|
Sabato 04 febbraio
2006 |
|
Sabato 11 febbraio
2006 |
|
Sabato 18 febbraio
2006 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Sino a fine anno Wall Street a gonfie vele
13 Febbraio 2006 11:49 ROMA - (di Eugenio Occorsio)
________________________________________
Per la Borsa di New York il 2006 sarà un ottimo anno. Una previsione
controcorrente ancorché qualificata, quella di Thomas J. Sowanick, responsabile
e strategist mondiale di Merrill Lynch Wealth Management, nonché direttore del Research Investment Committee della stessa banca d’investimento, dove lavora fin
dal 1985.
Incontriamo Sowanick a Milano dov’è impegnato in una conferenza per i clienti.
Ci spiega tanto ottimismo essenzialmente con due motivi: «La marcia al rialzo
dei tassi d’interesse, con quattrodici rialzi consecutivi da parte della Fed, è
al termine. E intere importanti aree del mondo hanno imboccato una ripresa che
non si esaurirà facilmente».
Quali consigli sta dando in questi giorni alla sua clientela? «Consigliamo una
maggiore esposizione sull’azionario rispetto alle obbligazioni, con preferenza,
nella prima metà dell’anno, per le azioni extraUsa e con un progressivo
passaggio dai titoli value a quelli growth, quelli più aggressivi insomma. Gli
investitori dovranno inoltre tener presente che le materie prime avranno ancora
potenzialità di crescita e che il dollaro si deprezzerà rispetto ad altre
valute, e noi per questi motivi consigliamo di regolare di conseguenza gli
investimenti».
La sua previsione è controcorrente perché la maggior parte degli economisti al
momento sostiene che i molti fattori di debolezza, dalle tensioni internazionali
simboleggiate dal caro petrolio fino alla perdurante debolezza dell’Europa,
finiranno con il rallentare l’espansione sia americana che mondiale. Lei
sostiene il contrario? «Sì e no. L’economia americana rallenterà, è vero, sia
pur di poco. Ma nonostante questo rallentamento, ci aspettiamo un tasso di
crescita dell’economia a livello mondiale simile a quello del 2005. Quanto
all’Europa, è vero che c’è una sostanziale debolezza. La crescita nell’anno in
corso andrà un po’ meglio, ma poco rispetto a quello che sarebbe necessario. E
ora la Bce probabilmente aumenterà i tassi».
E’ vero che la temuta ‘inversione’ della curva dei tassi prelude a una
recessione? «Non necessariamente. Diciamo che i tassi sui bond americani
diventano relativamente meno attraenti rispetto a quelli di altre aree». Ma da
dove arriverà la crescita mondiale? «Senz’altro dall’Asia. India e Cina non
hanno nessuna intenzione di fermarsi, ma soprattutto si è aggiunto il Giappone
che dopo anni di false partenze stavolta ha imboccato davvero la ripresa. Vorrei
chiarire che quando parlo di un 2006 in crescita mi riferisco essenzialmente ai
mercati azionari. Quanto all’economia nel complesso, potrebbero esserci passi
falsi e anche arretramenti. Questi però non avverranno prima della fine
dell’anno. Per ora i mercati, che anticipano sì spesso gli avvenimenti ma non
poi di tanto, continueranno la loro salita».
Ma perché l’America rallenterà? «Intanto per una questione ciclica dopo anni di
crescita. E poi perché notiamo una serie di deboli frenate in settori cruciali,
dai consumi all’immobiliare». Quindi s’interromperà il fenomeno del refinancing
dei mutui? «In parte sì, ma guardi che in Europa viene sopravvalutato il potere
di questo fenomeno sui consumi in generale. Si tratta di valori fra loro
indipendenti».
Il fattore Fed comunque ha influenza?
«Sicuramente, è il più importante. Ben Bernanke, il nuovo presidente della banca
centrale, l’ha fatto capire chiaramente. La marcia al rialzo dei tassi
intrapresa con caparbietà due anni fa dal suo predecessore, sta finendo. E di
questo i mercati non potranno che gioire sul brevemedio termine».
