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novembre 2007 |
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Mercati: è l'ora
di punire chi gioca sporco
04 Novembre 2007
21:34 MILANO - di Giuseppe Turani ________________________________________
Ormai è come una strage. Una sorta
di pulizia etnica delle banche operata dalla loro stessa avidità. Lo
scandalo dei prestiti subprime (prestiti a clienti «inattendibili»,
pur di fare soldi) si sta mangiando vivi istituti di credito e
banchieri. Le prime avvisaglie si sono manifestate a fine settembre
quando Barclays, una delle principali banche inglesi, quella
dell´Opa da quasi cento miliardi di dollari su ABN Ambro, ha dovuto
chiedere un prestito temporaneo alla Bank of England per poter
aprire gli sportelli il giorno dopo. Poi ci sono state decine di
episodi apparentemente minori (Northernrock, Countrywide e qualche
decina di altre banche specializzate), ma che segnalavano una
situazione di pre-allarme. Anche perché si è scoperto che l´intero
settore bancario era più autoreferenziale (chiuso su se stesso) di
quanto si potesse immaginare in quanto tutti, grandi e piccoli
operatori, si finanziavano sull´interbancario. Cioè si prestavano i
soldi da banca a banca, come una immensa catena di Sant´Antonio.
La cosa sconvolgente è che da qualche settimana quel mercato non
esiste praticamente più. Cosi come si è volatilizzato in pochi
giorni il mercato delle cartolarizzazioni e dei bond. E come nel
classico castello di carte è cominciata la caduta delle stelle,
delle grandi e piccole banche mondiali che, non trovando più sul
mercato i soldi per finanziarsi, hanno iniziato a diminuire
l´attività e soprattutto hanno dovuto cominciare ad evidenziare i
buchi che avevano accumulato in bilancio. E sono crollate in borsa.
Solo nella settimana appena finita, dopo cali che proseguono da
luglio, Merril Lynch ha perso il 14%, Citicorp il 12,5, JPMorgan il
9,8%. Quasi tutte ormai valgono meno del valore che avevano tre mesi
fa. Anche la mitica prudenza svizzera di UBS è stata infranta da
mega svalutazioni e da avvisi che «potrebbe non essere finita».
E anche da noi il super gioiello Unicredito (modello di banca e di
trasparenza) ha ormai perso tanto valore da vedere azzerato l´intero
apporto alla fusione del gruppo Capitalia. Ancor più significativo
poi qualche episodio di licenziamento in tronco, come quello del
numero uno di Merrill Lynch, da sempre considerato potentissimo. Si
tratta di Stan O´Neal, protagonista di una tipica storia americana:
figlio di un immigrato che raccoglieva il cotone in una piantagione
di Alabama quarant´anni fa, prima di andare alla catena di montaggio
della General Motors era salito fino alla vetta della più grande
banca del mondo, due azioni su re fra quelle scambiate nel mondo
passano per gli uffici della Merrill Lynch.
Banca che adesso comunque è sotto indagine da parte della Sec (la
Consob americana) perché pare che non abbia ancora detto tutta la
verità. E sembra essere solo l´inizio perché tutti continuano a
confessare che il contenuto dei piccoli mostri, dei prodotti
salsiccia con i quali tante banche hanno infestato il mondo, non è
ancora chiaro. La situazione è confusa perché la maggior parte di
queste operazioni avveniva ed avviene fuori bilancio, con veicoli
societari ad hoc che non vengono consolidati. E che ora
l´amministrazione Usa vorrebbe nascondere tutto infilandoli in un
mega fondo che consenta a tutti di fare pulizia. Warren Buffet (il
finanziere-miracolo degli Stati Uniti, quello che si lamenta perché
gli fanno pagare poche tasse e che guida personalmente la propria
auto) ha subito detto che sarebbe l´ennesimo scandalo perché chi ha
sbagliato deve pagare e non deve potersi salvare attraverso un
meccanismo più farlocco dei fenomeni che hanno creato queste
ridicole - ma pesanti - bolle.
Staremo a vedere cosa inventeranno ma certo che è inquietante, in
tempi di continui richiami alla correttezza e alla trasparenza e di
leggi punitive post crash come la Sorbanes Oxley (venuta dopo lo
scandalo Enron), scoprire che le più grandi banche del mondo da una
parte stampavano mutui a chiunque senza guardarci dentro, dall´altra
erano di fatto cosi ingenue e fragili nell´essersi fidate che la
loro raccolta di denaro dal parco buoi fosse senza fine. E i loro
mega uffici studi, le migliaia di analisti che ogni giorno danno
lezioni a tutti, dove erano? Cosa dicono? Non si sono mai accorti di
niente? Mai un solo, piccolo sospetto? Incredibile.
In altri tempi tutto questo avrebbe determinato crolli epocali del
mercato, e forse qualche banchiere si sarebbe lanciato dal
trentesimo piano di qualche grattacielo, come nel 1929. Oggi invece
tra i provvidenziali (anche se nel medio termine pericolosissimi)
tagli ai tassi di interesse della Federal Reserve (la banca centrale
americana), l´enorme liquidità che arriva da Russia, Cina, India,
paesi arabi e Sudamerica e, soprattutto, l´esistenza di un´economia
reale sana e brillante come poche volte nella storia del mondo,
tutto si tiene piuttosto bene e i mercati globalmente sono sempre
attorno ai massimi. E Stan O´Neal può essere cacciato via nel giro
di poche ore dalla Merrill Lynch, ma con una liquidazione di 160
milioni di dollari. Il vero augurio, a questo punto, è che
l´economia continui a tirare, e che le stelle cadano rapidamente e
senza eccessivi fragori. Insomma, chi deve cadere cada, e avanti un
altro.
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Fonte - La Repubblica |
Nuclear
Citi
05 Novembre 2007,
di John Christian Falkenberg -
Macromonitor ______________________________
Dopo Merrill,
Citigroup. Dopo le banche d’affari, l’umiliazione delle
dimissioni forzate del management, di mega-svalutazioni e
del taglio al merito di credito tocca ad una delle maggiori
banche commerciali, il caso di scuola della banca universale
come modello teoricamente in grado di portare stabilità dei
risultati. L’ennesima conferma di come non sia la frontiera
dell’innovazione finanziaria, poco regolamentata e
“selvaggia”, ad essere il problema, ma le banche
tradizionali, da sempre opache, sovra-regolamentate e
fiduciose nella manina salvatrice del governo.
Le notizie del weekend sono state decisamente negative, con
le dimissioni dell’amministratore delegato Chuck Prince e
l’annuncio di altre svalutazioni per una cifra record ,
ancora da definire: fra gli otto e gli undici miliardi di
dollari. La cifra non include le svalutazioni già effettuate
trimestre appena chiuso, che si erano attestate a 6,5
miliardi e si compara con una capitalizzazione di mercato di
187 miliardi di dollari.
La risposta delle agenzie di rating non si è fatta
attendere: downgrade sia da parte di Standard&Poor’s che di
Moody’s. Quella del mercato è stata altrettanto eloquente:
il costo per comprare protezione dal default di Citigroup è
ai massimi storici ed ha trascinato con se buona parte delle
banche d’investimento, nonché, in misura minore, l’intero
comparto americano. Il mercato del credito in generale è in
ribasso e le Borse asiatiche sono andate in picchiata, con
Hong Kong in chiusura a -5% .
Vero è che l’economia mondiale sembra ancora essere in
condizioni robuste, che per trovare un segno negativo sulla
Borse mondiali è necessario aver subito anche gli effetti
negativi del cambio, che hanno azzerato i rendimenti di S&P
e Dow Jones, oppure aver investito in Italia e che le borse
asiatiche sono reduci da incrementi a due o a tre cifre, ma
le preoccupazioni e le cautele ricominciano ad aumentare: il
cocktail di una crisi finanziaria coniugata a rischi
inflazionistici è il vero Uomo Nero degli investitori, a
questo punto del ciclo economico.
Cercando di andare oltre il breve periodo, va notato come
Citigroup sia notevole, a parte per le proprie dimensioni,
per due caratteristiche: da un lato è la banca che
maggiormente è stata attiva nello spostamento di attività
finanziarie fuori bilancio (le conduit sono state inventate
in una delle banche che formano Citigroup). Dall’altra, si
tratta del tentativo maggiormente riuscito in terra
americana per creare la cosiddetta “banca universale”,
modello favorito dai tedeschi, ossia un conglomerato
finanziario in grado di fornire qualsiasi prodotto
finanziario a qualsiasi cliente. Assistiamo oggi al
“successo” di tale strategia? Si è sempre saputo che le
banche d’affari sono soggette ad una estrema volatilità
degli utili, per la natura della propria attività, ma
Citigroup è stata assemblata proprio con l’idea che mettere
sotto lo stesso tetto banche, assicurazioni e broker avrebbe
mitigato la volatilità dei risultati. Quello che sembra non
essere stato mitigato è il classico “moral hazard” delle
istituzioni finanziarie soggette a regolamentazione: ci
siamo preoccupati per anni degli hedge fund e del “Far West”
della nuova finanza, senza ascoltare coloro che prevedevano
come i problemi sarebbero arrivati proprio da istituzioni
sin troppo abituate a farsi schermo della regolamentazione
degli istituti di emissione.
E’ la storia di ogni ciclo di panico finanziario: quando la
soluzione è l’aumento della regolamentazione e non
l’apertura alla concorrenza, il risultato è una illusoria
solidità, pagata da contribuenti ed utenti, una facciata che
nasconde l’incubazione di ulteriore instabilità.
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Super
senior, super problema?
05 Novembre 2007,
di Macromonitor _______________________________
Nel momento in cui
assistiamo ad un’altra ondata di allargamenti dei premi al
rischio, soprattutto nel settore bancario, Merrill Lynch ha
per la prima volta evidenziato un ulteriore problema rimasto
latente sino ad oggi: le esposizioni alle tranches super
senior.
All’interno della struttura di un CDO, la tranche super
senior è la parte di debito teoricamente meno rischiosa in
assoluto, quella “meglio che AAA”; in teoria, quasi tutto il
rischio di insolvenza degli strumenti che producono reddito
per il CDO dovrebbe essere sopportato dalle tranches
sottostanti. Sfortunatamente, vista la sorte di certe
tranche “sicurissime”, passate dal giorno alla notte ad
avere un rating di poco superiore ai junk bond, ci si
comincia a chiedere se anche le tranche super senior non
nascondano qualche sorpresa.
Si tratta di esposizioni al rischio tradizionalmente non
menzionate dalle banche quando si parla di finanza
strutturata e di crisi del credito, perché si tratta di
derivati non aggregati nelle esposizioni a bilancio legate
al subprime. La prima banca ad avere annunciato
l’esposizione netta e’ stata Merrill Lynch alla fine di
ottobre ed in seguito altre banche si sono allineate a
Merril (UBS, Deutsche Bank, Citigroup ieri), mentre altre
hanno dichiarato esposizioni “minime” (Credit Suisse).
Le classi super senior sono molto comuni tra le esposizioni
delle istituzioni bancarie e assicuratori monoline, anche a
causa del rischio di insolvenza teoricamente nullo; esiste
quindi un evidente rischio di ulteriori svalutazioni, che
dovrebbero essere rese pubbliche dalle banche con sede negli
USA entro la fine dell’anno fiscale americano che cade il 30
novembre (con le pubblicazioni degli utili attese per metà
dicembre); in questa situazione si potrebbero trovare, ad
esempio, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Lehman, Bear
Stearns. Stessi rischi per le banche US che hanno comunicato
gli utili del terzo trimestre prima di Merrill Lynch(JPMorgan
e Banc of America, ad esempio).
Queste massicce svalutazioni indeboliranno ulteriormente le
strutture patrimoniali delle banche e la conseguente
necessità di ulteriore raccolta di capitale tramite un
aumento dell’emissione di subordinati bancari (cosiddetti T1
e T2) durante i primi mesi del 2008, per rafforzare i ratios;
le condizioni di mercato a quel tempo potranno fare la
differenza fra un ordinato sviluppo ed il panico.
Per quanto attiene alle banche europee, solo CASA e KBC
hanno riportato esposizioni a ABS/CDO super senior tranches.
E’ disponibile un riepilogo di esposizioni nette e
svalutazioni, a includendo supersenior ABS/CDO
Per ora, il problema della valutazione degli stock di
credito e gli effetti della crisi subprime sembra essere, in
generale, contenuto all’interno del settore finanziario. Le
economie europee sembrano abbastanza equilibrate, persino
gli USA, nonostante la crisi del mercato immobiliare,
riescono a mantenere tassi di crescita relativamente elevati
e quelle asiatiche semplicemente corrono al galoppo, il
tutto senza generare eccessive spinte inflazionistiche,
almeno al momento. Il sentiero per una soluzione del
problema finanziario che non distrugga gli enormi vantaggi
derivanti dall’innovazione finanziaria e non danneggi
l’economia reale esiste ancora, ma sembra essere diventato
più stretto rispetto a quanto immaginato solo pochi giorni
fa.
