|
|
 |
|
 |
|
|
. |
|
|
|
Lunedì 2
gennaio
2006 |
|
Venerdì 6
gennaio
2006 |
|
Venerdì 20
gennaio
2006 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Una nuova guerra fredda
4 Gennaio 2006 0:02 - Lugano
(di Giorgio S. Frankel)
________________________________________
La guerra del gas tra Mosca e Kiev non è un incubo solo per 48
milioni di ucraini, per i quali c’è lo spettro di un inverno al freddo e
con le fabbriche ferme, o quasi, dopo il blocco delle forniture russe
scattato il 1° gennaio. Anche l’Europa ha di che preoccuparsi: circa il
25% del suo gas naturale viene dalla Russia e, per di più, quasi tutto
questo gas (l’80%) arriva agli utenti europei con gasdotti che passano
per l’Ucraina. E così, sin dal primo giorno del blocco all’Ucraina, vi
sarebbe stato un sensibile calo anche del gas russo in arrivo in
Austria, Polonia e Ungheria. Per mercoledi', a Bruxelles, la Commissione
dell’Ue ha già convocato una riunione di esperti su questa nuova
emergenza.
Ma al di là dei timori di una possibile «crisi del gas», sembra che la
Russia, con Vladimir Putin al Cremlino, si sia fatta di colpo assai più
assertiva, voglia essere trattata e rispettata come una grande potenza
(anche se non lo è più) e utilizzi a tale scopo le sue notevoli risorse
energetiche. La Russia è il «numero due» mondiale del petrolio, dopo
l’Arabia Saudita, sia come produttore sia come esportatore, e il «numero
uno» per il gas, quanto a produzione e riserve.
La compagnia russa Gazprom, che oltre ad operare nel settore del gas è da poco entrata
anche nel settore del petrolio, aspira a diventare un colosso mondiale
alla pari delle «major» occidentali come ExxonMobil e le altre.
La Russia è oggi un vitale fornitore di idrocarburi all’Europa, ha un
crescente ruolo anche sul mercato asiatico (Cina, Giappone, India e
Corea del Sud), e mira ad un’importante quota degli approvvigionamenti
Usa di greggio e, in futuro, di gas naturale liquefatto. Tutto ciò,
sullo sfondo di una strisciante crisi petrolifera mondiale coi prezzi in
rialzo, significa che il petrolio e il gas si traducono, per Mosca, in
una favolosa pioggia di dollari e, forse, in nuove ambizioni di potere
strategico a livello globale.
Nella crisi tra Russia e Ucraina, ad esempio, è difficile separare la
componente economica da quella politica. I russi dicono che è solo una
vertenza sui prezzi. Fin qui l’Ucraina ha pagato, per il gas russo, solo
50 dollari ogni mille metri cubi - un prezzo decisamente sovvenzionato.
Poiché l’Ucraina viene ora considerata una «economia di mercato», Mosca
chiede ora un prezzo da mercato internazionale, sui 230 dollari, ma Kiev
dice di non poter pagare più di 80 dollari. La vicina Bielorussia,
invece, paga meno di 50 dollari. Il problema politico è che, col
presidente Viktor Yushchenko (eletto l’anno scorso contro il filo-russo
Viktor Yanukovych), l’Ucraina (che un tempo faceva parte dell’Unione
Sovietica) segue una politica avversa alla Russia e sempre più vicina
all’Occidente, e in particolare agli Usa. Questa svolta può avere una
notevole rilevanza geo-politica e accentuare il timore del Cremlino di
un progressivo accerchiamento strategico della Russia da parte degli Usa
e della Nato.
Quindi, col subitaneo e astronomico aumento dei suoi prezzi, e con
l’interruzione del servizio, la Russia mostra all’Ucraina di poterle
provocare danni economici potenzialmente catastrofici. E alle prossime
legislative, fissate per marzo, il partito anti-russo di Yushchenko
potrebbe subire una grave sconfitta. O no? C’è infatti anche le teoria
(però proposta dai russi) che sarebbe stato proprio Yushchenko a
provocare questo guaio, allo scopo di suscitare un’ondata di
nazionalismo anti-russo da sfruttare alle elezioni.
Una cosa che lascia molto perplessi è che Mosca abbia chiuso il gas
all’Ucraina, e posto il rischio di una crisi internazionale, lo stesso
giorno in cui ha assunto la presidenza di turno del G8, il gruppo di
paesi di cui fanno parte, oltre alla Russia, le prime sette economie
mondiali (G7), e cioè Usa, Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia,
Italia e Canada. Il G8, in realtà, è solo il G7 con in più la Russia,
che però non è l’ottava potenza economica mondiale, bensì la
quindicesima o sedicesima. Il G8 venne istituito dal G7 nel 2002 per
coinvolgere la Russia, ex super-potenza globale e possibile gigante
energetico, in una struttura di cooperazione internazionale.
Essere presidente di turno del G8 dà alla Russia di Putin un prestigio e
un’opportunità d’azione a livello globale molto superiore alle sue
attuali capacità. Per di più, il secondo mandato presidenziale di Putin
è stato sin qui caratterizzato da una crescente corruzione del regime,
da una marcata svolta autoritaria, e da una ripresa del ruolo dello
Stato nell’economia. Ciò premesso, lo stesso Putin disse, poco tempo fa,
che la sua presidenza del G8 sarebbe stata in gran parte focalizzata sul
tema della «sicurezza degli approvvigionamenti energetici», e che la
Russia intendeva promuovere il suo ruolo di fornitore affidabile.
Certamente, la vertenza con l’Ucraina e la clamorosa interruzione delle
forniture di gas, potrebbero creare danni forse irreparabili
all’immagine di una Russia con la quale si possono concludere affari in
tutta tranquillità. Soprattutto, questa vicenda può accentuare la
strisciante, nuova «guerra fredda» da tempo in corso tra la Russia di
Putin e l’America di Bush. A Washington, ad esempio, alcuni senatori e
rappresentanti hanno già proposto una risoluzione «bipartisan» per
escludere Mosca dal G8, o comunque boicottare le varie riunioni G8
previste in Russia e soprattutto il summit di San Pietroburgo.
