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Commodity: niente bolla ma greggio fuori
controllo
18 Aprile 2006 Milano - (di Cheo Condina)
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Il
petrolio tocca il nuovo record a 71,4 dollari al barile. L’oro vola a 614
dollari all’oncia, primato degli ultimi 25 anni. E tutte le materie prime, come
rame (+101% negli ultimi dodici mesi), alluminio (+38%), zucchero (+107%) e
succo d’arancia (+48%), continuano ad aggiornare i massimi storici. «Ma il rally delle commodity continuerà -
spiega a Finanza & Mercati l’economista americano Joel Naroff -
Eccezion fatta per il petrolio, che risente eccessivamente delle tensioni
geopolitiche legate all’Iran». Naroff è fondatore e presidente dell’omonima
Naroff Economic Advisors. E da un lustro è considerato tra principali guru
d’Oltreoceano, in virtù dei riconoscimenti che gli hanno tributato - tra gli
altri - Bloomberg News e Usa Today.
Mister Naroff, la domanda è d’obbligo. Petrolio
a parte, sulle materie prime si è sviluppata una bolla?
Difficile dirlo. Sicuramente siamo su quotazioni
molto elevate, ma non credo che assisteremo a un brusco ribasso nel breve
periodo. Anzi, alla base del rally delle principali commodity c’è soprattutto la
crescita super dell’economia globale: anche Giappone ed Europa, negli ultimi
mesi, si sono accodati a Stati Uniti e Paesi emergenti. E dunque prevedo un
ulteriore rivalutazione, seppure a ritmo meno forsennato, delle materie prime.
Non sarà vera bolla, però quali effetti potrebbe
avere un’eventuale forte correzione?
Potrebbe frenare l’economia reale. Non
dimentichiamoci che il caro-materie prime ha fatto la fortuna di Paesi emergenti
come India e Brasile. Ovvio che il contraccolpo potrebbe essere significativo.
Ma ripeto: non vedo rischi concreti, almeno nei prossimi mesi.
Vada per succo d’arancia, metalli industriali e
zucchero. Ma come si spiega il nuovo balzo dell’oro?
Qui il
ragionamento è diverso: soprattutto negli Stati Uniti, gli acquisti del metallo
giallo sono legati al timore di una fiammata dell’inflazione, che è a sua volta
causata dalla crescita. Il carovita, in Usa, resta d’attualità: non è un caso
che la Federal Reserve continui nella stretta monetaria nonostante il
rallentamento dell’economia nel quarto trimestre.
Qual è,
al momento, la materia prima più sopravvalutata sul mercato?
Non ho
dubbi: il petrolio. Sulle sue quotazioni influisce la domanda da parte di Cina,
India e delle principali economie mondiali. Ma soprattutto la variabile
politica, che è legata ai timori di un escalation della crisi nucleare iraniana.
Oggi il greggio costa più di 70 dollari al barile, un prezzo esagerato
considerata l’offerta presente sul mercato.
Un eventuale attacco americano all’Iran potrebbe
spingere l’oro nero oltre i 100 dollari?
E chi può dirlo? Non mi piace questo genere di
speculazioni. Ma resta un dato incontrovertibile: le attuali quotazioni del
greggio sono gonfiate da variabili geopolitiche.
Fonte -
Bloomberg - Finanza&Mercati
Portfolio: metà cash e metà azioni
21 Aprile 2006 Milano - (di
*Alessandro Fugnoli)
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*Alessandro
Fugnoli e' lo strategist di Abaxbank. Il contenuto di questo articolo esprime il
pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di
Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Alla base di tutto sta il fatto che Cina e
Stati Uniti hanno non solo la voglia, ma il bisogno quasi disperato di
crescere. La Cina ha problemi seri di consenso nelle campagne,
protagoniste ogni anno di migliaia di rivolte sempre più dure. Deve crescere per
tenere tranquilla e lontana dalla politica la classe media urbana e nello stesso
tempo per redistribuire reddito verso i contadini. Gli Stati Uniti, dal canto
loro, devono crescere per evitare di aumentare le tasse, per pagare una guerra,
per stimolare gli investimenti necessari a restare un passo avanti alla Cina,
per non diventare protezionisti e uccidere l’espansione globale.
Questo bisogno di crescere bisogna intenderlo
bene. A tutti piace crescere, ma non tutti sono disposti a darsi da fare per
riuscirci. L’Europa, ad esempio, mette la crescita dopo i conti in ordine, dopo
l’ambiente, dopo la salvaguardia dei diritti acquisiti. Il risultato è che,
secondo le stime del Fondo Monetario pubblicate oggi, dall’inizio del 2004 alla
fine del 2007 la Germania sarà cresciuta in tutto del 4.8 per cento, gli Stati
Uniti del 15.2 e la Cina del 44.4. Priorità diverse, risultati diversi.
Continuare a crescere comporta per Stati Uniti
e Cina la necessità di continuare a collaborare molto strettamente pur in
assenza di amore e, anzi, in un quadro di profonda rivalità strategica. Per il
futuro prossimo il grande patto per cui la Cina finanzia gli Stati Uniti e gli
Stati Uniti accettano di importare senza protezionismo i prodotti cinesi
pagandoli con cambiali rimarrà in vigore. La Cina accelererà la rivalutazione del
renminbi e terrà i tassi reali negativi. Gli Stati Uniti alzeranno i tassi, ma
in modo da rimanere sempre leggermente dietro la curva ed essere così sicuri di
tenere in vita l’espansione.
Alla Fed
spetta un compito sempre più impegnativo. Si tratta di garantire una crescita
del 3 per cento in un contesto di pieno impiego, di inflazione core crescente e
con la necessità di svalutare il dollaro ogni volta che è possibile. Bisogna
frenare, quindi, ma con l’obbligo di non scendere sotto una certa velocità.
Meglio frenare in ritardo piuttosto che frenare troppo.
In questi giorni i mercati (quando non pensano
all’Iran) festeggiano la presunta fine dei rialzi da parte della Fed. In realtà,
se si analizzano i segnali e i messaggi, la Fed non dice, tout court, “adesso mi
fermo”. Dice invece, testualmente, “fra poco mi fermo e poi resterò ferma a
condizione che l’utilizzo dei fattori si stabilizzi”. In pratica, la Fed è disposta a fermarsi al 5
o al 5.25, ma non per sempre come pensa il mercato. Si ferma per essere
sicura di non strafare, poi aspetta e guarda se la crescita continua. Se
prosegue e se il tasso di disoccupazione non scende ulteriormente, allora
continua a guardare. Se invece la disoccupazione continua a scendere, a fine
estate o in autunno vedremo nuovi rialzi.
