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Sabato 11 febbraio
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La quarta guerra del Golfo
5 Febbraio 2006 12:23 Milano - (di Alberto
Negri)
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In fondo al Golfo Persico, oltre lo Stretto di Hormuz, d'estate la
temperatura raggiunge i 50 gradi, l'aria trasuda umidità, la sabbia raschia la
gola e l'atmosfera inala nei polmoni una miscela micidiale di metano e Corano:
questo è Assaluyeh, il complesso industriale di South Pars, il più grande
giacimento di gas del mondo dove sventola la bandiera della repubblica islamica.
L'Iran "atomico" di Ahmadinejad custodisce, secondo l'autorevole Oil & Gas
Journal, il 16% delle riserve mondiali di gas e l'11% di quelle di petrolio.
L'influenza degli ayatollah sui mercati dell'energia è indiscutibile: questa è
la vera arma di distruzione di massa dell'Iran per spaventare i suoi nemici.
La crisi tra l'Iran e l'Occidente sta emergendo come la questione geopolitica
del 2006. È possibile un'altra guerra del Golfo? Sarebbe la quarta dopo il
conflitto Iran e Irak dall'80 all'88, quello per il Kuwait nel '91 e l'invasione
americana dell'Irak nel 2003. Guerre di potenza e petrolio che non hanno risolto
l'instabilità del Medio Oriente, dove l'Arabia Saudita possiede un quarto delle
riserve mondiali accertate di oro nero e l'intera regione, dall'Irak, all'Iran,
dal Kuwait agli Emirati, estrae il 40% della produzione globale. L'ipotesi di un
altro conflitto, come dimostra la storia antica e recente, non è da scartare: da
quando Churchill nel 1908 decise di convertire l'alimentazione della flotta da
carbone a oro nero, le nazioni vanno in guerra con il petrolio e per il
petrolio.
La maggior parte degli osservatori finora ha escluso la possibilità di una nuova
tempesta d'acciaio nello Shatt el-Arab: il rischio di un'impennata dei prezzi è
troppo grande, l'Iran può bloccare le sue esportazioni e quelle degli altri
Paesi del Golfo, un bombardamento aereo e missilistico potrebbe dare risultati
non decisivi, scatenando un'altra ondata di risentimenti anti-occidentali sui
quali fanno leva i movimenti islamici. Il presidente iraniano Mahmoud
Ahmadinejad è passato all'offensiva sull'atomica proprio perché conta su questi
fattori, così almeno sostiene Farad Khosrokhavar, direttore della Scuola di alti
studi sociali di Parigi, uno dei maggiori esperti di Iran e Medio Oriente. Il
parere di Khosrokhavar è condiviso da molti altri analisti, anche americani.
Eppure il pericolo di un conflitto esiste, condotto magari su scala regionale e
non, almeno ufficialmente, dagli americani: Ahmadinejad si comporta come se la
guerra fosse già iniziata e teme, secondo i diplomatici iraniani, che Israele,
potenza nucleare non dichiarata del Medio Oriente, intenda ricorrere alla forza.
«In fondo - sottolinea Khosrokhavar - nessuno in Occidente ha mai fermato la
mano di Israele quando voleva colpire un obiettivo».
Prima di piombare nel coma, il premier israeliano Ariel Sharon aveva fatto
capire che l'Iran potrebbe essere nel mirino di un'operazione "Osirak Plus", dal
nome dell'impianto atomico iracheno distrutto nell'81 dai caccia di Tel Aviv.
Troppi i bersagli da centrare, troppo pochi gli aerei disponibili, dicono i
critici dei piani di attacco. Uno "strike" israeliano parziale assesterebbe
comunque un duro colpo non soltanto alle velleità atomiche dei pasdaran, ma a
tutto l'Iran. E in Medio Oriente, grazie anche all'ascesa di Hamas, si sta
creando un clima internazionale meno sfavorevole alla giustificazione di un
attacco preventivo.
Le conseguenze di un'azione militare però possono essere devastanti: un
conflitto può mandare in crisi le forniture e, soprattutto, non esiste più da un
pezzo una capacità di produzione petrolifera inutilizzata. I grandi produttori,
dalla Russia all'Arabia Saudita, stanno pompando a pieno ritmo per approfittare
dei prezzi elevati. In passato è stata l'Arabia Saudita, l'amica del cuore del
mondo industriale, a calmare i mercati nei momenti difficili con supplementi di
milioni di barili quando Saddam nel '90 invase il Kuwait, dopo l'11 settembre e
nel periodo precedente l'invasione dell'Irak.
Le riserve strategiche, americane
ed europee, oggi coprono una domanda limitata, e se la spia del serbatoio
comincia a segnare rosso anche gli indici della crescita si abbatteranno.
Quale sbocco può avere la crisi sul piano diplomatico? Se l'escalation contro
Teheran si concretizzasse con eventuali sanzioni, gli iraniani potrebbero
utilizzare l'arma del petrolio come già fecero gli arabi nella guerra del Kippur
del '73 e dopo l'ascesa di Khomeini nel '79. La maggior parte degli osservatori
fa notare che al Consiglio di Sicurezza si potrebbero opporre a sanzioni la
Russia, la Cina che conta per il 25-30% delle sue importazioni petrolifere
dall'Iran, l'India, membro non permanente del Consiglio, che da Teheran acquista
buona parte del suo greggio e vuole fare un gasdotto delle meraviglie con gli
ayatollah.
Un terzo dell'umanità dipende e dipenderà dalle potenzialità energetiche
iraniane: un buon motivo per evitare una guerra o per farla, a seconda dei punti
di vista. Il petrolio costituirebbe insomma una patente di immunità per l'Iran.
È un ragionamento razionale, ma gli Stati Uniti stanno esercitando forti
pressioni proprio su Cina e India, facendo intravedere la possibilità di
alternative energetiche e strategiche. Gli Usa hanno in mano la carota ma anche
il bastone perché controllano gli Stretti delle petroliere, da Hormuz a Malacca.