La sua previsione è valida sia per il Dow Jones che per il Nasdaq? Su quest’ultimo
i tecnologici continuano con i loro sbalzi. «Sui titoli tecnologici non si può
mai dormir tranquilli. Ma questo è dovuto al fatto che, malgrado siano ormai
anni che sono su piazza e che dopo la bolla del 2000 veramente sono rimasti
alcuni fra i più solidi e capitalizzati, gli analisti faticano spesso a trovare
un punto di convergenza sulle previsioni. Sul titolo Google, il più trattato di
tutti, continuano ad esserci analisi che lo vedono a 600 dollari (oggi 440, ndr)
ma altre che nello stesso momento lo vedono crollare fino a 100».

Fonte
- La Repubblica - Affari & Finanza
In Europa
un toro ancora giovane
19 Febbraio 2006 22:42 MILANO - (di Vincenzo Sciarretta)
________________________________________
IL RALLY POSSIBILE/1 Guardiamoci alle spalle. Correva l’anno
1996, l’Europa si preparava all’ultimo allungo prima della nascita
dell’euro. Le valutazioni delle Borse erano su livelli modesti, il
pubblico dei risparmiatori, dopo gli stress del ’94/95 (aumento dei
tassi Usa, crisi messicana), si manteneva alla larga dal listino
azionario. Pochi avrebbero scommesso, a quell’epoca, che i mercati
finanziari del Vecchio Continente si preparassero a vivere l’ultima
gamba rialzista terminata nell’apice speculativo del 2000.
IL BIS? È POSSIBILE. Darren Brooks, capo analista di Citigroup, ha
dedicato un lungo report al confronto tra il 1996 e la situazione
attuale. Con quale risultato? Ci sono due elementi che accomunano le due
date: le quotazioni contenute; il generale disinteresse dei
risparmiatori per l’investimento azionario. Entrambe le condizioni
coesistono nell’Europa dei giorni nostri. Infatti, da una parte, i
multipli sugli utili risultano appetibili, specialmente rispetto ai
titoli del debito; dall’altra, i dati deludenti sulla raccolta dei fondi
azionari sono lì a testimoniare tutta l’indifferenza e tutto il
pessimismo del pubblico dei risparmiatori. Questi due presupposti -
scetticismo e valori solidi - si riscontrano ad esempio nei primi anni
’80, un periodo che incubava i fenomenali allunghi di Wall Street e
della piazza di Tokyo. Mentre al culmine dell’euforia, di solito, si
assiste a una generale e tumultuosa corsa agli acquisti da parte dei
piccoli investitori e delle famiglie, com’è accaduto tragicamente nel
2000.
UTILI E TASSI DA BOOM. Secondo la Citigroup, il multiplo sugli utili dei
principali indici paneuropei è circa 12, ossia lo stesso che c’era nel
1995-1996. Ma c’è di più: rispetto a dieci anni fa i tassi d’interesse
sono calati in modo sensibile. Per cui i multipli delle azioni del
Vecchio Continente non sono mai stati così attraenti nel confronto con i
rendimenti del reddito fisso.
FEBBRE DA M&A. Le aziende hanno stretto la cinghia e in una manciata di
anni il livello di indebitamento è calato significativamente: nel 2002
il rapporto fra passività e valore societario era del 62%, adesso siamo
a meno del 40 per cento. I bilanci sono stati ristrutturati e appaiono
solidi. Insomma, è altamente probabile che si metta in atto e si
rafforzi una politica più aggressiva, mirata a favorire lo sviluppo
anche ricorrendo al debito: i forzieri delle compagnie consentono una
linea strategica del genere e il basso costo del denaro la suggerisce.
Un ragionamento simile si può poi sviluppare per quanto riguarda il
ciclo delle fusioni e delle acquisizioni. Con i bilanci così forti e il
credito ampiamente accessibile, l’idea di promuovere la crescita
attraverso l’assorbimento di altre aziende riscontra un notevole
successo. A giudizio di Darren Brooks, «questo ciclo è a uno stadio di
sviluppo preliminare e simile a quello del 1995. Al tempo, molti
osservatori pensavano che il 1995 avrebbe rappresentato il picco del
ciclo delle fusioni e delle acquisizioni. Ma si sbagliavano. In verità
si trattava solo dell’avvio del processo di concentrazione. Oggi -
continua Brooks - serpeggia una tesi identica: tutti pensano che il 2005
segni la fine del fenomeno. Io dissento dall’opinione di consenso e
assumo una tesi contraria. Per me, l’esiguo costo del debito rende le
incorporazioni quasi irresistibili come veicolo per aumentare il valore
societario». Le scalate, le aggregazioni e gli incroci azionari
favoriranno il rialzo delle quotazioni di Borsa.
