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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Materie Prime - Petrolio

Commodity: niente bolla ma greggio fuori controllo

Borse e Mercati

Portfolio: metà cash e metà azioni

Borse e Mercati

Wally Street rallenterà ma non c'è da aver paura

Borse e Mercati

Borsa: corregge o sale ancora ?

FED

Pit stop per la Fed ?

Borse e Mercati

Addio speculatori in carne e ossa

   

Vai alla seconda parte della Rassegna

 

+++   L'iran non fermerà l'arricchimento dell'uranio   +++   La Rice minaccia l'uso della forza   +++   ONU avverte su rischio deferimento Iran   +++

  Giovedì  13  aprile  2006   Venerdì  14  aprile  2006   Lunedì  24  aprile  2006  
       
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GR1 RAI - 13 APR ore 23:00

   

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GR1 RAI - 18 APR ore 23:00

   

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GR1 RAI - 19 APR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 20 APR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 24 APR ore 22:00

   

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GR1 RAI - 26 APR ore 23:00

   

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GR1 RAI - 27 APR ore 23:00

   

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   Commodity: niente bolla ma greggio fuori controllo

18 Aprile 2006  Milano - (di Cheo Condina)

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Il petrolio tocca il nuovo record a 71,4 dollari al barile. L’oro vola a 614 dollari all’oncia, primato degli ultimi 25 anni. E tutte le materie prime, come rame (+101% negli ultimi dodici mesi), alluminio (+38%), zucchero (+107%) e succo d’arancia (+48%), continuano ad aggiornare i massimi storici. «Ma il rally delle commodity continuerà - spiega a Finanza & Mercati l’economista americano Joel Naroff - Eccezion fatta per il petrolio, che risente eccessivamente delle tensioni geopolitiche legate all’Iran». Naroff è fondatore e presidente dell’omonima Naroff Economic Advisors. E da un lustro è considerato tra principali guru d’Oltreoceano, in virtù dei riconoscimenti che gli hanno tributato - tra gli altri - Bloomberg News e Usa Today.

Mister Naroff, la domanda è d’obbligo. Petrolio a parte, sulle materie prime si è sviluppata una bolla?

Difficile dirlo. Sicuramente siamo su quotazioni molto elevate, ma non credo che assisteremo a un brusco ribasso nel breve periodo. Anzi, alla base del rally delle principali commodity c’è soprattutto la crescita super dell’economia globale: anche Giappone ed Europa, negli ultimi mesi, si sono accodati a Stati Uniti e Paesi emergenti. E dunque prevedo un ulteriore rivalutazione, seppure a ritmo meno forsennato, delle materie prime.

Non sarà vera bolla, però quali effetti potrebbe avere un’eventuale forte correzione?

Potrebbe frenare l’economia reale. Non dimentichiamoci che il caro-materie prime ha fatto la fortuna di Paesi emergenti come India e Brasile. Ovvio che il contraccolpo potrebbe essere significativo. Ma ripeto: non vedo rischi concreti, almeno nei prossimi mesi.

Vada per succo d’arancia, metalli industriali e zucchero. Ma come si spiega il nuovo balzo dell’oro?

Qui il ragionamento è diverso: soprattutto negli Stati Uniti, gli acquisti del metallo giallo sono legati al timore di una fiammata dell’inflazione, che è a sua volta causata dalla crescita. Il carovita, in Usa, resta d’attualità: non è un caso che la Federal Reserve continui nella stretta monetaria nonostante il rallentamento dell’economia nel quarto trimestre.

Qual è, al momento, la materia prima più sopravvalutata sul mercato?

Non ho dubbi: il petrolio. Sulle sue quotazioni influisce la domanda da parte di Cina, India e delle principali economie mondiali. Ma soprattutto la variabile politica, che è legata ai timori di un escalation della crisi nucleare iraniana. Oggi il greggio costa più di 70 dollari al barile, un prezzo esagerato considerata l’offerta presente sul mercato.

Un eventuale attacco americano all’Iran potrebbe spingere l’oro nero oltre i 100 dollari?

E chi può dirlo? Non mi piace questo genere di speculazioni. Ma resta un dato incontrovertibile: le attuali quotazioni del greggio sono gonfiate da variabili geopolitiche.

 

Fonte - Bloomberg - Finanza&Mercati

 

 

 

   Portfolio: metà cash e metà azioni

21 Aprile 2006  Milano - (di *Alessandro Fugnoli)

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*Alessandro Fugnoli e' lo strategist di Abaxbank. Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – Alla base di tutto sta il fatto che Cina e Stati Uniti hanno non solo la voglia, ma il bisogno quasi disperato di crescere. La Cina ha problemi seri di consenso nelle campagne, protagoniste ogni anno di migliaia di rivolte sempre più dure. Deve crescere per tenere tranquilla e lontana dalla politica la classe media urbana e nello stesso tempo per redistribuire reddito verso i contadini. Gli Stati Uniti, dal canto loro, devono crescere per evitare di aumentare le tasse, per pagare una guerra, per stimolare gli investimenti necessari a restare un passo avanti alla Cina, per non diventare protezionisti e uccidere l’espansione globale.

Questo bisogno di crescere bisogna intenderlo bene. A tutti piace crescere, ma non tutti sono disposti a darsi da fare per riuscirci. L’Europa, ad esempio, mette la crescita dopo i conti in ordine, dopo l’ambiente, dopo la salvaguardia dei diritti acquisiti. Il risultato è che, secondo le stime del Fondo Monetario pubblicate oggi, dall’inizio del 2004 alla fine del 2007 la Germania sarà cresciuta in tutto del 4.8 per cento, gli Stati Uniti del 15.2 e la Cina del 44.4. Priorità diverse, risultati diversi.

Continuare a crescere comporta per Stati Uniti e Cina la necessità di continuare a collaborare molto strettamente pur in assenza di amore e, anzi, in un quadro di profonda rivalità strategica. Per il futuro prossimo il grande patto per cui la Cina finanzia gli Stati Uniti e gli Stati Uniti accettano di importare senza protezionismo i prodotti cinesi pagandoli con cambiali rimarrà in vigore. La Cina accelererà la rivalutazione del renminbi e terrà i tassi reali negativi. Gli Stati Uniti alzeranno i tassi, ma in modo da rimanere sempre leggermente dietro la curva ed essere così sicuri di tenere in vita l’espansione.

