|
Lunedì
03 dicembre
2007 |
|
Domenica
09 dicembre
2007 |
|
Venerdì
28 dicembre 2007 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Gufi
& Analisti: la tempesta perfetta
sull'economia
04 Dicembre 2007 01:58 NEW
YORK - di *Nouriel Roubini
*Docente della New York
University e presidente di RGE Monitor
________________________________________
Gli
avvenimenti delle ultime settimane dimostrano che la stretta del
credito e di liquidità cominciata in agosto negli Usa e in Europa
non solo non è migliorata ma si è aggravata. Negli Usa
quest’improvviso inasprimento e altre gravi debolezze implicano che
il paese è diretto verso un’inevitabile recessione. Già la crescita
di questo trimestre sarà verosimilmente prossima allo zero. Come sempre, quando gli Stati
Uniti starnutiscono il resto del mondo si prende il raffreddore: in
questo caso, però, gli Stati Uniti non soffriranno solo di un comune
raffreddore, ma andranno incontro a una polmonite vera e propria,
grave e duratura. Il resto del mondo, di conseguenza, deve
prepararsi a essere contagiato dal virus in modo grave.
Prendiamo in
esame lo scompiglio dei mercati finanziati. Malgrado le iniezioni
nei mercati finanziari di liquidità per centinaia di miliardi di
dollari e di euro praticate da agosto a oggi, a dispetto di un
taglio di 75bps dei tassi di interesse effettuato dalla Fed, la
stretta creditizia oggi è altrettanto grave se non peggiore di
quella dell’estate scorsa. Per esempio, la differenza tra il
tasso di interesse al quale le banche statunitensi ed europee si
concedono reciprocamente prestiti relativamente ai sicuri rendimenti
governativi di maturità simile rappresenta una misura della
avversione al rischio e ai rischi della controparte finanziaria.
Questa differenza è tornata ancora recentemente a quei massimi
che segnalano che i mercati finanziari sono quasi nel panico. Il
motivo per il quale una simile massiccia iniezione di liquidità e
una politica monetaria piu’ espansiva sono miseramente fallite è che
il sistema finanziario non ha sperimentato soltanto illiquidità, ma
anche seri e gravi problemi di credito e d’insolvenza. La politica monetaria non può
risolvere le questioni di insolvenza. Effettivamente, ci sono due
milioni o più di famiglie americane che probabilmente saranno
insolventi e non onoreranno i loro mutui; decine di enti erogatori
di mutui hanno già fatto bancarotta; moltissimi imprenditori edili
subiranno gravi perdite e dovranno chiudere l’attività; ci
sono istituti finanziari di tutto il mondo (Stati Uniti, Regno
Unito, Francia, Germania, Australia e così via) fortemente che hanno
fatto investimenti avventati e sono falliti; e adesso che l’economia
andrà in recessione perfino le insolvenze delle grandi imprese
inizieranno ad aggravarsi e crescere di numero.
Come se non bastasse, l’entità
delle perdite finanziarie è sconvolgente e peggiora di giorno in
giorno: finora gli istituti finanziari hanno ammesso perdite per
circa 50 miliardi di dollari, ma una molteplicità di analisti stima
che le perdite totali dovute ai soli subprime potrebbero arrivare a
una cifra compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari.
Si aggiungano a ciò le
perdite dovute ai mutui nearprime e prime, le perdite per le carte
di credito e i prestiti automobilistici le cui percentuali di
insolvenza si stanno moltiplicando, le perdite dovute alle proprietà
commerciali che hanno vissuto un boom e sperimentato una bolla
simile a quella immobiliare, e infine le perdite che le banche
subiranno concedendo prestiti alle imprese e nei finanziamenti di
LBO. Tutto ciò
potrebbe portare a perdite per una cifra sconvolgente, nell’ordine
del milione di miliardi di dollari. Considerata poi l’entità
di tali perdite, la necessaria contrazione del credito da parte di
istituti finanziari che hanno un capitale inferiore potrebbe ridurre
la capacita’ di creare credito – e provocare quindi una massiccia
stretta del credito – dell’ordine di svariati trilioni di dollari
americani.
A sua volta, una simile stretta del credito renderà
minore la quantità di credito e alzerà i costi per le famiglie, le
aziende e gli enti debitori in generale, riducendo la domanda
aggregata di consumi e investimenti. Come se non bastasse,
considerata la globalizzazione finanziaria e di cartolarizzazione
queste perdite non colpiranno soltanto le banche, ma anche le banche
di investimento, i fondi di copertura, i fondi di investimento, i
fondi del mercato monetario, SIV e Conduits, e società di
assicurazioni degli Stati Uniti e di tutto il mondo. Di conseguenza
il contagio finanziario si
estenderà dalle banche al resto del sistema finanziario, e dagli
Stati Uniti all’Europa e al resto del mondo, aumentando il rischio
di una crisi finanziaria sistemica. Questa è in realtà la prima
crisi della globalizzazione e securitizzazione finanziaria.
Non meraviglia a questo punto che i principali mercati
finanziari si trovino adesso in una crisi di credito e di liquidità:
i mercati interbancari, i SIV finanziati da ABCP, i mercati di
cartolarizzazione, i mercati derivati, i mercati di LBO, i prestiti
frazionati e i mercati CLO. Considerata l’incertezza sull’entità
delle perdite e su chi sia in possesso di asset "contaminati", tutti
temono le loro controparti e accumulano liquidità. Questa è ciò che
si ottiene per aver creato un sistema finanziario caratterizzato da
meno trasparenza, più opacità, mancanza di informazioni e di
limpidezza finanziaria.
Negli Stati
Uniti la stretta di liquidità e di credito, le perdite ingenti
subite dagli istituti finanziari per i loro prestiti e mutui
sconsiderati, la peggior recessione edilizia della storia degli
Stati Uniti, unitamente all’odierna caduta libera dei prezzi delle
case, al prezzo del petrolio ai suoi massimi storici e a un
consumatore medio fragile implicano che gli Stati Uniti vivranno – a
partire dall’inizio del 2008 – una grave e dolorosa
recessione. Il
consumatore medio americano, che risparmia poco ed è sovraccarico di
debiti, è oggi a un punto di fragilità severa: non può più
usare la propria casa per ottenere soldi con un rifinanziamento e
spendere più di quello che guadagna, visto che il valore della sua
casa è in caduta.
Questo consumatore è colpito da molti shock
negativi: la caduta delle prezzo delle case, il calo del
finanziamento diretto dei consumi via prestiti collaterali che usano
la casa come accessorio finanziario, un indebitamento maggiore
dovuto al più alto servicing ratio, una stretta creditizia per
l’abitazione e il credito al consumo, i prezzi del petrolio e della
benzina in impennata, un mercato del lavoro indebolito e, quanto
prima, un mercato azionario in calo. Gli aiuti dalla Fed non
eviteranno l’imminente recessione, poiché arriveranno troppo tardi e
saranno troppo inadeguati, anche perché la politica monetaria
diventa meno efficace quando si ha un grande eccesso di offerta di
case, di beni di consumo durevoli, di automobili e di motoveicoli.
Occorreranno anni per smaltire questa sovrabbondanza.
Il resto del mondo – Europa
inclusa – finora si era illuso di potersi dissociare dal
rallentamento degli Stati Uniti. Ciò potrebbe accadere soltanto se
gli Stati Uniti avessero un atterraggio morbido: se invece gli Stati
Uniti dovessero atterrare sul duro nella recessione non ci sarà modo
di prendere le distanze e la crescita globale subirà un forte
rallentamento. L’Europa, oltre tutto, potrebbe essere una
delle prime vittime di questo duro atterraggio degli Stati Uniti.
Non solo il sistema finanziario europeo non si è ancora dissociato
da quello americano, ma da agosto è stato esposto a un contagio
ancora maggiore. E poiché le aziende europee dipendono dai prestiti
bancari più di quelle statunitensi, la stretta del credito colpirà
il settore delle aziende europee e la loro capacità di produrre,
assumere e investire. Si tenga anche conto che il boom e la bolla
edilizia non si sono limitati agli Stati Uniti: simili bolle hanno
interessato la Spagna, il Regno Unito, l’Irlanda e in scala minore
la Francia, il Portogallo, l’Italia e la Grecia. In questo periodo
le bolle edilizie stanno iniziando a sgonfiarsi in tutta Europa,
contribuendo di fatto a rischi di rallentamento della crescita.
Si aggiunga poi ai problemi dell’Europa la forza dell’euro, che
sta pesantemente riducendo la concorrenza esterna all’eurozona, e
non dimentichiamo l’imminente indebolimento della domanda di
prodotti europei in ragione della pesante caduta della crescita
degli Stati Uniti. Nel
frattempo, mentre la Fed ha già iniziato a tagliare aggressivamente
i tassi di interesse, la Banca centrale europea si illude di poter
alzare ulteriormente i propri tassi una volta superata la cosidetta
"temporanea" stretta finanziaria. Quello che la Bce dovrebbe fare,
al contrario, è iniziare a tagliarli adesso. Prendere tempo come
fece nel periodo 2001 2002 – garantirà soltanto una cosa: che il
contagio negativo dagli Stati Uniti all’Europa sarà più grave e più
duraturo.