D’altra parte, anche se la Russia è in calo di prestigio, resta il fatto
che il suo petrolio e il suo gas sono sempre più importanti. E quindi
possono essere usati come strumento di potenza a livello globale. Al
tempo stesso, l’entourage di Putin estende il proprio controllo sulle
risorse del paese. Oggi, il Cremlino controlla direttamente un buon 30%
della produzione nazionale di petrolio e, tramite Gazprom, l’intera
produzione di gas. E ciò permette il rapido arricchimento di una nuova
casta di oligarchi.

Fonte
- Corriere del Ticino
Giovedì 12
gennaio
2006 |
|
Martedì 17
gennaio
2006 |
 |
LONDRA
- L'Iran sarà deferito all'Onu per il suo programma nucleare. Lo
hanno annunciato nella notte i cinque membri permanenti del
Consiglio di sicurezza riuniti a Londra. Stati Uniti, Russia, Cina,
Francia e Gran Bretagna hanno convenuto che la riunione
straordinaria del Consiglio dei governatori dell'Aiea (Agenzia
internazionale dell'energia atomica) di questa settimana dovrà
sottoporre al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la sua
decisione sui passi richiesti all'Iran.
LE RICHIESTE - Il documento comune,
il primo pubblicato dai cinque sullo spinoso dossier del programma
nucleare iraniano, è stato adottato al termine di una cena a Londra
cui hanno partecipato i ministri degli Esteri Rice (Usa), Lavrov
(Russia), Zhaoxing (Cina), Douste-Blazy (Francia) e Straw (Gb). I
cinque chiedono all'Iran di ripristinare pienamente la sospensione
delle attività collegate all'arricchimento dell'uranio, compresi
ricerca e sviluppo, sotto la supervisione dell'Aiea.
Fonte
- ANSA
. |
 |
scarica in formato
JPEG |
scarica in formato
JPEG |
America:
paura della
recessione? Colpa dell'Ayatollah
9 Gennaio 2006 4:47 Milano -
(di Borse & Finanza)
________________________________________
Nel 2006 l’Iran ruberà la scena all’Iraq come tema centrale del mercato
della politica internazionale. Fin qui la previsione nota e condivisa da molti.
L’ipotesi inedita è che il Paese degli ayatollah possa influire anche sulle
dinamiche dei mercati finanziari nell’anno appena iniziato. Tanto che
la
tensione tra Washington e Teheran sarebbe la chiave di lettura capace di
spiegare anche il fenomeno noto come «inversione della curva dei tassi» del
debito americano, cioè il sorpasso dei rendimenti dei bond a breve termine su
quelli a lungo.
Questa ipotesi si basa su un brillante studio di Robert Barro, economista di
Harvard, che ha dimostrato come alcuni eventi a bassa probabilità abbiano
impatti significativi sui mercati. Gli economisti si sono ad esempio interrogati
sul perché, nel corso della storia economica degli Usa, si siano verificati
periodi in cui i ritorni reali dei bond siano risultati decisamente bassi in
confronto all’andamento dei mercati azionari. L’analisi di Barro mostra come
modelli che incorporino l’influenza sui mercati giocata da eventi rari, come lo
scoppio di una guerra, diano risultati più vicini alla realtà: «Una modesta
crescita del rischio che si realizzino questi eventi - ha spiegato l’economista
- provoca una notevole ripercussione sui tassi d’interesse reali.
Perché di fronte a pericoli di questa portata, gli individui tendono ad
annettere un valore molto maggiore al possesso di asset privi di rischi». Per
quanto riguarda la situazione attuale, l’inversione della curva dei tassi
storicamente predice l’arrivo di una fase di recessione. Eppure nel 2005
l’economia americana ha messo a segno un rialzo del pil prossimo al 4%,
nonostante uragani e boom dei costi energetici, con un buon ritmo di creazione
di posti lavoro. E le aziende hanno mostrato margini di profitto tra i più alti
che si ricordino, un abbondante cash-flow e livelli di indebitamento
relativamente bassi.
La sommatoria di questi elementi dà all’economia americana una forza d’inerzia
sufficiente a superare anche il possibile declino del mercato immobiliare legato
all’aumento dei tassi e la conseguente frenata dei consumi.
Allora come si
spiegano i segnali premonitori di recessione che provengono dal mercato? Alla
luce della ricerca di Barro, non può essere trascurata l’ipotesi che a pesare
negativamente sia il rischio di una crescita delle tensioni internazionali.
Una
conferma arriva dal mercato dei future geopolitici: è aumentata la richiesta su
quello offerto da Intrade.com, che paga se Israele e gli Stati Uniti bombardano
l’Iran entro il 2007. La quotazione di questo future è cresciuta negli ultimi
tempi, stabilizzandosi a un realistico 31,6% al 30 dicembre scorso.
Sebbene si tratti di mercati con volumi ridotti di scambi (e perciò da valutare
con tutta la cautela possibile), la ricerca accademica ha dimostrato che
funzionano bene come termometro del rischio del verificarsi di questi eventi.
Non è detto, ovviamente, che i mercati siano preoccupati dal comportamento degli
Stati Uniti e di Israele, ma è possibile che lo scenario di un Iran bellicoso e
imprevedibile, e per di più con lo spettro che si doti di armamenti nucleari,
possa causare i primi sintomi di indigestione al mercato. C’è però un rovescio
della medaglia di cui bisogna tenere conto.