Alla Fed spetta un compito sempre più impegnativo. Si tratta di garantire una crescita del 3 per cento in un contesto di pieno impiego, di inflazione core crescente e con la necessità di svalutare il dollaro ogni volta che è possibile. Bisogna frenare, quindi, ma con l’obbligo di non scendere sotto una certa velocità. Meglio frenare in ritardo piuttosto che frenare troppo.

In questi giorni i mercati (quando non pensano all’Iran) festeggiano la presunta fine dei rialzi da parte della Fed. In realtà, se si analizzano i segnali e i messaggi, la Fed non dice, tout court, “adesso mi fermo”. Dice invece, testualmente, “fra poco mi fermo e poi resterò ferma a condizione che l’utilizzo dei fattori si stabilizzi”. In pratica, la Fed è disposta a fermarsi al 5 o al 5.25, ma non per sempre come pensa il mercato. Si ferma per essere sicura di non strafare, poi aspetta e guarda se la crescita continua. Se prosegue e se il tasso di disoccupazione non scende ulteriormente, allora continua a guardare. Se invece la disoccupazione continua a scendere, a fine estate o in autunno vedremo nuovi rialzi.

Il prezzo da pagare per continuare a crescere è costituito dalle materie prime sempre più care e, in generale, da un’inflazione che preme verso l’alto, pur senza uscire di controllo. L’inflazione uscirebbe di controllo solo se l’utilizzo dei fattori dovesse ancora salire, ma è proprio questo che la Fed vuole prevenire.

Uno scenario in cui la Fed, insieme con tutte le banche centrali, sta di proposito dietro la curva, ma di poco, è negativo per i bond e positivo per l’azionario e, come abbiamo detto, per le materie prime. Il tutto sarebbe già, di per sè, abbastanza complicato. Per i mercati si aggiungono però altri problemi.

Il primo problema è il carico speculativo che comincia a pesare su alcune classi di asset. Non solo petrolio, oro e materie prime, nell’ultimo periodo in inquietante crescita parabolica. Anche sull’azionario, sempre considerato al di sopra di ogni sospetto, si può cominciare a fare qualche insinuazione. Il sempre perfido Tom McManus di Bank of America nota ad esempio che il dividend yield sul Value Line 1700 è sceso al minimo storico dell’1.5 per cento (era al 2.4 nel 2002) nonostante inflazione e tassi abbiano continuato a salire.

Il secondo problema è l’Iran, cui il mercato pensa un giorno sì e uno no e che però continua a costruire la sua bomba anche nei giorni in cui il mercato non ci pensa. Immaginiamo un Iran attaccato che sospende, insieme al Venezuela, le esportazioni di petrolio e manda centinaia di sha’id a farsi esplodere in America e tira missili all’impazzata sugli oleodotti sauditi. Non è lo scenario più probabile, ma immaginiamolo lo stesso.

Alla fine, mettendo insieme l’espansione che continua, l’inflazione che morde il freno, il carico speculativo e l’Iran, il portafoglio raccomandato rimane pur sempre quello che andiamo suggerendo da molto tempo. Niente bond, niente dollari (o dollari coperti), meno leverage possibile. Metà cash, metà azioni. Delle azioni, la metà in titoli dell’energia. L’altra metà può essere investita, a scelta, nei paesi che crescono (nel 2004-2007) del 4.8, del 15.2 o del 44.4 per cento. Vedete voi quali preferire.

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank per Wall Street Italia

 

 

 

6 Aprile 2006  15:05  ROMA  (ANSA)    +++  ORO: A NEW YORK SOPRA 600 DLR, MASSIMI DAL 1981   +++  13,52 LONDRA (Reuters) +++  Greggio tocca a Londra nuovo massimo storico oltre 74 dollari

    Venerdì  14  aprile  2006   Martedì  18  aprile  2006   Sabato  21  aprile  2006  
       
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   Non investite a vostro rischio e pericolo 

6 Aprile 2006  Milano - (di *Alessandro Fugnoli)

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(WSI) – C’è un episodio di Yogi Bear (“Oinks and Boinks”, 1961, Hanna-Barbera Studios) in cui Yogi e Boo Boo incontrano i Tre Piccoli Porcellini, che aiuteranno a difendersi da Big Bad Wolf, il Lupo Cattivo. Manca solo Girl Bear (che negli anni successivi cambierà nome e diventerà Cindy Bear). Grugniti e bramiti sono i suoni che si sentono in questa fase sui mercati e che ci accompagneranno nei prossimi mesi. Grugniti soddisfatti dal quadro macro, dall’azionario e dalle materie prime. Bramiti leggermente inquietanti dall’obbligazionario e bramiti iniziali (vagiti, più che bramiti) dal dollaro e dalle case.

Le strade, dunque, si dividono. Orsi e porcellini sono andati tutti bene nel 2005, ma il ciclo che avanza comincia a spingere i primi verso il basso mentre mantiene in ottima salute i secondi. Avere portafogli privi dei primi e ben forniti dei secondi farà la differenza da qui a fine anno e forse oltre.

Vediamo ora gli orsetti e partiamo dal più grande, Bond Bear, che ha solo tre mesi di vita ma ha già artigli sviluppati. Le sue zampate hanno portato il decennale americano dal 4.30 (il livello sul quale ha sonnecchiato per tre anni) al 4.85, facendo ancora più danni in Europa, dove il Bund è passato dal 3.25 al 3.85. Come scrivono zoologi, animalisti e guide di parchi naturali, gli orsi delle favole e dei cartoni animati sono tanto carini e buffi, ma quelli veri sono brutali e opportunisti. Non solo non bisogna dare loro da mangiare e non si deve fotografarli, bisogna proprio tenersi lontani.

Bond Bear crescerà molto lentamente, ma crescerà. Nel brevissimo no, perché un certo consolidamento ci può stare, ma nel tempo (nella prima parte del 2007) ce lo troveremo più grosso e più aggressivo. Niente di paragonabile ai suoi antenati del 1995 e del 1998, ma nemmeno qualcosa da prendere troppo sotto gamba. Di curve invertite e di recessioni imminenti che queste preannunciano o non preannunciano si è intanto filosofeggiato per settimane, con il risultato che il ciclo continua a scoppiare di salute mentre la curva si è disinvertita, se ci si passa la parola. Tanto rumore per nulla.