Pertanto, sussistono tutte le
condizioni perché una "tempesta perfetta" – di natura finanziaria ed
economica – negli Stati Uniti si diffonda in Europa e in tutto il
mondo. Come disse una volta Bette Davis in "All About Eve":
«Allacciate le cinture e tenetevi forte: sarà una corsa piena di
scossoni!».
 |
Traduzione di Anna Bissanti - Fonte - La
Repubblica |
America:
credit crunch non così drammatico
09 Dicembre 2007, MILANO -
di Vincenzo Sciarretta
Intervista a Kenneth Arrow,
premio Nobel in economia.
________________________________________
«I ristoranti sono pieni come al solito. E gli
imprenditori si lagnano piuttosto di non trovare abbastanza
lavoratori qualificati che della crisi immobiliare». Ascoltare Kenneth Arrow, premio
Nobel dell'economia per il 1972, equivale a una fresca ventata di
ottimismo. Perché Arrow insegna a Stanford, nel cuore della
Silicon Valley, una delle zone più duramente segnate dalla frenata
dell'edilizia. In effetti, tutta la California è il teatro di una
brusca gelata dell'attività residenziale. Stando ai dati ufficiali,
il numero di compravendite è crollato in un anno del 48% a Los
Angeles e del 32 a San Diego. «Eppure - dice Arrow - non vi è
traccia del temuto effetto contagio sui consumi e sulle altre
attività produttive».
«La mia impressione - aggiunge - è che
siccome tutti hanno prefigurato le turbolenze dell'edilizia e del
credito, gli effetti saranno meno drammatici di quanto si possa
immaginare».
Forse si è
diffuso troppo pessimismo fra gli economisti? Forse sì, anche perché
bisogna sottolineare la celerità con cui le banche stanno svalutando
gli attivi di bilancio. Una bella differenza rispetto al Giappone
degli anni '90, quando montagne di crediti inesigibili venivano
lasciati a incancrenirsi nella pancia degli istituti
finanziari. Mi pare
che l'America stia reagendo in modo rapido e appropriato. Una volta
fatte le pulizie, l'economia potrà tornare a una nuova prospettiva
di vita.
Dunque,
niente recessione in vista? Questo non lo so. Come diceva Niels
Bohr, fare previsioni è difficile, soprattutto riguardo al futuro.
Però, credo che anche se avremo una recessione, sarà piuttosto
moderata. Non dimentichiamo come nel 2001 vivemmo solo
qualche trimestre di tentennamento, nonostante il Nasdaq fosse
sprofondato del 70 per cento.
Si avvicinano le presidenziali del
2008. Quale saranno le sfide più importante che dovrà affrontare la
nuova amministrazione? A mio modo di vedere, i prossimi quattro anni
saranno caratterizzati da un aumento della pressione fiscale.
Naturalmente nessun candidato lo confesserà mai. Tuttavia emergono
nella società americana delle istanze nuove.
Per esempio? Quella
di una copertura sanitaria generalizzata. Gli Stati Uniti sono la
massima potenza economica mondiale, ma una larga fetta della sua
popolazione non ha una copertura.
Ci sono altre sfide per la
nuova amministrazione della Casa Bianca? Un secondo aspetto
riguarderà forse le rivendicazioni salariali. La polarizzazione dei
redditi in favore delle fasce più abbienti ha relegato in un angolo
la borghesia. Il lavoratore medio se la passa grosso modo come
quindici anni fa. È quindi probabile che inizi a chiedere una fetta
della torta.
Nel complesso, come giudica questo periodo del
capitalismo? Molto positivamente. Sono gli anni di maggiore
prosperità nella storia moderna.
 |
Fonte -
Finanza&Mercati |
Usa,
Contro la crisi varato il Superfondo
10
Dicembre 2007 - di
MiaEconomia
Chi rompe, paga.
questo il ragionamento che sta alla base delle operazioni che
le grandi banche a stelle e strisce stanno ponendo in essere
in questi ultimi mesi del 2007, consapevoli che alla base
delle crisi del mercato del credito c'è la poca fiducia che
loro hanno messo in circolazione. Per questo motivo, dopo
il congelamento delle rate sui mutui, arriva il 'SuperSiv':
Bank of America, Citigroup e JPMorgan hanno finalmente trovato
la quadratura del cerchio sull'atteso maxi-fondo di
salvataggio, visto come ancora di salvezza per evitare il
potenziale crollo dei veicoli d'investimento nella finanza
strutturata che hanno portato sull'orlo del baratro diversi
istituti di credito e fondi speculativi. Con il maxi-fondo le
tre banche puntano a raccogliere da 75 a 100 miliardi di
dollari, in parte provenienti dalle loro stesse casse, in
parte dalle sottoscrizioni delle altre banche che vorranno
aderire all'iniziativa. A sostenerle non c'é soltanto la
potenza di fuoco finanziaria delle tre maggiori banche
statunitensi. C'é anche l'appoggio del segretario del Tesoro
americano Hank Paulson, che vuole scongiurare l'impatto
distruttivo della potenziale bancarotta di una banca, e che
assieme al presidente George Bush ha appena annunciato il
congelamento delle rate sui mutui, per evitare una valanga di
pignoramenti. E a gestire il SuperSiv, che ha il nome
tecnico di 'Master Liquidity Enhancement Conduit' (M-LEC),
sarà BlackRock, garanzia di credibilità ed esperienza nella
gestione dei rischi. Da lunedì mattina inizierà il giro di
incontri per raccogliere il massimo possibile di adesioni (e
quindi soldi) dagli altri istituti che, a livello globale,
vorranno partecipare. Bank of America e soci vogliono arginare
la corsa al ribasso del valore degli attivi dei SIV (Special
Investment Vehicle), facendoli acquistare da parte del
'SuperSiv' per sostenerne i prezzi. I SIV, finiti
all'epicentro della crisi de mutui, lucrano su un principio
ben noto: prendere in prestito soldi a breve termine, e
reinvestirli a lungo. Hanno cioé investito miliardi di dollari
in titoli garantiti da mutui ad alto rischio come i
'subprime', e per finanziarsi si sono indebitati emettendo
debito a breve termine chiamato 'commercial paper'. Da
quando è esplosa la crisi dei mutui, però, la scarsità di
liquidità che ha colpito i mercati ha lasciato i 'SIV' a
secco, costringendoli a svendere i titoli in cui hanno
investito, unico modo per ripagare i propri debiti la cui
scadenza a breve è diventata una tagliola. Una corsa al
ribasso dei prezzi dagli effetti potenzialmente disastrosi.
Ma il successo del piano non è garantito. Secondo il
Financial Times "il progetto è cattivo quasi come i problemi
che intende risolvere". Perché il maxi-fondo "potrà soltanto
comprare titoli ad elevato rating (non quelli garantiti da
subprime)", senza riuscire ad evitare una svendita di quelli
più rischiosi. E perché - scrive il quotidiano della City
- "il 'rischio sistemico per le banche' non c'é, visto che la
maggior parte di queste attività sono nelle mani degli hedge
fund, non delle banche".
|
|
Giovedì
06 dicembre 2007 |
|
Giovedì
06 dicembre 2007 |
|
Mercoledì
12 dicembre 2007 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Attenti:
la crisi subprime tocca anche noi
12 Dicembre 2007 13:54
LUGANO - di Alfonso Tuor
________________________________________
La Federal
Reserve ha tagliato ieri sera di un quarto di punto i tassi di
interesse americani. La banca centrale ha anche fatto intendere che
continuerà ancora a ridurre il costo del denaro per evitare che
l’economia americana cada in recessione o subisca un forte
rallentamento. La politica della Federal Reserve è un
importante tassello di un insieme di provvedimenti tesi, da un canto
ad arginare la crisi del mercato immobiliare americano affinché
quest’ultima non incida negativamente sui consumi e, dall’altro, ad
evitare una crisi del sistema bancario dovuta alla perdita di valore
dell’enorme quantità di titoli in circolazione con cui sono stati
finanziati non solo i mutui ipotecari più a rischio, ma anche
l’enorme volume di crediti erogati negli ultimi anni.
Quindi, si deve agire
contemporaneamente su due fronti: da un lato, bisogna evitare che il
peggioramento delle condizioni di salute dell’economia reale aumenti
la quantità dei crediti inesigibili e la caduta dei prezzi degli
immobili e quindi peggiori ulteriormente la crisi del sistema
bancario e, dall’altro, occorre creare le condizioni perché le
banche riescano a digerire le loro perdite senza destabilizzare
l’intero sistema. I pezzi del puzzle sono a questo punto chiari.
Il primo è una forte riduzione dei tassi di interesse e
la disponibilità delle banche centrali di approvvigionare di
liquidità il sistema bancario occidentale. Gli effetti di questa politica
monetaria sulla crescita economica non sono ancora chiari. È invece
già certo un suo parziale fallimento: non è ancora riuscita ad
allentare la tensione sul mercato monetario ed interbancario, dove
la differenza con i tassi base non è stata così ampia nemmeno nei
giorni più bui della crisi, ossia nello scorso mese di
agosto.