I FONDI A SECCO. Confrontando le sottoscrizioni dei fondi azionari con
le cifre del 1995, ci si rende conto della forte ritrosia dei
risparmiatori, evidentemente traumatizzati dall’esperienza del
2000-2002. L’afflusso è praticamente nullo. «In passato, un simile
comportamento della clientela individuale ha coinciso con i punti di
minimo e non di massimo del mercato», scrivono gli strateghi della Citigroup, i quali aggiungono: «Dopo tre anni di guadagni spettacolari
da parte delle Borse, ci aspettiamo un graduale rientro delle famiglie.
Che di solito seguono la tendenza». Un’altra categoria che non ha fatto
una bella figura è quella degli investitori istituzionali - fondi
pensione e assicurazioni per esempio - i quali pure erano imbottiti di
titoli al massimo del 2000, e hanno poi scaricato le loro posizioni a
crollo avvenuto. «I dati dimostrano che gli investitori istituzionali
sono rimasti alla finestra - commenta Brooks - E anche qui ci possiamo
aspettare una postura un po’ più aggressiva nel futuro prossimo». Dal
minimo del 2003, il mercato azionario europeo è salito nell’ordine del
100 per cento, eppure gli scettici abbondano e l’umore è grigio. Un
lento allontanamento dalla liquidità, che al netto delle spese si
traduce in una perdita annua reale dell’1 per cento, è in grado di
vivacizzare ulteriormente i titoli delle compagnie quotate in Borsa.
ETÀ DELL’ORO. Il resoconto della Citigroup si conclude prospettando
addirittura la possibilità che «una nuova età dell’oro sia alle porte
per le piazze del Vecchio Continente»: come nel 1995, un tris di
fattori, dalle valutazioni attraenti alla spinta alle incorporazioni e
agli assorbimenti, fino alla sottoesposizione dei piccoli e dei grandi
investitori verso le Borse, potrebbe formare quella strana alchimia che
dà l’innesco a una seconda ondata di acquisti e di rialzi. A ciò si
aggiunge il doppio beneficio della globalizzazione. Infatti, da un lato
si moltiplicano le nazioni di sbocco per le proprie merci, e dall’altra
si presenta l’opportunità di tagliare il costo del personale,
delocalizzando i siti di produzione. A sua volta, la pressione sui
salari rappresenta un freno efficace per la dinamica dei prezzi,
garantendo uno sviluppo senza inflazione.

Fonte -
Bloomberg - Borsa & Finanza
Venerdì 10 febbraio
2006 |
|
Domenica 12
febbraio
2006 |
|
Martedì 14 febbraio
2006 |
 |
|
 |
|
 |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
Perchè è finito il tempo del toro
13 Febbraio 2006 11:38 ROMA - (di Francesco Arcucci)
________________________________________
Molti si sono chiesti se la rottura della bolla speculativa sul
mercato azionario di New York e sugli altri principali mercati
occidentali, che si è verificata nel periodo marzo 2000/marzo 2003, è
stata l’equivalente del crac borsistico del periodo 1929 – 1932, il
quale fra alti e bassi è durato per tutti gli anni ’30.
Nel tentativo di rispondere a questa domanda gli analisti e gli
investitori si sono divisi in ribassisti e rialzisti, pessimisti e
ottimisti, Orsi e Tori.
I primi hanno ritenuto che il mondo occidentale, a partire dall’inizio
del nuovo secolo, sia stato investito da una crisi economica
strutturale, o almeno da un ciclo lungo negativo. Dopo i minimi dei
corsi azionari toccati nel marzo 2003 e la conseguente debole ripresa
dei prezzi delle azioni, si sarebbe dovuto assistere ad una nuova lunga
flessione dei medesimi, almeno fino al 2007 e magari anche per tutto il
decennio.
Gli ottimisti, i rialzisti, i Tori prevedevano una nuova crescita
dell’economia e del mercato azionario dopo la primavera 2003. Già nel
giugno di quell’anno ripetevano con forza il loro consiglio di
acquistare azioni. Gli Orsi, invece, diventavano sempre più pessimisti e
parlavano di dissesto economico e dell’esistenza di chiari segni circa
il fatto che l’economia statunitense stava per sprofondare in un’altra
grave recessione (connessa anche con il deficit della bilancia dei
pagamenti correnti, con il deficit pubblico e con l’enorme indebitamento
dei consumatori).