Il
prezzo da pagare per continuare a crescere è costituito dalle materie prime
sempre più care e, in generale, da un’inflazione che preme verso l’alto, pur
senza uscire di controllo. L’inflazione uscirebbe di controllo solo se
l’utilizzo dei fattori dovesse ancora salire, ma è proprio questo che la Fed
vuole prevenire.
Uno scenario in cui la Fed, insieme con tutte le
banche centrali, sta di proposito dietro la curva, ma di poco, è negativo per i
bond e positivo per l’azionario e, come abbiamo detto, per le materie prime. Il
tutto sarebbe già, di per sè, abbastanza complicato. Per i mercati si aggiungono
però altri problemi.
Il primo
problema è il carico speculativo che comincia a pesare su alcune classi di
asset. Non solo petrolio, oro e materie prime, nell’ultimo periodo in
inquietante crescita parabolica. Anche sull’azionario, sempre considerato al di
sopra di ogni sospetto, si può cominciare a fare qualche insinuazione. Il
sempre perfido Tom McManus di Bank of America nota ad esempio che il dividend
yield sul Value Line 1700 è sceso al minimo storico dell’1.5 per cento (era al
2.4 nel 2002) nonostante inflazione e tassi abbiano continuato a salire.
Il
secondo problema è l’Iran, cui il mercato pensa un giorno sì e uno no e che però
continua a costruire la sua bomba anche nei giorni in cui il mercato non ci
pensa. Immaginiamo un Iran attaccato che sospende, insieme al Venezuela,
le esportazioni di petrolio e manda centinaia di sha’id a farsi esplodere in
America e tira missili all’impazzata sugli oleodotti sauditi. Non è lo scenario
più probabile, ma immaginiamolo lo stesso.
Alla fine, mettendo insieme l’espansione che
continua, l’inflazione che morde il freno, il carico speculativo e l’Iran, il
portafoglio raccomandato rimane pur sempre quello che andiamo suggerendo da
molto tempo. Niente bond, niente dollari (o dollari coperti), meno leverage
possibile. Metà cash, metà azioni. Delle azioni, la metà in titoli dell’energia.
L’altra metà può essere investita, a scelta, nei paesi che crescono (nel
2004-2007) del 4.8, del 15.2 o del 44.4 per cento. Vedete voi quali preferire.

Fonte - Il Rosso
e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank per Wall Street
Italia
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Venerdì
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18 aprile
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Non investite a vostro rischio e
pericolo
6 Aprile 2006 Milano - (di *Alessandro Fugnoli)
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(WSI) – C’è un episodio di Yogi Bear (“Oinks and
Boinks”, 1961, Hanna-Barbera Studios) in cui Yogi e Boo Boo incontrano i Tre
Piccoli Porcellini, che aiuteranno a difendersi da Big Bad Wolf, il Lupo
Cattivo. Manca solo Girl Bear (che negli anni successivi cambierà nome e
diventerà Cindy Bear). Grugniti e bramiti sono i suoni che si sentono in questa
fase sui mercati e che ci accompagneranno nei prossimi mesi. Grugniti
soddisfatti dal quadro macro, dall’azionario e dalle materie prime. Bramiti
leggermente inquietanti dall’obbligazionario e bramiti iniziali (vagiti, più che
bramiti) dal dollaro e dalle case.
Le
strade, dunque, si dividono. Orsi e porcellini sono andati tutti bene nel 2005,
ma il ciclo che avanza comincia a spingere i primi verso il basso mentre
mantiene in ottima salute i secondi. Avere portafogli privi dei primi e ben
forniti dei secondi farà la differenza da qui a fine anno e forse oltre.
Vediamo
ora gli orsetti e partiamo dal più grande, Bond Bear, che ha solo tre mesi di
vita ma ha già artigli sviluppati. Le sue zampate hanno portato il
decennale americano dal 4.30 (il livello sul quale ha sonnecchiato per tre anni)
al 4.85, facendo ancora più danni in Europa, dove il Bund è passato dal 3.25 al
3.85. Come scrivono zoologi, animalisti e guide di parchi naturali, gli orsi
delle favole e dei cartoni animati sono tanto carini e buffi, ma quelli veri
sono brutali e opportunisti. Non solo non bisogna dare loro da mangiare e non si
deve fotografarli, bisogna proprio tenersi lontani.
Bond
Bear crescerà molto lentamente, ma crescerà. Nel brevissimo no, perché un certo
consolidamento ci può stare, ma nel tempo (nella prima parte del 2007) ce lo
troveremo più grosso e più aggressivo. Niente di paragonabile ai suoi
antenati del 1995 e del 1998, ma nemmeno qualcosa da prendere troppo sotto
gamba. Di curve invertite e di recessioni imminenti che queste preannunciano o
non preannunciano si è intanto filosofeggiato per settimane, con il risultato
che il ciclo continua a scoppiare di salute mentre la curva si è disinvertita,
se ci si passa la parola. Tanto rumore per nulla.
Dollar
Bear ha avuto una lunga gestazione. La fascia tra 1.19 e 1.22 ha tenuto per
molti mesi, ma nelle ultime settimane abbiamo visto due sortite verso 1.25, di
cui una in pieno corso. Il disavanzo delle partite correnti americane continua a
crescere, i policy maker mostrano preoccupazione crescente (con
l’eccezione sospetta di quelli americani) e le teorie superrevisioniste che
vengono avanzate per minimizzare il problema suonano sempre più stonate e in
contraddizione tra loro (per un riassunto molto chiaro di queste teorie si veda
“Global Imbalances. The New Economy, the Dark Matter, the Savvy Investor and the
Standard Analysis”, scritto da Barry Eichengreen di Berkeley e pubblicato sul
suo sito).
E’ possibile che anche quella in corso sia una
falsa partenza e che ci sia ancora un ultimo o penultimo treno di ritorno verso
1.20. Prima o poi, in ogni caso, si partirà sul serio. Coprire il rischio di
cambio è ogni giorno più raccomandabile.