Il secondo
tassello è il piano dell’amministrazione Bush di mettere un tetto
all’aumento dei tassi ipotecari per evitare un’esplosione del numero
dei pignoramenti e un’accelerazione della crisi del mercato
immobiliare. Questo provvedimento risponde più a logiche di
demagogia politica piuttosto che a ragioni economiche. Infatti si
stima che ne potrebbero beneficiare circa 300mila famiglie, ben
poche rispetto alle famiglie, si stima attorno ai 2 milioni, che
sono a rischio di vedersi pignorare la propria casa. Inoltre
questo provvedimento ha scarsa o punto influenza sui prezzi delle
case che per la prima volta dalla Grande Depressione degli anni
Trenta sono in calo in tutti gli Stati dell’Unione per ogni
tipologia di oggetto immobiliare.
Il terzo tassello è una
ricapitalizzazione del sistema bancario facendo ricorso ai fondi
sovrani dei paesi asiatici e del Medio Oriente e, ove ancora non
bastasse, la creazione di un veicolo finanziario speciale (chiamato
SuperSiv), dove parcheggiare i titoli finanziari legati ai mutui
subprime per dare tempo alle banche di smaltire le perdite.
La crisi del sistema
bancario è infatti talmente grave da spazzar via il «protezionismo
finanziario» invocato da governi ed ambienti finanziari per impedire
che i gioielli di famiglia dell’Occidente cadano in mano agli Stati
arabi e a quelli asiatici. Detta in altro modo, la crisi
creata dalla grande finanza fa sì che questa stessa grande finanza è
costretta ad andare ad implorare l’aiuto di questi paesi, come hanno
già fatto UBS, l’americana Citigroup, la belga-olandese Fortis ed
altre ancora.
Dal successo di questo piano americano dipendono
anche le sorti di alcune grandi banche, come UBS. Infatti, se questo
programma non avesse successo, le perdite della maggiore banca
svizzera non si limiterebbero agli 11 miliardi di franchi,
annunciati lunedì scorso, e ai 4 miliardi di franchi già iscritti
nei conti del terzo trimestre. Inoltre, molto probabilmente non
basterebbe nemmeno la ricapitalizzazione della banca attuata grazie
agli 11 miliardi di franchi dello Stato di Singapore e ai 2 miliardi
di un investitore del Medio Oriente.
Sta di fatto che le perdite
di UBS in queste operazioni le pagheremo un po’ tutti. La tassa sarà
una perdita di gettito fiscale di alcune centinaia di milioni. Per
il solo Canton Ticino la perdita di gettito supererà i 20 milioni di
franchi, cui devono aggiungersi le perdite dei Comuni ed in
particolare quelle di Lugano (attorno ai 13 milioni di franchi),
Manno e Chiasso. Dunque la crisi dei mutui subprime non è una
faccenda d’oltre Atlantico che ci tocca solo di striscio. Essa si
manifesta anche da noi e le perdite di UBS sono solo l’inizio di
questa vicenda, il cui epilogo dipenderà dall’evoluzione della crisi
del mercato immobiliare americano e dall’entità del rallentamento
dell’economia statunitense. I dati contrastanti provenienti dagli
Stati Uniti non permettono ancora di capire come si concluderà
questa crisi causata dalle grandi banche internazionali e dai
diabolici meccanismi della nuova ingegneria finanziaria. Ma in ogni
caso è certo che vi saranno nuove spiacevoli sorprese.
 |
Fonte - Corriere del
Ticino |
Giallo:
Perchè la FED non è intervenuta ieri ?
12 Dicembre 2007 17:17
NEW YORK - di
WSI
________________________________________
Nel piu'
massiccio intervento coordinato sui mercati finanziari dall'11
settembre 2001, la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e tre
altre grandi banche centrali hanno annunciato che metteranno a
disposizione decine di miliardi di dollari di liquidita' per
alleviare la crisi del credito che sta minacciando la crescita
economica a livello globale (leggi il comunicato ufficiale della
Fed).
La Fed rendera’ disponibili alla BCE e alla Banca
Nazionale Svizzera $24 miliardi nel tentativo di incrementare
l’offerta di dollari in Europa. La Banca Centrale Usa iniettera’
nuovo denaro nel sistema finanziario globale anche attraverso
quattro diverse "aste" (due gia’ nel mese di dicembre) relative
all’offerta di altri $40 miliardi. Il piano di interventi coordinati
servira' secondo alcuni economisti anche per innescare un meccanismo
tale da abbassare in Europa il tasso interbancario sul dollaro, con
il Libor come target specifico della manovra.
La decisione
arriva all’indomani dei taglio al costo del denaro effettuati dalla
Fed, dalla Bank of England e dalla Banca Canadese che avevano
fallito nell’alleviare i timori degli investitori su un possibile
ingresso dell’economia in una fase di recessione.
"Si tratta di un’azione
scioccante" ha detto a Bloomberg Fred Goodwin, fixed-income
strategist di Lehman Brothers. "Il fatto che l’operazione sia
coordinata significa che le Banche Centrali hanno deciso di unire le
forze per attaccare alla radice il problema, le banche non hanno
piu’ fiducia le une dalle altre".
"E' sicuramente
un’importante risposta di politica monetaria su vasta scala per far
fronte al deterioramento delle condizioni del mercato del credito a
cui abbiamo assistito negli ultimi mesi", commenta Neil MacKinnon,
chief economist dell’hedge fund ECU Group di Londra. "Il problema
maggiore sul mercato creditizio non e' che i tassi sono troppo alti,
ma che le istituzioni finanziarie sono riluttanti a prestare denari.
Questa mossa coordinate della Fed con le altre banche centrali per
immettere liquidita' dovrebbe allentare in parte le pressioni" dice
Alan Skrainka, economista di Edward Jones.
"La Fed deve fronteggiare
condizioni di mercato senza precedenti in tempi moderni" ha detto al
Wall Street Journal Ian Shepherdson, capo economista di High
Frequency Economics. "Penso che queste misure siano un passo nella
giusta direzione, ma non c'e' modo di sapere per certo quanto
saranno efficaci. La
domanda cruciale e': per quale motivo la Fed non ha fatto questo
annuncio ieri, al momento della decisione sui tassi, senza quindi
cercare di evitare che la borsa fosse enormemente delusa (dal taglio
di appena lo 0.25%). Gran parte della sofferenza a Wall Street di
ieri sarebbe stata evitata, se la Fed avesse semplicemente
avvertito che oggi avrebbe fatto lo stesso annuncio che poi in
effetti ha fatto. Al fondo, comunque, queste misure sono importanti,
ma non impediranno all'economia di scivolare in basso nel breve
termine".
Dello stesso parere (per quale motivo la Fed non e'
intervenuta ieri?) anche Joseph Brusuelas, di IDEAglobal: "Questo
piano coordinato chiaramente non e' stato messo in piedi in fretta e
furia durante la notte. L'unica domanda che abbiamo e': per quale
motivo non e' stato annunciato ieri in parallelo al deludente
comunicato sulla politica monetaria del FOMC?".
Altri economisti
mettono in evidenza che la Fed avrebbe potuto abbassare direttamente
i fed funds e il tasso di sconto di 50 punti base, invece di ridurre
dello 0.25% e annunciare il giorno dopo l'immissione coordinata di
liquidita' con le altre banche centrali. Il fatto che la Federal Reserve
intenda fornire denaro alle banche attraverso il sistema delle aste
(2 a dicembre e 2 a gennaio) lascia pensare alla volonta’ della
Banca Centrale di controllare il livello di liquidita’ immessa sul
mercato. Un maggiore abbassamento del tasso di sconto (il
tasso applicato alle istituzioni finanziarie sui prestiti ottenuti
direttamente dalla Fed) avrebbe potuto avere effetti meno immediati
e significativi.
"Il
problema principale del mercato non e’ legato ai tassi d’interesse
troppo alti, bensi’ alla recente riluttanza delle istituzioni
finanziarie a concedere credito. La nuova liquidita’ garantita dalla
Fed dovrebbe finalmente ridurre le forti pressioni che hanno messo
in ginocchio il comparto finanziario negli ultimi mesi", ha
concluso Alan Skrainka, chief market Strategist di Edward Jones.
Ed ecco l'opinione di Giacomo Vaciago, pubblicata dal
Sole24Ore.com: "Da mesi ci domandavamo perche' le banche centrali
non facevano in intervento comune visto che il problema più comune
di così non poteva essere. Bene: finalmente ci hanno fatto sapere di
essersi accorte che il problema non è circoscritto a Francoforte o a
Londra ma è gloable perché globali sono i grandi intermediari e i
mercati finanziari. Così come è globale il mercato della liquidità
su cui operano le banche centrali, in diverse ore della giornata.