Nonostante la sensatezza di queste argomentazioni, chi ha avuto ragione
finora sono stati gli ottimisti. Già nel giugno 2003 i prezzi dei titoli
delle società del Dow Jones erano saliti del 10% rispetto ai minimi di
marzo (7450) e il rialzo sembrava destinato a proseguire almeno fino
alla fine dell’anno, portandosi a cavallo del livello 10.000. In realtà
la corsa dei prezzi è continuata, sicché al termine di febbraio 2004 il
Dow Jones si trovava intorno a 10.700. Si è iniziata a questo punto una
fase contrastata che ha interessato la primavera, l’estate e l’autunno
del 2004, con movimenti rapidi e violenti di 500 – 600 punti del Dow al
ribasso o al rialzo. La stessa configurazione dei corsi è proseguita nel
2005, con repentini spunti rialzisti e ribassisti nell’intervallo 10.000
– 11.000 del Dow Jones e 1140 – 1290 dello Standard and Poor’s.
Questo scenario "toro" che si è manifestato nella seconda parte del
2003, nel 2004, nel 2005 ed è continuato nel gennaio 2006 è però in
definitiva modesto e non è suscettibile di sbloccarsi verso l’alto.
Troppi sono i problemi e gli ostacoli che si parano dinnanzi ad una
durevole e sostenuta ripresa dell’economia e della borsa americane.
Enumeriamone qualcuno: gli errori dell’Amministrazione Bush sul fronte
interno ed internazionale, il rischio di attentati terroristici su vasta
scala, la possibilità di epidemie tipo Sars o influenza aviaria, la
sfiducia nelle monete create ad libitum dalle banche centrali (nel 2004
la sfiducia ha colpito il dollaro, nel 2005 l’euro e lo yen: di fatto di
questa sfiducia nella moneta finanziaria creata dalle banche centrali è
beneficiario l’oro).
Appare sempre più chiaro, quindi, che i problemi strutturali
dell’economia americana e di quelle dei principali Paesi occidentali
saranno affrontati solo dopo una nuova crisi economica e un nuovo crollo
dei mercati azionari previsto come imminente da numerosi indicatori
matematici. Inoltre nel 2007/2008 si avrà il minimo di un ciclo venticinquennale molto regolare sulla borsa di New York che si verifica
da oltre un secolo (1882 – 1907 – 1932 – 1957 – 1982 – 2007).
A mio avviso è evidente che la modesta seconda bolla speculativa di
borsa 2003/2005 sta terminando proprio in questi giorni. Ci si trova ora
in un’area in cui occorre essere venditori. Infatti, al livello di
11.000 del Dow Jones e di 1290 dello Standard and Poor’s tutto ciò che
un rialzista può sperare è un’ulteriore, stentata salita dei prezzi di
pochi punti in percentuale, mentre ciò che gli indici menzionati possono
perdere nei prossimi 18/24 mesi è almeno pari al 50%.
Il mercato è intelligente e ingannatore. Negli anni Trenta il Dow Jones
ha subito un crollo da 389 a 41 in circa 40 mesi e poi è rimasto debole
per anni. In questo decennio, dopo il crollo marzo 2000 / marzo 2003, il
mercato azionario ha creato, invece, una seconda bolla rialzista
modesta, una sorta di bull market in miniatura, ma sufficiente a
danneggiare gli Orsi che pensavano ad una continua scivolata. Ora
potrebbe colpire i Tori che, resi avidi dal presente (e peraltro
stentato) rialzo, si sono entusiasmati e non si accorgono che il loro
tempo è scaduto e vivranno nel 2006 e nel 2007 una vera Katrina delle
borse.

Fonte
- La Repubblica - Affari & Finanza
E gli Insider vendono
16 Febbraio 2006 11:09 NEW YORK - (di G. Evangelista)
________________________________________
Insider particolarmente aggressivi nel mese di gennaio: il
rapporto fra vendite e acquisti delle azioni delle compagnie di cui a
vario titolo fanno parte è schizzato a 24.55 volte. Si tratta del
secondo dato più elevato degli ultimi 23 mesi. Da marzo 2004 in poi,
l'unico valore più elevato è stato registrato a luglio 2005.