Quale potrebbe essere una via di uscita? La soluzione, avanzata dal direttore
dell'Aiea Mohammed el-Baradei, è di aprire un negoziato sul nucleare in Medio
Oriente per arrivare a un patto di sicurezza regionale. Israele, con le sue 200
testate atomiche, ha espresso una certa disponibilità. Si fa poi notare che gli
Stati Uniti e l'Iran hanno interessi convergenti in Iraq, dove gli sciiti,
vincitori delle elezioni, sono interessati a stabilizzare il Paese. Gli Usa
accerchiano l'Iran in Afghanistan e Iraq ma hanno anche liberato Teheran da due
nemici: Saddam e i talebani.
C'è però un'altra faccia della medaglia: iraniani e iracheni controllano il
petrolio del Golfo. Una "Mezzaluna sciita" ricca di risorse che preoccupa i
sunniti, ma anche Stati Uniti e Israele. In fondo al Golfo, dove spesso oro nero
e gas evaporano all'orizzonte insieme alle speranze di pace, quasi sempre ci
sono più motivi per fare una guerra che per evitarla. Resiste, per il momento,
una sorta di "equilibrio della paura" dettato dai timori per le riserve e le
forniture energetiche mondiali, che sembra ipotecare altre iniziative militari
dopo quella, impegnativa e irrisolta, in Irak.
La quarta guerra del Golfo, per
il momento, si consuma in una battaglia negli ovattati corridoi della
diplomazia, e nel freddo calcolo degli interessi economici e strategici.

Fonte
- Il Sole 24 Ore
L'Iran ha
cominciato ad arricchire uranio
13 febbraio 2006
TEHERAN - L’Iran ha già cominciato il
lavoro per l'arricchimento dell'uranio a fini di ricerca, nella sua
centrale di Natanz. Lo hanno riferito fonti diplomatiche.
Un portavoce del governo di Teheran,
Gholamhossein Elham, aveva annunciato in precedenza che in ogni caso
l'Iran avrebbe ripreso le sue attività di arricchimento dell'uranio
prima della nuova seduta a Vienna dell'Agenzia internazionale dell'Onu
per l'energia atomica, in programma il 6 marzo prossimo. L'Aiea aveva
deciso di trasmettere a titolo informativo il dossier nucleare iraniano
al Consiglio di sicurezza dell'Onu.
«Non aspetteremo la seduta dell'Aiea per
riavviare l'arricchimento», ha avvertito il portavoce, che poco prima
aveva anche annunciato un rinvio dell'inizio dei colloqui con la Russia
sulla proposta di compromesso avanzata da Mosca per porre fine alla
grave crisi: proposta che contempla lo svolgimento delle attività di
arricchimento dell'uranio, nell'ambito del controverso programma
nucleare della Repubblica Islamica, non direttamente sul territorio
iraniano bensì sul proprio. «I negoziati non sono stati cancellati», ha
precisato Elham, «ma la data per tenere i colloqui è tutta un'altra
faccenda». In origine l'incontro tra le delegazioni della Russia e
dell'Iran era stato fissato in agenda per il 16 febbraio.
Elham, che parlava nella sua conferenza
stampa settimanale, ha detto che Teheran non intende rinunciare a questi
negoziati, ma i tempi dovranno essere decisi «sulla base della nuova
situazione». La proposta di Mosca prevede il trasferimento sul
territorio russo dell'arricchimento dell'uranio iraniano, a garanzia che
questa tecnologia non possa essere utilizzata a fini militari. Tuttavia,
Teheran ha annunciato recentemente di volere avviare a tempi brevi sul
suo suolo l'arricchimento su scala industriale, dopo che l'Agenzia
internazionale per l'energia nucleare (Aiea) ha deciso di trasmettere a
titolo informativo il dossier nucleare iraniano al Consiglio di
Sicurezza dell'Onu. «Siamo seriamente intenzionati - ha sottolineato
Elham - a portare avanti l'arricchimento a scopi pacifici sul nostro
territorio».
Fonte - Corriere della Sera
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Francia: Iran ha programma clandestino
16 febbraio 2006
PARIGI - Il ministro degli Esteri francesi,
Philippe Douste-Blazy, ha definito il programma nucleare iraniano come
un progetto «clandestino, militare». Non era mai accaduto che il capo
della diplomazia francese usasse termini così espliciti: «È molto
semplice», ha detto, intervistato dalla tv France 2, due giorni dopo la
conferma di Teheran di aver ripreso il programma di arricchimento
dell'uranio. «Nessun programma nucleare civile può spiegare il programma
nucleare del'Iran. Perciò si tratta di un programma nucleare militare
clandestino». L'Iran ha confermato martedì scorso la ripresa dei suoi
lavori di arricchimento dell'uranio nell'impianto di Natanz, nel centro
dell'Iran, precisando che non è per ora un programma su scala
industriale.
Anche la Cina esprime preoccupazione per la
situazione iraniana: «Siamo estremamente preoccupati per lo status della
questione nucleare iraniana», ha detto il portavoce del ministero degli
Esteri cinese Qin Gang durante una conferenza stampa , dopo che ieri gli
Stati Uniti hanno ammonito Teheran di stare sfidando la comunità
internazionale con la ripresa dell'arricchimento dell'uranio.
«appoggiamo la protezione del regime internazionale di
anti-proliferazione e invochiamo una soluzione pacifica della questione
nucleare iraniana attraverso negoziati diplomatici», ha sottolineato Qin
Gang .
Fonte - ANSA
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Perchè Ahmdinejad vuole la guerra ?
19 Febbraio 2006 16:44 Milano -
(di Maurizio Blondet)
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La IAEA non ha
raggiunto la certezza che il programma nucleare iraniano punti alla
fabbricazione della bomba atomica. E persino la CIA ammette: anche in quest’ipotesi,
Teheran non avrà la bomba prima di dieci anni. Ma allora perché il premier
Ahmadinejad sfida l’attacco degli Stati Uniti e Israele?
Putin ha offerto a Teheran di trasferire i processi di arricchimento dell’uranio
in Russia, ossia sotto controllo internazionale, a garanzia che il programma
atomico persiano è solo civile: Ahmadinejad ha rifiutato anche questa mano tesa.
Non capisce i rischi che corre il suo Paese? E’ un fanatico folle e irrazionale?
No, risponde Mahan Abedin, un americano di origine iraniana che lavora per la
Jameston Foundation, forse il massimo esperto dei segreti del regime persiano
(1): Ahmadinejad sa quello che vuole, e corre un rischio calcolato. Contro gli
avversari interni, che gli importano più del nemico esterno americano.
