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PARTE  1

INDICE ARTICOLI

 

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Market Credit - USA

Mercati: è l'ora di punire chi gioca sporco

Market Credit - USA

Crisi dei mutui: quel che non vi stanno dicendo

Market Credit - Mondo

Lo tsunami della liquidità e la politica del denaro facile

Market Credit - Mondo

Subprime: la componente talebana del mercato ...

Market Credit - Mondo

Credit Crunch: chi, come, quando, perché e cosa ...

Market Credit - Tassi

Giù i tassi, la crisi è a macchia d'olio

Tassi & Valute

E' ineluttabile una caduta rovinosa del dollaro?

Valute

Sistema valutario: non è l'€uro l'alternativa

 

Vai alla parte cronologica della Rassegna

Vai alla seconda parte della Rassegna

 
 

+++   BORSA: i finanziari affondano i mercati, S&P/Mib -2,11%   +++   Mutui: Fed; 41 Mld Di Nuova Liquidita', Maxi Manovra Da 11/9   +++   WALL STREET IN FORTE CALO, SCATTA IL BLOCCO AUTOMATICO   +++   Greggio Usa sale oltre 95 dlr su timori per debolezza valuta Usa   +++

Giovedì 01 novembre 2007   Venerdì 02 novembre 2007   Venerdì 02 novembre 2007
   
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Mercati: è l'ora di punire chi gioca sporco

04 Novembre 2007 21:34 MILANO - di Giuseppe Turani
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Ormai è come una strage. Una sorta di pulizia etnica delle banche operata dalla loro stessa avidità. Lo scandalo dei prestiti subprime (prestiti a clienti «inattendibili», pur di fare soldi) si sta mangiando vivi istituti di credito e banchieri. Le prime avvisaglie si sono manifestate a fine settembre quando Barclays, una delle principali banche inglesi, quella dell´Opa da quasi cento miliardi di dollari su ABN Ambro, ha dovuto chiedere un prestito temporaneo alla Bank of England per poter aprire gli sportelli il giorno dopo. Poi ci sono state decine di episodi apparentemente minori (Northernrock, Countrywide e qualche decina di altre banche specializzate), ma che segnalavano una situazione di pre-allarme. Anche perché si è scoperto che l´intero settore bancario era più autoreferenziale (chiuso su se stesso) di quanto si potesse immaginare in quanto tutti, grandi e piccoli operatori, si finanziavano sull´interbancario. Cioè si prestavano i soldi da banca a banca, come una immensa catena di Sant´Antonio.

La cosa sconvolgente è che da qualche settimana quel mercato non esiste praticamente più. Cosi come si è volatilizzato in pochi giorni il mercato delle cartolarizzazioni e dei bond. E come nel classico castello di carte è cominciata la caduta delle stelle, delle grandi e piccole banche mondiali che, non trovando più sul mercato i soldi per finanziarsi, hanno iniziato a diminuire l´attività e soprattutto hanno dovuto cominciare ad evidenziare i buchi che avevano accumulato in bilancio. E sono crollate in borsa. Solo nella settimana appena finita, dopo cali che proseguono da luglio, Merril Lynch ha perso il 14%, Citicorp il 12,5, JPMorgan il 9,8%. Quasi tutte ormai valgono meno del valore che avevano tre mesi fa. Anche la mitica prudenza svizzera di UBS è stata infranta da mega svalutazioni e da avvisi che «potrebbe non essere finita».
E anche da noi il super gioiello Unicredito (modello di banca e di trasparenza) ha ormai perso tanto valore da vedere azzerato l´intero apporto alla fusione del gruppo Capitalia. Ancor più significativo poi qualche episodio di licenziamento in tronco, come quello del numero uno di Merrill Lynch, da sempre considerato potentissimo. Si tratta di Stan O´Neal, protagonista di una tipica storia americana: figlio di un immigrato che raccoglieva il cotone in una piantagione di Alabama quarant´anni fa, prima di andare alla catena di montaggio della General Motors era salito fino alla vetta della più grande banca del mondo, due azioni su re fra quelle scambiate nel mondo passano per gli uffici della Merrill Lynch.

Banca che adesso comunque è sotto indagine da parte della Sec (la Consob americana) perché pare che non abbia ancora detto tutta la verità. E sembra essere solo l´inizio perché tutti continuano a confessare che il contenuto dei piccoli mostri, dei prodotti salsiccia con i quali tante banche hanno infestato il mondo, non è ancora chiaro. La situazione è confusa perché la maggior parte di queste operazioni avveniva ed avviene fuori bilancio, con veicoli societari ad hoc che non vengono consolidati. E che ora l´amministrazione Usa vorrebbe nascondere tutto infilandoli in un mega fondo che consenta a tutti di fare pulizia. Warren Buffet (il finanziere-miracolo degli Stati Uniti, quello che si lamenta perché gli fanno pagare poche tasse e che guida personalmente la propria auto) ha subito detto che sarebbe l´ennesimo scandalo perché chi ha sbagliato deve pagare e non deve potersi salvare attraverso un meccanismo più farlocco dei fenomeni che hanno creato queste ridicole - ma pesanti - bolle.
Staremo a vedere cosa inventeranno ma certo che è inquietante, in tempi di continui richiami alla correttezza e alla trasparenza e di leggi punitive post crash come la Sorbanes Oxley (venuta dopo lo scandalo Enron), scoprire che le più grandi banche del mondo da una parte stampavano mutui a chiunque senza guardarci dentro, dall´altra erano di fatto cosi ingenue e fragili nell´essersi fidate che la loro raccolta di denaro dal parco buoi fosse senza fine. E i loro mega uffici studi, le migliaia di analisti che ogni giorno danno lezioni a tutti, dove erano? Cosa dicono? Non si sono mai accorti di niente? Mai un solo, piccolo sospetto? Incredibile.
In altri tempi tutto questo avrebbe determinato crolli epocali del mercato, e forse qualche banchiere si sarebbe lanciato dal trentesimo piano di qualche grattacielo, come nel 1929. Oggi invece tra i provvidenziali (anche se nel medio termine pericolosissimi) tagli ai tassi di interesse della Federal Reserve (la banca centrale americana), l´enorme liquidità che arriva da Russia, Cina, India, paesi arabi e Sudamerica e, soprattutto, l´esistenza di un´economia reale sana e brillante come poche volte nella storia del mondo, tutto si tiene piuttosto bene e i mercati globalmente sono sempre attorno ai massimi. E Stan O´Neal può essere cacciato via nel giro di poche ore dalla Merrill Lynch, ma con una liquidazione di 160 milioni di dollari. Il vero augurio, a questo punto, è che l´economia continui a tirare, e che le stelle cadano rapidamente e senza eccessivi fragori. Insomma, chi deve cadere cada, e avanti un altro.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

 

Nuclear Citi 

05 Novembre 2007, di John Christian Falkenberg - Macromonitor
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Dopo Merrill, Citigroup. Dopo le banche d’affari, l’umiliazione delle dimissioni forzate del management, di mega-svalutazioni e del taglio al merito di credito tocca ad una delle maggiori banche commerciali, il caso di scuola della banca universale come modello teoricamente in grado di portare stabilità dei risultati. L’ennesima conferma di come non sia la frontiera dell’innovazione finanziaria, poco regolamentata e “selvaggia”, ad essere il problema, ma le banche tradizionali, da sempre opache, sovra-regolamentate e fiduciose nella manina salvatrice del governo.

Le notizie del weekend sono state decisamente negative, con le dimissioni dell’amministratore delegato Chuck Prince e l’annuncio di altre svalutazioni per una cifra record , ancora da definire: fra gli otto e gli undici miliardi di dollari. La cifra non include le svalutazioni già effettuate trimestre appena chiuso, che si erano attestate a 6,5 miliardi e si compara con una capitalizzazione di mercato di 187 miliardi di dollari.
La risposta delle agenzie di rating non si è fatta attendere: downgrade sia da parte di Standard&Poor’s che di Moody’s. Quella del mercato è stata altrettanto eloquente: il costo per comprare protezione dal default di Citigroup è ai massimi storici ed ha trascinato con se buona parte delle banche d’investimento, nonché, in misura minore, l’intero comparto americano. Il mercato del credito in generale è in ribasso e le Borse asiatiche sono andate in picchiata, con Hong Kong in chiusura a -5% .
Vero è che l’economia mondiale sembra ancora essere in condizioni robuste, che per trovare un segno negativo sulla Borse mondiali è necessario aver subito anche gli effetti negativi del cambio, che hanno azzerato i rendimenti di S&P e Dow Jones, oppure aver investito in Italia e che le borse asiatiche sono reduci da incrementi a due o a tre cifre, ma le preoccupazioni e le cautele ricominciano ad aumentare: il cocktail di una crisi finanziaria coniugata a rischi inflazionistici è il vero Uomo Nero degli investitori, a questo punto del ciclo economico.
Cercando di andare oltre il breve periodo, va notato come Citigroup sia notevole, a parte per le proprie dimensioni, per due caratteristiche: da un lato è la banca che maggiormente è stata attiva nello spostamento di attività finanziarie fuori bilancio (le conduit sono state inventate in una delle banche che formano Citigroup). Dall’altra, si tratta del tentativo maggiormente riuscito in terra americana per creare la cosiddetta “banca universale”, modello favorito dai tedeschi, ossia un conglomerato finanziario in grado di fornire qualsiasi prodotto finanziario a qualsiasi cliente. Assistiamo oggi al “successo” di tale strategia? Si è sempre saputo che le banche d’affari sono soggette ad una estrema volatilità degli utili, per la natura della propria attività, ma Citigroup è stata assemblata proprio con l’idea che mettere sotto lo stesso tetto banche, assicurazioni e broker avrebbe mitigato la volatilità dei risultati. Quello che sembra non essere stato mitigato è il classico “moral hazard” delle istituzioni finanziarie soggette a regolamentazione: ci siamo preoccupati per anni degli hedge fund e del “Far West” della nuova finanza, senza ascoltare coloro che prevedevano come i problemi sarebbero arrivati proprio da istituzioni sin troppo abituate a farsi schermo della regolamentazione degli istituti di emissione.
E’ la storia di ogni ciclo di panico finanziario: quando la soluzione è l’aumento della regolamentazione e non l’apertura alla concorrenza, il risultato è una illusoria solidità, pagata da contribuenti ed utenti, una facciata che nasconde l’incubazione di ulteriore instabilità.
 

 

 

 

Super senior, super problema? 

05 Novembre 2007, di Macromonitor
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Nel momento in cui assistiamo ad un’altra ondata di allargamenti dei premi al rischio, soprattutto nel settore bancario, Merrill Lynch ha per la prima volta evidenziato un ulteriore problema rimasto latente sino ad oggi: le esposizioni alle tranches super senior.
All’interno della struttura di un CDO, la tranche super senior è la parte di debito teoricamente meno rischiosa in assoluto, quella “meglio che AAA”; in teoria, quasi tutto il rischio di insolvenza degli strumenti che producono reddito per il CDO dovrebbe essere sopportato dalle tranches sottostanti. Sfortunatamente, vista la sorte di certe tranche “sicurissime”, passate dal giorno alla notte ad avere un rating di poco superiore ai junk bond, ci si comincia a chiedere se anche le tranche super senior non nascondano qualche sorpresa.
Si tratta di esposizioni al rischio tradizionalmente non menzionate dalle banche quando si parla di finanza strutturata e di crisi del credito, perché si tratta di derivati non aggregati nelle esposizioni a bilancio legate al subprime. La prima banca ad avere annunciato l’esposizione netta e’ stata Merrill Lynch alla fine di ottobre ed in seguito altre banche si sono allineate a Merril (UBS, Deutsche Bank, Citigroup ieri), mentre altre hanno dichiarato esposizioni “minime” (Credit Suisse).
Le classi super senior sono molto comuni tra le esposizioni delle istituzioni bancarie e assicuratori monoline, anche a causa del rischio di insolvenza teoricamente nullo; esiste quindi un evidente rischio di ulteriori svalutazioni, che dovrebbero essere rese pubbliche dalle banche con sede negli USA entro la fine dell’anno fiscale americano che cade il 30 novembre (con le pubblicazioni degli utili attese per metà dicembre); in questa situazione si potrebbero trovare, ad esempio, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Lehman, Bear Stearns. Stessi rischi per le banche US che hanno comunicato gli utili del terzo trimestre prima di Merrill Lynch(JPMorgan e Banc of America, ad esempio).
Queste massicce svalutazioni indeboliranno ulteriormente le strutture patrimoniali delle banche e la conseguente necessità di ulteriore raccolta di capitale tramite un aumento dell’emissione di subordinati bancari (cosiddetti T1 e T2) durante i primi mesi del 2008, per rafforzare i ratios; le condizioni di mercato a quel tempo potranno fare la differenza fra un ordinato sviluppo ed il panico.
Per quanto attiene alle banche europee, solo CASA e KBC hanno riportato esposizioni a ABS/CDO super senior tranches. E’ disponibile un riepilogo di esposizioni nette e svalutazioni, a includendo supersenior ABS/CDO
Per ora, il problema della valutazione degli stock di credito e gli effetti della crisi subprime sembra essere, in generale, contenuto all’interno del settore finanziario. Le economie europee sembrano abbastanza equilibrate, persino gli USA, nonostante la crisi del mercato immobiliare, riescono a mantenere tassi di crescita relativamente elevati e quelle asiatiche semplicemente corrono al galoppo, il tutto senza generare eccessive spinte inflazionistiche, almeno al momento. Il sentiero per una soluzione del problema finanziario che non distrugga gli enormi vantaggi derivanti dall’innovazione finanziaria e non danneggi l’economia reale esiste ancora, ma sembra essere diventato più stretto rispetto a quanto immaginato solo pochi giorni fa.
 