Come si è visto alle ultime tre riunioni dei board, la settimana
scorsa a Francoforte e a Londra e ieri a Washington, il mercato
globale pretende sempre di piu' da ciascuna banca centrale. Le
Borse, infatti, avevano reagito male alle decisioni di politica
monetaria, anche per il sommarsi delle maggiori esigenze di
liquidità tipiche dell'ultimo mese dell'anno alla situazione già
determinata dalla crisi dei mutui subprime. L'intervento congiunto
di oggi alimenta la speranza che, quando a febbraio conosceremo - si
spera - la reale situazione dei conti bancari, il mercato monetario
si normalizzi e la tensione sui tassi di interesse si allenti".
 |
Fonte -
WallStreetItalia.com |
Psicodramma in Borsa
14 Dicembre 2007 17:02 MILANO
- di *Alessandro Fugnoli
*Questo documento e' stato
preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
________________________________________
Oscillanti tra paura e avidità, senza che l’una riesca
a spiazzare l’altra, i mercati si suonano e si cantano il De
Profundis e l’Inno alla Gioia a ore alterne e si convincono per
autosuggestione, spesso senza supporto alcuno dal mondo reale, che
la recessione è ormai inevitabile o che, al contrario, ormai ce
l’abbiamo fatta e siamo fuori dal guado. Da due mesi va in scena lo
psicodramma del taglio dei tassi, che ha avuto finora due repliche
quasi identiche.
Prima si spera in 25 punti base e si darebbe
l’anima per averli, poi la Fed fa sapere che acconsente. Il mercato
festeggia, ma dopo qualche ora a qualcuno viene in mente che i 25
potrebbero diventare 50, mai porre limiti alla provvidenza. La voce
isolata si fa rapidamente coro e il fuoco dell’entusiasmo divampa
nei cuori assetati di speranza. Dopo qualche giorno i 50 diventano
certezza, tutti dicono di vederli splendere in un alone di luce e di
poterli toccare con le mani imploranti. Alla data stabilita la Fed
consegna esattamente quanto promesso ma i 25 punti per i quali si
era pure festeggiato diventano ora causa di disperazione e di
risentimento contro il Fomc dei professori parrucconi e duri di
cuore che ci porterà diritti alla recessione.
Lo psicodramma viene vissuto in modo sempre più
concitato anche perché si avvicina la fine dell’anno e nessun
gestore può permettersi di sbagliare. Si è quasi tutti più o meno
convinti che l’anno si chiuderà con un rally, ma non è dato sapere
se il rialzo è per l’ultimo mese, per l’ultima settimana, per
l’ultimo giorno o per l’ultima ora, per cui c’è sempre tempo per
scendere, all’occorrenza.
Dal mondo reale, intanto, arrivano
segnali tanto costanti e regolari quanto volatili e stravolte sono
le rappresentazioni mentali che se ne fanno i mercati. I segnali
sono di tre tipi. Il primo è dato dal flusso martellante di
comunicazioni di perdite, svalutazioni e "write off" provenienti dal
mondo della finanza. Queste operazioni dovevano essere finite
in agosto, sembravano completate ai primi di novembre e vengono date
per vicine all’esaurimento oggi. In realtà, pur con le cifre
imponenti annunciate negli ultimi giorni, continuano a non tornare i
conti. Tra il buco
complessivo stimato top down e gli scheletri finora scoperti negli
armadi e annunciati bottom up c’è un divario di parecchie decine di
miliardi che induce a pensare che ci sarà un flusso di scheletri
emergenti ancora per qualche mese.
Il secondo flusso di
dati di segno costante e regolare proviene dalle economie reali.
Dopo il brusco calo di velocità registrato in tutto il mondo, da due
mesi in qua si procede a velocità stabile (molto bassa negli Stati
Uniti, media in Europa, alta ma non altissima in Asia e qualche
sobbalzo in Giappone). Dire che si sta rallentando, se si sta ai
fatti, è quindi fuorviante e dà un’idea più negativa del dovuto.
Naturalmente nulla vieta che ci siano dietro l’angolo nuovi
rallentamenti (e per i consumi americani questo appare piuttosto
probabile), ma è sempre bene distinguere i fatti accertati dalle
ipotesi, per legittime che siano.
In realtà, le stime macro per
il primo e secondo trimestre, quelle cioè che, essendo vicine,
contengono meno metafisica di quelle più lontane, non sono così
brutte come si potrebbe pensare. I più pessimisti di tutti, a quanto
ci consta, danno crescita zero negli Stati Uniti e rallentamento
ulteriore, ma non drammatico, nel resto del mondo. Qua e là, a ben
vedere, si intravede addirittura qualche riaccelerazione in Europe e
in America nel primo trimestre.
Il terzo flusso di segnali
regolari arriva dalle banche centrali, che agiscono ormai da agosto
su due binari separati. Il primo è il binario generale, quello in
cui si cerca di conciliare il sostegno alla crescita con la
prevenzione dell’inflazione. Su questo binario viene di fatto
mantenuto un atteggiamento il più possibile composto, fatto di
stabilità in Europa e di graduali e cauti ribassi dei tassi in
America. Mantenere questa compostezza sarà in futuro ancora più
difficile e stressante. Da una parte c’è chi guarda lontano come
l’Ocse e raccomanda di non tagliare più, pena il ripetere errori
passati che hanno portato a bolle e inflazione, dall’altra c’è la
richiesta pressante e quasi ricattatoria di banche e mercati che
vorrebbero i tassi a zero (salvo poi volerli a infinito quando, come
nel marzo 2006, si scoprono all’improvviso rischi d’inflazione).
Tirata da tutte le parti la Fed, per quello che si può supporre
oggi, taglierà ancora due, forse tre volte (e la Bce, forse, una).
Quanto al secondo
binario, quello dedicato alle banche, le banche centrali continuano
a trasmettere lo stesso segnale. Faremo, dicono, tutto quello che
occorre per garantire liquidità al sistema. Tutto. Visti dai
mercati, questi tre flussi regolari di dati dal mondo reale
dovrebbero indurre a una certa cautela, ma non a situazioni di
tensione o di panico. Molti strategist dicono anzi che questa
cautela è eccessiva e che il costante calo dei tassi di policy
dovrebbe portare a un riprezzamento del premio per il rischio e a un
recupero dei corsi di azioni e crediti. Chi dice questo aggiunge
quasi sempre, a mo’ di disclaimer, che questa idea vale finché non
c’è recessione. Nel qual caso ci sarebbe invece parecchio spazio per
scendere, guardando ai casi passati.
In questo modo si produce
un range di previsione amplissimo che poggia, nei due estremi, su
differenze modeste nei livelli di crescita. Basta che l’America
cresca dell’uno per cento e si può andare verso un fair value ben
più alto dei livelli attuali, ma d’altra parte basta scendere a
crescita zero per giustificare un significativo ribasso. I mercati,
che al di là delle convulsioni e delle autosuggestioni mostrano un
certo equilibrio di fondo, devono sistemarsi tra queste due ipotesi
e ci sembra giusto che, come mostrano i livelli attuali, si
sbilancino in una certa misura dal lato della prudenza.
Se
ipotizziamo che i prossimi tre-sei mesi vedano ancora prodursi
svalutazioni di bilancio, crescita ridotta e tagli dei tassi allora
i mercati non dovrebbero allontanarsi troppo da dove si trovano
adesso. Il lungo viaggio verso il fair value, se si vuole che sia
sicuro, sarà bene che cominci più avanti, quando la situazione di
crediti si sarà normalizzata sul serio e quando si avrà qualche
certezza in più sulla tenuta dei consumi negli Stati Uniti.
Lo
stesso ragionamento va fatto per il dollaro. Ci sembra legittimo
passare da negativi a neutrali (e iniziare a smontare almeno
parzialmente le coperture che abbiamo raccomandato in questi anni),
ma ci sembra ancora presto per diventare positivi. Perché il dollaro
possa iniziare il suo cammino verso il fair value, oltre alla
normalizzazione dei crediti e alla tenuta dei consumi occorrerà
avere qualche altra conferma sul trend di riduzione del disavanzo
delle partite correnti. Attenzione dunque, sul dollaro, alle false
partenze.