Gli studi di Barro dimostrano che cambiamenti minimi di questo tipo di rischi
hanno un effetto moltiplicato anche in senso positivo. E lo spauracchio di una
guerra nucleare è talmente grande che alla fine le diplomazie potrebbero essere
indotte a trovare una via d’uscita pacifica. Così, se non accade il peggio,
potrebbe venir fuori che le prospettive dell’economia americana del 2006 siano
ancora migliori di quanto si possa sospettare. A spingerla potrebbe esserci la
convergenza dei buoni fondamentali che l’hanno spinta per tutto il 2005 con il
fattore rischio. Normalmente, di fronte a un’economia che corre, i tassi a lungo
termine salgono e quindi la crescita torna a rallentare. Nel 2006, però, perfino
questo contrappeso potrebbe saltare: con il rischio della tensione con l’Iran a
tenere bassi i tassi, la crescita potrebbe essere maggiore del previsto.

Fonte
- Borsa & Finanza
Bush
affronta
l'incubo
austerity dell'America
29 Gennaio 2006 23:16 - Roma
(di Stefano Cingolani)
________________________________________
Il discorso sullo Stato dell’Unione domani, poi l’insediamento di Ben Bernanke alla Federal reserve: la prossima settimana per George W. Bush potrebbe
segnare una nuova ripartenza. Nel primo anno del secondo mandato ha subìto un
crollo di popolarità e una serie di insuccessi interni e internazionali. E nel
2006, alle elezioni di midterm in autunno, si gioca il controllo del Congresso.
Con una maggioranza repubblicana malmostosa e i democratici vogliosi di
rivincita, anche se stentano a trovare una solida piattaforma sulla quale
ricostruire le basi della rimonta.
Un presidente appannato ha annunciato esattamente dodici mesi fa una grande
riforma, quella della Social Security, che ha incontrato più critiche che
sostegni anche tra i repubblicani. Ha trovato una dura resistenza, sia alla
Camera sia al Senato, sul rinnovo della Home security. Lo scandalo delle
intercettazioni telefoniche ha rivelato i rischi che si nascondono dietro il
giro di vite anti-terrorismo. Anche se il presidente può vantare che finora sono
stati evitati altri attentati in casa da parte di Al Qaeda,
gli americani di
fronte al dilemma tra sicurezza e libertà individuali stanno lentamente
spostando il piatto della bilancia verso le libertà. Sul fronte esterno, la
matassa irachena resta intricata.
Le scadenze elettorali sono state rispettate tutte e quelle politiche hanno
portato alla ribalta una forza sunnita che era stata sottovalutata, ma che
adesso è benvenuta dalla svolta realista della Casa Bianca e del Dipartimento di
Stato. Senza integrare i sunniti non si governa e non si crea quel minimo di
sicurezza che consente di riportare a casa i marines. Non si sa quando ciò sarà
possibile, ma ora che le condizioni della risoluzione Onu stanno per essere
realizzate, sarà tempo per Bush di cominciare a presentare agli americani una
convincente exit strategy. Il problema è che il Medio Oriente si è fatto ancor
più complicato. Il riarmo nucleare dell’Iran apre una partita estremamente
complicata, che coinvolge gli equilibri mondiali: i rapporti con la Russia, la
Cina, l’Unione europea, oltre a quelli con il mondo islamico.Tutto ciò mentre la
vittoria di Hamas in Palestina e la drammatica uscita di Sharon dalla vita
politica, impongono un cambio di passo. E non si capisce ancora in quale
direzione.
Ma il discorso sullo Stato dell’Unione tradizionalmente è dedicato agli affari
domestici. E qui per la prima volta Dubya si trova a dover affrontare una
congiuntura economica sfavorevole. Nell’ultimo trimestre dell’anno il pil è
cresciuto pochissimo, poco più dell’un per cento. Molti cominciano a paventare
una recessione, soprattutto se le tensioni energetiche si trasformeranno (anche
per l’influenza dei fattori geopolitica),
in una vera e propria crisi. L’uso
politico del gas russo colpisce l’Europa, il greggio più caro anche in termini
di prezzi relativi colpisce l’America e il Giappone. Mentre le due potenze
orientali, Cina e India, sono destinate a spiazzare l’intero occidente che,
così, si trova alle soglie di una nuova emergenza; la prima, di queste
dimensioni, da un quarto di secolo. L’energia sarà all’ordine del giorno del G8
presieduto, secondo gli impegni, proprio da Vladimir Putin. Ma Usa e Ue dovranno
arrivare con una strategia comune.
Thomas Friedman, sul New York Times, ha chiesto a Bush un gesto coraggioso, una
vera e propria «dichiarazione di indipendenza energetica». Una idea provocatoria
perché si tratta di proporre agli americani una sorta di austerità che cambi in
parte il loro regime di vita e riconverta una economia energivora. Basta con i Suv, basta con l’aria condizionata a tutto volume, più trasporti pubblici e meno
privati, tanto per fare degli esempi concreti. Ma richiede le dimissioni del
vicepresidente Dick Cheney che, visti i suoi legami con l’oil business, non può
certo essere credibile nell’applicare l’Energy Freedom Act. Una provocazione
politico- intellettuale al limite del paradosso, però Friedman coglie il punto.
Bush non seguirà il suo consiglio radicale. Quando Jimmy Carter propose nel
1979, in coincidenza con la seconda crisi petrolifera, un giro di vite ai
consumi, perse la rielezione (ancor più che per il pasticcio degli ostaggi in
Iran).
Tuttavia, l’America del 2006 sarà chiamata a compiere scelte drastiche. E in
questo giocherà un ruolo chiave il nuovo presidente della Federal reserve. In Bernanke, Bush trova un amico e un vecchio consigliere. Ma anche un uomo
indipendente e un economista di prim’ordine.
Non sappiamo ancora quale sarà la
sua politica economica, ma sappiamo che l’era dei bassi tassi di interesse è
finita. E con essa anche l’era dei megadeficit (nel bilancio federale e nel
commercio con l’estero). Gli Usa dovranno ridurre l’import, sostenere l’export
svalutando il dollaro e la domanda interna non potrà più contare sul deficit spending e sul taglio delle tasse. Bernanke, quindi, si trova di fronte alla più
difficile delle equazioni.