Housing
Bear non è ancora venuto alla luce, ma è in gestazione avanzata. Il fatto che si
continuino a costruire molte case non è rassicurante, anzi. Avviene sempre
così. I costruttori, non sapendo quando finirà il boom, vanno avanti come
se non dovesse finire mai. Per loro sono di più i danni nel perdere un mercato
che tira rispetto al problema di trovarsi qualche casa invenduta. Se però si
guarda allo spread denaro lettera (in aumento), o al tempo necessario per
vendere (sempre più lungo), o alla differenza (crescente) tra prezzo richiesto
inizialmente e prezzo effettivo della transazione si hanno molti degli
ingredienti che di solito portano a una discesa dei prezzi.
Parliamo
essenzialmente di America, ma come ha mostrato Daniel Gross (“Bubbles in Real
Estate” sul sito del CEPS) il mercato europeo è totalmente correlato nei tempi e
nelle variazioni di prezzo con quello americano. Se teniamo conto del
fatto che ci sono ancora aumenti dei tassi in programma possiamo ben dire che
stiamo per vedere una completa stabilizzazione dei prezzi delle case e, in un
numero crescente di situazioni, un inizio di discesa dolce.
Ben
diversa è la musica tra i porcellini. Macro Pig si mantiene molto
florido. In America i segni di raffreddamento dopo un primo trimestre
fortissimo sono poco visibili. In Europa continua la riaccelerazione e in Asia
si mantiene una velocità molto elevata, tanto che il Fondo Monetario ha rivisto
in questi giorni verso l’alto le stime di crescita per il 2006. Equity Pig
continua a ingrassare e mostra un appetito vorace. Digerisce tutto, incluso il
petrolio che si avvicina a 70 e i tassi in crescita quasi dappertutto. Per il
momento è difficile vedere ostacoli seri sul suo cammino, per cui al massimo se
ne starà fermo e si guarderà intorno.
Commodity Pig era quello dato più spesso per
finito in questo 2006 e invece mostra segni di grande salute, con nuovi massimi
su rame, zinco, oro e quasi massimi sul greggio. I consumi di benzina
negli Stati Uniti hanno ripreso a crescere. La produzione industriale è ovunque
in crescita. L’offerta tiene più testa rispetto agli anni scorsi, ma è comunque
esposta a qualsiasi incidente. Per il 2006, quindi, si prospetta una tendenza
molto più calma rispetto a 2004 e 2005, ma comunque rialzista, per lo meno nella
prima metà dell’anno.
Che ne
è, in questo quadro, del Lupo Cattivo? Il lupo esogeno, Lupus Iranicus, è
temibilissimo in prospettiva, ma fino all’estate, presumibilmente, continuerà a
gironzolare sui monti Zagros senza scendere a valle. Un consenso su un programma
di sanzioni si fa sempre più elusivo. In teoria questo rende più possibile
un’azione unilaterale americana, ma solo in teoria. Il problema è così spinoso
che rinviarne la soluzione al giorno dopo è, ogni giorno, la cosa più facile.
Quanto al lupo endogeno, il pieno utilizzo dei
fattori, se ne vede la sagoma all’orizzonte. La Fed smetterà di alzare i tassi
quando vedrà stabilizzarsi il tasso di disoccupazione. Se dopo qualche mese il
numero di disoccupati riprenderà a scendere, la Fed riprenderà ad alzare i
tassi. Oltre ai grugniti (più deboli nel 2007) e ai bramiti sentiremo così anche
gli ululati.

Fonte - Il Rosso
e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank per Wall Street
Italia
Il crack del Nasdaq? "Non c'è"
12 Aprile 2006 New
York - (di Federico Fubini) ________________________________________
Un giorno John Kenneth Galbraith entrò nella libreria degli
imbarchi al La Guardia di New York e chiese notizie del «Grande Crash», il
suo libro sul crac del ’29. «Non è il tipo di titolo che venderesti in un
aeroporto», fu la risposta. Una simile sorte toccherebbe probabilmente
oggi ai verbali, appena resi noti, dei vertici della Federal Reserve
guidati nel 2000 da Alan Greenspan. Dopo cinque anni le parole del
banchiere trasmettono la stessa vertigine che danno i protagonisti del
’29, euforici sull’orlo di una catastrofe di Borsa che non videro
arrivare. A credere ai verbali del «Comitato federale di mercato aperto»
(Fomc), l’organo dirigente della Fed, Greenspan non aveva capito che l’America
stava vivendo il maggiore crollo di Borsa dai tempi di Calvin Coolidge.
Questi, da presidente, alla vigilia della grande depressione annunciò
«un’èra di ottimismo senza limiti». Almeno 71 anni più tardi il capo della
Fed nel 2000 dimostra di avere il senso pratico dalla sua. Il 16 maggio
per esempio conduce una riunione del Fomc in un clima frizzante,
punteggiato da risate messe a verbale. Fuori però la situazione era
delicata. Due mesi prima il Nasdaq, il listino newyorkese delle imprese
tecnologiche, ha toccato a quota 5.060 punti il massimo di quella che
Greenspan stesso ha definito da tempo «un’esuberanza irrazionale».
La sensazione di ricchezza trasmessa alle famiglie dalle azioni dal valore
gonfiato sostengono i consumi, aumentano i posti di lavoro, surriscaldano
i prezzi. La Fed è
preoccupata, in primavera l’inflazione è al 3,7% e si temono alti aumenti.
Eppure, a ben vedere, quando il Fomc si riunisce l’ingranaggio si è già
inceppato: fra crolli e tentate riprese, il Nasdaq è sceso in due mesi del
30%, il Dow Jones delle grandi icone industriali americane l’ha seguito.