La casistica a disposizione permette di pervenire a conclusioni
pressoché definitive su questo inusuale indicatore: quando il rapporto,
in termini di controvalore, fra vendite e acquisti degli Insider
(presidenti, amministratori, direttori finanziari, ecc.) supera le 22
volte, siamo il più delle volte in presenza di un segnale di vendita,
che viene meno o in seguito ad un marcato e soprattutto prolungato
ridimensionamento del mercato, o se successivamente interviene una
lettura particolarmente (e relativamente) bassa.
Questo l'andamento del Sell/Buy ratio dal
minimo di marzo 2003 in poi. Le letture superiori alle 22 volte sono
state registrate a:
- settembre 2003 ("falso segnale", minimo del mercato);
- febbraio 2004 (ottimo segnale, massimo seguito da una correzione di
cinque mesi e mezzo);
- marzo 2005 (il mercato ha corretto fino alla seconda metà del mese
successivo);
- luglio 2005 (il mercato ha corretto per due mesi e mezzo);
- novembre 2005 (il mercato non ha corretto, ma rispetto al massimo di
novembre a 1270 punti non si è più sostanzialmente migliorato).
La lettura di gennaio 2006 - 24.55 - è rilevante non solo perché ancora
una volta relativamente elevata (e ciò dovrebbe anticipare una
correzione di diverse settimane, se non di alcuni mesi), ma anche perché
non giunge isolata.
Insomma, gli investitori che vantano una posizione privilegiata per
trovarsi all'interno delle aziende di cui compravendono le azioni,
sembrano avere le idee abbastanza chiare circa le prospettive di Wall
Street per i prossimi mesi.

Fonte -
WallStreetItalia.com
|
Sabato 04
febbraio 2006 |
|
Martedì 07
febbraio
2006 |
|
Venerdì 17
febbraio 2006 |
|
|
 |
|
 |
|
 |
|
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
scarica in formato
JPEG |
..... |
|
..... |
Scalata BNP-BNL: la sconfitta dei furbetti
4 Febbraio 2006 10:18 MILANO - di Giuseppe Turani
________________________________________
A volte accadono anche i miracoli. La scalata alla Bnl era
partita come una delle più brutte storie italiane (non a caso ha
generato una certa quantità di azioni giudiziarie) e adesso può finire
come un caso esemplare. Caso nel quale, peraltro, i piccoli azionisti,
finalmente, rischiano davvero di guadagnare un po' di soldi, come
vorrebbero le leggi del mercato.
La scalata alla Bnl era partita prima con tutte le manovre, i concerti,
i sotterfugi dei furbetti del quartierino e degli immobiliaristi romani.
È una parte ancora non del tutto chiarita di questa vicenda.
Quello che per ora si sa è che quei signori volevano mettere le mani
sulla Bnl senza passare attraverso un'Opa regolare, rivolta a tutti i
risparmiatori. L'Opa c'era già, e era quella degli spagnoli del Bbva
(già azionisti della banca). I furbetti del quartierino, insomma,
cercano di fare gli italiani, cioè, di non pagare dazio.
Cercano di sconfiggere gli spagnoli, ma non con una battaglia a viso
aperto, sul mercato. Agiscono sott'acqua, con non si sa ancora bene
quante e quali connivenze in Banca d'Italia. A un certo punto ci si
rende conto che gli immobiliaristi e i furbetti non possono mettere le
mani sulla Bnl perché un po' lo vietano le leggi un po' lo vieta la
decenza. Non si può vedere lo scandalo di una banca di quelle dimensioni
che passa di mano senza una regolare Opa, senza far partecipare i
piccoli azionisti alla spartizione dei soldi che in questi casi girano
abbondanti.
Allora si decide (sempre la Banca d'Italia) che bisogna per forza
passare la palla a qualcuno di più presentabile dei furbetti. E si va
dritti sulla Unipol di Giovanni Consorte.
Unipol che, almeno, è una società quotata, esercita un mestiere
onorevole e gode di una sua reputazione. Anche l'Unipol, però, cerca
subito di infilarsi in vie traverse, di evitare l'Opa. E, quando non ne
potrà proprio fare a meno (qualche buona legge c'è ancora in Italia),
anche i bravi cooperatori (guidati però da un tipo che si era fatto le
ossa insieme a Gnutti e Fiorani) cercano di infilarsi in qualche vicolo
per non pagare dazio. Per evitare insomma un'Opa come si deve.
