa Citigroup Inc., hanno dichiarato che il valore di mercato dei loro prestiti si discostava dell’1% rispetto al valore di libro. Al 30 giugno, il controvalore dei crediti di Citigroup era pari a 601,3 miliardi, ovvero 1,3 miliardi in meno del loro valore di libro. Alla fine del 2008 il gap era di 18,2 miliardi di dollari.

Anche in questo caso la storia insegna: un problema comune alle savings and loans associations, le banche specializzate in mutui a condizioni favorevoli che fallirono durante gli anni ’80, era il fatto che queste banche ricorrevano a prestiti a corto termine e a tassi di mercato per finanziare le loro operazioni, che consistevano principalmente nell’emettere mutui a lungo termine e a tassi fissi. Quando i tassi di mercato sono saliti all’improvviso, si sono ritrovate con asset incapaci di generare ritorni sufficienti a coprire le proprie passività. Se le banche fossero state costrette a registrare a fair value i loro crediti, i loro problemi sarebbero stati chiari fin dall’inizio (la Fasb ha richiesto la comunicazione annuale delle passività a fair value solo a partire dal 1994).

I gap emersi con le relazioni trimestrali evidenziano l’arbitrarietà dei valori di libro e del capitale di vigilanza. Le banche hanno già la possibilità di scegliere se precisare, o meno, il valore a fair value. Per la maggior parte dei crediti scelgono di non farlo, poiché sono considerati come held to maturity e le banche sperano di recuperare nel frattempo il valore perso. Di conseguenza, la scelta tra l’essere capitalizzati in maniera adeguata ed essere sottocapitalizzati si risolve nelle riflessioni di un amministratore delegato ben pagato.

È vero che le stime a fair value elaborate in un orizzonte di corto termine possono costituire un indicatore della povertà di un asset che non tiene conto della sua eventuale rivalutazione sul lungo termine, specialmente quando i mercati non funzionano come dovrebbero. Il problema, però, è che le intenzioni del management potrebbero essere ancora meno affidabili di un metodo come quello del fair value. Per lo meno ora ci troviamo di fronte a numeri reali, anche se è necessario scavare tra le note a piè di pagina per scoprirli.

Fonte - Borsa& Finanza

 

 

 

 

 