È l’avvio di un terremoto
che ridurrà il listino tecnologico a un quarto del suo valore, ma
Greenspan non pare preoccupato. Anzi, dopo aver lasciato parlare
tutti, spazza via le cautele espresse dal suo staff sulla frenata della
produttività con una chiarezza di termini che in pubblico non gli si
conosce: «Prendo atto delle stime - debutta - ma non ci credo per una
frazione di secondo. Non c’è neanche una remota possibilità che siano
accurate». Lo erano: a inizio 2000 la produttività americana non
andava verso quel balzo del 6% previsto dal grande banchiere centrale,
cresceva a ritmi dimezzati rispetto al ’99. Il motore tecnologico
americano si era inceppato. Ma Greenspan ormai sembra nella trappola
tipica delle nuove tecnologie: si sopravvaluta il loro impatto
nell’immediato, lo si sottovaluta a lungo andare. E lui nel maggio del
2000 vive nell’immediato: «Gli
effetti di rete sui sistemi hi-tech stanno creando una grande
accelerazione di base nell’economia», dice. Nella sua euforia
non cita i crolli a Wall Street, non parla neanche delle Borse, ma
argomenta il suo ottimismo dilungandosi su raffinati dettagli: un
terremoto a Taiwan limita la fornitura di semiconduttori a Cisco e Intel,
l’impatto dell’effetto-serra sul consumo di gasolio fa sì che le stime di
crescita escano forse un po’ sotto la realtà. Così il banchiere raccomanda
di alzare i tassi principali, i Fed funds, addirittura di 0,50% al 6,5% e
di avvertire che la banca è pronta
a nuove strette anche in giugno. Non le farà. Quando il Fomc si riunisce
un mese dopo è ormai chiaro che lo scoppio della bolla a Wall Street sta
frenando l’America. In luglio inizierà il primo trimestre di contrazione
dell’economia da dieci anni, a fine anno il Nasdaq avrà polverizzato metà
del suo valore, la disoccupazione torna a salire. Eppure il grande timoniere della Fed
quel giorno di maggio era stato avvertito dai suoi. Il suo vice William
McDonough aveva parlato di «euforia nel pubblico che può essere soggetta a
cambiamenti rapidi e improvvisi»; esiste, aveva aggiunto, il rischio di
«esagerare nella stretta». William Poole della Fed di St. Louis si era
spinto anche più in là: «Il mercato è scosso, se cede creerà un sacco di
problemi. Voglio dire, non solo politici: anche a noi». Ma dopo
cinque anni di record nei listini e nella produttività, il presidente è
troppo sicuro per dar loro ascolto. Forse preso dall’istinto di dare più
peso a ciò che può controllare meglio, preferisce un’attenta disanima del
credito alle imprese a un’analisi dei mercati. Per poi infilare solo alla
fine una nota di umiltà: nel ’94 facemmo le scelte giuste, ricorda, «ma
ciò non significa che ci riusciremo sempre: può essere stata fortuna. E se
lo fu - nota - la prossima volta potremmo anche perdere».
Fonte -
Corriere della Sera
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Wall Street
rallenterà ma non c'è da aver
paura
24 Aprile 2006 Roma - di Eugenio Occorsio
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Rischia di fare come gli elettori dell’Unione
all’uscita dei primi exitpoll, costretti poi sulla graticola per giorni, oppure
ha fatto bene Wall Street a festeggiare in anticipo la fine della stretta
monetaria? Robert "Bob" Doll è convinto
di sì. «Il processo di aumento dei tassi, a quanto ci risulta, dovrebbe essere
effettivamente giunto vicino alla conclusione», ci dice al telefono da New York
appena tornato dal suo jogging alle 6 ora della east coast. «E’ stato raggiunto
un livello di sostanziale neutralità e realisticamente non credo che si andrà
oltre», aggiunge. Probabilmente, come tutti convengono, il 10 maggio ci
sarà un altro rialzo dello 0,25 fino al 5% secco. Poi basta.
Di Bob
Doll c’è da fidarsi: dal settembre 2001 è presidente nonché Chief Investment
Officer, insomma il numero uno, della Merrill Lynch Investment Managers
(Mlim). Per lui lavorano oltre 500 fra economisti, analisti, gestori,
sparsi nei cinque continenti, su un totale di 2.500 dipendenti. La Mlim è uno
dei tre maggiori gestori di fondi del mondo, con asset patrimoniali al 31 marzo
2006 pari alla quasi incredibile somma di 581 miliardi di dollari (la filiazione
italiana, guidata da Andrea Viganò, gestisce 6 miliardi di euro). Offre tutta la
possibile gamma di prodotti innovativi per investitori istituzionali, privati e
fondi comuni. Fra i suoi clienti ci sono 141 delle 500 maggiori aziende del
mondo e 33 banche centrali. Master in business administration alla Warthon
School di Filadelfia nel 1980, prima di entrare in Merrill Lynch nel 1999, Doll
è stato capo degli investimenti alla Oppenheimer Funds.
Cosa vuol dire ‘sostanziale neutralità’ nei
tassi? «Che i tassi d’interesse non assolvono più alla funzione di stimolo
monetario né sono viceversa di ostacolo alla crescita». Hanno quindi raggiunto
un livello ottimale? «Diciamo che spingerli al di sopra del 5% sarebbe troppo,
significherebbe un segnale preciso che c’è un allarme inflazione e che
l’economia va in qualche modo temperata. Invece di questo non c’è traccia. Le
conseguenze di un oveshooting, ‘andare al di là della logica’ sarebbero solo
negative, e la Fed giustamente vuole evitarle. Anziché un soft landing andrebbe incontro ad
un hard landing con tutti i tormenti che ne conseguirebbero. La lettura
delle ‘minute’ delle ultime riunioni secondo me non lascia spazio a dubbi che
tutto questo sia ben presente».
Veramente l’inflazione in America non è
bassissima. Il consumer price index è stato del 3,4% di tasso annualizzato in
marzo. E’ vero che in settembre era al 4,7 ma è più alto di quello che la Fed
vorrebbe... «Non bisogna guardare all’headline infation ma al tasso core,
depurato dai volatili valori di energia e alimentari, che è più basso e
ampiamente sotto controllo. E poi, lei stesso ha citato dati dai quali si evince
che l’inflazione sta scendendo, e calerà ancora».
Però
sarà ‘gonfiata’ ma quella ‘dichiarata’ è l’inflazione che la gente sente sulla
propria pelle. Fino a quando dureranno le tensioni sul petrolio? «Non credo che
il greggio salirà molto oltre le quotazioni attuali, diciamo che dovrebbe aver
toccato i massimi (73,72 mentre parliamo, venerdì). Potrebbe anzi scendere, in
concomitanza con un certo rallentamento dell’intera economia mondiale e con
l’auspicabile calo delle tensioni geopolitiche».
Quanto vale, a quest’ultimo proposito il fattore
Iran, che si aggiunge a quello Iraq? «Non più di 510 dollari. Il grosso
dell’aumento è dovuto ad elementi di mercato, a partire dalla fortissima domanda
di un’economia globale in espansione. Ma ora il tutto dovrebbe rallentare».