Quando vengono scoperti, fanno in modo da fare un'Opa al minimo prezzo
possibile, giocando sulle date.
Nel frattempo, tutto va per aria perché tutti questi signori sono stati
intercettati e si scopre che, chi più chi meno, sono una banda di
gaglioffi. Il più svelto, Fiorani, andava addirittura di notte nella sua
banca a svuotare i conti correnti dei morti. E l'altro, Chicco Gnutti,
pagava consulenze da 50-60 milioni di euro a Consorte, manco fosse
Rockfeller e non un piccolo finanziere di provincia. Mandato via Antonio
Fazio (che di tutta questa gente era il Santo Protettore), e restituita
la pratica dell'Opa Unipol sulla Bnl ai normali uffici di via Nazionale,
questi stessi uffici hanno impiegato poche ore per dire che si trattava
di una cosa inconsistente, inutile e forse anche pericolosa.
L'Unipol (intanto Consorte è stato cacciato via) ripresenta la sua
domanda con qualche integrazione. Ma anche questa volta via Nazionale
dice di no. E lo dice attraverso i funzionari, senza stare a scomodare i
piani alti (Draghi, che ha preso il posto di Fazio, e che in passato
aveva lavorato per Goldman Sachs, advisor del Bbva, ha detto subito che
non avrebbe nemmeno guardato la pratica, lasciando piena libertà di
giudizio ai suoi impiegati).
Tutto l'affare, insomma, era talmente sbilenco, tirato con le molle, e
mal costruito, che è bastato affidare tutto alle normali procedure per
vederlo svanire. A quel punto l'Opa di Unipol, su Bnl era già morta e
sepolta. Rimaneva solo da capire che cosa avrebbero fatto i bravi
cooperatori di tutte quelle azioni Bnl che Consorte aveva comprato.
Molti si aspettavano che l'Unipol cedesse il suo pacco agli spagnoli del
Bbva. Ma l'odio contro gli spagnoli, evidentemente, era troppo forte.
Alla fine si è trovato un terzo compratore in Bnp Paribas. Compratore
che avrà pagato anche bene. Ma anche un compratore che, adesso, dovrà
fare per forza un'Opa, dovrà offrire cioè anche ai piccoli azionisti la
possibilità di vendere le loro azioni alla stessa Bnp Paribas. Il Bbva è
orientato a gettare la spugna e a vendere ai francesi senza rilanciare
con una nuova Opa.
Tutto nel rispetto delle regole del mercato. Tutto in piena trasparenza,
e con buone prospettive di guadagno per gli azionisti minori. Ma anche
se gli spagnoli avessero deciso di rilanciare, il caso Bnl sarebbe
sfociato in una bella contesa a colpi di miliardi sotto gli occhi di
tutti, con i piccoli soci in poltrona a fare i conti di chi offre di
più.
Insomma, quella era cominciata come una storia di truffe, di soldi un
po' finti e un po' veri, rischia di diventare una storia esemplare di
battaglia finanziaria. E tutto questo, speriamo, senza che si alzi
qualcuno (i soliti amici di Fazio e di Fiorani) a dire cose senza senso
sull'italianità delle banche. Insomma, gli stranieri della Bnp Paribas e
del Bbva ci hanno fatto vedere come si cerca di comprare una banca: in
modo leale e trasparente. Che la vittoria alla fine potrà essere dei
francesi, ha un'importanza relativa. Tutto a posto, dunque? Non proprio
del tutto.
L'ingresso in campo dei francesi di Bnp Paribas ci fa capire che le
grandi banche europee (ma forse anche quelle americane) sono molto
interessate al nostro mercato del credito, e che sono disposte a tirare
fuori molti soldi per mettervi giù delle basi. E questo pone una
domanda: è abbastanza forte il nostro sistema del credito per non farsi
mangiare? La risposta a questa domanda non è un sì convinto. Quasi vent'anni
di veti assurdi e cervellotici di Fazio hanno impedito un reale
rafforzamento degli assetti proprietari delle nostre banche e quindi c'è
qualche pericolo. Ma, forse, c'è ancora il tempo per correre ai ripari.