Carte di credito, picco casi morosità negli Usa atteso in 2009

Mercoledì 19 Agosto 2009, 14:36 - ANSA
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I casi di morosità sulle carte di credito, aumentati in questi ultimi mesi e che molti analisti temono possano diventare per le banche un problema serio quanto i mutui, potrebbero raggiungere il picco quest'anno, prima del previsto.
I dati migliori delle attese sul tasso di insolvenza nel mese di luglio diffusi ieri dai principali istituti finanziari del settore, hanno rafforzato le previsioni prudentemente ottimistiche che il peggio passerà presto.
Al contrario di chi pensa che il settore, martoriato dalle perdite, non riuscirà a riprendersi fino al 2011, sempre più investitori scommettono in una ripresa dal prossimo anno.
Il tasso medio di charge-off - i prestiti che gli enti emettitori delle carte prevedono che non saranno più rimborsati - nel mese di luglio è sceso per la prima volta in nove mesi, secondo Richard Shane, analista di Jefferies.
Rispetto alle previsioni negative di molti analisti, il miglioramento è stato più ampio del previsto, e anche Bank of America (NYSE: IKJ - notizie) - tra gli istituti più in difficoltà nel settore - ha riportato il primo calo dei casi di morosità in quasi un anno.
Inoltre, i casi di ritardo nei pagamenti (delinquency) - indicatori di futuri casi di insolvenza - si sono ridotti proprio nel periodo dell'anno in cui in genere aumentano, il che potrebbe indicare che il tasso di charge-off potrebbe calare ulteriormente nei prossimi mesi.
"Siamo cautamente ottimisti che (il picco nelle perdite sul credito) si verificherà quest'anno. Le tendenze che abbiamo registrato sembrano indicarlo", spiega Sanjay Sakhrani, analista di KBW (NYSE: KBW - notizie) . "Si è registrato un calo su base settimanale delle richieste di sussidi alla disoccupazione, e ciò è costruttivo".
American Express (NYSE: AXP - notizie) - che all'inizio del mese aveva contribuito a rafforzare la fiducia negli enti che emettono carte di credito riportando un rapido calo dei casi di insolvenza - , ha reso noto che a luglio i ritardi nei pagamenti sono diminuiti per il quinto mese di seguito. Anche JPMorgan Chase ha registrato il terzo calo consecutivo dei ritardi nei pagamenti.
"Mentre i ritardi sono andati peggio di quanto ci si aspettava nei primi quattro mesi dell'anno, maggio, giugno e luglio sono stati migliori", spiega Jason Goldberg, analista di Barclays Capital.
Il cambiamento di tendenza, considerato da alcuni analisti come il segno di un punto di svolta, ha rafforzato l'idea che i prestiti insolventi toccheranno il fondo per poi riprendersi prima del previsto.
I casi di morosità su carte di credito in genere vanno di pari passo con il tasso di disoccupazione, che dovrebbe toccare il picco del 10% entro la fine dell'anno. A luglio era al 9,4%.
Mentre stime iniziali indicano che il tasso di charge-off possa raggiungere un valore medio compreso tra il 12% e il 14%, alcuni analisti ora prevedono che si attesterà tra l'11% e il 12%.
Bank of America è già ben al di sopra di tale livello, con un tasso di charge-off del 13,81% a luglio, ma la maggior parte dei suoi rivali registrano un tasso tra il 9% e il 10%.
I dati di luglio hanno interrotto una serie negativa record di dati di insolvenza mensili. Il tasso medio dei casi di morosità è salito al 10,76% in giugno, secondo il Servizio Investitori dell'agenzia di rating Moody's.
Anche se il settore si lascerà alle spalle le perdite record, dovrà però affrontare la più grande revisione dei regolamenti da almeno vent'anni: la nuova legislazione, che entrerà in vigore a febbraio, limita i tassi di interesse e le spese, e si prevede che avrà un impatto sui ricavi del settore.
 

Fonte - ANSA

 

 

Corporate bond al record Ora si teme il rischio bolla

20 Agosto 2009 09:58 MILANO - Il Sole 24 Ore
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Chiamarlo «boom», ormai, può sembrare riduttivo. Forse la parola più vicina alla realtà è «bolla». Le aziende di tutto il mondo hanno emesso, da gennaio a oggi, più di mille miliardi di dollari di obbligazioni: vetta mai toccata in passato, neanche prendendo gli anni per intero. Contemporaneamente, sul mercato secondario, le stesse obbligazioni societarie hanno registrato il rally più consistente della storia: secondo Morgan Stanley non si era mai visto nulla di simile dal 1925 ad oggi. A guardare il mercato dei corporate bond sembra insomma che la crisi finanziaria non esista: le società di tutto il mondo emettono perché gli investitori hanno tanta voglia di comprare, e gli investitori comprano perché le società hanno tanta voglia di emettere. Eppure, a guardare dietro le quinte di questo «boom», non si possono non notare innumerevoli paradossi. Che lo rendono instabile. È per questo che in tanti si aspettano una frenata. L'incognita è: sarà brusca o graduale? «Siamo saliti con le scale mobili – si chiede Suki Mann di Société Genérale –, ma riusciremo a scendere con le scale?».

Per capire l'aria che si respira sul mercato dei corporate bond, cioè delle obbligazioni emesse dalle aziende industriali, bastano pochi numeri. Moody's si aspetta che nel primo trimestre del 2010 in Europa il tasso di insolvenza delle aziende con basso rating arrivi al 12%: tantissimo rispetto allo 0,7% registrato solo un anno fa. Questo significa che in Europa 12 imprese su 100 con rating bassi finiranno verosimilmente in default. Eppure di fronte a questa ecatombe attesa da tutti, appena un'azienda emette un bond gli investitori sgomitano per comprarselo. Sembra un paradosso, ma è così. Per questo da inizio anno sono stati emessi, a livello mondiale secondo Dealogic, corporate bond per 1.104 miliardi di dollari: le imprese sanno che sul mercato c'è domanda, per cui ne approfittano per mettere fieno in cascina. E per indebitarsi a gonfie vele.