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Monoline,
1000 miliardi e 9 settimane e mezzo di dolori
06 Novembre 2007,
di John Christian Falkenberg
- Macromonitor ______________________________________________
Nel capitolo più
recente nella saga del mercato del credito, Fitch ha
annunciato una profonda revisione dei rating alle
assicurazioni monoline nel corso delle prossime 8-10
settimane; una eventuale perdita del prezioso rating AAA da
parte di alcune di esse potrebbe colpire paradossalmente chi
ha scelto uno dei “beni rifugio” per eccellenza negli USA, a
causa del ruolo giocato dalle monoline nel “sicuro e
tranquillo” mercato delle obbligazioni municipali.
Come avevamo anticipato, il problema delle assicurazioni
monoline nasce dalla natura di assicuratori contro
l’insolvenza di intere emissioni obbligazionarie: in cambio
di una commissione, le monoline garantiscono il pieno
rimborso di capitale ed interessi per una determinata
emissione, anche in caso di insolvenza del debitore. In
aggiunta, pare che alcune monoline abbiano investito in
veicoli di finanza strutturata dello stesso tipo di quelli
di cui garantivano la solvibilità.
Quando i tassi di insolvenza dei mutui subprime hanno
cominciato a salire, il valore di tali strumenti è
genericamente crollato, producendo da un lato massicce
perdite in alcuni portafogli d’investimenti e dall’altro
facendo aumentare il rischio che le assicurazioni stesse
debbano rimborsare gli investitori nelle tranche da loro
garantite.
Il rischio è quello di una sorta di effetto-domino: le
emissioni garantite dalle monolines ammontano a circa 1000
miliardi di dollari ed il downgrade di una monoline
comporterebbe il downgrade di tutte le emissioni
obbligazionarie che vengono assicurate (wrapped, in gergo
tecnico) dalla monoline stessa, se il debitore non può
garantire il medesimo grado di affidabilità. Questo
implicherebbe il riconoscimento formale di un maggiore
rischio d’insolvenza e, di conseguenza, la necessità per
molti detentori di tali strumenti (essenzialmente ABS ed
obbligazioni municipali) di accantonare maggior capitale a
fronte degli investimenti oppure a liquidarli forzosamente,
deprimendo ulteriormente i prezzi e preparando la strada ad
ulteriori svalutazioni.
L’effetto negativo sarebbe immediato anche su di un mercato
molto diverso da quello della finanza strutturata:
moltissime emissioni garantite dalle monoline sono emissioni
degli enti locali americane, i cosiddetti muni bond. Si
tratta di emissioni esentasse molto apprezzate dagli
investitori proprio in ragione del basso rischio e della
natura statale dell’emittente; quasi per paradosso, una
caduta dei corsi di tale mercato porterebbe la crisi del
segmento notoriamente più rischioso di tutto il mercato,
popolato quasi soltanto da speculatori, direttamente in un
comparto una volta percepito come un rifugio sicuro. Un
rifugio da centinaia di miliardi di dollari.
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Crisi
dei mutui:
quel che
non vi stanno dicendo
06 Novembre 2007
12:38 LUGANO - di *Alfonso Tuor ________________________________________
*Alfonso
Tuor e' il direttore del Corriere del Ticino, il piu' importante
quotidiano svizzero in lingua italiana.
La tempesta attorno a Citigroup ha
fatto prepotentemente ritornare la paura sui mercati finanziari. La
più grande banca del mondo ha comunicato che le perdite per le
attività collegate con i titoli legati ai mutui subprime si
eleveranno nel solo terzo trimestre di quest’anno a 11 miliardi di
dollari e non a 6 miliardi, come precedentemente annunciato. Non
sorprende che sia caduta la testa di Chuck Prince, il numero uno
della banca americana, che così segue le orme di Stan O’Neal di
Merrill Lynch che negli scorsi giorni aveva annunciato 8 miliardi di
perdite per il solo terzo trimestre.
Queste dimissioni e soprattutto queste perdite miliardarie hanno
rammentato che la crisi scoppiata lo scorso mese d’agosto è lungi
dall’essere conclusa, come politici e banchieri centrali si erano
affrettati ad assicurare. Ha rammentato che in settembre e in
ottobre abbiamo assistito unicamente ad una fase di latenza e che
ora bisogna fare i conti con i numeri, che diventano ogni giorno
peggiori a causa dei continui ribassi degli indici che cercano di
misurare il valore dei titoli collegati ai mutui subprime. E, dato
che le cifre sono «testarde», fanno scempio delle precedenti stime
fornite dalle stesse banche.
Quindi non deve sorprendere l’ampliarsi delle perdite di Citigroup e
di Merrill Lynch. Non deve nemmeno sorprendere che le previsioni per
il futuro sono ancora più nere. Prendiamo l’esempio di UBS (che ha
già annunciato di aver perso 4 miliardi di franchi nel terzo
trimestre) possiede circa 39 miliardi di dollari di titoli legati ai
mutui subprime. Ora, secondo gli analisti di Merrill Lynch, UBS ha
svalutato questi titoli solo del 10%, invece di oltre il 30% come
indica l’indice ABX dei titoli legati al mercato immobiliare.
Secondo questi analisti, se non vi sarà un rialzo del valore di
questi titoli, che nessuno osa prevedere, UBS dovrà contabilizzare
nei prossimi trimestri altri 8 miliardi di dollari di perdite. E
calcoli di questo genere vengono ripetuti in queste ore anche per
molti altri istituti e non solo per quelli bancari.
Cominciano pure
ad emergere le perdite di alcune grandi compagnie di assicurazione
ed è facilmente prevedibile che presto non mancheranno all’appello
anche fondi pensione ed altri hedge funds.
La gravità della crisi è confermata dal fatto che non si è ancora in
grado di fare una stima sul volume complessivo delle somme in gioco.
Infatti la stima delle insolvenze del mercato immobiliare americano
varia dai 100 ai 200 miliardi di dollari. Pur trattandosi di cifre
notevoli, esse sarebbero facilmente «digeribili» dal sistema
finanziario internazionale. Il problema è che le banche hanno
«acquistato» queste ipoteche per piazzarle sul mercato dopo averle
impacchettate in emissioni obbligazionarie, per cui oggi sono in
circolazione, secondo la banca centrale inglese, circa 1300 miliardi
di dollari di titoli legati al mercato immobiliare americano più a
rischio.
Ma la vicenda non è finita, poiché su queste obbligazioni sono stati
creati una miriade di nuovi strumenti finanziari (come i CDO) o sono
state fatte scommesse (credit swap, ecc.). Sommando il tutto, le
cifre diventano imponenti e soprattutto preoccupanti, anche perché è
svanita la speranza delle banche di una ripresa di questo mercato. E
quindi ora siamo al secondo atto (e sicuramente non a quello finale)
della crisi dei mutui subprime.
L’aggravarsi della crisi pone di nuovo in prima linea le banche
centrali e soprattutto la Federal Reserve. La banca centrale
americana, che ha già ridotto i tassi di tre quarti di punto per
attutire gli effetti della crisi, rischia di trovarsi in una
situazione sempre meno confortevole. È spinta, da un canto, a
tagliare nuovamente il costo del denaro dalla crisi bancaria e da
quella del mercato immobiliare. Ma ha, d’altro canto, uno spazio di
manovra che si restringe sempre più, perché nuovi tagli dei tassi
potrebbero provocare una crisi del dollaro dagli effetti
imprevedibili. E la storia ci ricorda che tutte le crisi valutarie
sono precedute dalla fuga dei capitali domestici: è quanto sta
succedendo ora negli Stati Uniti. Secondo una stima della Bank of
America quest’anno il deflusso di capitali dagli Stati Uniti
raggiungerà i 290 miliardi di dollari. Occorre dunque seguire con
attenzione questo secondo atto della crisi dei mutui subprime, che è
destinato a riservarci nuovi clamorosi colpi di scena.
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Fonte - Corriere del Ticino |
Mercoledì
07
novembre 2007 |
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Giovedì
08
novembre 2007 |
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Venerdì
09
novembre 2007 |
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Anche
i ricchi
piangono. Anche a Wall Street
12 Novembre 2007,
di Macromonitor ______________________________________________
La vita per i
padroni dell’Universo a Wall Street è sempre dolce, ma in
questi momenti decisamente meno del solito.
Prima il chief strategist di Lehman Brothers si mette a
comparare la crisi attuale con il 1998 e la caduta di LTCM,
rompendo un tabù e facendo notare come il re sia nudo: i
numeri sono decisamente peggiori nel 2007 che nel 1998,
mentre il panico, per il momento, è ancora contenuto. Nel
frattempo, JPMorgan “ricorda” in una dichiarazione alla SEC
i 40 miliardi di crediti che non riesce proprio a togliersi
dal bilancio.
Per chi si consola pensando ai livelli record degli utili
aziendali, un rapido sguardo all’andamento nell’ultimo
trimestre negli USA evidenzia come i multipli di borsa
vadano analizzati, non soltanto impiegati come feticci: il
mercato non sembra più tanto sottovalutato, dopo una caduta
del denominatore del P/E (gli earnings) del 20 per cento
Dulcis in fundo, la caduta degli dei: per la prima volta a
memoria d’uomo, Blackstone Group, leggendario operatore nel
private equity, ha riportato una perdita netta e risultati
al di sotto delle aspettative, a causa del calo dei prezzi
dell’immobiliare. Si trattava anche del primo set di
risultati dopo lo sbarco in Borsa e la domanda sorge
spontanea: pura coincidenza? O, peggio, la trasparenza resa
necessaria dalla quotazione ha svelato angoli oscuri del
bilancio? Più probabilmente, l’ennesima conferma dell’ottimo
fiuto di Stephen Schwarzman, padre-padrone di Blackstone,
che ha quotato la propria creatura e quindi monetizzato il
lavoro di una vita proprio al picco del ciclo. Una ferita
all’orgoglio, attutita dal minor danno al portafoglio.
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Giavazzi:
crisi di illiquidità
simile a quella prima del 1914
12 Novembre 2007,
di ANSA ______________________________________________
L'operato delle
banche centrali per risolvere il problema di liquidità è
stata come un'aspirina che ha alleviato i sintomi del malore
ma che non è riuscita nell'intento di risolvere alla radice
il problema. Sulla crisi di liquidità che sta colpendo i
mercati è intervenuto oggi Francesco Giavazzi, professore di
economia politica dell'Università Bocconi, dicendo la sua
nel corso della conferenza "analisi e conseguenze della
crisi dei mutui subprime sui mercati immobiliari e
finanziari" tenutasi a Milano.
"L'iniezione continua di
liquidità da parte delle banche centrali si è scontrata con
il problema di diffondere tale liquidità nel sistema visto
che solo alcune banche d'affari presentano i requisiti
adatti per svolgere tale ruolo", ha spiegato Giavazzi,
rimarcando come il problema di base sta nella
difficoltà a
dare un valore agli assets a rischio che la crisi subprime
ha messo al tappeto. "Prezzarli è diventato quasi
impossibile e inoltre non si ha informazione precisa su dove
sono e su chi possiede tali asset", rimarca
Giavazzi che ha
paragonato l'attuale crisi a quella che ha preceduto lo
scoppio della prima guerra mondiale. "Si arrivò al 1914 sottovalutanto del tutto il rischio politico che incombeva
sui mercati e si arrivo a una crisi di illiquidità - ha
rimarcato il visiting professor del MIT -, mentre oggi si è
sottovalutato enormemente il rischio insito nei mercati
stessi con lo spostamento del rischio dalle banche verso
strumenti rischiosi come quelli legati ad attività
immobiliari ad alto rischio".
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Fasten
Your Seatbelt
13 Novembre 2007,
by Charles Dexter Ward
- Macromonitor ______________________________________________
Alla fine la grande
abbuffata della liquidità sembra volger alla fine; le
lancette dell’orologio che regolano i cicli del credito
hanno segnato la mezzanotte, la carrozza è tornata ad esser
una zucca e i bond High Yield sembran esser tornati ad esser
spazzatura. Ma è davvero così? Beh, sicuramente il violento
allargamento degli spread segnala un evidente aumento del
premio richiesto per detenere attività rischiose in
portafoglio.
Ma francamente ci si dovrebbe stupire del contrario se si
tiene conto del ciclone che ha investito i mercati mondiali
e dei livelli a cui è scambiata la carta senior di primarie
banche mondiali.
Tutto sommato in un mondo dove il titolo Merril Lynch perde
da inizio anno quasi il 50%, seguita a ruota dalle varie
Barclays, Citigroup e RBS, vedere l’indice iTraxx Crossover
scambiare a 380 punti base non dovrebbe poi sorprender più
di tanto. Anzi, la tenuta delle obbligazioni ad alto
rendimento appare quasi sorprendente alla luce della fase di
crisi acuta in cui sembra esser piombata l’economia
americana e quindi le borse mondiali. Come sempre accade in
momenti di elevata volatilità la correlazione tra i
movimenti dei listini azionari e l’andamento degli spread è
tornata ad esser altissima, con l’indice Crossover che si è
dimostrato ben più liquido e volatile dei cash bond , tanto
da venir scherzosamente rinominato Yo-Yover. La mancanza di
nuova carta in offerta a causa di un mercato primario,
almeno nel vecchio continente, completamente paralizzato, ha
offerto un minimo di supporto ai cash bond sul secondario.
Gli scambi sono comunque ridotti al lumicino in un mercato
molto nervoso dove il bid-offer spread continua ad aumentare
a sottolineare la bassa propensione degli operatori a
prender rischi di mercato.