 

Monoline, 1000 miliardi e 9 settimane e mezzo di dolori

06 Novembre 2007, di John Christian Falkenberg - Macromonitor
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Nel capitolo più recente nella saga del mercato del credito, Fitch ha annunciato una profonda revisione dei rating alle assicurazioni monoline nel corso delle prossime 8-10 settimane; una eventuale perdita del prezioso rating AAA da parte di alcune di esse potrebbe colpire paradossalmente chi ha scelto uno dei “beni rifugio” per eccellenza negli USA, a causa del ruolo giocato dalle monoline nel “sicuro e tranquillo” mercato delle obbligazioni municipali.
Come avevamo anticipato, il problema delle assicurazioni monoline nasce dalla natura di assicuratori contro l’insolvenza di intere emissioni obbligazionarie: in cambio di una commissione, le monoline garantiscono il pieno rimborso di capitale ed interessi per una determinata emissione, anche in caso di insolvenza del debitore. In aggiunta, pare che alcune monoline abbiano investito in veicoli di finanza strutturata dello stesso tipo di quelli di cui garantivano la solvibilità.
Quando i tassi di insolvenza dei mutui subprime hanno cominciato a salire, il valore di tali strumenti è genericamente crollato, producendo da un lato massicce perdite in alcuni portafogli d’investimenti e dall’altro facendo aumentare il rischio che le assicurazioni stesse debbano rimborsare gli investitori nelle tranche da loro garantite.
Il rischio è quello di una sorta di effetto-domino: le emissioni garantite dalle monolines ammontano a circa 1000 miliardi di dollari ed il downgrade di una monoline comporterebbe il downgrade di tutte le emissioni obbligazionarie che vengono assicurate (wrapped, in gergo tecnico) dalla monoline stessa, se il debitore non può garantire il medesimo grado di affidabilità. Questo implicherebbe il riconoscimento formale di un maggiore rischio d’insolvenza e, di conseguenza, la necessità per molti detentori di tali strumenti (essenzialmente ABS ed obbligazioni municipali) di accantonare maggior capitale a fronte degli investimenti oppure a liquidarli forzosamente, deprimendo ulteriormente i prezzi e preparando la strada ad ulteriori svalutazioni.
L’effetto negativo sarebbe immediato anche su di un mercato molto diverso da quello della finanza strutturata: moltissime emissioni garantite dalle monoline sono emissioni degli enti locali americane, i cosiddetti muni bond. Si tratta di emissioni esentasse molto apprezzate dagli investitori proprio in ragione del basso rischio e della natura statale dell’emittente; quasi per paradosso, una caduta dei corsi di tale mercato porterebbe la crisi del segmento notoriamente più rischioso di tutto il mercato, popolato quasi soltanto da speculatori, direttamente in un comparto una volta percepito come un rifugio sicuro. Un rifugio da centinaia di miliardi di dollari.
 

 

 

 

 

Crisi dei mutui: quel che non vi stanno dicendo

06 Novembre 2007 12:38 LUGANO - di *Alfonso Tuor
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*Alfonso Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante quotidiano svizzero in lingua italiana.

La tempesta attorno a Citigroup ha fatto prepotentemente ritornare la paura sui mercati finanziari. La più grande banca del mondo ha comunicato che le perdite per le attività collegate con i titoli legati ai mutui subprime si eleveranno nel solo terzo trimestre di quest’anno a 11 miliardi di dollari e non a 6 miliardi, come precedentemente annunciato. Non sorprende che sia caduta la testa di Chuck Prince, il numero uno della banca americana, che così segue le orme di Stan O’Neal di Merrill Lynch che negli scorsi giorni aveva annunciato 8 miliardi di perdite per il solo terzo trimestre.
Queste dimissioni e soprattutto queste perdite miliardarie hanno rammentato che la crisi scoppiata lo scorso mese d’agosto è lungi dall’essere conclusa, come politici e banchieri centrali si erano affrettati ad assicurare. Ha rammentato che in settembre e in ottobre abbiamo assistito unicamente ad una fase di latenza e che ora bisogna fare i conti con i numeri, che diventano ogni giorno peggiori a causa dei continui ribassi degli indici che cercano di misurare il valore dei titoli collegati ai mutui subprime. E, dato che le cifre sono «testarde», fanno scempio delle precedenti stime fornite dalle stesse banche.

Quindi non deve sorprendere l’ampliarsi delle perdite di Citigroup e di Merrill Lynch. Non deve nemmeno sorprendere che le previsioni per il futuro sono ancora più nere. Prendiamo l’esempio di UBS (che ha già annunciato di aver perso 4 miliardi di franchi nel terzo trimestre) possiede circa 39 miliardi di dollari di titoli legati ai mutui subprime. Ora, secondo gli analisti di Merrill Lynch, UBS ha svalutato questi titoli solo del 10%, invece di oltre il 30% come indica l’indice ABX dei titoli legati al mercato immobiliare. Secondo questi analisti, se non vi sarà un rialzo del valore di questi titoli, che nessuno osa prevedere, UBS dovrà contabilizzare nei prossimi trimestri altri 8 miliardi di dollari di perdite. E calcoli di questo genere vengono ripetuti in queste ore anche per molti altri istituti e non solo per quelli bancari. Cominciano pure ad emergere le perdite di alcune grandi compagnie di assicurazione ed è facilmente prevedibile che presto non mancheranno all’appello anche fondi pensione ed altri hedge funds.
La gravità della crisi è confermata dal fatto che non si è ancora in grado di fare una stima sul volume complessivo delle somme in gioco. Infatti la stima delle insolvenze del mercato immobiliare americano varia dai 100 ai 200 miliardi di dollari. Pur trattandosi di cifre notevoli, esse sarebbero facilmente «digeribili» dal sistema finanziario internazionale. Il problema è che le banche hanno «acquistato» queste ipoteche per piazzarle sul mercato dopo averle impacchettate in emissioni obbligazionarie, per cui oggi sono in circolazione, secondo la banca centrale inglese, circa 1300 miliardi di dollari di titoli legati al mercato immobiliare americano più a rischio.

Ma la vicenda non è finita, poiché su queste obbligazioni sono stati creati una miriade di nuovi strumenti finanziari (come i CDO) o sono state fatte scommesse (credit swap, ecc.). Sommando il tutto, le cifre diventano imponenti e soprattutto preoccupanti, anche perché è svanita la speranza delle banche di una ripresa di questo mercato. E quindi ora siamo al secondo atto (e sicuramente non a quello finale) della crisi dei mutui subprime.
L’aggravarsi della crisi pone di nuovo in prima linea le banche centrali e soprattutto la Federal Reserve. La banca centrale americana, che ha già ridotto i tassi di tre quarti di punto per attutire gli effetti della crisi, rischia di trovarsi in una situazione sempre meno confortevole. È spinta, da un canto, a tagliare nuovamente il costo del denaro dalla crisi bancaria e da quella del mercato immobiliare. Ma ha, d’altro canto, uno spazio di manovra che si restringe sempre più, perché nuovi tagli dei tassi potrebbero provocare una crisi del dollaro dagli effetti imprevedibili. E la storia ci ricorda che tutte le crisi valutarie sono precedute dalla fuga dei capitali domestici: è quanto sta succedendo ora negli Stati Uniti. Secondo una stima della Bank of America quest’anno il deflusso di capitali dagli Stati Uniti raggiungerà i 290 miliardi di dollari. Occorre dunque seguire con attenzione questo secondo atto della crisi dei mutui subprime, che è destinato a riservarci nuovi clamorosi colpi di scena.

 

Fonte - Corriere del Ticino

 
 

 

Mercoledì 07 novembre 2007   Giovedì 08 novembre 2007   Venerdì 09 novembre 2007
   
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Anche i ricchi piangono. Anche a Wall Street

12 Novembre 2007, di Macromonitor
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La vita per i padroni dell’Universo a Wall Street è sempre dolce, ma in questi momenti decisamente meno del solito.

Prima il chief strategist di Lehman Brothers si mette a comparare la crisi attuale con il 1998 e la caduta di LTCM, rompendo un tabù e facendo notare come il re sia nudo: i numeri sono decisamente peggiori nel 2007 che nel 1998, mentre il panico, per il momento, è ancora contenuto. Nel frattempo, JPMorgan “ricorda” in una dichiarazione alla SEC i 40 miliardi di crediti che non riesce proprio a togliersi dal bilancio.
Per chi si consola pensando ai livelli record degli utili aziendali, un rapido sguardo all’andamento nell’ultimo trimestre negli USA evidenzia come i multipli di borsa vadano analizzati, non soltanto impiegati come feticci: il mercato non sembra più tanto sottovalutato, dopo una caduta del denominatore del P/E (gli earnings) del 20 per cento
Dulcis in fundo, la caduta degli dei: per la prima volta a memoria d’uomo, Blackstone Group, leggendario operatore nel private equity, ha riportato una perdita netta e risultati al di sotto delle aspettative, a causa del calo dei prezzi dell’immobiliare. Si trattava anche del primo set di risultati dopo lo sbarco in Borsa e la domanda sorge spontanea: pura coincidenza? O, peggio, la trasparenza resa necessaria dalla quotazione ha svelato angoli oscuri del bilancio? Più probabilmente, l’ennesima conferma dell’ottimo fiuto di Stephen Schwarzman, padre-padrone di Blackstone, che ha quotato la propria creatura e quindi monetizzato il lavoro di una vita proprio al picco del ciclo. Una ferita all’orgoglio, attutita dal minor danno al portafoglio.

 

 

 

Giavazzi: crisi di illiquidità simile a quella prima del 1914 

12 Novembre 2007, di ANSA
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L'operato delle banche centrali per risolvere il problema di liquidità è stata come un'aspirina che ha alleviato i sintomi del malore ma che non è riuscita nell'intento di risolvere alla radice il problema. Sulla crisi di liquidità che sta colpendo i mercati è intervenuto oggi Francesco Giavazzi, professore di economia politica dell'Università Bocconi, dicendo la sua nel corso della conferenza "analisi e conseguenze della crisi dei mutui subprime sui mercati immobiliari e finanziari" tenutasi a Milano. "L'iniezione continua di liquidità da parte delle banche centrali si è scontrata con il problema di diffondere tale liquidità nel sistema visto che solo alcune banche d'affari presentano i requisiti adatti per svolgere tale ruolo", ha spiegato Giavazzi, rimarcando come il problema di base sta nella difficoltà a dare un valore agli assets a rischio che la crisi subprime ha messo al tappeto. "Prezzarli è diventato quasi impossibile e inoltre non si ha informazione precisa su dove sono e su chi possiede tali asset", rimarca Giavazzi che ha paragonato l'attuale crisi a quella che ha preceduto lo scoppio della prima guerra mondiale. "Si arrivò al 1914 sottovalutanto del tutto il rischio politico che incombeva sui mercati e si arrivo a una crisi di illiquidità - ha rimarcato il visiting professor del MIT -, mentre oggi si è sottovalutato enormemente il rischio insito nei mercati stessi con lo spostamento del rischio dalle banche verso strumenti rischiosi come quelli legati ad attività immobiliari ad alto rischio".