La domanda è così forte che anche sul mercato secondario i prezzi volano e i rendimenti scendono. L'indice iBoxx, che misura il "premio" che i bond aziendali europei pagano rispetto ai tassi interbancari, è passato dai 304 punti base di inizio anno ai 130 punti base di ieri. Questo significa che otto mesi fa le imprese dovevano offrire mediamente rendimenti del 3,04% più alti rispetto ai tassi interbancari, mentre ora possono pagare uno spread di appena l'1,30%. E se si guardano i rendimenti lordi, tenendo conto anche dell'andamento dei tassi interbancari, si scopre che oggi mediamente i bond aziendali europei rendono lo 0,85% in meno rispetto al 31 maggio 2007. Insomma: i rendimenti medi in Europa sono più magri oggi che nel 2007. Sebbene – secondo Moody's – i rischi di default siano molto più elevati.

Questo fenomeno ha due motivazioni fondamentali. Da un lato le imprese stanno cercando sul mercato obbligazionario quel credito che ormai arriva con il contagocce dalle banche. Se le emissioni di bond sono al record, infatti, i prestiti sindacati sono ai minimi storici. Quest'anno – sempre secondo i dati raccolti da Dealogic – i finanziamenti sindacati ammontano a 1.065 miliardi di dollari: circa un terzo rispetto ai 2.970 miliardi del 2008 e circa un quinto dei 4.894 miliardi del 2007. Dall'altro lato, invece, gli investitori hanno tantissima liquidità in portafoglio. E dato che la Borsa ancora non ispira tantissima fiducia (sebbene il rally sia stato poderoso anche lì), le obbligazioni aziendali sono viste come un porto sicuro.

Ma ora in tanti si domandano se questo gioco sia durato troppo. In questi giorni è per esempio uscito uno studio di Morgan Stanley che mette in guardia gli investitori: confrontando la volatilità che c'è sul mercato delle opzioni con l'idillio che ancora si vede sui corporate bond, l'analista Andrew Sheets sostiene che questi ultimi siano molto vulnerabili. Altri analisti iniziano a consigliare obbligazioni bancarie al posto di quelle aziendali, perché – pur avendo rating mediamente molto più alti – offrono rendimenti simili. Anche altri operatori sentiti dal «Sole-24 Ore» consigliano cautela sul mercato dei corporate bond: «Prima o poi si sgonfia, perché ha corso troppo», dice uno di loro. In tanti lo pensano, ma in tanti ancora comprano: questo, in fondo, è il vero paradosso di questo mercato.
 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 

 

Per Mba aumentano le insolvenze e pignoramenti in Usa

Venerdì 21 Agosto 2009, 12:15 - Di BlueTG.it
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Aumentano le insolvenze e i pignoramenti. Soprattutto in Usa ove hanno toccato i massimi storici negli Usa. A darne notizia è il Morgage Bankers' Association (Mba), l'associazione che riunisce gli istituti attivi nel credito ipotecario, che evidenzia come nel secondo trimestre del 2009 oltre il 13% degli americani che hanno acceso un mutuo sono indietro con i pagamenti delle rate o sotto procedura di pignoramento immobiliare.
Nel dettaglio nel solo mese di giugno oltre il 4% dei mutuatari sono stati sottoposti al pignoramento, mentre circa il 9% non ha pagato la rata almeno una volta. Le situazioni più critiche, si legge nel rapporto dell'Mba, si sono verificate in Florida, Nevada e Arizona.
 

Fonte - BlueTG.it

 

 

 

 

 

  A Wall Street tornano gli «Orsi» se il sentiment è troppo positivo

26 Agosto 2009 23:10 MILANO - di Vittorio Carlini

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Il «troppo...stroppia». Il vecchio adagio potrebbe essere utilizzato per analizzare gli umori che aleggiano in quel di Wall Street. La scorsa settimana, l'Investors Intelligence Advisors Sentiment index, che misura il sentiment di circa 150 newsletter di investimento e altrettanti consulenti, ha dato un segnale inequivocabile: il 51,6% degli esperti è positivo rispetto all'andamento futuro della Borsa. Il livello più alto dal dicembre 2007. Chi invece ha un sentiment "Orso" è solo il 19,8% degli operatori: una valore, quello al di sotto del 20%, che non si era più raggiunto dall'ottobre del 2007. Un mese in cui, vale la pena ricordarlo, l's&P500 aveva toccato un suo massimo per poi scivolare per 17 mesi consecutivi.