In questo contesto suona anacronistica e quasi beffarda
l’ultima rilevazione di Moody’s sul tasso di default che ad
ottobre ha toccato un minimo di 1.1% : del resto se è
evidente che il tasso di default è inevitabilmente destinato
a salire, la velocità e i tempi in cui questo avverrà sono
molto meno chiari. Prima di lanciarsi in previsioni
sull’andamento del tasso di default bisogna infatti
interrogarsi sull’entità dell’impatto che la crisi del
subprime avrà sull’ economia reale. Da li poi va verificato
il meccanismo di trasmissione che dovrà tradurre l’ormai
scontato rallentamento economico sui bilanci e
l’affidabilità creditizia delle singole aziende.
E a questo punto diviene essenziale rifletter su due punti
che spingono in direzioni opposte: nel momento della grande
abbuffata di liquidità, di credito facile per tutti e spread
incredibilmente bassi, sono state finanziate tutta una serie
di operazioni caratterizzate da strutture finanziarie molto
aggressive e con business plan calcolati proiettando
nell’immediato futuro condizioni economiche difficilmente
realizzabili alla luce del mutato scenario. Del resto non
scopriamo nulla di nuovo se ricordiamo come negli ultimi due
anni le emissioni di bond caratterizzati da un rating
estremamente basso ( B- o inferiore) hanno fatto registrare
volumi record. Per definizione questa tipologia di titoli
sono quelli che incorporano i più alti rischi di default in
un arco di tempo in cui il picco di criticità è storicamente
raggiunto nei primi tre anni dal lancio dell’operazione.
Sul fronte diametralmente opposto va altresì ricordato
tuttavia che proprio l’abbondante liquidità e l’agevole
accesso al credito hanno permesso a moltissime società
solide di rifinaziare il proprio debito coprendo le esigenze
di liquidità per il breve e medio termine; implicitamente
quindi queste aziende si presentano all’appuntamento con un
rallentamento del ciclo con le spalle più larghe e con una
situazione finanziaria piuttosto solida.
Una cosa è certa: dopo un lunghissimo periodo di calma
piatta i Junk Bond sono tornati a volare sulle montagne
russe, facendo onore alla loro vera natura di titoli
speculativi. Fasten Your Seat Belt…
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Lo
tsunami
della liquidità
e la
politica del denaro facile
13 Novembre 2007
04:10 ROMA - di Marcello De Cecco ________________________________________
Cheng Siwei, vice presidente del
Congresso Nazionale del popolo cinese, ha dichiarato giovedì scorso
che il governo cinese dovrebbe diversificare le sue riserve di
valuta estera comprando valute più forti (del dollaro, si suppone).
Per i mercati le sue parole hanno costituito un altro buon motivo
per vendere dollari. Alle parole del dignitario cinese si sono
aggiunte quelle di poco precedenti di Merwyn King, governatore della
Banca d’Inghilterra e quelle di Randy Krozner, membro del consiglio
di governo della Federal Reserve. Entrambi hanno detto che la
soluzione del problema dei ‘subprime loans’ richiederà tempo.
E Krozner ha aggiunto che esso peggiorerà prima di migliorare. Chen
Siwei auspica che si faccia quel che le autorità cinesi stanno
facendo ormai da cinque anni, almeno se crediamo alle statistiche
fornite dalla Deutsche Bank sulla consistenza e la composizione
delle riserve valutarie delle banche centrali.
Dopo un picco della
quota in dollari del 70 per cento del totale, toccato nel 2002,
infatti, le riserve ufficiali cinesi sono ora composte solo per
circa il 45 per cento da dollari.
Poiché nel frattempo esse sono enormemente cresciute, c’è stato
spazio anche per grandi acquisti di dollari. Ma gli acquisti di
altre valute sono stati assai maggiori, onde il calo della quota dei
dollari. Il dollaro, secondo i consueti calcoli basati sulla teoria
delle parità dei poteri di acquisto, è ormai sottovalutato, alcuni
credono addirittura del 15 per cento verso le monete dei paesi che
commerciano con gli Stati Uniti. E fortemente sopravvalutato è di
conseguenza l’euro, la principale moneta con la quale si scambia
oggi il dollaro sui mercati dei cambi esteri. Questo certo non basta
a dire con sicurezza che sia ormai la speculazione, più che le
condizioni economiche di base, a guidare i mercati. Ma è una coppia
di numeri, quella appena citata, abbastanza persuasiva.
Eppure, una considerazione un po’ semplicistica ma non irragionevole
riguarda il confronto tra tassi di riferimento della FED e della
BCE. Quello della Fed è superiore a quello della BCE, il 4.50 per
cento contro il 4 per cento. Ciononostante, gli operatori continuano
a vendere dollari e comprare euro. Potenza delle aspettative, che
ritengono le scorte più importanti dei flussi, in queste faccende e
in queste congiunture. Si teme l’effetto valanga di un rovesciarsi
sul mercato di enormi quantità di dollari provenienti dalle riserve
ufficiali dei paesi che li detengono e le parole di Cheng Siwei sono
state come petrolio sul fuoco.
Poco vale notare che il deficit delle
partite correnti americane ha cominciato a scendere, dal massimo
toccato nel recente passato. Né gli operatori si soffermano a
considerare che questa inversione dei conti esteri americani è
dovuta assai più a un drastico rallentamento delle importazioni che
ad un aumento delle esportazioni USA. Questo fenomeno è destinato a
continuare per quanto durerà la debolezza della domanda negli Stati
Uniti.
Qualche giorno fa Ben Bernanke è tornato, in un suo discorso, alla
sua nota diagnosi delle cause del disequilibrio globale, che dà alla
forte propensione al risparmio dei paesi emergenti, in particolare
asiatici, la responsabilità maggiore degli stessi squilibri. Egli
afferma, e non si può disconoscere il valore al suo ragionamento,
che tali paesi hanno mostrato, negli ultimi dieci anni, una forte
volontà di costituirsi un cospicuo cuscino di riserve in valuta,
sufficiente ad assorbire le oscillazioni cicliche e gli attacchi
speculativi, memori dei traumi del 1997-98.
Questo non vale per il Giappone, che non si trovò mai privo di
munizioni per difendere il cambio, né vale per la Cina, che non ha
mai abbassato le difese rappresentate dai controlli valutari e che
ha passato da tempo i limiti di una accumulazione solo prudenziale
di riserve. Cina e Giappone, sembra dire Bernanke, hanno problemi di
domanda interna, più precisamente di domanda interna di beni di
consumo. Continuano a destinare risorse enormi agli investimenti
fissi, trovandosi costantemente in condizioni di eccesso di capacità
produttiva. Se non fosse per la dinamica dei prezzi del petrolio e
delle altre materie prime, resterebbero in condizioni endemiche di
deflazione dei prezzi.
Bernanke fa notare come si parli sempre del deficit dei conti
correnti USA, che oscilla tra il 6 e il 7 per cento del PIL , e
quasi mai del surplus cinese, che è del 9,5 per cento del Pil, o di
quello giapponese, che è attorno al 7 per cento. Sono indici di
squilibrio altrettanto gravi, egli dice, di quello di segno
contrario americano. E in simile e talvolta maggiore surplus si
trovano gli altri paesi asiatici, come la Corea, la Malesia, Taiwan
, Singapore, Hong Kong (e quel paese asiatico onorario, aggiungiamo
noi, che è la Germania). Difficile, in realtà, è sostenere che il
deficit americano è volontario e il surplus degli altri paesi è
invece una conseguenza del primo. Nessuno impedisce ai paesi in
surplus di rivalutare le proprie monete o di costituirsi, pagando
con le riserve che hanno, giganteschi assi patrimoniali all’estero.
Lo fanno da anni i paesi produttori di petrolio.
Sulla scorta di quanto accadde nelle due grandi rivalutazioni dello
yen, negli anni Settanta e Ottanta, possiamo tuttavia temere che una
rivalutazione dello yuan non servirebbe a spegnere la capacità
esportativa cinese, ma solo ad esacerbare i problemi derivanti dagli
acquisti di beni patrimoniali e di imprese produttive all’estero da
parte di Pechino. Quel che Bernanke non dice, perché significherebbe
sconfessare il suo predecessore alla Fed e anche la propria recente
svolta di politica monetaria, di nuovo orientata al ribasso dei
tassi, è che alla base degli squilibri globali è quasi certamente la
creazione eccessiva di liquidità che dura ormai dal 1995, con brevi
anche se drammatiche, interruzioni.
In questa assai poco comune alluvione monetaria, coadiuvata e
ulteriormente accresciuta dalla creazione monetaria da parte delle
banche commerciali, la Fed ha avuto imitatori importanti e convinti
nella Banca del Giappone, nella Banca Popolare della Cina e anche in
altre banche centrali, con la BCE assai meno convinta ed
essenzialmente renitente a seguire l’esempio americano. Tutti
insieme, questi guardiani hanno aperto le porte della stalla, solo
svogliatamente e brevemente, cercando di richiuderle dopo che i buoi
erano scappati, e riaprendole poi rapidamente al primo segno di
raffreddamento delle economie nazionali.
Nelle condizioni di estrema liberalità monetaria e finanziaria che
si sono dunque create e che persistono ormai dal 1995, si è generata
la più grande inflazione dei profitti da molti decenni e una ancora
maggiore inflazione dei prezzi dei beni patrimoniali. Ne è seguita
una grandiosa controrivoluzione sociale i cui effetti sono ormai
chiari a tutti, che ha visto ridursi le distanze di reddito tra
paesi e ampliarsi quelle all’interno dei paesi, e andare in crisi
modelli di fiscalità e di previdenza e assistenza sociale elaborati
nel corso di molti decenni. Ma chi ha convinto e indotto le banche
centrali a comportarsi, tutte insieme, così? Questo è un indovinello
di assai più difficile soluzione.
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Fonte - La Repubblica |
Sabato
03
novembre 2007 |
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Sabato
10
novembre 2007 |
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Sabato
17
novembre 2007 |
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Subprime:
la componente talebana
del mercato vuole sangue, più che la verità
18 Novembre 2007
21:44 MILANO - di *Alessandro Fugnoli
*Questo
documento e' stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist di
Abaxbank ________________________________________
Come in Rashomon, ci sono molte
verità sulla crisi dei mutui americani. Bisogna cercare di
conoscerle tutte, bisogna prenderle sul serio tutte e, alla fine, si
dovrà comunque riconoscere che queste verità sono solo ipotesi.
C’è
la verità dei fotografi, per i quali a essere in default sono in
questo momento solo il 18 per cento dei mutui subprime concessi nel
2006. Continuano invece a performare regolarmente, oltre all’82 per
cento dei subprime del 2006, quasi tutti i subprime degli anni
precedenti, quelli del 2007 (concessi con standard rigorosi) e quasi
tutti i non subprime.
C’è poi la verità degli statistici. Il loro lavoro consiste nel
prendere le serie storiche sui default e incrociarle con le
previsioni sull’andamento dei tassi e quello dell’economia. Il tutto
serve ad arrivare a una previsione sui default nel prossimo periodo.
Gli statistici, ovviamente, valutano i subprime meno dei fotografi.
Arrivano poi gli economisti. Per loro la verità degli statistici è
incompleta perché sottovaluta gli aspetti sistemici. I mutui
concessi negli ultimi anni sono molti di più, in rapporto al Pil,
rispetto ai cicli precedenti.
In realtà è l’intero indebitamento delle famiglie, non solo in
America ma anche in Europa e Asia, ad essere a livelli storicamente
molto alti. Questo significa che la capacità complessiva di pagare i
mutui è più bassa di quella che appare dai modelli. Oltre che
allargare il discorso a tutto il credito al consumo, gli economisti
vedono anche le retroazioni della crisi dei mutui sulla crescita,
con un effetto di avvitamento. Gli economisti sono dunque portati a
valutare i subprime meno degli statistici.
Ancora più cupa è la
verità dei mercati. La loro valutazione attuale degli strumenti che
contengono mutui assume implicitamente un tasso di default
sull’annata 2006 compreso tra il 40 e il 50 per cento e proietta
ombre inquietanti anche sulle altre annate e sui mutui non subprime.
Dalle quattro verità di Rashomon 1 (I Mutui) prende l’avvio Rashomon
2 (Le Banche). La verità delle banche su se stesse è che le
svalutazioni del terzo trimestre e quelle preannunciate del quarto
riflettono ormai nella loro quasi completezza i danni a oggi. Certo,
un deterioramento ulteriore del mercato potrebbe produrre danni
ulteriori. Se però le svalutazioni, come è stato finora,
continueranno ad avvenire in un contesto di cash flow fortemente
positivo i dividendi saranno garantiti. Quanto all’erosione del Tier
1, tranne poche eccezioni, si resterà comunque al di sopra dei
minimi di Basilea. Non occorreranno ricapitalizzazioni su larga
scala e spesso sarà sufficiente sospendere i buy back per riportarsi
su livelli di capitalizzazione più che adeguati.