Fonte
- Il Riformista
|
Martedì 3
gennaio
2006 |
|
Mercoledì 4 gennaio
2006 |
|
Giovedì 5
gennaio
2006 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
George Soros:
il
petrolio salirà ancora
29 Gennaio 2006 22:40 - Davos
(di Marco Panara)
________________________________________
«La filosofia di Davos è di vedere le cose in positivo e quindi di certe
cose non si parla. Allora lo faccio io». Detto fatto. George Soros, camicia a
quadri e pantaloni sportivi, convoca una conferenza stampa, si siede davanti al
microfono ed entra subito nel merito: «Ci troviamo davanti a rischi politici
gravi, dovuti soprattutto all´inaspettato declino della credibilità degli Stati
Uniti nel mondo a sua volta causata da errori e accentuata dalla tensione enorme
che si è creata nel settore dell´energia, che offre un´occasione d´oro a
chiunque voglia creare problemi. Quando vedo l´Iran che approfitta della
situazione per spingere il suo programma nucleare, o la Russia che usa il gas
come un´arma contro i governi dell´Ucraina e della Georgia, la mia
considerazione è che siamo solo all´inizio e i problemi sono destinati ad
aumentare». Questa è stata la premessa, poi sono arrivate le domande.
Quali sono le sue previsioni sui prezzi del petrolio? «E´ più probabile che
salgano piuttosto che scendano, perché la Cina non ha riserve sufficienti e
perché ci sono molti che hanno interesse a tenere alta la tensione».
E sul
dollaro qual è la sua scommessa? «Non sono propenso a scommettere, e se lo
faccio non lo dico - sorriso da vecchio maestro della speculazione sui mercati
valutari - quello che posso aggiungere è che
a mio parere ha raggiunto il
massimo e nel medio periodo ci sarà un aggiustamento, ma nel breve vale il fatto
che il differenziale dei tassi a suo favore è ancora robusto». Come vede l´economia americana?
«La crescita declinerà nel 2007 con significativi effetti
sui mercati. I consumatori americani hanno ridotto i loro risparmi sentendosi
rassicurati dall´aumento dei prezzi delle case, con la fine della bolla
immobiliare riprenderanno a risparmiare e consumeranno di meno, il che
comporterà una riduzione della domanda globale. E non so chi li sostituirà».
Cosa farà Ben Bernanke, dalla prossima settimana presidente della Fed? «Penso
che la Fed abbia esagerato con gli aumenti del tasso d´interesse, ma penso anche
che con la situazione economica interna ed i crescenti prezzi del petrolio non
potesse evitarlo. A questo punto mi aspetto un altro aumento di un quarto di
punto. L´ultimo». Quale dovrebbe essere la politica di Washington di fronte alle
esigenze energetiche della Cina? «La Cina ha la legittima esigenza di avere
accesso alle risorse necessarie per il suo sviluppo e farà tutto quello che può
per assicurarsele. Credo che gli Stati Uniti abbiano fatto un errore a non
consentirle di acquistare Unocal, perché questo ha spinto Pechino ad avvicinarsi
ai cosiddetti "Stati canaglia", lo si è visto con l´Angola, il Sudan,
l´Uzbekistan. Tutto questo complica la situazione e indebolisce la capacità di
pressione della comunità internazionale nei confronti di quegli Stati».
Che effetti avrà la vittoria di Hamas nelle elezioni in Palestina?
«Al contrario
di quello che pensano molti, è possibile che la vittoria di Hamas possa
determinare una svolta. Ora che Hamas ha il potere ha anche una obbligo nei
confronti dei palestinesi e dovrà agire responsabilmente. Il problema principale
è che Hamas ha due anime, una più interna e l´altra più legata all´Iran, e
l´Iran non ha nessun interesse a stabilizzare la situazione. Il prossimo
passaggio che ci dobbiamo aspettare è quindi uno scontro dentro Hamas tra le due
fazioni». E´ opportuno che la Ue vada avanti con l´allargamento a Est?
«Realisticamente ritengo che la Ue non sia pronta ad accettare nuovi membri,
tuttavia può fare molto per avvicinare la Georgia e l´Ucraina pur senza offrire
l´ingresso nell´Unione ».
La crisi dell´Unione è irreversibile? «E´ una crisi di identità, ma non è una
crisi acuta. Per qualche tempo l´Unione andrà avanti per forza d´inerzia, poi un
po´ di dinamismo ricomparirà». Qual è il suo giudizio sulla situazione
dell´Italia? «Non seguo l´Italia, tutto quello che posso dire è che non sono un
fan di Berlusconi, per la semplice ragione che chi ha una tale posizione di
monopolio nei media non è la persona adatta a costruire una società più aperta».

Fonte -
La Repubblica
Domenica 16
gennaio
2006 |
|
Giovedì 26
gennaio
2006 |
 |
Iran, Nigeria e
freddo polare, questo è il mix di fattori che ha prodotto la nuova
fiammata del prezzo del petrolio: il greggio con consegna a marzo,
sul mercato elettronico after hours di New York, ha così toccato
quota 69,20 dollari, vale a dire il massimo da quattro mesi a questa
parte, avvicinandosi al record storico di 70,85 dollari raggiunto lo
scorso 30 agosto.Iran e Nigeria da soli producono il 7,5% del
petrolio mondiale, naturale che il mercato guardi con estremo
interesse a quello che sucedde in questi due paesi.
Per quel che rigurda l'Iran, quello che preoccupa il mercato è
l'acuirsi delle tensioni con le Nazioni Unite innescate dall'avvio
di nuove ricerche nucleari da parte del governo di Teheran, che è il
secondo produttore tra i paesi che aderiscono all'Opec, una tensione
che potrebbe portare ad una riduzione delle esportazioni iraniane di
greggio come conseguenza delle sanzioni imposte dall'Onu.