 |
Fonte - Il Rosso e il
Nero |
La mossa delle Banche Centrali
14
Dicembre 2007 - di
MiaEconomia
Non si era mai visto,
o meglio, non si vedeva dal post 11 settembre, ma allora c'era
stato un fattore esterno e non prevedibile a rendere
necessario l'intervento. Ora è diverso. Tanto diverso da
obbligare La Federal Reserve a muove d'urgenza contro il
rischio 'credit cruch' causato dalla crisi dei mutui subprime,
e la Fed prva a farlo attraverso un piano straordinario di
liquidità da pompare sui mercati d'intesa con le grandi banche
centrali mondiali, Bce in testa. A sorpresa l'istituto
guidato da Ben Bernanke annuncia la più grande manovra di
cooperazione internazionale dagli attentati terroristici
dell'11 Settembre 2001, coinvolgendo oltre alla Banca centrale
europea, la Banca d'Inghilterra, la Bank of Canada e la Swiss
National Bank. La Fed spiega in una nota di aver definito
un nuovo programma d'aste di finanziamenti temporanei
(temporary auction facility, Taf) da iniziali 40 miliardi di
dollari per rendere disponibili risorse a favore degli
istituti di credito, oltre ad aver autorizzato un regime
temporaneo di reciprocità valutaria (linee di swap), della
durata massima di sei mesi, con Bce e Banca nazionale
svizzera, dell'ammontare, rispettivamente di 20 e 4 miliardi
di dollari. In altri termini, lo scopo non è aumentare la
liquidità netta in circolazione, ma finanziare di fatto le
banche più a lungo termine in base al 'term funding market'
(con prestiti ad esempio di un mese), piuttosto che sul pronti
contro termine. "Il fatto che l'azione sia coordinata
significa che c'é l'unità degli sforzi per dichiarare guerra
al problema", nota Fred Goodwin, strategist di Lehman
Brothers. Malgrado il taglio dei tassi di riferimento da parte
delle banche centrali di tutto il mondo, esclusa la Bce, la
liquidità sui mercati non si è normalizzata al punto che i
tassi interbancari (primi tra tutti quelli negli Usa) sono
spesso tornati sopra i benchmark. "C'é la possibilità che
l'azione annunciata dalla Fed, rinforzata dal coordinamento
globale, possa contenere il contagio e ammorbidire i tassi
interbancari su scala mondiale, non solo negli Usa", rileva
Ian Morris analista di Hsbc. La Fed si riserva di
effettuare iniziative aggiuntive nei prossimi mesi in funzione
dell'evoluzione dei mercati, mentre l'esperienza acquisita
quanto al piano di finanziamento del credito sarà utile per
valutare la potenziale utilità degli strumenti di politica
monetaria della Federal Reserve, con la creazione di una
struttura permanente per le aste.
|
Mercoledì
19 dicembre 2007 |
|
Mercoledì
19 dicembre 2007 |
|
Venerdì
28 dicembre 2007 |
 |
|
 |
|
 |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
Crisi
immobiliare: quel
bluff americano sui mutui
18 Dicembre 2007 13:29
NEW YORK - di Paul
Krugman
________________________________________
Per gli standard dell’amministrazione Bush, il
segretario del Tesoro Henry Paulson è sicuramente una brava persona.
Non è visibilmente incompetente, non sta cercando di portarci in
guerra fraudolentemente, non giustifica la tortura, non protegge
contrattisti corrotti. Le sue iniziative però riflettono le priorità
dell’amministrazione per la quale presta servizio. E’ questo ciò che
non va del suo piano di salvataggio ideato per risolvere la crisi
dei mutui. Secondo un
editoriale del New York Times, il piano è «troppo poco, troppo tardi
e troppo facoltativo», ma teniamo presente che dal punto di vista
dell’amministrazione queste non sono pecche ma tratti
caratteristici.
Tra gli osservatori finanziari
cresce infatti il consenso su un punto: il piano di Paulson non è
concepito più di ogni altra cosa per dare risultati concreti. Suo
intento, piuttosto, è creare l’illusione di un intervento, minando
in tal modo il supporto politico ai tentativi concreti di aiutare le
famiglie nei guai. In particolare, il piano di Paulson è con
ogni probabilità un tentativo di togliere supporto a Barney Frank,
presidente democratico della Commissione della Camera per i Servizi
Finanziari, sostenitore di una proposta di legge che nei casi di
bancarotta concederebbe ai giudici il potere di riscrivere i termini
dei mutui ipotecari. Ma, come scrive il Congress Daily, «le banche
sperano che il piano di Bush per la crisi dei subprime mandi
all’aria la proposta della Camera».
Elizabeth Warren, esperta in
bancarotta a Harvard, dice: «Il piano per i mutui subprime
dell’Amministrazione è il sogno della lobby delle banche» e,
considerati i trascorsi della stessa Amministrazione Bush, ciò non
dovrebbe sorprendere più di tanto. Ci sono infatti tre
precise preoccupazioni legate all’ondata crescente di pignoramenti
in America. La prima è la stabilità finanziaria: se le banche e gli
altri enti subiscono enormi perdite per i loro investimenti legati
ai mutui, è l’intero sistema finanziario nel suo complesso a
risentirne e traballare. La seconda è la sofferenza in termini
umani: centinaia di migliaia, probabilmente milioni, di famiglie
americane perderanno la loro casa.
Terza, infine, è l’ingiustizia: il
boom dei subprime ha comportato prestiti da avvoltoi – prestiti ad
alto tasso di interesse rifilati a sottoscrittori che si
qualificavano per tassi molto inferiori – su scala spettacolare. Il
Wall Street Journal ha scoperto che più del 55 per cento dei
prestiti subprime concessi all’apice della bolla edilizia "sono
stati erogati a persone con punteggi creditizi abbastanza
alti da qualificarsi spesso per prestiti convenzionali a
termini di gran lunga migliori". E nel mercato edilizio in forte
calo, queste vittime si ritrovano ora nei guai, impossibilitate a
rifinanziare.
Questi,
dunque, i tre problemi. Il piano di Paulson – altrimenti detto, con
il suo nome ufficiale, il "Piano Alleanza di Speranze" – si
concentra invece esclusivamente sulla riduzione delle perdite per
gli investitori. Qualsiasi minimo aiuto possa fornire ai mutuatari è
chiaramente del tutto marginale. E in più non offre
assolutamente nulla alle vittime dei prestiti capestro. Il piano
prospetta linee guida facoltative in virtù delle quali alcuni
mutuatari – e soltanto alcuni – le cui rate del mutuo sono destinate
ad aumentare potrebbero ottenere un sollievo temporaneo.
Si
presume che ciò debba aiutare invece gli investitori, perché il
pignoramento di una casa ipotecata è costoso: ci sono enormi spese
legali da affrontare e la casa in genere si vende in seguito a un
valore nettamente inferiore a quello del prestito. «Il pignoramento
non costituisce un vantaggio per nessuno» ha detto Paulson nel corso
di un forum interattivo della Casa Bianca. «Ho sentito dire che da
alcune stime risulta che gli investitori dei mutui perdono dal 40 al
50 per cento del loro investimento, se si arriva al pignoramento».
Ma non avrebbero anche da guadagnarci? Non se gli ideatori del
piano riescono a evitarlo. Gli aiuti sono limitati ai mutuatari il
cui indebitamento dovuto al mutuo sia pari almeno al 97 per cento
del valore della casa – il che significa che in molti casi, forse
nella maggioranza dei casi, coloro che riceveranno aiuti saranno i
debitori che posseggono più di quanto vale la loro casa. Questi
soggetti praticamente starebbero altrettanto bene in termini
finanziari se, molto semplicemente, lasciassero perdere tutto.
E che dire di coloro che
avendo un buon credito sono stati malconsigliati a sottoscrivere
pessimi accordi per il mutuo, e che avrebbero invece dovuto essere
indirizzati a prestiti con condizioni migliori? Non otterranno
niente: il piano di Paulson esclude specificatamente i mutuatari con
buoni punteggi creditizi. Anzi, il piano in realtà fornisce
ad alcune persone un incentivo a saltare qualche rata del mutuo,
perché questo farebbe di loro soggetti a grave rischio creditizio e
pertanto diverrebbero candidati ad accedere al piano di
aiuti.
In realtà, il tentativo di Paulson di aiutare gli
investitori facendo poco o nulla per i mutuatari nei guai e
defraudati, potrebbe aver senso se il suo piano riducesse almeno le
perdite degli investitori in misura tale da poter seriamente
migliorare la situazione finanziaria nel suo complesso. Ma soltanto
una minima percentuale di mutuatari subprime si qualificherà per gli
aiuti e molti di loro alla fine dovranno comunque affrontare il
pignoramento.
Pertanto
il piano nel suo complesso è inverosimile che possa ridurre le
perdite complessive connesse alla crisi dei mutui, se non di pochi
punti percentuali al massimo, non abbastanza quindi per fare granché
differenza per la stabilità finanziaria. Effettivamente, gli
aumenti dei tassi di interesse che stanno evidenziando una crisi di
fiducia nel sistema finanziario non si sono assolutamente contratti
all’annuncio del piano. Certo, si potrebbe sempre affermare che il
piano di Paulson è meglio di niente. Ma l’alternativa più
interessante non è propriamente "niente": è un piano che – come la
proposta di Barney Frank – di fatto aiuterebbe concretamente le
famiglie dei lavoratori. Ed è questo che l’Amministrazione sta
cercando in ogni modo di impedire.
(Traduzione di Anna
Bissanti)
 |
Fonte - La
Repubblica |
Sulle Borse é già
orso
18 Dicembre 2007 01:23
MILANO - di Massimiliano
Malandra
________________________________________
Parola di
guru. O meglio di John Murphy, uno dei padri dell’analisi tecnica,
considerato anche l’inventore dell’analisi intermarket. «Lo studio
delle relazioni fra le varie asset class rimane assolutamente
valida, anche se alcune correlazioni col passare del tempo si sono
modificate». La premessa, perfino ovvia, è che tutti i
mercati sono collegati; ma non per questo è sempre facile capire. In
pratica ciò che avviene da una parte ha ripercussioni altrove. Un
processo che certamente la globalizzazione finanziaria ha
accentuato. I mercati in questione sono essenzialmente quattro:
materie prime, valute, obbligazioni e titoli azionari.