Dollar Bear ha avuto una lunga gestazione. La fascia tra 1.19 e 1.22 ha tenuto per molti mesi, ma nelle ultime settimane abbiamo visto due sortite verso 1.25, di cui una in pieno corso. Il disavanzo delle partite correnti americane continua a crescere, i policy maker mostrano preoccupazione crescente (con l’eccezione sospetta di quelli americani) e le teorie superrevisioniste che vengono avanzate per minimizzare il problema suonano sempre più stonate e in contraddizione tra loro (per un riassunto molto chiaro di queste teorie si veda “Global Imbalances. The New Economy, the Dark Matter, the Savvy Investor and the Standard Analysis”, scritto da Barry Eichengreen di Berkeley e pubblicato sul suo sito).

E’ possibile che anche quella in corso sia una falsa partenza e che ci sia ancora un ultimo o penultimo treno di ritorno verso 1.20. Prima o poi, in ogni caso, si partirà sul serio. Coprire il rischio di cambio è ogni giorno più raccomandabile.

Housing Bear non è ancora venuto alla luce, ma è in gestazione avanzata. Il fatto che si continuino a costruire molte case non è rassicurante, anzi. Avviene sempre così. I costruttori, non sapendo quando finirà il boom, vanno avanti come se non dovesse finire mai. Per loro sono di più i danni nel perdere un mercato che tira rispetto al problema di trovarsi qualche casa invenduta. Se però si guarda allo spread denaro lettera (in aumento), o al tempo necessario per vendere (sempre più lungo), o alla differenza (crescente) tra prezzo richiesto inizialmente e prezzo effettivo della transazione si hanno molti degli ingredienti che di solito portano a una discesa dei prezzi.

Parliamo essenzialmente di America, ma come ha mostrato Daniel Gross (“Bubbles in Real Estate” sul sito del CEPS) il mercato europeo è totalmente correlato nei tempi e nelle variazioni di prezzo con quello americano. Se teniamo conto del fatto che ci sono ancora aumenti dei tassi in programma possiamo ben dire che stiamo per vedere una completa stabilizzazione dei prezzi delle case e, in un numero crescente di situazioni, un inizio di discesa dolce.

Ben diversa è la musica tra i porcellini. Macro Pig si mantiene molto florido. In America i segni di raffreddamento dopo un primo trimestre fortissimo sono poco visibili. In Europa continua la riaccelerazione e in Asia si mantiene una velocità molto elevata, tanto che il Fondo Monetario ha rivisto in questi giorni verso l’alto le stime di crescita per il 2006. Equity Pig continua a ingrassare e mostra un appetito vorace. Digerisce tutto, incluso il petrolio che si avvicina a 70 e i tassi in crescita quasi dappertutto. Per il momento è difficile vedere ostacoli seri sul suo cammino, per cui al massimo se ne starà fermo e si guarderà intorno.

Commodity Pig era quello dato più spesso per finito in questo 2006 e invece mostra segni di grande salute, con nuovi massimi su rame, zinco, oro e quasi massimi sul greggio. I consumi di benzina negli Stati Uniti hanno ripreso a crescere. La produzione industriale è ovunque in crescita. L’offerta tiene più testa rispetto agli anni scorsi, ma è comunque esposta a qualsiasi incidente. Per il 2006, quindi, si prospetta una tendenza molto più calma rispetto a 2004 e 2005, ma comunque rialzista, per lo meno nella prima metà dell’anno.

Che ne è, in questo quadro, del Lupo Cattivo? Il lupo esogeno, Lupus Iranicus, è temibilissimo in prospettiva, ma fino all’estate, presumibilmente, continuerà a gironzolare sui monti Zagros senza scendere a valle. Un consenso su un programma di sanzioni si fa sempre più elusivo. In teoria questo rende più possibile un’azione unilaterale americana, ma solo in teoria. Il problema è così spinoso che rinviarne la soluzione al giorno dopo è, ogni giorno, la cosa più facile.

Quanto al lupo endogeno, il pieno utilizzo dei fattori, se ne vede la sagoma all’orizzonte. La Fed smetterà di alzare i tassi quando vedrà stabilizzarsi il tasso di disoccupazione. Se dopo qualche mese il numero di disoccupati riprenderà a scendere, la Fed riprenderà ad alzare i tassi. Oltre ai grugniti (più deboli nel 2007) e ai bramiti sentiremo così anche gli ululati.

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank per Wall Street Italia

 

 

 

 

 

  Il crack del Nasdaq? "Non c'è"