Anche l’economia americana rallenterà? «Sì, ma niente di drammatico. Quest’anno
si viaggia su livelli più sostenibili, intorno al 3%, un marcato rallentamento
rispetto agli ultimi due anni quando la crescita è stata rispettivamente del 4,2
e del 3,8%».
Ma la
Fed ha raggiunto i suoi scopi? «Missione della Fed è contemperare la crescita
economica e la stabilità dei prezzi. Direi che gli è riuscito». Bernanke
assicurerà alla Fed la necessaria indipendenza, non è troppo vicino al
presidente di cui era capo degli economisti? «Non penso che ci sia questo
problema. Bernanke ha la preparazione accademica e la competenza tecnica per
proseguire con successo nell’opera di Greenspan. Ovviamente non ha un’esperienza
‘politica’ da presidente della Fed, ma abbiamo fiducia che lo farà bene».
Ma il
fatto che i tassi siano passati dall’1 al 5% in due anni come ha influito?
«Secondo me le conseguenze si
vedranno solo ora, e neanche subito. Ci sarà qualche leggero rallentamento nella
spesa dei consumatori, che negli ultimi 5 anni ha rappresentato l’80% del pil ed
è quindi il singolo fattore più importante di sviluppo. E’ un fenomeno che come dicevo uscirà fuori
nei prossimi due trimestri, in concomitanza con il rallentamento del refinancing
sui mutui, dovuto ad un certa stasi nei mercati immobiliari causata a sua volta
appunto dai rialzi nei tassi. Infine, sempre i prossimi due trimestri potrebbero
riservare alcune sgradite sorprese i bilanci delle società quotate, i cui
margini di profitto sono a livelli da record grazie appunto ai tanti anni
precedenti di denaro a buonissimo mercato e che invece ora risentiranno, oltre
che dei più alti tassi, dei rincari delle materie prime, petrolio in testa».
Sembrano
le premesse ad un crollo di Wall Street... «No, niente di tutto questo. Sono
solo le condizioni per il fisiologico rallentamento dell’economia di cui
parlavo. In Borsa, quello che avverrà sarà probabilmente un
ridimensionamento di alcune quotazioni, che potrebbe arrivare al 10%. Del resto,
il ciclo di 19 mesi, passato il quale tradizionalmente c’è un ribasso appunto di
tale ordine negli indici, è già stato ampiamente superato perché sono tre anni
che il mercato cresce continuamente. Ma, attenzione: tutto questo non
significherà affatto un crollo nelle quotazioni. Solo che si determineranno
buone occasioni d’acquisto. La tendenza sul medio termine resta buona».

Fonte - La
Repubblica - Affari & Finanza
Venerdì 7 aprile 2006 |
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Giovedì 13 aprile 2006 |
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Sabato 15
aprile
2006 |
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Borsa: corregge o sale ancora?
26 Aprile 2006 Milano - di Borsa & Finanza
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Con i
prossimi trimestri arriva il primo test importante per il mercato azionario Toro
che ha iniziato la sua corsa nella primavera del 2003 tra le cannonate di
Baghdad. Gli esperti interpellati da Borsa & Finanza ne sono
convinti. C’è di mezzo la tradizionale «stagione delle vendite», che
storicamente vede i mesi che vanno da maggio a ottobre come i più fiacchi
dell’anno, ma non solo. Gli analisti la
vedono così: «Il rialzo dei tassi d’interesse, unito all’impennata del greggio,
rischia di frenare il potenziale delle Borse occidentali». Risultato: potrebbe
essere l’occasione per portare a casa qualche profitto, sebbene il trend di
fondo resti positivo. Insomma, una correzione ma non oltre.
LA MINACCIA DEI TASSI. In
America, il rendimento dei titoli del debito a 10 anni ha rotto al rialzo la
soglia del 4,5% e si è spinto velocemente oltre il 5 per cento. L’opinione di
consenso prevede un allungo fino al 5,5% dove con buona probabilità assisteremo
a una stabilizzazione. «Sì, i saggi d’interesse sono la preoccupazione numero
uno - dice Charles Morris, capo delle strategie d’investimento di Hsbc - Quando
i tassi salgono, le valutazioni azionarie si fanno meno attraenti e diventano
care. E io penso che il costo del denaro non possa che aumentare: il petrolio ha
sfondato i 70 dollari; l’oro inanella un record dietro l’altro; qui c’è un
messaggio, e neanche troppo nascosto; e il messaggio è che i tassi d’interesse
sono decisamente orientati all’insù».
Dello stesso avviso il leggendario speculatore
newyorkese Victor Sperandeo: «Per quella
che è la mia esperienza, non c’è modo di avere una Borsa esuberante se le
materie prime continuano a correre a briglie sciolte. È possibile che Wall
Street sperimenti una crescita lentissima, ma non sono sicuro di volermi esporre
al rischio di un suo capitombolo. Inoltre gli investitori esteri devono
pure badare al cambio: misurata in euro, la piazza statunitense sembra
inchiodata al palo. Se addirittura la misuriamo in once d’oro, allora sta
franando settimana dopo settimana». La tesi di Sperandeo è condivisa pure da
Alessandro Fugnoli di Abaxbank, il quale prospetta per Wall Street «un
lentissimo rialzo».
Migliori
sembrano le opportunità in Asia e in Europa. «L’Asia è il motore dello sviluppo
- spiega Charles Morris di Hsbc - In questo momento mi piace la Borsa di
Shanghai per il fatto che è rimasta arretrata rispetto alle altre e si trova nel
momento propulsivo della spinta iniziale. La Corea, l’India e il Giappone
conservano il loro appeal nonostante i guadagni da capogiro del 2005, ma
chiaramente sono vulnerabili a una correzione in ogni momento». Per Morris ci
sono comunque chance anche nel Vecchio Continente: «In Europa trovo di grande
interesse il settore industriale e quello dell’ingegneria, per intenderci
società come la tedesca Mann. Mi piacciono perché sono in grado di beneficiare
dell’apertura dell’Asia e, per di più, hanno ancora valutazioni contenute e
tassi di espansione a due cifre».
COSA DICE L’ANALISI TECNICA.