Un altro fronte caldo è quello nigeriano, dove gli attivisti del
'Movimento per l'emancipazione del Delta del Niger' minacciano gli
impianti petroliferi della regione. |
 |
scarica in formato
JPEG |
scarica in formato
JPEG |
Soros:
America in recessione... ma nel 2007
10 Gennaio 2006 16:21 - Milano
(da La Lettera Finanziaria)
________________________________________
Il 2006 sarà un anno in leggera frenata per l'economia americana, con
meno inflazione, e con prezzi degli immobili più bassi. L'anno in corso tutto
sommato non dovrebbe presentare grossi rischi per la più grande economia
mondiale. Non altrettanto si può invece dire per
il 2007, un anno che potrebbe
vedere la Locomotiva a stelle e strisce cadere in recessione, come ha detto
anche ieri il finanziere super miliardario George Soros, uno dei guru più
ascoltati di Wall Street.
Crescita Usa in frenata. A causa soprattutto di un raffreddamento della spesa
per consumi e di un calo della domanda di abitazioni (che porterà a uno
sgonfiamento dei prezzi degli immobili erodendo la ricchezza delle famiglie), il
2006 vedrà un rallentamento della crescita americana. Secondo uno dei più
recenti sondaggi disponibili, quello realizzato ieri dalla Bloomberg tra 72
economisti, gli Stati Uniti quest'anno cresceranno del 3,4%, contro il 3,6%
atteso per il 2005.
Gli americani consumano meno. Nel terzo trimestre 2005 i consumi delle famiglie
americane dovrebbero essere cresciuti dello 0,7% rispetto all'analogo trimestre
2004. Era dal primo trimestre 2005 che i consumi non crescevano così poco.
La
frenata è notevole se si pensa che nel terzo trimestre erano cresciuti, sempre
su base annua, del 4,1%. Basti pensare che a dicembre la più grande catena di
distribuzione d'America, la Wall-Mart, ha rilevato un incremento su base annua
delle vendite del 2,2%, il più basso degli ultimi cinque anni nel mese
caratterizzato dalle vendite natalizie. Vendite oltretutto sostenute da un
taglio dei prezzi che si farà sentire sui profitti della società attesi per il
quarto trimestre. Grazie però ai saldi e a ulteriori ribassi dei prezzi, i
consumi dovrebbero tornare a crescere nel primo trimestre di quest'anno. Le
attese sono per un aumento del 3,4% su base annua.
Mercato immobiliare e occupazione. Dopo aver raggiunto il livello record di 7,1
milioni di dollari nel 2005, le compravendite di abitazioni dovrebbero
rallentare nel corso del 2006, specie a fronte dei rialzi dei tassi che rendono
meno favorevole accendere mutui. Gli economisti interpellati da Bloomberg
prevedono che quest'anno le compravendite di abitazioni esistenti si fermeranno
a 6,84 milioni di dollari. Questo potrebbe avere riflessi anche
sull'occupazione, dal momento che il settore delle costruzioni è stato nel 2005
uno di quelli che più a contribuito alla formazione di nuovi posti di lavoro.
Nel 2005 sono stati creati 2,02 milioni di nuovi posti di lavoro, con una
differenza minima rispetto ai 2,194 milioni creati nel 2004. Poichè si tratta
dei maggiori valori dal 1999, gli eocnomisti osservano che l'economia americana
non può continuare a creare posti di lavoro a questo ritmo troppo a lungo senza
scontrarsi a un certo punto con i limiti della capacità produttiva.
L'inflazione rallenta la marcia. Il 2006 sarà anche un anno di frenata per
l'inflazione americana, grazie soprattutto ai ribassi dei prezzi attuati in
molti settori - a partire da quello dell'auto dove proprio oggi la numero uno
mondiale General Motors inaugura drastici tagli ai listini - al fine di
sostenere le vendite e restare competitivi. Lo stesso sondaggio Bloomberg vede
una crescita dei prezzi del 2,8% nel 2006, a fronte di un incremento del 3,7%
nel corso del 2005. Questo a patto di una certa stabilità dei prezzi
petroliferi, che però proprio in questi primi giorni del 2006 sono soggetti a
nuove tensioni, anche di origine speculativa. Nel complesso la situazione resta
tuttavia più favorevole. Ad esempio, rispetto al record del 5 settembre scorso,
quando il prezzo della benzina alla pompa era arrivato negli Stati Uniti a 3,06
dollari al gallone, oggi gli americani fanno il pieno all'auto con 2,31 dollari
al gallone.
Le mosse della Fed. Dopo aver alzato il costo del denaro 13 volte dal giugno
2004 ad oggi, la Federal Reserve potrebbe prendersi una pausa. Rispetto al 4,25%
a cui sono arrivati oggi i Fed Funds, gli economisti interpellati dalla
Bloomberg prevedono che i tassi arriveranno entro fine marzo al 4,75% e lì si
fermeranno per il resto dell'anno. Questo a patto che l'inflazione non torni in
fibrillazione. Se così fosse, la Fed si troverebbe costretta a procedere con
ulteriori rialzi dei tassi che potrebbe essere la cuasa di un atterraggio duro
dell'economia americana.
Ne è convinto il miliardario George Soros, uno dei più ascoltati guru di Wall
Street , il quale teme che la recessione economica possa colpire gli Usa nel
2007, per effetto di una eccessiva stretta monetaria da parte della Federal
Reserve. Nel corso di un intervento a un convegno dell'Istituto per gli Affari
internazionali di Singapore, Soros ha spiegato che l'aumento del costo del
denaro potrebbe unirsi pericolosamente a una brusca discesa dei prezzi
immobiliari e al calo del dollaro, rendendo vani così gli sforzi della Fed e del
suo presidente uscente, Alan Greenspan, di creare un "atterraggio morbido" per
l'economia. Soros si aspetta quindi negli Usa "una recessione nel 2007 e non nel
2006". Mentre la ripresa in corso sia in Europa sia in Giappone non è ancora
sufficientemente solida per riequilibrare i riflessi negativi su scala mondiale
della crisi statunitense.