Mr.
Murphy, ci può fare qualche esempio di minore relazione?
Certo.
Ad esempio, a partire dal 1998 è venuta meno la tendenza di bond e
azioni a muoversi in senso opposto. Allo stesso modo si è indebolito
il legame - forte in precedenza - fra obbligazioni e commodity.
Ha capito il motivo?
L’ingresso sulla scena dei Paesi
emergenti, affamati di materie prime, ha scombussolato le relazioni
fra le asset class. Dal 1998 il ciclo economico internazionale è
entrato in un periodo di progressiva discesa dell’inflazione. Ma
proprio per questo l’analisi intermarket è uno strumento prezioso:
consente scelte di allocazione e rotazione settoriale e offre una
visione completa dello scenario finanziario facilitando il dialogo
tra analisti tecnici e fondamentali, dal momento che si basa su una
logica coerente con quella che spiega gli sviluppi macroeconomici.
Tuttavia…
Dica pure…
Come detto le relazioni mutano, ma le
correlazioni globali rimangono. Personalmente, ad esempio, utilizzo
ancora molto l’analisi intermarket per identificare quelle che
potrebbero essere le possibili rotazioni settoriali nel corso dei
vari cicli borsistici.
A
proposito di Borsa, come vede Wall Street?
Penso che gli indici azionari
statunitensi siano entrati in una fase di «topping»; in pratica
stiamo assistendo a quella che sembra a tutti gli effetti una fase
distributiva delle quotazioni. In ogni caso, a mio parere, vi è
ancora spazio per il tradizionale rally di fine anno. Che potrebbe
arrivare a riportare le quotazioni in prossimità dei precedenti
massimi.
Vi sarà
un asset class dominante nel 2008?
Penso che saranno ancora le
commodity a tenere il palcoscenico il prossimo anno. Con tre classi
principali, le agricole (grano e soia soprattutto), le energetiche e
infine i metalli preziosi. Rimango infatti decisamente positivo
sull’oro, che continuerebbe a beneficiare del calo del dollaro
americano. La valuta Usa secondo me rimarrà inserita in un mercato
Orso ancora a lungo.
E i bond?
L’obbligazionario
dovrebbe tornare a vivere una fase più positiva rispetto al comparto
azionario. L’economia negli Usa sta iniziando a rallentare e di
conseguenza avremo più pressione sui rendimenti, quindi i bond
dovrebbero tornare a salire.
L’azionario proprio non le piace…
Diciamo che ci sono altre asset class che a mio parere potranno
spuntare rendimenti migliori rispetto all’equity. Tuttavia, dovendo
puntare su qualche comparto dell’azionario, mi orienterei verso
l’healthcare, i consumi di base, le utility. E il fatto che questi
settori siano diventati i più forti non è un caso.
Vale a dire?
Questi settori sono tutti e tre difensivi. E solo recentemente
sono diventati comparti leader. la teoria - confermata dalla pratica
- spiega che in un mercato che sta rallentando, la rotazione
settoriale premia i comparti difensivi. Come vede l’analisi
intermarket funziona ancora. E continuerà a farlo.
 |
Fonte -
Borsa&Finanza |
Pochi
doni sotto l’albero
21 Dicembre 2007 13.28 MILANO - di Sara
Silano
________________________________________
L’anno scorso
la stella azionaria brillava nel cielo terso di un inverno secco e
non freddo. Quest’anno non è più così. La perturbazione dei mutui
subprime, quelli di bassa qualità, è arrivata in estate e ha portato
volatilità e timori per il rallentamento dell’economia.
L’indice Msci mondiale si avvia a chiudere il 2007 in rosso (-4% in
euro al 19 dicembre), mentre nel 2006 aveva guadagnato circa l’8%.
Colpa soprattutto delle Borse occidentali e del Giappone, mentre
quelle emergenti hanno risentito meno dell’ondata ribassista.
Come ricorda Sebastian Paris-Horvitz, strategist di Axa
Investment managers, proprio come per il vino, anche nella storia
economica ci sono annate buone e annate cattive. Nel 2007 si è
riaffacciato il timore di una recessione in seguito alla crisi del
mercato immobiliare e creditizio americano. E’ tornata, inoltre, a
far capolino l’inflazione, che sembrava fosse scomparsa dalla scena
finanziaria per effetto dell’arrivo di prodotti d’importazione a
basso costo dai Paesi emergenti e del contenimento degli aumenti
salariali. Infine, il ciclo dei profitti ha raggiunto il suo picco e
per la prima volta dal 2003 le revisioni al ribasso hanno superato
quelle al rialzo.
Insomma, ce n’è abbastanza per
essere pessimisti e se si guarda al passato un po’ di brividi
possono venire. Le crisi immobiliari negli Stati Uniti, con
l’eccezione del 1967, hanno sempre portato alla recessione e un
analogo effetto aveva provocato lo shock creditizio negli anni
Novanta e quello petrolifero nel 1973. Tuttavia, i confronti
possono essere fuorvianti. “Stiamo attraversando una fase di
profondi cambiamenti strutturali”, sostiene Ad Van Teggelen, senior
strategist di Ing Investment management. Negli ultimi dieci anni,
l’evoluzione tecnologica ha accelerato la globalizzazione e
l’aumento della produttività, i Paesi emergenti, soprattutto quelli
che si sono arricchiti con l’incremento del prezzo del petrolio e
delle materie prime, hanno cominciato ad entrare nelle banche e in
altre società occidentali, e l’invecchiamento della popolazione
determina meno pressioni sul fronte occupazionale.
“Cautela” e “prudenza” sono le
parole che più spesso sono ripetute in questi giorni, ma non
“panico”. La crisi creditizia si è rivelata molto più profonda delle
attese e ci vorrà del tempo perché le banche possano risolvere i
loro problemi di bilancio, ma gli istituti centrali stanno agendo
per evitare uno shock di liquidità. Fed e Bce dovranno anche
scegliere tra stimolare la crescita e combattere l’inflazione. E non
possono sbagliare perché la posta in gioco è alta. Negli Stati
Uniti, l’istituto guidato da Ben Bernanke non potrà sottovalutare i
rischi legati alla crescita e alcuni analisti stimano che i Fed Fund
possano scendere intorno al 2,5% entro l’estate. Nel Vecchio
continente, invece, Jean Claude Trichet probabilmente rimarrà fermo
fino alla primavera per evitare fiammate inflazionistiche, poi
potrebbe tagliare, soprattutto se l’euro rimarrà forte.
La
divisa comunitaria è, a giudizio di molti sopravvalutata, ma per il
dollaro il momento del riscatto non sembra vicino. Per dirla con le
parole di Michael Gordon, responsabile della strategia di
investimenti di Fidelity International, “Nel 2008, New York rimarrà
una destinazione privilegiata per gli amanti dello shopping, non per
gli investitori”.
 |
Fonte -
MorningStar.it. |
|
Giovedì
06 dicembre 2007 |
|
Sabato
22 dicembre 2007 |
|
Venerdì
28 dicembre 2007 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato PDF |
..... |
Scarica in formato
PDF |
..... |
Fondi,
crollo di fine anno (-8
miliardi)
06 Dicembre 2007 13:20
MILANO - di
Finanza&Mercati
________________________________________
I trenta
giorni più brutti nella storia del risparmio gestito italiano. A
novembre l’industria dei fondi comuni ha registrato un deflusso
netto di patrimonio di oltre 8miliardi. Il peggiore risultato da
quando vengono pubblicati dati mensili di raccolta.
Unennesimo campanello d’allarme per un settore che sembra ormai in
ginocchio: dall’inizio dell’anno i fondi stanno subendo riscatti
netti per oltre 47 miliardi, e il bilancio sembra aggravarsi di mese
in mese.
Già lo scorso luglio era stata sfiorata una perdita
simile,ma allora il rosso era stato provocato da Cariplo. La
Fondazione aveva deciso di creare una propria Sgr (Polaris
Investments), e a luglio aveva prelevato 5 miliardi dal fondo Geo
(in precedenza del gruppo Intesa).Liquidità rientrata nel sistema
dei fondi nel successivo mese di agosto. Dietro il rosso di novembre
non sembrano esserci invece movimenti di operatori istituzionali. I
dati di ieri sono ancora provvisori, e oggi Assogestioni fornirà i
numeri definitivi, con i risultati delle singole Sgr. Ma i deflussi
di novembre segnalati dall’associazione presieduta daMarcello
Messori sembrano far capo integralmente ai riscatti dei
risparmiatori retail. I sottoscrittori, spaventati dalle
oscillazioni delle Borse, hanno venduto soprattutto i fondi
azionari, che hanno registrato un deflusso di 4,99 miliardi.Maanche
i prodotti obbligazionari hanno chiuso con un rosso di 3,9 miliardi.
I risparmiatori si sono rifugiati invece nei prodotti di liquidità,
che hanno chiuso il mese con un bilancio positivo per 2,25miliardi.