In Iran è in corso uno scontro di generazioni. Al potere reale, sopra
Ahmadinejad, ci sono ancora i clerici ultrasessantenni che, al seguito
dell’ayatollah Khomeini cacciarono lo Scià quasi un trentennio fa, nel 1978. Il
guaio è che oltre metà della popolazione iraniana ha meno di 17 anni: giovani
che non hanno sperimentato sulla loro pelle il regime dello Scià, dalla cui
cacciata i vecchi clerici ricavano la loro legittimità «rivoluzionaria». Ciò che
questi giovani sperimentano nelle loro vite, è l’oppressione moralistica del
regime clericale, che vieta loro persino di ascoltare musica pop; l’ipocrisia di
«grandi teologi» che citano il Corano ma vivono da straricchi, essendosi
accaparrati i proventi del petrolio e il controllo sull’economia e sul
commercio, che gestiscono in modo scandalosamente clientelare. Soprattutto gli
studenti urbani non ne possono più.
La rivoluzione religiosa persiana, dopo 28 anni di regime degli ayatollah, è
stanca. Amhadinejad lo sa, e vuole darle nuovo slancio. Perché con Ahmadinejad
sta salendo al potere la «seconda generazione» rivoluzionaria. I
quaranta-cinquantenni che non devono la loro legittimità alla cacciata dello
Scià 28 anni orsono.
La loro legittimità, questa generazione se l’è conquistata nei campi di
battaglia della lunga, sanguinosa guerra contro Saddam, durata otto anni.
Ahmadinejad stesso viene dalle file dei Pasdaran (guardie rivoluzionarie) che
combatterono negli anni ‘80 contro l’Iraq armato dagli americani, e che hanno
vinto quella guerra. Gente con esperienza militare, fortemente ideologizzata,
che nei campi della morte - dove hanno visto cadere centinaia di migliaia dei
loro coetanei - hanno sviluppato un nazionalismo estremo e una visione
messianica della supremazia sciita sull’Islam; fra loro alcune personalità, fra
cui lo stesso Ahmadinejad, nutrono speranze di tipo millenarista-apocalittico,
non stupefacente in uomini votati alla morte. Una generazione, si potrebbe dire,
di duri e puri. Non cercano l’arricchimento privato: Ahmadinejad ha conquistato
i voti dei poveri e delle campagne anche per il suo stile di vita semplice e
povero.
E come i palestinesi hanno votato Hamas non per il suo fondamentalismo islamico,
ma per l’efficace rete di assistenza sociale che Hamas ha creato a sostegno
della popolazione, così in Iran le masse impoverite, che non vedono un soldo
dell’immenso provento petrolifero, hanno creduto alle promesse egualitarie e
sociali di Ahmadinejad, e che lui stesso indica come l’essenza della rivoluzione
di Khomeini: se infatti quello instaurato dall’ayatollah è un regno spirituale,
perché i privilegi, gli arricchimenti, l’iniquità? Così il progetto della
seconda generazione non è di «moderare» la rivoluzione, ma di «rilanciarla»
incarnandola nella giustizia sociale.
Da agosto 2005, nei pochi mesi del suo governo, Ahmadinejad ha sostituito
importanti banchieri e personalità a capo delle finanze; praticamente in tutte
le provincie ha elevato al posto di governatori compagni d’arme, giovani, con un
passato nei pasdaran; ha cambiato profondamente l’esecutivo. E tuttavia, gli
attesi progressi economici e sociali non si vedono. Evidentemente, perché i
clerici settantenni tengono con mano di ferro i monopoli economico-commerciali
clientelari in cui consiste il sistema «islamico» (in Iran non vige il libero
mercato), e tutti i loro privilegi.
Ahmadinejad ha dunque solo un mezzo per non
farsi usurare in un esercizio inefficace del governo: la fuga in avanti. E’
stato un grave errore americano, dice Abedin, considerare Ahmadinejad un uomo di
paglia, messo al potere dagli ayatollah. Proprio la ripetuta e proclamata
fedeltà di Ahmadinejad allo spirito di Khomeini ha, fra l’altro, il senso di una
polemica sottile contro gli ayatollah che del khomeinismo seguono la «lettera»,
ma che tradiscono la rivoluzione con le loro vite di ricchi; e il nuovo premier
mostra un grado imprevisto di autonomia dai clerici.
«Persino l’ayatollah Ali Khamenei, il capo spirituale della repubblica islamica,
non sembra avere un influsso significativo su Ahamdinejad e la cerchia interna
dei suoi fedeli». Anzi, gli ayatollah sono i più terrorizzati dalla prospettiva
di un attacco americano, che Ahmadinejad sembra far di tutto per provocare.
E non solo perché nessuno in Iran crede che una guerra contro gli USA e Israele
possa essere vinta. I riformisti e i moderati temono la guerra, perché capiscono
bene che un’aggressione americana sarebbe la fine, per almeno un’altra
generazione, per l’emergente movimento «democratico» (o almeno pluralista) che
nasce dal basso, dagli studenti di Teheran e dai ceti urbani. E’ loro chiaro che
gli estremisti della «seconda generazione» approfitteranno dello stato di guerra
per prendere il pieno controllo della politica interna ed estera, e mettere a
tacere le richieste di pluralismo e di liberalizzazione morale.
Ma gli ayatollah hanno da perdere qualcosa di più concreto: il loro sistema di
privilegi economici. A 28 anni dall’avvento di Khomeini, il gruppo di potere
clericale non è più unito dall’ideologia, ma dalla vasta e complessa rete di
monopoli economici, da cui viene fra l’altro la loro capacità di dare «posti»
clientelari a una gioventù ampiamente inoccupata. L’economia di guerra, temono a
ragione, darà ad Ahmadinejad l’opportunità di smantellare questa rete e questo
potere.
La domanda è: ma Ahmadinejad, per questo scopo, è pronto ad accettare la
devastazione del suo paese sotto le bombe americane? Ecco il punto: per la
«seconda generazione», che ha combattuto sui campi della morte della guerra
Iran-Iraq, la devastazione è l’occasione di una «catarsi completa», la
purificazione del regime. Sotto le bombe, l’occidentalizzazione strisciante sarà
bloccata; l’Iran riapparirà nel mondo islamico come il faro della lotta e della
sofferenza nella «guerra di civiltà» in corso, e potrà porsi alla testa della
rivolta musulmana contro il sistema di vita occidentale, che sta crescendo sotto
i loro occhi. Devastazione?