Fonte
- La Lettera Finanziaria per Wall Street Italia.com
USA, PIL QUARTO TRIMESTRE FLOP : SOLO +1.1%
27 Gennaio 2006 14:30 -
New York (Ansa)
________________________________________
Drammatico rallentamento dell'economia americana e pesante delusione,
di cui si dovranno valutare le conseguenze sui mercati: il Prodotto
Interno Lordo Usa - un dato che rappresenta il valore totale di tutti i
beni e servizi prodotti e venduti nel Paese - nel quarto trimestre del
2005 ha registrato un aumento dell’1.1%. Si tratta della crescita piu’
debole degli ultimi anni.
Lo ha comunicato il Dipartimento del Commercio Usa.
L’indicatore, che rappresenta il dato preliminare, si e’ rivelato
inferiore alle stime degli economisti che si attendevano un rialzo del
2.8%. La rilevazione finale del trimestre precedente era stata del +4.1%.
Il forte calo e’ dovuto principalmente alle deboli vendite di auto, ad
un rallentamento degli investimenti, all’aumento delle importazioni e ad
una flessione della spesa federale.
Il fattore piu' preoccupante e' che senza l'aumento delle scorte di
magazzino, che sono state l'elemento di maggiore crescita del Pil nel
trimestre le vendite finali sarebbero calate dello 0.3%, il primo calo
dai tempi dell'ultimo trimestre di recessione nel 2001.
Il deflatore e' salito del 3%, in rialzo rispetto alle previsioni degli
economisti che erano per un +2.6%. Cio' significa che pure l'inflazione
comincia ad essere una preoccupazione, in questo caso crescendo piu' del
dovuto (uno scenario da stagflazione?).
Secondo le prime stime a caldo si tratta dell'incremento del Pil
americano piu' fiacco dal 2001, dovuto anche al fatto che le aziende
hanno frenato l'acquisto di macchinari.
"L'euforia del terzo trimestre sara' probabilmente rimpiazzata dai
timori sul quarto" ha detto a Bloomberg Joel Naroff, presidente di
Naroff Economic Advisors, uan societa' della Pennsylvania. "Assisteremo
a una transizione verso una crescita piu' moderata, nella prima meta'
dell'anno. Sara' un rallentamento, ma non un collasso".
Mentre la crescita dell'economia degli Stati Uniti rallenta,
l'inflazione "core" sale. L'indice dei prezzi delle spese personali al
consumo - che non comprende alimentari ed energia - e' salito con questo
rapporto ad un tasso annuale del 2.2% nel quarto trimestre, sopra il
target della Federal Reserve che e' compreso tra +1% e +2%. Nel corso
dell'anno passato il "core" di questo indice era cresciuto dell'1.9%.
Il dato mette con le spalle al muro (o comunque in una posizione non
facile) il Federal Open Market Committee , che martedi' 31 gennaio si
riunisce per l'ultima volta a Washington sotto la presidenza di Alan
Greenspan. Con una crescita tiepida la Fed sarebbe obbligata a lasciare
i tassi a breve immutati oppure addirittura a tagliarli. Eppure le
pressioni inflazionistiche suggerirebbero tuttora un irrigidimento dei
tassi d'interesse.
Fonte -
ANSA |
WALL ST: PIL IN CALO MA OPERATORI AFFATTO PREOCCUPATI
27 Gennaio 2006 22:22 -
New York (Ansa)
_______________________________________
Gli indici americani hanno archiviato la seduta in netto rialzo, spinti
dal rinnovato ottimismo sulla stagione degli utili e dal possibile stop
al ciclo rialzista sui tassi d’interesse. Il Dow Jones ha guadagnato lo
0.90% a 10907, l’S&P500 lo 0.78% a 1283, il Nasdaq e’ avanzato dello
0.93% a 2304.
Nell’ultimo trimestre del 2005, l’atteso dato sul Prodotto Interno Lordo
e’ cresciuto al minor tasso degli ultimi tre anni, avanzando di un
modesto 1.1% ed attestandosi ad un livello nettamente inferiore alle
attese degli analsiti che erano per un incremento del 2.8%. Nei tre mesi
precedenti, l’indicatore aveva registrato una crescita del 4.1%.
Tuttavia, alle preoccupazioni relative al rallentamento economico si
sono contrapposte le rinnovate speranze per un possibile stop al ciclo
rialzista sui tassi d’interesse da parte della Fed. Un prolungato
aumento del costo del denaro renderebbe i prestiti, e di conseguenza gli
investimenti, piu’ costosi, con il rischio di un maggiore raffreddamento
economico.
L’incontro del FOMC, il braccio operativo della Banca Centrale
americana, e’ atteso per il prossimo martedi’: le stime sono per un
aumento di un quarto di punto percentuale, che porterebbe i tassi a
breve al 4.5%.
Passando alla cronaca societaria, nell’after hour di giovedi’, il
colosso software Microsoft ha riportato un incremento degli utili
trimestrali del 5% ed un aumento dei ricavi pari al 9%, rispettando le
attese degli analisti. In linea con le previsioni anche l’outlook
offerto per i prossimi trimestri. Il titolo e’ avanzato ai massimi di
sette settimane grazie ad un rialzo giornaliero superiore al 5%.
Positiva anche la trimestrale della conglomerata industriale Procter&Gamble
che ha riportato un balzo degli utili pari al 30% su base annuale ed ha
migliorato l’outlook sul 2006. A guidare in alto i risultati sono stati
il considerevole aumento delle vendite e l’acquisizione di Gillette.
Buoni anche i numeri di Broadcom Corp, che hanno migliorato il sentiment
sul comparto chip, dopo le delusioni arrivate da Intel e Texas
Instruments nei giorni precedenti. L’indice settoriale, il SOX, ha messo
a segno un +2.45% dopo essere avanzato giovedi' del 2.8%.