Per quanto riguarda poi il domicilio dei fondi, a novembre non c’è
stato scampo per nessun operatore: i prodotti di diritto italiano
hanno perso 4,5 miliardi, quelli creati all’estero dagli italiani (i
cosiddetti roundtrip) sono stati in rosso per 2,1 miliardi, mentre
gli esteri puri hanno subito un deflusso di 1,2miliardi. Segno che
almeno questa volta la penalizzazione che i prodotti italiani hanno
rispetto agli esteri sul fronte della tassazione (con il prelievo
fiscale sul maturato anziché sul realizzato) non ha pesato sul
deflusso. Ma una riforma del sistema, a cominciare proprio dalla
tassazione fiscale, appare però sempre più inevitabile. E anche la
ricetta per rilanciare il sistema, proposta più volte dal
governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che ha chiesto di
allentare il legame tra le Sgr e le banche controllanti, non può più
essere ignorata.
 |
Fonte -
Finanza&Mercati |
Gli Etf
fanno boom
06 Dicembre 2007 MILANO
- di Sara Silano
________________________________________
Sul listino
milanese, il numero di fondi indicizzati è più che raddoppiato
rispetto al 2006. Ora arriva la seconda generazione, che adotta
strategie più complesse. E le potenzialità di crescita, dicono gli
esperti, sono enormi. Così come le opportunità per gli investitori
che, però, devono saper scegliere.
A Piazza Affari, gli
Exchange traded fund (Etf) hanno superato quota duecento. Rispetto
al 2006, il numero è più che raddoppiato e da settembre 2002, quando
sono stati quotati i primi fondi, la crescita è stata esponenziale.
All’inizio sono stati lanciati Etf su indici europei e americani,
poi sugli obbligazionari e gli emergenti. L’anno scorso hanno
prevalso i debutti di strumenti settoriali, mentre il 2007 è stato
caratterizzato dall’ampliamento dell’offerta con l’arrivo degli
strutturati e degli Exchange traded commodities (Etc) sulle materie
prime.
L’ultima frontiera sono gli Etf basati su indici
fondamentali. I primi sono stati lanciati da Lyxor Asset management
a settembre, due sono stati quotati da Invesco PowerShares, che è
sbarcata in questi giorni in Italia ed è pronta a collocarne altri
tre dal 10 dicembre, di cui uno specializzato sul listino milanese.
E nel futuro, neppure troppo lontano, della Borsa milanese, ci sono
gli Etf intelligent index, che hanno benchmark costruiti con
metodologie quantitative messe a punto dal professor John Southard
(Invesco PowerShares), per individuare le società con maggior
potenziale di crescita.
A Piazza Affari, non è solo
aumentata l’offerta, ma sono esplosi gli scambi. I contratti medi
giornalieri nel 2007 hanno sfiorato quota 5.400, con un turnover che
è raddoppiato rispetto a un anno fa. A ottobre il patrimonio in
gestione degli Etf ha superato i 10.100 miliardi di euro contro i
531 milioni di fine 2003. Secondo i dati presentati da Bruce
Bond, fondatore di PowerShares durante la conferenza di lancio dei
nuovi prodotti a Milano, il trend continuerà ad essere positivo,
analogamente a quanto sta accadendo nel resto del mondo: si stima
che entro il 2011 gli asset globali supereranno i 2 mila miliardi di
dollari contro gli attuali 700 milioni.
La storia ci insegna
che le rapide ascese, siano esse di un’industria, di un listino o di
un titolo, sono pericolose perché possono trasformarsi in brusche
discese. Inoltre, quando un settore tira, molti operatori sono
tentati di entrare per trarne profitto. Così le buone idee si
mischiano con le cattive e non sempre è facile distinguere le une
dalle altre. In un’analisi del mercato statunitense degli Etf,
Russel Kinnel, direttore della ricerca in fondi di Morningstar a
Chicago, fa notare che il boom di questi strumenti porta con sé dei
rischi, soprattutto quando dominano i cosiddetti “trendy fund”, che
seguono le mode e sono iper-specializzati.
Se questo
accadesse, sarebbe un vero peccato, perché gli Etf rappresentano
realmente una nuova opportunità destinata a cambiare le abitudini
degli investitori. Rispetto ad altri strumenti hanno il vantaggio di
essere quotati in Borsa, sono trasparenti, generalmente liquidi e
poco costosi.
Il mercato italiano degli Etf è più giovane di
quello americano e nel suo sviluppo è stato meno influenzato dalle
mode. Negli anni, infatti, si è assistito a un progressivo
completamento della gamma, geografica, settoriale e di stile, più
che al lancio di “trendy fund”, anche se non mancano le eccezioni.
Quella in arrivo ora si può definire la “seconda generazione” di
Exchange traded fund, simile alla prima perché replica un indice ed
è soggetta alle stesse regole di trasparenza e liquidità che la
Borsa impone a questi strumenti, ma si differenzia per le strategie
d’investimento più complesse.
I fondi sono definiti
“passivi” perché, una volta stabilito il modello matematico di
gestione, la discrezionalità lasciata al gestore è praticamente
nulla. E’ bene, però, che l’investitore comprenda le caratteristiche
di questi Etf per valutare se sono adatti ai propri obiettivi e
coerenti con il proprio portafoglio. Se si ricerca semplicemente una
diversificazione geografica a basso costo, è possibile scegliere un
tradizionale Exchange traded fund, che replica i comuni indici
basati sulla capitalizzazione del mercato; se al contrario si vuole
avere un’esposizione a un paniere di società con le migliori
prospettive di crescita, bisogna scegliere tra i prodotti di seconda
generazione. Ancora, se l’obiettivo è partecipare ai movimenti di un
indice in modo più che proporzionale per perseguire in modo
consapevole particolari strategie (e non solo perché attratti dalla
prospettiva di ottenere guadagni maggiori), lo strumento adeguato
può essere un Etf a leva. Tutti questi strumenti possono essere
ugualmente validi se usati con “intelligenza”; al contrario, come
dice Kinnel, il rischio è di rimanere delusi.
 |
Fonte -
MorningStar.it |
Foto di
gruppo con il Fondo
Venerdì 21 Dicembre 2007,
22:40 - Di MiaEconomia ______________________________________________
Sono sempre meno, visto che negli
ultimi mesi la fuga dai fondi comuni è stato un dato di fatto
abbastanza evidente. Però ci sono ancora, e Assogestioni ha
cercato di tracciarne l'identikit, eccolo qua: il
risparmiatore italiano medio ha 55 anni, è impiegato, vive a
Nord, sceglie prodotti a breve termine e ha due fondi, in cui
investe complessivamente 34.000 euro. Il decimo rapporto
annuale sui sottoscrittori di Assogestioni, che si riferisce
al 2006, sottolinea l'invecchiamento graduale dei
sottoscrittori: gli over 65, infatti, rappresentano un terzo
della popolazione che possiede quote di fondi. La fascia che
va da 36 a 55 anni costituisce il 40% del totale.
Guardando alle aree geografiche, i residenti nel
Nord-Ovest hanno un patrimonio medio di circa 38.000 euro. Il
Lazio, con 40.000 euro, guida la graduatoria regionale. Dal
rapporto di Assogestioni emerge una correlazione indiretta tra
importo investito e rischiosità del portafoglio: si investe
maggiormente nei fondi azionari se si dispone di una somma
modesta. I fondi obbligazionari sono preferiti da chi investe
fino a 15.000 euro. Cresce la percentuale di donne, che
supera il 42%, mentre, guardando alle professioni, gli
impiegati rappresentano il 57% dei sottoscrittori di fondi,
seguiti dai pensionati con il 17%. Aumenta, infine, il ricorso
ai piani di accumulo (Pac): a fine 2006, l'11% dei
risparmiatori sceglie esclusivamente la formula del Pac per
investire.
|
Fondi: I sottoscrittori
scelgono strategie di breve
Venerdì 28 Dicembre 2007,
22:40 - Di
Marco Caprotti - MorningStar ______________________________________________
Il
rapporto annuale di Assogestioni (relativo al 2006) disegna il
profilo dell'investitore italiano in fondi. Un'industria nella
quale mettono i propri risparmi 11 milioni di famiglie
italiane.
Ha 55 anni, è impiegato, vive a
nord, sceglie prodotti a breve termine e ha due fondi in cui
investe complessivamente 34 mila euro. È questo l’identikit
del risparmiatore italiano che emerge dal decimo rapporto
annuale di Assogestioni sui sottoscrittori, relativo al 2006.
L’analisi, condotta principalmente sui fondi di
diritto italiano, illustra le caratteristiche di 8 milioni di
individui, che rappresentano il 42% del patrimonio del settore
fondi comuni aperti in Italia. Conti alla mano e considerando
anche la diffusione dei fondi di diritto estero, si può
affermare che il numero di sottoscrittori è costante ed è pari
alla metà delle famiglie residenti in Italia (circa 11
milioni). Il progressivo invecchiamento demografico,
l’allungamento del periodo di formazione scolastica e la
cresciuta incidenza dei contratti di lavoro atipici, sono
alcuni dei fattori che giocano un ruolo rilevante sul graduale
invecchiamento dei sottoscrittori.