La verità degli economisti è che le banche, nel presentarsi al di
sopra di ogni sospetto, sembrano non tenere conto del fatto che i
prezzi delle case scenderanno ancora (e a lungo), che i tassi sui
mutui hanno appena iniziato a salire (l’adeguamento è molto lento e
i ribassi dei tassi di policy da agosto in qua si rifletteranno sui
mutui solo a partire dalla fine del 2008) e che i default
continueranno ad aumentare. C’ è poi la verità dei fautori del mark
to market, quelli che invocano la trasparenza tutta e subito, senza
se e senza ma. Molti sono animati da buone intenzioni e vedono con
favore l’arrivo di due norme (la Fasb 157 negli Stati Uniti e
Basilea 2 in tutto il mondo) che
imporranno alle banche di valutare
i cosiddetti asset di livello 3 (quelli meno liquidi) a prezzi di
mercato.
Tra i fautori dal mark to market c’è però anche una componente
talebana che dalle banche vuole sangue, più che verità. Alcuni blog
talebani assumono che l’intero livello 3 sia composto da mutui, che
la componente di Cdo tripla A sia avviata a valere zero e che
l’azzeramento del livello 3 comporta per molte banche d’investimento
di Wall Street e per alcune grandi banche l’azzeramento completo
dell’equity.
Il sequel di Rashomon 2 (Le Banche) è intitolato Rashomon 3
(L’Economia Globale). Anche qui sono disponibili molte verità. C’è
la verità ufficiale, quella del Fondo Monetario e dei policy maker.
Il Fondo non ha ancora ritoccato la sua stima (che risale al 30
settembre) di una crescita globale ancora molto alta (il 4.8 per
cento) per il 2008. C’è una verità ufficiosa, per cui le stime
ufficiali vengono presentate come lo scenario base, a fianco del
quale sono presenti scenari alternativi possibili che includono più
inflazione, meno crescita e la difficoltà per Asia ed Europa di
evitare il contagio dall’America.
Ci sono poi scenari più spiccatamente negativi, che stanno portando
alcune case (in particolare Morgan Stanley) a parlare di esiti
recessivi del rallentamento in corso e di fine del bull market
azionario. Abbiamo voluto passare in rassegna le principali tesi che
si confrontano per dare un’idea della straordinaria complessità di
questa fase. Partendo dai mutui si può arrivare, attraverso passaggi
successivi e assunzioni diverse, a esiti opposti.
In pratica non c’è
più un consenso. L’aumento dell’incertezza, di per sè, comporta per
l’investitore razionale una riduzione del profilo di rischio. In
questo momento, tuttavia, ci sembra prematuro parlare di fine
dell’espansione globale.
Intanto, partendo da una fotografia dell’esistente, vediamo che il
terzo trimestre ha visto una crescita brillantissima (con le stime
iniziali riviste tutte al rialzo) in Asia (Giappone incluso), Europa
e Stati Uniti.. Un terzo trimestre così luminoso farà sembrare opaco
il quarto trimestre, per il quale sono già evidenti i segnali di
diminuzione delle scorte. Opaco, ma non negativo.
Sulla questione dei mutui è bene partire dall’idea che la situazione
continuerà a deteriorarsi. Il valore di mercato di questi mutui,
tuttavia, sembra già incorporare questo deterioramento. Questo non
significa necessariamente che sia un affare comprarli (anche se si
moltiplicano i nuovi fondi che si prefiggono di raccogliere quello
che le banche buttano via), perché l’over-shooting verso il basso
dei loro prezzi è una possibilità molto concreta. Sulle banche,
tuttavia, si può provare, molto grosso modo, a essere neutrali. Su
questo è centrale la velocità di dispiegamento della crisi. I
pessimisti tendono a collassare gli eventi in un "qui e ora", ma se
si riesce a rallentare i tempi e a distribuire gli effetti nell’arco
di qualche trimestre si dà modo agli anticorpi di agire.
Per prima cosa va chiarito che il livello 3 tanto chiacchierato in
questi giorni non include solo mutui pessimi, ma comprende anche
mutui buoni, real estate e private equity, tanto per fare degli
esempi. Quanto al mark to market, va ricordato che agisce nelle due
direzioni. Certe rivalutazioni (si pensi alle partecipazioni in
banche cinesi finora valutate al costo) possono anche essere
superiori alle svalutazioni.
Bisogna poi considerare che le vigilanze delle banche centrali
cercheranno presumibilmente di evitare che il rispetto feroce delle
regole contabili comporti il collasso di parti del sistema bancario.
Potranno ad esempio accettare la riclassificazione di alcuni asset
come investimenti di lungo termine in cambio, ad esempio, di piani
di ricapitalizzazione che includano la sospensione dei buy back e
qualche iniezione di capitale fresco.
Si pensi anche al fatto che
alcune classi di asset per le quali i mercati si sono strappati i
capelli in agosto (i 400 miliardi di Cdo, i finanziamenti per le
operazioni di Lbo, di cui le banche hanno dovuto improvvisamente
farsi carico) stanno in realtà rendendo bene (hanno spread ricchi e,
in assenza di recessione, limitato rischio di default) e stanno
risalendo di prezzo, tanto che potremmo perfino vedere delle
rivalutazioni nelle prossime trimestrali.
Si consideri poi che molti strumenti tra i più discussi, a partire
dai Siv, sono in via di ridimensionamento, mentre quello che rimane
viene gradualmente messo a bilancio. Quanto ad altri tipi di asset,
come i prestiti auto o quelli per le carte di credito, non si è
(ancora?) verificata quell’impennata di default paventata da più
parti. I prestiti alle imprese, dal canto loro, hanno visto un
irrigidimento dei criteri di erogazione, ma questo è eventualmente
più un problema per le imprese che per le banche.
E qui veniamo alle considerazioni sull’economia globale. Non ci
possono essere dubbi sul fatto che il credit crunch, per quanto per
il momento non devastante, rallenterà la crescita.
Anche qui,
tuttavia, è una questione di tempi della crisi. Per qualche mese si
può ipotizzare che molte imprese, che in generale si trovano ancora
piuttosto liquide, faranno ricorso alla propria cassa.
In
prospettiva sarà invece decisivo che i mercati, normalizzandosi,
trovino la forza di tornare a fornire loro quei capitali che le
banche, ora ingolfate, non possono più mettere a disposizione.
Le politiche monetarie, ovviamente, saranno decisive. Si manterranno
prudentemente espansive e compenseranno i tagli (in America e UK) e
i mancati rialzi dei tassi (in Europa e Giappone) da una parte con
una retorica moderatamente dura dall’altra. In America la Fed
continuerà a dire che non taglierà più (come ha detto da agosto a
oggi, salvo avere già tagliato di 75 punti base), mentre in Europa
la Bce continuerà a esercitare la sua vigilanza sui prezzi e a
riservarsi aumenti dei tassi che non realizzerà.
Per quanto riguarda le borse, esprimendoci con il linguaggio dei
policy maker, potremmo dire che, viste nella prospettiva dei
prossimi mesi, si trovano in equilibrio come scenario di base, ma
con rischi sbilanciati verso il basso. Tradotto in italiano
significa che è meglio non stare sovrappesati, mantenersi di norma
neutrali, alleggerire qualcosa nell’ipotesi di un rally di fine anno
e sfruttare la volatilità per abbassare i prezzi di carico.
Un’economia globale in crescita moderata dovrebbe bastare a
supportare i mercati, visti i livelli ragionevoli delle valutazioni.
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Fonte - Il Rosso e il Nero, settimanale
di strategia di Abaxbank |
La
deriva pericolosa
22 Novembre 2007,
di MiaEconomia _______________________________
Altro che galoppo,
si tratta di una corsa sfrenata: il mercato dei derivati
negli ultimi tre anni, dal 2004 alla metà di giugno 2007, ha
segnato un +135% attestandosi a 516.000 miliardi di dollari.
E solo nei primi sei mesi del 2007, complice la crisi sui
mercati finanziari, la crescita è stata del 25%.
Questa è la fotografia fatta dalla Banca dei Regolamenti
Internazionali (Bri), la banca delle banche centrali,
nell'indagine triennale e semiannuale dedicata proprio ai
derivati.
Dal 2004 ad oggi la crescita annua media è stata del 33%.
Più basso, invece, il tasso di crescita del valore lordo di
mercato salito del 74% a 11.000 miliardi di dollari.
Ad aumentare sono state tutte le categorie di rischio, anche
se la performance migliore l'hanno messa a segno i derivati
sui crediti, il cui ammontare alla fine di giugno 2007 è
risultato pari a 51.000 miliardi di dollari, a fronte dei
4.474 miliardi del giugno 2004.
I dati diffusi dalla Bri confermano comunque che i derivati
sui tassi restano uno degli strumenti principali di mercato
dei derivati over-the-counter (Otc): le posizioni aperte su
questo tipo di strumenti, infatti, ammontano a fine giugno a
389.000 miliardi di dollari, più del doppio di quanto
registrato nel 2004.
I derivati sui tassi rappresentano il 75% del totale valore
nozionale e circa il 60% del totale valore lordo di mercato.
Solo per quanto riguarda i primi sei mesi del 2007, il
valore nozionale dei contratti sui derivati (cioé il valore
complessivo delle valute, delle merci e delle azioni
sottostanti ai derivati) è salito del 25%, contro il +12%
registrato nella seconda metà del 2006.
A mettere il turbo ai derivati sono state le turbolenze sui
mercati finanziari. Nella prima parte del 2007 il valore
lordo di mercato dei derivati è salito del 15%, mentre
l'esposizione lorda è aumentata del 31% a 2,7 trilioni di
dollari. Il tasso di "crescita dell'ammontare dei derivati è
aumentato nella prima metà del 2007, prioritariamente in
seguito alle turbolenze che hanno colpito i mercati
finanziari" afferma la Bri nell'indagine.
L'incremento ha riguardato tutte le categorie di rischio,
anche se il segmento dei derivati su crediti ha superato
quello delle altre categorie. I contratti derivati sui cambi
sono saliti, nei primi sei mesi del 2007, del 21%
attestandosi a 49.000 miliardi di dollari (+6% nella seconda
metà del 2006).
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Lo
spettro del
default
22 Novembre 2007,
di MiaEconomia _______________________________
Altro che sinistri
scricchiolii, il sistema bancario sembra essere scosso da
tremori che si fanno man mano più sonori. Questa volta il
segnale di allarme sul fronte dei mutui subprime lo lancia
dagli Usa il segretario Henry Paulson, che mette in guardia
sul potenziale delle insolvenze 2008. Secondo Pauolson,
stimando un trend di crescita, il rischio che gli istituti
di credito mondiali non rimborsino le proprie obbligazioni
non è mai stato così alto nella percezione del mercato.
E come se non bastasse dall'Ocse arriva la stima di
potenziali perdite tra i 200 ed i 300 miliardi di dollari
per l'effetto domino dei subprime sull'economia ed il
mercato immobiliare. Senza contare i possibili effetti sui
mercati azionari, avverte Parigi.
E la giornata di mercoledì, con le borse mondiali ancora
sommerse dalle vendite e il petrolio ad un soffio dai 100
dollari al barile, è un altro segnale preoccupante, che va
nella stessa direzione dell'allarme lanciato da Paulson che
ha spiegato, in un'intervista al Wsj on line, come gli Stati
Uniti siano ancora nel pieno del ciclone mutui.
Il numero delle potenziali insolvenze "sarà decisamente più
alto" nel 2008 rispetto a quest'anno, ha detto sottolineando
che "sta incoraggiando energeticamente" banche e società che
erogano mutui a definire criteri e modalità in grado di
aiutare celermente i clienti in difficoltà.
Mercati che rimangono comunque molto preoccupati: il Markit
iTraxx Finanzial Index - l'indice benchmark che sintetizza
l'andamento dei credit-default swap con cui gli investitori
si proteggono dal rischio d'insolvenza da parte di banche e
assicurazioni - è infatti salito di cinque punti base a 62
punti, livello mai toccato dall'inizio delle contrattazioni
nel 2004.
|
Credit
Crunch:
chi, come,
quando, perché e cosa accadrà in futuro
23 Novembre 2007
01:16 SIENA - di *Antonio Cesarano ________________________________________
*Antonio
Cesarano e' Head of Market Strategy di MPS Capital Services.
L’andamento dei mercati degli
ultimi giorni sta riproponendo il tema (crisi del credito) che
sembrava essere parzialmente rientrato nel mese di ottobre. Di
seguito riportiamo una sintetica ricostruzione di quanto accaduto
cercando di rendere quanto più chiara possibile la trasmissione
delle turbolenze sul mercato dei mutui a quelle sui mercati
finanziari. Per chi non volesse addentrarsi troppo in dettagli può
saltare la parte seguente indicata in corsivo.
La storia degli ultimi tre mesi
Tra luglio ed agosto emerge in modo forte il timore di rischi nel
comparto mutui Usa parallelamente al ridimensionamento delle
negoziazioni e dei prezzi nel settore immobiliare.
Inizialmente
l’attenzione era concentrata soprattutto sulla componente reale (i
mutui appunto) mentre man mano è emerso in tutta la sua grandezza il
problema dal lato finanziario causato dai titoli aventi come
sottostanti i mutui come nel caso dei c.d. CDO. Successivamente è
risultato più chiaro come tali titoli fossero nelle mani di veicoli
finanziari esterni ai bilanci delle banche ma a questi ricollegati
tramite le cospicue linee di credito erogate. Un meccanismo pertanto
piuttosto complesso che in ultima analisi ha fatto perno su
un’assunzione piuttosto semplice quanto fragile e cioè che gli
investitori continuassero ad avere fiducia nella solvibilità delle
attività sottostanti a tali titoli, rassicurati spesso anche dagli
elevati livelli di rating forniti dalle principali agenzie mondiali.