Tra i titoli del Dow Jones, a realizzare i maggiori rialzi, oltre a
Microsoft, sono stati Caterpillar, sulla scia dei risultati trimestrali
comunicati di recente, e Pfizer, in seguito alle dichiarazioni del CEO,
poi smentite, relative all’approvazione da parte della Food & Drug
Administration (l’organo di controllo americano) sul nuovo farmaco
contro il diabete, l’Exubera. Il prodotto, tuttavia, e’ stato gia'
approvato dalla Commissione Europea ed e’ ancora in attesa del giudizio
della FDA.
Nel comparto energetico, ha continuato a guadagnare terreno il petrolio.
I contratti futures con scadenza marzo hanno archiviato la seduta in
progresso di $1.50 a quota $67.76 al barile. A rafforzare gli acquisti
sul settore sono state le maggiori pressioni che gli Stati Uniti
potrebbero imprimere all’Iran riguardo al programma sul nucleare. La
vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi ha inoltre alzato la
possibilita’ di una maggiore instabilita’ in Medio Oriente. Negativa,
comunque, la performance settimanale, pari ad un calo dell’1.1%.
Ritornado sul fronte macro, e’ risultato positivo il dato sul settore
immobiliare. Nel mese di dicembre, le vendite di case nuove sono
cresciute del 2.9% a quota 1.269 milioni superando il consensus del
mercato che era per un calo a 1.225 mln.
Fonte -
ANSA
|
Brusca
frenata
dell'economia USA
28 Gennaio 2006 15:31 - Davos
(di Federico Rampini)
________________________________________
L´economia americana frena di colpo e getta un´ombra sulle prospettive
della crescita mondiale. Il Pil degli Stati Uniti nel quarto trimestre del 2005
è aumentato solo dell´1,1%, poco più di un quarto rispetto al ritmo di crescita
del trimestre precedente.
E´ una gelata che pochi si aspettavano, visto che il «consenso» nelle previsioni
degli economisti era per una crescita del 2,5% nell´ultimo trimestre dell´anno. E´ dalla fine del 2002 che l´America non registrava un dato così basso, che
riduce la crescita complessiva del 2005 al 3,5% contro il 4,2% del 2004. La
causa principale di questo rallentamento sta nel comportamento dei consumatori
americani, la cui spesa si è rattrappita all´1,1%, l´aumento più modesto dal
2001.
I dati americani divulgati ieri pomeriggio sono balzati di prepotenza al centro
dell´attenzione del World Economic Forum a Davos. Vista dal summit del
capitalismo globale, la frenata dei consumi può essere l´avvisaglia che il 2006
riserva altre sorprese negative, una serie di «incidenti» che possono sfociare
su conseguenze più gravi. La banca Merrill Lynch ha portato al vertice
un´analisi che le statistiche sul Pil hanno reso improvvisamente profetica:
secondo gli economisti Richard Bernstein e David Rosenberg, il 2006 si era
aperto con delle «aspettative così esageratamente ottimistiche sui consumi negli
Stati Uniti, da esporsi a delusioni: questo rischia di essere l´anno in cui il
consumatore americano non ce la fa più a sostenere il peso della crescita
mondiale». Lo stesso rapporto Merrill Lynch ricorda che è stato sottovalutato il
segnale dell´appiattimento della curva dei rendimenti dei buoni del Tesoro tra
il lungo e il breve termine: «E´ un fenomeno che in passato ha previsto con una
precisione del 100% una recessione dei profitti».
A Davos il chief economist della Morgan Stanley, Stephen Roach, ha spiegato
l´origine della frenata dei consumi: «Il boom del settore immobiliare negli
Stati Uniti è ormai giunto al termine, e questo elimina la fonte principale di
denaro facile», cioè il rifinanziamento dei mutui-casa che aveva inondato di
liquidità molte famiglie americane. «A questo si aggiunge - ha detto Roach - che
l´aumento del prezzo della benzina comincia a intaccare il potere d´acquisto e i
primi segnali di questo impoverimento si sono intuiti subito dopo l´uragano
Katrina». Anche la situazione del mercato del lavoro americano contribuisce alla
cautela nella spesa delle famiglie. Nel giro di due mesi la General Motors ha
annunciato 30.000 licenziamenti, poi la Ford ha fatto altrettanto. Il senatore
repubblicano John MacCain ieri ha Davos ha ricordato che «anche negli anni della
crescita più robusta il potere d´acquisto della famiglia media americana è
rimasto fermo». La bolla immobiliare aveva consentito di vivere al di sopra dei
propri mezzi.
Secondo Roach la fine della crescita dei consumatori americani può scatenare una
serie di ripercussioni. La Fed cesserà presto di aumentare i tassi d´interesse,
determinando aspettative di un indebolimento del dollaro. Questo a sua volta può
indurre maggiore cautela nel comportamento delle banche centrali asiatiche -
Cina e Giappone in testa - che finora «hanno finanziato la dissipatezza dei
consumatori americani nonostante l´accumularsi di un gigantesco deficit con
l´estero» ormai pari al 6% del Pil Usa.
Ma allo stesso tempo, il rallentamento nella crescita degli Stati Uniti fa
pesare un´ipoteca sull´altra grande locomotiva globale che è la Cina. Il
vicegovernatore della banca centrale di Pechino, Min Zhu, ha spiegato che in
base all´ultima revisione dei dati sul Pil cinese è chiara la tendenza al
rafforzamento dei consumi e della domanda interna. Progressivamente la Cina si
appresta a «trainarsi» da sola, e questo è un cambiamento salutare per il mondo
intero. Ma per ora le esportazioni continuano a essere un volano importante del
suo sviluppo, e il 23% del made in China va negli Stati Uniti.