12 Aprile 2006 New York - (di Federico Fubini)
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Un giorno John Kenneth Galbraith entrò nella libreria degli imbarchi al La Guardia di New York e chiese notizie del «Grande Crash», il suo libro sul crac del ’29. «Non è il tipo di titolo che venderesti in un aeroporto», fu la risposta.
Una simile sorte toccherebbe probabilmente oggi ai verbali, appena resi noti, dei vertici della Federal Reserve guidati nel 2000 da Alan Greenspan. Dopo cinque anni le parole del banchiere trasmettono la stessa vertigine che danno i protagonisti del ’29, euforici sull’orlo di una catastrofe di Borsa che non videro arrivare. A credere ai verbali del «Comitato federale di mercato aperto» (Fomc), l’organo dirigente della Fed, Greenspan non aveva capito che l’America stava vivendo il maggiore crollo di Borsa dai tempi di Calvin Coolidge. Questi, da presidente, alla vigilia della grande depressione annunciò «un’èra di ottimismo senza limiti».
Almeno 71 anni più tardi il capo della Fed nel 2000 dimostra di avere il senso pratico dalla sua. Il 16 maggio per esempio conduce una riunione del Fomc in un clima frizzante, punteggiato da risate messe a verbale. Fuori però la situazione era delicata. Due mesi prima il Nasdaq, il listino newyorkese delle imprese tecnologiche, ha toccato a quota 5.060 punti il massimo di quella che Greenspan stesso ha definito da tempo «un’esuberanza irrazionale». La sensazione di ricchezza trasmessa alle famiglie dalle azioni dal valore gonfiato sostengono i consumi, aumentano i posti di lavoro, surriscaldano i prezzi.
La Fed è preoccupata, in primavera l’inflazione è al 3,7% e si temono alti aumenti. Eppure, a ben vedere, quando il Fomc si riunisce l’ingranaggio si è già inceppato: fra crolli e tentate riprese, il Nasdaq è sceso in due mesi del 30%, il Dow Jones delle grandi icone industriali americane l’ha seguito. È l’avvio di un terremoto che ridurrà il listino tecnologico a un quarto del suo valore, ma Greenspan non pare preoccupato. Anzi, dopo aver lasciato parlare tutti, spazza via le cautele espresse dal suo staff sulla frenata della produttività con una chiarezza di termini che in pubblico non gli si conosce: «Prendo atto delle stime - debutta - ma non ci credo per una frazione di secondo. Non c’è neanche una remota possibilità che siano accurate».
Lo erano: a inizio 2000 la produttività americana non andava verso quel balzo del 6% previsto dal grande banchiere centrale, cresceva a ritmi dimezzati rispetto al ’99. Il motore tecnologico americano si era inceppato. Ma Greenspan ormai sembra nella trappola tipica delle nuove tecnologie: si sopravvaluta il loro impatto nell’immediato, lo si sottovaluta a lungo andare. E lui nel maggio del 2000 vive nell’immediato: «Gli effetti di rete sui sistemi hi-tech stanno creando una grande accelerazione di base nell’economia», dice.
Nella sua euforia non cita i crolli a Wall Street, non parla neanche delle Borse, ma argomenta il suo ottimismo dilungandosi su raffinati dettagli: un terremoto a Taiwan limita la fornitura di semiconduttori a Cisco e Intel, l’impatto dell’effetto-serra sul consumo di gasolio fa sì che le stime di crescita escano forse un po’ sotto la realtà. Così il banchiere raccomanda di alzare i tassi principali, i Fed funds, addirittura di 0,50% al 6,5% e di avvertire che la banca è pronta a nuove strette anche in giugno.
Non le farà. Quando il Fomc si riunisce un mese dopo è ormai chiaro che lo scoppio della bolla a Wall Street sta frenando l’America. In luglio inizierà il primo trimestre di contrazione dell’economia da dieci anni, a fine anno il Nasdaq avrà polverizzato metà del suo valore, la disoccupazione torna a salire. Eppure il grande timoniere della Fed quel giorno di maggio era stato avvertito dai suoi. Il suo vice William McDonough aveva parlato di «euforia nel pubblico che può essere soggetta a cambiamenti rapidi e improvvisi»; esiste, aveva aggiunto, il rischio di «esagerare nella stretta». William Poole della Fed di St. Louis si era spinto anche più in là: «Il mercato è scosso, se cede creerà un sacco di problemi. Voglio dire, non solo politici: anche a noi».
Ma dopo cinque anni di record nei listini e nella produttività, il presidente è troppo sicuro per dar loro ascolto. Forse preso dall’istinto di dare più peso a ciò che può controllare meglio, preferisce un’attenta disanima del credito alle imprese a un’analisi dei mercati. Per poi infilare solo alla fine una nota di umiltà: nel ’94 facemmo le scelte giuste, ricorda, «ma ciò non significa che ci riusciremo sempre: può essere stata fortuna. E se lo fu - nota - la prossima volta potremmo anche perdere».
 

Fonte - Corriere della Sera


 

 

 

 

 

   Wall Street rallenterà ma non c'è da aver paura

24 Aprile 2006  Roma - di Eugenio Occorsio

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Rischia di fare come gli elettori dell’Unione all’uscita dei primi exitpoll, costretti poi sulla graticola per giorni, oppure ha fatto bene Wall Street a festeggiare in anticipo la fine della stretta monetaria? Robert "Bob" Doll è convinto di sì. «Il processo di aumento dei tassi, a quanto ci risulta, dovrebbe essere effettivamente giunto vicino alla conclusione», ci dice al telefono da New York appena tornato dal suo jogging alle 6 ora della east coast. «E’ stato raggiunto un livello di sostanziale neutralità e realisticamente non credo che si andrà oltre», aggiunge. Probabilmente, come tutti convengono, il 10 maggio ci sarà un altro rialzo dello 0,25 fino al 5% secco. Poi basta.

Di Bob Doll c’è da fidarsi: dal settembre 2001 è presidente nonché Chief Investment Officer, insomma il numero uno, della Merrill Lynch Investment Managers (Mlim). Per lui lavorano oltre 500 fra economisti, analisti, gestori, sparsi nei cinque continenti, su un totale di 2.500 dipendenti. La Mlim è uno dei tre maggiori gestori di fondi del mondo, con asset patrimoniali al 31 marzo 2006 pari alla quasi incredibile somma di 581 miliardi di dollari (la filiazione italiana, guidata da Andrea Viganò, gestisce 6 miliardi di euro). Offre tutta la possibile gamma di prodotti innovativi per investitori istituzionali, privati e fondi comuni. Fra i suoi clienti ci sono 141 delle 500 maggiori aziende del mondo e 33 banche centrali. Master in business administration alla Warthon School di Filadelfia nel 1980, prima di entrare in Merrill Lynch nel 1999, Doll è stato capo degli investimenti alla Oppenheimer Funds.

Cosa vuol dire ‘sostanziale neutralità’ nei tassi? «Che i tassi d’interesse non assolvono più alla funzione di stimolo monetario né sono viceversa di ostacolo alla crescita». Hanno quindi raggiunto un livello ottimale? «Diciamo che spingerli al di sopra del 5% sarebbe troppo, significherebbe un segnale preciso che c’è un allarme inflazione e che l’economia va in qualche modo temperata. Invece di questo non c’è traccia. Le conseguenze di un oveshooting, ‘andare al di là della logica’ sarebbero solo negative, e la Fed giustamente vuole evitarle. Anziché un soft landing andrebbe incontro ad un hard landing con tutti i tormenti che ne conseguirebbero. La lettura delle ‘minute’ delle ultime riunioni secondo me non lascia spazio a dubbi che tutto questo sia ben presente».

Veramente l’inflazione in America non è bassissima. Il consumer price index è stato del 3,4% di tasso annualizzato in marzo. E’ vero che in settembre era al 4,7 ma è più alto di quello che la Fed vorrebbe... «Non bisogna guardare all’headline infation ma al tasso core, depurato dai volatili valori di energia e alimentari, che è più basso e ampiamente sotto controllo. E poi, lei stesso ha citato dati dai quali si evince che l’inflazione sta scendendo, e calerà ancora».