Tornando sul fronte americano, può valere la pena di passare in rassegna il
punto di vista dei graficisti: secondo
il famoso analista tecnico John Bollinger, inventore di alcuni indicatori
comunemente usati dagli esperti di mercato, i titoli del debito sono l’asset
finanziario a maggiore rischio. E siccome i risparmiatori devono pur tenere i
loro risparmi da qualche parte, Bollinger afferma che «se la scelta è fra
obbligazioni e azioni, i pronostici sono meno foschi per le azioni. I settori
dell’energia, delle risorse di base e degli industriali dovrebbero formare il
nerbo dei portafogli».
Insomma, secondo Bollinger né le azioni né le
obbligazioni vantano a questo punto un grande valore intrinseco, ma dovendosi
buttare in una direzione, allora meglio le azioni. Più negativo Bill Sharp, presidente
dell’associazione internazionale degli analisti tecnici: «Wall Street è salita
per oltre tre anni senza soluzione di continuità. La mia esperienza nello studio
dei cicli mi porta a pensare che nel 2006 potremmo assistere a una correzione di
una qualche entità significativa. Il crollo dei titoli del debito e il
balzo del petrolio rafforzano la mia convinzione». Infine ci aiuta a fissare una
soglia di allarme e di vigilanza Jeffrey deGraaf, responsabile per l’analisi tecnica alla Lehman
Brothers: deGraaf traccia una linea di demarcazione sul grafico dell’S&P500
all’altezza dei 1.250 punti, cioè in coincidenza con i minimi del 2006.
«Fino a che le quotazioni si mantengono al di sopra di quel paletto non c’è
niente di cui doversi preoccupare. Al di sotto, forse qualche presa di beneficio
può avere senso. Infatti una rottura al ribasso potrebbe innescare un’ondata di
vendite cautelative». L’esperto della Lehman Brothers concorda con molti suoi
colleghi sul fatto che le obbligazioni governative portano con sé pericoli
maggiori di quelli insiti nel mercato azionario. Anzi, si spinge ad affermare
che «vendere allo scoperto i titoli federali è una delle operazioni con il
miglior rapporto rischio-rendimento».
MAGGIO DI VENDITE. Poiché
diversi fra i protagonisti interpellati da BB&F hanno fatto riferimento
all’andamento tendenzialmente negativo che le Borse occidentali conoscono da
maggio a ottobre, può far comodo ripassare i numeri: negli ultimi 20 anni, il
mercato azionario europeo ha perso in media il 2% nel periodo che corre appunto
fra maggio e ottobre. Questa cifra negativa sta agli antipodi con la performance
brillante degli altri sei mesi, quelli cioè da novembre a maggio: qui il
guadagno medio si è attestato al 9% per semestre. I mesi in assoluto peggiori
sono agosto e settembre in Europa e settembre e ottobre in America. Luglio
generalmente rappresenta una sorta di boccata d’ossigeno prima della caduta di
fine estate.

Fonte -
Bloomberg - Borsa & Finanza
Rally
di primavera per la Borsa di Tokyo
Sara
Silano | 2006-04-11
Nell’ultimo mese il Nikkei ha
guadagnato il 12%, schizzando oltre quota 17.500. Quadro macro positivo e
ottimismo sui risultati aziendali alimentano gli acquisti. Bene i bancari,
tra i favoriti in vista delle future mosse di politica monetaria della
Banca centrale. Dissipati i dubbi sulle future mosse di politica
monetaria, la Borsa giapponese ha messo le ali nell’ultimo mese,
portandosi a livelli record. L’indice Nikkei dei 225 principali titoli ha
guadagnato il 12%, superando per la prima volta dal luglio 2000 quota
17.500. In rialzo anche il Topix, che si è portato sopra i 1.700 punti, il
livello più alto dal novembre 1991.
Il rally è stato alimentato
dai dati macroeconomici e dai risultati aziendali. L’indice Tankan della
fiducia delle imprese è rimasto stabile a marzo a +5, con differenti
aspettative tra le aziende manifatturiere e quelle di altri settori.
L’indice delle prime è sceso, contrariamente alle previsioni degli
economisti, mentre le seconde hanno mostrato maggior ottimismo rispetto
alla rilevazione di dicembre. Tale sondaggio è considerato dalla Banca
centrale del Giappone uno dei barometri più importanti per decidere
l’orientamento di politica monetaria e i risultati fanno ritenere che
l’istituto guidato da Toshihiko Fukui non alzerà i tassi prima della fine
dell’anno.
Le buone prospettive di utili per l’esercizio
2005-2006, che si è concluso il 31 marzo, hanno dato ulteriore slancio
alla Borsa di Tokyo. Si sono messi in evidenza i bancari, dopo che Goldman
Sachs ha rivisto al rialzo le stime per questo e il prossimo anno fiscale
di otto grandi gruppi, che dovrebbero beneficiare del futuro aumento del
costo del denaro. Gli acquisti hanno interessato anche il comparto
tecnologico, che, però, resta sensibile all’andamento dei concorrenti
americani quotati sul Nasdaq.
La ripresa delle quotazioni del
petrolio ha spinto i titoli energetici, mentre l’immobiliare è stato
oggetto di acquisti dopo la pubblicazione di uno studio che prevede un
incremento dei prezzi dei terreni. Tra le singole storie societarie, è da
segnalare il balzo di Isuzo Motors, in seguito all’annuncio della casa
automobilistica americana General Motors di voler cedere la propria
partecipazione nel produttore di camion.
Nell’ultimo esercizio
fiscale, il Nikkei ha guadagnato più del 46%, lasciandosi alle spalle la
fase Orso. Le prospettive per il mercato azionario restano, secondo gli
esperti, moderatamente positive, perché la decisione della Banca centrale
giapponese di abbandonare la politica ultra-accomodante è stata vista come
un voto di fiducia nell’economia, con riflessi positivi sul mercato
azionario. Secondo Tony Dolphin, economista di Henderson Global Investors,
il Sol Levante potrebbe non essere immune da un rallentamento della
crescita a livello internazionale, ma la forte domanda interna dovrebbe
attenuarne gli effetti.
Il rally del listino nipponico è stato
sostenuto dai flussi di liquidità provenienti dall’estero. Nei prossimi
mesi, tuttavia, le cose potrebbero cambiare con un ritorno degli
investitori privati ed istituzionali domestici sulla Borsa di Tokyo e sul
mercato obbligazionario dell’area yen, mentre negli anni scorsi essi hanno
privilegiato i titoli azionari e del reddito fisso stranieri, che
offrivano migliori rendimenti. Secondo gli economisti di Schroders,
tuttavia, il cambiamento non sarà rapido, in quanto i tassi sono destinati
a rimanere bassi per lungo tempo.