 

 

Fasten Your Seatbelt

13 Novembre 2007, by Charles Dexter Ward  - Macromonitor
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Alla fine la grande abbuffata della liquidità sembra volger alla fine; le lancette dell’orologio che regolano i cicli del credito hanno segnato la mezzanotte, la carrozza è tornata ad esser una zucca e i bond High Yield sembran esser tornati ad esser spazzatura. Ma è davvero così? Beh, sicuramente il violento allargamento degli spread segnala un evidente aumento del premio richiesto per detenere attività rischiose in portafoglio.
Ma francamente ci si dovrebbe stupire del contrario se si tiene conto del ciclone che ha investito i mercati mondiali e dei livelli a cui è scambiata la carta senior di primarie banche mondiali.
Tutto sommato in un mondo dove il titolo Merril Lynch perde da inizio anno quasi il 50%, seguita a ruota dalle varie Barclays, Citigroup e RBS, vedere l’indice iTraxx Crossover scambiare a 380 punti base non dovrebbe poi sorprender più di tanto. Anzi, la tenuta delle obbligazioni ad alto rendimento appare quasi sorprendente alla luce della fase di crisi acuta in cui sembra esser piombata l’economia americana e quindi le borse mondiali. Come sempre accade in momenti di elevata volatilità la correlazione tra i movimenti dei listini azionari e l’andamento degli spread è tornata ad esser altissima, con l’indice Crossover che si è dimostrato ben più liquido e volatile dei cash bond , tanto da venir scherzosamente rinominato Yo-Yover. La mancanza di nuova carta in offerta a causa di un mercato primario, almeno nel vecchio continente, completamente paralizzato, ha offerto un minimo di supporto ai cash bond sul secondario. Gli scambi sono comunque ridotti al lumicino in un mercato molto nervoso dove il bid-offer spread continua ad aumentare a sottolineare la bassa propensione degli operatori a prender rischi di mercato.
In questo contesto suona anacronistica e quasi beffarda l’ultima rilevazione di Moody’s sul tasso di default che ad ottobre ha toccato un minimo di 1.1% : del resto se è evidente che il tasso di default è inevitabilmente destinato a salire, la velocità e i tempi in cui questo avverrà sono molto meno chiari. Prima di lanciarsi in previsioni sull’andamento del tasso di default bisogna infatti interrogarsi sull’entità dell’impatto che la crisi del subprime avrà sull’ economia reale. Da li poi va verificato il meccanismo di trasmissione che dovrà tradurre l’ormai scontato rallentamento economico sui bilanci e l’affidabilità creditizia delle singole aziende.
E a questo punto diviene essenziale rifletter su due punti che spingono in direzioni opposte: nel momento della grande abbuffata di liquidità, di credito facile per tutti e spread incredibilmente bassi, sono state finanziate tutta una serie di operazioni caratterizzate da strutture finanziarie molto aggressive e con business plan calcolati proiettando nell’immediato futuro condizioni economiche difficilmente realizzabili alla luce del mutato scenario. Del resto non scopriamo nulla di nuovo se ricordiamo come negli ultimi due anni le emissioni di bond caratterizzati da un rating estremamente basso ( B- o inferiore) hanno fatto registrare volumi record. Per definizione questa tipologia di titoli sono quelli che incorporano i più alti rischi di default in un arco di tempo in cui il picco di criticità è storicamente raggiunto nei primi tre anni dal lancio dell’operazione.
Sul fronte diametralmente opposto va altresì ricordato tuttavia che proprio l’abbondante liquidità e l’agevole accesso al credito hanno permesso a moltissime società solide di rifinaziare il proprio debito coprendo le esigenze di liquidità per il breve e medio termine; implicitamente quindi queste aziende si presentano all’appuntamento con un rallentamento del ciclo con le spalle più larghe e con una situazione finanziaria piuttosto solida.
Una cosa è certa: dopo un lunghissimo periodo di calma piatta i Junk Bond sono tornati a volare sulle montagne russe, facendo onore alla loro vera natura di titoli speculativi. Fasten Your Seat Belt…
 

 

 

 

 

Lo tsunami della liquidità e la politica del denaro facile

13 Novembre 2007 04:10 ROMA - di Marcello De Cecco
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Cheng Siwei, vice presidente del Congresso Nazionale del popolo cinese, ha dichiarato giovedì scorso che il governo cinese dovrebbe diversificare le sue riserve di valuta estera comprando valute più forti (del dollaro, si suppone). Per i mercati le sue parole hanno costituito un altro buon motivo per vendere dollari. Alle parole del dignitario cinese si sono aggiunte quelle di poco precedenti di Merwyn King, governatore della Banca d’Inghilterra e quelle di Randy Krozner, membro del consiglio di governo della Federal Reserve. Entrambi hanno detto che la soluzione del problema dei ‘subprime loans’ richiederà tempo.
E Krozner ha aggiunto che esso peggiorerà prima di migliorare. Chen Siwei auspica che si faccia quel che le autorità cinesi stanno facendo ormai da cinque anni, almeno se crediamo alle statistiche fornite dalla Deutsche Bank sulla consistenza e la composizione delle riserve valutarie delle banche centrali. Dopo un picco della quota in dollari del 70 per cento del totale, toccato nel 2002, infatti, le riserve ufficiali cinesi sono ora composte solo per circa il 45 per cento da dollari.

Poiché nel frattempo esse sono enormemente cresciute, c’è stato spazio anche per grandi acquisti di dollari. Ma gli acquisti di altre valute sono stati assai maggiori, onde il calo della quota dei dollari. Il dollaro, secondo i consueti calcoli basati sulla teoria delle parità dei poteri di acquisto, è ormai sottovalutato, alcuni credono addirittura del 15 per cento verso le monete dei paesi che commerciano con gli Stati Uniti. E fortemente sopravvalutato è di conseguenza l’euro, la principale moneta con la quale si scambia oggi il dollaro sui mercati dei cambi esteri. Questo certo non basta a dire con sicurezza che sia ormai la speculazione, più che le condizioni economiche di base, a guidare i mercati. Ma è una coppia di numeri, quella appena citata, abbastanza persuasiva.
Eppure, una considerazione un po’ semplicistica ma non irragionevole riguarda il confronto tra tassi di riferimento della FED e della BCE. Quello della Fed è superiore a quello della BCE, il 4.50 per cento contro il 4 per cento. Ciononostante, gli operatori continuano a vendere dollari e comprare euro. Potenza delle aspettative, che ritengono le scorte più importanti dei flussi, in queste faccende e in queste congiunture. Si teme l’effetto valanga di un rovesciarsi sul mercato di enormi quantità di dollari provenienti dalle riserve ufficiali dei paesi che li detengono e le parole di Cheng Siwei sono state come petrolio sul fuoco. Poco vale notare che il deficit delle partite correnti americane ha cominciato a scendere, dal massimo toccato nel recente passato. Né gli operatori si soffermano a considerare che questa inversione dei conti esteri americani è dovuta assai più a un drastico rallentamento delle importazioni che ad un aumento delle esportazioni USA. Questo fenomeno è destinato a continuare per quanto durerà la debolezza della domanda negli Stati Uniti.

Qualche giorno fa Ben Bernanke è tornato, in un suo discorso, alla sua nota diagnosi delle cause del disequilibrio globale, che dà alla forte propensione al risparmio dei paesi emergenti, in particolare asiatici, la responsabilità maggiore degli stessi squilibri. Egli afferma, e non si può disconoscere il valore al suo ragionamento, che tali paesi hanno mostrato, negli ultimi dieci anni, una forte volontà di costituirsi un cospicuo cuscino di riserve in valuta, sufficiente ad assorbire le oscillazioni cicliche e gli attacchi speculativi, memori dei traumi del 1997-98.
Questo non vale per il Giappone, che non si trovò mai privo di munizioni per difendere il cambio, né vale per la Cina, che non ha mai abbassato le difese rappresentate dai controlli valutari e che ha passato da tempo i limiti di una accumulazione solo prudenziale di riserve. Cina e Giappone, sembra dire Bernanke, hanno problemi di domanda interna, più precisamente di domanda interna di beni di consumo. Continuano a destinare risorse enormi agli investimenti fissi, trovandosi costantemente in condizioni di eccesso di capacità produttiva. Se non fosse per la dinamica dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime, resterebbero in condizioni endemiche di deflazione dei prezzi.
Bernanke fa notare come si parli sempre del deficit dei conti correnti USA, che oscilla tra il 6 e il 7 per cento del PIL , e quasi mai del surplus cinese, che è del 9,5 per cento del Pil, o di quello giapponese, che è attorno al 7 per cento. Sono indici di squilibrio altrettanto gravi, egli dice, di quello di segno contrario americano. E in simile e talvolta maggiore surplus si trovano gli altri paesi asiatici, come la Corea, la Malesia, Taiwan , Singapore, Hong Kong (e quel paese asiatico onorario, aggiungiamo noi, che è la Germania). Difficile, in realtà, è sostenere che il deficit americano è volontario e il surplus degli altri paesi è invece una conseguenza del primo. Nessuno impedisce ai paesi in surplus di rivalutare le proprie monete o di costituirsi, pagando con le riserve che hanno, giganteschi assi patrimoniali all’estero. Lo fanno da anni i paesi produttori di petrolio.
Sulla scorta di quanto accadde nelle due grandi rivalutazioni dello yen, negli anni Settanta e Ottanta, possiamo tuttavia temere che una rivalutazione dello yuan non servirebbe a spegnere la capacità esportativa cinese, ma solo ad esacerbare i problemi derivanti dagli acquisti di beni patrimoniali e di imprese produttive all’estero da parte di Pechino. Quel che Bernanke non dice, perché significherebbe sconfessare il suo predecessore alla Fed e anche la propria recente svolta di politica monetaria, di nuovo orientata al ribasso dei tassi, è che alla base degli squilibri globali è quasi certamente la creazione eccessiva di liquidità che dura ormai dal 1995, con brevi anche se drammatiche, interruzioni.

In questa assai poco comune alluvione monetaria, coadiuvata e ulteriormente accresciuta dalla creazione monetaria da parte delle banche commerciali, la Fed ha avuto imitatori importanti e convinti nella Banca del Giappone, nella Banca Popolare della Cina e anche in altre banche centrali, con la BCE assai meno convinta ed essenzialmente renitente a seguire l’esempio americano. Tutti insieme, questi guardiani hanno aperto le porte della stalla, solo svogliatamente e brevemente, cercando di richiuderle dopo che i buoi erano scappati, e riaprendole poi rapidamente al primo segno di raffreddamento delle economie nazionali.
Nelle condizioni di estrema liberalità monetaria e finanziaria che si sono dunque create e che persistono ormai dal 1995, si è generata la più grande inflazione dei profitti da molti decenni e una ancora maggiore inflazione dei prezzi dei beni patrimoniali. Ne è seguita una grandiosa controrivoluzione sociale i cui effetti sono ormai chiari a tutti, che ha visto ridursi le distanze di reddito tra paesi e ampliarsi quelle all’interno dei paesi, e andare in crisi modelli di fiscalità e di previdenza e assistenza sociale elaborati nel corso di molti decenni. Ma chi ha convinto e indotto le banche centrali a comportarsi, tutte insieme, così? Questo è un indovinello di assai più difficile soluzione.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

Sabato 03 novembre 2007   Sabato 10 novembre 2007   Sabato 17 novembre 2007
   
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Subprime: la componente talebana del mercato vuole sangue, più che la verità

18 Novembre 2007 21:44 MILANO - di *Alessandro Fugnoli

*Questo documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di Abaxbank
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Come in Rashomon, ci sono molte verità sulla crisi dei mutui americani. Bisogna cercare di conoscerle tutte, bisogna prenderle sul serio tutte e, alla fine, si dovrà comunque riconoscere che queste verità sono solo ipotesi. C’è la verità dei fotografi, per i quali a essere in default sono in questo momento solo il 18 per cento dei mutui subprime concessi nel 2006. Continuano invece a performare regolarmente, oltre all’82 per cento dei subprime del 2006, quasi tutti i subprime degli anni precedenti, quelli del 2007 (concessi con standard rigorosi) e quasi tutti i non subprime.
C’è poi la verità degli statistici. Il loro lavoro consiste nel prendere le serie storiche sui default e incrociarle con le previsioni sull’andamento dei tassi e quello dell’economia. Il tutto serve ad arrivare a una previsione sui default nel prossimo periodo. Gli statistici, ovviamente, valutano i subprime meno dei fotografi. Arrivano poi gli economisti. Per loro la verità degli statistici è incompleta perché sottovaluta gli aspetti sistemici. I mutui concessi negli ultimi anni sono molti di più, in rapporto al Pil, rispetto ai cicli precedenti.
In realtà è l’intero indebitamento delle famiglie, non solo in America ma anche in Europa e Asia, ad essere a livelli storicamente molto alti. Questo significa che la capacità complessiva di pagare i mutui è più bassa di quella che appare dai modelli. Oltre che allargare il discorso a tutto il credito al consumo, gli economisti vedono anche le retroazioni della crisi dei mutui sulla crescita, con un effetto di avvitamento. Gli economisti sono dunque portati a valutare i subprime meno degli statistici. Ancora più cupa è la verità dei mercati. La loro valutazione attuale degli strumenti che contengono mutui assume implicitamente un tasso di default sull’annata 2006 compreso tra il 40 e il 50 per cento e proietta ombre inquietanti anche sulle altre annate e sui mutui non subprime.