La «seconda generazione» di cui Ahmadinejad è l’esponente, ha già vissuto le
devastazioni, le ferite, le penurie di una guerra spaventosa durata otto anni,
ed ha visto che si può sopravvivere. La vittoria contro Saddam ha provato,
almeno agli occhi di questi combattenti, che per quanto devastato, l’Iran «non è
conquistabile». La sua vastità e la sua demografia rendono proibitiva
un’occupazione americana sul terreno.
Del resto, che l’Iran non sia sul punto di sparire sotto le bombe deve crederlo
anche Pechino, visto che sta firmando con Teheran un contratto da 100 miliardi
di dollari per lo sviluppo del giacimento iraniano di Yadavaran, progetto che
durerà parecchi anni (2). Lo scenario più probabile è quello del «contenimento
di lunga durata» che gli USA applicarono contro Saddam tra il 1991 e il 2003:
periodiche, ripetute campagne di bombardamenti , seguite da pause più o meno
lunghe, un embargo crudele e un severo isolamento internazionale. Dodici anni di
questo regime non hanno fatto cadere Saddam; Ahmadinejad ha buone ragioni per
ritenere che non farà cadere il suo regime. E dodici anni sono un periodo che
può far fiorire opportunità e alleanze oggi insperabili, vista l’ebollizione del
mondo islamico, e l’instabilità planetaria innescata dall’avventurismo
americano.
In questo calcolo della seconda generazione può esserci qualche errore. In
quanto potenza sciita, è improbabile che l’Iran conquisti i cuori e l’egemonia
nel mondo musulmano, massicciamente sunnita. E già la provincia iraniana di
Sistan vo Balochistan (al confine con Pakistan e Afghanistan), abitata da
sunniti, è di fatto fuori del controllo di Teheran: gli americani possono
imporre una «no fly zone» in quest’area, che verrebbe infiltrata facilmente dal
genere ambiguo di estremisti tipo «Al Qaeda», che in Iraq non hanno fatto altro
che massacrare sciiti.
Altri gruppuscoli sciiti ultra-estremisti, per ora tenuti sotto controllo dalla
polizia iraniana, possono alzare la testa per il disgregarsi dell’organizzazione
del regime sotto attacco, e con soldi americani (Bush ha stanziato 75 milioni di
dollari per finanziare i gruppi avversi agli ayatollah).
Ma c’è un errore di
valutazione che può essere davvero fatale. E si vedrà se il Pentagono,
constatata l’inefficacia dei bombardamenti convenzionali e della strategia di
isolamento, lancerà sull’Iran la bomba atomica. Allora Ahmadinejad non avrà solo
un paese devastato: avrà un paese incenerito.
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Note
1) Mahan Abedin, «Ahmadinejad on the warpath», Asia Times, 18 febbraio 2006.
2) «China, Iran near huge oil field deal», Associated Press, 17 febbraio 2006.
3) Iason Athanasiadis, «Funding the regime Change», Asia Times, 18 febbraio
2006.

Fonte -
EFFEDIEFFE per WallStreetItalia.com
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Il vero rischio di Mr. Bernanke
20 Febbraio 2006 21:54 Milano - (di
Geminello Alvi)
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Far parere abituale quanto non lo è
eppure dura, e rende ovvio non preoccuparsene: è il miracolo riuscito da
un decennio all'economia degli Stati Uniti. Tanto che neppure 726
miliardi di saldo negativo della bilancia mercantile sono ora
considerati in sé preoccupanti. Visto che la Cina origina solo un quarto
di questo disavanzo, la sua quota è immutata da fine anni '90 e
soprattutto seguita a comprare titoli degli Stati Uniti. Come del resto
pure russi e arabi seguitano a riciclare petrodollari. E anche per la
curva invertita dei rendimenti che lascia prevedere recessione, ci sono
risposte sufficienti. Si potrebbe dedurne, ad esempio, che aiuta gli
investimenti. E così via ogni volta a dire normale quanto non lo è:
perché questa è stata la grande magia riuscita a Greenspan stampando
dollari. Ogni volta far perdere il centro del ragionamento. Assuefarci
all'idea che tutto sia ormai relativo, regolato dagli automatismi di una
politica monetaria, di cui i più si sentono tra l'altro un po'esperti,
tanto è banale, ovvia. Invece quanto sta accadendo è inquietante, e ha
spiegazione non relativa, e inoltre evidente solo che ci si voglia
guardare intorno.
Il prezzo della ricchezza, siano case o titoli di Stato, è troppo
cresciuto: dollari e yen stampati in questi due decenni sono divenuti
una ricchezza che ovunque s'è sproporzionata ai redditi. Tant'è che
circa un mese fa quando una legge sulle pensioni ha aggravato il crollo
dei rendimenti sui titoli di Stato a lunga, Mervyn King il governatore
della Bank of England ha spiegato che proprio questo era ormai il punto.
Un eccesso di liquidità ha accresciuto i prezzi delle attività e
diminuito gli interessi a lunga. In altri termini: non c'è reddito né da
lavoro e neppure da interesse che si proporzioni ormai all'aumento dei
patrimoni, del valore degli stocks.
Ed è vero ovunque e per chiunque. In media i cinesi stanno risparmiando
il 45% dei loro redditi. Non credono che i comunisti provvederanno alla
loro vecchiaia, impegnati come sono, del resto anche in Italia, a fare i
soldi. E neppure si fidano delle loro banche, di nuovo con buon senso. E
persino la banca centrale cinese del resto non trova di meglio che
investire il suo eccesso di riserve, di ricchezza, in titoli di stato
americani. E i giapponesi, pure loro, si sentono al sicuro col risparmio
in quei titoli di Stato, come i ricchi, i russi e gli arabi.
E' insomma
la propensity to hoard, all'accumulo, del mondo universo che seguita a
invertire la curva dei tassi. E anche i baby boomers in Europa o negli
Stati Uniti del resto intensificano l'accumulo di ricchezza, prima di
andare in pensione. E i prezzi delle case confermano la stessa evidenza.