Fonte -
Morningstar.it
|
I
gestori rivalutano Wall Street
Sara
Silano | 2006-04-11
Insieme alla Borsa di Tokyo, quella
americana raccoglie i maggiori consensi tra i gestori. Sull’Europa,
compresa l’Italia, è ottimista un fund manager su due. Il mercato
obbligazionario guarda alle future mosse di politica monetaria. Clicca
qui per leggere nel dettaglio i risultati del sondaggio
Torna la
fiducia dei gestori su Wall Street. Secondo l’ultimo sondaggio di
Morningstar tra le principali case di investimento che operano in Italia,
condotto tra l’1 e il 7 aprile, la Borsa americana salirà nei prossimi sei
mesi per quasi il 74% dei gestori. Nessuno prevede, invece, un ribasso. E’
analoga la percentuale dei fund manager che sono ottimisti sul mercato
azionario giapponese, mentre poco più di un intervistato su due si attende
un rialzo delle piazze europee, compresa quella italiana.
La
svolta di Wall Street
Rispetto al dicembre scorso, le previsioni
sull’andamento del mercato azionario americano sono migliorate nei primi
mesi del 2006, ma tra marzo ed aprile si è assistito a un vero balzo in
avanti, favorito dalle attese della fine del ciclo monetario restrittivo.
Inoltre, le valutazioni dei titoli sono considerate ragionevoli e i
profitti societari solidi. Esistono, tuttavia, alcuni fattori di rischio
tra cui l’aumento dell’inflazione, causato prevalentemente dall’elevato
prezzo delle materie prime, lo scoppio della bolla immobiliare e le
possibili ripercussioni negative sui bilanci aziendali dell’incremento del
costo del lavoro.
Pochi pessimisti sul Giappone
Insieme a
Wall Street, la Borsa che raccoglie i maggiori consensi è quella di Tokyo,
che ha ritrovato slancio nell’ultimo mese dopo l’annuncio della Banca
centrale di voler porre fine alla politica monetaria ultra-accomodante.
Inoltre, il quadro economico è in continuo miglioramento e gli utili
societari in crescita. Alcuni gestori, comunque, mettono in guardia dalle
valutazioni elevate ed è per questo motivo che circa il 22% degli
intervistati prevede una stabilizzazione delle quotazioni attorno agli
attuali livelli e il 4,4% non esclude un ribasso.
L’Europa prende
fiato
Circa il 52% dei gestori prevede un rialzo delle piazze
finanziarie europee, compresa quella italiana, nei prossimi sei mesi, ma
un significativo 43% crede in una stabilizzazione attorno agli attuali
livelli. E’ convinzione diffusa che le valutazioni siano elevate e meno
competitive rispetto a quelle d’oltreoceano. Tuttavia, il mercato
azionario può trarre vantaggio dalla maggior fiducia degli investitori
nella crescita economica, che trova riscontro nei migliori dati macro, e
nelle operazioni di finanza straordinaria, che hanno alimentato la
speculazione. Quest’ultimo aspetto è valido soprattutto per il listino
italiano, animato dal riassetto nel sistema bancario. Sulla Borsa di
Milano, però, pesa l’incertezza politica.
Il reddito fisso guarda
alle prossime mosse di Bce e Fed
Per il 56,5% dei gestori, i
prezzi delle obbligazioni americane rimarranno stabili nei prossimi mesi.
Circa il 40% degli intervistati, invece, prevede un calo. Il trend delle
prossime settimane dipenderà dalla decisione della Federal Reserve di fare
una pausa nella fase restrittiva, dopo un ultimo rialzo a maggio, o di
proseguire oltre la soglia del 5%. Per quanto riguarda l’Europa, il 60,9%
dei fund manager si attende una discesa dei corsi obbligazionari, in
corrispondenza con un incremento dei saggi di riferimento da parte della
Banca centrale. La riduzione del differenziale tra gli Stati Uniti e il
Vecchio continente dovrebbe favorire la moneta unica a discapito del
dollaro. Per il 56,5% degli intervistati, nei prossimi mesi l’euro si
apprezzerà, anche perché il biglietto verde è sfavorito dai deficit
pubblico e di partite correnti.
Hanno partecipato al sondaggio,
condotto tra l’1 e il 7 aprile, 23 delle principali società di diritto
italiano ed estero operanti sul territorio, che contano per circa l’80%
degli asset gestiti in Italia. Si tratta di Aletti Gestielle, American
Express, Antonveneta Abn Amro, Azimut, Banca Fideuram, Banca Profilo, BNL
Gestioni, BSI, Caam Sgr, Dekabank, Dws Investments Italy, Euromobiliare
Am, Henderson Global Investors, Hsbc, Invesco, Investitori Sgr, Julius
Baer, Mediolanum Gestione Fondi, Monte Paschi Am, Nextam Partners, Pioneer
Im, Sanpaolo Imi Am, Sgam.
Fonte -
Morningstar.it
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Pit stop per la Fed ?
27
Aprile 2006 New York - di *Antonio Cesarano
*Antonio Cesarano e' il Responsabile Desk Market
Research di MPS Finance. ________________________________________
Bernanke
ha confermato il fatto che la Fed è vicina alla fase di ultimazione del ciclo di
rialzo dei tassi iniziato a metà 2004 , ma allo stesso tempo ha anche dichiarato
che una decisione in tal senso non precluderebbe ulteriori azioni di politica
monetaria in futuro laddove fosse necessario. Il capo della Fed ha anche
dichiarato di attendersi un favorevole andamento dell'economia nel primo
trimestre. Vi dovrebbe però essere un
rallentamento della crescita su livelli più sostenibili principalmente a causa
di: 1) settore immobiliare; 2) impatto ritardato dei rialzi dei tassi già
effettuati. Complessivamente per il 2006 l'outlook delineato da Bernanke
è positivo.Tra i fattori di rischio il principale è rappresentato dalla ripresa
di spinte inflattive laddove, in presenza di una forte domanda, vi sia una
traslazione dei rialzi dei prezzi energetici sui prezzi finali, fenomeno
quest'ultimo che fino ad ora è stato piuttosto contenuto. Allo stesso tempo, Bernanke ha dedicato
un'ampia parte del suo discorso alla necessità di rientro del deficit di partite
correnti facendo riferimento anche all'esito dell'ultimo G-7 del 21
aprile. Il Dollaro si sta di conseguenza ancora deprezzando. Il riferimento
alla possibilità di una ripresa del rialzo dei tassi dopo un periodo di pausa, è
stato più che bilanciato dal riferimento alla necessità del rientro del deficit
di partite correnti che, essendo successivo al recente G-7 (cui Bernanke ha
fatto direttamente riferimento) lascia trasparire l'intenzione di tollerare un indebolimento graduale del
dollaro per consentire un altrettanto graduale rientro (Bernanke ha stimato la
tempistica in "alcuni anni") del citato deficit. Il capo della Fed ha
anche precisato che il rischio di bruschi cali del valore del Dollaro e di altri
prezzi di asset è al momento basso.