Dalle quattro verità di Rashomon 1 (I Mutui) prende l’avvio Rashomon 2 (Le Banche). La verità delle banche su se stesse è che le svalutazioni del terzo trimestre e quelle preannunciate del quarto riflettono ormai nella loro quasi completezza i danni a oggi. Certo, un deterioramento ulteriore del mercato potrebbe produrre danni ulteriori. Se però le svalutazioni, come è stato finora, continueranno ad avvenire in un contesto di cash flow fortemente positivo i dividendi saranno garantiti. Quanto all’erosione del Tier 1, tranne poche eccezioni, si resterà comunque al di sopra dei minimi di Basilea. Non occorreranno ricapitalizzazioni su larga scala e spesso sarà sufficiente sospendere i buy back per riportarsi su livelli di capitalizzazione più che adeguati.
La verità degli economisti è che le banche, nel presentarsi al di sopra di ogni sospetto, sembrano non tenere conto del fatto che i prezzi delle case scenderanno ancora (e a lungo), che i tassi sui mutui hanno appena iniziato a salire (l’adeguamento è molto lento e i ribassi dei tassi di policy da agosto in qua si rifletteranno sui mutui solo a partire dalla fine del 2008) e che i default continueranno ad aumentare. C’ è poi la verità dei fautori del mark to market, quelli che invocano la trasparenza tutta e subito, senza se e senza ma. Molti sono animati da buone intenzioni e vedono con favore l’arrivo di due norme (la Fasb 157 negli Stati Uniti e Basilea 2 in tutto il mondo) che imporranno alle banche di valutare i cosiddetti asset di livello 3 (quelli meno liquidi) a prezzi di mercato.
Tra i fautori dal mark to market c’è però anche una componente talebana che dalle banche vuole sangue, più che verità. Alcuni blog talebani assumono che l’intero livello 3 sia composto da mutui, che la componente di Cdo tripla A sia avviata a valere zero e che l’azzeramento del livello 3 comporta per molte banche d’investimento di Wall Street e per alcune grandi banche l’azzeramento completo dell’equity.
Il sequel di Rashomon 2 (Le Banche) è intitolato Rashomon 3 (L’Economia Globale). Anche qui sono disponibili molte verità. C’è la verità ufficiale, quella del Fondo Monetario e dei policy maker. Il Fondo non ha ancora ritoccato la sua stima (che risale al 30 settembre) di una crescita globale ancora molto alta (il 4.8 per cento) per il 2008. C’è una verità ufficiosa, per cui le stime ufficiali vengono presentate come lo scenario base, a fianco del quale sono presenti scenari alternativi possibili che includono più inflazione, meno crescita e la difficoltà per Asia ed Europa di evitare il contagio dall’America.
Ci sono poi scenari più spiccatamente negativi, che stanno portando alcune case (in particolare Morgan Stanley) a parlare di esiti recessivi del rallentamento in corso e di fine del bull market azionario. Abbiamo voluto passare in rassegna le principali tesi che si confrontano per dare un’idea della straordinaria complessità di questa fase. Partendo dai mutui si può arrivare, attraverso passaggi successivi e assunzioni diverse, a esiti opposti. In pratica non c’è più un consenso. L’aumento dell’incertezza, di per sè, comporta per l’investitore razionale una riduzione del profilo di rischio. In questo momento, tuttavia, ci sembra prematuro parlare di fine dell’espansione globale.

Intanto, partendo da una fotografia dell’esistente, vediamo che il terzo trimestre ha visto una crescita brillantissima (con le stime iniziali riviste tutte al rialzo) in Asia (Giappone incluso), Europa e Stati Uniti.. Un terzo trimestre così luminoso farà sembrare opaco il quarto trimestre, per il quale sono già evidenti i segnali di diminuzione delle scorte. Opaco, ma non negativo.
Sulla questione dei mutui è bene partire dall’idea che la situazione continuerà a deteriorarsi. Il valore di mercato di questi mutui, tuttavia, sembra già incorporare questo deterioramento. Questo non significa necessariamente che sia un affare comprarli (anche se si moltiplicano i nuovi fondi che si prefiggono di raccogliere quello che le banche buttano via), perché l’over-shooting verso il basso dei loro prezzi è una possibilità molto concreta. Sulle banche, tuttavia, si può provare, molto grosso modo, a essere neutrali. Su questo è centrale la velocità di dispiegamento della crisi. I pessimisti tendono a collassare gli eventi in un "qui e ora", ma se si riesce a rallentare i tempi e a distribuire gli effetti nell’arco di qualche trimestre si dà modo agli anticorpi di agire.
Per prima cosa va chiarito che il livello 3 tanto chiacchierato in questi giorni non include solo mutui pessimi, ma comprende anche mutui buoni, real estate e private equity, tanto per fare degli esempi. Quanto al mark to market, va ricordato che agisce nelle due direzioni. Certe rivalutazioni (si pensi alle partecipazioni in banche cinesi finora valutate al costo) possono anche essere superiori alle svalutazioni.
Bisogna poi considerare che le vigilanze delle banche centrali cercheranno presumibilmente di evitare che il rispetto feroce delle regole contabili comporti il collasso di parti del sistema bancario. Potranno ad esempio accettare la riclassificazione di alcuni asset come investimenti di lungo termine in cambio, ad esempio, di piani di ricapitalizzazione che includano la sospensione dei buy back e qualche iniezione di capitale fresco. Si pensi anche al fatto che alcune classi di asset per le quali i mercati si sono strappati i capelli in agosto (i 400 miliardi di Cdo, i finanziamenti per le operazioni di Lbo, di cui le banche hanno dovuto improvvisamente farsi carico) stanno in realtà rendendo bene (hanno spread ricchi e, in assenza di recessione, limitato rischio di default) e stanno risalendo di prezzo, tanto che potremmo perfino vedere delle rivalutazioni nelle prossime trimestrali.
Si consideri poi che molti strumenti tra i più discussi, a partire dai Siv, sono in via di ridimensionamento, mentre quello che rimane viene gradualmente messo a bilancio. Quanto ad altri tipi di asset, come i prestiti auto o quelli per le carte di credito, non si è (ancora?) verificata quell’impennata di default paventata da più parti. I prestiti alle imprese, dal canto loro, hanno visto un irrigidimento dei criteri di erogazione, ma questo è eventualmente più un problema per le imprese che per le banche.
E qui veniamo alle considerazioni sull’economia globale. Non ci possono essere dubbi sul fatto che il credit crunch, per quanto per il momento non devastante, rallenterà la crescita. Anche qui, tuttavia, è una questione di tempi della crisi. Per qualche mese si può ipotizzare che molte imprese, che in generale si trovano ancora piuttosto liquide, faranno ricorso alla propria cassa. In prospettiva sarà invece decisivo che i mercati, normalizzandosi, trovino la forza di tornare a fornire loro quei capitali che le banche, ora ingolfate, non possono più mettere a disposizione.
Le politiche monetarie, ovviamente, saranno decisive. Si manterranno prudentemente espansive e compenseranno i tagli (in America e UK) e i mancati rialzi dei tassi (in Europa e Giappone) da una parte con una retorica moderatamente dura dall’altra. In America la Fed continuerà a dire che non taglierà più (come ha detto da agosto a oggi, salvo avere già tagliato di 75 punti base), mentre in Europa la Bce continuerà a esercitare la sua vigilanza sui prezzi e a riservarsi aumenti dei tassi che non realizzerà.
Per quanto riguarda le borse, esprimendoci con il linguaggio dei policy maker, potremmo dire che, viste nella prospettiva dei prossimi mesi, si trovano in equilibrio come scenario di base, ma con rischi sbilanciati verso il basso. Tradotto in italiano significa che è meglio non stare sovrappesati, mantenersi di norma neutrali, alleggerire qualcosa nell’ipotesi di un rally di fine anno e sfruttare la volatilità per abbassare i prezzi di carico. Un’economia globale in crescita moderata dovrebbe bastare a supportare i mercati, visti i livelli ragionevoli delle valutazioni.

 

Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank

 

 

 

 

La deriva pericolosa 

22 Novembre 2007, di MiaEconomia
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Altro che galoppo, si tratta di una corsa sfrenata: il mercato dei derivati negli ultimi tre anni, dal 2004 alla metà di giugno 2007, ha segnato un +135% attestandosi a 516.000 miliardi di dollari. E solo nei primi sei mesi del 2007, complice la crisi sui mercati finanziari, la crescita è stata del 25%.
Questa è la fotografia fatta dalla Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri), la banca delle banche centrali, nell'indagine triennale e semiannuale dedicata proprio ai derivati.

Dal 2004 ad oggi la crescita annua media è stata del 33%. Più basso, invece, il tasso di crescita del valore lordo di mercato salito del 74% a 11.000 miliardi di dollari.
Ad aumentare sono state tutte le categorie di rischio, anche se la performance migliore l'hanno messa a segno i derivati sui crediti, il cui ammontare alla fine di giugno 2007 è risultato pari a 51.000 miliardi di dollari, a fronte dei 4.474 miliardi del giugno 2004.
I dati diffusi dalla Bri confermano comunque che i derivati sui tassi restano uno degli strumenti principali di mercato dei derivati over-the-counter (Otc): le posizioni aperte su questo tipo di strumenti, infatti, ammontano a fine giugno a 389.000 miliardi di dollari, più del doppio di quanto registrato nel 2004.
I derivati sui tassi rappresentano il 75% del totale valore nozionale e circa il 60% del totale valore lordo di mercato.
Solo per quanto riguarda i primi sei mesi del 2007, il valore nozionale dei contratti sui derivati (cioé il valore complessivo delle valute, delle merci e delle azioni sottostanti ai derivati) è salito del 25%, contro il +12% registrato nella seconda metà del 2006.
A mettere il turbo ai derivati sono state le turbolenze sui mercati finanziari. Nella prima parte del 2007 il valore lordo di mercato dei derivati è salito del 15%, mentre l'esposizione lorda è aumentata del 31% a 2,7 trilioni di dollari. Il tasso di "crescita dell'ammontare dei derivati è aumentato nella prima metà del 2007, prioritariamente in seguito alle turbolenze che hanno colpito i mercati finanziari" afferma la Bri nell'indagine.
L'incremento ha riguardato tutte le categorie di rischio, anche se il segmento dei derivati su crediti ha superato quello delle altre categorie. I contratti derivati sui cambi sono saliti, nei primi sei mesi del 2007, del 21% attestandosi a 49.000 miliardi di dollari (+6% nella seconda metà del 2006).

 

 

Lo spettro del default  

22 Novembre 2007, di MiaEconomia
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Altro che sinistri scricchiolii, il sistema bancario sembra essere scosso da tremori che si fanno man mano più sonori. Questa volta il segnale di allarme sul fronte dei mutui subprime lo lancia dagli Usa il segretario Henry Paulson, che mette in guardia sul potenziale delle insolvenze 2008. Secondo Pauolson, stimando un trend di crescita, il rischio che gli istituti di credito mondiali non rimborsino le proprie obbligazioni non è mai stato così alto nella percezione del mercato.
E come se non bastasse dall'Ocse arriva la stima di potenziali perdite tra i 200 ed i 300 miliardi di dollari per l'effetto domino dei subprime sull'economia ed il mercato immobiliare. Senza contare i possibili effetti sui mercati azionari, avverte Parigi.
E la giornata di mercoledì, con le borse mondiali ancora sommerse dalle vendite e il petrolio ad un soffio dai 100 dollari al barile, è un altro segnale preoccupante, che va nella stessa direzione dell'allarme lanciato da Paulson che ha spiegato, in un'intervista al Wsj on line, come gli Stati Uniti siano ancora nel pieno del ciclone mutui.
Il numero delle potenziali insolvenze "sarà decisamente più alto" nel 2008 rispetto a quest'anno, ha detto sottolineando che "sta incoraggiando energeticamente" banche e società che erogano mutui a definire criteri e modalità in grado di aiutare celermente i clienti in difficoltà.
Mercati che rimangono comunque molto preoccupati: il Markit iTraxx Finanzial Index - l'indice benchmark che sintetizza l'andamento dei credit-default swap con cui gli investitori si proteggono dal rischio d'insolvenza da parte di banche e assicurazioni - è infatti salito di cinque punti base a 62 punti, livello mai toccato dall'inizio delle contrattazioni nel 2004.

 

 

 


 

Credit Crunch: chi, come, quando, perché e cosa accadrà in futuro

23 Novembre 2007 01:16 SIENA - di *Antonio Cesarano
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*Antonio Cesarano e' Head of Market Strategy di MPS Capital Services.