Si potrebbe dire: e allora, che cosa significa questo dato? La maggioranza degli investitori vedono ancora bene l'evolversi della situazione. Tutto è ok. In realtà, le cose non stanno proprio così. Proprio questa settimana, come riporta Market Watch, Mary Ann Bartels, analista di Bank of America, ha sottolineato che bisogna fare attenzione alla rottura della soglia del 20% delle previsioni "Orso". È un fatto da interpretare come un segnale che i listini stanno raggiungendo un massimo intermedio. Un'impostazione, quella di Ann Bartels, che non deve troppo stupire: spesso, infatti, gli analisti usano le misure dei sentiment in un'ottica contrarian. Vale a dire: quando l'ottimismo è salito troppo è probabile - pensano - che le quotazioni di Borsa ritraccino; viceversa, quando il pessimismo è alle stelle, allora può essere l'occasione di ripartire.
Di solito, infatti, nei momenti in cui gli operatori hanno in massa una visione "Toro", le cose funzionano bene, un fiume di liquidità si è già spostata dai risparmi degli investitori verso le Borse. Con la conseguenza, spesso, che il propellente per ulteriori salite incomincia a scarseggiare. «Un così forte sentiment positivo - dice John Gray, di Investor Intelligence -, vuole dire che i consulenti hanno cosigliato ai loro clienti di comprare, riducendo la liquidità». E a questo punto, diventa rischioso, prendere posizione.

Di più. Altri money manager ricordano come settembre sia, per l'S&P500, il peggiore mese dell'anno. In media , dal 1928 a oggi, il ritorno è stato negativo dell'1,3 per cento. Certo, si può obiettare che le medie lasciano il tempo che trovano: può capitare, come ricordava Trilussa, che il pollo sia mangiato da un solo ma la media sarà sempre... mezzo pollo a testa. Tuttavia il dato deve fare riflettere. Inoltre, nel terzo trimestre 2009 il Pil americano potrebbe rimbalzare ancora (Linn Anna Sonders, di Swabb, pensa a oltre il 5%), e questo dovrebbe sostenere i mercati. Ma nonostante il rally possa trovare dei sostegni anche macro-economici, sono gli stessi ottimisti a pensare che si «dovrebbe prendere un respiro».
Che le incertezze non manchino è, peraltro, dimostrato dai molti dubbi degli investitori sul rally del settore bancario. Non si tratta tanto, o almeno non in particolare, di valutare i fondamentali degli istituti. In realtà, è un sentiment "enigmatico" rispetto ad un comparto dove i fallimenti continuano a succedersi e dove le autorità americane stanno abbassando i requisiti rispetto all'identikit dei cavalieri bianchi. La Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), infatti, fino ad ora ha permesso la vendita delle banche (fallite) ad altre istituzioni bancarie soggette a rigide norme federali, soprattuto in materia di prestiti e di leverage. Ma il continuo aumentare dei fallimenti (potrebbero - secondo alcune stime- arrivare fino a 200 a causa della crisi) ha indotto, la Fdic a votare una riforma nel sistema: gli acquirenti potranno essere anche i private equity con un capital ratio solo del 10%, rispetto alle richieste di molti esperti di una percentuale del 15%. Una scelta, che se non realizzata nei corretti termini, potrebbe creare non poche difficoltà. È chiaro che, in questa situazione, l'incertezza potrebbe farla da padrona. E in un mercato dove gli aspetti psicologici sono, in questo momento, essenziali il semplice cambiamento di sentiment avrebbe conseguenza sui listini. Il che non vuol dire che torneremmo a rischiare "l'armageddon" di metà settembre 2007. Semplicemente, Wall Street potrebbe fare dei passi indietro.

 

Fonte - Il Sole 24 Ore

 

 
 

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