I veicoli lucravano il differenziale tra il tasso offerto da tali
titoli ed il costo del finanziamento spuntato emettendo titoli a
breve termine, le c.d. commercial paper. Ad un certo punto si è
avuto però un effetto dominio: crisi del settore immobiliare con
calo dei prezzi e delle negoziazioni, minore percezione di
solvibilità dei mutuatari, maggior rischio percepito sui titoli
aventi come sottostanti i mutui ed infine drastico calo degli
investitori disposti ad acquistare le commercial paper a loro volta
utilizzate per il parallelo acquisto di Cdo.
Come ormai è ben noto, tutte le banche centrali (compresa per ultima
la riottosa Bank of England) hanno provveduto a cospicue iniezioni
di liquidità, memori dell’esperienza del ’29: inutile in questi casi
farsi prendere da considerazioni moralistiche quando è in
discussione il cuore del sistema finanziario mondiale.
La reazione
delle banche centrali è stata proporzionale alla presa d’atto degli ammontari in gioco. Poco alla volta si è avuto una percezione
tangibile del rischio, nel momento in cui anche poco dopo la
presentazione delle trimestrali diverse banche, soprattutto Usa,
hanno evidenziato svalutazioni per decine di miliardi di Dollari
fino ad arrivare alle dimissioni eccellenti dell’ad di Merrill Lynch
e Citigroup. Spulciando all’interno dei dati trimestrali forniti
alla Sec, è emerso quanto fossero elevate le poste di bilancio
iscritte in corrispondenza del c.d. livello 3, ossia quello
corrispondente alle attività finanziarie valutate a modello e quindi
sulla base di criteri fortemente soggettivi e di conseguenza
suscettibili di svalutazioni.
La sola Citigroup (la banca più grande
al mondo per totale di attivo di bilancio) ha ricompresso in tale
categoria ben 134Mld$. Un valore non da poco conto se si considera
che la stessa Citigroup capitalizza al momento circa 150Mld$.
In poche parole, la forte creazione di liquidità avvenuta in
passato, almeno quella collegata alla parte meramente finanziaria, è
evaporata creando difficoltà di rifinanziamento da parte degli
stessi attori finanziari che stentano a ritrovare fiducia l’un
l’altro. Chi ha liquidità preferisce investirla in titoli di stato a
breve piuttosto che reimmetterla nel circuito del mercato monetario
che risulterebbe sulla carta ben più remunerativo.
Ad un certo punto però vi sono stati segnali di minor tensione. I
tassi su mercato monetario gradualmente sono calati, pur rimanendo
sempre elevati in assoluto.
A favorire tale andamento hanno
contribuito probabilmente le emissioni effettuate dal settore
bancario che hanno liberato un po’ di “traffico” eccessivo sul
mercato monetario. Vista la dimensione globale del fenomeno è lecito
ipotizzare che siano intervenute le banche centrali in chiave di moral suasion invitando gli attori finanziari ad effettuare
emissioni al fine appunto di evitare di intasare eccessivamente il
circuito monetario. Tali emissioni sono risultate ben più costose
rispetto a solo qualche mese fa ma in cambio il sistema finanziario
ha cercato di ottenerne un ritorno più celere al normale
funzionamento dei mercati monetari.
Perché tutta questa preoccupazione di normalizzare il mercato
monetario? I motivi sono essenzialmente due: 1) la permanenza di
tassi a breve su livelli molto elevati tende ad incidere
notevolmente sui mutuatari a tasso variabile. In altri termini
aumenta la rata e di conseguenza diminuisce la quota di reddito da
destinare ai consumi con impatti negativi sulla crescita; 2) la
difficoltà nel reperimento di fondi da parte del sistema bancario in
ultima analisi può tradursi in una riduzione del credito erogato
oltre all’irrigidimento dei criteri stessi di erogazione.
Anche per
tale via l’impatto sulla crescita sarebbe negativo, anzi si
tratterebbe forse del rischio più elevato il cui rientro
richiederebbe diverso tempo.
L’entità della gravità della situazione sul mercato del credito è
stata testimoniata dal fatto che tra settembre ed ottobre si sono
mosse le principali autorità Usa (governative e monetarie) per
cercare di trovare una soluzione al problema.
Quali soluzioni sono state elaborate?
1. il governo si è dichiarato disposto a sponsorizzare un superfondo
avente l’obiettivo di ricomprare i titoli aventi come sottostanti i
mutui finanziandoli mediante l’emissione di commercial paper. In
altri termini lo stesso identico meccanismo utilizzato dai veicoli
finanziari con la rilevante differenza che in questo caso il veicolo
(chiamato MLEC, acronimo di Master Liquidity Enhancement Conduit)
beneficia della citata sponsorizzazione dello stato e delle linee di
credito delle principali banche mondiali. In prima battuta hanno
manifestato l’intenzione a far partire il fondo JPMorgan, Bank Of
America e Citigroup per un ammontare di circa 80Mld$;
2) la Fed nella persona di Bernanke si è dichiarato favorevole
all’ipotesi di vendita dei mutui c.d. jumbo alle due agenzie sui
mutui Fannie Mae e Freddie Mac, previa però in questo caso garanzia
(e non più solo sponsorizzazione) dello stato, necessaria per
modificare l’attuale limite posto a 417.000$ nell’importo massimo
acquistabile di ciascun mutuo. Una legge in tale direzione è stata
già approvata dalla camera ed è in attesa del passaggio in senato.
Come si può vedere le autorità Usa hanno pensato ad una soluzione
che poggia su due fattori: la parte finanziaria (CDO ecc.) viene
gestita da una nuova entità mentre la parte reale (i mutui) viene
portata in carico ai pluridecennali Fannie Mae e Freddie Mac.
Entrambe le soluzioni stanno riscontrando ostacoli. Nel caso del
superfondo il principale punto è il valore di trasferimento dei
titoli. Per superare tale obiezione soprattutto le banche Usa hanno
dato luogo ad una serie di svalutazioni di portafoglio che hanno
comportato dimissioni eccellenti. Come prima citato il rischio è che
ancora non si sia toccato il fondo visto l’enorme ammontare iscritto
nel c.d. livello tre.
La seconda soluzione invece sta incontrando difficoltà dopo che le
due agenzie hanno esplicitato perdite trimestrali per oltre 3Mld$ al
punto che Freddie Mac potrebbe essere costretta ad un aumento di
capitale di ben 6Mld$, non poco per una società che al momento ne
capitalizza circa 17. In altri termini risulta alquanto ostico
immaginare che le due agenzie possano farsi carico dei mutui c.d.
jumbo in un momento in cui versano già in difficoltà finanziarie.
L’organismo di controllo (il c.d. Ofheo) ha dichiarato che a
febbraio prenderà in esame anche l’ipotesi di eliminare i requisiti
minimi più stringenti sul capitale imposti solo poco tempo fa, onde
evitare che le due agenzie si trovino costrette a continui aumenti
di capitale.
Ciò nonostante il ministro del Tesoro Paulson sembra essere
determinato a supportare anche questa seconda soluzione dichiarando
che le due agenzie devono rivestire un ruolo più ampio nel settore
immobiliare, rispondendo alle critiche in questo modo: “this is not
business as usual. This is an extraordinary situation”.
In altri termini la mano governativa e più in particolare di figure
provenienti direttamente dal mondo della finanza (Paulson è un ex
figura di spicco di Goldman Sachs) sta assumendo un ruolo chiave
nella risoluzione della crisi in atto. Anche la Fed sembra
attrezzarsi in questa direzione. Il nuovo presidente della Fed di
New York (membro votante permanente all’interno del Fomc) a partire
dal 2008 sarà Stephen Friedman, ex presidente di Godman Sachs nel
periodo 1990-1994.
A capo della Fed di Chicago ci sarà invece John Canning, fondatore e
presidente del fondo di private equity Madison Dearborn Partners.
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La ricostruzione sintetica degli ultimi tre mesi evidenzia come un
fenomeno reale (la crisi immobiliare) si sia trasferito al settore
finanziario a causa principalmente del legame esistente tra mutui e
titoli collegati agli stessi (in modo particolare Cdo) con impatti
soprattutto sui mercati monetari ( si vedano gli elevati ed anomali
elevati livelli di Euribor). Fino ad ora le banche centrali hanno
tamponato la situazione ed in buona misura i titoli sono rimasti li
dove erano con però l’aggravio del rifinanziamento che in ultima
istanza si scarica ancora sui mercati monetari.
Le 2 soluzioni proposte per tentare di fuoriuscire dalla crisi hanno
in comune l’intervento dello stato diretto (garanzia) o indiretto
(sponsorizzazione). Per ora però non sembrano soluzioni praticabili
nel breve termine. Tutto ciò ovviamente salvo un’accelerazione
imposta dal governo Usa.
Il dettaglio di quanto accaduto è però emblematico anche sotto altri
punti di vista: 1) le cifre in gioco sono davvero elevate (si veda
il caso di Citigroup) e non vanno computate considerando solo
l’ammontare dei mutui subprime; 2) il principale rischio è il
conseguente restringimento del credito erogato (c.d. credit crunch)
che potenzialmente comporterebbe danni all’economia tanto maggiori
quanto più lungo è il periodo di turbolenza sui mercati monetari.
I tempi di rientro non si presentano rapidi e probabilmente
occorrerà buona parte se non tutto il prossimo semestre. In ogni
caso una delle due soluzioni dovrebbe prendere piede,. In caso
contrario i tempi potrebbero essere ancora più lunghi e gli oneri
derivanti dal rifinanziamento delle posizioni sempre più gravosi.
Ne consegue che, stando anche al sondaggio tra banche effettuato
dalla Bce ad ottobre, è lecito attendersi un restringimento del
credito nel 2008. Il rallentamento dell’economia Usa dovrebbe essere
piuttosto pronunciato con possibilità di crescita anche
sensibilmente al di sotto del 2%.
La Fed nel frattempo non potrà
essere indifferente ed i tagli dei tassi potrebbe arrivare a portare
i Fed Funds fino al 3,5% a fine 2008, se non addirittura su livelli
inferiori nel caso di impatto più marcato sulla crescita.
Tutto ciò anche perché nel frattempo la situazione di crisi si sta
estendendo dal settore mutui a quello delle carte di credito dove il
tasso di morosità a 30 giorni è arrivato a settembre ai massimi da
ottobre 2005.
La Bce dal canto suo dovrà ancora esitare qualche mese in vista
dell’atteso quanto temporaneo rialzo dell’inflazione (nel primo
trimestre potrebbe essere raggiunta la soglia del 3% a causa di uno
sfavorevole effetto confronto) rientri. La prossima movimentazione
dovrebbe però essere direzionata verso un taglio dei tassi a partire
dal secondo semestre. I tassi a fine 2008 potrebbero arrivare al
3,5%. Se la situazione precipitasse uno dei tagli potrebbe essere
anticipato al secondo trimestre.
Sul fronte tassi a lungo termine, se si osserva il trend primario
degli ultimi 10 anni sia in area Euro sia negli Usa si osserva come
quanto sta accadendo sta riportando il sentiero dei tassi
all’interno di tale trend dopo che ne era stato toccato il limite
superiore in seguito al rialzo degli ultimi 2 anni.
In sintesi: il 2008 potrebbe essere nuovamente un anno in cui il
trend calante dei tassi potrebbe portare beneficio ai portafoglio
obbligazionari.
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Fonte - MPS Capital Services |
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Venerdì
16
novembre 2007 |
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Martedì 20
novembre 2007 |
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Giovedì
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novembre 2007 |
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Giù
i tassi,
la crisi è a macchia
d'olio
13
Novembre 2007 04:28 MILANO - di Borsa &
Finanza ________________________________________
«Effetto contagio»?
Ravano (Pimco): «Lo temiamo su mutui prime e carte di credito. Fitch
rivedrà i rating dei Cdo, e c’è il rischio di capitolazione». Le due
maggiori emittenti ne hanno in pancia per $350 miliardi.
Qualcosa di molto allarmante si è rotto nel
circolo, prima virtuoso e ora vizioso, che dal settore immobiliare
Usa porta all’alta finanza di Wall Street. Si parla di titoli
debitori che si affacciano sull’orlo dell’abisso nell’ordine di
mille miliardi di dollari. E, come se non bastasse, incombe un
terribile «effetto contagio», in cui strutture creditizie molto
macchinose, e dalle sigle astruse, premono le une sulle altre, con
l’eventualità di franare di botto in un gigantesco gioco di domino.
La prognosi non necessariamente volge al bello: «Anzi - dice
Emanuele Ravano, condirettore delle strategie europee di Pimco -
potrebbe addirittura peggiorare. C’è il rischio che qualche grosso
player bancario finisca per aria. E per evitare guai grossi, la Fed
dovrebbe attivarsi con maggiore decisione rispetto a quanto fatto
finora». Pimco, per chi non lo sapesse, è la società di money
management, resa famosa da Bill Gross, che amministra il più grande
fondo obbligazionario al mondo, il Total Return Fund.