Fonte
- La Repubblica
I
BOND CONSIGLIATI DA PATTI
CHIARI? POCO LIQUIDI
21 Febbraio 2006 10:00 MILANO
- di Cheo Condina
________________________________________
Non solo titoli di Stato italiani considerati più
pericolosi dei bond ungheresi tra le sorprese di PattiChiari
sulle obbligazioni a basso rischio-rendimento. Nell’ultima
lista di titoli (risalente allo scorso 18 febbraio) si
scopre che, mentre Btp decennali e trentennali sono esclusi,
le banche la fanno da padrone. Anzi, gli unici bond non
bancari che hanno ricevuto il prestigioso bollino
d’affidabilità sono quelli di Enel (sei titoli), uno di Eni,
e qualche finanziario con Ina, Cassa Depositi e Prestiti e
Generali. E il resto? Una sfilza quasi infinita di
obbligazioni (quasi 200) emesse dagli istituti di credito. E
non solo da big come Banca Intesa, Unicredit o Sanpaolo Imi,
ma anche dalle Casse di Risparmio e dalle Popolari.
D’accordo, i filtri applicati dai tecnici di PattiChiari
selezionano le emissioni prima di tutto in base al rating. E
le banche italiane soddisfano questo requisito. Ma che dire
della liquidità di queste obbligazioni? L’altro parametro di
valutazione utilizzato da PattiChiari è quello relativo
all’oscillazione giornaliera del prezzo di un titolo. Se è
eccessiva, l’obbligazione viene automaticamente esclusa
dalla lista delle consigliate: è il caso dei Btp decennali e
trentennali. Tuttavia, questo meccanismo - sottolineano gli
operatori - espone la selezione dei bond a una distorsione
da non sottovalutare.
Quello di scegliere emissioni con prezzi inchiodati perché
in mano a pochi sottoscrittori e difficili, dunque, da
vendere sul mercato per il piccolo risparmiatore. Bond
illiquidi, per dirla in gergo finanziario. Soltanto un
rischio? Non proprio. Scorrendo le quotazioni di alcune
obbligazioni bancarie si scopre che la selezione avversa di
PattiChiari ha prodotto alcune scelte discutibili.
L’emissione di CariBolzano con scadenza 3 febbraio 2012,
dallo scorso novembre quota tra 100,04 e 100,08: nell’ultimo
mese il prezzo è rimasto praticamente fermo.
Il motivo? Scambi quasi nulli, almeno guardando le
movimentazioni sul listino. Stesso discorso per il titolo
Banco Desio con rimborso il 9 luglio 2009, che negli ultimi
tre mesi non si è mosso da 100,06 centesimi. Infine, nella
lista PattiChiari, ci sono decine di obbligazioni esotiche
(quasi tutte bancarie): dall’Australia all’Irlanda, passando
per Corea e Canada. Difficile pensare che, per un piccolo
risparmiatore, sia più semplice ed economico acquistare,
tenere in portafoglio e vendere questi titoli piuttosto che
un Btp.
Fonte
- Bloomberg - Finanza&Mercati
|
I
fantastici quattro del risiko bancario
19 Febbraio 2006 11:42 MILANO - di Giuseppe Turani
________________________________________
La corsa alle banche italiane continua. E´ una gara che, per il
momento, si fa soprattutto in Borsa. Tutti comprano tutto. E questo
nonostante la Borsa italiana sia già a livelli elevatissimi e cominci a
circolare la paura di qualche improvviso crollo. Tutti comprano banche,
anche quelle che sono già a prezzi fuori dal mondo, per la semplice
ragione che, dopo l´affare Bnp/Bnl, molti sperano che la storia si
ripeta. E quindi contano di ritrovarsi con un bel malloppo senza avere
fatto niente.
In parallelo fra opinion leaders di cose economiche e esperti divampa il
dibattito sulle banche italiane: oddio, sta a vedere che ce le portano
via tutte gli stranieri. Da qui gli inviti pressanti agli stessi
istituti di credito a sbrigarsi a diventare grandi prima di essere
assorbiti da qualche gigante straniero. In effetti, basta guardare ai
bilanci di qualcuno di questi giganti per rendersi conto che forse
potrebbero farsi una Bnl al mese. E è del tutto evidente che il mercato
italiano è molto interessante perché qui si spuntano i margini maggiori
(nel senso che ai clienti si fanno pagare tariffe assurde per i più
semplici servizi
Nonostante tutto ciò, forse, i barbari non sono alle
porte e gli stranieri non sono tutti ammassati a Chiasso con le valigie
piene di soldi per portarci via le nostre banche. Questa è un´immagine
che diffondono alcuni operatori di Borsa e alcuni analisti, tutti
interessati a sollevare un po´ di polveroni e a guadagnare così un po´
di soldi (in commissioni e premi vari) alle spalle di pacifici (ma un
po´ avidi) risparmiatori. In realtà, in Italia le banche che possono
interessare un operatore straniero di una certa stazza non sono più di
tre o quattro.