Però sarà ‘gonfiata’ ma quella ‘dichiarata’ è l’inflazione che la gente sente sulla propria pelle. Fino a quando dureranno le tensioni sul petrolio? «Non credo che il greggio salirà molto oltre le quotazioni attuali, diciamo che dovrebbe aver toccato i massimi (73,72 mentre parliamo, venerdì). Potrebbe anzi scendere, in concomitanza con un certo rallentamento dell’intera economia mondiale e con l’auspicabile calo delle tensioni geopolitiche».

Quanto vale, a quest’ultimo proposito il fattore Iran, che si aggiunge a quello Iraq? «Non più di 510 dollari. Il grosso dell’aumento è dovuto ad elementi di mercato, a partire dalla fortissima domanda di un’economia globale in espansione. Ma ora il tutto dovrebbe rallentare». Anche l’economia americana rallenterà? «Sì, ma niente di drammatico. Quest’anno si viaggia su livelli più sostenibili, intorno al 3%, un marcato rallentamento rispetto agli ultimi due anni quando la crescita è stata rispettivamente del 4,2 e del 3,8%».

Ma la Fed ha raggiunto i suoi scopi? «Missione della Fed è contemperare la crescita economica e la stabilità dei prezzi. Direi che gli è riuscito». Bernanke assicurerà alla Fed la necessaria indipendenza, non è troppo vicino al presidente di cui era capo degli economisti? «Non penso che ci sia questo problema. Bernanke ha la preparazione accademica e la competenza tecnica per proseguire con successo nell’opera di Greenspan. Ovviamente non ha un’esperienza ‘politica’ da presidente della Fed, ma abbiamo fiducia che lo farà bene».

Ma il fatto che i tassi siano passati dall’1 al 5% in due anni come ha influito? «Secondo me le conseguenze si vedranno solo ora, e neanche subito. Ci sarà qualche leggero rallentamento nella spesa dei consumatori, che negli ultimi 5 anni ha rappresentato l’80% del pil ed è quindi il singolo fattore più importante di sviluppo. E’ un fenomeno che come dicevo uscirà fuori nei prossimi due trimestri, in concomitanza con il rallentamento del refinancing sui mutui, dovuto ad un certa stasi nei mercati immobiliari causata a sua volta appunto dai rialzi nei tassi. Infine, sempre i prossimi due trimestri potrebbero riservare alcune sgradite sorprese i bilanci delle società quotate, i cui margini di profitto sono a livelli da record grazie appunto ai tanti anni precedenti di denaro a buonissimo mercato e che invece ora risentiranno, oltre che dei più alti tassi, dei rincari delle materie prime, petrolio in testa».

Sembrano le premesse ad un crollo di Wall Street... «No, niente di tutto questo. Sono solo le condizioni per il fisiologico rallentamento dell’economia di cui parlavo. In Borsa, quello che avverrà sarà probabilmente un ridimensionamento di alcune quotazioni, che potrebbe arrivare al 10%. Del resto, il ciclo di 19 mesi, passato il quale tradizionalmente c’è un ribasso appunto di tale ordine negli indici, è già stato ampiamente superato perché sono tre anni che il mercato cresce continuamente. Ma, attenzione: tutto questo non significherà affatto un crollo nelle quotazioni. Solo che si determineranno buone occasioni d’acquisto. La tendenza sul medio termine resta buona».

Fonte - La Repubblica - Affari & Finanza

 

 

 

 

Venerdì  7  aprile  2006   Giovedì  13  aprile  2006   Sabato  15  aprile  2006
   
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   Borsa: corregge o sale ancora?

26 Aprile 2006  Milano - di Borsa & Finanza

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Con i prossimi trimestri arriva il primo test importante per il mercato azionario Toro che ha iniziato la sua corsa nella primavera del 2003 tra le cannonate di Baghdad. Gli esperti interpellati da Borsa & Finanza ne sono convinti. C’è di mezzo la tradizionale «stagione delle vendite», che storicamente vede i mesi che vanno da maggio a ottobre come i più fiacchi dell’anno, ma non solo. Gli analisti la vedono così: «Il rialzo dei tassi d’interesse, unito all’impennata del greggio, rischia di frenare il potenziale delle Borse occidentali». Risultato: potrebbe essere l’occasione per portare a casa qualche profitto, sebbene il trend di fondo resti positivo. Insomma, una correzione ma non oltre.

LA MINACCIA DEI TASSI. In America, il rendimento dei titoli del debito a 10 anni ha rotto al rialzo la soglia del 4,5% e si è spinto velocemente oltre il 5 per cento. L’opinione di consenso prevede un allungo fino al 5,5% dove con buona probabilità assisteremo a una stabilizzazione. «Sì, i saggi d’interesse sono la preoccupazione numero uno - dice Charles Morris, capo delle strategie d’investimento di Hsbc - Quando i tassi salgono, le valutazioni azionarie si fanno meno attraenti e diventano care. E io penso che il costo del denaro non possa che aumentare: il petrolio ha sfondato i 70 dollari; l’oro inanella un record dietro l’altro; qui c’è un messaggio, e neanche troppo nascosto; e il messaggio è che i tassi d’interesse sono decisamente orientati all’insù».

Dello stesso avviso il leggendario speculatore newyorkese Victor Sperandeo: «Per quella che è la mia esperienza, non c’è modo di avere una Borsa esuberante se le materie prime continuano a correre a briglie sciolte. È possibile che Wall Street sperimenti una crescita lentissima, ma non sono sicuro di volermi esporre al rischio di un suo capitombolo. Inoltre gli investitori esteri devono pure badare al cambio: misurata in euro, la piazza statunitense sembra inchiodata al palo. Se addirittura la misuriamo in once d’oro, allora sta franando settimana dopo settimana». La tesi di Sperandeo è condivisa pure da Alessandro Fugnoli di Abaxbank, il quale prospetta per Wall Street «un lentissimo rialzo».

Migliori sembrano le opportunità in Asia e in Europa. «L’Asia è il motore dello sviluppo - spiega Charles Morris di Hsbc - In questo momento mi piace la Borsa di Shanghai per il fatto che è rimasta arretrata rispetto alle altre e si trova nel momento propulsivo della spinta iniziale. La Corea, l’India e il Giappone conservano il loro appeal nonostante i guadagni da capogiro del 2005, ma chiaramente sono vulnerabili a una correzione in ogni momento». Per Morris ci sono comunque chance anche nel Vecchio Continente: «In Europa trovo di grande interesse il settore industriale e quello dell’ingegneria, per intenderci società come la tedesca Mann. Mi piacciono perché sono in grado di beneficiare dell’apertura dell’Asia e, per di più, hanno ancora valutazioni contenute e tassi di espansione a due cifre».