Dottor Ravano, il tema è piuttosto nebuloso, con articolazioni non
sempre facili da digerire per il grande pubblico. Siamo in grado di
illustrare passo passo le criticità che montano nella finanza
globale? Alle radici del problema, c’è il calo dei valori
residenziali negli Stati Uniti.
La Pimco ha un team di esperti che
segue il settore da vicino, e secondo la nostra analisi, il prezzo
delle case potrebbe scendere di un altro 10%, con picchi del 20%
nelle aree che hanno vissuto i maggiori eccessi speculativi. Dunque,
non immaginiamo miglioramenti a breve.
Fin qui tutto chiaro, ma perché siamo sul baratro?
Il secondo punto
è che le banche, in funzione di questa tendenza generale, sono ora
restie a prestare denaro. A luglio il fenomeno si era concentrato
nel segmento subprime del mercato, ma poi si è allargato a macchia
d’olio. Per esempio, nella fascia dei mutui «prime», il 41% netto
delle banche ha cominciato a stringere fortemente le condizioni del
credito in ottobre, contro appena il 12% di luglio. E se guardiamo
alle carte di credito, siamo passati dal 12% di luglio al 27% di
ottobre.
Si dice che le famiglie indebitate siano un po’ in difficoltà.
Lei
che ne pensa? In effetti, questa è un’altra spina che ci tormenta.
Coloro che hanno comprato casa negli ultimi 3 anni, lo hanno fatto
prevalentemente con finanziamenti a tasso variabile, le cui rate
subiranno una rettifica all’insù nei mesi venturi. L’andamento si
annuncia particolarmente intenso fino al maggio del 2009, con mutui
da rinegoziare ogni mese nell’ordine dei 30-50 miliardi di dollari.
Ma sul mercato dei mutui pende, poi, un’ulteriore ipoteca.
Cioè? Mi riferisco al meccanismo degli asset-back: nel recente
passato, i mutui erogati venivano sovente impachettati e
cartolarizzati, trasferendo così il rischio agli investitori più
disparati. Questo percorso di finanziamento è entrato in stallo.
Anche perché i cosiddetti monoliner forse non potranno fornire
garanzie sulle nuove emissioni.
Si fermi un momento. Può spiegarci bene cosa sono i monoliner e il
loro ruolo nella crisi attuale?
Si tratta di grosse società, come la Ambac o la Mbia, che garantiscono protezioni al credito:
garantiscono per esempio un rating tripla A, garantiscono il
pagamento delle cedole obbligazionarie e del capitale a scadenza.
Possono offrire tali garanzie, però, solo se esse stesse hanno un
rating di tripla A.
Teme che la loro solidità sia sotto minaccia? Esatto; ragioniamo di
un’eventualità che diminuirebbe l’efficienza nel mercato delle
obbligazioni strutturate. Tenga conto che le due maggiori compagnie
del ramo, hanno in pancia forse 350 miliardi di asset-backs, quindi
sono vulnerabili in prima persona.
Cos’altro?
Bisogna soffermarsi sul comportamento delle agenzie di
rating. Per essere chiari: il 5 di novembre la Fitch ha dichiarato
che rivedrà interamente i criteri a cui legare il merito di credito
delle strutture Cdo (collateralized debt obligations, cioè un tipo
di asset-backed security ndr.). Le nuove classificazioni verrano
fuori a 4-6 settimane, ossia durante le festività natalizie.
Insomma, le agenzie di rating, accusate di essere state troppo
indulgenti, ora mostrano maggiore severità. Fioccano i downgrades.
La sua è una lista interminabile... Ma siamo arrivati alla fine.
L’ultimo tassello è il cambio di rotta intrapreso dagli enti
regolatori. Occorre sottolineare che, per quanto riguarda le banche
d’affari, larghe sezioni dei bilanci sono riconducibili ad attivi
denominati «livello 3», non prezzati a valore di mercato, bensì
sulla base di modelli matematici.
I nuovi standard di contabilità
che entreranno in vigore dal prossimo 15 novembre intendono limitare
l’uso dei modelli interni nel prezzare gli asset meno liquidi, e si
ritiene che norme più stringenti provocheranno diverse revisioni al
ribasso.
Si delinea un orizzonte plumbeo...
Diciamo che ci sono notevoli
fattori di tensione. Se le obbligazioni strutturate andassero in
liquidazione più rapidamente del previsto - uno sbocco che è nelle
aspettative della Pimco - ci sarebbero ripercussioni a catena.
Molte grosse banche americane si sono sbriciolate a Wall Street, con
tonfi quotidiani non di rado superiori al 10%. Esiste il pericolo
che qualcuno finisca gambe all’aria? Se la liquidazione diventa
eccessiva, quella che lei descrive entra nel novero delle
possibilità. E questo ci porta alla medicina da somministrare al
paziente.
Quale medicina?
Secondo noi la Fed dovrebbe tagliare il costo del
denaro con determinazione, spingendo il saggio base ora al 4,5% fino
al 3,5%-3%.
E sulla sponda europea? Molte notizie convergono nell’affermare che
in Gran Bretagna il livello del debito e la portata della bolla
immobiliare rivaleggiano con quelle statunitensi. A nostro parere
fra il 2008 e il 2009 l’economia inglese risulterà davvero
vulnerabile. E forse il caso della Northern Rock è destinato a non
rimanere isolato.
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Fonte - Borsa&Finanza |
Bernanke
parla di più
15 Novembre 2007,
di MiaEconomia ______________________________
Il presidente della
Federal Reserve Ben Bernanke ha annunciato una nuova
strategia di comunicazione dell'istituto, con cui verrà
raddoppiata la frequenza con cui la Fed informerà i mercati
sulle stime che elabora riguardo all'andamento
dell'inflazione, della crescita economica e delle condizioni
del mercato del lavoro degli Stati Uniti.
In un discorso alla conferenza organizzata da Cato Istitute,
think tank di Washington, Bernanke ha reso noto anche che la
strategia non include la fissazione di un target
d'inflazione. Bernanke ha spiegato infatti che fissare un
target di inflazione "potrebbe essere meno adatto alla Fed",
visto che l'obiettivo della Banca centrale americana è
quello di tenere a bada sì l'inflazione, ma anche quello di
stimolare l'occupazione.
Fino a questo momento, la Federal Reserve ha reso pubbliche
le proprie stime due volte all'anno, contestualmente alla
testimonianza di Ben Bernanke, in calendario di norma nei
mesi di febbraio e di luglio al cospetto del Congresso degli
Stati Uniti.
D'ora in avanti, dunque, le cose cambieranno, e le
previsioni della Fed saranno comunicate ai mercati quattro
volte all'anno, ovvero anche in occasione della
pubblicazione delle minute relative alle riunioni del Fomc
prevista nel secondo e nel quarto trimestre di ogni anno.
Il cambiamento nella strategia di comunicazione della Fed
sarà dunque già visibile la prossima settimana, ovvero nella
giornata di martedì, quando il Fomc -il braccio di politica
monetaria della Fed - pubblicherà le minute relative alla
riunione di fine ottobre.
Le stime non includeranno più l'andamento del prodotto
interno lordo nominale, ma saranno relative al trend del pil
tenendo conto degli aggiustamenti dovuti all'inflazione, al
tasso di disoccupazione, e all'inflazione. Riguardo
all'inflazione, le stime saranno elaborate in riferimento al
trend complessivo e a quello "core", misurato dall'indice
dei prezzi per le spese dei consumi personali depurate dalle
componenti più volatili rappresentate dai prezzi dei beni
alimentari ed energetici.
La nuova strategia, ha precisato Bernanke, "fornirà un
approfondimento più tempestivo sull'outlook del Fomc,
aiuterà le famiglie e le imprese a comprendere meglio e ad
anticipare il modo in cui le nostre decisioni di politica
(monetaria) rispondono alle nuove informazioni, e rafforzerà
la nostra responsabilità - ha detto Bernanke".
Oltre alle previsioni, la Fed renderà noti anche i rischi
che accompagnano le previsioni. Riguardo alle previsioni
sull'inflazione - finora le previsioni erano state relative
solo all'andamento di quella core, Bernanke ha sottolineato
che l'inflazione complessiva - comprensiva appunto dei
prezzi delle componenti più volatili - è un miglior
strumento per la politica monetaria nel lungo termine. "Alla
fine - ha detto il presidente della Fed - alle famiglie e
alle imprese interessa...l'andamento complessivo
dell'inflazione". Bernanke ha ribadito comunque che
l'inflazione core rimane in indicatore importante nel
momento in cui si desidera comprendere l'andamento
dell'inflazione nel breve termine.
Altro cambiamento nella strategia di comunicazione della Fed
sarà nell'orizzonte temporale delle stime elaborate
dall'istituto, che non sarà più di due, ma di tre anni.
Questo significa che le prossime previsioni della Fed copriranno un arco temporale che si estenderà fino al 2010.
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TASSI
& BORSA: BERNANKE
RICATTATO DALLE BANCHE
21 Novembre 2007,
di Il Foglio __________________________
La Federal Reserve
di Ben Bernanke si trova ora a un passo molto difficile.
Infatti gli ambienti della finanza degli Stati Uniti
chiedono insistentemente una nuova riduzione del tasso
d’interesse, motivata dal fatto che l’inflazione non sembra
preoccupante, mentre vi è un rallentamento marcato
dell’economia. In realtà le richieste derivano soprattutto
dal desiderio delle banche, che hanno subito perdite per i
loro derivati sui mutui immobiliari, di ottenere dalla Fed
la liquidità a buon prezzo che il mercato ora nega.
Si giunge persino a chiedere una riduzione dei tassi di 0,75
punti da attuare in tempi brevi e in due riprese. Così il
tasso scenderebbe fino al 4 per cento, il livello della Bce.
Ma il cambio del dollaro con l’euro e lo yen peggiorerebbe
in una misura imprecisata, determinando un rincaro
dell’import, in particolare di petrolio e alimentari, con
aumento dell’inflazione negli Stati Uniti.
La Fed tradizionalmente, per stimare l’inflazione,
considerava l’indice dei prezzi “core”, che esclude energia
e alimentari, data la loro grande variabilità. Ma Bernanke,
ora, vorrebbe includere questi prezzi nell’indice, perché il
loro aumento in dollari è strutturale e in parte si collega
a una discesa della valuta statunitense rispetto alle altre
monete di riserva, discesa che peraltro appare essa stessa a
sua volta strutturale. Infatti il cambio del dollaro è
diminuito per riflettere il divario fra il forte passivo
della bilancia commerciale degli Usa e il grande attivo di
quella di altri paesi. Ciò ha rappresentato un
riallineamento fisiologico del dollaro.
Ma un ulteriore ribasso del tasso della Fed segnalerebbe che
gli Usa non sono interessati a difendere il potere di
acquisto della loro moneta rispetto alle altre e potrebbe
generare una fuga dal dollaro di operatori che hanno ingenti
scorte monetarie e risparmi in tale valuta. Nella riunione
dell’Opec più d’una voce s’è levata per sostenere
l’opportunità di lasciare il dollaro e passare a un paniere
di monete. E’ una scelta ardua per stati come l’Arabia
Saudita che hanno i risparmi in dollari. Bernanke non può
lasciare la difesa del dollaro ai paesi esteri. Ma sa che il
mondo si è abituato a vedere gli Usa in perpetua crescita.
Eppure un rallentamento dell’economia americana farebbe bene
a tutti.
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TASSI:
LA SITUAZIONE IN AMERICA SI DETERIORA
21 Novembre 2007
13:35 SIENA - di MPS Capital Services ______________________________________________
*Questo documento e' stato preparato da MPS Capital Services
ed e' rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali
ovvero ad operatori qualificati, così come definiti
nell'art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio
1998 e successive modifiche ed integrazioni.
Tassi di Interesse:
in area Euro i tassi di interesse sono saliti sulla scia del
recupero dei mercati azionari. Il rialzo ha interessato in
particolare il due anni con lo spread sul 2-10 sceso a 32 pb.
Sul monetario continuano le tensioni con l’Euribor 3 mesi
fissato a 4,63% da 4,61%. Intanto continuano le
preoccupazioni sul rialzo dell’inflazione dei membri Bce.
Ieri Bini Smaghi si è detto molto preoccupato per “second
round effects” che possono derivare dall’aumento
dell’inflazione, aggiungendo che sarà importante cercare di
evitarli. Allo stesso tempo Almunia davanti al Parlamento
Europeo ha dichiarato che i rischi per la crescita restano
al ribasso, mentre quelli per l’inflazione al rialzo a causa
soprattutto dell’apprezzamento del prezzo del greggio, degli
alimentari e del livello dei salari. Oggi gli operatori
continueranno a seguire l’andamento dei listini azionari.
Negli Usa le tanto attese minute del Fomc di fine ottobre
hanno evidenziato una revisione al ribasso delle stime di
crescita per il quarto trimestre del 2008 rispetto
all’analogo periodo del 2007, con fissazione del limite
basso del range previsto in prossimità dell’1,8%. Sul fronte
inflazione l’attesa media è per un deflatore del Pil al 2%,
superiore all’1,8% atteso invece per il core. All’interno
delle minute è stato dedicato uno spazio maggiore alla
descrizione dei rischi al ribasso sulla crescita rispetto
invece ai rischi al rialzo sui prezzi. Tale indicazione
lascia aperta la possibilità di ulteriori tagli in futuro.