Nell'ultimo anno la ricchezza reale netta è cresciuta negli Stati Uniti
di 5 trilioni di dollari. Ovunque insomma l'indice dei prezzi dei
patrimoni è ben superiore a quello dei prezzi al consumo.
La questione centrale, attorno a cui tutto il resto gira, non è insomma
il doppio deficit americano o il successo cinese. E' quanto possa ancora
crescere la ricchezza, di quanto possa seguitare a sproporzionarsi
rispetto ai redditi. Ed i problemi per le banche centrali s'originano
tutti da questa bolla che può peggiorare oltre misura, senza che i
prezzi al consumo infine inducano una stretta della politica monetaria.
Ecco quanto rende prevedibile una politica monetaria più severa per le
banche centrali.
Il rischio è insomma che il novizio Bernanke debba far fronte lui alle
follie di Greenspan, e a tutti i dollari e gli yen stampati in questi
anni. E l'accelerazione o meno dei tassi in particolare potrebbe
riferirsi al prezzo di due stock di patrimoni: oro e petrolio. Con uno
stabile superamento della soglia dei 70 dollari al barile e di 600
dollari per oro, la sterzata dei tassi diviene non più evitabile.
Insomma i cinesi lavorano per noi e deflazionano i prezzi dei manufatti,
e la produttività dei computer pure.
Ma quest'impulso deflattivo potrebbe essere soverchiato prima o poi
dalla bolla della ricchezza, di cui l'oro e il petrolio sono i primi
indici. Peraltro la politica monetaria negli Stati Uniti ha un lag di
12-18 mesi e i tassi dei mutui ipotecari nei prossimi 6-12 mesi già
inizieranno a aggiustarsi. Le famiglie americane hanno comprato insomma
dei derivati e non lo sanno, mentre i prezzi delle case a copertura
danno già segni di cedimento. E aumenta il senso di colpa dei banchieri
centrali, che hanno preso a riferimenti della politica monetaria i
prezzi al consumo e non quelli della ricchezza, come anche avrebbero
dovuto.

Fonte -
Corriere della Sera
Fed:
Bernanke, Continuita' Con Politiche Era Greenspan
Mercoledì 15 Febbraio 2006,
16:55
(ANSA) - NEW YORK, 15 FEB - Il
neo presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke,
ribadisce la volontà di voler seguire le linee guida di
politica monetaria dell'era Greenspan, quelle che hanno
permesso alla Fed di "contribuire alla tonica performance
dell'economia Usa". Lo ha detto il numero uno della
banca centrale statunitense, nel corso dell'audizione sullo
stato dell'economia davanti alla Commissione Finanza della
Camera."Nel corso degli ultimi 3 anni
da me spesi come componente del Board of Governors e del
Federal Open Market Committee (Fomc, il board di politica
monetaria, ndr), l'approccio - ha osservato Bernanke durante
la sua prima uscita ufficiale da capo della Fed - è stato
quello di processi operativi di forte successo sotto la
leadership di Greenspan". Come già indicato "nella mia
audizione di conferma davanti al Senato, è mia intenzione
mantenere continuità con questo e altre pratiche seguite
durante l'era Greenspan", utili anche per "alimentare in
futuro una solida economica". (ANSA).
Fonte
- ANSA
|
Ben
Bernanke (Fed): forse necessarie nuove strette sui
tassi
Mercoledì 15 Febbraio 2006,
17:02
Radiocor - Washington, 15 feb -
'Potrebbero essere necessarie nuove strette monetarie' anche
se sono stati gia' fatti molti progressi nel rimuovere
l'approccio accomodante di politica monetaria. Cosi' il
nuovo presidente della Riserva Federale, Ben Bernanke, nel
primo intervento al Congresso da quando ha sostituito Alan
Greenspan alla guida della Fed. Bernanke ha aggiunto 'di
essere d'accordo' con quanto sostenuto dal Fomc, il braccio
operativo della Fed, che nella sua ultima seduta (il 31
gennaio) ha parlato della possibilita' di nuovi rialzi dei
tassi Usa. Secondo Bernanke, 'le piu' recenti statistiche
mostrano che la crescita dell'economia Usa resta sulla buona
strada nonostante ostacoli' come gli elevati prezzi
dell'energia, che rischiano di avere ripercussioni su altri
settori. 'Nuove iniziative di politica monetaria dipendono
comunque dall'andamento dei dati economici', ha aggiunto.
Quanto all'occupazione e al commercio al dettaglio 'mostrano
una crescita solida', mentre la Fed intende osservare 'da
vicino' lo sviluppo del mercato immobiliare americano, che
mostra segnali di raffreddamento, ma non di un collasso.
L'inflazione appare 'frenata', anche se non sono scomparsi i
rischi di un rialzo dei prezzi.
Fonte
- Radiocor |
Fed:
"Inversione curva non segnala recessione"
Mercoledì 15 Febbraio 2006,
17:11
Davanti alla Commissione
servizi finanziari della Camera statunitense, il presidente
della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha voluto rassicurare
in merito al significato prospettico dell'inversione della
curva dei rendimenti riferita ai titoli di stato americani.
Il premio per i titoli a più lungo termine, secondo Bernanke,
è diminuito per una serie di fattori tra cui principalmente
la bassa inflazione e la stabile crescita. Un secondo
fattore è stato poi identificato da Bernanke nella
sovrabbondanza di risparmio a livello mondiale.
Fonte
- ANSA
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WALL
STREET: DELUSIONE UTILI E RISCHIO INFLAZIONE
2 Febbraio 2006
22:15 NEW YORK
Una giornata da dimenticare per
gli indici americani, affossati dal deludente dato macro
sulla produttivita’, dalle contrastate notizie sugli utili
societari e da alcune tensioni in attesa del rapporto
sull’occupazione che verra’ rilasciato nella mattinata di
venerdi’. Il Dow Jones ha ceduto lo 0.93% a 10851, l’S&P500
ha perso lo 0.91% a 1270, il Nasdaq e’ arretrato dell'1.25%
a 2281. Le forti vendite comparate del comparto retail
registrate nel mese di gennaio non sono state sufficienti
per contenere l’ondata di Sell che ha investito i mercati.