COSA DICE L’ANALISI TECNICA. Tornando sul fronte americano, può valere la pena di passare in rassegna il punto di vista dei graficisti: secondo il famoso analista tecnico John Bollinger, inventore di alcuni indicatori comunemente usati dagli esperti di mercato, i titoli del debito sono l’asset finanziario a maggiore rischio. E siccome i risparmiatori devono pur tenere i loro risparmi da qualche parte, Bollinger afferma che «se la scelta è fra obbligazioni e azioni, i pronostici sono meno foschi per le azioni. I settori dell’energia, delle risorse di base e degli industriali dovrebbero formare il nerbo dei portafogli».

Insomma, secondo Bollinger né le azioni né le obbligazioni vantano a questo punto un grande valore intrinseco, ma dovendosi buttare in una direzione, allora meglio le azioni. Più negativo Bill Sharp, presidente dell’associazione internazionale degli analisti tecnici: «Wall Street è salita per oltre tre anni senza soluzione di continuità. La mia esperienza nello studio dei cicli mi porta a pensare che nel 2006 potremmo assistere a una correzione di una qualche entità significativa. Il crollo dei titoli del debito e il balzo del petrolio rafforzano la mia convinzione». Infine ci aiuta a fissare una soglia di allarme e di vigilanza Jeffrey deGraaf, responsabile per l’analisi tecnica alla Lehman Brothers: deGraaf traccia una linea di demarcazione sul grafico dell’S&P500 all’altezza dei 1.250 punti, cioè in coincidenza con i minimi del 2006. «Fino a che le quotazioni si mantengono al di sopra di quel paletto non c’è niente di cui doversi preoccupare. Al di sotto, forse qualche presa di beneficio può avere senso. Infatti una rottura al ribasso potrebbe innescare un’ondata di vendite cautelative». L’esperto della Lehman Brothers concorda con molti suoi colleghi sul fatto che le obbligazioni governative portano con sé pericoli maggiori di quelli insiti nel mercato azionario. Anzi, si spinge ad affermare che «vendere allo scoperto i titoli federali è una delle operazioni con il miglior rapporto rischio-rendimento».

MAGGIO DI VENDITE. Poiché diversi fra i protagonisti interpellati da BB&F hanno fatto riferimento all’andamento tendenzialmente negativo che le Borse occidentali conoscono da maggio a ottobre, può far comodo ripassare i numeri: negli ultimi 20 anni, il mercato azionario europeo ha perso in media il 2% nel periodo che corre appunto fra maggio e ottobre. Questa cifra negativa sta agli antipodi con la performance brillante degli altri sei mesi, quelli cioè da novembre a maggio: qui il guadagno medio si è attestato al 9% per semestre. I mesi in assoluto peggiori sono agosto e settembre in Europa e settembre e ottobre in America. Luglio generalmente rappresenta una sorta di boccata d’ossigeno prima della caduta di fine estate.

Fonte - Bloomberg - Borsa & Finanza

 

 

 

 

Rally di primavera per la Borsa di Tokyo

Sara Silano | 2006-04-11
 

Nell’ultimo mese il Nikkei ha guadagnato il 12%, schizzando oltre quota 17.500. Quadro macro positivo e ottimismo sui risultati aziendali alimentano gli acquisti. Bene i bancari, tra i favoriti in vista delle future mosse di politica monetaria della Banca centrale.
Dissipati i dubbi sulle future mosse di politica monetaria, la Borsa giapponese ha messo le ali nell’ultimo mese, portandosi a livelli record. L’indice Nikkei dei 225 principali titoli ha guadagnato il 12%, superando per la prima volta dal luglio 2000 quota 17.500. In rialzo anche il Topix, che si è portato sopra i 1.700 punti, il livello più alto dal novembre 1991.

Il rally è stato alimentato dai dati macroeconomici e dai risultati aziendali. L’indice Tankan della fiducia delle imprese è rimasto stabile a marzo a +5, con differenti aspettative tra le aziende manifatturiere e quelle di altri settori. L’indice delle prime è sceso, contrariamente alle previsioni degli economisti, mentre le seconde hanno mostrato maggior ottimismo rispetto alla rilevazione di dicembre. Tale sondaggio è considerato dalla Banca centrale del Giappone uno dei barometri più importanti per decidere l’orientamento di politica monetaria e i risultati fanno ritenere che l’istituto guidato da Toshihiko Fukui non alzerà i tassi prima della fine dell’anno.

Le buone prospettive di utili per l’esercizio 2005-2006, che si è concluso il 31 marzo, hanno dato ulteriore slancio alla Borsa di Tokyo. Si sono messi in evidenza i bancari, dopo che Goldman Sachs ha rivisto al rialzo le stime per questo e il prossimo anno fiscale di otto grandi gruppi, che dovrebbero beneficiare del futuro aumento del costo del denaro. Gli acquisti hanno interessato anche il comparto tecnologico, che, però, resta sensibile all’andamento dei concorrenti americani quotati sul Nasdaq.

La ripresa delle quotazioni del petrolio ha spinto i titoli energetici, mentre l’immobiliare è stato oggetto di acquisti dopo la pubblicazione di uno studio che prevede un incremento dei prezzi dei terreni. Tra le singole storie societarie, è da segnalare il balzo di Isuzo Motors, in seguito all’annuncio della casa automobilistica americana General Motors di voler cedere la propria partecipazione nel produttore di camion.

Nell’ultimo esercizio fiscale, il Nikkei ha guadagnato più del 46%, lasciandosi alle spalle la fase Orso. Le prospettive per il mercato azionario restano, secondo gli esperti, moderatamente positive, perché la decisione della Banca centrale giapponese di abbandonare la politica ultra-accomodante è stata vista come un voto di fiducia nell’economia, con riflessi positivi sul mercato azionario. Secondo Tony Dolphin, economista di Henderson Global Investors, il Sol Levante potrebbe non essere immune da un rallentamento della crescita a livello internazionale, ma la forte domanda interna dovrebbe attenuarne gli effetti.