Nel 2006, infatti,
gli over 65 rappresentano un terzo della popolazione che
possiede quote di fondi. La fascia che va da 36 a 55 anni è
però quella più rappresentativa e pesa per il 40% del totale.
I più giovani, che hanno bisogno di un periodo più lungo di
accumulazione prima di poter investire, rappresentano il 14%
del totale.
Il rapporto tra età e capacità
di risparmio è la conseguenza diretta del fatto che, anche nel
2006, siano gli over 65 coloro che investono le somme più
consistenti (47 mila euro).

|
Gli
italiani non ce la fanno più a risparmiare
21 Dicembre 2007 MILANO
- di MiaEconomia
________________________________________
La metà
degli italiani non ha risparmiato nel 2007, come nel 2005, contro il
49% del 2006. Il dato arriva dal Rapporto sul Risparmio e sui
Risparmiatori Bnl/Centro Einaudi, giunto alla venticinquesima
edizione.
L’acquisto o la ristrutturazione della casa
restano i motivi principali, selezionati dal 26% di chi ha
risparmiato nel corso del 2007; l’integrazione della pensione resta
a livelli relativamente bassi ma é in crescita rispetto allo scorso
anno, dall’11% al 15%. Motivo primario per il risparmio restano gli
eventi imprevisti, indicati dal 41% degli italiani. Si conferma la
scarsa diffusione dei fondi pensione rispetto ad altri strumenti: il
26% ha una polizza sulla vita che garantirà un vitalizio, il 14%
aderisce a un fondo pensione di categoria, il 7,3 a un fondo
pensione aperto. Come in passato, la scelta più frequente é quella
che ribadisce la validità del “fai-da-te pensionistico”: la compie
addirittura il 42,3% degli intervistati.
A chi ha deciso di
mantenere il Tfr presso l’azienda, sono state chieste le motivazioni
della scelta. Il 28% ha affermato che si é trattato di “una
richiesta da parte dell’azienda che non potevo rifiutare”, il 25% ha
risposto “perché voglio contribuire alla crescita dell’azienda
presso cui lavoro”, il 47% “perché non mi fido dei fondi pensione”.
É stato chiesto a coloro che hanno lasciato le risorse finanziarie
presso l’azienda quale sia il rendimento atteso dal Tfr e “ciò che
colpisce delle risposte é però che le aspettative di oltre quattro
lavoratori su dieci siano totalmente irrealistiche”.
La ricerca
di sicurezza anche nella scelta degli investimenti rimane una
costante: il 52% degli intervistati assegna il primo posto a questo
aspetto nonostante il buon andamento mostrato dai mercati a partire
dal 2003. A conferma di ciò, l’avversione al rischio negli impieghi
finanziari é dichiarata dal 44% del campione. Si mantiene infatti
elevata la soddisfazione nei confronti dell’investimento in
abitazioni: il 52% del campione ha affermato di essere “molto
soddisfatto”. Il 23,9% degli intervistati ha in corso un mutuo
ipotecario e di questi il 74,2 lo ha utilizzato per l’acquisto della
prima casa.
La quasi totalità dei mutuatari ha sottoscritto il
finanziamento presso una banca, per lo più la cosiddetta banca di
famiglia. Il mutuo continua a rappresentare la quota più rilevante
dell’indebitamento delle famiglie. Nel 2006 in Italia il rapporto
tra l’ammontare dei mutui (244 miliardi di euro) e il Pil é stato
pari a circa il 17%; negli Stati Uniti tale percentuale sale al 74%
e nel Regno Unito 78%. Francia 32%, Germania 42%, Spagna 56%.
Sul fronte delle scelte di investimento, solo il 5% del campione
sceglie una gestione azionaria, il che si abbina anche ad una quota
molto ridotta, ferma da anni al 10%, di quanti si pongono come
obiettivo il rendimento di lungo periodo. Da notare anche un
evidente squilibrio tra determinate scelte di asset allocation e
aspettative di rendimento: a fronte di profili di rischio
prudenziali, le aspettative di rendimento sono altamente
speculative.
A proposito di rapporti tra i risparmiatori e le
banche, va evidenziato che l’83,5% delle famiglie con un conto in
banca si relaziona con un solo istituto, la cosiddetta banca di
famiglia, che gode di un elevato grado di soddisfazione dei propri
clienti (78,3%), una quota in crescita rispetto agli anni
precedenti. Si osserva inoltre una riduzione dei clienti poco
soddisfatti della banca di famiglia (15,7 dal 17,6%) ma anche un
leggero aumento di quelli totalmente insoddisfatti (2,9 dal 2,4
dello scorso anno).
 |
Fonte -
MorningStar.it |
Alitalia:
Crisi In
Cerca Di Soluzione Da Tre Anni/Cronologia
Sabato 15 Dicembre
2007, 19:32
-
di ANSA
(ANSA) - ROMA, 15 DIC - Nella cronologia, le tappe
della crisi della compagnia Alitalia da tre anni in cerca di
soluzione: - 27 febbraio 2004 - l' ad Francesco Mengozzi
lascia. Al timone sale Marco Zanichelli con Giuseppe Bonomi
presidente. - 6 maggio 2004 - Giancarlo Cimoli, ex numero
uno delle Ferrovie, è il nuovo presidente e amministratore
delegato. - 27 settembre 2004 - Il piano industriale
accelera su risanamento e taglio costi: prevede 3.700 esuberi,
ed un piano di ricapitalizzazione per reperire nuove
risorse. - 8 ottobre 2004 - Il Tesoro da via libera al
"prestito ponte" da 400 milioni di euro. - 11 novembre 2004
- Il Consiglio dei ministri approva un nuovo schema di decreto
per la privatizzazione. Autorizza il Tesoro a scendere sotto
il 50%. - 10 ottobre 2006 - Prodi lancia l'allarme:
Alitalia, dice, "vive il momento più difficile della sua
storia". - 23 novembre 2006 - Il presidente di Air France,
Jean-Cyril Spinetta, annuncia che sono stati avviati "colloqui
esplorativi" per una alleanza su richiesta di Alitalia. - 1
dicembre 2006 - Il Consiglio dei ministri decide la cessione
di una quota di controllo della compagnia. - 29 dicembre
2006 - Il Tesoro pubblica l'invito a presentare manifestazioni
di interesse. - 17 gennaio 2007 - Il Cda decade dopo le
dimissioni di Jean-Cyril Spinetta. Cimoli resta per
l'ordinaria amministrazione. - 9 febbraio 2007 - Il Tesoro
indica il giurista Berardino Libonati alla presidenza di
Alitalia. - 13 febbraio 2007 - Cinque le cordate in gara
per la fase di presentazione delle offerte non vincolanti: AP
Holding di Carlo Toto con il supporto finanziario di
Intesa-Sanpaolo; il fondo salva-imprese di Carlo De Benedetti
Management & Capitali; MatlinPatterson Global Advisers;
Texas Pacific Group Europe; Unicredit Banca Mobiliare. - 16
aprile 2007 - Tpg, Aeroflot e Ap Holding presentano al Tesoro
le proprie offerte preliminari non vincolanti. - 27 giugno
2007 - Aeroflot annuncia il ritiro dalla gara per la
compagnia. - 6 luglio 2007 - Il ministero dell'Economia
proroga al 23 luglio il termine per la presentazione delle
offerte vincolanti - 17 luglio 2007 - AirOne annuncia di
abbandonare la gara perché le condizioni fissate dal Governo
"non consentono il rilancio della compagnia". La gara, di
fatto, fallisce - 31 luglio 2007 - Il presidente Berardino
Libonati si dimette dalla compagnia. Al suo posto il Tesoro
proporrà Maurizio Prato. - 10 agosto 2007 - Per l'acquisto
si presenta una cordata di imprenditori italiani e stranieri,
rappresentata da Antonio Baldassarre, già presidente della
Corte Costituzionale e della Rai. - 30 agosto 2007 - Il
consiglio d'amministrazione vara un "piano di sopravvivenza e
di transizione", che prevede esuberi fra i dipendenti,
sospensioni di voli in passivo, ridimensionamento dello scalo
di Malpensa. - 25 settembre 2007 - Prato avvia ricerca di
acquirenti, 'a tutto campo', tra ex partecipanti alla gara e
grandi carrier internazionali. - 8 ottobre 2007 - Il cda
Alitalia delibera di verificare l'interesse di Aeroflot, Air
France-Klm, Ap Holding, cordata Baldassarre, Lufthansa,
Tpg. - 19 novembre 2007 - Rinuncia la compagnia russa
Aeroflot. - 30 novembre 2007 - La compagnia annuncia che
l'indebitamento netto del gruppo a fine ottobre sale a 1,182
miliardi, più 11 milioni (+0,9%) rispetto al 30
settembre. - 13 dicembre 2007 - Nuovo rinvio, al 18
dicembre per la scelta del partner da parte del consiglio di
amministrazione della compagnia, che ritiene opportuni
ulteriori approfondimenti. - 14 dicembre 2007 - Le azioni
Alitalia perdono valore in borsa per le voci di offerte
inferiori alle attese da parte di Air France-KLM e AirOne.
(ANSA).
|