 

L’andamento dei mercati degli ultimi giorni sta riproponendo il tema (crisi del credito) che sembrava essere parzialmente rientrato nel mese di ottobre. Di seguito riportiamo una sintetica ricostruzione di quanto accaduto cercando di rendere quanto più chiara possibile la trasmissione delle turbolenze sul mercato dei mutui a quelle sui mercati finanziari. Per chi non volesse addentrarsi troppo in dettagli può saltare la parte seguente indicata in corsivo.
La storia degli ultimi tre mesi
Tra luglio ed agosto emerge in modo forte il timore di rischi nel comparto mutui Usa parallelamente al ridimensionamento delle negoziazioni e dei prezzi nel settore immobiliare. Inizialmente l’attenzione era concentrata soprattutto sulla componente reale (i mutui appunto) mentre man mano è emerso in tutta la sua grandezza il problema dal lato finanziario causato dai titoli aventi come sottostanti i mutui come nel caso dei c.d. CDO. Successivamente è risultato più chiaro come tali titoli fossero nelle mani di veicoli finanziari esterni ai bilanci delle banche ma a questi ricollegati tramite le cospicue linee di credito erogate. Un meccanismo pertanto piuttosto complesso che in ultima analisi ha fatto perno su un’assunzione piuttosto semplice quanto fragile e cioè che gli investitori continuassero ad avere fiducia nella solvibilità delle attività sottostanti a tali titoli, rassicurati spesso anche dagli elevati livelli di rating forniti dalle principali agenzie mondiali.
I veicoli lucravano il differenziale tra il tasso offerto da tali titoli ed il costo del finanziamento spuntato emettendo titoli a breve termine, le c.d. commercial paper. Ad un certo punto si è avuto però un effetto dominio: crisi del settore immobiliare con calo dei prezzi e delle negoziazioni, minore percezione di solvibilità dei mutuatari, maggior rischio percepito sui titoli aventi come sottostanti i mutui ed infine drastico calo degli investitori disposti ad acquistare le commercial paper a loro volta utilizzate per il parallelo acquisto di Cdo.

Come ormai è ben noto, tutte le banche centrali (compresa per ultima la riottosa Bank of England) hanno provveduto a cospicue iniezioni di liquidità, memori dell’esperienza del ’29: inutile in questi casi farsi prendere da considerazioni moralistiche quando è in discussione il cuore del sistema finanziario mondiale. La reazione delle banche centrali è stata proporzionale alla presa d’atto degli ammontari in gioco. Poco alla volta si è avuto una percezione tangibile del rischio, nel momento in cui anche poco dopo la presentazione delle trimestrali diverse banche, soprattutto Usa, hanno evidenziato svalutazioni per decine di miliardi di Dollari fino ad arrivare alle dimissioni eccellenti dell’ad di Merrill Lynch e Citigroup. Spulciando all’interno dei dati trimestrali forniti alla Sec, è emerso quanto fossero elevate le poste di bilancio iscritte in corrispondenza del c.d. livello 3, ossia quello corrispondente alle attività finanziarie valutate a modello e quindi sulla base di criteri fortemente soggettivi e di conseguenza suscettibili di svalutazioni. La sola Citigroup (la banca più grande al mondo per totale di attivo di bilancio) ha ricompresso in tale categoria ben 134Mld$. Un valore non da poco conto se si considera che la stessa Citigroup capitalizza al momento circa 150Mld$.
In poche parole, la forte creazione di liquidità avvenuta in passato, almeno quella collegata alla parte meramente finanziaria, è evaporata creando difficoltà di rifinanziamento da parte degli stessi attori finanziari che stentano a ritrovare fiducia l’un l’altro. Chi ha liquidità preferisce investirla in titoli di stato a breve piuttosto che reimmetterla nel circuito del mercato monetario che risulterebbe sulla carta ben più remunerativo.
Ad un certo punto però vi sono stati segnali di minor tensione. I tassi su mercato monetario gradualmente sono calati, pur rimanendo sempre elevati in assoluto. A favorire tale andamento hanno contribuito probabilmente le emissioni effettuate dal settore bancario che hanno liberato un po’ di “traffico” eccessivo sul mercato monetario. Vista la dimensione globale del fenomeno è lecito ipotizzare che siano intervenute le banche centrali in chiave di moral suasion invitando gli attori finanziari ad effettuare emissioni al fine appunto di evitare di intasare eccessivamente il circuito monetario. Tali emissioni sono risultate ben più costose rispetto a solo qualche mese fa ma in cambio il sistema finanziario ha cercato di ottenerne un ritorno più celere al normale funzionamento dei mercati monetari.

Perché tutta questa preoccupazione di normalizzare il mercato monetario? I motivi sono essenzialmente due: 1) la permanenza di tassi a breve su livelli molto elevati tende ad incidere notevolmente sui mutuatari a tasso variabile. In altri termini aumenta la rata e di conseguenza diminuisce la quota di reddito da destinare ai consumi con impatti negativi sulla crescita; 2) la difficoltà nel reperimento di fondi da parte del sistema bancario in ultima analisi può tradursi in una riduzione del credito erogato oltre all’irrigidimento dei criteri stessi di erogazione. Anche per tale via l’impatto sulla crescita sarebbe negativo, anzi si tratterebbe forse del rischio più elevato il cui rientro richiederebbe diverso tempo.
L’entità della gravità della situazione sul mercato del credito è stata testimoniata dal fatto che tra settembre ed ottobre si sono mosse le principali autorità Usa (governative e monetarie) per cercare di trovare una soluzione al problema.
Quali soluzioni sono state elaborate?
1. il governo si è dichiarato disposto a sponsorizzare un superfondo avente l’obiettivo di ricomprare i titoli aventi come sottostanti i mutui finanziandoli mediante l’emissione di commercial paper. In altri termini lo stesso identico meccanismo utilizzato dai veicoli finanziari con la rilevante differenza che in questo caso il veicolo (chiamato MLEC, acronimo di Master Liquidity Enhancement Conduit) beneficia della citata sponsorizzazione dello stato e delle linee di credito delle principali banche mondiali. In prima battuta hanno manifestato l’intenzione a far partire il fondo JPMorgan, Bank Of America e Citigroup per un ammontare di circa 80Mld$;
2) la Fed nella persona di Bernanke si è dichiarato favorevole all’ipotesi di vendita dei mutui c.d. jumbo alle due agenzie sui mutui Fannie Mae e Freddie Mac, previa però in questo caso garanzia (e non più solo sponsorizzazione) dello stato, necessaria per modificare l’attuale limite posto a 417.000$ nell’importo massimo acquistabile di ciascun mutuo. Una legge in tale direzione è stata già approvata dalla camera ed è in attesa del passaggio in senato.
Come si può vedere le autorità Usa hanno pensato ad una soluzione che poggia su due fattori: la parte finanziaria (CDO ecc.) viene gestita da una nuova entità mentre la parte reale (i mutui) viene portata in carico ai pluridecennali Fannie Mae e Freddie Mac.
Entrambe le soluzioni stanno riscontrando ostacoli. Nel caso del superfondo il principale punto è il valore di trasferimento dei titoli. Per superare tale obiezione soprattutto le banche Usa hanno dato luogo ad una serie di svalutazioni di portafoglio che hanno comportato dimissioni eccellenti. Come prima citato il rischio è che ancora non si sia toccato il fondo visto l’enorme ammontare iscritto nel c.d. livello tre.
La seconda soluzione invece sta incontrando difficoltà dopo che le due agenzie hanno esplicitato perdite trimestrali per oltre 3Mld$ al punto che Freddie Mac potrebbe essere costretta ad un aumento di capitale di ben 6Mld$, non poco per una società che al momento ne capitalizza circa 17. In altri termini risulta alquanto ostico immaginare che le due agenzie possano farsi carico dei mutui c.d. jumbo in un momento in cui versano già in difficoltà finanziarie. L’organismo di controllo (il c.d. Ofheo) ha dichiarato che a febbraio prenderà in esame anche l’ipotesi di eliminare i requisiti minimi più stringenti sul capitale imposti solo poco tempo fa, onde evitare che le due agenzie si trovino costrette a continui aumenti di capitale.
Ciò nonostante il ministro del Tesoro Paulson sembra essere determinato a supportare anche questa seconda soluzione dichiarando che le due agenzie devono rivestire un ruolo più ampio nel settore immobiliare, rispondendo alle critiche in questo modo: “this is not business as usual. This is an extraordinary situation”.
In altri termini la mano governativa e più in particolare di figure provenienti direttamente dal mondo della finanza (Paulson è un ex figura di spicco di Goldman Sachs) sta assumendo un ruolo chiave nella risoluzione della crisi in atto. Anche la Fed sembra attrezzarsi in questa direzione. Il nuovo presidente della Fed di New York (membro votante permanente all’interno del Fomc) a partire dal 2008 sarà Stephen Friedman, ex presidente di Godman Sachs nel periodo 1990-1994.
A capo della Fed di Chicago ci sarà invece John Canning, fondatore e presidente del fondo di private equity Madison Dearborn Partners.
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La ricostruzione sintetica degli ultimi tre mesi evidenzia come un fenomeno reale (la crisi immobiliare) si sia trasferito al settore finanziario a causa principalmente del legame esistente tra mutui e titoli collegati agli stessi (in modo particolare Cdo) con impatti soprattutto sui mercati monetari ( si vedano gli elevati ed anomali elevati livelli di Euribor). Fino ad ora le banche centrali hanno tamponato la situazione ed in buona misura i titoli sono rimasti li dove erano con però l’aggravio del rifinanziamento che in ultima istanza si scarica ancora sui mercati monetari.
Le 2 soluzioni proposte per tentare di fuoriuscire dalla crisi hanno in comune l’intervento dello stato diretto (garanzia) o indiretto (sponsorizzazione). Per ora però non sembrano soluzioni praticabili nel breve termine. Tutto ciò ovviamente salvo un’accelerazione imposta dal governo Usa.
Il dettaglio di quanto accaduto è però emblematico anche sotto altri punti di vista: 1) le cifre in gioco sono davvero elevate (si veda il caso di Citigroup) e non vanno computate considerando solo l’ammontare dei mutui subprime; 2) il principale rischio è il conseguente restringimento del credito erogato (c.d. credit crunch) che potenzialmente comporterebbe danni all’economia tanto maggiori quanto più lungo è il periodo di turbolenza sui mercati monetari.
I tempi di rientro non si presentano rapidi e probabilmente occorrerà buona parte se non tutto il prossimo semestre. In ogni caso una delle due soluzioni dovrebbe prendere piede,. In caso contrario i tempi potrebbero essere ancora più lunghi e gli oneri derivanti dal rifinanziamento delle posizioni sempre più gravosi.
Ne consegue che, stando anche al sondaggio tra banche effettuato dalla Bce ad ottobre, è lecito attendersi un restringimento del credito nel 2008. Il rallentamento dell’economia Usa dovrebbe essere piuttosto pronunciato con possibilità di crescita anche sensibilmente al di sotto del 2%. La Fed nel frattempo non potrà essere indifferente ed i tagli dei tassi potrebbe arrivare a portare i Fed Funds fino al 3,5% a fine 2008, se non addirittura su livelli inferiori nel caso di impatto più marcato sulla crescita.
Tutto ciò anche perché nel frattempo la situazione di crisi si sta estendendo dal settore mutui a quello delle carte di credito dove il tasso di morosità a 30 giorni è arrivato a settembre ai massimi da ottobre 2005.
La Bce dal canto suo dovrà ancora esitare qualche mese in vista dell’atteso quanto temporaneo rialzo dell’inflazione (nel primo trimestre potrebbe essere raggiunta la soglia del 3% a causa di uno sfavorevole effetto confronto) rientri. La prossima movimentazione dovrebbe però essere direzionata verso un taglio dei tassi a partire dal secondo semestre. I tassi a fine 2008 potrebbero arrivare al 3,5%. Se la situazione precipitasse uno dei tagli potrebbe essere anticipato al secondo trimestre.
Sul fronte tassi a lungo termine, se si osserva il trend primario degli ultimi 10 anni sia in area Euro sia negli Usa si osserva come quanto sta accadendo sta riportando il sentiero dei tassi all’interno di tale trend dopo che ne era stato toccato il limite superiore in seguito al rialzo degli ultimi 2 anni.
In sintesi: il 2008 potrebbe essere nuovamente un anno in cui il trend calante dei tassi potrebbe portare beneficio ai portafoglio obbligazionari.

 

Fonte - MPS Capital Services

 

 

 

  Venerdì 16 novembre 2007   Martedì 20 novembre 2007   Giovedì 22 novembre 2007  
       
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Giù i tassi, la crisi è a macchia d'olio

13 Novembre 2007 04:28 MILANO - di Borsa & Finanza
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«Effetto contagio»? Ravano (Pimco): «Lo temiamo su mutui prime e carte di credito. Fitch rivedrà i rating dei Cdo, e c’è il rischio di capitolazione». Le due maggiori emittenti ne hanno in pancia per $350 miliardi.

Qualcosa di molto allarmante si è rotto nel circolo, prima virtuoso e ora vizioso, che dal settore immobiliare Usa porta all’alta finanza di Wall Street. Si parla di titoli debitori che si affacciano sull’orlo dell’abisso nell’ordine di mille miliardi di dollari. E, come se non bastasse, incombe un terribile «effetto contagio», in cui strutture creditizie molto macchinose, e dalle sigle astruse, premono le une sulle altre, con l’eventualità di franare di botto in un gigantesco gioco di domino. La prognosi non necessariamente volge al bello: «Anzi - dice Emanuele Ravano, condirettore delle strategie europee di Pimco - potrebbe addirittura peggiorare. C’è il rischio che qualche grosso player bancario finisca per aria. E per evitare guai grossi, la Fed dovrebbe attivarsi con maggiore decisione rispetto a quanto fatto finora». Pimco, per chi non lo sapesse, è la società di money management, resa famosa da Bill Gross, che amministra il più grande fondo obbligazionario al mondo, il Total Return Fund.