In tal senso si sono espressi alcuni analisti che sono
arrivati a stimare la possibilità di posizionamento dei Fed
funds al 2% entro il primo semestre del 2009. Gli operatori
dal canto loro rimangono convinti della possibilità che la
Fed taglierà i tassi di 25pb sia a dicembre sia a gennaio.
Verosimilmente, oltre a considerazioni macroeconomiche,
incide molto la percezione che la crisi del credito
richiederà ancora diverso tempo prima del suo rientro.
L’ipotesi di acquisto di mutui superiori a 417.000$ da parte
delle relative agenzie appare meno realistica alla luce
delle forti perdite registrate da queste ultime. Ieri ad
esempio Freddie Mac ha annunciato perdite trimestrali per
oltre 2Mld$. Malgrado ciò Paulson ha ancora sottolineato la
necessità di accelerare il processo di approvazione della
proposta di legge dei democratici che contempla l’ipotesi di
acquisto di mutui c.d. jumbo da parte delle due agenzie. Le
tensioni sul mercato monetario sono riprese, come testimonia
il riposizionamento del Libor 3mesi al 5%. Il tasso
decennale ha raggiunto la soglia del 4% che rappresenta oggi
il principale supporto la cui foratura porterebbe i tassi al
3,90%.
Valute: continua la forte correlazione tra petrolio ed
EuroDollaro: i nuovi massimi dell’uno continuano infatti a
corrispondere ad altrettanti nuovi massimi dell’altra
variabile. In questo contesto appare possibile nei prossimi
giorni il raggiungimento della soglia psicologica di 1,50.
Per oggi il supporto passa a 1,4740. Lo Yen si è apprezzato
in modo marcato durante la notte in seguito ai ribassi dei
listini azionari asiatici. Verso Dollaro il cross ha
raggiunto il livello più basso da poco più di 2 anni sui
timori che le perdite legate al settore del credito e
l’elevato prezzo del greggio rallenteranno l’economia Usa.
Il supporto si colloca in prossimità di 108,77, minimo del
settembre 2005. L’apprezzamento è avvenuto nei confronti di
tutte le principali 16 valute mondiali. Verso Euro il cross
è tornato sotto soglia 162. Prosegue la correlazione inversa
Yen e listini azionari globali con lo Yen che rimane il
‘termometro’ mondiale dell’avversione al rischio degli
investitori.
Materie Prime: giornata positiva per le materie prime
aiutate dalla debolezza del Dollaro, ad eccezione del gas
natura
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La
Fed si sveglia e abbassa le stime di crescita.
21 Novembre 2007,
by John Christian Falkenberg
- Macromonitor ______________________________________________
La Federal Reserve
ha ammesso l’impatto della crisi immobiliare e creditizia
sull’economia reale, riducendo le proprie stime sulla
crescita del PIL ad un livello persino più pessimistico di
quello degli analisti delle banche d’affari. Dopo i
risultati del settore dei trasporti, quelli finanziari e la
situazione disperata sul mercato della liquidità, non si
tratta di una grande sorpresa, ma semplicemente della
rassegnazione di chi ha provato a fare il pompiere, ma non
ce la può fare ancora a lungo.
La Fed ha di fronte due alternative: tagliare subito ed in
fretta, salvando il settore finanziario per l’ennesima
volta, appigliandosi all’argomento della “tutela degli
investitori” , oppure attendere sino a quando una riduzione
dei tassi non sia realmente necessaria dal punto di vista
dell’economia reale.
La prima soluzione è quella meno traumatica, ma ha due
grossi difetti, uno congiunturale, l’altro strutturale. Dal
punto di vista congiunturale, si rischia di creare
l’ennesima bolla speculativa: finché i cinesi producono
senza preoccuparsi di essere pagati o di devastare il
proprio sistema finanziario, già tecnicamente insolvente, un
aumento della liquidità viene canalizzato principalmente
nell’acquisto di attività patrimoniali.
Dal punto di vista strutturale, un salvataggio di questo
tipo bloccherebbe una dinamica di mercato inevitabile, ma
utile: il fallimento, quindi l’uscita dal mercato stesso,
degli imprenditori finanziari che abbiano preso decisioni
errate, permettendo la crescita e lo sviluppo delle
istituzioni più solide o meglio gestite. L’esperienza della
“foresta pietrificata” bancaria italiana ed i disastri che
l’industria pubblica assistita ha provocato in tutta Europa
dovrebbero bastare a chiarire il punto.
Le caratteristiche particolari del settore finanziario
rendono necessario, in un assetto di monopolio
dell’emissione di moneta, una minimo di regolamentazione;
questo non implica tuttavia che si debba fornire una rete di
sicurezza integrale all’intero settore, lasciando una parte
cruciale dell’economia in preda ai peggiori fenomeni di
azzardo morale: speculate, speculate, la Banca Centrale
salverà tutti.
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Frana
dollaro:
e Ben taglierà 3
volte
27 Novembre 2007 02:50 NEW YORK
- di Vincenzo Sciarretta ________________________________________
Moneta Usa in briciole sulla soglia di 1.50
contro euro. «Sotto pressione nel breve termine per il differenziale
tassi». Coi prossimi tagli Fed, il rendimento delle attività
denominate in dollari scenderà sotto il livello di quelle europee.
Il dollaro si sbriciola e finisce a un soffio dal limite psicologico
di 1,50 contro euro. «Il cuore del problema - spiega Kamal Sharma,
analista di Bank of America - è il differenziale sui tassi
d’interesse». Secondo il consensus, la Fed reagirà alla crisi dei
mutui ipotecari, tagliando il costo del denaro, già dalla prossima
riunione dell’11 dicembre, e in seguito altre due o tre volte nel
2008. E ciò porterà il rendimento delle attività denominate in
dollari sotto il livello di quelle europee.
Vale la pena di notare come gli operatori attribuiscano sempre minor
credito alle parole di Ben Bernanke, dato che non ha celato la sua
ritrosia a ridurre i saggi d’interesse. Insomma, agli occhi degli
investitori, il governatore della Fed sembra un po’ la dama
rinascimentale del De Sanctis che «nega e nega, e in ultimo concede»
(il taglio dei tassi). «A oscurare l’orizzonte - continua Kamal
Sharma - contribuisce anche la peggiore dinamica inflativa degli
Stati Uniti». Il dato di ottobre colloca il rialzo dei prezzi Usa al
3,5%, contro il 2,6% in Eurolandia. Per conseguenza i titoli del
debito americani rendono quasi niente in termini reali: il decennale
governativo paga il 4%, ma con l’inflazione al 3,5% vuol dire che la
cedola vera è dello 0,5%, insufficiente a compensare i possessori
esteri di dollari dalle mazzate che ricevono sul mercato dei cambi.
«È poi radicata l’impressione - aggiunge Roberto Mialich di
Unicredit - che a qualsiasi soglia si vende il dollaro, ci sono
buone probabilità di lauti guadagni».
Questo perché le autorità americane indulgono a una politica di
benevola negligenza. Alla base c’è l’idea che l’economia nazionale
trarrà vantaggio dalla debolezza del dollaro. E, in effetti, il buon
andamento dell’export ha per ora pareggiato la caduta interna della
domanda, cagionata dall’edilizia residenziale.
Se all’America sta
bene una moneta debole, la speculazione ci va a nozze. Denaro chiama
denaro e, una volta aperte le chiuse, la corrente di vendite non
trova ostacoli. Specialmente in un mondo senza barriere dove, stando
ai dati raccolti dalla Bank of International Settlements, gli scambi
valutari sono passati da una media giornaliera di 1.900 miliardi di
dollari nel 2004 all’impressionante cifra di 3.200 miliardi di oggi.
In queste condizioni potrebbe rendersi necessario un intervento
concertato del Gruppo dei Sette (G7) per arginare la frana del
biglietto verde. In passato è accaduto spessissimo. Con l’unica
eccezione del 2002, quando l’euro si riprese spontaneamente, i trend
più pronunciati sul mercato dei cambi sono sempre stati invertiti
grazie a manovre dei maggiori Paesi industrializzati. Vengono in
mente l’Accordo del Plaza del 1985, oppure quello del Louvre del
1987, oppure l’intesa Giappone-Stati Uniti del 1995.
«Eppure, questa volta i tempi non sono ancora maturi - spiega Asmara
Jamaleh di Banca Imi - Perché l’America vede di buon occhio le
tendenze in atto mentre l’Europa convive finora egregiamente con il
supereuro». Qualche impresa, ovviamente, non la pensa così. Airbus
leva grida di dolore, rivaleggiando con l’americana Boeing. Inoltre,
stando a Stephen Jen di Morgan Stanley, «parecchie multinazionali
del Vecchio Continente faticano a rimanere competitive e hanno un
periodo di 6-12 mesi entro il quale trovare una soluzione, poiché i
loro contratti di copertura valutaria sono in scadenza». Jen
aggiunge però che «il 70% dell’export europeo finisce in Europa». E
questo chiarisce l’alta resistenza del blocco comunitario alla forza
della sua divisa. Non altrettanto si può dire del Giappone.
Suggerisce Mialich di Unicredit: «L’Impero del Sol Levante danza
sull’orlo della deflazione e si affida tuttora all’export come
principale fattore di crescita. Se la valuta nipponica (ora a
107-108) si rafforzasse sotto 105, si aprirebbe la discussione sulle
misure idonee a fermare il crollo del biglietto verde. E qualora
l’euro bucasse impunemente l’altitudine di 1,50 la speculazione si
sentirebbe autorizzata a lanciare una seconda ondata di vendite».
In base a quello che ascoltiamo dagli analisti di professione, il
dollaro potrebbe rimanere sotto pressione nel breve termine a causa
dei flussi speculativi transfrontalieri, ma ha anche discrete
opportunità di riprendersi nella seconda metà del 2008, a meno che
l’America non sprofondi nelle secche di un orribile recessione.
Alla base del rilancio ci sarebbe il netto assottigliamento dei
famosi deficit gemelli americani, considerati negli ultimi anni una
delle variabili maggiormente suscettibili di incrinare la solidità
del biglietto verde. Ebbene, il deficit di bilancio è diminuito dal
3,5% all’1,2% nel giro di tre anni. E lo squilibrio delle partite
correnti viaggia al 5,5% contro il 6,8% del 2005, con l’eventualità
di scendere al 4,8% nel 2008 e al 4,1% nel 2009 (fonte Morgan
Stanley). «L’aggiustamento dei deficit gemelli risulta
particolarmente rimarchevole - aggiunge Jen - soprattutto se si
considera che al netto delle importazioni petrolifere, il deficit è
solo al 3,5% del prodotto interno lordo». Insomma, la medicina della
pesante svalutazione incomincia a fare il suo effetto. Sarà
abbastanza?
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Fonte - Borsa&Finanza |
Sabato
24
novembre 2007 |
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Giovedì
29
novembre 2007 |
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Giovedì
29
novembre 2007 |
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E'
ineluttabile
una caduta rovinosa
del dollaro?
27 Novembre 2007 03:15 ROMA
- di Marcello De Cecco ________________________________________
Euro forte e petrolio alle stelle: sono la
ricetta sicura per portare anche l’ Europa rapidamente alla
recessione o si elidono a vicenda? Greggio: il 40% di aumento subito
da noi europei è assai meno del +58% sopportato dagli americani.
Da una parte c’è l’economia dell’Asia, trainata dalla grande corsa
cinese, che non accenna a rallentare. Dall’altra l’economia
americana, con il consiglio direttivo della banca centrale che
prevede un anno almeno di rallentamento e si appresta a tagliare
ripetutamente i suoi tassi d’interesse, anche e forse specialmente
perché dal settore finanziario vengono annunci ogni giorno più
disastrosi e da quello immobiliare notizie di una crisi sempre più
profonda. In mezzo c’è l’economia europea, che mostra tassi di
crescita ancora ragionevoli e prezzi che si risvegliano. Ci sono i
produttori di petrolio e di materie prime, che vedono salire fino a
livelli impensabili i prezzi di quel che vendono, ci sono i paesi
emergenti, gratificati da investimenti esteri elevati, esportazioni
effervescenti, riserve di valute finalmente elevate, cambi in forte
ascesa.
Su tutti si stende l’immensa coltre della speculazione finanziaria
internazionale, alimentata dalle prospettive ancora di forte aumento
della liquidità che proviene dalle banche centrali americana,
giapponese e inglese e dalla fame di guadagni elevati della grande
massa dei gestori istituzionali di risparmio, che si contendono i
clienti a suon di risultati e non possono accettare riduzioni dei
medesimi o, Dio non voglia, perdite.
Almeno per sei mesi, quindi, ma forse per un anno intero, il quadro
internazionale fornisce certezze, amate dagli operatori finanziari
perché permettono scommesse in una sola direzione, prive quasi di
rischio (anche se a condizioni di guadagno decrescenti). L’economia
americana continuerà a rallentare, quella asiatica a crescere,
le
maggiori istituzioni finanziarie del mondo sviluppato riveleranno
altri scheletri finora nascosti nei loro armadi e magari qualcuna di
loro andrà in crisi aperta, di liquidità o addirittura di
insolvenza.