Nel quarto trimestre dello
scorso anno, la produttivita’ ha registrato un calo dello
0.6%, il primo degli ultimi 5 anni, attestandosi ad un
livello nettamente inferiore rispetto a quello atteso dal
mercato, pari ad un rialo dell’1%. A preoccupare
maggiormente gli operatori e’ stata, pero’, la componente
relativa al costo unitario del lavoro, un indicatore chiave
sulle pressioni inflazionistiche, che ha registrato un
aumento del 3.5%, il maggiore del 2005.
Nell’ultimo incontro del Fomc,
la Banca Centrale Americana, dopo aver alzato i tassi
d’interesse al 4.5%, ha annunciato che le future decisioni
sul costo del denaro dipenderanno largamente dai dati
economici rilasciati quotidianamente. Ha aggiunto che non
sono da escludere ulteriori rialzi del target sui fed funds
nell’intento di mantenere contenuta l’inflazione. Di
conseguenza, il dato odierno ha risvegliato i timori di una
possibile continuazione del ciclo rialzista da parte della
Fed, ipotesi certamente non gradita dai mercati azionari.
Fonte
- ANSA
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IL
T-BOND USA A 30 ANNI INVERTE DI NUOVO LA CURVA
07 Febbraio 2006
11:40 NEW YORK
Il ritorno dei Treasury
trentennali si rivela un successo. L’ottima domanda
registrata ieri dall’asta indetta dal Tesoro americano su
titoli per 14 miliardi di dollari ha schiacciato il
rendimento dei nuovi bond a lunghissima scadenza al 4,53%,
più in basso rispetto al 4,54% dei decennali e del 4,64% dei
biennali. In questo modo, la curva dei tassi americani si è
completamente invertita: un evento storico, che sicuramente
sarà analizzato a fondo dalla Federal Reserve, poiché in
passato ha spesso anticipato un brusco rallentamento
dell’economia.
Per tornare all’asta sui
trentennali Usa, la domanda è stata doppia rispetto
all’offerta, portando il prezzo sotto la pari. E questo
nonostante alcune case d’investimento (come Lehman Brothers)
avessero previsto un’operazione poco brillante per il Tesoro
Usa, definendo il Treasury trentennale «troppo caro».
Evidentemente, sul collocamento ha giocato un peso
determinante la domanda dei grandi fondi pensione
statunitensi che devono finanziare passività a lunghissimo
termine. Senza dimenticare le richieste arrivate dagli
investitori istituzionali europei, che sottoscrivendo i
titoli americani ottengono un rendimento superiore rispetto
ai bond europei.
Fonte
- ANSA |
DEFICIT COMMERCIALE USA: IN AUMENTO A $65.7 MLD
10 Febbraio 2006
14:30 NEW YORK
Nel mese di dicembre il deficit
della bilancia commerciale USA si e’ allargato dell’1.5%
rispetto al mese precedente attestandosi alla quota di $65.7
miliardi.
Il dato e’ stato comunicato dal
Dipartimento del Commercio.
Il deficit si e’ rivelato
peggiore alle stime degli analisti che erano per una aumento
a $64.8 miliardi dai $64.2 mld fatto registrare a novembre.
Il dato e’ risultato in
crescita nonostante un aumento delle esportazioni
leggermente superiore a quello delle importazioni.
Il deficit nei confronti della
Cina si e’ esteso a $16.3 miliardi, in netto rialzo rispetto
ai $14.2 mld fatti registrare nello stesso mese dello scorso
anno.
Per l’intero 2005, gli Stati
Uniti hanno registrato un deficit record di $725.8 miliardi,
circa il 5.8% del Prodotto Interno Lordo. Nel 2004 si era
attestato a quota $617.6 mld. (5.3% del Pil).
Fonte
- ANSA
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Occasione
mini-dollaro
5 Febbraio 2006 12:36 MILANO - (di
Vincenzo Sciarretta)
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Un plebiscito contro il dollaro: nove
delle dieci maggiori banche europee, interpellate da Borsa&Finanza,
condannano la moneta statunitense a un calo più o meno marcato verso
l’euro. Altri cinque operatori internazionali confermano, indicando per
la fine del 2006 un cambio con baricentro attorno a 1,30. La giuria
degli analisti insomma, più che «un’opinione di consenso», ha espresso
un verdetto all’unanimità: di condanna del biglietto verde.
La notizia non è da prendere sottogamba:
i soli istituti europei interrogati da B&F messi insieme hanno una
capitalizzazione di Borsa superiore ai 500 miliardi di euro. Una potenza
di fuoco che basta a dare l’impronta a un mercato.
Sull’altro piatto
della bilancia c’è però l’esperienza di situazioni analoghe di consensus
unanime. Quando tutti gli operatori condividono una tesi, i rischi si
moltiplicano: basta un battito d’ala di farfalla non previsto dai
mercati a scatenare l’uragano di una fuga generalizzata nella direzione
opposta alle previsioni.
L’aria che tira si intuisce già dal
fatto che il più ottimista degli esperti sentiti è Manuel Balmaseda del
Banco Bilbao, che per un movimento laterale e volatile fra 1,20 e 1,25
fino al 2007. Ossia una stabilizzazione del cambio poco al di sopra dei
valori attuali. Per il resto è tutto un coro di cassandre. Si va
dall’1,24 pronosticato da Stephen Jen di Morgan Stanley all’1,35
indivicato da Victoria Marklew dell’americana Nothern Trust. Per capire
la tesi adottata dalle banche d’affari sul 2006, bisogna prima passare
in rassegna gli eventi che hanno portato al rimbalzo del dollaro nel
2005.
In primo luogo il differenziale nei tassi d’interesse: con il rialzo del
14 dicembre 2004, il saggio sui fondi federali superava per la prima
volta da anni il tasso base europeo. Da allora i rendimenti Usa sono
rimasti maggiori e hanno esercitato un’attrazione crescente sui
detentori internazionali di liquidità.
Sostenendo il trasferimento dei fondi
dall’una all’altra sponda dell’Atlantico. C’è poi da ricordare la crisi
delle istituzioni comunitarie della scorsa primavera: la riforma del
Patto di Stabilità e il no francese al referendum sulla Costituzione
Europea accompagnarono il maggior calo recente della moneta unica.