L´economista Laura Tyson, già responsabile del commercio nell´Amministrazione
Clinton, ha aggiunto a questo quadro due possibili sviluppi negativi: il
protezionismo e lo choc energetico. «A differenza di noialtri riuniti qui a
Davos - ha detto la Tyson - la maggioranza delle nostre opinioni pubbliche non
ha affatto una visione positiva della globalizzazione, e di fronte a nuove
difficoltà economiche possono diventare irresistibili le fughe in avanti del
protezionismo, spezzando il circolo virtuoso America-Cina che ha trainato la
crescita. Sul fronte dell´energia, aumentano pericolosamente le rigidità sia sul
fronte della domanda, perché Cina e India stanno accaparrandosi giacimenti di
petrolio e gas in giro per il mondo, sia dal lato dell´offerta per l´ostilità di
paesi come l´Iran».

Fonte -
La Repubblica
Mattone USA a fine corsa. Senza traumi
31 Gennaio 2006 12:42 - Milano
(di Vincenzo Sciarretta)
________________________________________
«La frenata dell’edilizia alla fine è arrivata. Le
vendite di abitazioni dovrebbero subire un ridimensionamento dell’8-10% nel
2006. I prezzi andranno giù in alcune aree e saliranno in modo dolce altrove. Il
volume dei mutui ipotecari rischia una drastica contrazione». Se a parlare in
questi termini fosse una delle cassandre che periodicamente pronosticano il
crollo del mercato immobiliare, forse si potrebbe voltare lo sguardo. Ma quando
l’avvertimento proviene da David Berson, vicepresidente della Fannie Mae, cioè
il primattore dei mutui ipotecari negli Stati Uniti, forse vale la pena di
ascoltare.
Lei oltre che vicepresidente della Fannie Mae, ne è anche il capo economista. E
io vorrei cominciare proprio con una domanda rivolta all’economista:
condivide
la tesi, assai diffusa, per cui il rallentamento delle costruzioni unito al
rincaro dei carburanti potrebbe far precipitare l’economia Usa fino a generare
una recessione?
No, non condivido questa linea di analisi troppo pessimista. A mio giudizio
esistono almeno tre fattori positivi che consentiranno all’economia americana di
conservare, anche nel prossimo futuro, il tasso di crescita su valori elevati:
sopra la soglia del 3%, o addirittura attorno al 3,5 per cento. Vale a dire?
In primo luogo, mi aspetto una forte ripresa degli investimenti fissi da parte
delle aziende: i profitti sono elevati e gli impianti hanno bisogno di
ammodernamenti, dopo una fase di rinvii. Secondo,
la spesa pubblica eserciterà
un peso crescente. Terzo, la prospettiva della ripresa in Europa e il boom che
va avanti nel continente asiatico forniscono un terreno fertile per le nostre
esportazioni. È soprattutto da questo versante che mi aspetto una vera sorpresa
positiva per il 2006.
Torniamo al mercato immobiliare: forse sto per pormi nella posizione
dell’ingenuo che chiede all’oste se il vino è buono. Ma c’è o no questa bolla
dell’edilizia?
No, almeno a livello nazionale. Certo, ci sono delle aree dove la dinamica dei
prezzi ha ormai assunto livelli eccessivi, probabilmente insostenibili. Questo
discorso vale, ad esempio, per alcune zone della costa del Pacifico e di quella
atlantica. Però, ci tengo a ribadirlo, il fenomeno non riguarda gli Stati Uniti
nel suo complesso, per la semplice ragione che
l’America è immensa. E non ha
senso parlare di un grande, sterminato mercato residenziale: ce ne sono tanti,
ciascuno con caratteristiche ben definite e differenziate.
Allora perché afferma che, nel 2006, le vendite di abitazioni caleranno dell’8
per cento?
Perché la crescita delle transazioni a un tasso a due cifre, la caratteristica
che ha distinto il recente passato, non è sostenibile nel lungo periodo. Tiene
la domanda delle famiglie, per uso abitativo diretto, ma la domanda per
investimento e quella con intento più speculativo sono già a rischio. Su questo
versante mi aspetto una contrazione sensibile, che già trova le prime conferme
nei dati più recenti. Per fortuna questa debolezza viene mitigata da altri
fattori.
Quali?
L’andamento robusto dell’occupazione, il tasso d’immigrazione e i bassi tassi
sui mutui sono tre fattori fondamentali che contribuiscono a garantire la tenuta
del mercato nel lungo termine. Anzi, sono gli ingredienti che assicureranno la
tendenza di fondo al rialzo. Però, nel breve termine, i prezzi sono saliti
troppo alla svelta. Ciò rende l’acquisto sempre più problematico, con il
risultato di favorire la migrazione dei clienti verso i finanziamenti a tasso
variabile. Con questa formula, infatti, le famiglie americane possono aspirare a
ottenere finanziamenti di maggiore entità, sempre più necessari per consentire
al giorno d’oggi l’acquisto di un’abitazione.
Il messaggio è chiaro. Ma i valori immobiliari saliranno o scenderanno nel 2006?
Confermo che mi aspetto per quest’anno un calo delle vendite nell’ordine
dell’8-10 per cento. Ma attenzione, il dato è meno negativo di quanto appaia a
prima vista: con questi numeri si tratterebbe della terza migliore annata di
sempre per la nazione. Se invece parliamo di prezzi, la risposta è: dipende
dalle aree. Forse ci sarà un arretramento nelle zone dove la frenesia ha
raggiunto l’apice, ma come media nazionale propendo per un leggero apprezzamento
nell’ordine del 3 per cento.
E il volume dei mutui? Andrà giù, a causa del minor volume di transazioni.
Alcuni analisti hanno avanzato dubbi sulla solidità delle società specializzate
nel credito edilizio. Qualcuno ha persino prospettato un patatrac. Lei che
risponde? Non sono affatto preoccupato se ci sarà abbondanza di posti di lavoro
e un’economia a prova di traumi. La parte meno solida è quella degli strumenti
cosiddetti esotici, una parte marginale per Fannie Mae. I soggetti maggiormente
esposti sono gli hedge fund e gli stranieri che ne hanno comperati parecchi.
Fonte
- Bloomberg - Borsa&Finanza
|