In sintesi: ci attendiamo un rialzo
dei tassi a maggio che potrebbe rappresentare l'ultimo rialzo del ciclo iniziato
a metà 2004, ma al momento ancora non escludiamo del tutto la possibilità
di estensione fino a giugno, ipotesi quest'ultima cui gli operatori hanno
attribuito una probabilità più bassa rispetto a quella evidenziata prima del
discorso di Bernanke. In ogni caso rimane confermata la fine del ciclo di rialzo
dei tassi nel semestre in corso. Teniamo altresì in considerazione che, stando
alle indicazioni del capo della Fed, non è da escludere in futuro una ripresa
della fase di rialzo dei tassi. Si tratta di un'ipotesi cui però attribuiamo al
momento una bassa probabilità di accadimento. In ogni caso, occorrerà però
attendere almeno il quarto trimestre prima di poter verificare se tale
possibilità sarà concreta o meno. La Fed
infatti osserverà attentamente l'entità del rallentamento che ha dichiarato di
attendersi già a partire dal terzo trimestre ed inoltre occorrerà verificare le
eventuali pressioni inflattive derivanti dalle materie prime.
Sul fronte valutario, non si è verificato il
temporaneo apprezzamento del Dollaro che ricollegavamo alla possibilità
(confermata da Bernanke) che l'arresto del ciclo di rialzo dei tassi potrebbe
essere non definitiva. E' prevalso infatti il richiamo al tema del deficit di
partite correnti Usa, così come già emerso dall'ultimo G-7. Alla luce dello
scenario di arresto del rialzo dei tassi nel semestre in corso ed almeno per
tutto il terzo trimestre ed inoltre, visto il forte richiamo sul deficit di
partite correnti, rimane confermato lo spostamento dell'attenzione degli
operatori dal differenziale dei tassi al tema del deficit di partite correnti.
Si tratta di un tema che dovrebbe interessare anche il prossimo trimestre
contribuendo a deprezzare il biglietto verde. Nel breve termine, in assenza di una temporanea fase di
apprezzamento del Dollaro, indichiamo il livello di 1,26 vs. Euro come
importante livello di resistenza pari al 50% del ritracciamento del movimento
compreso tra il min ed il max segnati dal 2005. Nel terzo trimestre, il
definitivo spostamento del focus sul disavanzo di partite correnti (che nel
frattempo è atteso ulteriormente ampliarsi a causa principalmente del livello
elevato dei prezzi energetici) potrebbe comportare il raggiungimento del livello
di 1,29.
Un'ultima precisazione : la necessità di una
ripresa della fase di rialzo dei tassi (lasciata aperta oggi dalle dichiarazioni
di Bernanke) al momento appare ancora non elevata ed in ogni caso dovrebbe
essere : 1) limitata nell'entità ; 2) collocata alla fine dell'anno. Di
conseguenza, laddove si materializzasse potrebbe impattare solo temporaneamente
sul biglietto verde comportando un'eventuale breve fase di arresto del trend
primario di deprezzamento che dovrebbe interessare il secondo semestre.

Fonte - MPS
Finance per Wall Street Italia
Addio speculatori in carne e ossa
19 Aprile 2006 Milano - di Federico Fubini
________________________________________
Subito dopo la Grande Guerra, John Maynard
Keynes decise di sfruttare le proprie «superiori conoscenze» sulle monete
investendo i risparmi dei suoi amici di Bloomsbury. Perse tutto, anche i
soldi di Virginia Woolf. Ma se esiste, il giovane che darà forma alle
teorie economiche del ventunesimo secolo oggi non sta sopravvalutando le
proprie capacità. Semmai sta sbagliando i calcoli su quelle del suo
computer.
Gli addetti ai lavori lo chiamano «black
box», scatola nera: è il sistema elettronico che sempre più spesso nelle
grandi banche d’affari e per i singoli investitori, purché pronti a
pagare, sostituisce il lavoro umano. Come nell’automazione delle
produzioni tradizionali, dal tessile alle vetture, ciò che faceva una
persona sempre più spesso viene affidato a una macchina. Questo, del
resto, è il compito dei black box: rimpiazzare gli operatori nella
negoziazione dei titoli, dalla scelta del prezzo d’ingresso alla vendita.
Una visibile conseguenza dei black box è
l’esplosione dei volumi di scambi sulle principali Borse, che a sua volta
incoraggia le aggregazioni fra grandi piazze finanziarie, da Londra a New
York. Perché se un uomo può comprare o vendere un numero limitato di
azioni ogni minuto, una «scatola nera» moltiplica le mosse
esponenzialmente. E più o meno funziona, quando la logica
dell’operatore è uguale a quella di un computer per il quale esistono solo
due opzioni, zero o uno. Così un black box , più rapido di un occhio umano
sui listini, meno emotivo di un cervello, è eccellente per scegliere il
prezzo migliore di uno stesso titolo fra New York e Parigi o fra un’azione
e un’obbligazione convertibile.
Così la fiducia nelle macchine cresce.
Nei grandi fondi ci sono ormai squadre di informatici, matematici ed
economisti dedicate a sviluppare programmi elettronici di negoziazione.
Trovano una «relazione» (esempio: un certo tasso d’interesse negli
Usa causa una certa reazione sul Real brasiliano) e fanno correre il
programma finché funziona. Spesso non più di due o tre settimane. Perché i
mercati non sono perfetti come un calcolo di Keynes, sono imprevedibili
come una pagina di Virginia Woolf.
Fonte -
Corriere della Sera
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