Infine il cosiddetto scudo fiscale del 2005 che permetteva alle
multinazionali Usa di rimpatriare i profitti detenuti all’estero con uno
smaccato sgravio d’imposta. Ma con la fine del 2005, ci spiegano gli
analisti, in archivio sono finiti anche tutti gli eventi pro-dollaro.
«Lo scudo fiscale è alle nostre spalle - dice Niels Christensen di
Société Générale - Inoltre il grosso degli afflussi di capitale verso
gli Stati Uniti ha avuto per obiettivo i titoli del debito. Le cedole
più ricche, unite alla forza mostrata dalla valuta, hanno reso il
movimento verso il dollaro quasi irresistibile. Ma i flussi di capitale
sono volatili».
BCE E FED, RUOLI INVERTITI. Gli analisti
anticipano una virata delle banche centrali di Washington e Francoforte.
Per Roberto Mialich di Unicredito, «il mercato ha adottato la tesi
secondo cui da qui in avanti la Bce stringerà le maglie della politica
monetaria più della Fed, che invece potrebbe addirittura allentare la
presa nella seconda parte dell’anno». Insomma, i protagonisti dei cambi
pronosticano che la questione del differenziale nei tassi d’interesse
passerà in seconda linea nel 2006, e perciò vedono riemergere il tema
del deficit Usa come elemento trainante: «Lo squilibrio dei conti esteri
è tuttora in proporzioni che non hanno precedenti per gli Stati Uniti -
argomenta Alex Patelis di Merrill Lynch - Nel 2005 la seduzione del
reddito fisso americano combinato con lo scudo fiscale ha compensato lo
squilibrio commerciale. Ma nel 2006, la bilancia dei pagamenti tornerà a
fare da innesco per un ribasso del dollaro».
Il tema dei conti esteri che pesano sul dollaro è comune a tutti gli
operatori sentiti: «Gli investitori si concentreranno sul disavanzo di
Washington», commenta Bob Mckee di Independent Strategy. «Con ogni
probabilità la valuta statunitense subirà un ribasso per via del
disavanzo», gli fa eco Victoria Marklew di Nothern Trust. L’unica
eccezione conferma la regola: «Personalmente - ribatte Tony Norfield di
Abn Amro - considero i timori legati al deficit un po’ esagerati. Ma è
la tesi prevalente, catalizza l’attenzione dei cambisti e non si può
trascurare».
L’OTTIMISTA. L’unica voce fuori dal coro
proviene dal Credit Suisse. Un recente studio a firma di Marcus
Hettinger prevede un rafforzamento fino a 1,11-1,13. La diagnosi ruota
attorno a due osservazioni. Primo, il differenziale dei tassi
d’interesse, seppure stabilizzato, è ancora in grado di attirare copiosi
capitali esteri. Secondo, le importazioni americane calano perché la
locomotiva a stelle e strisce è in leggera frenata. Mentre le
esportazioni salgono trainate dalla ripresa in Europa e Asia. Ciò
contribuisce a un riequilibrio generale. Appuntamento ai prossimi mesi
per sapere chi ha ragione.

Fonte -
Bloomberg - Borsa & Finanza
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UNA CASA A FORMA DI BOLLA
11 Febbraio
2006 21:16 MILANO
La Banca centrale europea segnala che in
Europa è in atto un pericoloso boom immobiliare, favorito dal
basso costo del denaro. I prezzi delle abitazioni sono saliti
del 7,7 per cento nella prima metà del 2005, nella media
europea, con aumenti particolarmente accentuati in Francia e in
Spagna. Unitamente a ciò si sono accresciuti gli indebitamenti
delle famiglie per mutui ipotecari immobiliari. Essi hanno
raggiunto un livello patologico in Olanda, arrivando al 70 per
cento del Pil (prodotto interno lordo), mentre in Francia e in
Portogallo hanno superato il 5 e in Spagna il 40 per cento.
L’unico paese relativamente immune da questa patologia è
l’Italia dove il boom immobiliare c’è, ma il rapporto fra mutui
ipotecari sugli immobili e Pil è poco sopra il 15 per cento. La
Bce desume da tutto ciò la necessità di accrescere il tasso di
interesse, per impedire che la bolla immobiliare si dilati sino
a scoppiare in modo pericoloso. Ma ciò che essa non dice è che
il rialzo dei tassi (probabilmente di un quarto di punto) che è
stato preannunciato potrà attenuare la bolla immobiliare, ma
potrà avere effetti depressivi sulla domanda di consumi,
particolarmente nei paesi ove il livello dei mutui immobiliari
rispetto al Pil è molto elevato. Ciò per un effetto di tenaglia
sulle famiglie. L’aumento del costo dei debiti, per i mutui a
tasso variabile riduce il potere di acquisto. E la riduzione del
valore degli immobili che garantisce tali debiti e altri
finanziamenti obbliga i debitori a ridurre il loro indebitamento
e, comunque, a non espanderlo più. Per capire la dimensione del
pericolo basta osservare che attualmente il valore degli
immobili in Europa è del 15-20 per cento superiore a quello che
abitualmente si ha capitalizzando il loro reddito. In altre
epoche e in altre aree del mondo la bolla immobiliare ha avuto
luogo come sottoprodotto di una espansione eccessiva
dell’economia. In Europa avviene in alternativa all’espansione
della produzione e dell’investimento industriale. Il rischio che
corriamo, in Italia, è di subire una depressione europea, a cui
noi solo in piccola parte abbiamo contributo e di doverla pagare
con restrizioni monetarie che, essendo noi nel manipolo dei
“virtuosi”, non ci meriteremmo.
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Spararle
grosse
3 Febbraio 2006 13:10 MILANO - (di
*Alessandro Fugnoli)
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*Alessandro Fugnoli e' lo strategist di
Abaxbank. Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell'
autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall
Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
Qualche volta fa bene uscire dal cauto
ottimismo, dai moderati rialzi e dai sereni consolidamenti, dalla
minestrina del 5-10 per cento di eterno aumento annuo degli utili e dei
corsi, dai rassicuranti trading range e dal futuro che scorre davanti ai
nostri occhi levigato e asettico, così diverso dal passato, molto spesso
spaventoso, convulso e caotico. Qualche volta fa bene provare a pensare
l’impensabile, sapendo che la realtà, talvolta, supera l’immaginazione
più sfrenata. E’ una forma di ginnastica mentale.