Il rally del listino nipponico è stato sostenuto dai flussi di liquidità provenienti dall’estero. Nei prossimi mesi, tuttavia, le cose potrebbero cambiare con un ritorno degli investitori privati ed istituzionali domestici sulla Borsa di Tokyo e sul mercato obbligazionario dell’area yen, mentre negli anni scorsi essi hanno privilegiato i titoli azionari e del reddito fisso stranieri, che offrivano migliori rendimenti. Secondo gli economisti di Schroders, tuttavia, il cambiamento non sarà rapido, in quanto i tassi sono destinati a rimanere bassi per lungo tempo.
 

Fonte - Morningstar.it

 

 

I gestori rivalutano Wall Street

Sara Silano | 2006-04-11
 

Insieme alla Borsa di Tokyo, quella americana raccoglie i maggiori consensi tra i gestori. Sull’Europa, compresa l’Italia, è ottimista un fund manager su due. Il mercato obbligazionario guarda alle future mosse di politica monetaria.
Clicca qui per leggere nel dettaglio i risultati del sondaggio

Torna la fiducia dei gestori su Wall Street. Secondo l’ultimo sondaggio di Morningstar tra le principali case di investimento che operano in Italia, condotto tra l’1 e il 7 aprile, la Borsa americana salirà nei prossimi sei mesi per quasi il 74% dei gestori. Nessuno prevede, invece, un ribasso. E’ analoga la percentuale dei fund manager che sono ottimisti sul mercato azionario giapponese, mentre poco più di un intervistato su due si attende un rialzo delle piazze europee, compresa quella italiana.

La svolta di Wall Street

Rispetto al dicembre scorso, le previsioni sull’andamento del mercato azionario americano sono migliorate nei primi mesi del 2006, ma tra marzo ed aprile si è assistito a un vero balzo in avanti, favorito dalle attese della fine del ciclo monetario restrittivo. Inoltre, le valutazioni dei titoli sono considerate ragionevoli e i profitti societari solidi. Esistono, tuttavia, alcuni fattori di rischio tra cui l’aumento dell’inflazione, causato prevalentemente dall’elevato prezzo delle materie prime, lo scoppio della bolla immobiliare e le possibili ripercussioni negative sui bilanci aziendali dell’incremento del costo del lavoro.

Pochi pessimisti sul Giappone

Insieme a Wall Street, la Borsa che raccoglie i maggiori consensi è quella di Tokyo, che ha ritrovato slancio nell’ultimo mese dopo l’annuncio della Banca centrale di voler porre fine alla politica monetaria ultra-accomodante. Inoltre, il quadro economico è in continuo miglioramento e gli utili societari in crescita. Alcuni gestori, comunque, mettono in guardia dalle valutazioni elevate ed è per questo motivo che circa il 22% degli intervistati prevede una stabilizzazione delle quotazioni attorno agli attuali livelli e il 4,4% non esclude un ribasso.

L’Europa prende fiato

Circa il 52% dei gestori prevede un rialzo delle piazze finanziarie europee, compresa quella italiana, nei prossimi sei mesi, ma un significativo 43% crede in una stabilizzazione attorno agli attuali livelli. E’ convinzione diffusa che le valutazioni siano elevate e meno competitive rispetto a quelle d’oltreoceano. Tuttavia, il mercato azionario può trarre vantaggio dalla maggior fiducia degli investitori nella crescita economica, che trova riscontro nei migliori dati macro, e nelle operazioni di finanza straordinaria, che hanno alimentato la speculazione. Quest’ultimo aspetto è valido soprattutto per il listino italiano, animato dal riassetto nel sistema bancario. Sulla Borsa di Milano, però, pesa l’incertezza politica.

Il reddito fisso guarda alle prossime mosse di Bce e Fed

Per il 56,5% dei gestori, i prezzi delle obbligazioni americane rimarranno stabili nei prossimi mesi. Circa il 40% degli intervistati, invece, prevede un calo. Il trend delle prossime settimane dipenderà dalla decisione della Federal Reserve di fare una pausa nella fase restrittiva, dopo un ultimo rialzo a maggio, o di proseguire oltre la soglia del 5%. Per quanto riguarda l’Europa, il 60,9% dei fund manager si attende una discesa dei corsi obbligazionari, in corrispondenza con un incremento dei saggi di riferimento da parte della Banca centrale. La riduzione del differenziale tra gli Stati Uniti e il Vecchio continente dovrebbe favorire la moneta unica a discapito del dollaro. Per il 56,5% degli intervistati, nei prossimi mesi l’euro si apprezzerà, anche perché il biglietto verde è sfavorito dai deficit pubblico e di partite correnti.

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra l’1 e il 7 aprile, 23 delle principali società di diritto italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80% degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, American Express, Antonveneta Abn Amro, Azimut, Banca Fideuram, Banca Profilo, BNL Gestioni, BSI, Caam Sgr, Dekabank, Dws Investments Italy, Euromobiliare Am, Henderson Global Investors, Hsbc, Invesco, Investitori Sgr, Julius Baer, Mediolanum Gestione Fondi, Monte Paschi Am, Nextam Partners, Pioneer Im, Sanpaolo Imi Am, Sgam.
 

Fonte - Morningstar.it

 

 

 

 

 

 

   Pit stop per la Fed ?