Dottor Ravano, il tema è piuttosto nebuloso, con articolazioni non sempre facili da digerire per il grande pubblico. Siamo in grado di illustrare passo passo le criticità che montano nella finanza globale? Alle radici del problema, c’è il calo dei valori residenziali negli Stati Uniti. La Pimco ha un team di esperti che segue il settore da vicino, e secondo la nostra analisi, il prezzo delle case potrebbe scendere di un altro 10%, con picchi del 20% nelle aree che hanno vissuto i maggiori eccessi speculativi. Dunque, non immaginiamo miglioramenti a breve.

Fin qui tutto chiaro, ma perché siamo sul baratro? Il secondo punto è che le banche, in funzione di questa tendenza generale, sono ora restie a prestare denaro. A luglio il fenomeno si era concentrato nel segmento subprime del mercato, ma poi si è allargato a macchia d’olio. Per esempio, nella fascia dei mutui «prime», il 41% netto delle banche ha cominciato a stringere fortemente le condizioni del credito in ottobre, contro appena il 12% di luglio. E se guardiamo alle carte di credito, siamo passati dal 12% di luglio al 27% di ottobre.

Si dice che le famiglie indebitate siano un po’ in difficoltà. Lei che ne pensa? In effetti, questa è un’altra spina che ci tormenta. Coloro che hanno comprato casa negli ultimi 3 anni, lo hanno fatto prevalentemente con finanziamenti a tasso variabile, le cui rate subiranno una rettifica all’insù nei mesi venturi. L’andamento si annuncia particolarmente intenso fino al maggio del 2009, con mutui da rinegoziare ogni mese nell’ordine dei 30-50 miliardi di dollari. Ma sul mercato dei mutui pende, poi, un’ulteriore ipoteca.
Cioè? Mi riferisco al meccanismo degli asset-back: nel recente passato, i mutui erogati venivano sovente impachettati e cartolarizzati, trasferendo così il rischio agli investitori più disparati. Questo percorso di finanziamento è entrato in stallo. Anche perché i cosiddetti monoliner forse non potranno fornire garanzie sulle nuove emissioni.

Si fermi un momento. Può spiegarci bene cosa sono i monoliner e il loro ruolo nella crisi attuale? Si tratta di grosse società, come la Ambac o la Mbia, che garantiscono protezioni al credito: garantiscono per esempio un rating tripla A, garantiscono il pagamento delle cedole obbligazionarie e del capitale a scadenza. Possono offrire tali garanzie, però, solo se esse stesse hanno un rating di tripla A.
Teme che la loro solidità sia sotto minaccia? Esatto; ragioniamo di un’eventualità che diminuirebbe l’efficienza nel mercato delle obbligazioni strutturate. Tenga conto che le due maggiori compagnie del ramo, hanno in pancia forse 350 miliardi di asset-backs, quindi sono vulnerabili in prima persona.

Cos’altro? Bisogna soffermarsi sul comportamento delle agenzie di rating. Per essere chiari: il 5 di novembre la Fitch ha dichiarato che rivedrà interamente i criteri a cui legare il merito di credito delle strutture Cdo (collateralized debt obligations, cioè un tipo di asset-backed security ndr.). Le nuove classificazioni verrano fuori a 4-6 settimane, ossia durante le festività natalizie. Insomma, le agenzie di rating, accusate di essere state troppo indulgenti, ora mostrano maggiore severità. Fioccano i downgrades.

La sua è una lista interminabile... Ma siamo arrivati alla fine. L’ultimo tassello è il cambio di rotta intrapreso dagli enti regolatori. Occorre sottolineare che, per quanto riguarda le banche d’affari, larghe sezioni dei bilanci sono riconducibili ad attivi denominati «livello 3», non prezzati a valore di mercato, bensì sulla base di modelli matematici. I nuovi standard di contabilità che entreranno in vigore dal prossimo 15 novembre intendono limitare l’uso dei modelli interni nel prezzare gli asset meno liquidi, e si ritiene che norme più stringenti provocheranno diverse revisioni al ribasso.

Si delinea un orizzonte plumbeo... Diciamo che ci sono notevoli fattori di tensione. Se le obbligazioni strutturate andassero in liquidazione più rapidamente del previsto - uno sbocco che è nelle aspettative della Pimco - ci sarebbero ripercussioni a catena.
Molte grosse banche americane si sono sbriciolate a Wall Street, con tonfi quotidiani non di rado superiori al 10%. Esiste il pericolo che qualcuno finisca gambe all’aria? Se la liquidazione diventa eccessiva, quella che lei descrive entra nel novero delle possibilità. E questo ci porta alla medicina da somministrare al paziente.
Quale medicina? Secondo noi la Fed dovrebbe tagliare il costo del denaro con determinazione, spingendo il saggio base ora al 4,5% fino al 3,5%-3%.
E sulla sponda europea? Molte notizie convergono nell’affermare che in Gran Bretagna il livello del debito e la portata della bolla immobiliare rivaleggiano con quelle statunitensi. A nostro parere fra il 2008 e il 2009 l’economia inglese risulterà davvero vulnerabile. E forse il caso della Northern Rock è destinato a non rimanere isolato.

 

Fonte - Borsa&Finanza

 
 

 

 

 

Bernanke parla di più 

15 Novembre 2007, di MiaEconomia
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Il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha annunciato una nuova strategia di comunicazione dell'istituto, con cui verrà raddoppiata la frequenza con cui la Fed informerà i mercati sulle stime che elabora riguardo all'andamento dell'inflazione, della crescita economica e delle condizioni del mercato del lavoro degli Stati Uniti.
In un discorso alla conferenza organizzata da Cato Istitute, think tank di Washington, Bernanke ha reso noto anche che la strategia non include la fissazione di un target d'inflazione. Bernanke ha spiegato infatti che fissare un target di inflazione "potrebbe essere meno adatto alla Fed", visto che l'obiettivo della Banca centrale americana è quello di tenere a bada sì l'inflazione, ma anche quello di stimolare l'occupazione.
Fino a questo momento, la Federal Reserve ha reso pubbliche le proprie stime due volte all'anno, contestualmente alla testimonianza di Ben Bernanke, in calendario di norma nei mesi di febbraio e di luglio al cospetto del Congresso degli Stati Uniti.
D'ora in avanti, dunque, le cose cambieranno, e le previsioni della Fed saranno comunicate ai mercati quattro volte all'anno, ovvero anche in occasione della pubblicazione delle minute relative alle riunioni del Fomc prevista nel secondo e nel quarto trimestre di ogni anno.
Il cambiamento nella strategia di comunicazione della Fed sarà dunque già visibile la prossima settimana, ovvero nella giornata di martedì, quando il Fomc -il braccio di politica monetaria della Fed - pubblicherà le minute relative alla riunione di fine ottobre.
Le stime non includeranno più l'andamento del prodotto interno lordo nominale, ma saranno relative al trend del pil tenendo conto degli aggiustamenti dovuti all'inflazione, al tasso di disoccupazione, e all'inflazione. Riguardo all'inflazione, le stime saranno elaborate in riferimento al trend complessivo e a quello "core", misurato dall'indice dei prezzi per le spese dei consumi personali depurate dalle componenti più volatili rappresentate dai prezzi dei beni alimentari ed energetici.
La nuova strategia, ha precisato Bernanke, "fornirà un approfondimento più tempestivo sull'outlook del Fomc, aiuterà le famiglie e le imprese a comprendere meglio e ad anticipare il modo in cui le nostre decisioni di politica (monetaria) rispondono alle nuove informazioni, e rafforzerà la nostra responsabilità - ha detto Bernanke".
Oltre alle previsioni, la Fed renderà noti anche i rischi che accompagnano le previsioni. Riguardo alle previsioni sull'inflazione - finora le previsioni erano state relative solo all'andamento di quella core, Bernanke ha sottolineato che l'inflazione complessiva - comprensiva appunto dei prezzi delle componenti più volatili - è un miglior strumento per la politica monetaria nel lungo termine. "Alla fine - ha detto il presidente della Fed - alle famiglie e alle imprese interessa...l'andamento complessivo dell'inflazione". Bernanke ha ribadito comunque che l'inflazione core rimane in indicatore importante nel momento in cui si desidera comprendere l'andamento dell'inflazione nel breve termine.
Altro cambiamento nella strategia di comunicazione della Fed sarà nell'orizzonte temporale delle stime elaborate dall'istituto, che non sarà più di due, ma di tre anni. Questo significa che le prossime previsioni della Fed copriranno un arco temporale che si estenderà fino al 2010.

 

 

TASSI & BORSA: BERNANKE RICATTATO DALLE BANCHE  

21 Novembre 2007, di Il Foglio
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La Federal Reserve di Ben Bernanke si trova ora a un passo molto difficile. Infatti gli ambienti della finanza degli Stati Uniti chiedono insistentemente una nuova riduzione del tasso d’interesse, motivata dal fatto che l’inflazione non sembra preoccupante, mentre vi è un rallentamento marcato dell’economia. In realtà le richieste derivano soprattutto dal desiderio delle banche, che hanno subito perdite per i loro derivati sui mutui immobiliari, di ottenere dalla Fed la liquidità a buon prezzo che il mercato ora nega.
Si giunge persino a chiedere una riduzione dei tassi di 0,75 punti da attuare in tempi brevi e in due riprese. Così il tasso scenderebbe fino al 4 per cento, il livello della Bce. Ma il cambio del dollaro con l’euro e lo yen peggiorerebbe in una misura imprecisata, determinando un rincaro dell’import, in particolare di petrolio e alimentari, con aumento dell’inflazione negli Stati Uniti.
La Fed tradizionalmente, per stimare l’inflazione, considerava l’indice dei prezzi “core”, che esclude energia e alimentari, data la loro grande variabilità. Ma Bernanke, ora, vorrebbe includere questi prezzi nell’indice, perché il loro aumento in dollari è strutturale e in parte si collega a una discesa della valuta statunitense rispetto alle altre monete di riserva, discesa che peraltro appare essa stessa a sua volta strutturale. Infatti il cambio del dollaro è diminuito per riflettere il divario fra il forte passivo della bilancia commerciale degli Usa e il grande attivo di quella di altri paesi. Ciò ha rappresentato un riallineamento fisiologico del dollaro.
Ma un ulteriore ribasso del tasso della Fed segnalerebbe che gli Usa non sono interessati a difendere il potere di acquisto della loro moneta rispetto alle altre e potrebbe generare una fuga dal dollaro di operatori che hanno ingenti scorte monetarie e risparmi in tale valuta. Nella riunione dell’Opec più d’una voce s’è levata per sostenere l’opportunità di lasciare il dollaro e passare a un paniere di monete. E’ una scelta ardua per stati come l’Arabia Saudita che hanno i risparmi in dollari. Bernanke non può lasciare la difesa del dollaro ai paesi esteri. Ma sa che il mondo si è abituato a vedere gli Usa in perpetua crescita. Eppure un rallentamento dell’economia americana farebbe bene a tutti.



 

 

 

TASSI: LA SITUAZIONE IN AMERICA SI DETERIORA 

21 Novembre 2007 13:35 SIENA - di MPS Capital Services
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*Questo documento e' stato preparato da MPS Capital Services ed e' rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell'art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni.