Come ci si può aspettare che le autorità monetarie degli Stati Uniti
possano passare ad una politica meno espansiva? Il forte
rallentamento dell’economia rende improbabile un acuirsi
dell’inflazione, e quindi l’alibi per una stretta viene meno. C’è
bisogno del contrario, anche perché è prevedibile che le banche
private in crisi creino meno liquidità. Ciò significa che il dollaro
continuerà a scendere e l’euro a salire.
Se questa cura dura un anno l’euro si troverà spinto, veramente suo
malgrado, nella posizione di principale moneta di riserva. Il
dollaro, naturalmente, non scomparirà dalle riserve delle banche
centrali. Perderà il ruolo di protagonista e se ciò avverrà troppo
rapidamente c’è la possibilità che gli scambi di materie prime
comincino ad essere denominati in euro, o perlomeno in un paniere di
monete, e che paesi come la Cina e l’India comincino a fatturare le
proprie esportazioni in euro o nella moneta nazionale. Spesso si
parla dei grandi vantaggi che sono derivati agli Stati Uniti, in
cinquant’anni, dall’emettere la valuta di riserva mondiale.
Esaminiamo brevemente quelli ritenuti principali. Emettere una
valuta che nessuno converte in un’altra è molto vantaggioso se si
desidera spendere all’estero sempre più di quanto all’estero si
guadagna. Se si vogliono comprare manifatture e servizi prodotti
all’estero, imprese e beni patrimoniali stranieri, costruire e
gestire costose basi militari in terra straniera, addirittura
condurre campagne militari.
Ma i paesi dell’euro vogliono avere questi vantaggi? Vogliono
crearsi un deficit estero strutturale e mantenerlo nel tempo,
finanziandolo con emissioni di carta finanziaria e di titoli privati
e pubblici? Uno sguardo alle principali economie della zona euro
mostra come la Spagna dall’enorme deficit estero e potenzialmente la
Francia sarebbero forse liete di mettersi in quella condizione, di
assorbire importazioni pagandole con carta finanziaria, come fanno
gli Stati Uniti. Ma già l’Italia non potrebbe farlo senza traumi.
Essa ha ancora il secondo sistema manifatturiero dell’area dell’euro
per quanto riguarda il numero degli addetti, lo ha visto declinare
nell’ultimo decennio senza riuscire a creare alternative valide per
assorbire la manodopera rigettata dall’industria e la prospettiva di
una ulteriore, rapida deindustrializzazione è in grado di
terrorizzare qualsiasi componente della dirigenza politica ed
economica italiana, a eccezione forse di uno sparuto gruppo di
economisti liberisti, che già si è assottigliato e che diviene più
piccolo a ogni rialzo dell’euro.
Il caso della Germania è in fondo simile a quello italiano, anche se
la capacità di resistenza tedesca a un euro strutturalmente
fortissimo è maggiore. Questo perché la Germania, nell’ultimo
decennio, ha portato verso una specializzazione tecnologicamente più
elevata la propria industria e creato un settore di servizi
anch’esso tecnologicamente sofisticato e complementare
all’industria, mettendo in mare una flotta di navi container che
rappresenta ora il 40% del totale mondiale, inserendolo in un
poderoso sistema logistico che è anch’esso divenuto il primo del
mondo, riformando il sistema educativo per premiare l’eccellenza e
attrarre i migliori studenti stranieri, collegando università e
industria mediante una rete di laboratori di ricerca applicata,
potenziando l’industria del cinema e della televisione, consolidando
il proprio primato mondiale nel settore editoriale.
Così i tedeschi possono far fronte più a lungo a un ulteriore
graduale declino del dollaro. Ma anche loro temono fortemente un
crollo rapido e profondo della moneta americana. Il paese attraversa
infatti una fase politica assai delicata e un trauma occupazionale
improvviso e grave potrebbe suggerire esiti politici assai
sgradevoli e poco somiglianti alle esperienze postbelliche,
specialmente per l’arretratezza politica in cui sono rimasti,
malgrado gli enormi investimenti infrastrutturali fatti dopo la
riunificazione, i laender orientali, elettoralmente assai
importanti. Nel nostro paese, invece, l’esito politico di un crollo
del dollaro sarebbe probabilmente di tipo sudamericano (e ne abbiamo
avuto un assaggio dal 2001 al 2005). Esiti di questo tipo, in paesi
come la Germania e l’Italia metterebbero a dura prova la tenuta
dell’Unione monetaria e forse anche della Unione europea. Né sono da
escludere innovazioni politiche sgradevoli in Spagna e Francia.
Ma è veramente ineluttabile una caduta improvvisa e rovinosa del
dollaro? E’ innegabile che la corsa dell’euro nei confronti della
valuta americana si verifica perché l’euro è l’unica moneta, oltre
il dollaro, libera di trovare il proprio prezzo sui mercati mentre
Yen e Yuan e tutte le altre monete asiatiche sono severamente
controllate dalle autorità nazionali, che ne restringono la
fluttuazione verso l’alto. Ma è anche vero che la Bce ha tenuto
finora un atteggiamento di assoluta intransigenza nei confronti del
proprio obiettivo di inflazione. Basterebbe che il signor Trichet
dichiarasse di essere molto preoccupato per gli effetti della corsa
dell’euro sull’economia reale dei paesi dell’Unione monetaria, per
vedere il cambio della nostra moneta ridimensionarsi velocemente.
Sono convinto che, malgrado le orgogliose dichiarazioni del signor
Steinbruck sui vantaggi dell’euro forte per l’economia tedesca, le
forze politiche del suo paese si stiano rapidamente convincendo che
è arrivata l’ora di dare un messaggio forte, anche se discreto, a
Trichet. Quanto agli altri paesi dell’euro, le loro autorità
politiche e gli esponenti del mondo della produzione tale messaggio
lo stanno mandando a Francoforte e a Bruxelles da un bel po’. Dopo
la fine degli scioperi in Francia e Germania e dopo che sarà tornato
dal suo viaggio in Cina senza molto di più che dichiarazioni di
buona volontà e qualche frazione di punto di rivalutazione dello
Yuan nei confronti del dollaro, Trichet farà la sua dichiarazione,
magari aspettando fino all’11 dicembre, quando si riunisce il
consiglio della Bce. Speriamo che, nel frattempo, il sistema
finanziario internazionale regga e non ci esponga a qualche orribile
shock.
Anche in questa disputa, tuttavia, la Germania ha più da perdere
degli altri paesi europei. Essa è riuscita, come solo il Giappone è
riuscito a fare, a crearsi un ruolo di primario fornitore di beni
complessi di investimento per l’industria cinese, una
complementarità alla corsa economica cinese che ora le crea delle
difficoltà nel fare la voce grossa con le autorità di quel paese. E’
affascinante sentire le dichiarazioni dei membri della troika
europea che si reca ora in Cina: Trichet severo e preoccupato;
Mandelson, che viene da un paese tradizionalmente avversario della
Cina, che gli ha ripreso Hong Kong e può strozzarla quando vuole, (o
trasformarla in una piazza finanziaria che competa con Londra) e che
ha da tempo abdicato al ruolo di fornitore di beni di investimento,
apertamente accusatore nei confronti della politica valutaria
cinese. Juncker, infine, lussemburghese che rappresenta i tedeschi,
pieno di rispetto e considerazione per i suoi interlocutori e nemico
delle soluzioni drammatiche.
Eppure i cinesi dovrebbero avere interesse ad una rivalutazione
della loro moneta, visto che, importando materie prime e petrolio in
quantità enormi, lo pagherebbero di meno con uno Yuan più forte. E
anche che in tal modo riuscirebbero in buona misura a temperare una
inflazione che, spronata dagli Yuan creati comprando dollari dagli
esportatori cinesi, mascherata da statistiche assai difettose, corre
in realtà assai velocemente e causa un pericoloso disagio sociale
colpendo gli strati più poveri e più numerosi della popolazione di
quell’immenso paese. Ricordiamo che la Cina ha potuto mantenere un
regime autoritario senza imbarazzanti traumi interni solo perché ha
assicurato un rapidissimo sviluppo e un po’ di benessere anche agli
ultimi tra i suoi cittadini.
Non sarebbe dunque fuori luogo immaginare che anche dalla Cina
venisse un contributo alla riduzione della pressione sul dollaro.
Ricordiamo però che Cina e Giappone hanno nell’ultimo anno pilotato
sia la rivalutazione delle loro monete verso il dollaro che la
svalutazione delle stesse sull’euro, malgrado il grande surplus
commerciale che vanno accumulando con l’Europa. E’ un segno chiaro
delle difficoltà in cui si dibattono le dirigenze politiche dei due
maggiori paesi dell’Asia. I cinesi non vogliono ammazzare l’oca
dalle uova d’oro dello sviluppo col cambio basso e i giapponesi, pur
con saggio di interesse zero, non riescono a indurre nel loro paese
una fine definitiva alla deflazione dei prezzi industriali che lo
affligge dai primi anni novanta. I cinesi sanno inoltre che una
forte rivalutazione indurrebbe non la riduzione della crescita, ma
una vera e propria endemica riduzione dei prezzi industriali di tipo
giapponese anche nel loro paese, un crollo dell’ occupazione e la
prima vera crisi del loro modello politico ed economico.
Dobbiamo quindi, in conclusione, ridurci alla soluzione unilaterale
europea, per quello che vale. L’euro a 1,50 sta, lo abbiamo già
detto, facendo velocemente cambiare opinione anche ai tedeschi. Tale
cambiamento però può essere accelerato o frenato dal petrolio a 100
dollari. E’ vero infatti che l’euro forte neutralizza in parte
l’impatto del caro petrolio sull’economia europea. Il 40% di aumento
in dieci mesi che gli europei hanno subito è assai meno del 58% di
rincaro che hanno sopportato gli americani.
Euro forte e petrolio alle stelle: sono la ricetta sicura per
portare anche l’ Europa rapidamente alla recessione o si elidono a
vicenda? Io credo nella prima conseguenza di questo incrocio fatale,
ma parecchi tedeschi credono ancora nella seconda e potrebbero
frenare una politica espansiva della BCE. Sarebbe notevole, da parte
di un paese che ha sempre rifiutato il ruolo di valuta di riserva
per la propria moneta, convertirsi ai suoi presunti vantaggi proprio
ora che la sua situazione politica interna è tutt’altro che
equilibrata.
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Fonte - La Repubblica |
Sistema
valutario:
non è l'€uro
l'alternativa
30 Novembre 2007 13:09 Vienna
- di Finanza&Mercati ________________________________________
Joseph
Stiglitz, premio Nobel 2001 per l’Economia, dice: «E' necessario
ripensare gli equilibri valutari mondiali. Per secoli tutto è
ruotato intorno all’oro. Poi intorno al dollaro. Un sistema che ora
sta scricchiolando».
«Stiamo entrando in un
periodo d’instabilità finanziaria»: parola di Joseph Stiglitz,
premio Nobel 2001 per l’Economia, intervenuto ieri a Vienna all’European
Colloquia, organizzato da Pioneer Investments (Sgr di
Unicredit). «Credo sia necessario ripensare gli equilibri valutari
mondiali - sostiene Stiglitz - Per secoli tutto è ruotato intorno
all’oro. Poi intorno al dollaro. Un sistema che ora sta
scricchiolando». Anche in America, dunque, non passano inosservate
le considerazioni di Paesi, quelli dell’area Opec su tutti, sul
ruolo del dollaro come principale moneta di fatturazione del
petrolio e, soprattutto, prima riserva valutaria. «L’alternativa
euro - ribatte l’economista - credo possa produrre sola nuova
instabilità. Una soluzione preferibile potrebbe essere l’adozione di
un modello multilaterale, meglio se orchestrato dall’Fmi».
Stiglitz torna quindi agli
special drawing rights che proprio il Fondo monetario istituì nel
’69 a supporto degli accordi di Bretton Woods.
Avrebbero dovuto emergere
come importante riserva valutaria, ma il loro utilizzo nelle
transazioni internazionali non è mai decollato. Ma sono stati
in molti, nel tempo, a sottolinearne la validita.
Anche George Soros vi
dedicava ampio spazio nel suo On Globalization. Senza contare
che, «sebbene il focus principale di un modello multilaterale -
aggiunge Stiglitz - non possa che essere quello della stabilità
finanziaria, potrebbe anche profilarsi come strumento di supporto
alle economie emergenti». Restano irrisolti i problemi interni
all’economia Usa, perché «la debolezza del dollaro, fa sì che
l’America importi inflazione - sottolinea Stiglitz - soprattutto
dall’Europa. Senza contare gli effetti sul livello dei prezzi dovuti
all’attuale spolvero del petrolio». Per altro, sono in molti a
credere che i grandi esportatori di greggio abbiano interesse nel
mantenere i livelli attuali di prezzo, proprio per il minor potere
d’acquisto della divisa Usa sui mercati valutari.
«Se poi lo yuan venisse rivalutato - conclude - verrebbe importata
ancora maggiore inflazione. D’altro canto, in questo momento, solo
attraverso la debolezza del dollaro si può sostenere l’economia,
grazie al vantaggio che ne traggono le grandi multinazionali sul
mercato globale».
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