27 Aprile 2006 New York - di *Antonio Cesarano

*Antonio Cesarano e' il Responsabile Desk Market Research di MPS Finance.
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Bernanke ha confermato il fatto che la Fed è vicina alla fase di ultimazione del ciclo di rialzo dei tassi iniziato a metà 2004 , ma allo stesso tempo ha anche dichiarato che una decisione in tal senso non precluderebbe ulteriori azioni di politica monetaria in futuro laddove fosse necessario. Il capo della Fed ha anche dichiarato di attendersi un favorevole andamento dell'economia nel primo trimestre. Vi dovrebbe però essere un rallentamento della crescita su livelli più sostenibili principalmente a causa di: 1) settore immobiliare; 2) impatto ritardato dei rialzi dei tassi già effettuati. Complessivamente per il 2006 l'outlook delineato da Bernanke è positivo.Tra i fattori di rischio il principale è rappresentato dalla ripresa di spinte inflattive laddove, in presenza di una forte domanda, vi sia una traslazione dei rialzi dei prezzi energetici sui prezzi finali, fenomeno quest'ultimo che fino ad ora è stato piuttosto contenuto.
Allo stesso tempo, Bernanke ha dedicato un'ampia parte del suo discorso alla necessità di rientro del deficit di partite correnti facendo riferimento anche all'esito dell'ultimo G-7 del 21 aprile.
Il Dollaro si sta di conseguenza ancora deprezzando. Il riferimento alla possibilità di una ripresa del rialzo dei tassi dopo un periodo di pausa, è stato più che bilanciato dal riferimento alla necessità del rientro del deficit di partite correnti che, essendo successivo al recente G-7 (cui Bernanke ha fatto direttamente riferimento) lascia trasparire l'intenzione di tollerare un indebolimento graduale del dollaro per consentire un altrettanto graduale rientro (Bernanke ha stimato la tempistica in "alcuni anni") del citato deficit. Il capo della Fed ha anche precisato che il rischio di bruschi cali del valore del Dollaro e di altri prezzi di asset è al momento basso.

In sintesi: ci attendiamo un rialzo dei tassi a maggio che potrebbe rappresentare l'ultimo rialzo del ciclo iniziato a metà 2004, ma al momento ancora non escludiamo del tutto la possibilità di estensione fino a giugno, ipotesi quest'ultima cui gli operatori hanno attribuito una probabilità più bassa rispetto a quella evidenziata prima del discorso di Bernanke. In ogni caso rimane confermata la fine del ciclo di rialzo dei tassi nel semestre in corso. Teniamo altresì in considerazione che, stando alle indicazioni del capo della Fed, non è da escludere in futuro una ripresa della fase di rialzo dei tassi. Si tratta di un'ipotesi cui però attribuiamo al momento una bassa probabilità di accadimento. In ogni caso, occorrerà però attendere almeno il quarto trimestre prima di poter verificare se tale possibilità sarà concreta o meno. La Fed infatti osserverà attentamente l'entità del rallentamento che ha dichiarato di attendersi già a partire dal terzo trimestre ed inoltre occorrerà verificare le eventuali pressioni inflattive derivanti dalle materie prime.

Sul fronte valutario, non si è verificato il temporaneo apprezzamento del Dollaro che ricollegavamo alla possibilità (confermata da Bernanke) che l'arresto del ciclo di rialzo dei tassi potrebbe essere non definitiva. E' prevalso infatti il richiamo al tema del deficit di partite correnti Usa, così come già emerso dall'ultimo G-7. Alla luce dello scenario di arresto del rialzo dei tassi nel semestre in corso ed almeno per tutto il terzo trimestre ed inoltre, visto il forte richiamo sul deficit di partite correnti, rimane confermato lo spostamento dell'attenzione degli operatori dal differenziale dei tassi al tema del deficit di partite correnti. Si tratta di un tema che dovrebbe interessare anche il prossimo trimestre contribuendo a deprezzare il biglietto verde. Nel breve termine, in assenza di una temporanea fase di apprezzamento del Dollaro, indichiamo il livello di 1,26 vs. Euro come importante livello di resistenza pari al 50% del ritracciamento del movimento compreso tra il min ed il max segnati dal 2005. Nel terzo trimestre, il definitivo spostamento del focus sul disavanzo di partite correnti (che nel frattempo è atteso ulteriormente ampliarsi a causa principalmente del livello elevato dei prezzi energetici) potrebbe comportare il raggiungimento del livello di 1,29.

Un'ultima precisazione : la necessità di una ripresa della fase di rialzo dei tassi (lasciata aperta oggi dalle dichiarazioni di Bernanke) al momento appare ancora non elevata ed in ogni caso dovrebbe essere : 1) limitata nell'entità ; 2) collocata alla fine dell'anno. Di conseguenza, laddove si materializzasse potrebbe impattare solo temporaneamente sul biglietto verde comportando un'eventuale breve fase di arresto del trend primario di deprezzamento che dovrebbe interessare il secondo semestre.
 

Fonte - MPS Finance per Wall Street Italia

 

 

 

 

 

 

   Addio speculatori in carne e ossa  

19 Aprile 2006  Milano - di Federico Fubini

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Subito dopo la Grande Guerra, John Maynard Keynes decise di sfruttare le proprie «superiori conoscenze» sulle monete investendo i risparmi dei suoi amici di Bloomsbury. Perse tutto, anche i soldi di Virginia Woolf. Ma se esiste, il giovane che darà forma alle teorie economiche del ventunesimo secolo oggi non sta sopravvalutando le proprie capacità. Semmai sta sbagliando i calcoli su quelle del suo computer.

Gli addetti ai lavori lo chiamano «black box», scatola nera: è il sistema elettronico che sempre più spesso nelle grandi banche d’affari e per i singoli investitori, purché pronti a pagare, sostituisce il lavoro umano. Come nell’automazione delle produzioni tradizionali, dal tessile alle vetture, ciò che faceva una persona sempre più spesso viene affidato a una macchina. Questo, del resto, è il compito dei black box: rimpiazzare gli operatori nella negoziazione dei titoli, dalla scelta del prezzo d’ingresso alla vendita.

Una visibile conseguenza dei black box è l’esplosione dei volumi di scambi sulle principali Borse, che a sua volta incoraggia le aggregazioni fra grandi piazze finanziarie, da Londra a New York. Perché se un uomo può comprare o vendere un numero limitato di azioni ogni minuto, una «scatola nera» moltiplica le mosse esponenzialmente. E più o meno funziona, quando la logica dell’operatore è uguale a quella di un computer per il quale esistono solo due opzioni, zero o uno. Così un black box , più rapido di un occhio umano sui listini, meno emotivo di un cervello, è eccellente per scegliere il prezzo migliore di uno stesso titolo fra New York e Parigi o fra un’azione e un’obbligazione convertibile.

Così la fiducia nelle macchine cresce. Nei grandi fondi ci sono ormai squadre di informatici, matematici ed economisti dedicate a sviluppare programmi elettronici di negoziazione. Trovano una «relazione» (esempio: un certo tasso d’interesse negli Usa causa una certa reazione sul Real brasiliano) e fanno correre il programma finché funziona. Spesso non più di due o tre settimane. Perché i mercati non sono perfetti come un calcolo di Keynes, sono imprevedibili come una pagina di Virginia Woolf.

 

Fonte - Corriere della Sera