Tassi di Interesse: in area Euro i tassi di interesse sono saliti sulla scia del recupero dei mercati azionari. Il rialzo ha interessato in particolare il due anni con lo spread sul 2-10 sceso a 32 pb. Sul monetario continuano le tensioni con l’Euribor 3 mesi fissato a 4,63% da 4,61%. Intanto continuano le preoccupazioni sul rialzo dell’inflazione dei membri Bce. Ieri Bini Smaghi si è detto molto preoccupato per “second round effects” che possono derivare dall’aumento dell’inflazione, aggiungendo che sarà importante cercare di evitarli. Allo stesso tempo Almunia davanti al Parlamento Europeo ha dichiarato che i rischi per la crescita restano al ribasso, mentre quelli per l’inflazione al rialzo a causa soprattutto dell’apprezzamento del prezzo del greggio, degli alimentari e del livello dei salari. Oggi gli operatori continueranno a seguire l’andamento dei listini azionari.
Negli Usa le tanto attese minute del Fomc di fine ottobre hanno evidenziato una revisione al ribasso delle stime di crescita per il quarto trimestre del 2008 rispetto all’analogo periodo del 2007, con fissazione del limite basso del range previsto in prossimità dell’1,8%. Sul fronte inflazione l’attesa media è per un deflatore del Pil al 2%, superiore all’1,8% atteso invece per il core. All’interno delle minute è stato dedicato uno spazio maggiore alla descrizione dei rischi al ribasso sulla crescita rispetto invece ai rischi al rialzo sui prezzi. Tale indicazione lascia aperta la possibilità di ulteriori tagli in futuro. In tal senso si sono espressi alcuni analisti che sono arrivati a stimare la possibilità di posizionamento dei Fed funds al 2% entro il primo semestre del 2009. Gli operatori dal canto loro rimangono convinti della possibilità che la Fed taglierà i tassi di 25pb sia a dicembre sia a gennaio. Verosimilmente, oltre a considerazioni macroeconomiche, incide molto la percezione che la crisi del credito richiederà ancora diverso tempo prima del suo rientro.
L’ipotesi di acquisto di mutui superiori a 417.000$ da parte delle relative agenzie appare meno realistica alla luce delle forti perdite registrate da queste ultime. Ieri ad esempio Freddie Mac ha annunciato perdite trimestrali per oltre 2Mld$. Malgrado ciò Paulson ha ancora sottolineato la necessità di accelerare il processo di approvazione della proposta di legge dei democratici che contempla l’ipotesi di acquisto di mutui c.d. jumbo da parte delle due agenzie. Le tensioni sul mercato monetario sono riprese, come testimonia il riposizionamento del Libor 3mesi al 5%. Il tasso decennale ha raggiunto la soglia del 4% che rappresenta oggi il principale supporto la cui foratura porterebbe i tassi al 3,90%.
Valute: continua la forte correlazione tra petrolio ed EuroDollaro: i nuovi massimi dell’uno continuano infatti a corrispondere ad altrettanti nuovi massimi dell’altra variabile. In questo contesto appare possibile nei prossimi giorni il raggiungimento della soglia psicologica di 1,50. Per oggi il supporto passa a 1,4740. Lo Yen si è apprezzato in modo marcato durante la notte in seguito ai ribassi dei listini azionari asiatici. Verso Dollaro il cross ha raggiunto il livello più basso da poco più di 2 anni sui timori che le perdite legate al settore del credito e l’elevato prezzo del greggio rallenteranno l’economia Usa. Il supporto si colloca in prossimità di 108,77, minimo del settembre 2005. L’apprezzamento è avvenuto nei confronti di tutte le principali 16 valute mondiali. Verso Euro il cross è tornato sotto soglia 162. Prosegue la correlazione inversa Yen e listini azionari globali con lo Yen che rimane il ‘termometro’ mondiale dell’avversione al rischio degli investitori.
Materie Prime: giornata positiva per le materie prime aiutate dalla debolezza del Dollaro, ad eccezione del gas natura
 

 

 

 

La Fed si sveglia e abbassa le stime di crescita. 

21 Novembre 2007, by John Christian Falkenberg  - Macromonitor
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La Federal Reserve ha ammesso l’impatto della crisi immobiliare e creditizia sull’economia reale, riducendo le proprie stime sulla crescita del PIL ad un livello persino più pessimistico di quello degli analisti delle banche d’affari. Dopo i risultati del settore dei trasporti, quelli finanziari e la situazione disperata sul mercato della liquidità, non si tratta di una grande sorpresa, ma semplicemente della rassegnazione di chi ha provato a fare il pompiere, ma non ce la può fare ancora a lungo.

La Fed ha di fronte due alternative: tagliare subito ed in fretta, salvando il settore finanziario per l’ennesima volta, appigliandosi all’argomento della “tutela degli investitori” , oppure attendere sino a quando una riduzione dei tassi non sia realmente necessaria dal punto di vista dell’economia reale.
La prima soluzione è quella meno traumatica, ma ha due grossi difetti, uno congiunturale, l’altro strutturale. Dal punto di vista congiunturale, si rischia di creare l’ennesima bolla speculativa: finché i cinesi producono senza preoccuparsi di essere pagati o di devastare il proprio sistema finanziario, già tecnicamente insolvente, un aumento della liquidità viene canalizzato principalmente nell’acquisto di attività patrimoniali.
Dal punto di vista strutturale, un salvataggio di questo tipo bloccherebbe una dinamica di mercato inevitabile, ma utile: il fallimento, quindi l’uscita dal mercato stesso, degli imprenditori finanziari che abbiano preso decisioni errate, permettendo la crescita e lo sviluppo delle istituzioni più solide o meglio gestite. L’esperienza della “foresta pietrificata” bancaria italiana ed i disastri che l’industria pubblica assistita ha provocato in tutta Europa dovrebbero bastare a chiarire il punto.
Le caratteristiche particolari del settore finanziario rendono necessario, in un assetto di monopolio dell’emissione di moneta, una minimo di regolamentazione; questo non implica tuttavia che si debba fornire una rete di sicurezza integrale all’intero settore, lasciando una parte cruciale dell’economia in preda ai peggiori fenomeni di azzardo morale: speculate, speculate, la Banca Centrale salverà tutti.
 

 

 

 

 

Frana dollaro: e Ben taglierà 3 volte

27 Novembre 2007 02:50 NEW YORK - di Vincenzo Sciarretta
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Moneta Usa in briciole sulla soglia di 1.50 contro euro. «Sotto pressione nel breve termine per il differenziale tassi». Coi prossimi tagli Fed, il rendimento delle attività denominate in dollari scenderà sotto il livello di quelle europee.
Il dollaro si sbriciola e finisce a un soffio dal limite psicologico di 1,50 contro euro. «Il cuore del problema - spiega Kamal Sharma, analista di Bank of America - è il differenziale sui tassi d’interesse». Secondo il consensus, la Fed reagirà alla crisi dei mutui ipotecari, tagliando il costo del denaro, già dalla prossima riunione dell’11 dicembre, e in seguito altre due o tre volte nel 2008. E ciò porterà il rendimento delle attività denominate in dollari sotto il livello di quelle europee.
Vale la pena di notare come gli operatori attribuiscano sempre minor credito alle parole di Ben Bernanke, dato che non ha celato la sua ritrosia a ridurre i saggi d’interesse. Insomma, agli occhi degli investitori, il governatore della Fed sembra un po’ la dama rinascimentale del De Sanctis che «nega e nega, e in ultimo concede» (il taglio dei tassi). «A oscurare l’orizzonte - continua Kamal Sharma - contribuisce anche la peggiore dinamica inflativa degli Stati Uniti». Il dato di ottobre colloca il rialzo dei prezzi Usa al 3,5%, contro il 2,6% in Eurolandia. Per conseguenza i titoli del debito americani rendono quasi niente in termini reali: il decennale governativo paga il 4%, ma con l’inflazione al 3,5% vuol dire che la cedola vera è dello 0,5%, insufficiente a compensare i possessori esteri di dollari dalle mazzate che ricevono sul mercato dei cambi. «È poi radicata l’impressione - aggiunge Roberto Mialich di Unicredit - che a qualsiasi soglia si vende il dollaro, ci sono buone probabilità di lauti guadagni».
Questo perché le autorità americane indulgono a una politica di benevola negligenza. Alla base c’è l’idea che l’economia nazionale trarrà vantaggio dalla debolezza del dollaro. E, in effetti, il buon andamento dell’export ha per ora pareggiato la caduta interna della domanda, cagionata dall’edilizia residenziale. Se all’America sta bene una moneta debole, la speculazione ci va a nozze. Denaro chiama denaro e, una volta aperte le chiuse, la corrente di vendite non trova ostacoli. Specialmente in un mondo senza barriere dove, stando ai dati raccolti dalla Bank of International Settlements, gli scambi valutari sono passati da una media giornaliera di 1.900 miliardi di dollari nel 2004 all’impressionante cifra di 3.200 miliardi di oggi.
In queste condizioni potrebbe rendersi necessario un intervento concertato del Gruppo dei Sette (G7) per arginare la frana del biglietto verde. In passato è accaduto spessissimo. Con l’unica eccezione del 2002, quando l’euro si riprese spontaneamente, i trend più pronunciati sul mercato dei cambi sono sempre stati invertiti grazie a manovre dei maggiori Paesi industrializzati. Vengono in mente l’Accordo del Plaza del 1985, oppure quello del Louvre del 1987, oppure l’intesa Giappone-Stati Uniti del 1995.
«Eppure, questa volta i tempi non sono ancora maturi - spiega Asmara Jamaleh di Banca Imi - Perché l’America vede di buon occhio le tendenze in atto mentre l’Europa convive finora egregiamente con il supereuro». Qualche impresa, ovviamente, non la pensa così. Airbus leva grida di dolore, rivaleggiando con l’americana Boeing. Inoltre, stando a Stephen Jen di Morgan Stanley, «parecchie multinazionali del Vecchio Continente faticano a rimanere competitive e hanno un periodo di 6-12 mesi entro il quale trovare una soluzione, poiché i loro contratti di copertura valutaria sono in scadenza». Jen aggiunge però che «il 70% dell’export europeo finisce in Europa». E questo chiarisce l’alta resistenza del blocco comunitario alla forza della sua divisa. Non altrettanto si può dire del Giappone. Suggerisce Mialich di Unicredit: «L’Impero del Sol Levante danza sull’orlo della deflazione e si affida tuttora all’export come principale fattore di crescita. Se la valuta nipponica (ora a 107-108) si rafforzasse sotto 105, si aprirebbe la discussione sulle misure idonee a fermare il crollo del biglietto verde. E qualora l’euro bucasse impunemente l’altitudine di 1,50 la speculazione si sentirebbe autorizzata a lanciare una seconda ondata di vendite».
In base a quello che ascoltiamo dagli analisti di professione, il dollaro potrebbe rimanere sotto pressione nel breve termine a causa dei flussi speculativi transfrontalieri, ma ha anche discrete opportunità di riprendersi nella seconda metà del 2008, a meno che l’America non sprofondi nelle secche di un orribile recessione.
Alla base del rilancio ci sarebbe il netto assottigliamento dei famosi deficit gemelli americani, considerati negli ultimi anni una delle variabili maggiormente suscettibili di incrinare la solidità del biglietto verde. Ebbene, il deficit di bilancio è diminuito dal 3,5% all’1,2% nel giro di tre anni. E lo squilibrio delle partite correnti viaggia al 5,5% contro il 6,8% del 2005, con l’eventualità di scendere al 4,8% nel 2008 e al 4,1% nel 2009 (fonte Morgan Stanley). «L’aggiustamento dei deficit gemelli risulta particolarmente rimarchevole - aggiunge Jen - soprattutto se si considera che al netto delle importazioni petrolifere, il deficit è solo al 3,5% del prodotto interno lordo». Insomma, la medicina della pesante svalutazione incomincia a fare il suo effetto. Sarà abbastanza?

 

Fonte - Borsa&Finanza

 

 

 

Sabato 24 novembre 2007   Giovedì 29 novembre 2007   Giovedì 29 novembre 2007
   
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E' ineluttabile una caduta rovinosa del dollaro?

27 Novembre 2007 03:15 ROMA - di Marcello De Cecco
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Euro forte e petrolio alle stelle: sono la ricetta sicura per portare anche l’ Europa rapidamente alla recessione o si elidono a vicenda? Greggio: il 40% di aumento subito da noi europei è assai meno del +58% sopportato dagli americani.
Da una parte c’è l’economia dell’Asia, trainata dalla grande corsa cinese, che non accenna a rallentare. Dall’altra l’economia americana, con il consiglio direttivo della banca centrale che prevede un anno almeno di rallentamento e si appresta a tagliare ripetutamente i suoi tassi d’interesse, anche e forse specialmente perché dal settore finanziario vengono annunci ogni giorno più disastrosi e da quello immobiliare notizie di una crisi sempre più profonda. In mezzo c’è l’economia europea, che mostra tassi di crescita ancora ragionevoli e prezzi che si risvegliano. Ci sono i produttori di petrolio e di materie prime, che vedono salire fino a livelli impensabili i prezzi di quel che vendono, ci sono i paesi emergenti, gratificati da investimenti esteri elevati, esportazioni effervescenti, riserve di valute finalmente elevate, cambi in forte ascesa.
Su tutti si stende l’immensa coltre della speculazione finanziaria internazionale, alimentata dalle prospettive ancora di forte aumento della liquidità che proviene dalle banche centrali americana, giapponese e inglese e dalla fame di guadagni elevati della grande massa dei gestori istituzionali di risparmio, che si contendono i clienti a suon di risultati e non possono accettare riduzioni dei medesimi o, Dio non voglia, perdite.
Almeno per sei mesi, quindi, ma forse per un anno intero, il quadro internazionale fornisce certezze, amate dagli operatori finanziari perché permettono scommesse in una sola direzione, prive quasi di rischio (anche se a condizioni di guadagno decrescenti). L’economia americana continuerà a rallentare, quella asiatica a crescere, le maggiori istituzioni finanziarie del mondo sviluppato riveleranno altri scheletri finora nascosti nei loro armadi e magari qualcuna di loro andrà in crisi aperta, di liquidità o addirittura di insolvenza.
Come ci si può aspettare che le autorità monetarie degli Stati Uniti possano passare ad una politica meno espansiva? Il forte rallentamento dell’economia rende improbabile un acuirsi dell’inflazione, e quindi l’alibi per una stretta viene meno. C’è bisogno del contrario, anche perché è prevedibile che le banche private in crisi creino meno liquidità. Ciò significa che il dollaro continuerà a scendere e l’euro a salire.
Se questa cura dura un anno l’euro si troverà spinto, veramente suo malgrado, nella posizione di principale moneta di riserva. Il dollaro, naturalmente, non scomparirà dalle riserve delle banche centrali. Perderà il ruolo di protagonista e se ciò avverrà troppo rapidamente c’è la possibilità che gli scambi di materie prime comincino ad essere denominati in euro, o perlomeno in un paniere di monete, e che paesi come la Cina e l’India comincino a fatturare le proprie esportazioni in euro o nella moneta nazionale. Spesso si parla dei grandi vantaggi che sono derivati agli Stati Uniti, in cinquant’anni, dall’emettere la valuta di riserva mondiale. Esaminiamo brevemente quelli ritenuti principali. Emettere una valuta che nessuno converte in un’altra è molto vantaggioso se si desidera spendere all’estero sempre più di quanto all’estero si guadagna. Se si vogliono comprare manifatture e servizi prodotti all’estero, imprese e beni patrimoniali stranieri, costruire e gestire costose basi militari in terra straniera, addirittura condurre campagne militari.