E, un po´ tutte, per ragioni varie, sono abbastanza ben protette. La più
ambita, ad esempio, potrebbe essere l´Unicredit. Ma ormai ha un
dimensione tale (e è diventata così internazionale) che appare davvero
improbabile che qualcuno si metta a scalarla. Al secondo posto abbiamo
l´altro istituto milanese, Banca Intesa, ma anche qui l´eventuale
scalatore dovrebbe farei conti con almeno due problemi: il primo si
chiama Credit Agricole, il secondo Giovanni Bazoli. La prima
(grandissima banca francese) è l´azionista più importante di Intesa (con
oltre il 20 per cento) e difficilmente si lascerebbe strappare di mano
il suo ruolo nella banca. Il secondo, Bazoli, è il presidente di Intesa
e è un uomo che in passato ha già dimostrato di essere capace di frenare
gli eventuali assalitori.
Poi c´è il San Paolo IMI, che ha una buona rosa di azionisti e che
conta, nel suo azionariato, una presenza importante del Santander
(grande banca spagnola). Anche qui un eventuale attacco appare un po´
difficile, a meno che non venga dallo stesso Santander (la stessa cosa,
ovviamente, vale per Intesa). Ma non sembra che, per il momento, tiri
un´aria di questo genere. Infine, c´è Capitalia. E questo consente di
arrivare al nocciolo vero della questione. Capitalia ha un buon
sindacato di controllo. E´ vero che di esso fa parte anche l´Abn Ambro,
che ha appena conquistato l´Antonveneta e che quindi vorrebbe
concentrarsi su questa sua banca, lasciando Capitalia. Ma è anche vero
che si è detta disposta a concordare con il management di Capitalia la
cessione delle sue azioni. Inoltre, dentro la banca romana c´è il dieci
per cento di Mediobanca, che potrebbe essere il vero obiettivo di
qualche scalatore molto ricco. Anche perché Mediobanca, a sua volta, è
l´azionista di riferimento di Generali, una delle più grandi e più belle
compagnie assicurative d´Europa.
Un eventuale assalto straniero a Capitalia, insomma, metterebbe nelle
mani di qualcuno una quota importante di Mediobanca. Se poi si tiene
conto che nell´istituto di piazzetta Cuccia i francesi hanno già il 10
per cento, la faccenda potrebbe complicarsi molto rapidamente. Capitalia,
insomma, è, fra le altre cose, anche una specie di porta per arrivare a
Mediobanca. Per questo, penso, in caso di assalto scatterebbero da parte
del sistema-Italia varie operazioni di difesa (sul mercato). Capitalia,
insomma, è un articolo che scotta. Come si vede, al di là dei dossier
che le infaticabili banche d´affari compilano ogni giorno nel tentativo
di convincere qualcuno a darsi da fare in Italia, venire qui a scalare
banche non è poi così facile. Ci sono vari problemi e varie difese
possibili. Allora tutti tranquilli e al mare? No. E´ evidente che le
nostre banche devono progettare e realizzare qualche ulteriore
aggregazione fra di loro (meglio ancora se sull´estero). Ma, a patto che
si muovano rapidamente, c´è tutto il tempo per guardarsi in faccia e
ragionare seriamente.
Stranieri a parte, insomma, il pericolo è quello di lanciarsi in una
campagna di fusioni affrettata e senza criterio al solo scopo di
anticipare eventuali mosse degli stranieri. Certo, un po´ bisogna
sbrigarsi e fare le cose che fanno fatte, ma non c´è bisogno di agire
prima di giovedì prossimo.
I barbari non sono ancora arrivati a Chiasso e poi non è detto che
abbiano così voglia di infilarsi dentro il sistema bancario italiano.
Prima, magari vogliono vedere che fine farà questo paese. Insomma, forse
aspettano anche loro il risultato delle elezioni.
Fonte
- La Repubblica