Non tutte le provocazioni meritano
uguale interesse. La maggior parte delle sparate ha natura estrapolativa.
Si tira una riga su quello che è successo e la si prolunga a piacere.
L’estrapolazione, in sé, non ha un particolare valore conoscitivo,
ma è
utile talvolta, come vedremo, a mostrare l’assurdità di
teorie a volte ampiamente condivise.
Molte provocazioni, inoltre, hanno
solo natura apologetica o, al contrario, catastrofista per partito
preso. Al primo gruppo appartengono due libri usciti nel 2000, “Dow
36000” e “Dow 100000”. Al secondo appartengono le opere complete di Ravi
Batra. Anni fa, su Cuore diretto da Michele Serra c’era una rubrica
intitolata “Nulla Resterà Impunito”. Vi si rivisitava con pazienza e
sadismo feroce lo sciocchezzaio degli anni precedenti ingiustamente
dimenticato. Un’opera meritoria.
Tra i provocatori geniali includiamo
invece volentieri Marc Faber e Matt Simmons, spesso assolutamente soli
nelle loro elucubrazioni, a volte nel torto ma mai banali o gratuiti.
Nelle ultime settimane il settimanale Barron’s ha pubblicato
un’intervista a Simmons e una chilometrica roundtable cui ha preso parte
Faber. Simmons (il maggiore teorico del peak oil, la teoria per cui il
petrolio non sta ancora scomparendo, ma la produzione si sta
stabilizzando mentre la domanda continua a crescere) spiega che ha
scommesso 5mila dollari sul petrolio a 200 dollari entro il 2010. Faber
si chiede invece che fine faranno i tassi americani fra dieci anni e
dice che non si stupirebbe di vederli sopra il 15 per cento, come nei
primi anni Ottanta.A noi la tesi di Faber pare tirata, ma non
necessariamente assurda. Oggi i mercati obbligazionari comprano
decennali e trentennali con l’idea che l’inflazione è morta per sempre e
che semmai è la deflazione in agguato che deve preoccupare.
Ammesso che sia così (e vedremo poi che
non è detto) può benissimo accadere che alcuni paesi abbiano inflazione
anche se il contesto strutturale globale è deflazionistico. Greenspan ha
detto molte volte al Congresso, in forma insolitamente chiara, che se si
vogliono mantenere le pensioni al livello promesso e se si vuole
continuare a spendere sempre di più per la sanità (e le ultime proposte
dell’amministrazione Bush aumentano ulteriormente le proiezioni di
spesa) la Fed si troverà costretta a stampare dollari in quantità tale
da eroderne significativamente il potere di acquisto nei prossimi
decenni. Ad ascoltarlo attentamente, Greenspan è spesso sembrato essere
assolutamente certo di questo esito, più che considerarlo un’ipotesi.
Anche se un’amministrazione democratica
dovesse succedere all’attuale fra due anni, ben difficilmente lo
squilibrio strutturale dei conti pubblici verrebbe sanato. Non parliamo
del disavanzo attuale, che è alto ma in sé sopportabile. Parliamo delle
proiezioni a dieci, vent’anni. I democratici aumenterebbero le tasse, ma
aumenterebbero le spese nella stessa misura o forse anche di più.
L’aspetto peculiare dei mercati attuali è che i bond pensano alla
deflazione prossima ventura, mentre le borse pensano a un’espansione
senza fine. Consapevoli o meno, tutti ormai seguono il paradigma della
seconda Bretton Woods che, nella versione iniziale di tre anni fa,
sosteneva la possibilità di bond tranquilli, cambi stabili ed espansione
globale fortissima per due decenni a venire, fino cioè all’esaurimento
delle risorse inutilizzate in Asia, ovvero delle centinaia di milioni di
disoccupati e sottoccupati in India e Cina. Negli ultimi mesi, tuttavia,
la scuola della seconda Bretton Woods ha apportato alcune modifiche al
suo modello, che ora include una graduale svalutazione del dollaro e un
progressivo aumento dei tassi americani.
Ricordiamo che stiamo parlando del paradigma più brillante degli ultimi
anni, quello che ha previsto e spiegato tutto quello che è successo, al
contrario dei modelli austriacanti (si pensi a Stephen Roach) che sono
rimasti spiazzati dagli eventi.
Oggi, quindi, a dire che non c’è
problema sono rimasti solo i supply sider più accaniti, quelli che
sostengono che il mondo compra dollari perché in America gli
investimenti rendono di più (quando i dollari, in realtà, li comprano
solo i governi dell’Asia e dell’Opec per motivi politici). In ogni caso,
dovendo scegliere tra i bond che pensano che stiamo per rallentare e le
borse che pensano che non rallenteremo mai, ci sembra che per qualche
tempo avranno più ragione le borse. Se la scelta politica mondiale è
quella di evitare ogni sofferenza (utile o inutile che sia) e
intervenire con politiche espansive al minimo cenno di debolezza del
ciclo allora nel tempo le borse avranno ancora più ragione dei bond,
indipendentemente dalla questione della deflazione strutturale (si può
avere un metabolismo per cui si tende a dimagrire, ma se ci si ingozza
oltre misura per prevenire il dimagrimento alla fine si ingrassa).
Ma più ragione di bond e borse l’avranno le materie prime. Le risorse
inutilizzate che ci hanno finora permesso di crescere senza inflazione
sono composte da forza lavoro, di cui c’è grande abbondanza in Asia
(anche se fra qualche mese comincerà di nuovo ad eseerci scarsità in
America). Le materie prime, però, sono già scarse adesso e lo saranno
ancora di più se l’espansione continua. Certo, ci saranno fasi in cui
temporaneamente l’offerta terrà testa alla domanda, ma la tendenza è
segnata.
La previsione di Matt Simmons sul
petrolio può suonare eccessiva, ma eccessivo e poco colto sarebbe
sembrato nel 1998 (quando il greggio stava a 12 dollari e l’Economist
scriveva che sarebbe crollato a 5) scommettere che qualche anno dopo,
cioè oggi, l’avremmo visto a 70.
Fonte -
Il Rosso e il Nero, settimanale di strategia di Abaxbank per Wall
Street Italia, Inc.
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