Ma i paesi dell’euro vogliono avere questi vantaggi? Vogliono crearsi un deficit estero strutturale e mantenerlo nel tempo, finanziandolo con emissioni di carta finanziaria e di titoli privati e pubblici? Uno sguardo alle principali economie della zona euro mostra come la Spagna dall’enorme deficit estero e potenzialmente la Francia sarebbero forse liete di mettersi in quella condizione, di assorbire importazioni pagandole con carta finanziaria, come fanno gli Stati Uniti. Ma già l’Italia non potrebbe farlo senza traumi. Essa ha ancora il secondo sistema manifatturiero dell’area dell’euro per quanto riguarda il numero degli addetti, lo ha visto declinare nell’ultimo decennio senza riuscire a creare alternative valide per assorbire la manodopera rigettata dall’industria e la prospettiva di una ulteriore, rapida deindustrializzazione è in grado di terrorizzare qualsiasi componente della dirigenza politica ed economica italiana, a eccezione forse di uno sparuto gruppo di economisti liberisti, che già si è assottigliato e che diviene più piccolo a ogni rialzo dell’euro.
Il caso della Germania è in fondo simile a quello italiano, anche se la capacità di resistenza tedesca a un euro strutturalmente fortissimo è maggiore. Questo perché la Germania, nell’ultimo decennio, ha portato verso una specializzazione tecnologicamente più elevata la propria industria e creato un settore di servizi anch’esso tecnologicamente sofisticato e complementare all’industria, mettendo in mare una flotta di navi container che rappresenta ora il 40% del totale mondiale, inserendolo in un poderoso sistema logistico che è anch’esso divenuto il primo del mondo, riformando il sistema educativo per premiare l’eccellenza e attrarre i migliori studenti stranieri, collegando università e industria mediante una rete di laboratori di ricerca applicata, potenziando l’industria del cinema e della televisione, consolidando il proprio primato mondiale nel settore editoriale.
Così i tedeschi possono far fronte più a lungo a un ulteriore graduale declino del dollaro. Ma anche loro temono fortemente un crollo rapido e profondo della moneta americana. Il paese attraversa infatti una fase politica assai delicata e un trauma occupazionale improvviso e grave potrebbe suggerire esiti politici assai sgradevoli e poco somiglianti alle esperienze postbelliche, specialmente per l’arretratezza politica in cui sono rimasti, malgrado gli enormi investimenti infrastrutturali fatti dopo la riunificazione, i laender orientali, elettoralmente assai importanti. Nel nostro paese, invece, l’esito politico di un crollo del dollaro sarebbe probabilmente di tipo sudamericano (e ne abbiamo avuto un assaggio dal 2001 al 2005). Esiti di questo tipo, in paesi come la Germania e l’Italia metterebbero a dura prova la tenuta dell’Unione monetaria e forse anche della Unione europea. Né sono da escludere innovazioni politiche sgradevoli in Spagna e Francia.

Ma è veramente ineluttabile una caduta improvvisa e rovinosa del dollaro? E’ innegabile che la corsa dell’euro nei confronti della valuta americana si verifica perché l’euro è l’unica moneta, oltre il dollaro, libera di trovare il proprio prezzo sui mercati mentre Yen e Yuan e tutte le altre monete asiatiche sono severamente controllate dalle autorità nazionali, che ne restringono la fluttuazione verso l’alto. Ma è anche vero che la Bce ha tenuto finora un atteggiamento di assoluta intransigenza nei confronti del proprio obiettivo di inflazione. Basterebbe che il signor Trichet dichiarasse di essere molto preoccupato per gli effetti della corsa dell’euro sull’economia reale dei paesi dell’Unione monetaria, per vedere il cambio della nostra moneta ridimensionarsi velocemente.
Sono convinto che, malgrado le orgogliose dichiarazioni del signor Steinbruck sui vantaggi dell’euro forte per l’economia tedesca, le forze politiche del suo paese si stiano rapidamente convincendo che è arrivata l’ora di dare un messaggio forte, anche se discreto, a Trichet. Quanto agli altri paesi dell’euro, le loro autorità politiche e gli esponenti del mondo della produzione tale messaggio lo stanno mandando a Francoforte e a Bruxelles da un bel po’. Dopo la fine degli scioperi in Francia e Germania e dopo che sarà tornato dal suo viaggio in Cina senza molto di più che dichiarazioni di buona volontà e qualche frazione di punto di rivalutazione dello Yuan nei confronti del dollaro, Trichet farà la sua dichiarazione, magari aspettando fino all’11 dicembre, quando si riunisce il consiglio della Bce. Speriamo che, nel frattempo, il sistema finanziario internazionale regga e non ci esponga a qualche orribile shock.
Anche in questa disputa, tuttavia, la Germania ha più da perdere degli altri paesi europei. Essa è riuscita, come solo il Giappone è riuscito a fare, a crearsi un ruolo di primario fornitore di beni complessi di investimento per l’industria cinese, una complementarità alla corsa economica cinese che ora le crea delle difficoltà nel fare la voce grossa con le autorità di quel paese. E’ affascinante sentire le dichiarazioni dei membri della troika europea che si reca ora in Cina: Trichet severo e preoccupato; Mandelson, che viene da un paese tradizionalmente avversario della Cina, che gli ha ripreso Hong Kong e può strozzarla quando vuole, (o trasformarla in una piazza finanziaria che competa con Londra) e che ha da tempo abdicato al ruolo di fornitore di beni di investimento, apertamente accusatore nei confronti della politica valutaria cinese. Juncker, infine, lussemburghese che rappresenta i tedeschi, pieno di rispetto e considerazione per i suoi interlocutori e nemico delle soluzioni drammatiche.
Eppure i cinesi dovrebbero avere interesse ad una rivalutazione della loro moneta, visto che, importando materie prime e petrolio in quantità enormi, lo pagherebbero di meno con uno Yuan più forte. E anche che in tal modo riuscirebbero in buona misura a temperare una inflazione che, spronata dagli Yuan creati comprando dollari dagli esportatori cinesi, mascherata da statistiche assai difettose, corre in realtà assai velocemente e causa un pericoloso disagio sociale colpendo gli strati più poveri e più numerosi della popolazione di quell’immenso paese. Ricordiamo che la Cina ha potuto mantenere un regime autoritario senza imbarazzanti traumi interni solo perché ha assicurato un rapidissimo sviluppo e un po’ di benessere anche agli ultimi tra i suoi cittadini.
Non sarebbe dunque fuori luogo immaginare che anche dalla Cina venisse un contributo alla riduzione della pressione sul dollaro.

Ricordiamo però che Cina e Giappone hanno nell’ultimo anno pilotato sia la rivalutazione delle loro monete verso il dollaro che la svalutazione delle stesse sull’euro, malgrado il grande surplus commerciale che vanno accumulando con l’Europa. E’ un segno chiaro delle difficoltà in cui si dibattono le dirigenze politiche dei due maggiori paesi dell’Asia. I cinesi non vogliono ammazzare l’oca dalle uova d’oro dello sviluppo col cambio basso e i giapponesi, pur con saggio di interesse zero, non riescono a indurre nel loro paese una fine definitiva alla deflazione dei prezzi industriali che lo affligge dai primi anni novanta. I cinesi sanno inoltre che una forte rivalutazione indurrebbe non la riduzione della crescita, ma una vera e propria endemica riduzione dei prezzi industriali di tipo giapponese anche nel loro paese, un crollo dell’ occupazione e la prima vera crisi del loro modello politico ed economico.
Dobbiamo quindi, in conclusione, ridurci alla soluzione unilaterale europea, per quello che vale. L’euro a 1,50 sta, lo abbiamo già detto, facendo velocemente cambiare opinione anche ai tedeschi. Tale cambiamento però può essere accelerato o frenato dal petrolio a 100 dollari. E’ vero infatti che l’euro forte neutralizza in parte l’impatto del caro petrolio sull’economia europea. Il 40% di aumento in dieci mesi che gli europei hanno subito è assai meno del 58% di rincaro che hanno sopportato gli americani.
Euro forte e petrolio alle stelle: sono la ricetta sicura per portare anche l’ Europa rapidamente alla recessione o si elidono a vicenda? Io credo nella prima conseguenza di questo incrocio fatale, ma parecchi tedeschi credono ancora nella seconda e potrebbero frenare una politica espansiva della BCE. Sarebbe notevole, da parte di un paese che ha sempre rifiutato il ruolo di valuta di riserva per la propria moneta, convertirsi ai suoi presunti vantaggi proprio ora che la sua situazione politica interna è tutt’altro che equilibrata.

 

Fonte - La Repubblica

 

 

 

Sistema valutario: non è l'€uro l'alternativa

30 Novembre 2007 13:09 Vienna - di Finanza&Mercati
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Joseph Stiglitz, premio Nobel 2001 per l’Economia, dice: «E' necessario ripensare gli equilibri valutari mondiali. Per secoli tutto è ruotato intorno all’oro. Poi intorno al dollaro. Un sistema che ora sta scricchiolando».

«Stiamo entrando in un periodo d’instabilità finanziaria»: parola di Joseph Stiglitz, premio Nobel 2001 per l’Economia, intervenuto ieri a Vienna all’European Colloquia, organizzato da Pioneer Investments (Sgr di Unicredit). «Credo sia necessario ripensare gli equilibri valutari mondiali - sostiene Stiglitz - Per secoli tutto è ruotato intorno all’oro. Poi intorno al dollaro. Un sistema che ora sta scricchiolando». Anche in America, dunque, non passano inosservate le considerazioni di Paesi, quelli dell’area Opec su tutti, sul ruolo del dollaro come principale moneta di fatturazione del petrolio e, soprattutto, prima riserva valutaria. «L’alternativa euro - ribatte l’economista - credo possa produrre sola nuova instabilità. Una soluzione preferibile potrebbe essere l’adozione di un modello multilaterale, meglio se orchestrato dall’Fmi».
Stiglitz torna quindi agli special drawing rights che proprio il Fondo monetario istituì nel ’69 a supporto degli accordi di Bretton Woods. Avrebbero dovuto emergere come importante riserva valutaria, ma il loro utilizzo nelle transazioni internazionali non è mai decollato. Ma sono stati in molti, nel tempo, a sottolinearne la validita. Anche George Soros vi dedicava ampio spazio nel suo On Globalization. Senza contare che, «sebbene il focus principale di un modello multilaterale - aggiunge Stiglitz - non possa che essere quello della stabilità finanziaria, potrebbe anche profilarsi come strumento di supporto alle economie emergenti». Restano irrisolti i problemi interni all’economia Usa, perché «la debolezza del dollaro, fa sì che l’America importi inflazione - sottolinea Stiglitz - soprattutto dall’Europa. Senza contare gli effetti sul livello dei prezzi dovuti all’attuale spolvero del petrolio». Per altro, sono in molti a credere che i grandi esportatori di greggio abbiano interesse nel mantenere i livelli attuali di prezzo, proprio per il minor potere d’acquisto della divisa Usa sui mercati valutari.
«Se poi lo yuan venisse rivalutato - conclude - verrebbe importata ancora maggiore inflazione. D’altro canto, in questo momento, solo attraverso la debolezza del dollaro si può sostenere l’economia, grazie al vantaggio che ne traggono le grandi multinazionali sul mercato globale».
 

 

Fonte - Finanza&Mercati